La Vergine Azzurra by Tracy Chevalier

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TRACY CHEVALIER - La Vergine azzurra

Copyright 1997 by Tracy Chevalier.

copyright 2004 Neri Pozza Editore.

Trama

È un giorno della seconda metà del Cinquecento in un villaggio tra Mont Lozère e
Florac, nella Francia meridionale. Come un velo sottile, la prima neve dell'inverno
ha ricoperto la terra. Sotto il cielo color del peltro, il manto candido spicca
sulle tegole di granito della chiesa. Sul sagrato, Monsieur Marcel, il predicatore
calvinista, ha appena finito di parlare.

Coi suoi abiti scuri, i capelli d'argento, le mani rossicce intrecciate dietro la
schiena, si è avviato di buon passo su per la collina ammantata da un banco di nubi
scure, senza voltarsi.

Dietro di sé ha lasciato l'incendio nelle menti e nei cuori. La folla, eccitata e


rumorosa, è decisa a purificare la chiesa, a mondarla dal peccato, a liberarla
dagli idoli.

Etienne Tournier, il giovane figlio dei Tournier, l'unica famiglia a possedere nel
villaggio una Bibbia e un cavallo, agitando un rastrello, solleva lo sguardo
minaccioso verso la statuetta della Vergine col Bambino che troneggia sul portone
della chiesa. Poi, fissa i suoi occhi celesti in quelli di Isabelle du Moulin, la
Rossa.

Il giorno in cui la Madonnina era stata messa nella nicchia, Isabelle era una
bambina e sedeva ai piedi della scala della chiesa, mentre Jean Tournier, il padre
di Etienne, non ancora convertito alla Verità di Calvino, dipingeva l'edicola di un
azzurro vivido come il cielo terso della sera. Quand'ebbe finito, il sole,
spuntando da una muraglia di nubi, rese quell'azzurro così splendente che Isabelle
rimase a guardarlo rapita. Poi, i raggi inondarono le chiome della ragazza che
anche dopo il tramonto conservarono lo scintillìo del rame. Così da quel giorno la
chiamarono la Rossa, lo stesso nome che la gente aveva dato alla Vergine. Un nome
diventato una maledizione da quando Monsieur Marcel era arrivato in paese con le
macchie di tannino sulle mani e in bocca le parole di Calvino!

Mentre la figura del predicatore scompare sulla collina, Isabelle afferra il


rastrello dalle mani di Etienne e, col fuoco che le incendia il ventre, colpisce
con tutte le sue forze la statuetta!

Così si annuncia, in queste pagine, la fine della fanciullezza di Isabelle du


Moulin, infranta come la statuetta della Vergine, e l'inizio del suo destino di
donna. Un destino che resterebbe nascosto per sempre, se secoli dopo non arrivasse
nel sud della Francia Ella Turner, l'americana che è perseguitata da uno strano
sogno in cui le appare una veste azzurra, e per risolvere il mistero si ritrova tra
le Cévennes, le isolate montagne dove ebbero origine i Tournier-Turner.
Straordinaria opera prima, La Vergine azzurra annuncia tutto il talento di Tracy
Chevalier: la sua abilità nel rendere vive le epoche trascorse della storia e nel
restituirci i più segreti tumulti e pensieri dell'animo umano.

Tracy Chevalier è nata a Washington.

Nel 1984 si è trasferita in Inghilterra, dove ha lavorato a lungo come editor. Con
La ragazza con l'orecchino di perla (Neri Pozza,

2000) ha ottenuto, nei numerosi paesi in cui il libro è apparso, un grandissimo


successo di pubblico e di critica. Bestsellers internazionali sono stati anche i
suoi romanzi successivi: Quando cadono gli angeli

(Neri Pozza, 2002) e La dama e l'Unicorno (Neri Pozza, 2003). La Vergine azzurra è
il suo primo romanzo.

Se il giallo porta sempre con sé una luce, si può dire che l'azzurro porti sempre
con sé un elemento di buio.

Questo colore esercita sull'occhio un'influenza singolare e quasi inesprimibile.


Come colore è un'energia ma, appartenendo alla serie negativa, è nella massima
purezza, come un nulla eccitante. V'è, a guardarlo, qualcosa di contraddittorio,
fra l'eccitazione e la pace.

J. W. Goethe, Teoria dei colori.

1 - La Vergine

Si chiamava Isabelle e quando era bambina i suoi capelli cambiavano colore nel
tempo che un uccellino impiega a chiamare il suo compagno.

Quell'estate il duca de l'Aigle aveva portato da Parigi una statuetta della Vergine
col Bambino e un vaso di pittura per la nicchia sopra il portone della chiesa. Si
fece festa al villaggio il giorno in cui la madonnina venne messa al suo posto.

Isabelle sedeva ai piedi della scala, mentre Jean Tournier dipingeva l'edicola d'un
azzurro vivido come il cielo terso della sera. Quand'ebbe finito, il sole,
spuntando da una muraglia di nubi, rese quell'azzurro così splendente che Isabelle
rimase a guardarlo rapita, le mani intrecciate dietro la nuca, i gomiti appoggiati
al seno. Poi i raggi inondarono le chiome della fanciulla che anche dopo il
tramonto conservarono lo scintillìo del rame. Così da quel giorno la chiamarono la
Rossa, lo stesso nome che la gente aveva dato alla Vergine Maria.
Il nomignolo perse ogni accento affettuoso pochi anni dopo, quando arrivò in paese
Monsieur Marcel con le macchie di tannino sulle mani e in bocca le parole di
Calvino.

Nel suo primo sermone, tenuto nel bosco di nascosto dal prete cattolico, Marcel
spiegò alla gente che la Vergine ostacolava il cammino della Verità.

«La Rossa è stata profanata dalle statue, dalle candele, dai gioielli. È
insudiciata!» urlava il predicatore.

«Si frappone fra voi e Dio!»

I paesani si volsero a guardare Isabelle che corse a rifugiarsi fra le braccia


della madre.

Come fa a saperlo? si domandava, Solo mamma ne è al Corrente.

Di certo sua madre non aveva detto a Monsieur che Isabelle proprio quel giorno era
diventata donna e ora aveva un ruvido fagotto legato fra le cosce e un pugno di
dolore nello stomaco.

Les fleurs, così aveva detto la mamma, i fiori di Dio, un dono speciale, da non
rivelare a nessuno se non voleva essere evitata dalla gente. Sollevando lo sguardo,
Isabelle vide che sua madre fissava Monsieur Marcel con cipiglio e aveva aperto la
bocca pronta a rispondergli per le rime. Le toccò il braccio e la donna strinse le
labbra, trattenendo la stizza.

Poi ripresero la via di casa, Isabelle fra la madre e la sorella Marie, seguite a
una certa distanza dagli altri due figli, Petit Henri e Gérard che erano gemelli. I
ragazzi del villaggio mormoravano vedendole passare. A un tratto, spinto dalla
curiosità, uno di loro corse alle spalle di Isabelle afferrandola per i capelli.

«Hai sentito, Rossa? Sei sudicia!» urlò.

Isabelle strillò e subito Petit Henri e Gérard corsero a difenderla, lieti di dar
prova del loro coraggio, finalmente.

Dal giorno seguente, Isabelle iniziò a portare un panno sulla testa, nascondendo
ogni ciocca dei capelli castani molto prima delle altre ragazze.

Quando Isabelle compì quattordici anni due piccoli cipressi crescevano nella radura
assolata, accanto alla casa.

Petit Henri e Gérard se l'erano fatta a piedi fino a Barre-les-Cévennes, due giorni
di cammino, per andare a prenderli.

La prima volta era stato per Marie.

Marie era diventata così grossa che le donne del villaggio pensavano fosse incinta
di due gemelli anche se, tastandole la pancia con le dita, sua madre aveva sentito
soltanto una testa. Una gran testa però e la mamma era preoccupata.

«Magari fossero davvero due gemelli», aveva mormorato a Isabelle. «Sarebbe più
facile».

Quando venne il momento, la mamma mandò via gli uomini: il marito, il padre, i
figli maschi. Era una notte gelida e un forte vento faceva turbinare la neve contro
i muri di pietra della casa e fra le stoppie di segale. Gli uomini indugiarono
attorno al focolare fino alle prime grida di Marie: pur essendo abituati agli
strilli che mandano i maiali durante la macellazione, furono lesti ad allontanarsi
appena giunsero quei lamenti di donna.

Isabelle aveva già aiutato sua madre a far nascere bambini, ma sempre insieme ad
altre donne. Ognuna aveva una nenia da cantare, nell'attesa, una storia da
raccontare. Ma questa volta il freddo le aveva tenute lontane e c'erano soltanto
loro due. Isabelle guardava la sorella che gridava, imprigionata da quel ventre
enorme e scossa dai brividi, il viso imperlato di sudore.

Nervosa e in preda all'ansia, la loro madre quasi non parlava.

Per tutta la notte Isabelle tenne la mano di Marie, stringendola durante le


contrazioni, asciugandole la fronte con un panno umido. E intanto pregava,
supplicando in silenzio la Vergine e santa Margherita perché proteggessero sua
sorella. Si sentiva in colpa per questo: Monsieur Marcel diceva sempre che la
Vergine e i santi non avevano alcun potere, era inutile rivolgersi a loro. Ma
quelle parole non davano alcun conforto a Isabelle, solo le vecchie preghiere
sembravano giuste.

«La testa è troppo grossa», disse la mamma alla fine.

«Dobbiamo tagliare».

«Non, Maman», sussurrarono all'unisono Marie e Isabelle. Marie aveva gli occhi
dilatati, lo sguardo sconvolto.

Disperata ricominciò a spingere, ansimando e gemendo. Isabelle sentì il rumore


della pelle che si lacerava.

Marie gettò un urlo e d'un tratto si fece grigia e immobile. La testa spuntò fra
fiotti di sangue, scura e deforme, e quando la mamma lo tirò fuori, il corpicino
era già morto, il cordone stretto intorno al collo. Era una bambina.

Gli uomini tornarono quando videro il fuoco, le volute di fumo che si levavano
dalla paglia insanguinata nel cielo del mattino.

Seppellirono madre e figlia nella piana soleggiata dove Marie amava sedersi nelle
giornate calde.

Piantarono un cipresso sopra il suo cuore.

Sul pavimento rimase un'esile striscia di sangue che nessuno strofinaccio riuscì
mai più a cancellare.

Il secondo alberello fu piantato l'estate successiva.

Era il crepuscolo, l'ora dei lupi, quando le donne non dovrebbero andare in giro da
sole. Isabelle aveva accompagnato la mamma da una partoriente a Felgérolles. Questa
volta madre e figlio erano sopravvissuti, interrompendo la lunga serie di disgrazie
che aveva avuto inizio con la morte di Marie e della sua piccina. S'erano
trattenute in quella casa, accudendo madre e figlio, fra i canti e il
chiacchiericcio delle altre donne, e il sole era già sceso dietro Mont Lozère
quando finalmente Maman s'era congedata, declinando con un gesto della mano gli
avvertimenti e l'invito a fermarsi per la notte.

Il lupo era sdraiato di traverso sul sentiero, quasi le stesse aspettando.

Le due donne si fermarono di colpo, posando le bisacce e facendosi il segno della


croce. Il lupo rimaneva immobile. Dopo averlo guardato per un istante, la mamma
prese la sacca e avanzò di un passo. Il lupo s'alzò e, nonostante l'oscurità,
Isabelle s'accorse che era molto magro, col pelo grigio tutto arruffato. Gli occhi
gialli parevano ardere come due candele mentre la bestia andava verso di loro al
piccolo trotto, barcollando vistosamente. Solo quando fu tanto vicino che la mamma
allungando un braccio avrebbe potuto sfiorarne la sudicia pelliccia, Isabelle notò
la bava sul muso, e capì subito. A chi non era capitato di vedere quelle bestie
rese pazze dalla malattia: vagavano senza meta, la bava alla bocca, un'insolita
malvagità nello sguardo, guaendo debolmente.

Rifuggivano l'acqua. Un bel secchio d'acqua poteva proteggerti dalle loro zanne,
quanto un'ascia robusta. Ma Isabelle e sua madre avevano con sé soltanto delle
erbe, qualche panno e un coltello.

Quando il lupo balzò in avanti la mamma sollevò istintivamente le braccia,


guadagnando così venti giorni di vita.

In seguito se ne sarebbe pentita: magari la belva le avesse squarciato subito la


gola! Il lupo ricadde al suolo, con il sangue che colava già dal braccio della
mamma, e guardò per un attimo Isabelle, prima di scomparire silenzioso fra le
tenebre.

Mentre la madre raccontava ai familiari di quel lupo che aveva due fiammelle al
posto degli occhi, Isabelle le terse la ferita con un infuso di borsa del pastore e
vi stese sopra delle ragnatele per poi fasciare il braccio con la lana. Ma
l'indomani, invece di starsene tranquilla a riposare, la mamma volle andare a
raccogliere le prugne e a lavorare nell'orto, quasi non avesse visto lei stessa la
verità negli occhi febbricitanti del lupo. Il giorno dopo l'avambraccio s'era
gonfiato tanto da confondersi col resto del braccio e la pelle intorno alla ferita
era già nera. Recitando tra sé una preghiera, Isabelle preparò un'omelette e la
insaporì con salvia e rosmarino. La servì alla mamma con le lacrime agli occhi e la
donna prese la ciotola dalle sue mani, mangiando senza dire una parola, lo sguardo
fisso su Isabelle, e mangiò fino all'ultimo boccone, assaggiando il gusto della
salvia e della morte.

Quindici giorni dopo, mentre stava bevendo, spasmi violenti la presero alla gola e
l'acqua che aveva in bocca le schizzò sopra il vestito.

Abbassando lo sguardo, la donna vide la macchia nera che s'allargava sul suo petto
e andò a sedersi sulla panca accanto alla porta, nel tepore del sole di fine
estate.

La febbre l'assalì all'improvviso e con tanta furia che Isabelle pregava la morte,
che venisse a darle sollievo altrettanto speditamente. Ma sua madre combatté,
sudando e urlando nel delirio, per quattro lunghi giorni.

Quando alla fine giunse il prete da Le Pont de Montvert per darle l'estrema
unzione, Isabelle sbarrò la soglia con una scopa e gli sputò addosso finché non si
decise ad andarsene. Solo quando vide arrivare Monsieur Marcel abbassò la scopa e
si fece da parte per farlo entrare.

Quattro giorni dopo i gemelli tornarono con il secondo cipresso.

La folla radunata dinanzi alla chiesa non era abituata alla vittoria e ancora meno
a celebrare trionfi. Ma tre giorni prima, il prete aveva finalmente tagliato la
corda. Ormai erano sicuri che se ne fosse andato: Pierre La Forèt, l'intagliatore,
l'aveva visto a molte miglia dal paese, curvo sotto le masserizie che era riuscito
a portare con sè.

La prima neve dell'inverno ricopriva il terreno pianeggiante come un velo sottile,


spezzato qua e là da foglie e rocce. Ne sarebbe caduta ancora, con il cielo color
del peltro verso settentrione, oltre la cima del Mont Lozère. Le tegole di granito
della chiesa erano sparite sotto il manto candido. Dentro non c'era anima viva.

Non vi si diceva messa dall'epoca del raccolto: i fedeli s'erano fatti sempre più
rari, mano a mano che cresceva il prestigio di Monsieur Marcel e il numero dei suoi
seguaci.

Isabelle era lì insieme agli altri ad ascoltare il predicatore il quale, piazzato


di fronte al portone della chiesa, appariva ancora più austero con gli abiti scuri
e i capelli d'argento. Solo le mani macchiate di rosso sminuivano un poco il suo
aspetto autoritario, ricordando a tutti i presenti che in fondo si trattava di un
semplice maniscalco.

Quando parlò parve concentrarsi su un punto sopra la testa della folla.

«Questo luogo di devozione è diventato un luogo di corruzione. Ora però è in mani


sicure. Le vostre mani», disse accompagnando le parole con un ampio gesto, quasi
stesse seminando. Un mormorio si levò dalla folla.

«Dobbiamo purificarlo», proseguì il predicatore, «mondarlo dal peccato, liberarlo


da questi idoli». E indicò con la mano l'edificio alle sue spalle.

Isabelle alzò gli occhi verso la Vergine. L'azzurro della nicchia, per quanto
sbiadito, aveva ancora il potere di commuoverla. Senza rendersene conto, si toccò
la fronte e il petto, ma per fortuna riuscì a fermarsi prima di completare il segno
della croce. Si guardò intorno, per vedere se qualcuno avesse notato il suo gesto,
ma i paesani avevano occhi solo per Monsieur Marcel. A un tratto, mentre tutti lo
acclamavano a gran voce, il predicatore si fece largo fra i fedeli, avviandosi di
buon passo su per la collina verso un banco di nubi scure, le mani rossicce
intrecciate dietro la schiena, senza voltarsi.

Dopo che se ne fu andato, la folla divenne ancora più inquieta e rumorosa. Qualcuno
gridò: «La vetrata!» e tutti guardarono all'insù.

Sopra il portone della chiesa, una piccola finestra circolare cingeva l'unico pezzo
di vetro che quella gente avesse mai visto. Il duca de l'Aigle l'aveva fatto
montare sotto l'edicola tre anni prima, quando ancora non era stato illuminato
dalla Verità di Calvino. Da fuori il vetro appariva di un uniforme color bruno, ma
se uno lo guardava dall'interno della chiesa risplendeva di verde e giallo e blu,
con un minuscolo punto di rosso nella mano di Eva. Il Peccato. Isabelle non entrava
in chiesa da un bel pezzo, ma ricordava l'immagine alla perfezione: la lussuria
negli occhi di Eva, il sorriso del serpente, la vergogna di Adamo.

Se avessero potuto guardarla ancora una volta, con il sole che accendeva i colori
come un prato fiorito nel cuore dell'estate, tanta bellezza sarebbe forse riuscita
a salvare la vetrata.

Ma il cielo era grigio e non si poteva entrare in chiesa. Il prete aveva bloccato
il chiavistello con un grosso lucchetto. In paese non avevano mai visto nulla di
simile; parecchi uomini s'erano adoperati per rimuoverlo, osservandolo, tirandolo
da ogni parte, ignari di come funzionasse il meccanismo. Qualcuno aveva proposto di
provare con un'ascia, però usandola con attenzione per non guastare nulla.

A trattenere la folla infatti era soltanto il valore di quei vetri colorati.


Appartenevano al duca, cui tutti cedevano da sempre un quarto dei raccolti,
ricevendo in cambio protezione e se ce n'era bisogno una parolina buona
all'orecchio del re.
Era stato lui a donare la vetrata e la statuetta alla chiesa. In fondo era roba
sua.

Non si seppe mai con certezza chi fosse stato a scagliare la prima pietra, anche se
in seguito furono in molti a vantarsi di averlo fatto. Il sasso colpì la vetrata
proprio nel centro mandandola all'istante in mille pezzi. Lo strano fragore fece
ammutolire la folla. Non avevano mai sentito il rumore che fa il vetro quando si
rompe.

Nel silenzio generale, un ragazzino corse a prendere una delle schegge variopinte,
ma subito gettò un urlo lasciandola cadere.

«Mi ha morso», piagnucolò, mostrando il dito insanguinato.

Il brusìo ricominciò. La madre prese in braccio il ragazzino stringendolo a sé.

«Il diavolo!» iniziò a urlare. «È stato il diavolo!»

Etienne Tournier, i capelli che parevano fieno bruciato dal sole, si fece avanti
con un lungo rastrello. Si voltò verso il fratello maggiore Jacques, il quale
annuì. Etienne sollevò lo sguardo verso la statuetta ed esclamò: «La Rossa!»

La folla si aprì all'istante e tutti si fecero da parte lasciando Isabelle da sola


sul sagrato. Etienne si voltò con un ghigno beffardo e la fanciulla sentì su di sé
gli occhi celesti del giovane, e le sembrò che le sue mani la stessero toccando.

Etienne fece scivolare la mano lungo il manico del rastrello e lo sollevò, per
lasciarlo subito ricadere con i denti puntati verso Isabelle. I due giovani
rimasero a guardarsi per un po', fra il silenzio della folla. Alla fine, la
fanciulla afferrò i denti del rastrello e mentre reggevano insieme l'attrezzo,
sentì una specie di fuoco che le incendiava il ventre.

Il ragazzo mollò la presa, sorridendo, e il legno cadde a terra rimbalzando.

Isabelle fu pronta a impugnarlo e lo raddrizzò, avvicinandosi a Etienne. Ma fece


appena in tempo ad alzare gli occhi verso la Vergine che lui arretrò di un passo
lasciandola da sola.

Isabelle sentiva la pressione della gente, che s'era di nuovo accalcata e mormorava
inquieta alle sue spalle.

«Dài, Rossa!» gridò qualcuno. «Fallo!»

I suoi fratelli avevano abbassato gli occhi. Non sapeva se suo padre fosse
presente, ma in ogni caso c'era ben poco che avrebbe potuto fare per aiutarla.

Respirò a fondo e sollevò il rastrello. L'acclamazione che salutò il suo gesto le


fece tremare le braccia. Appoggiò i denti al bordo della nicchia e si voltò a
guardare le facce accaldate dei suoi paesani, quegli sguardi insolitamente truci ed
eccitati. Tornò a sollevare la cima del rastrello e provò a spingere contro la base
della statuetta. Niente da fare.

Fra grida sempre più aspre, Isabelle iniziò a premere con forza, fino a farsi
venire le lacrime agli occhi. Il Bambino fissava un punto lontano nel cielo, ma la
Vergine pareva guardare proprio lei.

«Perdonami», sussurrò. Poi tirò indietro il rastrello e menò un gran colpo. Il


metallo urtò la pietra con un tonfo sordo e il viso della Vergine si sbriciolò,
spargendosi sopra Isabelle, fra le risa isteriche della gente. Disperata, la
fanciulla vibrò un altro colpo. La malta sotto il piedistallo iniziò a cedere e la
statuetta oscillò per un istante.

«Dài, Rossa, ancora!» strillò una donna.

Non ci riesco, pensò Isabelle, ma la vista di quelle facce paonazze la costringeva


ad andare avanti. La statuetta cominciò a ondeggiare, come una donna che culla il
suo bimbo fra le braccia. Poi si piegò in avanti e cadde: la testa della Vergine
urtò il terreno andando in pezzi come il resto del corpo. A causa dell'impatto il
Bambino si era staccato dalla madre e giaceva supino in mezzo al prato.

Isabelle lasciò cadere il rastrello e si coprì il volto con le mani. Fra grida di
giubilo e fischi d'approvazione, la folla si avvicinò, circondando la statua
infranta.

Quando tolse le mani dal viso, Isabelle si ritrovò davanti Etienne Tournier che,
sorridendo compiaciuto, allungò le braccia e le palpò i seni.

Poi iniziò anche lui a gettare letame verso la nicchia azzurra.

Non vedrò mai più un colore così bello, pensava Isabelle.

Petit Henri e Gérard non ci misero molto a decidere.

Sebbene Isabelle desse la colpa alla capacità di persuasione di Monsieur Marcel, in


cuor suo sapeva che sarebbero partiti comunque, anche senza le parole suadenti del
predicatore.

«Dio vi sorride», aveva detto in tono solenne. «Ha scelto voi per questa guerra.
Combattendo per il vostro Dio, la vostra religione e la libertà, tornerete più
forti e coraggiosi».

«Se tornerete», aveva mormorato Henry du Moulin scuro in volto, ma solo Isabelle
aveva sentito le sue parole.

Era fittavolo di due campi di segale e due di patate, e anche di un bel castagneto.
Inoltre allevava maiali e possedeva una mandria di capre. Non poteva certo fare a
meno dei due figli, né sarebbe mai riuscito a portare avanti il podère da solo, con
l'aiuto dell'unica figlia rimastagli.

«Coltiverò meno terra», disse a Isabelle. «Seminerò soltanto un campo di segale. E


darò via parte del gregge e qualche maiale. Così mi basterà un campo di patate per
nutrirli. Prenderò altri animali quando torneranno i gemelli».

Non torneranno mai più, pensava Isabelle. Aveva visto la luce che c'era nei loro
occhi, il giorno in cui erano partiti con gli altri ragazzi da Mont Lozère.
Andranno a Tolosa, a Parigi, a Ginevra da Calvino. Andranno in Ispagna, dove gli
uomini hanno la pelle nera o sull'oceano, ai confini del mondo. Ma qui, no, non
torneranno.

Una sera, mentre il padre affilava la lama dell'aratro seduto davanti al focolare,
la fanciulla si fece coraggio.

«Papà, potrei prendere marito», si azzardò a dire. «Verremmo a vivere qui,


lavorando nei campi insieme a te».

Bastò poco a zittirla.

«Chi vorresti sposare?» domandò Henri posando la selce sulla lama. Senza lo
stridore cadenzato della pietra sul metallo, la stanza era ripiombata nel silenzio.

Isabelle si voltò dall'altra parte.

«Siamo rimasti soli, tu e io, ma petite», disse l'uomo con voce affettuosa. «Ma a
volte Dio è più generoso di quel che si pensa».

Isabelle si portò nervosamente le mani al collo, aveva ancora in bocca il sapore


dell'eucaristia. Continuava a sentire quel gusto di pane secco anche parecchie ore
dopo che l'aveva inghiottito. Etienne allungò il braccio verso il panno che le
fasciava i capelli. Ne trovò un'estremità, se l'avvolse intorno alla mano e diede
uno strattone. La fanciulla iniziò a girare su se stessa come una trottola, mentre
la stoffa si srotolava e le chiome si scioglievano. A ogni giro, le passava davanti
agli occhi il sorriso canzonatorio di Etienne, fra i castagni di suo padre, coi
loro frutti ancora piccoli e verdi e inaccessibili.

Quando finì di girare, ci mise un po' a tornare ben salda sulle gambe.

Etienne era proprio davanti a lei e Isabelle fece per indietreggiare, ma con due
passi lui la raggiunse, la fece cadere e le balzò addosso. Poi le sollevò la veste
con una mano e tuffò l'altra, le dita spalancate, fra i capelli. Passandoci
attraverso come un pettine, fino alle punte, si avvolse le lunghe chiome fra le
dita come prima aveva fatto con il panno, fino a posare il pugno sulla nuca di
Isabelle.

«Rossa», sussurrò. «E' da un bel po' che mi stai evitando. Sei pronta?»

Isabelle esitò per un istante, poi annuì. Allora Etienne le tirò indietro la testa
per sollevare il mento, e la baciò.

Ho ancora in bocca l'ostia della Pentecoste, pensava intanto Isabelle, e questo è


Peccato.

I Tournier erano l'unica famiglia fra Mont Lozère e Florac a possedere una Bibbia.
Una volta Jean Tournier l'aveva portata con sé alla funzione nascosta dentro un
telo di lino, per poi porgerla solennemente a Monsieur Marcel.

Durante il rito non aveva fatto altro che guardarla. Quel gesto gli era costato
molto.

Le mani giunte in grembo, Monsieur Marcel teneva la Bibbia appoggiata sulle


braccia, contro il pancione, e mentre leggeva oscillava col busto, quasi fosse
ubriaco. Ma Isabelle sapeva che non era possibile perché Monsieur aveva sempre
condannato il vizio del bere. Il predicatore muoveva gli occhi da una parte
all'altra e le parole gli spuntavano dalla bocca quasi per magia.

Dopo che la Verità si era affermata nella parrocchia, Monsieur Marcel si era fatto
mandare una Bibbia da Lione e il padre di Isabelle aveva costruito un leggìo di
legno su cui appoggiarla.

Nessuno vide più la Bibbia dei Tournier, anche se Etienne continuava a vantare quel
prezioso possedimento della sua famiglia.

«Da dove vengono le parole?» gli chiese un giorno Isabelle dopo la funzione,
ignorando gli sguardi della gente e soprattutto le occhiatacce della madre di
Etienne, Hannah. «Come fa Monsieur Marcel a prenderle dalla Bibbia?»

Etienne stava giocherellando con un sasso, passandolo da una mano all'altra. Lo


gettò via e il sasso rotolò frusciando fra le foglie.
«Le parole volano nell'aria», rispose con sicurezza. «Lui apre la bocca e le
lettere volano dalle pagine sulle sue labbra, ma così velocemente che è impossibile
vederle. Poi le sputa fuori».

«Tu sei capace di leggere?»

«No, però so scrivere».

«E cosa scrivi?»

«Il mio nome. Posso scrivere anche il tuo», aggiunse poi spavaldo.

«Fammi vedere allora. Insegnami».

Etienne sorrise scoprendo i denti. Poi afferrò un lembo della gonna di Isabelle.

«Ti insegnerò, ma devi pagare», mormorò, stringendo gli occhi al punto che la
pupilla azzurra s'intravedeva appena.

Di nuovo il Peccato, pensò Isabelle: le foglie di castagno che scricchiolavano


nelle orecchie, la paura e il dolore, ma anche l'eccitante sensazione della terra
sotto di lei, mentre lui la schiacciava col suo corpo.

«Sì», disse Isabelle, distogliendo lo sguardo. «Prima però fammi vedere».

Etienne dovette procurarsi di nascosto il materiale: la penna d'un gheppio ben


appuntita all'estremità, un pezzetto di pergamena tolto da una pagina della Bibbia,
un fungo secco che messo a bagno nell'acqua si dissolveva in un liquido nerastro.
Poi condusse Isabelle sulla montagna, lontano dalle case, dove c'era un masso dalla
superficie piatta che le arrivava alla vita. Si appoggiarono entrambi sulla pietra.

Miracolosamente, Etienne tracciò sei lineette formando un segno, ET.

Isabelle rimase a guardarlo sbalordita.

«Voglio scrivere il mio nome», disse poi. Etienne le porse la penna e le andò alle
spalle, appoggiandosi al suo corpo.

Sentendo quella cosa dura che cresceva nel basso ventre del ragazzo Isabelle ebbe
un sussulto di desiderio e trepidazione. Etienne appoggiò la mano sulla sua e la
guidò prima sull'inchiostro e poi sopra la pergamena, tracciando insieme a lei i
sei segni di prima, ET. Isabelle osservò perplessa ciò che aveva appena scritto.

«Ma sono uguali», disse poi. «Com'è che il tuo nome e uguale al mio?»

«L'hai scritto tu, giusto? Allora è il tuo nome. Non lo sapevi? Se uno lo scrive
vuol dire che il nome è suo», spiegò Etienne.

«Ma...» Isabelle rimase a bocca aperta in attesa che i segni le volassero sulle
labbra. Però le venne fuori soltanto il nome del suo amico.

«Ora comunque devi pagare», fece Etienne, sorridendo.

La spinse da dietro contro il masso e si calò le brache, sollevandole la gonna. Le


allargò le gambe con un ginocchio e la penetrò, aiutandosi con la mano. Isabelle si
aggrappò alla roccia mentre Etienne si muoveva contro di lei. D'un tratto lui la
spinse in avanti grugnendo, costringendola con il volto e il petto sulla superficie
del masso.
Quando il ragazzo si fu scostato, Isabelle si tirò su barcollando. La pergamena si
staccò dalla sua guancia e cadde a terra svolazzando. Etienne si mise a
sghignazzare.

«Ora il tuo nome ce l'hai scritto in faccia», disse.

Isabelle non era mai stata nella terra dei Tournier, anche se non distava molto da
quella di suo padre, lungo il fiume.

Era l'appezzamento più grande della contrada, eccezion fatta per la tenuta del
duca, che viveva ancora più a valle, a mezza giornata di cammino, in direzione di
Florac. La masseria dei Tournier esisteva da oltre un secolo ed era cresciuta negli
anni, con l'aia, il porcile e un bel tetto di tegole al posto della paglia. Jean e
sua cugina Hannah s'erano sposati tardi e avevano solo tre figli.

Influenti ma assai chiusi e superbi, i Tournier ricevevano ben poche visite la sera
intorno al focolare.

Nonostante la loro importanza, il padre di Isabelle non aveva mai nascosto di


detestarli.

«Si sposano fra cugini», diceva sempre Henri du Moulin con sarcasmo. «Danno soldi
alla chiesa ma non regalerebbero una castagna ammuffita a un mendicante. E ti
baciano sempre tre volte, come se due non bastassero».

Il podère dei Tournier si estendeva su un ampio declivio e aveva la forma di una L,


con la casa situata nel punto di congiunzione dei due bracci.

Etienne fece entrare Isabelle.

I genitori del ragazzo erano nei campi con due braccianti e sua sorella, Susanne,
lavorava in fondo all'orto.

In casa regnava la quiete più assoluta. Giungeva soltanto da lontano il grugnito


dei maiali. Isabelle era rimasta colpita dalla porcilaia e dal fienile dei
Tournier, grande il doppio di quello di suo padre. Ora si trovava nella stanza più
grande della casa e teneva la punta delle dita sul lungo tavolo di legno, quasi
sentisse il bisogno di appoggiarsi a qualcosa.

La stanza era linda, come se avessero appena finito di pulirla, con le pentole
appese in bell'ordine sul muro. Il camino occupava per intero una delle pareti ed
era tanto grande che avrebbe potuto starci comodamente tutta la sua famiglia oltre
ai Tournier, pensò Isabelle. La sua famiglia come era un tempo, prima che sua
sorella e sua madre morissero, prima che i suoi fratelli partissero soldati. Ormai
non erano rimasti che lei e suo padre.

«Rossa».

La fanciulla si voltò e vedendo lo sguardo focoso di Etienne incominciò a


indietreggiare, ritrovandosi ben presto con le spalle contro il camino.

Il ragazzo le fu subito addosso e le mise le mani sui fianchi.

«Non qui», disse Isabelle. «Non nella tua casa, davanti al focolare. Se tua
madre...»

Etienne mollò subito la presa.


Quell'accenno a sua madre era stato sufficiente a fargli passare ogni bollore.

«Gliel'hai chiesto?»

Il ragazzo rimase in silenzio. Aveva perso ogni baldanza e fissava un angolo


lontano.

«Non gliel'hai chiesto».

«Presto compirò venticinque anni e allora potrò fare quel che mi pare.

Non avrò più bisogno del permesso di nessuno».

Ovviamente non vogliono che ci sposiamo, pensò Isabelle. La mia è una famiglia
povera, non abbiamo nulla, mentre loro sono ricchi, possiedono una Bibbia, un
cavallo, sanno perfino scrivere. Si sposano fra cugini, sono amici di Monsieur
Marcel. Jean Tournier è il gabelliere del duca de l'Aigle, è lui a riscuotere le
imposte per suo conto. Non accetterebbero mai come loro figlia una ragazza che
tutti chiamano la Rossa.

«Potremmo vivere con mio padre», suggerì Isabelle. «È dura per lui tirare avanti
senza i miei fratelli.

Ha proprio bisogno...»

«Mai».

«Allora dovremo vivere qui».

«Sì».

«Senza il consenso dei tuoi genitori».

Etienne spostò il peso del corpo da una gamba all'altra.

Poi si appoggiò al bordo del tavolo e incrociò le braccia guardandola negli occhi.

«Se non piaci ai miei genitori, mia cara Rossa», disse con affetto, «è anche per
colpa tua».

Isabelle s'irrigidì e strinse i pugni.

«Non ho fatto nulla di male!» esclamò.

«Io credo nella Verità».

Il ragazzo sorrise.

«Ma vuoi bene alla Vergine Maria, vero?»

Isabelle chinò la testa, sempre serrando i pugni.

«E tua madre era una strega».

«Cos'hai detto?» mormorò la fanciulla.

«Il lupo che l'ha morsa era stato mandato dal diavolo per prendere la sua anima. E
poi tutti quei bambini morti».
Isabelle lo fissò sconvolta.

«Pensi davvero che mia madre abbia fatto morire sua figlia e la sua nipotina?»

«Quando diventerai mia moglie», ribatté Etienne, «non farai la levatrice». Poi la
prese per mano portandola nel fienile, lontano dal focolare dei suoi genitori.

«Perché vuoi proprio me?» chiese Isabelle a bassa voce, in modo che lui non potesse
sentirla. E si rispose da sola:

«Perché sono la ragazza che tua madre odia di più».

Il gheppio volteggiava proprio sulla sua testa, battendo le ali contro vento.
Grigio: maschio. Isabelle strizzò gli occhi. No. Rossastro, come i miei capelli: è
una femmina.

La fanciulla aveva imparato da sola a galleggiare nell'acqua del fiume, a pancia in


su, agitando le braccia, con i seni distesi, i capelli che fluttuavano intorno alla
faccia come foglie.

Guardò di nuovo il cielo. Il gheppio si tuffò alla sua destra. L'istante


dell'impatto fu nascosto da un ciuffo di ginestra. Ricomparve con un animaletto fra
gli artigli, un topo o forse un passero, e salì veloce verso l'alto, scomparendo
ben presto alla vista.

Isabelle si tirò su di scatto, accovacciandosi sulla pietra liscia del fondale, i


seni che recuperavano la loro pienezza.

Il rumore giunse all'improvviso, appena un tintinnìo qua e là, ma ben presto crebbe
fino a diventare un coro, il coro di cento campanelle.

I pastori.., suo padre aveva previsto che sarebbero arrivati nel giro di un paio di
giorni. Speriamo che i loro cani siano più docili quest'estate, pensò Isabelle. Se
non si sbrigava però rischiava di trovarsi circondata da centinaia di pecore. Si
alzò in fretta e andò verso la riva, asciugandosi la pelle col palmo della mano e
restituendo al fiume l'acqua che le inzuppava i capelli. Quei capelli che la
facevano vergognare.

Indossò la sottana e il vestito e nascose le chiome, avvolgendole con una lunga


pezza di lino bianco.

Stava infilando un lembo della stoffa dietro l'orecchio, quando si bloccò di colpo:
sentiva su di sé lo sguardo di qualcuno. Iniziò a scrutare quel tanto di campagna
che riusciva a vedere senza muovere la testa. Nessuno. Le campanelle erano ancora
distanti.

Cercò con le dita le ciocche di capelli ancora libere e le spinse sotto il panno,
poi sollevò la sottana e il vestito fino al ginocchio e corse giù per il viottolo
che costeggiava il fiume. Poco dopo abbandonò il sentiero tagliando per un campo di
erica e ginestra.

Giunta in cima alla collina si fermò a guardare di sotto.

In lontananza vide un campo che pullulava di pecore dirette verso le pendici della
montagna. Due uomini le guidavano, uno in testa e l'altro in coda al gregge ai cui
fianchi trotterellavano due cani, uno per lato. Di tanto in tanto un capo si
staccava ma veniva subito ricondotto nel branco.

Provenivano da Alès, e dovevano essere in cammino da almeno cinque giorni, eppure


non mostravano alcun segno di stanchezza nell'affrontare quell'ultima salita. Del
resto avrebbero avuto tutta l'estate per rinfrancarsi.

Allo scampanellìo delle pecore s'univano i fischi e le grida dei pastori e


l'abbaiare nervoso dei cani.

L'uomo in testa al gregge sollevò lo sguardo verso Isabelle, o almeno così le


parve, e mandò un fischio penetrante. Subito un ragazzo spuntò da dietro una
roccia, a pochi passi da lei. Isabelle si strinse convulsamente il collo. Era un
ragazzetto agile e scattante, con la fronte imperlata di sudore e il viso
abbronzato. Impugnava un bastone, aveva a tracolla la bisaccia di cuoio dei pastori
e in testa un berretto da cui spuntavano dei riccioli neri. Sentendosi addosso
quegli occhi scuri, Isabelle non ebbe dubbi: era lui che l'aveva spiata giù al
fiume. Il pastore le fece un sorrisetto d'intesa e per un istante Isabelle sentì di
nuovo il bacio dell'acqua sulla pelle.

Abbassò subito gli occhi, coprendosi il seno con le braccia, incapace di ricambiare
il sorriso.

Con un balzo, il giovanotto prese il sentiero che scendeva a valle e Isabelle


rimase a guardarlo finché non ebbe raggiunto il gregge. Poi scappò via.

«C'è un bimbo qui dentro». Isabelle aveva appoggiato la mano sul ventre e guardava
Etienne con aria di sfida.

In un attimo gli occhi chiari del ragazzo s'erano rabbuiati, come un prato oscurato
dalle nubi. La fissava in silenzio, pensieroso.

«Lo dirò a mio padre, ma dovremo per forza dirlo anche ai tuoi genitori».

Isabelle deglutì. «Come pensi che la prenderanno?»

«Ci consentiranno di sposarci. Non possono impedircelo, ora che c'è di mezzo un
bambino».

«Penseranno che l'ho fatto apposta».

«E' così?» Gli occhi di Etienne ora erano diventati freddi.

«Sei stato tu a volere il Peccato, Etienne».

«Ah, ma anche a te piaceva, Rossa».

«Vorrei tanto che la mamma fosse qui», mormorò Isabelle. «Che Marie fosse qui con
me».

Suo padre finse di non aver sentito.

Seduto sulla panca accanto alla porta, stava sfrondando un ramo col coltello per
ricavarne un nuovo manico per la vanga che si era rotto quel giorno.

Isabelle rimase in piedi davanti a lui, immobile e silenziosa. Glielo aveva detto
talmente piano che le venne il dubbio di dover ripetere le parole. Ma appena aprì
bocca lui la precedette.

«Così anche tu mi abbandoni», disse Henri du Moulin.

«Mi dispiace, papà. Etienne non vuol venire a vivere qui».


«Non c'è spazio per un Tournier in questa casa. La mia terra non diventerà tua alla
mia morte. Avrai la dote che ti spetta, ma lascerò il podère ai miei nipoti a
l'Hòpital.

Nessun Tournier metterà le mani sulla mia terra».

«Un giorno i gemelli torneranno dalla guerra», provò a dire Isabelle, trattenendo
le lacrime.

«No. Moriranno. Sono contadini, non uomini d'armi.

Lo sai anche tu. Sono già due anni ormai e non una parola da parte loro.

Ne è passata di gente che veniva dal nord, ma nessuno aveva notizie dei miei
ragazzi».

Isabelle lasciò il padre seduto sulla panca e s'avviò per i campi, lungo il fiume,
verso il podère dei Tournier.

Era tardi, la luce cedeva già alle tenebre e le ombre s'allungavano sulle colline
dai fianchi terrazzati dove crescevano le piantine di segale. Gli storni cantavano
fra gli alberi.

Parevano così distanti adesso le due case e alla fine del cammino c'era la madre di
Etienne ad attenderla.

Isabelle rallentò il passo.

Era giunta nei pressi dell'essiccatoio delle castagne, ormai vuoto da un pezzo,
quando vide un'ombra grigia uscire furtiva dal bosco piazzandosi in mezzo al
sentiero.

Saint Vierge, aide-moi, mormorò istintivamente. Il lupo la fissava, gli occhi


gialli che brillavano nella penombra.

Quando iniziò ad avanzare verso di lei, Isabelle udì una voce nella sua testa: «Non
lasciare che capiti anche a te».

Allora si accucciò e afferrò un grosso ramo. Il lupo si fermò. Isabelle si alzò in


piedi e iniziò ad andargli incontro, urlando e agitando il ramo.

L'animale cominciò a indietreggiare e quando la fanciulla fece il gesto di tirargli


il pezzo di legno si voltò e scappò via, scomparendo fra gli alberi.

Isabelle uscì subito dal bosco e corse attraverso il campo, con la segale che le
graffiava i polpacci. Quando arrivò davanti alla roccia a forma di fungo che
marcava il confine dell'orto dei Tournier si fermò per prendere fiato.

Ora la madre di Etienne le faceva meno paura.

«Grazie, mamma», mormorò. «Non lo dimenticherò».

Jean, Hannah ed Etienne erano seduti accanto al focolare mentre Susanne stava
togliendo dalla tavola gli avanzi di zuppa di castagne, la stessa che Isabelle
aveva servito poco prima a suo padre, e il pane scuro dal profumo dolce. Rimasero
tutti di sasso vedendola entrare.

«Cosa c'è, Rossa?» domandò Jean Tournier a Isabelle, che s'era aggrappata al
tavolo, quasi per assicurarsi un posto in mezzo a loro.
La fanciulla non fiatava e teneva lo sguardo fisso su Etienne. Alla fine il giovane
si alzò e andò a mettersi al suo fianco.

Isabelle annuì ed Etienne si voltò verso i genitori.

La stanza era immersa nel silenzio. Il viso di Hannah pareva scavato nel granito.

«Isabelle aspetta un bambino», disse Etienne a voce bassa. «Con il vostro permesso,
avremmo deciso di sposarci».

Era la prima volta che la chiamava Isabelle.

«Di chi è il bambino, Rossa? Non sarà certo di Etienne!» esclamò Hannah con voce
tagliente.

«È di Etienne!»

«No!»

Jean Tournier posò le mani sul tavolo e si alzò in piedi.

Aveva il viso scavato e i capelli d'argento parevano un morbido cappuccio sulla sua
testa. Non disse nulla, ma la moglie tacque all'istante e tornò a sedersi. Jean
guardava Etienne, che ci mise un bel po' prima di aprire bocca.

«Il bambino è mio. Ci sposeremo comunque, appena avrò compiuto venticinque anni.
Cioè presto».

Jean e Hannah si scambiarono un'occhiata.

«E tuo padre che dice?» domandò Jean a Isabelle.

«Mi ha dato il suo consenso e provvederà alla dote». La fanciulla sorvolò


sull'astio paterno nei loro confronti.

«Va' ad aspettare fuori, Rossa», disse Jean con voce calma. «E tu va' con lei,
Susanne».

Le due ragazze andarono a sedersi una accanto all'altra sulla panca accanto
all'uscio. S'erano viste di rado da quando erano bambine. Molti anni prima, prima
che i capelli di Isabelle diventassero rossi, Susanne era solita giocare con Marie
e l'aiutava a raccogliere il fieno, ad accudire le capre, o andavano insieme a
sguazzare giù al fiume.

Ora, sedute sulla panca, le due fanciulle osservavano la valle.

«Ho incontrato un lupo vicino al vostro essiccatoio», fece Isabelle d'un tratto.

Susanne la guardò stupefatta con i suoi occhioni bruni.

Aveva il viso sottile e il mento appuntito del padre.

«E cos'hai fatto?»

«L'ho cacciato via con un bastone», rispose Isabelle compiaciuta.

«Isabelle».
«Cosa?»

«So che la mamma è adirata, ma io sono contenta che tu venga a vivere con noi. Non
ho mai creduto a quello che dice la gente sul tuo conto, a proposito dei tuoi
capelli e...»

Susanne s'interruppe, ma Isabelle evitò di fare domande.

«Comunque, qui sarai al sicuro. Questa casa è al riparo da...»

Ancora una volta la ragazza lasciò la frase a metà, si volse a guardare la porta di
casa e chinò la testa.

Isabelle indugiò con lo sguardo sulle gobbe scure delle colline in fondo alla
vallata.

Sarà sempre così, pensava. Questa casa è piena di silenzi.

In quel momento la porta si aprì e comparvero Jean ed Etienne con in mano una
torcia tremolante e un'ascia.

«Ti riaccompagniamo a casa, Rossa», disse Jean. «Devo parlare con tuo padre».

L'uomo porse un pezzo di pane al figlio.

«Prendete insieme questo pane e tu dalle la mano».

Etienne spezzò il pane in due pezzi e diede il più piccolo a Isabelle. Lei lo mise
subito in bocca e prese la mano del ragazzo. Aveva le dita fredde. Il boccone le
rimase nella gola, come un sospiro.

Petit Jean era nato nel sangue, sarebbe stato un bimbo coraggioso.

Jacob era tutto blu appena nato. Un bimbo silenzioso: neppure quando Hannah gli
aveva dato una pacca sulla schiena per farlo respirare l'avevano sentito piangere.

Isabelle era di nuovo sdraiata nel fiume. Molte estati erano passate. I due figli
le avevano segnato il corpo e un altro si muoveva nel suo ventre, a pelo d'acqua.
Scalciava.

La donna pose le mani a coppa sul pancione.

«Ti prego, Vergine, fa che sia femmina», pregava. «E quando sarà nata le darò il
tuo nome, il nome di mia sorella, Marie. Nessuno riuscirà a impedirmelo».

Questa volta non vi furono avvertimenti. Nessuna campanella, né la sensazione di


avere addosso gli occhi di qualcuno. Ma a un tratto lui era li, seduto sui talloni,
in riva al fiume. Isabelle si mise a sedere ma non si coprì i seni.

Non era cambiato, solo un po' più vecchio, e con una lunga cicatrice che gli
attraversava il volto dallo zigomo al mento, sfiorando l'angolo della bocca. Questa
volta lei avrebbe ricambiato il suo sorriso. Ma il pastore non sorrise.

Le fece soltanto un cenno con il capo, poi raccolse un po d'acqua con le mani e se
la gettò sul viso. Quindi si alzò e si rimise in cammino verso la sorgente del
fiume.

Marie nacque fra acque trasparenti, con gli occhi aperti.


Una bimba piena di speranza.

2 - Il sogno

Quando io e Rick ci trasferimmo in Francia, pensavo che la mia vita sarebbe


cambiata. Non immaginavo quanto.

Quel paese sconosciuto era per noi una specie di banchetto di cui volevamo
assaggiare ogni portata. La prima settimana, mentre Rick faceva la punta alle
matite nel nuovo studio, diedi una spolverata al mio francese scolastico e iniziai
a esplorare le campagne intorno a Tolosa, in cerca di un posto dove andare a
vivere. Avevo in mente una piccola città, piccola ma interessante, mentre filavo
per quelle stradine di campagna sulla mia Renault grigia fiammante, sfrecciando fra
lunghe file di platani. Quando ero soprappensiero mi pareva quasi d'essere in Ohio
o nell'Indiana, ma il paesaggio riaffermava di colpo la propria identità appena mi
trovavo davanti una di quelle case con le tegole rosse, le persiane verdi, i vasi
di gerani sui davanzali. Ovunque si vedevano contadini con le loro salopette
celesti, nei campi spruzzati dal verde pallido di aprile.

Quando la mia macchina tagliava il loro orizzonte si voltavano, e io sorridevo,


facendo un cenno con la mano. A volte ricambiavano il saluto, sia pur con una certa
esitazione, domandandosi forse: «Ma chi era quella?»

Visitai un mucchio di cittadine, bocciandole tutte, a volte per futili motivi, ma


in realtà perché cercavo un luogo capace di parlare al mio cuore, facendomi capire
che la ricerca era finita.

Giunsi a Lisle-sur--Tarn attraversando il ponte lungo e stretto sul fiume

Tarn. Al di là del ponte, una chiesa e un bar mi accolsero nella città.

Parcheggiai accanto al bar e mi misi a vagare per il borgo. Prima ancora di


arrivare in centro, ebbi la certezza che saremmo andati ad abitare lì. Si trattava
di una bastide, una città fortificata rimasta pressoché intatta dal Medioevo.
Durante le invasioni, gli abitanti si radunavano nella piazza del mercato e
chiudevano le quattro porte di accesso alla città. Io stavo proprio in mezzo a
quella piazza, accanto a una fontana ornata da aiuole di lavanda e mi sentivo
felice e stranamente a mio agio.

La piazza era circondata da un porticato con i negozi al piano terra e le tipiche


persiane sulle facciate delle case. Sia gli archi del portico che gli edifici erano
fatti di mattoni stretti tenuti insieme da una calcina di un rosa tenue e disposti
orizzontalmente e in diagonale a formare disegni che si alternavano a travi di
legno scuro.

Ecco ciò di cui ho bisogno, pensai.

Vedere questo tutti i giorni mi renderà felice.

Ma subito dopo iniziarono i dubbi. Era una follia scegliere una città in virtù di
un'unica piazza, per quanto graziosa. Così ricominciai a camminare, in cerca del
fattore decisivo, quello che mi avrebbe convinta a restare o ad andarmene.

Non impiegai molto tempo. Dopo aver osservato le vie circostanti, tornai nella
piazza ed entrai in una boulangerie. Dietro il bancone c'era una donna piccola con
un grembiule bianco e blu che avevo visto in vendita in tutti i mercati dov'ero
stata. Dopo aver finito di servire l'ultima cliente si voltò verso di me.

Aveva il viso rugoso e i capelli raccolti in una crocchia e mi scrutava con due
occhietti neri.

«Bonjour Madame», disse la donna con un accento che ricordava una specie di
cantilena.

«Bonjour!», risposi, esaminando il pane disposto sugli scaffali alle sue spalle e
intanto pensavo fra me:

Questa diventerà la mia boulangerie.

Ma appena tornai a guardare la donnetta, aspettandomi di leggere sul suo volto


qualche segno di cordialità, la mia sicurezza svanì. Immobile dietro il bancone,
aveva una faccia dura come il ferro.

Aprii la bocca ma non riuscii a spiccicare parola. Deglutii. Lei continuava a


fissarmi. «Qui, Madame?» disse poi con il medesimo tono di prima, quasi che gli
ultimi imbarazzanti secondi non fossero mai esistiti.

Dopo un attimo di esitazione indicai una baguette.

«Un», riuscii dire in qualche modo, ma doveva assomigliare a una specie di


grugnito. A quel punto sul viso della donna si dipinse la più evidente
disapprovazione. Senza voltarsi e senza togliermi gli occhi di dosso, prese una
pagnotta alle sue spalle.

«Quelque chose d'autre, Madame?»

Cercai per un momento di vedermi con i suoi occhi: una straniera di passaggio, a
disagio fra i suoni peculiari di un'altra lingua, costretta ad affidarsi a una
cartina per orientarsi in un paesaggio sconosciuto, a un dizionario per comunicare.
Insomma, proprio quando pensavo di aver finalmente trovato casa, quella fornaia mi
faceva sentire completamente smarrita.

Osservai le merci esposte, nel disperato tentativo di mostrarle che non ero goffa
come sembravo. Indicai una quiche alle cipolle, bofonchiando:

«Et un quiche». Non avevo ancora finito di dirlo che mi resi conto di aver usato
l'articolo sbagliato: quiche è femminile, perciò avrei dovuto dire une. Gemetti in
cuor mio.

La donna mise la torta in un sacchetto e la posò sul bancone accanto alla baguette.
«Quelque chose d'autre,

Madame?» ripeté.

«Non».

Batté i miei acquisti sul registratore di cassa e io le porsi il denaro. Solo


quando lei mise il resto sul piccolo vassoio accanto alla cassa, capii che avrei
dovuto fare anch'io così, invece di infilarle le monete in mano.
Aggrottai le sopracciglia. Era una lezione da tenere a mente.

«Merci, Madame?», disse la fornaia con la solita cantilena, ma sempre con sguardo
severo e volto impassibile.

«Merci», borbottai.

«Au revoir, Madame».

Feci per andarmene, ma poi mi bloccai: doveva esserci un modo per salvare la
situazione. Mi voltai verso la donna: aveva incrociato le braccia sul seno fondo.

....... nous... nous habitons près d'ici, là-bas», mentii e intanto gesticolavo in
modo frenetico, fingendo di indicare un immaginario quartiere della sua città.

La fornaia annuì. «Oui, Madame. Au revoir, Madame».

«Au revoir, Madame», risposi, girando sui tacchi e avviandomi fuori dal negozio.

Oh, Ella, pensavo, attraversando la piazza un po' avvilita, così sei pronta a
mentire pur di salvare la faccia?

E allora non mentire: vieni a vivere qui! risposi a me stessa. Potrai discutere
ogni giorno con Madame dei suoi croissant. Intanto ero di nuovo nei pressi della
fontana. Allungai una mano verso gli arbusti di lavanda, cogliendone qualche
foglia. Le sfregai fra le dita e l'aroma intenso che si diffuse nell'aria pareva
dire: reste.

Rick s'innamorò a prima vista di

Lisle-sur-Tarn e mi convinse della bontà della mia scelta, baciandomi e facendomi


girare fra le sue braccia.

«Ah!» esclamò, dinanzi agli antichi palazzi.

«Sssh», feci io. Era giorno di mercato e ci stavano guardando tutti. «Mettimi giù»,
sussurrai.

Rick si limitò a sorridere e mi strinse ancora più forte.

«È la città ideale per me», disse.

«Guarda i dettagli di quella facciata!»

Iniziammo a vagabondare per le strade, scegliendo le case che ci piacevano di più.


Più tardi ci fermammo alla boulangerie per comprare dell'altra quiche alle cipolle.
Appena Madame mi guardò arrossii, ma la bottegaia si rivolgeva di preferenza a
Rick, che la trovava assai divertente e le ridacchiava in faccia, senza che lei se
n'avesse a male. Probabilmente lo trovava attraente, con il codino biondo che
doveva apparire esotico in un paese dove tutti gli uomini avevano i capelli neri e
corti, e l'abbronzatura californiana.

Verso di me la donna si mostrava cortese, ma colsi in lei una velata ostilità che
mi rendeva nervosa.

«Se non fosse che le loro quiche sono deliziose», dissi a Rick appena fummo usciti,
«non tornerei mai più in quel negozio».

«Ah, ci risiamo bambina mia. Questo vizio di prendere tutto così seriamente. Non
farti venire le paranoie, adesso».

«Quella donna mi fa sentire a disagio».

«Ma dài, è solo che non sa comportarsi in modo adeguato con i clienti!

Dovrebbero farle fare un corso di aggiornamento».

«Sì», feci io sorridendo. «Vorrei proprio vedere la sua scheda personale».

«Di certo sarebbe colma di richiami. E' ovvio che non ce la fa più. Abbi
compassione per quella povera vecchietta».

Per un po' accarezzammo l'idea di andare a vivere in uno degli antichi palazzi che
attorniavano la piazza, o nelle vie adiacenti, ma quando scoprimmo che non c'erano
appartamenti in affitto nella zona fui in qualche modo sollevata: erano troppo
serie quelle case e si addicevano semmai ai notabili del posto. Trovammo invece una
casetta a cinque minuti dal centro, vecchia anch'essa ma senza quelle facciate
artistiche: mura spesse, pavimenti in cotto e un piccolo cortile sul retro,
riparato da graticci su cui s'arrampicava la vite. Sul davanti non c'era il
giardino e la porta di casa si apriva direttamente sul vicolo. Le stanze erano
piuttosto buie, ma Rick mi fece notare che d'estate avremmo goduto di un bel
fresco. Del resto tutte le case che avevamo visitato erano così. Per ovviare
all'oscurità, tenevo le persiane sempre aperte e mi capitò diverse volte di
sorprendere i vicini che facevano capolino dalle mie finestre, prima che si
abituassero a noi.

Un giorno decisi di fare una sorpresa a Rick: raschiai il marrone sbiadito delle
persiane e le dipinsi di un vivace bordeaux, appendendo poi vasi di gerani alle
finestre. La sera, tornando dal lavoro, Rick si fermò davanti alla casa e sorrise,
vedendomi affacciata fra quella cornice di fiori rosa, bianchi e vermigli.

«Benvenuto in Francia», scherzai.

«Bentornato a casa».

Quando venne a sapere che io e Rick avevamo deciso di stabilirci in

Francia, mio padre m'invitò a scrivere a un cugino di non so più quale grado che
viveva a Moutier, una piccola città nel nord della Svizzera. Papà era stato a
Moutier molti anni prima.

«Ti piacerà un sacco, fidati», continuava a ripetere quando chiamò per darmi
l'indirizzo.

«La Francia e la Svizzera sono due nazioni diverse, papà!

Non so neanche da che parte sia la

Svizzera!»

«Lo capisco, piccola mia, ma può far comodo avere qualche parente nelle vicinanze».

«Nelle vicinanze? Moutier dev'essere a sei o settecento chilometri da qui!»

«Vedi? In un giorno ci si arriva. E' molto più vicino di quanto non sia io».

«Almeno segnati l'indirizzo. Fammi contento».


Come potevo dirgli di no? Annotai l'indirizzo ridendo. una vera follia. Cosa vuoi
che gli scriva: "Salve, sono una tua lontana cugina di cui non hai mai sentito
parlare, ora abito nel tuo stesso continente, perché non ci vediamo?"»

«Perché no? Come scusa potresti chiedergli notizie sulla nostra famiglia: da dove
veniamo, cosa facevano i nostri antenàti. Datti da fare, il tempo non ti manca».

Papà era un convinto assertore dell'etica protestante: l'idea che non avessi un
lavoro lo rendeva inquieto.

Così continuava a darmi consigli su come occupare le giornate. Ma in questo modo la


sua ansia non faceva che alimentare la mia: neanch'io ero abituata a starmene con
le mani in mano. Nella vita avevo sempre studiato o lavorato sodo e anche per
l'ozio bisogna essere allenati. Dopo aver provato per qualche tempo a dormire fino
a tardi, bighellonando per il resto del pomeriggio, decisi di mettere a punto tre
progetti, giusto per tenermi occupata.

Prima di tutto, iniziai a lavorare sul mio francese. Due volte la settimana andavo
a lezione a Tolosa da Madame

Sentier, un'anziana signora che aveva gli occhi vivaci e i tratti minuti di un
uccellìno. Dall'alto del suo accento meraviglioso, iniziò subito a strapazzare il
mio. Detestava sentir pronunciare le parole in modo trasandato, e mi sgridava
quando dicevo Oui con la stessa sciatteria di molti francesi, ovvero muovendo
appena le labbra e lasciando uscire un suono che ricorda il verso del papero.

Esigeva invece che spiccassi le tre lettere con precisione, emettendo l'aria fra i
denti, come una specie di sibilo. Asseriva con fermezza che il modo in cui diciamo
le cose è più importante delle cose stesse. Ogni tentativo di discutere il suo
metodo si rivelò vano.

«Se la sua pronuncia non è corretta, nessuno la capirà», mi ammonì Madame

Sentier. «Inoltre, rivelerà a tutti di essere forestiera e allora nessuno la starà


a sentire. I francesi sono fatti così».

Evitai di farle notare che anche lei era francese. Mi piaceva quella donna, la
fermezza con cui difendeva le proprie convinzioni, così mi sottoposi diligentemente
agli esercizi di dizione, curvando le labbra come se fossero di gomma.

Madame m'incitò a parlare ogni volta che potevo, ovunque mi trovassi. «Se le viene
in mente qualcosa, lo dica!» esclamava con vigore. «Non importa di che si tratta,
anche se è una cosa da nulla, la dica. Rivolga la parola a tutti quelli che
incontra». A volte mi faceva parlare senza sosta per un periodo di tempo
determinato, all'inizio per un minuto fino ad arrivare a cinque, un esercizio
impossibile e davvero spossante.

«Lei formula il pensiero in inglese e poi lo traduce parola per parola in


francese», mi spiegò una volta Madame

Sentier. «Non si fa così. Ogni lingua ha la sua forma. Bisogna che lei pensi in
francese. Lasci da parte l'inglese e pensi il più possibile in francese.

Se non riesce a costruire un intero paragrafo, ricorra a semplici frasi, a parole


almeno e le adoperi per comporre pensieri sempre più complessi!» E con un gesto
parve voler abbracciare l'intera stanza e l'umano intelletto a un tempo.

Si mostrò entusiasta quando le confidai che avevo un lontano parente in Svizzera, e


riuscì a convincermi a scrivere a quel cugino sconosciuto.
«Così, la sua famiglia potrebbe essere di origine francese», disse. «Le gioverebbe
scoprire qualcosa di più sui suoi antenàti. La aiuterebbe a sentirsi legata a
questo paese, alla sua gente. Allora sarebbe meno difficile per lei pensare in
francese».

Non condividevo affatto il suo entusiasmo. Dal mio punto di vista la genealogia era
buona per la gente di mezz'età, come i programmi culturali alla radio, l'uncinetto
e i sabato sera trascorsi in casa. Sapevo che prima o poi ci sarei caduta anch'io,
ma era ancora presto. I miei avi non avevano nulla a che fare con me.

Tuttavia, per far contenta Madame

Sentier, presi la cosa come una specie di compito e mi sforzai di mettere insieme
un po' di frasi in cui chiedevo notizie a mio cugino circa la storia della
famiglia.

Dopo che la mia anziana insegnante ebbe controllato l'ortografia e la grammatica,


spedii la lettera in

Svizzera.

Intanto, grazie alle lezioni di francese, avevo ideato un secondo progetto. «Una
professione davvero stupenda per una donna!» esclamò

Madame Sentier quando le dissi che volevo fare l'ostetrica anche in

Francia. «Che nobile occupazione!»

Siccome volevo bene a Madame, sorvolai sulle sue romanticherie, evitando di citare
la diffidenza con cui io e le mie colleghe siamo di solito guardate da medici,
ospedali, compagnie d'assicurazione e perfino dalle donne incinte. Né volli evocare
le notti insonni, il sangue, il dramma quando le cose andavano male. Perché era
davvero un bel lavoro e io speravo di poterlo esercitare anche in

Francia dopo aver seguìto i corsi previsti, ottenendo l'abilitazione.

Il terzo progetto invece aveva un futuro più incerto, ma di certo avrebbe assorbito
tutto il mio tempo, quando fosse venuto il momento. Non c'era niente di strano:
avevo già vent'otto anni, ero sposata con Rick da due e la pressione da parte di
parenti e amici stava cominciando a montare.

Vivevamo a Lisle-sur-Tarn da qualche settimana, quando una sera andammo a cena


nell'unico ristorante decente della cittadina. Chiacchierammo del più e del meno, -
il lavoro di Rick, come avevo trascorso la giornata -, fra crudité, paté, trote del
Tarn e punta di filetto. Quando arrivò il cameriere con la crème brulée di Rick e
la mia tarte au citron, decisi che era venuto il momento. Diedi un morso alla
fettina di limone usata come guarnizione, il cui sapore acre mi fece rabbrividire.

«Rick», esordii, posando la forchetta.

«Grande questo brulée», fece lui.

«Soprattutto la parte abbrustolita.

Tieni, assaggiane un pezzettino».

«No, grazie. Ascolta, ho pensato una cosa».


«Ah, allora è un discorso serio?»

In quel momento, una coppia entrò nel ristorante e venne a sedersi nel tavolo
accanto al nostro. Il pancione della donna si notava appena sotto l'elegante abito
nero. Era in cinta di cinque mesi, pensai io automaticamente, e il bambino era
ancora molto alto.

Abbassai la voce. «Sai che a volte abbiamo parlato di avere dei bambini?»

«Vuoi che ne facciamo uno?»

«Be', ci stavo pensando».

«Ok».

«Ok cosa?»

«Ok, facciamolo».

«Così di punto in bianco, "facciamolo"

e basta?»

«Perché no? Lo vogliamo entrambi. Che senso ha stare lì a tormentarsi?»

Mi sentii incompresa, anche se conoscevo Rick troppo bene per rimanere stupita dal
suo atteggiamento. Lui decideva sempre tutto su due piedi, anche quando si trattava
di cose importanti, mentre le mie scelte erano sempre un po sofferte.

«Sento che...» esordii, cercando le parole giuste. «E' come lanciarsi col
paracadute. Ti ricordi quando l'abbiamo fatto, l'anno scorso? Sei lì su
quest'aeroplanino e continui a pensare: ancora due minuti e non potrò più tirarmi
indietro. Ancora un minuto e non potrò rinunciare. E poi ti ritrovi in equilibrio
sul nulla, ma potresti ancora dire no. Finché ti butti e a quel punto non ha più
nessuna importanza quel che pensi. È così che mi sento adesso. Mi pare di essere
davanti a quella porticina, sospesa nel vuoto».

«Io ricordo solo la fantastica sensazione di cadere, il meraviglioso panorama che


fluttuava sotto di me. Lo straordinario senso di pace che c'era lassù».

Mi succhiai l'interno della guancia, e addentai un bel pezzo di torta.

«È una decisione importante», ribattèi con la bocca piena.

«Una decisione presa». Rick si sporse verso di me e mi baciò. «Mmm, che buon gusto
di limone».

Quella notte sgusciai fuori di casa e m'incamminai verso il ponte. Sentivo il


rumore del fiume sotto di me, ma era troppo buio perché potessi vedere l'acqua. Mi
guardai intorno: non c'era anima viva. Tirai fuori la scatola delle pillole
contraccettive e iniziai a schiacciarle fuori, una alla volta, dalla stagnòla del
blister.

Scomparivano precipitando verso l'acqua corrente, minuscoli puntini bianchi che


bucavano l'oscurità per un istante. Poi mi appoggiai alla ringhiera e rimasi così a
lungo, sforzandomi di capire se qualcosa era cambiato dentro di me.

E, in effetti, qualcosa accadde. Fu la prima notte che feci il sogno. Tutto iniziò
con un tremolìo, un movimento indistinto fra il buio e la luce. Né nero, né bianco,
semmai azzurrino. Una visione soffusa d'azzurro.

Quasi scossa dal vento, quella luce fioca veniva a lambirmi per poi ritrarsi come
un onda. A un tratto iniziò a premere contro di me, come fa l'acqua però, non la
pietra.

Sentii qualcuno che intonava una nenia. Subito dopo mi ritrovai a cantarla io
stessa e le parole mi uscivano di bocca come per incanto.

Laltra voce prese a singhiozzare, e anch'io scoppiai in lacrime. Piansi finché non
mi mancò il respiro. Allora l'azzurro calò sopra di me da ogni parte. Udii un
boato, il rumore di un grosso portone che si chiudeva di scatto e l'azzurro si mutò
in una cupa oscurità, immemore della luce.

Le mie amiche mi avevano detto che quando cerchi di rimanere incinta fai molto più
sesso del solito. O molto meno. Puoi darci dentro ogni volta che ti va, come una
mitragliatrice che spara a raffica i suoi proiettili, nella speranza di colpire
qualcosa.

Oppure agire con strategia, risparmiando le munizioni per il momento giusto.

All'inizio, Rick e io seguimmo il primo metodo. Quando tornava a casa dal lavoro
facevamo l'amore, ancora prima di cena. Andavamo a letto presto e appena svegli lo
facevamo di nuovo, e così ogni volta che se ne presentava l'occasione.

A Rick piaceva molto questa abbondanza, ma per me era diverso.

Intanto non ero abituata a fare sesso per dovere: di solito lo facevo soltanto se
ne avevo davvero voglia.

Invece ora era diventata una tacita missione, un'attività frenetica ma calcolata,
premeditata. Anche l'abbandono degli anticoncezionali aveva prodotto in me
sensazioni ambivalenti: come potevo lasciarmi alle spalle in un solo istante anni e
anni di attenta prevenzione, insieme alle istruzioni e ai moniti che erano stati
inculcati nella mia mente? Avevo sentito dire che sarebbe stato eccitante, ma
invece dell'euforìa provavo solo paura e insicurezza.

E soprattutto ero esausta. Dormivo male, sprofondando ogni notte in quella stanza
azzurra. Non dissi mai nulla a Rick, non lo svegliavo, né il mattino dopo gli
spiegavo perché mi sentissi così stanca. Non avevo mai avuto segreti per lui, ma in
questo caso mi sentivo la gola strozzata, le labbra incollate.

Una notte ero sdraiata a letto, gli occhi fissi sull'onda azzurra che danzava sopra
di me, quando finalmente capii.

Nelle ultime due settimane, c'erano state solo due notti in cui il sogno non si era
manifestato, le uniche due in cui non avevamo fatto sesso.

Da una parte mi sentii sollevata, finalmente avevo trovato una spiegazione.


L'incubo era dunque frutto della mia ansia di concepire un bambino. La nuova
consapevolezza servì quanto meno a rendere la cosa meno terrificante.

Tuttavia avevo bisogno di dormire di più. Dovevo riuscire a convincere Rick a


ridurre i nostri incontri, senza fornire alcuna spiegazione. Non potevo certo
confessare che avevo gli incubi ogni volta che facevamo l'amore.

Quando mi vennero le mestruazioni, a indicare che nonostante i nostri sforzi non


ero rimasta incinta, dissi a Rick che forse avremmo dovuto provare con l'approccio
ragionato.
Citai le argomentazioni che avevo letto nei testi scientifici, infarcii il mio
discorso di termini tecnici e soprattutto badai a mostrarmi sempre allegra. Per
quanto deluso, Rick accettò di buon grado.

«Tu ne sai più di me al riguardo», disse. «Io sono soltanto una pistola carica di
munizioni. Dimmi cosa devo fare».

Purtroppo però, benché il sogno fosse diventato meno frequente, il danno era ormai
fatto. Faticavo comunque ad addormentarmi e spesso rimanevo sveglia in preda a un
ansia immotivata, nell'attesa che l'azzurro tornasse, convinta che sarebbe
ricomparso anche se non facevamo sesso.

Una notte, una di quelle strategiche,

Rick mi stava baciando la spalla e si apprestava a scendere lungo il braccio,


quando a un tratto si fermò.

Sentivo il calore delle sue labbra sfiorarmi la pelle. Attesi per qualche istante
ma non succedeva nulla. «Mmm,

Ella», fece Rick alla fine. Aprii gli occhi.

Seguendo il suo sguardo, mi accorsi che stava fissando una chiazza rossastra e
ritirai subito il braccio.

«Oh», dissi con noncuranza, osservando il cerchiolino di pelle arrossata e


squamosa.

«Cos'è?»

«Psoriasi. Lho avuta a tredici anni.

Quando mamma e papà hanno divorziato».

Rick rimase a guardarla per un po', poi si chinò su di me baciandomi le palpebre.

Riaprendo gli occhi, feci in tempo a cogliere un barlume di disgusto sul suo volto,
prima che riuscisse a mascherare quell'espressione dietro un sorriso.

Nel giro di una settimana, sotto il mio sguardo preoccupato e impotente, l'eruzione
iniziò ad allargarsi, poi passò sull'altro braccio e sapevo che presto avrebbe
raggiunto anche le caviglie e i polpacci.

Rick insistette perché mi facessi vedere da un medico.

Era un dottorino dai modi bruschi e del tutto privo dell'affabilità di cui i medici
americani si servono per tranquillizzare i pazienti. Parlava così velocemente che
dovevo concentrarmi per capire ciò che diceva.

«Ha già_avuto questa malattia?» mi chiese, esaminando le mie braccia.

«Sì, da bambina».

«E da allora non le era più tornata?»

«No».

«Da quanto tempo è in Francia?»


«Sei settimane».

«E pensa di rimanere?»

«Sì, almeno per qualche anno. Mio marito lavora in uno studio di architettura a
Tolosa».

«Avete figli?»

«No. Non ancora». Arrossii. Datti una calmata, Ella, pensavo. A vent'otto anni
suonati non puoi sentirti a disagio parlando di sesso.

«E lei lavora?»

«No. Cioè, lavoravo negli Stati Uniti.

Facevo l'ostetrica».

Il medico aggrottò le sopracciglia.

«Une sage-femme? Vorrebbe esercitare anche qui in Francia?»

«Mi piacerebbe, ma non sono ancora riuscita a ottenere un permesso di lavoro. E poi
qui il sistema sanitario è completamente diverso. Dovrò prima superare un esame.
Attualmente sto studiando il francese e quest'autunno m'iscriverò a un corso di
ostetricia a

Tolosa».

«La trovo stanca». Il dottore aveva cambiato discorso bruscamente, quasi a farmi
capire che ne aveva abbastanza dei miei progetti professionali.

«Ho avuto degli incubi, ma...» m'interruppi. Non volevo toccare quell'argomento con
lui.

«Si sente infelice, Madame Turner?» chiese il medico con più gentilezza.

«No, no, non mi sento infelice», risposi senza troppa convinzione. Sono tanto
stanca che non so neppure io come mi sento, pensavo.

«Vede, a volte la psoriasi compare se si dorme troppo poco».

Annuìi. E complimenti per l'acuta analisi psicologica.

Il medico mi prescrisse una crema al cortisone, delle supposte per ridurre il


gonfiore e dei sonniferi, nel caso che il prurito mi impedisse di dormire. Poi mi
disse di tornare da lui dopo un mese e mentre stavo uscendo aggiunse: «E si faccia
vedere quando sarà incinta, sono anche obstétricien».

Arrossii di nuovo.

La mia infatuazione per Lisle-sur-Tarn svanì più o meno nel periodo in cui smisi di
dormire.

La cittadina era bellissima e tranquilla, animata da ritmi assai più salutari di


quelli cui ero abituata negli Stati Uniti, e la qualità della vita era
innegabilmente migliore. Le verdure che compravo al mercato del sabato, la carne
della boucherie, il pane della boulangerie: tutto aveva un gusto delizioso per una
come me, cresciuta fra i sapori scialbi dei prodotti del supermarket.

A Lisle il pranzo di mezzogiorno era ancora il pasto principale della giornata, i


bambini potevano scorrazzare liberamente per le vie senza aver paura delle macchine
o degli sconosciuti, e c'era ancora il tempo di fare due chiacchiere. Le persone
non avevano mai tanta fretta da non potersi concedere una pausa e conversare un po'
fra loro.

Fra loro, appunto, ma non con me. A quanto ne sapevo, Rick e io eravamo gli unici
stranieri presenti in città e venivamo trattati di conseguenza.

Tutti smettevano di parlare appena entravo in un negozio e quando ricominciavano


passavano immancabilmente ad argomenti futili.

La gente era cortese con me, ma sebbene abitassi in quella cittadina da parecchie
settimane, non avevo ancora conversato davvero con nessuno dei suoi abitanti. Stavo
attenta a salutare tutti quelli che conoscevo e tutti ricambiavano il saluto, ma
non capitava mai che qualcuno mi salutasse per primo o si fermasse a parlare con
me. Mi sforzai di seguire il consiglio di Madame Sentier, «parli ogni volta che
può», ma venivo incoraggiata così poco dai miei concittadini, che rimanevo quasi-
subito a corto di argomenti. Solo quando andavo a comperare qualcosa o chiedevo
un'informazione la gente del posto mi stava ad ascoltare.

Una mattina ero seduta in un bar della piazza a bere un caffè, leggendo il
giornale. C'erano diverse persone sparse qua e là ai tavolini. Il proprietario
girava fra i clienti, dispensando battute e commenti scherzosi, regalando caramelle
ai bambini. Ero già stata lì un paio di volte, ma non ero mai andata al di là di un
cenno di saluto con lui, niente conversazione per il momento. Di quel passo ci
avrei messo dieci anni, pensavo un po' avvilita.

Seduta a un tavolino non lontano dal mio c'era una donna più giovane di me con un
bimbo che avrà avuto cinque mesi legato al seggiolino della macchina, posato su una
sedia.

Il bimbo agitava un sonaglino.

La ragazza indossava jeans attillati e aveva una risata piuttosto fastidiosa.

Poco dopo si alzò ed entrò nel locale.

Il bimbo non parve farci caso.

Mi concentrai su Le Monde. Mi ero imposta l'obbligo di leggerne per intero una


pagina, prima di aprire l'International Herald Tribune. Era come avanzare su un
terreno paludoso, non tanto per la lingua, quanto per i nomi sconosciuti, per una
situazione politica a me ignota. E anche quando riuscivo a mettere a fuoco i
contorni di una vicenda, non era detto che m'interessasse.

Insomma, stavo combattendo con un articolo su un imminente sciopero delle poste,


fenomeno abbastanza insolito negli Stati Uniti, quando d'un tratto sentii uno
strano rumore, anzi uno strano silenzio. Sollevai lo sguardo: il bimbo aveva smesso
di agitare il sonaglino che ora giaceva abbandonato sulle sue gambette.

All'improvviso il faccino iniziò a raggrinzirsi come un tovagliolo stropicciato.

Benone, pensai, ora si metterà a piangere. Gettai un'occhiata dentro al bar: china
sul bancone, sua madre parlava al telefono con qualcuno, giocherellando con un
portacenere.
Il bambino non fiatava, la sua faccia però stava diventando sempre più rossa, come
se si sforzasse di piangere, senza riuscirci. Quindi diventò color porpora e poi
blu, in rapida successione.

Balzai dalla sedia che cadde all'indietro con un rumore metallico.

«Sta soffocando!» urlai.

Ero a non più di tre metri dal bimbo, ma nel tempo che impiegai ad avvicinarmi
s'era già formato un crocchio intorno a lui. Un tizio gli si accucciò davanti dando
buffetti sulle guance cianotiche. Cercai di aprirmi un varco fra la piccola folla,
ma la schiena massiccia del gestore del bar mi sbarrava il passo.

«Un momento, sta soffocando!» gridai.

Avevo davanti un muro di spalle.

Corsi dall'altra parte del capannello.

«So come aiutarlo!»

Le persone che spingevo mi guardavano di sbieco, con ostilità.

«Dovete battere sulla schiena, non riesce a respirare».

Tacqui di colpo: stavo parlando in inglese.

All'arrivo della madre, la barriera umana si sciolse all'istante. La giovane donna


iniziò a picchiare con foga sulla schiena del figlio, con troppa foga, pensavo. Mi
stavo chiedendo come si dicesse "manovra di

Heimlich" in francese, quando a un tratto il bimbo tossì e una caramella rossa volò
fuori dalla sua bocca.

Ansimando, il bambino iniziò a piangere e piano piano il suo volto riprese colore.

Con un sospiro di generale sollievo, il crocchio si disperse definitivamente.


Incrociai lo sguardo del proprietario del bar; mi guardava con freddezza. Aprii la
bocca per dire qualcosa, ma l'uomo distolse lo sguardo, prese il vassoio e rientrò
nel locale. Raccolsi i miei giornali e me ne andai senza pagare.

Da allora mi sentii a disagio in quella città. Iniziai a evitare il bar e la


giovane mamma. Non riuscivo più a guardare le persone negli occhi. Il mio francese
divenne ancora più incerto e la pronuncia peggiorò sensibilmente.

Madame Sentier non tardò ad accorgersene. «Cosa è successo?» domandò. «Stava


andando così bene!»

Mi tornò alla mente quel muro di spalle. Non le risposi.

Un giorno alla boulangerie sentii dire alla donna in coda davanti a me che era
diretta alla bibliothèque. Aveva accompagnato le parole con un gesto, indicando un
posto dietro l'angolo. La fornaia le porse un libro con la copertina plastificata,
un romanzo. Mi affrettai a comperare la solita baguette e una quiche, senza
indulgere nell'abituale ostica conversazione con

Madame. Uscii in fretta e seguìi la donna nel suo quotidiano giro per i negozi. Mi
sedetti su una panchina e, fingendo di leggere il giornale, rimasi a guardarla
mentre si fermava a parlare con la gente e discuteva con i commercianti. Dopo aver
fatto tappa in diverse botteghe lungo tre dei quattro lati della piazza, a un
tratto scomparve sotto il porticato del

Comune. Chiusi subito il giornale e le corsi dietro, ma dovetti trattenermi


nell'atrio del municipio, fra pubblicazioni matrimoniali e avvisi di vario genere,
mentre saliva con fatica una lunga rampa di scale. Poi divorai gli scalini a due a
due e m'infilai nella stanza dove l'avevo vista entrare. Mi chiusi la porta alle
spalle e per la prima volta da quando abitavo in quella città mi ritrovai in un
luogo familiare.

Vi regnavano infatti la stessa aria un po' vetusta e la quiete che avevo sempre
amato nelle biblioteche del mio paese. Per quanto piccola, due sale appena, aveva
alti soffitti e numerose finestre che le donavano un aspetto insolitamente luminoso
per un edificio tanto vecchio. Al mio ingresso, molti dei presenti si voltarono a
guardarmi, ma grazie a Dio solo per un momento, dopodiché tornarono uno alla volta
a immergersi nella lettura o a chiacchierare fra loro a bassa voce.

Dopo aver dato un'occhiata in giro, mi avvicinai al bancone per richiedere la


tessera della biblioteca. Una bella donna di mezza età in un elegante abito color
oliva mi spiegò che avrei dovuto produrre un documento con sopra il mio indirizzo
in Francia, per dimostrare che risiedevo nel paese.

Sempre con molto tatto, mi indicò un dizionario francese-inglese in più volumi e


l'esigua sezione destinata ai volumi in lingua inglese.

La seconda volta che tornai in biblioteca trovai al posto della donna un tizio che
in quel momento era al telefono.

Fissava con gli occhi bruni socchiusi un punto della piazza e aveva un sorriso
sardonico dipinto sul viso spigoloso. Alto suppergiù come me, indossava un paio di
calzoni neri e una camicia bianca senza cravatta, con il colletto abbottonato e le
maniche arrotolate fino ai gomiti. Un lupo solitario, pensai sorridendo: meglio
stare alla larga.

Scartando dilato, mi diressi verso lo scaffale dei libri in inglese.

Sembrava che qualche turista avesse donato alla biblioteca la propria scorta di
letture d'evasione: era pieno di gialli e romanzetti sentimentali. C'era anche una
vasta scelta di libri di Agatha Christie. Ne trovai uno che non avevo letto, lo
presi, e passai subito a esaminare la narrativa francese. Madame Sentier mi aveva
consigliato Françoise Sagan, per un approccio indolore alla lettura in quella
lingua. Optai per Bonjour

Tristesse. Mentre mi avviavo verso il bancone, gettai un'occhiata al lupo solitario


e subito dopo ai due frivoli testi che avevo fra le mani. Tornai alla sezione
inglese e dopo una rapida ricerca presi anche Ritratto di signora.

Temporeggiai un po', leggiucchiando una copia di Paris Match, quindi mi diressi


verso il banco. Il bibliotecario mi squadrò con cura, fece i suoi conti in base ai
libri che avevo con me e disse in inglese, con un ghigno malcelato sulle labbra:
«La sua tessera?»

Che tu sia dannato, pensai. Mi seccava essere soppesata in quel modo, con la
presunzione che siccome ero straniera, un americana, di certo non sapevo una parola
di francese.

«Vorrei fare domanda per ottenere la tessera», risposi nel mio francese più
accurato, cercando di pronunciare ogni parola senza il minimo accento americano.
L'uomo mi porse un modulo. «Compili questo», mi ordinò, sempre in inglese.

Ero così arrabbiata che, nello spazio riservato al cognome, scrissi Tournier invece
che Turner. Poi gli misi davanti il modulo con aria di sfida, insieme alla patente,
la carta di credito e una lettera della banca con il nostro indirizzo in città. Il
bibliotecario diede un'occhiata ai documenti, quindi rimase a fissare la mia
richiesta, aggrottando le sopracciglia.

«Chi sarebbe questa signora Tournier?» domandò, picchiettando col dito sopra il mio
nome. «Lei si chiama Turner.

Giusto? Come Tina Turner».

Replicai in francese: «Sì, ma il nome della mia famiglia in origine era

Tournier. Lo cambiarono quando si trasferirono negli Stati Uniti. Nel


diciannovesimo secolo. Tolsero la "o"

e la "i" per farlo sembrare più americano». Era l'unico aneddoto della nostra
storia di cui fossi al corrente e ne andavo fiera, ma il lupo solitario non ne fu
troppo impressionato.

«Un sacco di famiglie si cambiano il cognome quando emigrano...» Mi feci piccola


piccola, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi beffardi.

«Lei si chiama Turner, per cui dovrà esserci scritto Turner sulla sua tessera».

Senza volerlo tornai alla mia lingua madre. «Io... dal momento che ora abitiamo qui
pensavo di riprendere il cognome Tournier».

«Però non esiste nessun documento intestato alla signora Tournier, vero?»

Scrollai la testa, fissando scura in volto la mia piccola pila di libri, i gomiti
stretti contro i fianchi. Ormai in preda allo sconforto, sentii che gli occhi mi si
stavano gonfiando di lacrime. «Non importa, non fa nulla», borbottai. Quindi,
stando bene attenta a non guardarlo in faccia, raccolsi in fretta la patente e il
resto, girai sui tacchi e guadagnai l'uscita.

Quella notte dovetti aprire la porta di casa per scacciare due gatti che si stavano
azzuffando nel vicolo.

Inciampai in una pila di libri posata sul gradino davanti alla porta: sopra c'era
una tessera per il prestito librario intestata a Ella

Tournier.

Non mi feci vedere in biblioteca, anche se sentivo di dover andare a ringraziare


quell'uomo. Non avevo ancora scoperto quale fosse il modo giusto per ringraziare i
miei nuovi concittadini. Quando andavo a comperare qualcosa, si profondevano in
mille salamelecchi sulla cui sincerità non avrei giurato. Non riuscivo ancora a
intuire le loro intenzioni dal tono della voce. Tuttavia il sarcasmo del
bibliotecario m'era parso più che evidente.

Non mi sembrava in grado di accogliere un ringraziamento con cortesia.

Qualche giorno dopo, mentre passeggiavo lungo il fiume, lo vidi seduto al sole
davanti al bar del ponte, dove avevo bevuto il mio primo caffè. Dava l'impressione
di essere come ipnotizzato dall'acqua che scorreva sotto di lui e io mi fermai,
indecisa se rivolgergli la parola. Mi stavo domandando se sarei riuscita a
passargli accanto senza che lui se ne accorgesse, quando sollevò lo sguardo e mi
sorprese a fissarlo. Non cambiò affatto espressione, pareva assorto in chissà quali
pensieri.

«Bonjour», dissi, sentendomi un po sciocca.

«Bonjour», rispose. Si mosse appena sulla sedia invitandomi con un gesto della mano
a sedermi accanto a lui.

«Café?»

Esitai per un momento. «Oui, s'il vous plait», dissi alla fine. Appena mi fui
seduta, l'uomo richiamò l'attenzione del cameriere.

Imbarazzata, mi misi a osservare il

Tarn evitando il suo sguardo. Era un gran fiume, largo un centinaio di metri, con
acque verdi che scorrevano placide al punto da sembrare immobili.

Guardando meglio però scorsi qua e là lievi increspature e notai chiazze di un


rosso ruggine che di tanto in tanto affioravano ribollendo, per poi dissolversi nel
verde. Affascinata, iniziai a seguire con gli occhi le scie rossastre.

Il cameriere venne a portarmi il caffè su un vassoio d'argento, impedendomi la


vista del fiume. Mi voltai verso il bibliotecario.

«Cos'è quel rosso nel Tarn?» chiesi in francese.

Mi rispose in inglese: «Depositi di argilla provenienti dalle colline. Nei giorni


scorsi una frana ha fatto emergere l'argilla che era sepolta in profondità. Ora si
sta riversando nel fiume».

I miei occhi furono di nuovo attirati dall'acqua. Sempre fissando le chiazze di


argilla, tornai all'inglese. «Qual è il suo nome?»

«Jean-Paul».

«Grazie per la tessera, Jean-Paul. È stato molto gentile da parte sua».

L'uomo si limitò a un'alzata di spalle e a quel punto fui felice di non essere
corsa subito a ringraziarlo.

Rimanemmo seduti in silenzio per un po', sorseggiando il caffè e guardando il


fiume. Eravamo alla fine di maggio e faceva già piuttosto caldo al sole. Mi sarei
tolta la giacca, ma non volevo che vedesse le chiazze della psoriasi sulle mie
braccia.

«Come mai non è in biblioteca?» chiesi all'improvviso.

Si girò verso di me. «Oggi è mercoledì. La biblioteca è chiusa».

«Ah. Da quanto ci lavora?»

«Tre anni. Prima ero alla biblioteca di Nimes».

«Così è questo il suo lavoro? È un bibliotecario?»

Mi gettò un'occhiata di sbieco, accendendosi una sigaretta. «Si.


Perché me lo chiede?»

«E' che... non ha l'aspetto del bibliotecario».

«Ah, no? E che aspetto ho?»

Lo guardai. Indossava un paio di jeans neri e una camicia color salmone.

Sullo schienale della sua sedia c'era una giacca nera. Aveva le braccia abbronzate
e gli avambracci coperti di peli.

«Sembra un gangster», risposi. «Le mancano solo gli occhiali da sole».

Jean-Paul accennò un sorriso e il fumo, uscendo dalla bocca, creò una cortina
azzurrognola intorno al suo viso.

«Com'è quel detto? "L'apparenza inganna"».

Ricambiai il sorriso. «Touché».

«Allora, cosa ti ha portato in

Francia, Ella Tournier?»

«Mio marito lavora come architetto a

Tolosa».

«E che ci fai qui?»

«Volevamo provare a vivere in una piccola città, invece che a Tolosa.

Prima stavamo a San Francisco e io sono cresciuta a Boston. Ci piaceva l'idea di


cambiare».

«Ma tu perché sei qui?»

«Oh». Tacqui per un istante. «Perché c'è mio marito».

Inarcò le sopracciglia, spegnendo la sigaretta.

«Ma è stata anche una mia scelta. Mi piaceva questo posto».

«Ti piaceva. Perché, ora non ti piace più?»

Sbuffai. «Il tuo inglese è perfetto.

Dove l'hai imparato?»

«Ho vissuto a New York per due anni.

Mi sono laureato in tecnica bibliotecaria alla Columbia

University».

«Hai abitato a New York e poi sei tornato qui?»

«Sì, prima a Nimes e poi qui». Fece un sorrisetto. «Che c'è di strano, Ella
Tournier? È il mio paese».

Avrei voluto che smettesse di chiamarmi in quel modo.

Mi guardava con l'aria canzonatoria che avevo visto sul suo volto in biblioteca.
Un'espressione indecifrabile, condiscendente. Mi sarebbe piaciuto vedere la sua
faccia mentre scriveva il mio nome sulla tessera. Forse anche in quel momento s'era
sentito superiore.

Mi alzai di colpo, frugando nella borsa in cerca di qualche spicciolo.

«È stato un piacere parlare con te, ora però devo andare». Posai le monete sul
tavolino. Jean-Paul le guardò aggrottando le sopracciglia e scosse la testa in modo
quasi impercettibile.

Arrossii. Ripresi subito le monetine e feci per allontanarmi.

«Au revoir, Ella Tournier. Goditi il tuo Henry James».

Mi voltai verso di lui. «Perché continui a chiamarmi così?»

L'uomo si appoggiò allo schienale e il sole gli inondò il viso, impedendomi di


cogliere la sua espressione. «Così ti ci abituerai. E allora diventerà davvero il
tuo nome».

A causa dello sciopero delle poste, la risposta di mio cugino arrivò soltanto il
primo di giugno, circa un mese dopo che gli avevo scritto. Due pagine fitte, a
caratteri grossi e quasi indecifrabili. Iniziai a leggerla con l'aiuto del
vocabolario, ma si rivelò un'impresa ardua. Dopo aver cercato invano un gran numero
di parole, mi arresi e decisi di servirmi del dizionario in più volumi che avevo
visto in biblioteca.

Quando entrai, Jean-Paul stava parlando con un tizio dietro il bancone. Nulla era
cambiato nel suo atteggiamento, aveva sempre la solita espressione canzonatoria.
Però notai, con una soddisfazione che non mancò di sorprendermi, che mi aveva
guardato mentre gli passavo davanti. Presi il dizionario e mi sistemai a uno dei
tavolini dandogli le spalle, un po' in collera con me stessa per l'attenzione che
continuavo a dedicare a quello sconosciuto.

Il grosso dizionario si rivelò più utile del mio, ma c'erano ancora parole che non
riuscivo a trovare e altre che addirittura non riuscivo a leggere. Dopo essere
rimasta per quindici minuti a lottare con un paragrafo, mi appoggiai allo
schienale, stordita e amareggiata. In quella vidi JeanPaul appoggiato alla parete,
che mi fissava con aria divertita. Mi venne voglia di prenderlo a schiaffi. Mi
alzai di scatto e gli porsi la lettera in modo sgarbato, borbottando:

«Forza, leggila tu, se ne sei capace!»

«Lasciamela», disse il bibliotecario dopo aver dato una rapida occhiata al testo.
«Ci vediamo al bar mercoledì».

Il mercoledì mattina lo trovai seduto al medesimo tavolino, sulla medesima sedia


della volta precedente, solo che questa volta il cielo era nuvoloso e nell'acqua
non vi era traccia di ribollenti chiazze di argilla. Mi sedetti di fronte a lui con
il fiume alle spalle, invece che nella sedia accanto, in modo che fossimo costretti
a guardarci in faccia. Da lì potevo vedere l'interno del bar: non c'era nessuno e
il cameriere stava leggendo il giornale. Sollevò lo sguardo quando vide che mi
sedevo e appena lo chiamai con un cenno del capo lo chiuse.
Aspettammo in silenzio che ci portasse i caffè. Non avevo proprio la forza di
chiacchierare. Eravamo nel periodo strategico del mese e il sogno mi aveva
svegliato per tre notti di seguito. Tutte e tre le volte non ero più riuscita a
prendere sonno ed ero rimasta lì sdraiata, ora dopo ora, ad ascoltare il respiro
tranquillo di

Rick. Avevo cercato di recuperare facendo un pisolino nel pomeriggio, ma era


servito soltanto a rendermi ancora più stanca e confusa. Cominciavo a capire
l'orribile aspetto che hanno sempre le giovani mamme: le loro facce sono sconvolte
e devastate perché derubate del sonno.

Dopo il caffè, Jean-Paul posò sul tavolo la lettera di mio cugino, Jacob

Tournier. «Contiene alcune espressioni tipiche del francese che si parla in

Svizzera», spiegò. «Non potevi capirle. Inoltre la calligrafia è poco chiara, anche
se ho visto di peggio».

Poi mi porse una paginetta con la traduzione, scritta in modo ordinato.

Mia cara cugina, che piacere ricevere la tua lettera! Ricordo bene tuo padre e la
sua breve visita a Moutier di tanto tempo fa. Sono lieto di fare la conoscenza di
sua figlia.

Scusami se rispondo così in ritardo alle tue domande, ma sono dovuto andare a
riguardare i vecchi appunti di mio nonno. Infatti, devi sapere che il nonno aveva
una grande passione per la storia della nostra famiglia, cui aveva dedicato
ricerche approfondite.

Era perfino riuscito a ricostruire il nostro albero genealogico ma è difficile


leggerlo o copiarlo in una lettera, per cui dovrai venire a trovarci se vuoi
vederlo.

Posso tuttavia riferirti alcuni fatti di cui sono a conoscenza. Il primo

Tournier di cui si abbia notizia a

Moutier è un certo Etienne, citato in un elenco militare datato 1576. Un altro


Etienne, figlio di Jean Etienne e Marthe Rougemont, compare fra i battezzati nel
1590. Sono poche le testimonianze risalenti a quell'epoca, ma in seguito le
citazioni relative ai

Tournier si fanno numerose e a partire dal diciottesimo secolo l'albero genealogico


abbonda di ramificazioni.

I Tournier sono stati sarti, tavernieri, fabbricanti di orologi, maestri di scuola.


Un Jean Tournier fu perfino eletto sindaco all'inizio del diciannovesimo secolo.

Mi hai chiesto delle nostre radici francesi. Mio nonno a volte diceva che la nostra
famiglia è originaria della Cévennes.

Non so da dove gli provenisse questa informazione.

Mi fa piacere che sia interessata alla nostra storia e spero che possa venire
presto a farci visita insieme a tuo marito. Un nuovo membro della famiglia Tournier
è sempre il benvenuto a Moutier.

Tuo, Jacob Tournier


Sollevai lo sguardo dalla traduzione.

«Dov'è Cévennes?»

Jean-Paul indicò un punto alle mie spalle. «A nordest.

E' la regione montuosa sopra

Montpellier, a ovest della Rhòne. E' attraversata in parte dal fiume Tarn».

Mi aggrappai all'unica nozione geografica di cui disponevo. «Questo

Tarn?» dissi, e indicai col mento il fiume che scorreva ai nostri piedi, sperando
che Jean-Paul non si fosse accorto che avevo preso la Cévennes per una città.

«Sì. Ma ha un aspetto molto diverso verso oriente, vicino al luogo dove nasce. E'
assai più piccolo e impetuoso».

«E dov'è la Rhòne?»

Gettandomi un'occhiata spazientita, il bibliotecario cercò la penna che aveva nella


tasca della giacca e tratteggiò i contorni della Francia su un tovagliolo di carta.
Quella figura mi fece venire in mente una testa di mucca: le due punte a nordest e
nordovest erano le orecchie, la sommità settentrionale il ciuffo di peli sopra la
testa, il confine con la

Spagna il muso tozzo. Indicò con dei puntini Parigi, Tolosa, Lione,

Marsiglia e Montpellier mentre dei ghirigori verticali e orizzontali


rappresentavano la Rhòne e il Tarn.

Dopo aver riflettuto un momento, aggiunse un puntino accanto al Tarn a destra di


Tolosa: quella era

Lisle-sur-Tarn.

Alla fine segnò con un cerchio una parte della guancia della mucca, proprio sopra
la Riviera. «Qui c'è la

Cévennes».

«Vuoi dire che i Tournier sono originari di un posto qui vicino?»

Jean-Paul fece una specie di fischio.

«Da qui alla Cévennes ci saranno almeno duecento chilometri. Ti sembra vicino?»

«Per un americano lo è», risposi un po' risentita, pur sapendo che avevo posto a
mio padre la medesima obiezione. «Un americano può tranquillamente farsi cento
miglia di automobile solo per andare a un party.

Però è una bizzarra coincidenza che in un paese così grande», aggiunsi indicando la
testa di mucca, «i miei antenàti fossero di una regione non troppo lontana dal
posto dove ho deciso di venire a vivere».

«Una bizzarra coincidenza», ripeté

Jean-Paul con un tono che mi fece subito pentire di aver usato quell'aggettivo.
«Comunque, visto che non è così distante, non dovrebbe essere troppo difficile
scoprire qualcosa di più sui

Tournier». Ricordavo quello che mi aveva detto Madame Sentier: conoscere le mie
radici francesi mi avrebbe aiutato a sentirmi a casa mia.

«Potrei andare laggiù e...»

M'interruppi. Già, cosa avrei dovuto fare esattamente?

«Be', stando a tuo cugino, il fatto che i Tournier venissero dalla

Cévennes è solo una diceria familiare, non un dato certo. Non c'è niente di
concreto». Jean-Paul si appoggiò allo schienale e muovendosi con scioltezza scrollò
il pacchetto delle sigarette, ne estrasse una e l'accese. «E poi hai già scoperto
questi antenàti svizzeri, esiste perfino un albero genealogico che risàle fino al
1576. Sono poche le famiglie che conoscono così bene la loro storia. Non ti basta?»

«Mi piacerebbe scavare ancora un po'.

Fare qualche ricerca. Che ne so, frugare fra i documenti, o cose del genere».

Mi guardava divertito. «Che genere di documenti, Ella Tournier?»

«Non lo so... atti di nascita, di morte, di matrimonio.

Roba del genere».

«E dove pensi di trovarli?»

Allargai le braccia. «Questo è il tuo lavoro! Sei tu il bibliotecario qui!»

«Ok». Jean-Paul assunse un contegno più serio, ora che avevo fatto appello alla sua
professionalità. Si sistemò sulla sedia. «Potresti iniziare dagli archivi di Mende,
la capitale della

Lozère, uno dei departements della

Cévennes. Ma non credo che tu ti renda conto delle difficoltà, quando parli di
"ricerca". Intanto i documenti del sedicesimo secolo sono piuttosto rari.

In quell'epoca gli atti non venivano registrati in modo sistematico come avvenne
dopo la Rivoluzione.

Certo, esistevano già gli archivi parrocchiali, ma furono in gran parte distrutti
durante le guerre di religione. E andarono perduti soprattutto i documenti relativi
agli ugonotti.

Per cui è improbabile che tu riesca a scoprire qualcosa sui Tournier, andando a
Mende».

«Aspetta un momento. Come fai a sapere che erano... ugonotti?»

«La maggior parte dei francesi che passavano in Svizzera in quegli anni erano
ugonotti in cerca di un posto sicuro in cui vivere, oppure diretti a

Ginevra dove risiedeva Calvino.

Vi furono due grosse ondate di emigrazione, nel 1572 e nel 1685, all'indomani della
Strage di San

Bartolomeo e dopo l'abrogazione dell'Editto di Nantes. Puoi trovarne notizia in


biblioteca. Non vorrai mica che faccia tutto io?» concluse in tono scherzoso.

Ignorai la battuta. Ero affascinata dall'idea di esplorare quella parte della


Francia dove forse avevano vissuto i miei avi. «Allora pensi che valga la pena di
andare a controllare nell'archivio di Mende?» chiesi piena di ingenuo ottimismo.

«No», rispose asciutto Jean-Paul, soffiando il fumo nell'aria.

La mia delusione dovette essere palese, perché lui picchiò sul tavolino con gesto
impaziente. «Su col morale, Ella Tournier. Non è così facile scoprire il passato.
Voi americani venite qui in cerca delle vostre radici e pretendete di farcela in
una giornata, non è vero? Fate una bella fotografia e vi sentite a posto: ecco che
siete diventati francesi per un giorno, giusto? L'indomani siete pronti a cercare i
vostri antenàti in un altro paese. Vi comportate come se il mondo appartenesse solo
a voi e alla vostra famiglia».

Presi la borsa e mi alzai di scatto.

«Ti stai divertendo, vero?» dissi bruscamente. «Grazie per il consiglio.

Ho imparato un sacco di cose sull'ottimismo dei francesi». Gettai sul tavolino una
moneta che rotolò oltre il gomito di Jean-Paul prima di cadere a terra, rimbalzando
un paio di volte sul marciapiede.

Stavo per allontanarmi, ma Jean-Paul mi toccò il gomito. «Aspetta, Ella.

Non te ne andare. Non volevo farti arrabbiare. Cercavo solo di essere realistico».

Mi voltai verso di lui. «Perché dovrei restare? Sei un disfattista e arrogante per
di più. Non fai che prendermi in giro. Manifesto una lieve curiosità per i miei
antenàti francesi e sembra quasi che voglia farmi tatuare la bandiera della Francia
sulle chiappe. E' già abbastanza duro vivere qui senza che tu mi faccia sentire
ancora più estranea». Feci per andarmene, ma mi accorsi che stavo tremando. Mi
girava la testa al punto che dovetti appoggiarmi al tavolino.

Jean-Paul balzò in piedi e mi avvicinò una sedia. Mentre mi ci lasciavo cadere


sentii che chiamava il cameriere: «Un verre d'eau, Dominique, vite, s'il te plait».

Lacqua e dei respiri profondi mi aiutarono a riprendermi. Ero tutta rossa e sudavo,
così cominciai a sventolarmi il viso con le mani.

Seduto davanti a me, Jean-Paul mi guardava con attenzione.

«Forse è meglio se ti togli la giacca», suggerì con voce calma e, per la prima
volta da quando l'avevo conosciuto, gentile.

«Io...» Non era il momento di fare la pudica ed ero troppo stanca per mettermi a
discutere. La mia rabbia contro di lui era svanita nel momento stesso in cui mi ero
rimessa a sedere.

Mi tolsi la giacca sia pur con riluttanza.

«Ho la psoriasi», annunciai con naturalezza, cercando di prevenire il suo imbarazzo


per lo stato in cui versavano le mie braccia.

«Il dottore dice che è dovuta allo stress e alla mancanza di sonno».
Jean-Paul si mise a osservare le chiazze di pelle squamosa, quasi si trattasse di
un'opera d'arte moderna.

«Perché non dormi?» chiese.

«Ho gli incubi. Anzi un incubo, sempre lo stesso».

«Ne hai parlato con tuo marito? Con i tuoi amici?»

«Non l'ho detto a nessuno».

«Perché non ti confidi con tuo marito?»

«Non voglio che pensi che sono infelice». Evitai di aggiungere che temevo che Rick
si sentisse a disagio per il collegamento fra il sesso e quel brutto sogno.

«Ma sei infelice?»

«Sì», dissi d'istinto, guardandolo negli occhi e a un tratto mi sentii più


sollevata.

Annuì. «Allora, com'è quest'incubo?

Descrivimelo».

Mi voltai verso il fiume. «Ne ricordo soltanto dei frammenti. Non è una storia
coerente. C'è questa voce.., no, le voci sono due, una parla in francese, l'altra
grida, delle grida isteriche. E tutto avviene in mezzo alla nebbia, un aria pesante
e densa, come l'acqua. E alla fine si sente un tonfo, come una porta che si chiude.

Ma soprattutto c'è questo colore azzurro. Ovunque. Non so neppure perché mi


spaventi così tanto. Però ogni volta che faccio questo sogno, mi viene voglia di
tornare a casa. È l'atmosfera a terrorizzarmi, non quello che succede. Il fatto che
continua a ripetersi, che non vuole andar via, il timore che rimarrà con me tutta
la vita. E' questa la cosa peggiore». Mi fermai. Non mi ero resa conto del bisogno
che avevo di sfogarmi.

«Vorresti tornare negli Stati Uniti?»

«A volte. Poi però mi arrabbio con me stessa: non posso aver paura di un sogno!»

«Com'è questo azzurro? Così?»

Jean-Paul indicò l'insegna di una marca di gelati. Scrollai la testa.

«No. Non è così luminoso. Voglio dire, l'azzurro del sogno è luminoso.

Un colore vivace. Però al tempo stesso è cupo. Non conosco il termine tecnico per
descriverlo.

Riflette molto la luce. È bellissimo, ma nel sogno mi riempie di tristezza.

E anche di emozione. Quasi avesse due facce quell'azzurro. È buffo che lo ricordi
così bene. Avevo sempre pensato di sognare in bianco e nero».

«E le voci? Chi sono?»

«Non lo so. A volte sono io. Mi capita di svegliarmi subito dopo aver pronunciato
quelle parole. Riesco quasi a sentirne l'eco nella stanza silenziosa».

«Che parole sono? Cos'è che dici?»

Rimasi a pensare per un minuto, poi scossi la testa. «Non mi ricordo».

Jean-Paul mi guardò fisso. «Fai uno sforzo. Chiudi gli occhi».

Feci come diceva, immobile sulla sedia, con Jean-Paul seduto al mio fianco. Stavo
giusto per rinunciare, quando un frammento riemerse nella mia mente. «je suis un
pot cassé», esclamai all'improvviso. Riaprìi gli occhi. «Sono un vaso rotto? Ma che
vuol dire?»

Jean-Paul sembrava stupefatto.

«Non ricordi altro?»

Tornai a chiudere gli occhi. «Tu es ma tour et forteresse», mormorai.

Aprendo gli occhi, vidi Jean-Paul assorto, la fronte corrugata per la


concentrazione. Di certo si stava aggirando fra i meandri della sua memoria,
vagliando e scartando, finché qualcosa scattò dentro di lui e si voltò verso di me.
Fissando l'insegna blu dei gelati, iniziò a recitare in francese:

Son diventato un obbrobrio, un grande obbrobrio ai miei vicini, uno spavento ai


miei conoscenti.

Quelli che mi veggono, fuggon lungi da me.

Io son del tutto dimenticato, come un morto.

Son simile a un vaso rotto.

Sentendo queste parole, fui presa da un forte senso di angoscia, che mi serrava la
gola e mi gonfiava gli occhi di lacrime.

Mi tenevo stretta ai braccioli della sedia, premendo forte le spalle contro lo


schienale, come se mi sentissi minacciata. Alla fine deglutii per allentare il nodo
che sentivo in gola.

«Cos'è?» mormorai.

«Il salmo 31».

Aggrottai le sopracciglia. «Un salmo?

Della Bibbia?»

«Sì».

«Ma come potevo conoscerlo? Non ho mai letto i salmi, neppure in inglese!

Figuriamoci in francese. Eppure quei versi mi sono familiari. Devo averli già
sentiti da qualche parte. E tu come fai a conoscerli?»

«Li ho imparati in chiesa. Quand'ero ragazzo ce li facevano mandare a memoria. Poi


li ho incontrati di nuovo durante gli studi».

«Si studiano i salmi per laurearsi in tecnica bibliotecaria?»


«No, no. Prima mi ero iscritto a

Storia. Storia della Languedoc. È questa la mia vera materia».

«Cosa sarebbe la Languedoc?»

«L'area geografica che ci circonda. Da

Tolosa ai Pirenei, fino alla Rhòne».

Tornò al tovagliolino di carta e fece un altro cerchio che comprendeva al suo


interno quello più piccolo della

Cévennes e buona parte del collo e del muso della mucca. «Prese il nome dalla
lingua che vi si parlava un tempo. Oc era l'equivalente dell'attuale oui.

Langue d'oc: lingua dell'oc».

«E che centra quel salmo con la

Languedoc?»

«Be', in effetti è un po' strano», disse Jean-Paul dopo un attimo di esitazione.


«Era il salmo che gli ugonotti erano soliti recitare quando succedeva qualche
disgrazia».

Quella sera, dopo cena, mi decisi a raccontare il sogno anche a Rick,


descrivendogli per filo e per segno l'azzurro, le voci, l'atmosfera. A onor del
vero, sorvolai su alcune cose: non gli dissi che avevo approfondito la questione
con

Jean-Paul, che le parole del sogno appartenevano a un salmo, che avevo l'incubo
soltanto dopo aver fatto sesso. Siccome dovevo stare bene attenta a ciò che dicevo,
il racconto finì per essere molto misurato, perdendo la carica liberatoria che
aveva avuto con Jean-Paul, quando era sgorgato spontaneamente. Non era per sfogarmi
che descrivevo il sogno questa volta, ma per aiutare Rick a capire. Dovetti
presentarlo come una storia coerente e in tal modo la vicenda iniziò a staccarsi da
me, assumendo una sua identità fantastica.

E fu così che la prese Rick. Insomma, sarà anche stato per il mio modo di
raccontare, ma avevo l'impressione che mi ascoltasse soltanto a metà, prestando
attenzione nel contempo ad altre cose, la radio che suonava in sottofondo, le voci
provenienti dal vicolo. Inoltre, a differenza di

JeanPaul, Rick non faceva domande.

«Mi stai ascoltando?» domandai a un certo punto, allungando un braccio per tirargli
il codino.

«Naturalmente. Ti capita di avere degli incubi che hanno a che fare con l'azzurro».

«Volevo che tu lo sapessi. È per questo che sono sempre così stanca di recente».

«Dovresti svegliarmi quando ti succede».

«Hai ragione», dissi, ma sapevo che non l'avrei fatto. Se fossimo stati in

California l'avrei chiamato fin dalla prima volta. Ma qualcosa era cambiato.
Siccome Rick pareva sempre lo stesso, dovevo per forza essere io.

«Come va col francese?»

Mi strinsi nelle spalle, infastidita perché aveva cambiato discorso.

«Ok. No. Un disastro. No.

Non lo so. A volte mi domando se sarò mai in grado di far nascere bambini qui in
Francia. Quel giorno non sono riuscita a dire la cosa giusta e il bambino per poco
non soffocava. Se non riesco neanche a fare una cosa del genere, come potrò
assistere una donna durante il parto?»

«Veramente a casa facevi partorire donne di lingua spagnola e te la cavavi


benissimo».

«È diverso. Quelle donne magari non parlavano l'inglese ma nemmeno si aspettavano


che io parlassi lo spagnolo.

E poi negli ospedali di qui tutti i macchinari, le medicine e il resto hanno


soltanto scritte in francese».

Rick si chinò in avanti, allontanò il piatto e piantò i gomiti sul tavolo.

«Ehi, Ella? Che ne è stato del tuo ottimismo? Non è che vuoi metterti anche tu a
fare la francese, vero? Ne ho già abbastanza sul lavoro».

Pur sapendo che avevo appena criticato

Jean-Paul per il suo pessimismo, mi ritrovai a ripetere le sue stesse parole:

«Cercavo solo di essere realistica».

«Sì, proprio come dicono nel mio studio».

Aprii la bocca, pronta a rispondergli in modo tagliente, ma mi fermai. Era vero: da


quando stavamo in Francia il mio ottimismo era diminuito. Forse stavo assorbendo la
natura cinica e disincantata della gente in mezzo a cui vivevamo. Rick aveva sempre
avuto un approccio positivo, era stata la chiave del suo successo professionale.

Per questo quell'impresa francese l'aveva contattato, per questo ora ci trovavamo
lì. Chiusi la bocca, ingoiando lo sconforto e le mie parole.

Quella notte facemmo l'amore e Rick fu ben attento a evitare le piaghe sulle mie
braccia. Poi rimasi sveglia, in attesa del sonno e del sogno. E infatti tornò, ma
questa volta meno vago e sfumato del solito. Non aveva mai avuto contorni tanto
precisi.

L'azzurro mi sovrastava come un drappo lucente e, ondeggiando, rivelò una trama,


una sagoma definita. Mi svegliai con le guance rigate di lacrime, la mia stessa
voce come un sospiro nelle orecchie. Rimasi immobile.

«Una veste», mormorai. «Era una veste».

La mattina seguente mi precipitai in biblioteca. Dietro il bancone però non trovai


Jean-Paul ma la signora elegante che avevo visto la prima volta. Dovetti voltarmi
per nascondere la delusione e mi misi a vagare per le due sale, seguìta dallo
sguardo attento della bibliotecaria. Alla fine mi decisi a chiederle se più tardi
avrei potuto trovare il suo collega.

«Oh, no», fece lei, marcando appena le sopracciglia. «Starà via per qualche giorno.
E' andato a Parigi».

«A Parigi? Ma perché?»

La donna parve piuttosto sorpresa dalla mia domanda. «Be', sua sorella si sposa.
Tornerà dopo il fine settimana».

«Oh. Merci», dissi e me ne andai.

Chissà perché mi pareva impossibile che Jean-Paul potesse avere una sorella, una
famiglia. Dannazione, pensavo, scendendo in fretta le scale e uscendo nella piazza.
Accanto alla fontana c'era la Madame della boulangerie intenta a conversare con la
donna che mi aveva rivelato l'esistenza della biblioteca. Smisero subito di parlare
e rimasero a fissarmi per un bel pezzo prima di distogliere lo sguardo. Al diavolo,
pensai. Non mi ero mai sentita tanto emarginata in vita mia, pur avendo sempre
addosso gli occhi di tutti.

Quella domenica fummo invitati a pranzo da uno dei colleghi di Rick. Si trattava
del primo vero evento mondano da quando vivevamo in Francia, a parte le rare volte
che avevamo bevuto qualcosa con la gente che Rick frequentava per motivi di lavoro.
La cosa mi rendeva inquieta, soprattutto la scelta dell'abito. Non sapevo cosa
potesse significare per i francesi il pranzo della domenica, se si trattava di un
incontro formale o amichevole.

«Devo vestirmi bene?» continuavo a chiedere a Rick, in cerca di aiuto.

«Vestiti come ti pare», era la sua risposta tutt'altro che illuminante.

«Per loro è lo stesso».

Ma non è lo stesso per me, pensavo, se indosso la cosa sbagliata.

Inoltre avevo il problema delle braccia: era una giornata calda, ma non mi andava
l'idea che si gettassero occhiate furtive alla mia pelle cosparsa di macchie. Alla
fine optai per un abitino grigio senza maniche che mi arrivava a metà polpaccio e
una giacca bianca di lino. Ero convinta che vestita in quel modo sarei stata a mio
agio in ogni caso, ma quando i nostri ospiti ci accolsero sulla soglia della loro
grande casa e vidi

Chantal in jeans e maglietta bianca e

Olivier addirittura in bermuda color cachi, mi sentii troppo elegante e impacciata


a un tempo. Mi rivolsero entrambi un sorriso di cortesia e sorrisero di nuovo
quando porgemmo loro i fiori e il vino che avevamo portato, ma notai che Chantal
abbandonò subito i fiori, ancora avvolti nella carta, sulla credenza in sala da
pranzo, mentre la bottiglia che avevamo scelto con tanta attenzione sparì chissà
dove.

Avevano due figli, un maschio e una femmina, che si rivelarono così silenziosi ed
educati che non ebbi neppure modo di scoprire come si chiamassero. Al termine del
pranzo si alzarono e scomparvero all'interno della casa, quasi obbedendo al
richiamo di una campanella che solo i bambini potevano sentire.

Probabilmente erano andati a guardare la televisione e in cuor mio avrei tanto


voluto raggiungerli: trovavo spossante e a volte perfino avvilente la conversazione
fra adulti. Rick e
Olivier discussero quasi sempre di lavoro, in inglese, mentre io e

Chantal imbastimmo una goffa chiacchierata, mescolando francese e inglese. Io mi


sforzavo di usare la sua lingua, ma appena avevo qualche difficoltà lei passava
subito all'inglese. A quel punto sarebbe stato da maleducati insistere col
francese, così continuavo anch'io nella mia lingua madre, ma alla prima occasione
tornavo al francese, cambiando argomento. Insomma s'instaurò fra noi una sorta di
garbato duello linguistico, e credo che dentro di sé Chantal fosse felice di dar
prova del suo ottimo inglese a fronte del mio francese zoppicante.

Per di più non era il tipo da perdere tempo in chiacchiere: nel giro di dieci
minuti aveva toccato le più importanti questioni della politica internazionale, e
pareva un po seccata che io non avessi un'opinione ben definita su ogni problema.

Sebbene Rick non si sforzasse affatto di parlare la loro lingua, sia Olivier che
Chantal pendevano dalle sue labbra, mentre quasi non si curavano di ascoltare me,
nonostante i miei tentativi di comunicare con loro.

Detestavo sentirmi in competizione con

Rick: negli Stati Uniti non mi era mai capitata una cosa del genere.

Ce ne andammo nel tardo pomeriggio, fra baci di cortesia e la promessa da parte


loro di venirci a trovare a

Lisle.

Sai che divertimento, pensavo mentre tornavamo a casa in macchina. Appena ci fummo
allontanati mi tolsi la giacca bagnata di sudore. Nel mio paese, in compagnia degli
amici, non me ne sarebbe importato nulla dell'aspetto delle mie braccia.

D'altro canto se fossi rimasta là, non mi sarebbe venuta la psoriasi.

«Sono simpatici, non trovi?» disse a un tratto Rick, dando inizio al nostro
abituale rendiconto.

«Sì, però hanno ignorato il vino e i fiori».

«E' vero, ma con una cantina come la loro non mi meraviglia affatto! Hai visto che
casa?»

«Non intendevo riferirmi ai beni materiali».

Rick mi gettò un'occhiata di traverso.

«Non mi sembravi troppo felice con loro, amore. C'è qualcosa che non va?»

«Non lo so. Mi sento... mi sento fuori posto, tutto qui.

Non riesco a parlare con la gente. Da quando siamo arrivati, l'unico con cui ho
avuto un vero scambio, a parte

Madame Sentier, è stato Jean-Paul, e anche con lui non è una conversazione normale.
Sembra più una battaglia, sembra un...»

«Chi è Jean-Paul?»

Mi sforzai di apparire naturale. «Uno dei bibliotecari di Lisle. Mi sta aiutando a


indagare sulla storia della mia famiglia. In questi giorni è via», aggiunsi con
noncuranza.

«E cosa avete scoperto, voi due?»

«Non molto. Il poco che mi ha comunicato mio cugino che vive in

Svizzera. Ero convinta che conoscendo più a fondo le mie radici francesi mi sarei
sentita più a mio agio in questo paese, ma ora so che mi sbagliavo. La gente
continua a vedermi come un'americana».

«Ma tu sei americana, Ella».

«Sì, lo so. Ma un po' devo cambiare, se vogliamo restare qui».

«Perché?»

«Perché? Perché... altrimenti sembro troppo diversa. La gente si aspetta che mi


comporti in un certo modo, qui tutti vogliono che diventi come loro.

E in ogni caso non posso evitare di subire l'influenza dell'ambiente che mi


circonda, delle persone, del loro modo di pensare e di parlare.

Finirà per rendermi diversa, almeno un poco».

Rick mi osservava perplesso. «Ma tu sei già te stessa», disse, cambiando corsìa
così bruscamente che le macchine dietro di noi suonarono i clacson indignate. «Non
devi cambiare per far piacere agli altri».

«Non è questo che intendo. E' che devo adattarmi. Ad esempio, nei bar di qui non
servono il caffè decaffeinato, così mi sto abituando a bere meno caffè o a non
berlo affatto».

«La mia segretaria mi fa il caffè decaffeinato, in studio».

«Rick...» M'interruppi e contai fino a dieci. Ebbi l'impressione che non avesse
voluto cogliere le mie metafore, di proposito, in nome del suo caparbio ottimismo.

«Credo che saresti molto più felice se non ti preoccupassi così tanto degli altri.
Le persone impareranno ad amarti per quello che sei».

«Può darsi». Mi misi a guardare fuori dal finestrino.

Quella era la specialità di Rick: fregarsene della gente ed essere accettati


comunque. Il codino ad esempio: lo portava con tanta disinvoltura che nessuno si
girava a guardarlo, né lo giudicava eccentrico.

Invece io, per quanto mi sforzassi di apparire normale, attiravo gli sguardi di
tutti come un grattacielo che spicca dalle case.

Rick dovette fermarsi in studio per un'oretta. Avevo pensato di aspettarlo leggendo
o giocando con uno dei loro computer, ma ero tanto di malumore che decisi di andare
a fare due passi. Lo studio era proprio nel centro di

Tolosa ed essendo domenica le antiche viuzze del borgo erano piene di gente che
passeggiava guardando le vetrine delle boutique. Mi misi a vagare a mia volta,
osservando quegli abiti di gran classe, i gioielli, la raffinata lingerie. Il culto
dei francesi per la biancheria intima non mancava mai di stupirmi, perfino una
piccola città come Lisle-sur-Tarn aveva un negozio specializzato in quel genere di
articoli. Per me era difficile immaginare di indossare gli indumenti esposti in
quelle vetrine, con quell'intreccio di nastri, trine e motivi che disegnavano una
sorta di mappa erotica del corpo.

Una malizia organizzata che trovavo molto lontana dalla mentalità americana.

In effetti le donne francesi che avevo intorno erano così diverse da me che quasi
mi sembrava d'essere invisibile, uno spettro scarmigliato che si faceva da parte
per lasciarle passare. Le signore a passeggio per Tolosa indossavano giacche
insieme ai jeans, le orecchie e le gole ornate da pezzi d'oro massiccio. Avevano
tutte le scarpe coi tacchi, acconciature perfette e assai costose, le sopracciglia
lisce e depilate, la pelle candida e immacolata. Mi pareva di vederle con
sofisticati reggiseni, sottovesti di seta che arrivavano alla coscia, calze a rete,
autoreggenti.

Prendevano tutte estremamente sul serio la propria immagine. Camminando, mi sentivo


addosso i loro occhi che mi osservavano di nascosto, esaminando i miei capelli
lunghi fino alle spalle e tagliati in modo irregolare, il volto struccato, la
giacca di lino stazzonata, i sandali bassi e colorati che m'erano sembrati tanto
alla moda a

San Francisco.

Ero sicura di vedere la compassione dipinta sui loro volti.

Si vede che sono americana? pensavo. È così evidente?

Lo era. Io stessa riconobbi una coppia di miei connazionali di mezza età a un


chilometro di distanza, dal modo in cui erano vestiti e si muovevano.

Stavano guardando del cioccolato in una vetrina e, mentre passavo loro accanto, li
sentii confabulare circa l'opportunità di tornare il giorno seguente ad acquistarne
un po' da portare a casa.

«Non è che si scioglierà sull'aeroplano?» chiese la donna.

Aveva i fianchi alquanto appesantiti e indossava una camicia celeste che le andava
larga, pantaloni e scarpe da ginnastica. Se ne stava davanti alla vetrina con le
gambe divaricate, le ginocchia rigide.

«No, tesoro, fa freddo a diecimila metri. Non si scioglierà. Però potrebbe rimanere
schiacciato. Sarà meglio che cerchiamo qualcos'altro come souvenìr». L'uomo aveva
una pancia imponente, sottolineata ancora di più dalla cintura che la strizzava
dividendola in due. Non indossava il berretto da baseball per puro caso.

Probabilmente l'aveva lasciato in albergo.

Si voltarono a guardarmi con un gran sorriso, le facce illuminate dalla speranza e


dalla nostalgia a un tempo.

Tanto candore mi fece stare male.

M'infilai in un vicoletto.

Udii l'uomo alle mie spalle che diceva in inglese: «Mi scusi, signorina, sì-viù-
plei». Non mi voltai. Mi sentivo come una bambina che si vergogna dei genitori
davanti ai suoi amici.

In fondo al vicoletto c'era un museo, il Musée des Augustins, un antico edificio in


mattoni che ospitava una raccolta di dipinti e sculture. Mi guardai intorno: la
coppia non mi aveva seguito. M'infilai dentro.

Dopo aver pagato il biglietto mi ritrovai in un chiostro tranquillo e assolato, con


le statue allineate lungo il porticato e al centro un grazioso giardino con fiori,
erbe e ortaggi. Dopo aver fatto il giro del porticato, dove trovai una bella serie
di cani di pietra che parevano ululare gioiosamente, i nasi all'insù, andai a
camminare nel giardino, ammirando le piante di fragole, le ordinate file di
lattuga, gli arbusti di salvia e artemisia, tre tipi diversi di menta, il folto
cespuglio di rosmarino. Mi sedetti e mi tolsi la giacca, lasciando che la psoriasi
assorbisse la luce del sole. Rimasi lì seduta per un po', senza pensare a niente.

Poi andai a visitare la chiesa adiacente al chiostro. Era una costruzione enorme,
grande quanto una cattedrale, ma priva delle panche e dell'altare e con le pareti
coperte di quadri. Non m'era mai capitato di vedere una chiesa trasformata in
galleria d'arte. L'immenso spazio vuoto incombeva sopra i dipinti e pareva quasi
sommergerli, sminuirli.

A un tratto colsi un bagliore con la coda dell'occhio e voltandomi notai un quadro


appeso alla parete. Una lama di luce lo attraversava, lasciando intravedere
soltanto una macchia celeste. Iniziai ad avvicinarmi, sbattendo le palpebre, con lo
stomaco che mi si stringeva.

Era una Deposizione. Il Cristo giaceva su un telo, la testa appoggiata in grembo a


un vecchio. A vegliarlo c'erano un giovinetto, una fanciulla vestita di giallo e,
fra loro, la

Vergine Maria che indossava un mantello del medesimo azzurro dei miei sogni. Aveva
un volto meraviglioso. Il dipinto, statico nel suo insieme, esprimeva una ricerca
meticolosa dell'equilibrio, ottenuto grazie a una sapiente collocazione di ciascun
personaggio, con l'inclinazione delle teste e i gesti delle mani che contribuivano
all'effetto generale.

Solo il viso della Vergine, al centro esatto dell'immagine, suggeriva l'idea del
movimento, del cambiamento. Il dolore e una strana serenità si davano battaglia nei
suoi lineamenti, e lo sguardo, rivolto verso il Figlio, era incorniciato da quel
colore che ne sottolineava l'angoscia.

Davanti al quadro, la mia mano destra ebbe un improvviso sussulto e quasi senza
rendermene conto feci il segno della croce. Non l'avevo mai fatto prima d'allora.

Accanto al dipinto c'era una targhetta con il titolo e il nome del pittore.

Dopo averli letti rimasi immobile per un bel pezzo, immersa nel vuoto che avevo
intorno.

Poi mi segnai di nuovo, esclamando:

«Madre Santa, aiutami», e scoppiai a ridere.

Non avevo mai immaginato che potesse esserci anche un pittore fra i miei antenati.

3 - La fuga
Isabelle si tirò su voltandosi subito verso i giacìgli dove dormivano i bambini.
Jacob era già sveglio, le braccia strette intorno alle gambe, il mento fra le
ginocchia. Aveva l'udito più fine di tutti.

«Un cavallo», disse a bassa voce.

Isabelle toccò Etienne.

«Un cavallo», sussurrò.

Il marito balzò dal letto mezzo addormentato, i capelli bagnati di sudore. S'infilò
le brache e andò subito a svegliare Bertrand scrollandolo energicamente. Mentre
scendevano in tutta fretta la scala a piòli, qualcuno bussò alla porta.

Facendo capolino dal soppalco,

Isabelle osservò gli uomini che si radunavano, prendendo chi un'ascia, chi un
coltellaccio. Dalla stanza sul retro giunse Hannah reggendo una candela. Dopo aver
bisbigliato qualche parola attraverso una fessura della porta, Jean posò l'accetta
e tolse il chiavistello.

Il siniscalco del duca de l'Aigle non era certo uno sconosciuto. Compariva di tanto
in tanto per conferire con

Jean Tournier e si serviva della sua dimora per raccogliere le decime dei podèri
circostanti, annotando gli importi con cura su un libriccino rilegato in cuoio.
Basso, grasso e completamente calvo, l'uomo compensava la statura con una voce
roboante che

Jean cercò invano di smorzare. Non c'erano segreti con una voce come quella.

«Il duca è stato assassinato a

Parigi!»

Hannah emise un gemito e la candela le cadde di mano.

Isabelle fece d'istinto il segno della croce, e subito dopo si strinse il collo tra
le mani, guardandosi attorno. Tutti e quattro i bambini erano seduti in fila, con
Susanne appollaiata vicino a loro sull'orlo del soppalco, in precario equilibrio
per via del pancione sempre più grosso e teso. Presto arriverà il momento, pensava
Isabelle, osservandola con occhio esperto.

Benché non la praticasse da anni, aveva conservato l'arte appresa dalla madre.

Petit Jean stava incidendo un legnetto col coltellino che portava sempre con sé,
perfino quando andava a dormire.

Jacob era silenzioso. Aveva gli stessi occhioni bruni di sua madre. Marie e

Deborah erano appoggiate l'una all'altra, Deborah tutta assonnata, la cugina Marie
invece con gli occhi sgranati.

«Maman, cosa vuol dire assassinato?» esclamò a un tratto con voce squillante.
Pareva una pentola di rame sotto i colpi del martello.
«Sssh», sussurrò Isabelle. Poi si portò all'estremità del letto per sentire meglio
l'uomo del duca.

Susanne andò a sedersi accanto a lei e le due donne si appoggiarono con le braccia
alla ringhiera.

.... . e successo dieci giorni fa, durante le nozze di Henri de Navarre.

Hanno sprangato i portoni e migliaia di seguaci della Verità sono stati trucidati.
C'erano anche Coligny e il nostro duca. E ora i cattolici dilagano nelle campagne.

Dappertutto stanno uccidendo gente onesta».

«Ma noi siamo lontani da Parigi. E poi qui siamo tutti seguaci della Verità.

I cattolici non potranno farci alcun male», replicò Jean.

«Dicono che la milizia si sia messa in marcia da Mende», disse il siniscalco con il
suo vocione. «Per trarre vantaggio dalla morte del duca.

Verranno a cercare voi, il gabelliere di sua eccellenza. La duchessa si prepara a


riparare ad Alès e fra poche ore passerà da queste parti. Dovete venire con noi, se
volete salvare la vostra famiglia. Sua signorìa non porterà nessun altro con sé,
soltanto i Tournier».

«No».

Fu Hannah a rispondere. Aveva riacceso la candela ed era piantata al centro della


stanza, la treccia argentea che le scendeva lungo la schiena ingobbita.

«Non è necessario che abbandoniamo la nostra casa», disse. «Qui siamo al sicuro».

«E poi dobbiamo mietere la segale», aggiunse Jean.

«Se doveste cambiare idea, la vostra famiglia, qualunque membro della vostra
famiglia, sarà il benvenuto fra il seguito della duchessa».

Isabelle ebbe l'impressione che l'uomo avesse gettato un'occhiata fugàce a

Bertrand, mentre parlava. Susanne si voltò inquieta verso il marito.

Isabelle le prese la mano, era fredda come l'acqua del ruscello. Guardò i suoi
figli. Le bambine, troppo piccole per capire, s'erano appisolate. Jacob era ancora
seduto con il mento sulle ginocchia. Petit Jean invece s'era vestito e guardava gli
uomini, appoggiato alla ringhiera.

Il siniscalco si congedò, per andare ad avvisare le altre famiglie. Jean abbassò il


chiavistello e posò l'ascia accanto alla porta, mentre Etienne e

Bertrand passarono nella stalla per sbarrarne le porte dall'interno.

Hannah si avvicinò al focolare, mise la candela sulla mensola del camino e


s'inginocchiò davanti alla brace che occhieggiava fra la cenere.

Isabelle pensò che volesse riattizzare il fuoco, ma la vecchia rimaneva immobile.

Isabelle strinse la mano di Susanne, indicando il focolare con un cenno del capo.

«Che sta facendo?»


Susanne si asciugò una lacrima sulla guancia, lo sguardo rivolto verso la madre.

«La magia è nel focolare», sussurrò alla fine. «La magia che protegge questa casa.
Maman sta pregando».

La magia. Isabelle ne aveva sentito parlare, sia pure in modo velato, in tutti
quegli anni, ma Etienne e

Susanne s'erano sempre rifiutati di dare spiegazioni e non aveva mai osato chiedere
nulla a Jean o ad Hannah.

Volle tentare ancora una volta.

«Ma cos'è? Cosa c'è lì?»

Susanne scrollò il capo.

«Non lo so. E comunque non bisogna parlarne, altrimenti il suo potere svanisce.
Basta, ho già detto troppo».

«Ma perché prega? Monsieur Marcel dice che le preghiere sono inutili».

«Questa cosa è assai più antica della preghiera, è più antica di Monsieur

Marcel e della sua dottrina».

«Non sarà certo più antica di Dio, della... Vergine».

Isabelle aveva terminato la frase solo col pensiero.

Susanne rimase senza parole.

«Comunque, se andiamo via», disse dopo un momento, «se partiamo insieme alla
duchessa, non saremo più al sicuro».

«Sì, invece», ribatté Isabelle. «Ci penseranno i suoi uomini a proteggerci, con le
spade».

«E tu che farai?»

Isabelle non rispose. Sapeva bene che

Etienne non avrebbe mai abbandonato la sua casa. L'uomo del duca non l'aveva
neppure guardato mentre cercava di convincerli a mettersi in salvo. No,

Etienne non se ne sarebbe mai andato di lì.

Intanto i due uomini erano tornati dalla stalla. Etienne raggiunse subito i
genitori seduti a tavola e Jean alzò gli occhi verso Isabelle e Susanne.

«Andate pure a dormire», disse.

«Staremo noi di guardia».

Invece di dargli ascolto, le due donne rimasero a guardare Bertrand, in piedi in


mezzo alla stanza, incerto sul da farsi. Fissava Susanne quasi fosse in attesa di
un segnale da parte sua.
Isabelle si chinò verso la cognata.

«Dio vi proteggerà», sussurrò all'orecchio di Susanne.

«Dio e gli uomini della duchessa».

Allontanandosi dalla ringhiera incrociò lo sguardo di Hannah e lo sostenne. Per


tutti questi anni non hai fatto altro che tormentarmi a causa dei miei capelli,
pensava, e scopro che credi nella magia.

Si guardarono negli occhi per un po', e alla fine fu Hannah ad abbassare lo sguardo
per prima.

Così Isabelle non aveva potuto cogliere il cenno rivolto da Susanne al marito. Ma
non le sfuggì ciò che avvenne subito dopo. Bertrand si rivolse a Jean con fare
deciso.

«Susanne, Deborah e io andremo ad ALès con la duchessa de l'Aigle», annunciò.

Jean si fece serio.

«Ti rendi conto che perderete tutto se ve ne andrete?» disse con voce sommessa.

«Perderemo tutto se rimaniamo qui.

Susanne è ormai quasi pronta, non può camminare a lungo. Non può correre.

Non avrà scampo se arrivano i cattolici».

«Dunque non credi nel potere di questa casa? Dimentichi che da noi nessun bambino è
mai nato morto? Dimentichi che qui i Tournier vivono in prosperità da oltre
cent'anni?»

«Io credo nella Verità», rispose il giovane. «Solo in questo credo».

Pareva acquistare coraggio a mano a mano che parlava.

Quell'aria di sfida lo faceva apparire più robusto di quanto non fosse, e

Isabelle si accorse per la prima volta che Bertrand era più alto del suocero.

«Quando ci siamo sposati, voi non ci avete concesso la dote, perché venimmo a stare
sotto il vostro tetto. Tutto quello che vi chiedo è un cavallo.

Sarà sufficiente come dote».

Jean lo guardò incredulo.

«Dovrei darti un cavallo in modo che tu possa portarmi via una figlia e una
nipote?»

«Io voglio salvare vostra figlia e vostra nipote».

«Non sono forse io il signore di questa famiglia?»

«Dio è il mio Signore. E io seguirò la

Verità, non la magia in cui sembrate confidare».


Isabelle non aveva mai immaginato che

Bertrand potesse rivelarsi così determinato. Da quando Jean e Hannah l'avevano


scelto per Susanne, aveva sempre lavorato sodo senza mai contrastare il suocero.

Anzi aveva portato in casa un poco d'allegria, sfidando per gioco Etienne a braccio
di ferro, insegnando a Petit

Jean a incidere il legno, allietando di sera la famiglia intorno al fuoco con le


sue storie sul lupo e la volpe.

Trattava Susanne con una gentilezza che faceva invidia a Isabelle. In un paio
d'occasioni però l'aveva visto mordersi le labbra, reprimendo la voglia di
ribellarsi, ma quella voglia non aveva fatto altro che crescere dentro di lui in
attesa del momento buono per manifestarsi.

Poi fu Jean a sorprendere tutti.

«Allora andate», grugnì il vecchio,

«ma avrete l'asino, non il cavallo».

Dopodiché si avviò a grandi passi verso la stalla, dove scomparve.

Etienne sollevò lo sguardo verso

Isabelle e subito dopo abbassò gli occhi. A quel punto lei capì che non sarebbero
andati con Bertrand. L'aveva sposata e quello era stato l'unico atto di
disobbedienza che Etienne avesse osato in vita sua. Non aveva il coraggio di
commetterne un altro.

Isabelle si voltò verso la cognata.

«Quando sarai in groppa all'asino», mormorò, «devi tenere le gambe unite in modo da
sostenere il bambino.

Sennò nascerà prima del tempo. Non montare a cavalcioni», ripeté, vedendo che
Susanne fissava sconvolta la parete di fronte a lei. A un tratto si girò a
guardarla.

«Intendi dire come la Vergine quando fuggì in Egitto?»

«Sì. Proprio come la Vergine».

Era da molto tempo che non pronunciavano quel nome.

Mancava poco all'alba. Deborah e Marie stavano dormendo insieme, avvolte nello
stesso lenzuolo, quando Susanne e Isabelle andarono a svegliare

Deborah. Avevano cercato di fare piano per non disturbare gli altri bambini, ma
Marie fu la prima a svegliarsi e iniziò subito a gridare:

«Perché Deborah va via? Perché va via?»

Jacob aprì gli occhi, il faccino stravolto dal sonno. Petit Jean, che era ancora
vestito, si tirò su.

«Maman, dove stanno andando?» domandò con un rauco sussurro. «E' vero che vedranno
i soldati? E i cavalli, le bandiere? Vedranno anche zio Jacques?»
«Zio Jacques non combatte per i cattolici, è su a nord con l'esercito di Coligny»,
rispose Isabelle.

«Ma l'uomo del duca ha detto che

Coligny è stato ucciso».

«Sì».

«Allora forse zio Jacques tornerà».

Isabelle non rispose. Jacques Tournier era andato alla guerra dieci anni prima,
insieme a molti altri giovani del villaggio, partendo dal Mont

Lozère. Una sola volta aveva fatto ritorno a casa, inasprito, pieno di cicatrici e
storie da raccontare. Come quella dei gemelli du Moulin, i fratelli di Isabelle,
trafitti insieme dalla stessa picca.

«Da buoni gemelli», aveva aggiunto

Jacques brutalmente, e s'era messo a ridere quando Isabelle aveva distolto lo


sguardo. Petit Jean adorava lo zio

Jacques. Isabelle al contrario lo detestava, per quei suoi occhiacci che la


seguivano ovunque e non si accontentavano di guardarla in viso. E poi le seccava
che incoraggiasse

Etienne a scimmiottare i suoi modi rozzi e dissoluti. Per fortuna non s'era
trattenuto a lungo: la sete di sangue e avventura ben presto aveva avuto la meglio
anche sul richiamo della famiglia.

I bambini seguirono le donne giù per la scala a piòli e poi in cortile, dove gli
uomini avevano già caricato sull'asino qualche masserizia e un po' di cibo:
formaggio di capra e le poche pagnotte di farina di castagne che

Isabelle era riuscita a preparare prima che spuntasse l'alba.

«Vieni Susanne», disse Bertrand agitando la mano.

Susanne cercò il volto della madre, ma

Hannah non era uscita di casa. Si voltò verso Isabelle, la baciò tre volte e le
gettò le braccia al collo.

«Monta dilato», le mormorò nell'orecchio Isabelle. «E se ti vengono le doglie,


falli fermare.

Che la Vergine e santa Margherita vi facciano arrivare sani e salvi fino ad

Alès».

Poi la issarono in groppa all'asino, mettendola a sedere con le gambe unite, fra i
sacchi e le cibarie.

«A dieu, Papa... petits...» disse

Susanne, salutando Jean e i bambini con cenni del capo. Deborah s'arrampicò sulle
spalle di Bertrand.
L'uomo afferrò la cavezza dell'asino e fra spinte e incitamenti l'animale imboccò a
passo svelto il sentiero che scendeva dalla montagna. Etienne e

Petit Jean li avrebbero accompagnati fino alla strada per Alès, all'incrocio dove
dovevano incontrare la duchessa e il suo seguito.

Susanne si voltò e rimase a guardare il viso di Isabelle che si faceva sempre più
piccolo, finché non scomparve del tutto.

«Perché vanno via, nonno? Perché

Deborah va via?» chiedeva Marie. Nate a una settimana di distanza l'una dall'altra,
le due cuginette erano sempre state inseparabili. Jean si girò dall'altra parte.
Marie seguì Isabelle dentro casa e si avvicinò ad Hannah, intenta ad accendere il
fuoco.

«Perché, Mémé, perché Deborah va via?» continuava a ripetere. All'improvviso

Hannah si voltò e le mollò un ceffòne.

Soldati o no, le messi non potevano aspettare. Gli uomini si recarono nei campi
come al solito, ma Jean ne scelse uno vicino a casa da mietere, mentre Isabelle,
invece di seguirlo col rastrello come faceva sempre, rimase a casa con la piccola
Marie ad aiutare Hannah con le conserve. Così toccò a Petit Jean e Jacob
accompagnare il padre e il nonno, ammucchiando le spighe di segale con i rastrelli.
Jacob arrivava a malapena a reggere l'attrezzo.

Dentro casa, Isabelle e Hannah quasi non spiccicavano parola: il vuoto lasciato da
Susanne aveva tappato loro la bocca. Per due volte Isabelle smise di girare il
mestolo nel pentolone, guardando per aria e imprecando, le braccia imbrattate da
pezzi di prugna bollenti. Alla fine Hannah la spinse via.

«Il miele è troppo prezioso. Non voglio che lo sciupi con quelle mani inette»,
mormorò.

Allora Isabelle si occupò di far bollire il vasellame e di tanto in tanto andava


sulla porta in cerca di un po' di refrigerio, nel silenzio della valle. A un certo
punto, Marie la seguì sulla soglia, le manine color porpora a furia di maneggiare
le prugne per scartare quelle acerbe o marce.

«Maman», disse a voce bassa, avendo imparato la lezione. «Perché sono andati via?»

«Perché avevano paura», rispose

Isabelle, dopo averci pensato un istante, tergendosi il sudore dalle tempie.

«Paura di cosa?»

«Di uomini malvagi che volevano far loro del male».

«Quegli uomini malvagi verranno qui?»

Isabelle infilò le mani sotto il grembiule, per evitare che Marie s'accorgesse che
tremavano.

«No, chérie. Penso di no. Ma erano preoccupati per il bambino che Susanne ha in
grembo».
«È vero che presto rivedrò Deborah?»

«Sì».

Marie aveva gli occhi celesti del padre, i suoi stessi capelli biondi e

Isabelle ne era felice. Se fossero stati rossi, glieli avrebbe tinti col succo
delle noci. La bimba la fissava perplessa con i suoi occhietti vivaci.

Isabelle non era mai stata brava a mentirle.

Pierre La Forét spuntò fra i campi verso mezzodì, proprio quando Isabelle era
andata a portare il desinare agli uomini. Raccontò loro di quelli che erano
fuggiti, non molti per la verità, solo chi aveva ricchezze da sottrarre ai
saccheggi, figlie che rischiavano di finir stuprate, o stretti legàmi con il duca
assassinato.

Ma serbò per ultima la notizia più sorprendente.

«Monsieur Marcel è scappato», annunciò Pierre con un sorrisetto compiaciuto.

«E' andato verso nord, oltre Mont Lozère».

Seguì un attimo di silenzio, poi Jean afferrò la falce.

«Tornerà», disse in tono asciutto, ricominciando a mietere la segale.

Pierre La Forét rimase per un po' a osservare il movimento cadenzato della lama fra
le spighe, poi si guardò intorno nervosamente. Sapeva bene che i soldati sarebbero
potuti arrivare da un momento all'altro. Se ne andò in fretta, richiamando il cane
con un fischio.

Quella mattina non avevano combinato granché nei campi. Bertrand e Susanne non
c'erano più e i braccianti che Jean aveva preso a giornata per la mietitura non
s'erano fatti vedere: non volevano condividere la sorte dei Tournier.

Ovviamente i ragazzi non riuscivano a tenere il passo degli adulti, sicché di tanto
in tanto Jean o Etienne dovevano mollare la falce e completare il lavoro con il
rastrello.

«Lascia che vi aiuti», suggerì Isabelle rivolgendosi a Etienne.

Era ansiosa di scappare dalle grinfie di Hannah, dai silenzi di quella casa. «Tua
madre... Maman può cavarsela da sola con le conserve. E poi Jacob e Marie possono
darle una mano. Ti prego». Capitava di rado che chiamasse la suocera Maman, e solo
quando bisognava ungere un po' le ruote.

Con suo grande sollievo gli uomini accettarono, mandando Jacob a casa ad aiutare la
nonna. Isabelle e Petit Jean iniziarono a seguire i mietitori, lavorando di
rastrello più in fretta che potevano per raccogliere le spighe in fascine che poi
venivano addossate le une alle altre, pronte per l'essiccazione. Occorreva fare in
fretta e ben presto si ritrovarono con i vestiti bagnati di sudore. Ogni tanto
Isabelle si fermava e si guardava intorno, tendendo le orecchie. Il cielo era
giallastro per la foschia, immenso e vuoto. Pareva quasi che il mondo intero si
fosse fermato, in attesa.

Fu Jacob il primo a sentirli. Comparve in fondo al campo che era già quasi sera,
correndo verso di loro come un forsennato. Smisero tutti di lavorare e il cuore di
Isabelle si mise a battere all'impazzata. Quando li ebbe raggiunti, il ragazzo si
piegò in avanti, le mani sulle cosce, ansimando.

«Ecoute, Papa», fu tutto quello che riuscì a dire, indicando l'imbocco della valle.
Ascoltarono. Sulle prime, Isabelle udì solo il canto degli uccelli e il proprio
respiro. Poi però un brontolìo sordo cominciò a levarsi dalle colline.

«Sono dieci. Dieci cavalli», annunciò Jacob. Isabelle lasciò cadere il rastrello,
prese Jacob per mano e scappò via.

Petit Jean era il più veloce di tutti.

Benché avesse soltanto nove anni e una giornata di lavoro nelle gambe, con due
balzi si lasciò il padre alle spalle. Corse subito nella stalla e sbarrò il
portone. Etienne e Jean portarono alcuni secchi d'acqua dal vicino ruscello, mentre
Isabelle e Jacob chiudevano tutte le finestre.

In piedi in mezzo alla stanza, Marie stringeva fra le braccia un grande mazzo di
lavanda. Hannah continuava a lavorare davanti al focolare, incurante della
frenetica attività che si svolgeva intorno a lei. Quando si furono riuniti tutti
intorno al tavolo, la vecchia si voltò verso di loro e disse semplicemente: «Siamo
al sicuro».

Furono le ultime parole che Isabelle le sentì pronunciare.

Ci misero un po' ad arrivare.

La famiglia era riunita a tavola in silenzio, ognuno nel posto che occupava di
solito, ma non vi erano pietanze davanti a loro. La stanza era buia: nel camino
ardeva una piccola fiamma, non avevano acceso le candele e l'unica luce proveniva
dalle fessure dei battenti. Isabelle era poggiata sul bordo della panca e teneva
per mano Marie che, seduta accanto a lei, aveva il grembo colmo di lavanda. Jean
sedeva a capotavola, più rigido che mai. Etienne teneva gli occhi bassi sulle
proprie mani giunte. Gli tremavano un poco le guance ma appariva non meno
impassibile del padre. Hannah si sfregava il volto, a occhi chiusi, premendosi il
dorso del naso con pollice e indice. Petit Jean aveva tirato fuori il coltellino,
posandolo sulla tavola davanti a sé.

Ogni tanto lo impugnava, menando colpi nell'aria o saggiandone la lama con un dito,
per poi posarlo di nuovo.

Jacob era buttato da solo sulla panca dove sedevano un tempo Susanne, Bertrand e
Deborah. Aveva un sasso rotondo fra le mani. Gli altri li teneva nelle tasche. Gli
erano sempre piaciute le pietre colorate che si trovavano nel Tarn, soprattutto
quelle rosse e gialle. Le conservava anche se col tempo sbiadivano, facendosi brune
e grigiastre. A volte le leccava perfino per restituire ai colori la vivacità
perduta.

Isabelle provava una strana sensazione: le pareva che i posti vuoti intorno al
tavolo fossero occupati dai fantasmi della sua famiglia, la mamma, la sorella, i
gemelli. Scacciò quella visione scuotendo il capo e cercò di immaginare Susanne,
ormai in salvo con la duchessa. Non ci riuscì.

Allora ripensò all'azzurro della Vergine. Benché non vedesse quel colore da anni,
ce l'aveva sempre davanti agli occhi, quasi che le pareti di legno della casa
fossero tutte dipinte d'azzurro. Respirò a fondo e i battiti del suo cuore
rallentarono. Aprì gli occhi, gli spazi vuoti ora risplendevano di bagliori
celesti.

I cavalli arrivarono fra grida e fischi. All'improvviso si udì un gran colpo contro
la porta e tutti sobbalzarono.

«Cantiamo», disse allora Jean e intonò una melodia con voce sicura di baritono:
J'ai mis en toi mon espérance: Garde-moi donc, Seigneur, D'éternel déshanneur.
Octraye-moi ma délivrance, Par ta grande bonté haute, Qui jamais ne fit faute.

Tutti si unirono a lui, tranne Hannah, la quale, convinta che cantare fosse una
cosa frivola, preferiva mugolare le parole a fior di labbra. I bambini invece
facevano sentire le loro vocine acute, anche se quella di Marie era rotta per la
paura.

Il salmo si concluse fra un'incessante gragnuola di colpi contro porte e finestre.


Ne avevano appena attaccato un altro quando il frastuono cessò.

Poco dopo sentirono qualcosa raschiare sull'uscio, poi un crepitio e odore di fumo.

Etienne e Jean balzarono verso la porta. Etienne prese un secchio d'acqua e fece un
cenno col capo al padre. Cercando di non far rumore, Jean girò piano il
chiavistello e dischiuse la porta. Etienne ebbe appena il tempo di gettare l'acqua
nel varco che la porta fu spalancata con un calcione, mentre lingue di fuoco
irrompevano dentro la casa. Accadde tutto in un attimo: due mani afferrarono Jean
per la gola e per la camicia, trascinandolo fuori di prepotenza, dopodiché la porta
si richiuse sbattendo alle sue spalle.

Etienne fu lesto a riaprirla ma si ritrovò avvolto dal fumo e dalle fiamme.

«Papà!» urlò e scomparve nel cortile.

Un silenzio irreale scese nella stanza. Poi Isabelle si alzò con calma. Sentiva
aleggiare intorno a sé quella luce azzurra. Nessuno le avrebbe fatto del male.
Prese in braccio Marie.

«Tieniti forte», sussurrò, e la bimba le gettò le braccia al collo, cingendole la


vita con le gambette. Il mazzo di lavanda rimase schiacciato fra i loro corpi.
Isabelle prese Jacob per mano, porgendo l'altra a Petit Jean. Come in un sogno,
attraversò la stanza con i bambini, rifugiandosi nella stalla.

Passarono accanto al cavallo che nitriva e scalciava, innervosito dall'odore di


fumo e dalla presenza dei destrieri là fuori. Quando furono giunti in fondo alla
stalla, Isabelle girò il chiavistello della porticina che si apriva sull'orto, dove
si fecero strada fra piante di cavolo e pomodori, carote, cipolle, erbe aromatiche.
Quando la gonna di Isabelle sfregò contro un cespuglio di salvia, l'aria si riempì
di quell'aroma familiare.

Si fermarono soltanto davanti alla pietra a forma di fungo che delimitava l'orto.
Jacob appoggiò per un attimo i palmi delle mani sulla roccia. Da lì aveva inizio un
campo a maggese dove portavano a pascolare le capre, bruno e riarso a causa del
sole torrido dell'estate. Lo attraversarono di corsa, i due ragazzi davanti seguìti
da Isabelle che teneva sempre Marie in braccio.

A un certo punto, la donna si rese conto che Hannah non li aveva seguiti.

Imprecò a voce alta.

Giunsero sani e salvi nel castagneto.

Nei pressi dell'essiccatoio Isabelle mise giù Marie e si rivolse a Petit Jean.

«Devo tornare indietro a prendere Mémé. Tu sei bravo a nasconderti.


Aspettatemi qui. Ma non entrate nell'essiccatoio, potrebbero dargli fuoco. E se per
caso arrivassero i soldati, scappate. Andate verso la casa di mio padre, ma passate
per i campi, mi raccomando, non per il sentiero. D'accord?» Petit Jean fece segno
di sì con la testa, e tirò fuori il coltello dalla tasca, gli occhi azzurri che
brillavano per l'eccitazione.

Isabelle si voltò e guardò indietro.

La casa dei Tournier era in fiamme. Si sentivano gli strilli dei maiali e gli
ululati dei cani cui rispondevano tutti i cani della valle.

Al villaggio sanno quel che sta accadendo, pensava Isabelle. Verranno a


soccorrerci? O si tapperanno in casa? Tornò a guardare i suoi figli, Marie e Jacob
impietriti dalla paura e con gli occhi sgranati, Petit Jean che scrutava la
boscaglia.

«Allez!» esclamò. Senza dire una parola, Petit Jean guidò i fratelli verso gli
alberi.

Isabelle tornò sui suoi passi, camminando al bordo del campo. Vedeva in lontananza
i covoni che quello stesso giorno aveva ammassato col rastrello, insieme a Petit
Jean e Jacob. Stavano fumando. Udiva l'eco di grida e risate, e quelle voci le
fecero rizzare i peli sulle braccia.

Mano a mano che si avvicinava alla casa, percepiva un odore di carne arrostita. Era
un odore familiare eppure non riusciva a capirne la provenienza. I maiali, pensò a
un tratto. I maiali. E di colpo comprese ciò che avevano fatto i soldati.

«Sainte Vierge, aide-nous». Respirò a fondo e fece il segno della croce.

L'orto era pieno di un fumo denso e pareva che fosse scesa la notte.

Isabelle iniziò ad avanzare carponi fra le verdure e d'un tratto trovò Hannah in
ginocchio fra i filari.

Stringeva al seno un cavolo e le lacrime solcavano il suo volto annerito.

«Viens, Mémé», sussurrò Isabelle e l'aiutò ad alzarsi, afferrandola per le spalle.


«Viens».

Piangendo in silenzio, la vecchia seguì la nuora attraverso l'orto, verso il campo


di segale. Sentivano alle loro spalle i destrieri al galoppo, ma il muro di
caligine le proteggeva impedendo ai soldati di vederle. Procedevano su un lato del
campo, lungo il muretto di pietra che Jean aveva costruito tanti anni prima.

Ogni tanto Hannah si fermava a guardare indietro e ogni volta Isabelle doveva
sollecitarla a proseguire, cingendola con un braccio.

Il soldato a cavallo apparve dal nulla, quasi fosse stato Dio stesso a buttarlo giù
dal cielo. Ma non alle loro spalle, come avevano temuto: sbucò dal fitto dei boschi
verso cui erano dirette. Attraversava il campo al galoppo, la spada sguainata e
quando fu un po' più vicino, Isabelle vide che aveva un ghigno dipinto sul volto.
Con un gemito, la donna iniziò ad arretrare, incespicando fra le zolle, insieme ad
Hannah.

Il cavaliere era ormai sopra di loro, tanto vicino che si sentiva già la sua puzza
di sudore, quando una sagoma grigia spuntò dal terreno, malferma sulle zampe.
Subito il cavallo s'impennò nitrendo e il soldato perse l'equilibrio, cadendo
pesantemente a terra. Privo del cavaliere, l'animale si voltò e fuggì come un
dannato verso i castagni.

Hannah guardò il lupo e poi Isabelle, quindi di nuovo il lupo che le fissava a sua
volta, immobile e attento, con gli occhi gialli, ignorando completamente il soldato
che giaceva esanime a pochi passi da lui.

«Merci», mormorò Isabelle, rivolgendo al lupo un cenno del capo. «Merci, Maman».

Hannah spalancò gli occhi.

A un tratto l'animale si girò allontanandosi al piccolo trotto e, superato con un


balzo il muretto dell'orto, scomparve fra i campi.

Solo allora Hannah si mosse. Isabelle fece per seguirla, ma si fermò subito
voltandosi verso il soldato steso a terra. Un brivido le attraversò la schiena. Si
avvicinò cautamente.

Dopo aver dato un'occhiata all'uomo svenuto, si accucciò accanto alla sua spada,
osservandola con attenzione. Hannah l'aspettava a capo chino, le braccia conserte.

Poi Isabelle si rialzò.

«Niente sangue», disse.

Appena furono giunte in mezzo al bosco, Isabelle si mise a chiamare i figli. Le


rispose soltanto il fruscìo sempre più lontano del cavallo senza cavaliere che si
apriva un varco fra il fogliame. A un tratto il rumore cessò, doveva essere
arrivato nel campo di segale.

I bambini però non si vedevano da nessuna parte.

«Saranno più avanti», mormorò Isabelle. «Non c'era sangue sulla spada. Ti prego,
Signore, fa' che siano scappati.

Devono essere più avanti», ripeté poi a voce alta perché anche Hannah sentisse.

Siccome la vecchia non diceva nulla, aggiunse: «Eh, Mémé? Li ritroveremo, vero?»
Hannah si strinse nelle spalle.

Stavolta presero per i campi, dirigendosi verso il podère del padre di Isabelle.
Stavano ben attente a cogliere ogni segnale, voci di soldati, grida dei bambini,
gli zoccoli di un cavallo. Non incontrarono anima viva.

Era già buio quando giunsero esauste nell'aia dei du Moulin. La casa era avvolta
dall'oscurità, le porte e le finestre sprangate, ma quando Isabelle bussò piano
all'uscio, sussurrando:

«Papa, c'est moi», fu loro aperto. I bambini erano seduti nella penombra con il
nonno. Marie si alzò e corse verso Isabelle, affondando il viso nella sua veste.

Henri du Moulin fece un lieve cenno col capo verso Hannah, che distolse subito lo
sguardo. Allora si voltò verso Isabelle.

«Dove sono gli altri?» Isabelle scosse la testa.

«Non lo so. Penso che...» Poi guardò i bambini e s'interruppe.

«Aspetteremo», disse mesto suo padre.


«Sì».

Attesero per ore. I bambini si addormentarono uno dopo l'altro mentre gli adulti
rimanevano immobili nell'oscurità, intorno alla tavola.

Hannah aveva chiuso gli occhi ma sedeva sempre impettita, le mani giunte davanti a
sé. Al minimo rumore, riapriva gli occhi e allungava la testa verso la porta.

Isabelle e suo padre non fiatavano. La donna si guardava intorno piena di


malinconia. Nonostante il buio, si vedeva benissimo che la casa stava andando in
malora. Infatti, da quando aveva saputo che i gemelli erano morti, Henri du Moulin
aveva smesso di occuparsi dei propri avèri: i campi erano rimasti incolti, il tetto
perdeva acqua in più punti, le capre erano scappate, i topi avevano fatto la tana
nel granaio. All'interno la casa era sudicia e maleodorante e umida, perfino
durante la stagione calda e secca della mietitura.

Isabelle sentiva lo scalpiccìo dei topi nell'oscurità.

«Qui ci vorrebbe un gatto», mormorò.

«Ne avevo uno», rispose suo padre. «Se n'è andato. Se ne vanno sempre tutti da
questa casa».

Poco prima dell'alba, dall'aia giunse un rumore, pareva uno scalpitìo di zoccoli,
smorzato però. Jacob si tirò su di scatto.

«E' il nostro cavallo», esclamò.

Sulle prime non riconobbero Etienne nella figura che si stagliava vacillando sulla
soglia, senza capelli in testa, a parte qualche ciocca irsuta sul cranio pieno di
scottature.

Le belle ciglia e le sopracciglia folte erano sparite, sicché gli occhi parevano
fluttuare alla deriva sulla sua faccia. Aveva gli abiti bruciati e coperti di
fuliggine. Si alzarono tutti in piedi ma rimasero impietriti.

Solo Petit Jean andò verso di lui, prendendogli la mano fra le sue.

«Vieni, papà», disse e aiutò Etienne a sedersi sulla panca.

Etienne sollevò un braccio indicando la porta.

«Il cavallo», disse con voce flebile, mentre si lasciava cadere sul sedile di
legno.

L'animale aspettava paziente in mezzo all'aia, gli zoccoli avvolti da pezzi di


stoffa. Aveva la criniera e la coda bruciacchiate ma per il resto pareva illeso.

Qualche mese dopo a Etienne ricrebbero i capelli, grigi, ma finché visse non ebbe
mai più ciglia, né sopracciglia.

Etienne e sua madre sedevano alla tavola di Henri du Moulin, storditi, incapaci di
agire e perfino di pensare. Per tutto il giorno Isabelle e suo padre avevano
cercato invano di cavare loro una parola di bocca.

Hannah non fiatava mentre Etienne riusciva solo a dire cose come, «Ho sete», o
«Sono stanco», dopodiché chiudeva di nuovo gli occhi.
Alla fine però Isabelle riuscì a smuoverli da quella apatìa, urlando disperata:
«Dobbiamo andarcene al più presto.

I soldati ci staranno ancora cercando, e alla fine qualcuno dirà loro dove siamo
nascosti».

Conosceva gli abitanti del villaggio, erano gente leale, però con una lauta
ricompensa o con le minacce li si poteva indurre a spifferare qualunque segreto,
perfino a un cattolico.

«Dove andremo?» chiese Etienne.

«Potreste nascondervi nella foresta finché le acque non si saranno calmate»,


suggerì Henri du Moulin.

«Non possiamo tornare laggiù», ribatté Isabelle. «Il raccolto è andato perduto, la
casa non c'è più. Senza il duca, chi ci proteggerà dai cattolici?

Continueranno a darci la caccia. E...» la donna esitava, ma se voleva convincerli


doveva usare le loro stesse parole, «ora che la casa è stata distrutta quel luogo
non è più sicuro».

E soprattutto non voglio più tornare in quel posto infelice, aggiunse in cuor suo.

Etienne e Hannah si guardarono negli occhi.

«Potremmo scappare ad Alès», continuò Isabelle. «Unendoci a Susanne e Bertrand».

«No», esclamò Etienne con fermezza.

«Hanno fatto la loro scelta, abbandonando la famiglia».

«Sì, ma almeno loro...» avrebbe voluto ribattere ma rinunciò. Sentiva di aver


acquistato un certo ascendente e non voleva sciupare tutto mettendosi a litigare.
All'improvviso le passò davanti agli occhi l'immagine di Susanne con i soldati che
le squarciavano il ventre in mezzo al campo. Avevano fatto bene a scappare.

«La strada per Alès sarebbe pericolosa», ammonì Henri.

«Potrebbe succedere la stessa cosa che è successa qui».

I bambini ascoltavano in silenzio. A un tratto Marie si fece sentire.

«Maman, dov'è che dobbiamo andare per essere al sicuro? Di al Signore che vogliamo
salvarci».

Isabelle annuì.

«Calvino», esclamò a un tratto.

«Potremmo andare da Calvino. A Ginevra. Non correremo alcun pericolo, là dove regna
la Verità».

Inquieti e accaldati, aspettarono che calasse la notte.

Isabelle aveva ordinato ai figli di pulire la casa, mentre lei cuoceva il pane
dentro la nicchia del camino. Un tempo la usavano per cucinare lei, sua madre e sua
sorella, ma ora aveva dovuto faticare per togliere gli escrementi di topo e le
ragnatele. Il focolare appariva spento da mesi e Isabelle si domandò di cosa si
nutrisse suo padre.

Henri du Moulin si rifiutò di andare con loro, sebbene i suoi legàmi di parentela
con i Tournier lo esponessero a non pochi rischi.

«Questo è il mio podère. Nessun cattolico mi caccerà mai dalla mia terra».

Volle a tutti i costi che prendessero il suo carro, l'unico bene che gli fosse
rimasto, a parte l'aratro. Gli diede una bella ripulita, riparò una delle ruote e
sistemò un'asse di legno sul piano di carico a mo' di sedile.

Quando fu buio lo trascinò in mezzo al cortile e vi caricò un'ascia, tre coperte e


due sacchi.

«Castagne e patate», spiegò a Isabelle.

«Patate?»

«Per il cavallo e per voi».

Sentendo quelle parole Hannah s'irrigidì. Petit Jean, che stava conducendo il
cavallo fuori dalla stalla, scoppiò a ridere.

«La gente non mangia patate, nonno! è roba da mendicanti!» Il padre di Isabelle
strinse i pugni stizzito.

«Ringrazierete il Cielo per avere qualcosa da mettere sotto i denti, mon petit.
Tutti gli uomini sono poveri agli occhi di Dio».

Quando furono pronti, Isabelle rimase per un pezzo a fissare il volto di suo padre.
Voleva imprimersi per sempre nella memoria i suoi lineamenti.

«Stai attento, papà», mormorò. «I soldati potrebbero tornare».

«Mi batterò per la Verità», rispose il vecchio. «Non ho paura». Poi guardò la
figlia negli occhi e aggiunse, sollevando un poco il mento: «Courage, Isabelle».

Ricacciando indietro le lacrime, la donna contrasse gli angoli della bocca in un


sorriso forzato. Poi si alzò in punta di piedi e gli posò le mani sulle spalle,
baciandolo tre volte.

«Bah! Hai imparato anche tu il bacio dei Tournier», brontolò Henri.

«Sssh, papà. Sono anch'io una Tournier, ormai».

«Ma porti ancora il nome du Moulin.

Non lo scordare».

«Non lo scorderò», disse Isabelle, poi aggiunse: «E tu non scordare me».

Marie, che non piangeva mai, pianse per un'ora dopo che ebbero lasciato il vecchio
da solo sul ciglio della strada.

Il cavallo non ce la faceva a trasportare tutta la famiglia.

Hannah e Marie presero posto sul carro, mentre gli altri seguivano a piedi, con
Petit Jean o Etienne in testa, a condurre il cavallo per la cavezza. Di tanto in
tanto qualcuno saliva a bordo per riposare un poco le gambe e allora l'animale
procedeva più lentamente.

Presero la strada che saliva verso Mont Lozère. La luce lunare rischiarava loro il
cammino ma al tempo stesso li esponeva al pericolo di essere visti dai soldati.
Ogni volta che sentivano un rumore strano abbandonavano la strada maestra.

Quando furono giunti in cima al Col de Finiels, nascosero il carro ed Etienne partì
a cavallo in cerca dei pastori.

Loro di certo conoscevano la via per Ginevra.

Isabelle rimase di guardia accanto al carro mentre gli altri dormivano. Era Lassù
che nasceva il Tarn, per poi iniziare la lunga discesa giù per i fianchi della
montagna. Non avrebbe mai più rivisto l'amato fiume, mai più avrebbe sentito la
carezza delle sue acque. Iniziò a piangere sommessamente, per la prima volta da
quando l'uomo del duca li aveva svegliati, quella notte.

Poi a un tratto sentì su di sé lo sguardo di qualcuno.

Non era lo sguardo di un estraneo, ma un tocco familiare, come il bacio del fiume
sulla sua pelle. Scrutò nel buio intorno a sé e lo vide, appoggiato a una roccia, a
pochi passi da lei.

L'uomo non si mosse.

Isabelle si asciugò il viso dalle lacrime e andò verso il pastore. Si guardarono


negli occhi. Lei allungò una mano sfiorando la cicatrice sul suo volto.

«Chi è stato a farti questo?»

«La vita».

«Come ti chiami?»

«Paul».

«Stiamo andando via. In Svizzera».

Il pastore annuì. Quegli occhi bruni avevano il potere di calmarla.

«Ricordati di me».

L'uomo annuì nuovamente.

«Isabelle», chiamò Etienne alle sue spalle. «Cosa fai lì?»

«Isabelle», sussurrò Paul. Il pastore sorrise e i suoi denti brillarono per un


istante alla luce della luna. Poi scomparve.

«La casa. La stalla. Il nostro letto.

La scrofa e i quattro maialini. Il secchio dentro il pozzo. Lo scialle bruno della


nonna. La bambola che Bertrand ha fatto per me. La Bibbia».

Marie elencava tutte le cose che avevano perduto. Per un po' la sua voce fu coperta
dal rumore delle ruote, ma poi Isabelle riuscì a sentirla.

«Sssh!» esclamò.
Marie tacque. O meglio proseguì l'inventario a bassa voce, perché Isabelle si
accorse che muoveva ancora le labbra.

Jean non compariva nell'elenco.

Al pensiero della Bibbia, Isabelle sentì una fitta allo stomaco.

«Che dici? Forse è ancora lì», bisbigliò in un orecchio a Etienne.

Intanto erano giunti sulla riva del fiume Lot, ai piedi dell'altro versante del
Mont Lozère. Isabelle stava aiutando Etienne a condurre il cavallo nel guado.

«Dentro la nicchia, nel camino» aggiunse. «Potrebbe essersi salvata dall'incendio.


Forse non l'hanno trovata».

Etienne le rivolse un'occhiata indifferente.

«Non abbiamo più nulla. Mio padre è morto», rispose.

«Che aiuto può darci la Bibbia? Non vale più niente ormai».

Ma le sue parole valgono più di ogni altra cosa, pensava Isabelle. Non è forse a
causa di quelle parole che siamo dovuti scappare?

A volte, quando era seduta in fondo al carro e osservava la terra che si stavano
lasciando alle spalle, Isabelle aveva l'impressione di scorgere suo padre che
correva verso di loro. Allora strizzava gli occhi per vedere meglio, ma quando li
riapriva non c'era più nessuno. Di tanto in tanto, al posto di quella figura
immaginaria, coglieva persone vere: una donna ferma sul ciglio della strada, uomini
al lavoro nei campi con falci o badili, un tizio in groppa a un somaro. Tutti si
voltavano alloro passaggio.

A un certo punto dei bambini, suppergiù dell'età di Jacob, li presero a sassate e


Isabelle dovette trattenere Petit Jean dal reagire.

Marie si alzò in piedi per vedere quegli strani bambini, ma nessuna pietra la
colpì. Hannah invece fu centrata in pieno, ma Etienne se ne accorse solo dopo che i
monelli erano ormai spariti da un pezzo. Voltandosi verso la madre, notò un
rigagnolo di sangue che le scorreva lungo la guancia. Mentre Isabelle le tamponava
delicatamente la ferita con una pezzuola bagnata, la vecchia continuava a fissare
la strada davanti a se.

Ora Marie elencava tutto ciò che vedeva.

«C'è un fienile, e una cornacchia. Un aratro e accanto un cane. E la guglia di una


chiesa. C'è un covone in fiamme.

Una staccionata. Un tronco. Un'ascia.

C'è un albero. E sopra l'albero c'è un uomo».

Marie si zittì e Isabelle alzò gli occhi.

Il piccolo ulivo riusciva a malapena a reggere il peso dell'uomo impiccato a un


ramo. Si fermarono a guardare il cadavere, nudo e con un cappello nero calcato
sulla fronte.

Il pene sporgeva rigido come un rametto. Poi Isabelle notò che aveva le mani
rossicce e allora osservò il volto con più attenzione. Inspirò di colpo.
«E' Monsieur Marcel!» urlò, troppo sconvolta per trattenersi.

Etienne schioccò le labbra e iniziò a correre tirandosi dietro il cavallo e ben


presto furono lontani da quell'orrendo spettacolo. I bambini continuarono a
voltarsi finché il corpo del predicatore non scomparve dalla loro vista.

Marie rimase silenziosa per parecchie ore. Quando poi ricominciò con i suoi elenchi
evitava di nominare le cose fatte dall'uomo. Ogni volta che capitavano in un
villaggio, chinava gli occhi e ripeteva in modo ossessivo: «E c'è la terra, c'è la
terra», finché non si ritrovavano in aperta campagna.

S'erano fermati presso un ruscello per abbeverare il cavallo, quando un vecchio


comparve sulla riva opposta.

«Non rimanete qui», disse con voce concitata. «Non fermatevi mai finché non sarete
arrivati a Vienne. Qui è molto pericoloso. Ed evitate di passare dalle parti di St.
Etienne e da Lione». Poi scomparve nella boscaglia.

Quella notte non si fermarono. Il cavallo avanzava stancamente nell'oscurità, con


Hannah e i bambini che dormivano sul carro ed Etienne e Isabelle che si davano il
cambio alla guida. Allo spuntar del sole, si nascosero in una fitta pineta e vi
rimasero finché non venne la sera, dopodiché Etienne rimise la cavezza al collo del
cavallo e ripresero il cammino. Ma avevano fatto pochi passi, quando a un tratto un
gruppo di uomini sbucati dal bosco li circondarono.

Etienne fermò il cavallo. Uno degli uomini accese una torcia. Isabelle notò che
erano tutti armati di asce e forconi. Etienne le porse la cavezza e allungò il
braccio per prendere l'ascia dal carro. Appoggiò a terra con calma la testa
dell'attrezzo e afferrò saldamente il manico con entrambe le mani.

Nessuno si muoveva. Solo le labbra di Hannah recitavano una preghiera silenziosa.

Gli uomini parevano incerti sul da farsi. Isabelle guardò quello che reggeva la
torcia, aveva il pomo di Adàmo che andava su e giù. A un tratto udì un fruscìo:
Marie s'era portata sul bordo del carro e stava bisbigliando qualcosa.

«Cosa c'è?» sussurrò Isabelle, senza togliere gli occhi dall'uomo con la torcia.

«L'uomo che porta il fuoco. Parlagli di Dio. Digli quel che Dio vuole da lui».

«Che vuole Dio da lui?»

«Che sia buono e non commetta peccati», rispose la bimba con voce ferma. «E digli
che non ci fermeremo nella loro terra».

Isabelle si leccò le labbra. Aveva la bocca secca.

«Monsieur», esordì rivolgendosi all'uomo con la torcia.

Etienne e Hannah, sentendo la sua voce, ebbero un sussulto.

«Monsieur, siamo diretti a Ginevra.

Non abbiamo intenzione di fermarci qui. Lasciateci passare, ve ne prego».

Gli uomini batterono i piedi a terra.

Alcuni ridacchiavano. Quello con la torcia però smise di deglutire nervosamente.


«Perché mai dovremmo farlo?» chiese.

«Perché Dio non vuole che commettiate alcun peccato.

E uccidere è peccato».

Isabelle tremava così forte che non riuscì ad aggiungere altro. L'uomo con la
torcia fece un passo verso di lei e Isabelle vide che aveva un lungo coltello da
caccia infilato nella cintura.

Fu allora che Marie parlò: la sua voce argentina risuonava fra gli alberi.

«Notre Père qui es aux cieux, ton nom soit sanctifié».

L'uomo si fermò di colpo.

«Ton règne vienne, ta volonté soit faite sur terre comme au ciel!».

Le voci divennero due.

«Donne-nous aujourd'hui notre pain quotidien». La vocina di Jacob scricchiolava


come i ciottoli sotto i piedi.

«Pardonne-nous nos péchés, comme aussi nous pardonnons ceux qui nous ont offencés».

Isabelle respirò a fondo e si unì ai suoi figli.

«Et ne nous induis point dans la tentation, mais délivrenous du malin; car à toi
appartient le règne, la puissance, et la gloire à jamais.

Amen».

L'uomo con la torcia si trovava fra Isabelle e il gruppo dei suoi compagni. Si
voltò verso Marie, nel silenzio più assoluto.

«Se voi ci farete del male», disse la bimba, «Dio farà del male a voi. Vi farà
molto, molto male».

«Ah sì? E cosa ci farà, ma petite?» chiese l'uomo divertito.

«Sssh, Marie!» mormorò Isabelle.

«Vi getterà fra le fiamme! Ma voi non morirete subito.

Giacerete lì finché le vostre budella inizieranno a colare fuori e a bollire. E i


vostri occhi diventeranno sempre più gonfi e poi... pop!

Scoppieranno!» Non c'entravano nulla le prediche di Monsieur Marcel.

Isabelle riconobbe i dettagli di quella storia: una volta Petit Jean aveva buttato
una rana nel camino e i bambini s'erano radunati intorno al fuoco per assistere
allo spettacolo.

A quel punto, l'uomo con la torcia fece una cosa che mai e poi mai Isabelle si
sarebbe aspettata da uno come lui in una situazione del genere: scoppiò a ridere.

«Sei molto coraggiosa, ma pauvre», disse a Marie, «ma anche un po' pazzerella. Mi
piacerebbe avere una figlia come te».
Isabelle afferrò la mano della bambina e l'uomo rise di nuovo.

«Ma che me ne faccio di una figlia?» disse ridacchiando «A che servono le femmine?»
Fece un cenno col capo ai compari e spense la torcia, e subito la banda scomparve
nella boscaglia.

I Tournier aspettarono a lungo, ma nessuno degli uomini tornò. Alla fine, Etienne
schioccò le labbra e il cavallo riprese il cammino, sia pur più lentamente di
prima.

La mattina seguente, Isabelle trovò la prima ciocca di capelli rossi fra le chiome
di Marie. La strappò immediatamente e la bruciò.

4 - La ricerca

Tornai di corsa nello studio di mio marito, con la cartolina del dipinto stretta
fra le mani. Rick era seduto davanti al tecnigrafo e la lampada Tensor faceva
risaltare i suoi zigomi, la mascella appuntita. Fissava il disegno, ma la sua mente
stava di certo viaggiando al di là della carta.

A volte rimaneva così per ore, visualizzando nei dettagli l'oggetto che aveva
appena finito di progettare: impianti elettrici o idraulici, finestre, sistemi di
ventilazione. Si sforzava di immaginare quella cosa, di più, ci camminava dentro,
ci si sedeva sopra, insomma provava a viverla, studiandola da ogni lato per
scoprirne i difetti.

Dopo averlo guardato per un momento, infilai la cartolina nella borsa e mi sedetti:
il mio entusiasmo era svanito.

All'improvviso non avevo più voglia di condividere con lui la mia scoperta.

Iniziai a discutere con me stessa: Devo dirglielo. Devo.

Rick sollevò lo sguardo dal tavolo e mi sorrise. «Ehi, sei lì», disse.

«E già. Tutto ok? È abbastanza solida la tua struttura?»

«Mi pare di si. E ci sono ottime notizie!» aggiunse sventolando un fax.

«Nelle prossime settimane devo andare a parlare con una ditta tedesca. Se tutto va
bene, otterremo una commessa enorme. Avremo lavoro per anni qui in studio».

«Davvero? Sei proprio un asso dell'ingegneria!» Gli sorrisi e lasciai che me ne


parlasse ancora per qualche minuto.

«Ascoltami, Rick», dissi quando ebbe finito. «Ho scoperto una cosa in un museo qui
vicino». Tirai fuori la cartolina e gliela porsi. Rick la guardò alla luce della
lampada.

«È l'azzurro di cui mi hai parlato, vero?»


«Sì». Andai a mettermi alle sue spalle, gettandogli le braccia al collo. Lui
s'irrigidì per un attimo.

Mi assicurai che le macchie della psoriasi non fossero a contatto con la sua pelle.

«Indovina di chi è?» dissi, posando il mento sulla sua spalla.

Fece per voltare la cartolina ma lo fermai. «Indovina, ho detto».

Rick ridacchiò. «Dài, amore, lo sai che non so niente di pittura».

Esaminò il dipinto per un momento e aggiunse: «Un pittore italiano del


Rinascimento?»

«No. È francese».

«Ah, un tuo antenato allora!»

«Rick!» esclamai, dandogli un pugno scherzoso sul braccio. «Hai sbirciato!»

«No, te lo giuro! Volevo solo fare una battuta», disse lui voltando la cartolina.
«Credi davvero che sia un tuo parente?»

«Sì. C'è qualcosa che me lo fa pensare».

«Ma è fantastico!»

«Vero?» dissi, con un gran sorriso.

Rick mi fece scivolare il braccio intorno alla vita e iniziò a baciarmi, mentre si
adoperava per abbassare la cerniera lampo del mio vestito.

Quando arrivò al fondo schiena mi resi conto che faceva sul serio.

«Un momento», riuscii a dire ansimando. «Prima torniamo a casa!» Scoppiò a ridere e
impugnò la graffettatrice. «Così non apprezzi la mia graffettatrice? E che mi dici
del righello?» Ruotò la Tensor facendo ballare la luce sul soffitto. «L'atmosfera
non è abbastanza romantica qui?» Lo baciai e mi tirai su la cerniera.

«Non è questo. Solo che... magari non è il momento giusto per parlarne, ma credo di
non essere più tanto sicura... a proposito del bambino.

Forse faremmo meglio ad aspettare ancora un po».

Parve sorpreso. «Ma abbiamo già deciso». Rick detestava tornare sui suoi passi.

«Sì, ma la cosa si è rivelata più traumatica del previsto».

«Traumatica?»

«Forse la parola è un po' forte», dissi, ma poi pensai: Aspetta un attimo, Ella,
per te è stato davvero un trauma.

Perché vuoi nasconderglielo?

Rick rimase in attesa di qualche spiegazione, poi vedendo che tacevo sospirò: «Ok,
Ella, se è questo che vuoi» e iniziò a raccogliere le penne.
«Non dobbiamo insistere se non sei sicura».

Tornammo a casa in uno strano stato d'animo. L'eccitazione che aveva preso
entrambi, sia pur per ragioni diverse, era stata spenta dalla mia pessima scelta
dei tempi.

Avevamo appena oltrepassato la piazza principale di Lisle quando Rick fermò la


macchina. «Torno subito», disse.

Scese in fretta e scomparve dietro l'angolo. Dopo un minuto era già di ritorno e mi
gettò un pacchettino in grembo.

Scoppiai a ridere.

«Non puoi averlo fatto», dissi.

«Certo che sì», rispose lui con un sorriso malizioso.

Avevamo scherzato più di una volta sulla squallida macchinetta dei preservativi che
si ergeva in una delle strade principali della città, e sul genere di emergenze che
potevano spingere a farvi ricorso.

Quella notte facemmo l'amore e dormimmo benissimo.

Il giorno in cui Jean-Paul doveva tornare da Parigi ero così distratta durante la
lezione che Madame Sentier iniziò a prendermi in giro.

«Vous étes dans la lune», scherzò, cogliendo l'occasione per insegnarmi un tipico
modo di dire francese. In cambio gliene insegnai uno americano:

«Le luci sono accese ma non c'è nessuno in casa». Ci mise un po' ad afferrare il
senso ma poi rise di gusto, dilungandosi sul mio dròle umorismo anglosassone.

«Non si sa mai quel che sta per uscirle di bocca», disse l'anziana signora, «ma
almeno l'accento è decisamente migliorato».

Alla fine mi congedò, assegnandomi una doppia razione di compiti a casa per
compensare la lezione perduta.

Corsi a prendere il treno per Lisle.

Quando mi ritrovai davanti all'hòtel de ville però fui assalita dai dubbi: non ero
più così sicura di volerlo incontrare. Come quando decidi di dare una festa e
un'ora prima che arrivino gli ospiti vorresti mandare tutto a monte. Mi obbligai
comunque ad attraversare la piazza ed entrai nel palazzo, salendo le scale che
portavano alla biblioteca.

C'era parecchia gente in attesa davanti al bancone e i due bibliotecari sollevarono


entrambi la testa, vedendomi sbucare dalla porta.

Jean-Paul mi fece un garbato cenno di saluto e, confusa, andai a sedermi a uno dei
tavoli. Non avevo immaginato di dover aspettare, di dover parlare con lui in mezzo
a tanta gente.

Iniziai senza alcun entusiasmo a fare il compito assegnatomi da Madame Sentier.

Dopo un quarto d'ora, la biblioteca era già meno affollata e Jean-Paul mi


raggiunse. «Posso aiutarla, Madame?» disse piano in inglese chinandosi verso di me,
una mano posata sul tavolo. Non eravamo mai stati tanto vicini.
Sollevando la testa, colsi l'odore che emanava da lui, l'odore del sole sulla
pelle, e mi ritrovai davanti la sua mascella disseminata di peli neri e ispidi. Oh
no, pensai, non è per questo che sono venuta qui, mentre il panico mi attanagliava
lo stomaco.

Mi riscossi e mormorai: «Sì, Jean-Paul, vorrei...» Lui mi fermò con un lieve cenno
del capo. «SI, Monsieur», mi corressi. «Vorrei mostrarle una cosa». Gli porsi la
cartolina.

Dopo averle dato un'occhiata, Jean-Paul la girò e iniziò subito ad annuire. «Ah, il
Musée des Augustins.

Hai visto le sculture romaniche?»

«No, no, guarda il nome! Il nome del pittore!»

«Nicolas Tournier, 1590-1639», lesse a bassa voce, poi si voltò verso di me,
sorridendo.

«Guarda l'azzurro», sussurrai, sfiorando la cartolina.

«Ricordi il sogno che ti ho raccontato? Prima ancora di vedere questo dipinto avevo
capito che si trattava di un vestito. Una veste azzurra. Proprio come quella».

«Ah, il celebre azzurro del Rinascimento. Lo sai che era fatto con il lapislazzuli.
Un materiale tanto costoso che veniva usato solamente per le figure più importanti,
come ad esempio il manto della Vergine».

Il solito Jean-Paul, sempre pronto a tenere la sua conferenza.

«Vedi? E un mio antenato».

Jean-Paul si guardò attorno, poi si sistemò meglio sul tavolo e diede un'altra
occhiata alla cartolina.

«Cosa ti fa pensare che questo pittore sia un tuo antenato?»

«Il nome, ovviamente, le date, ma soprattutto quell'azzurro. Combacia perfettamente


con il mio sogno. Non soltanto il colore, anche la sensazione che mi dà.
Lespressione sul viso di Maria».

«Avevi mai visto questo quadro prima del sogno?»

«No».

«Ma i tuoi antenàti vivevano già in Svizzera all'epoca, e questo Tournier era
francese».

«Sì, ma era nato a Montbéliard. Sono andata a controllare e indovina dov'è


Monrbéliard? A cinquanta chilometri da Moutier! Subito al di là del confine con la
Francia.

Probabilmente i suoi genitori s'erano trasferiti lì da Moutier».

«Hai trovato qualcosa sulla sua famiglia?»

«No. C'era ben poco su di lui al museo. Solo che è nato a Montbéliard intorno al
1590. Visse per qualche anno a Roma, dopodiché tornò a Tolosa, dove morì nel 1639.
Tutto qui».

Jean-Paul si mise a battere la cartolina contro le nocche.

«Se abbiamo la sua data di nascita, possiamo risalire ai genitori. Le registrazioni


di nascite e battesimi riportano sempre i nomi del padre e della madre».

Mi aggrappai al tavolo. Com'era stata diversa la reazione di Rick, pensavo.

«Farò qualche ricerca su di lui», disse Jean-Paul raddrizzandosi e restituendomi la


cartolina.

«Non voglio», feci io a voce alta.

Parecchi dei presenti sì voltarono verso di noi e la bibliotecaria inarcò le


sopracciglia.

Jean-Paul mi fece gli occhiacci.

«Monsieur, mi occuperò personalmente delle ricerche».

«Capisco. Molto bene, Madame».. Un accenno d'inchino e si allontanò, lasciandomi


scossa e mortificata. «Tu sia dannato», borbottai a denti stretti, fissando la
Vergine. «Tu sia dannato!» In realtà, lo scetticismo di Jean-Paul mi aveva
influenzata più di quanto non fossi disposta ad ammettere. Quando avevo scoperto
quel pittore non mi era venuto in mente di approfondire le circostanze della sua
vita. Sapevo chi era: l'istinto mi diceva che non sarebbero servite altre prove.

Non esistevano nomi, date o luoghi in grado di scalfire quell'intima convinzione, O


almeno così credevo.

A volte basta un'osservazione a insinuare il dubbio. Per un paio di giorni cercai


di ignorare le parole di Jean-Paul, ma appena ebbi l'occasione di tornare a Tolosa
portai con me la cartolina e subito dopo la lezione di francese corsi alla
biblioteca universitaria. C'ero stata in precedenza per consultare i testi di
medicina, però non mi ero mai avventurata nella sezione dedicata alle arti. Era
gremita di studenti che preparavano esami, prendevano appunti, parlavano sulle
scale con voci concitate.

Ci misi molto più di quanto avessi immaginato a trovare qualcosa su Nicolas


Tournier. Faceva parte di un gruppo di pittori francesi, i cosiddetti
Caravaggeschi, che agli inizi del diciassettesimo secolo si trovavano a Roma per
studiare il grande maestro e la sua tecnica del chiaroscuro.

Capitava sovente che quegli artisti non firmassero le loro opere per cui
l'attribuzione dei singoli dipinti rimane tuttora incerta.

Tournier veniva citato brevemente qua e là. Non era certo famoso, sebbene due dei
suoi quadri fossero conservati al Louvre. Riscontrai alcune divergenze rispetto a
ciò che avevo letto al museo: le fonti più antiche parlavano infatti di un Robert
Tournier, nato a Tolosa nel 1604 e morto nella stessa città verso il

1670. Tuttavia ero sicura che il pittore fosse lo stesso, perché ne riconobbi i
dipinti. Altre fonti riportavano date ancora diverse, e correggevano il nome in
Nicolas.

Finalmente riuscii a individuare tre testi che erano considerati i più autorevoli.
Quando andai a cercarli sugli scaffali, però, non ne trovai neppure uno. L'addetto
al banco delle informazioni era uno studente piuttosto scontroso.

Probabilmente stava preparando un esame e non amava essere disturbato.

Dopo aver controllato sul computer mi confermò che i tre volumi erano in prestito o
in consultazione.

«Come vede, c'è molta gente», disse.

«Forse qualcuno li sta usando per le sue ricerche».

«Potrebbe dirmi chi li ha presi?» Lo studente gettò un'occhiata al monitor. «Li ha


richiesti un'altra biblioteca».

«A Lisle-sur-Tarn?»

«Sì». Il ragazzo sembrava sorpreso ma rimase addirittura esterrefatto quando


grugnii: «Bastardo! Non lei, si capisce.

Molte grazie».

Avrei dovuto immaginare che Jean-Paul non si sarebbe arreso tanto facilmente. Era
troppo curioso per starsene alla larga, troppo determinato a dimostrare la
fondatezza delle proprie teorie. Ora spettava a me decidere se ero disposta a
dargli la caccia pur di scoprire ciò che mi stava a cuore.

Alla fine non dovetti decidere un bel niente. Uscendo dalla stazione ferroviaria di
Lisle, m'imbattèi in Jean-Paul che tornava a casa dal lavoro. Mi salutò con un
cenno del capo: «Bonsoir». Prima ancora di rendermene conto, sbottai: «Li hai tu i
libri che ho cercato per tutto il pomeriggio!

Perché? Ti avevo chiesto di non fare le ricerche al posto mio, ma non hai voluto
darmi retta!» Sembrava quasi seccato. «Chi dice che io stia facendo queste ricerche
per te, Ella Tournier? Quel pittore mi ha incuriosito, e volevo conoscerlo meglio.
Se ti interessano i libri passa domani in biblioteca».

Mi appoggiai a un muro, incrociando le braccia. «Va bene, va bene. Hai vinto.

Dimmi almeno cos'hai scoperto.

Vuota il sacco e facciamola finita».

«Sei sicura di non volere consultare i testi personalmente?»

«Raccontami tutto».

Jean-Paul si accese una sigaretta, diede una tirata e soffiò il fumo verso il
basso. «Ok. Devi sapere che per lungo tempo le informazioni circa Nicolas Tournier
sono state assai scarse. Nel 1951 però fu scoperta un'annotazione relativa al suo
battesimo, avvenuto nel luglio 1590 in una chiesa protestante di Montbéliard.

Suo padre era André Tournier, un pittore di Besançon, città non molto lontana da
Montbéliard. Il nonno si chiamava Claude Tournier. Il padre di Nicolas, André,
s'era trasferito a Montbéliard nel 1572 a causa di problemi religiosi, forse in
seguito alla Notte di San Bartolomèo. Il tuo pittore era uno dei suoi numerosi
figli. Si hanno notizie di un suo soggiorno a Roma fra il 1619 e il

1626. Poi lo ritroviamo a Carcassonne nel 1627 e a Tolosa nel 1632. Fino a pochi
decenni fa si credeva che fosse morto dopo il 1657. Ma nel 1974 è stato scoperto il
suo testamento, datato 30 dicembre 1638. Con ogni probabilità morì non molto tempo
dopo».

Restai a lungo a fissare la strada in silenzio. A un certo punto Jean-Paul gettò


via la sigaretta con un gesto nervoso.

Mi decisi a parlare. «In quell'epoca il battesimo veniva celebrato subito dopo la


nascita?»

«Di solito sì, ma non sempre».

«Quindi l'incertezza rimane, giusto?

La data del battesimo non indica necessariamente la data di nascita.

Per quel che ne sappiamo, Nicolas Tournier poteva avere un mese, due anni, perfino
dieci anni, quando venne battezzato.

Chissà, magari era già adulto!»

«Questo è improbabile».

«Ma non impossibile. Voglio dire, la tua fonte non è precisa al riguardo.

Lo stesso vale per il testamento: la data potrà anche essere quella, ma non
sappiamo affatto quando è morto, o sbaglio? Potrebbe essersene andato anche dieci
anni dopo».

«Ella, era malato: ha fatto testamento ed è morto. Di solito funziona così».

«Sì, ma non ne siamo sicuri. Non sappiamo esattamente quando è nato, né quando è
morto. Queste testimonianze non provano un bel niente. Rimangono una quantità di
dettagli da definire».

Feci una pausa per ammorbidire il mio tono di voce che s'era fatto via via più
isterico.

Jean-Paul si appoggiò al muro a braccia conserte. «In realtà, non vuoi sentirti
dire che il padre di questo pittore si chiamava André Tournier: niente a che vedere
con Etienne o Jean. E poi non veniva neppure dalla Cévennes, né da Moutier.

Insomma non è un tuo parente».

«Mettiamola così», ribattèi dopo essermi calmata. «Fino a poco tempo fa, diciamo
fino agli anni Cinquanta, non si sapeva niente di lui. I dati biografici che gli
avevano attribuito erano sbagliati, a eccezione del cognome e della località in cui
è morto. Tutto il resto era inesatto: il nome di battesimo, le date di nascita e di
morte, il luogo di origine, perfino alcuni dei dipinti a lui attribuiti sono
risultati opera di altri pittori. Però queste notizie erano date per buone, io le
ho trovate in biblioteca! Se non avessi scoperto che esistevano fonti più recenti
mi sarei fatta un'idea assolutamente sbagliata di lui. L'avrèi perfino chiamato con
un altro nome!

Ancora oggi gli storici dell'arte si accapigliano sulla paternità dei suoi quadri.
Insomma non abbiamo notizie fondate su Nicolas Tournier, per cui dobbiamo affidarci
alle congetture, - l'anno del battesimo per quello di nascita, la data del
testamento per quella di morte: be', a casa mia questi sono soltanto vaghi indizi.

Vuoi dirmi perché dovrei crederci se non c'è niente di sicuro? Quel che è certo è
che io e lui portiamo lo stesso cognome, che lavorava a quaranta chilometri da dove
vivo adesso e che dipingeva lo stesso azzurro che sogno continuamente.

Queste sono certezze».

«Sono coincidenze. Ti stai lasciando sedurre da semplici coincidenze».

«E tu da semplici congetture».

«Siccome abiti vicino a quella che fu la sua città, non per questo dovete essere
per forza parenti. Il cognome Tournier è piuttosto comune da queste parti. Quanto
all'azzurro che sogni... be', un colore così brillante si ricorda facilmente.

Sarebbe stato più difficile con un blu opaco, non credi?»

«Perché t'intestardisci? Perché vuoi negare a ogni costo che fosse un mio avo?»

«Perché basi le tue convinzioni su una serie di casi fortuiti, fidandoti ciecamente
dell'istinto, invece di cercare prove concrete. Sei rimasta colpita dal dipinto, da
quella sfumatura di azzurro e siccome il pittore porta il tuo stesso cognome ti sei
messa in testa che si tratti di un tuo antenato. No, non spetta a me convincerti
che sia un estraneo per te, semmai sei tu a dover dimostrare il contrario».

Devo fermarlo, pensai, altrimenti presto perderò ogni speranza.

Forse me lo lesse negli occhi, perché a quel punto la voce di Jean-Paul si addolcì
un po'. «Temo che Nicolas Tournier non possa esserti di aiuto.

Magari hai preso, come dite voi.., un gambero».

«Cosa?» Risi. «Vuoi dire un granchio?

Forse hai ragione».

Feci una pausa. «In effetti questo pittore mi ha un po' preso la mano. Ho perfino
abbandonato le mie ricerche genealogiche. A che punto ero arrivata?»

«Volevi indagare sui tuoi remoti antenàti nella Cévennes».

«Bene, ripartirò da lì». Scoppiai a ridere vedendo la sua faccia. «SI, lo farò. E
vuoi sapere una cosa? Più mi contraddici più mi viene voglia di dimostrarti che
stai sbagliando.

Troverò le prove, prove concrete che anche tu sarai costretto ad accettare, circa i
miei "remoti antenàti". Così capirai che a volte anche l'istinto è capace di fare
centro».

Restammo in silenzio. Spostai il peso del corpo da una gamba all'altra e Jean-Paul
socchiuse gli occhi, abbagliato dal sole pomeridiano. A un tratto sentii che
eravamo lì, insieme, in quella stradina. Fra noi c'è solo mezzo metro d'aria,
pensai, basterebbe...

«E il sogno?» chiese Jean-Paul a un tratto. «Ti capita ancora di farlo?»

«Ah, no. A quanto pare è svanito».

«Allora, vuoi che chiami l'archivio di Mende avvisandoli del tuo arrivo?»

«No!» urlai, facendo voltare tutti i pendolari. «E' proprio il tipo di cosa che non
devi fare», sibilai. «Non t'impicciare a meno che non sia io a chiedertelo, ok? Se
avrò bisogno di aiuto te lo dirò».

Jean-Paul alzò le braccia quasi gli avessi puntato addosso una pistola.

«Va bene, Ella Tournier. Tiriamo una riga fra noi: io rimarrò da questa parte, ok?»
Fece un passo indietro, scostandosi da quella linea immaginaria. Ora era davvero
più lontano.

La sera dopo mentre cenavamo in veranda, annunciai a Rick che intendevo andare
nella Cévennes per esaminare certi documenti che riguardavano la mia famiglia.

«Ricordi che ho scritto a quel Jacob Tournier in Svizzera?» spiegai. «Bene.

Secondo lui, i Tournier sarebbero originari della Cévennes». Sorrisi compiaciuta:


stavo imparando a mettere in discussione le mie certezze.

«Comunque voglio andare a dare un'occhiata».

«Ma pensavo che avessi già scoperto le tue radici, con la storia del pittore».

«Be', in effetti non c'è niente di sicuro. Non ancora, per lo meno», mi affrettai
ad aggiungere. «Forse laggiù riuscirò a trovare la prova che quel legàme esiste
davvero».

Con mia grande sorpresa Rick inarcò le sopracciglia.

«Immagino che ci sia lo zampìno di Jean-Pierre in tutto questo».

«Jean-Paul. No, per niente. Anzi, semmai è esattamente il contrario. Lui è convinto
che farò un buco nell'acqua».

«Vuoi che venga con te?»

«Dovrò andarci in un giorno feriale, se voglio trovare gli archivi aperti».

«Potrei prendermi due giorni e accompagnarti».

«Pensavo di partire la prossima settimana».

«No... allora non posso. Stiamo diventando matti in studio per quel contratto con
la Germania. Magari più avanti, quando le cose si saranno calmate un po'. Che ne
dici di agosto?»

«Non posso aspettare fino ad agosto!»

«Dimmi un po', Ella, com'è che tutto a un tratto i tuoi avi ti interessano così
tanto? Non ti era mai successo prima».

«Forse perché prima non vivevo in Francia».

«Sì, ma dedichi un sacco di tempo a questa faccenda.

Cosa speri di ricavarne?» Intendevo rispondere che volevo sentirmi accettata dai
francesi, che volevo appartenere al loro paese. E invece dissi, quasi senza
rendermene conto: «Voglio scacciare quell'incubo, una buona volta».

«Credi davvero che scoprire le origini della tua famiglia ti aiuterà a liberarti di
un brutto sogno?»
«Sì». Mi appoggiai allo schienale, sollevando gli occhi verso il pergolato.
Minuscoli grappoli verdi cominciavano a spuntare qua e là.

Sapevo benissimo che non aveva senso, non esisteva alcuna relazione fra il sogno e
i miei possibili antenàti, tuttavia per qualche motivo la mia mente li aveva
collegati e per nulla al mondo avrei rinunciato a seguire quella pista.

«Verrà anche Jean-Pierre?»

«No! Perché sei così negativo? Non è da te. Questa cosa mi interessa. È la prima
cosa che desidero davvero da quando siamo qui. Il minimo che dovresti fare è non
ostacolarmi».

«Credevo che desiderassi avere un bambino. E in quello non mi pare di averti


ostacolato».

«Sì, ma...» Quando si tratta di avere un bambino non basta non essere di ostacolo,
bisogna volerlo con tutto il cuore, pensavo.

Recentemente avevo avuto un sacco di pensieri che mi ero affrettata a censurare.

Rick mi fissava scuro in volto, ma poi si sforzò di apparire rilassato. «Hai


ragione. Ovviamente puoi andare, piccola. Vai, se la cosa ti rende felice».

«Oh, Rick, non ho bisogno...» Lasciai la frase a metà.

Non era giusto criticarlo. Anche se non mi capiva, stava cercando di venirmi
incontro. Almeno ci provava.

«Guarda, starò via al massimo un paio di giorni. Se scopro qualcosa, bene.

In caso contrario non sarà certo un dramma. D'accordo?»

«Ella, se non scopri niente ti porto nel miglior ristorante di Tolosa».

«Davvero? Grazie. Mi sento già meglio».

Mia madre dice sempre che il sarcasmo è una forma meschina di umorismo. Lo sguardo
ferito di Rick mi fece sentire ancora più meschina.

Era una mattina fresca e luminosa: durante la notte un temporale aveva dissolto la
tensione che c'era nell'aria. Salutai Rick con un bacio e lui si avviò di buon
passo verso la stazione, mentre io salii in macchina e mi allontanai nella
direzione opposta. Mi sentivo decisamente sollevata.

Per festeggiare alzai il volume dell'autoradio e aprii entrambi i finestrini, oltre


al tettuccio, lasciandomi schiaffeggiare dal vento.

La strada fiancheggiava il Tarn fino ad Albi, celebre per la sua cattedrale e piena
di turisti, quindi proseguiva verso nord allontanandosi dal fiume.

L'avrèi ritrovato nella Cévennes, risalendone la sorgente.

Presto il paesaggio iniziò a cambiare.

Man mano che salivo, l'orizzonte si allargava, ma quando m'inoltrai fra le colline
tornò subito a restringersi e il cielo da blu si fece plumbeo. Ai lati della strada
fra i papaveri e il cerfoglio comparivano nuovi fiori, il rosa dei gigaro, candide
margherite, ma soprattutto la ginestra dall'aroma intenso. Il verde degli alberi
diventava via via più cupo e i campi coltivati cedevano ai prati, dove pascolavano
capre e mucche. I corsi d'acqua erano sempre più stretti, irrequieti e rumorosi.
D'un tratto le case cambiarono: l'intonaco bianco fu sostituito da pietre grigie, i
tetti si fecero aguzzi, con lastre d'ardesia al posto delle tegole in terracotta.

Insomma tutto era più piccolo, buio e austero.

Chiusi i finestrini e il tettuccio e spensi la musica. Il mio stato d'animo pareva


intonarsi al panorama. Non mi piaceva affatto quella terra, affascinante eppure
tanto triste.

Chissà perché, mi faceva venire in mente l'azzurro della Vergine.

La città di Mende venne a completare la mestizia del paesaggio e del mio cuore. Le
sue anguste viuzze erano circondate da una strada di scorrimento molto trafficata,
che pareva quasi imprigionare il borgo. La cattedrale occupava il centro della
città con due guglie di foggia diversa che le davano un aspetto goffo e
improvvisato. All'interno, la chiesa era buia e opprimente. Uscii subito e rimasi a
guardare dalla scalinata i palazzi grigi intorno alla piazza.

Questa è la Cévennes? pensavo. Risi di me: ovviamente avevo immaginato il paese dei
Tournier come una terra meravigliosa.

Avevo fatto tutta una tirata da Lisle, una strada a tratti ampia ma sempre in
salita, fra un susseguirsi di curve e tornanti che richiedevano molta più
concentrazione dei lunghi rettilinei delle autostrade americane. Esausta e di
cattivo umore, non trovai alcun conforto nella tetra cameretta dell'albergo, né
cenando da sola in una pizzeria frequentata soltanto da coppie e uomini anziani.
Decisi di non chiamare Rick: sapevo che invece di risollevarmi il morale mi avrebbe
fatta sentire peggio, rammentandomi il varco che si stava aprendo fra noi.

L'archivio era un edificio moderno intonacato a strisce bianche e rosa, con gli
infissi di metallo blu, verdi e rossi.

Ampia e luminosa, la sala destinata alle ricerche era disseminata di tavoli in


buona parte occupati da persone intente a esaminare documenti.

Tutti davano l'impressione di sapere esattamente quel che stavano facendo.

Mi sentii come mi sentivo sempre a Lisle: in quanto straniera, dovevo stare al


margine. Potevo osservare e ammirare i natìvi, ma solo da lontano, senza unirmi a
loro.

Una donna piuttosto alta mi sorrise da dietro il bancone principale. Avrà avuto
all'incirca la mia età, con i capelli biondi e un paio di occhiali gialli. Grazie a
Dio, pensai, non la solita Madame. Mi avvicinai e posai la borsa sul bancone. «Non
so da che parte cominciare», confessai. «Può aiutarmi, per favore?» Se ne uscì con
una risata stridula, assolutamente inopportuna in mezzo a quel silenzio.

«Alors, che cosa sta cercando?» mi domandò sempre ridendo, gli occhi azzurri
ingigantiti dalle lenti spesse. Non avevo mai visto nessuno portare gli occhiali
con tanta eleganza.

«Un mio antenato, Etienne Tournier, dovrebbe essere vissuto qui nella Cévennes
intorno al sedicesimo secolo.

Vorrei scoprire qualcosa di più sul suo conto».


«Conosce le date di nascita e di morte?»

«No. So che la famiglia a un certo punto si trasferì in Svizzera, ma ignoro quando.


Credo però che fosse prima del 1576».

«Non dispone di qualche altra data?

Relativa a figli o nipoti, per esempio?»

«Be', Etienne Tournier aveva un figlio, Jean, che a sua volta ebbe un figlio nel
1590».

La donna annuì. «Dunque, poniamo che Jean sia nato fra il 1550 e il 1575.

Suo padre, Etienne, ci riporta indietro da un minimo di venti a un massimo di


quarant'anni, comunque non prima del 1510. Quindi il periodo che le interessa va
all'incirca dal 1510 al 1575, o qualcosa del genere, giusto?» Parlava francese così
velocemente che non riuscii a risponderle subito: stavo ancora facendo i calcoli.

«SI, direi di sì», balbettai alla fine, domandandomi se non fosse il caso di citare
anche il Tournier pittore, insieme ad André e Claude.

Non me ne lasciò il tempo. «Deve consultare gli atti di nascita, matrimonio e


morte», annunciò l'archivista. «Forse anche i compoix, i registri fiscali. Mi dica,
da quale villaggio venivano i suoi avi?»

«Non lo so».

«Ah, questo è un problema. Sa, la Cévennes è piuttosto estesa. Certo, non sono
molti i documenti risalenti a quell'epoca. Allora erano le parrocchie a tenere i
registri relativi alla popolazione, ma per lo più furono bruciati o andarono
comunque perduti durante le guerre di religione. Non troverà granché da esaminare.
Sapendo il nome del villaggio potrei dirle subito cosa c'è in archivio, ma non
importa, vedrà che qualcosa troveremo».

La donna scorse l'inventario dei documenti conservati lì e negli altri archivi del
departement. Aveva visto giusto: gli atti relativi al sedicesimo secolo erano
soltanto una manciata e si erano salvati per puro caso. Ci sarebbe voluto un colpo
di fortuna per trovare traccia di un Tournier in quelle poche carte.

Chiesi comunque di poter visionare le scritture risalenti al periodo individuato


dall'archivista. Non avevo idea di quello che avrei trovato.

Usavo il termine "documento" in modo assai vago e generico, pensando a un


equivalente dei moderni certificati di nascita e matrimonio, magari scritto su
carta pergamena. Cinque minuti dopo la donna mi portò alcune scatole di microfilm,
un libro coperto da una carta marrone e una grande scatola. Mi posò tutto davanti e
si congedò con un sorriso d'incoraggiamento. Le gettai un'occhiata mentre tornava
al bancone, e risi in cuor mio degli zatteroni che portava e della minigonna di
pelle.

Decisi di partire dal libro. Rilegato in cuoio lucido color crema, aveva sulla
copertina antiche note musicali e parole in latino. La prima lettera di ciascuna
riga era ingrandita e colorata di rosso e blu. Iniziai a sfogliarlo, lisciando ogni
pagina con cura, emozionata nel trovarmi fra le mani un oggetto così antico. Il
testo era scritto con l'inchiostro bruno e con una calligrafia tanto elaborata da
apparire quasi un ornamento. Io però non ci capivo nulla. I caratteri mi sembravano
quasi tutti uguali e anche quando riuscivo a decifrare qualche vocabolo, la cosa
non cambiava molto: quella lingua mi era sconosciuta.
Fu allora che iniziai a starnutire.

Venti minuti dopo l'archivista venne a vedere come procedeva la mia ricerca.

Avevo in qualche modo esaminato dieci pagine, trovando alcune date e identificando,
sia pur a fatica, qualche nome.

Sollevai lo sguardo. «Ma è francese questo?»

«Francese antico».

«Oh». A questo non avevo proprio pensato.

L'archivista abbassò gli occhi sulla pagina che avevo davanti e fece scorrere
l'unghia laccata di rosa sopra il testo.

«Una donna incinta è annegata nel fiume Lot. Maggio 1574. Une inconnue, la pauvre»,
mormorò. «Questi atti di morte non le sono molto utili, vero?»

«Temo di no», risposi, starnutendo sul libro.

Mi scusai e la donna sorrise. «Qui starnutiscono tutti. Si guardi in giro,


fazzoletti ovunque». Proprio in quel momento ci giunse lo starnuto di un vecchio
dall'altra parte della sala e scoppiammo a ridere.

«Fugga da questa polvere per un po'», disse l'archivista.

«Venga, le offro un caffè. Mi chiamo Mathilde». Mi porse la mano sorridendo. «E'


così che fate in America, vero? Vi stringete la mano quando fate conoscenza?»
Andammo a sederci in un bar subito dietro l'angolo e poco dopo chiacchieravamo già
come vecchie amiche. Anche se parlava a raffica, non era difficile capirla. Solo
allora mi accorsi di quanto mi fosse mancata in tutti quei mesi la compagnia di una
donna. Mi rivolse un sacco di domande sugli Stati Uniti, e in particolare sulla
California.

«Che ci fai qui?» mi chiese alla fine con un sospiro. «Se potessi, io volerei
subito in California».

M'irrigidii. Desideravo farle capire che non mi ero limitata a seguire Rick in
Francia, come sembrava credere JeanPaul. Stavo ancora pensando a come risponderle,
quando Mathilde cambiò discorso: non pretendeva affatto che le raccontassi la mia
vita.

Non si mostrò sorpresa quando le confessai il mio interesse per la storia di


famiglia. «E' una cosa piuttosto diffusa», disse.

«Mi sento un po' sciocca», ammisi.

«Difficilmente riuscirò a scoprire qualcosa».

«E' vero», assentì. «A essere sinceri, le ricerche relative a secoli tanto lontani
non hanno quasi mai successo.

Però non ti devi scoraggiare. E poi quei documenti sono comunque interessanti, non
trovi?»

«Sì, ma ci metto così tanto a capire quello che c'è scritto! Riesco appena a
riconoscere le date e qualche nome».
Mathilde sorrise. «Se pensi che il libro sia difficile, aspetta di vedere i
microfilm!» Scoppiò a ridere davanti alla mia faccia sconsolata, dopodiché
aggiunse: «Sono abbastanza libera oggi, tu vai avanti con il libro e io visionerò i
microfilm per te. Sono abituata alle antiche calligrafie!» La ringraziai di cuore
per l'offerta.

Mentre lei era seduta al microlettore, io affrontai lo scatolone. Avevo saputo da


Mathilde che conteneva un registro di compoix, atti relativi al pagamento delle
decime sui raccolti.

Tutti i documenti parevano scritti dalla stessa mano ed erano quasi illeggibili.

Mi ci volle l'intera giornata per esaminarli, uno a uno. Alla fine ero spossata.
Mathilde invece pareva più che altro delusa.

«Possibile che non vi sia altro in cui cercare?» domandò, scorrendo ancora una
volta l'inventario. «Attends, c'è un compoix proprio del 1570, nel municipio di Le
Pont de Montvert. Ma certo, Monsieur Jourdain! L'ho aiutato io stessa a redigere
l'inventario, un anno fa».

«Chi è Monsieur Jourdain?»

«Il segretario comunale».

«Pensi che ne valga la pena?»

«Bien sur. Anche se non dovessi trovare nulla, Le Pont de Monrvert è un posto
stupendo. Un paesino ai piedi di Mont Lozère». Mathilde gettò un'occhiata
all'orologio.

«Mon ....... devo correre a prendere Sylvie!» Prese la borsa e mi spinse fuori,
ridacchiando mentre chiudeva la porta dell'archivio. «Ti divertirai con Monsieur
Jourdain.

Se non ti mangia viva, ovviamente!» La mattina dopo partii di buon'ora e imboccai


la suggestiva strada che conduceva a Le Pont de Monrvert.

Appena iniziai a risalire le pendici del Monte Lozère il paesaggio si aprì,


acquistando in luminosità, sia pure fra una vegetazione sempre più scarsa.

Attraversai minuscoli villaggi le cui case, fatte per intero di granito, si


distinguevano dalle rocce circostanti solo per qualche tocco di pittura. Per lo più
parevano abbandonate, senza tetto, con i camini diroccati, le persiane sghembe. Si
vedevano in giro pochissime persone e superata una certa altezza non incrociai più
alcun veicolo lungo la strada. Presto non rimasero che speroni di roccia, erica e
ginestra, e di tanto in tanto un gruppetto di pini.

Ora sì che ci siamo, pensai.

Fermai la macchina nei pressi della cima, in una località chiamata Col de Finiels,
e mi sedetti sul cofano. Dopo pochi minuti la ventola si spense e mi ritrovai
immersa in un silenzio meraviglioso. Si sentiva soltanto il canto degli uccelli e
il muggito del vento. Stando alla mappa di cui disponevo, la sorgente del Tarn
doveva trovarsi su un colle lì vicino, oltre una piccola pineta. Fui tentata di
andarla a cercare.

Invece discesi l'altro versante della montagna, zigzagando avanti e indietro lungo
i suoi fianchi, finché un ultimo tornante non mi portò dritta dentro l'abitato di
Le Pont de Montvert, oltre l'albergo, la scuola, un ristorante, qualche bar e
negozio, tutti situati dalla stessa parte della strada.

Dalla via principale si dipartivano viuzze contorte che salivano verso le case, in
cima alla collina. Sopra le case svettava il campanile di pietra di una chiesa.

Il mio sguardo fu attratto dallo scintillìo dell'acqua: al di là della strada


scorreva il Tarn, mezzo nascosto da un muretto. Parcheggiai accanto a un vecchio
ponte di pietra e salii a guardare il fiume dall'alto.

Era completamente diverso da come lo conoscevo. Quel fiume ampio e placido era
diventato un torrente impetuoso, non più largo di sei o sette metri.

Rimasi a osservare i ciottoli porpora e giallastri che brillavano sott'acqua.


Faticai a distogliere lo sguardo.

Quest'acqua scenderà fino a Lisle, pensavo. Fino a me.

Erano le dieci di un mercoledì mattina. Forse anche Jean-Paul stava guardando il


fiume, seduto al solito caffè.

Basta, Ella, mi rimproverai, non pensare a niente, se non riesci a pensare a Rick.

Vista da fuori la mairie, un edificio grigio con le persiane marroni e la bandiera


francese che pendeva floscia da una delle finestre, era abbastanza decente. Dentro
però sembrava la bottega d'un rigattiere. I raggi del sole fendevano il pulviscolo
che offuscava la stanza. Monsieur Jourdain stava leggendo il giornale seduto alla
scrivania. Basso, grasso e con gli occhi sporgenti, aveva la carnagione olivastra e
una barba incolta che gli arrivava a metà collo, nascondendo la mascella. Mi guardò
con sospetto mentre andavo verso di lui passando fra mobili antiquati e pile di
fogli.

«Bonjour, MonsieurJourdain», dissi in tono cordiale.

L'uomo grugnì e abbassò lo sguardo sul giornale.

«Mi chiamo Ella Turner... Tournier», continuai, rigorosamente in francese.

«Vorrei esaminare alcuni documenti che sono conservati presso la mairie.

Dovreste avere fra l'altro un compoix del 1570. Posso vederlo?» Mi gettò
un'occhiata e riprese la lettura.

«Monsieur? Monsieur Jourdain, vero?

All'archivio di Mende mi hanno consigliato di parlare con lei».

Monsieur Jourdain si passò la lingua sui denti. Guardai il giornale, un quotidiano


sportivo aperto alla pagina dell'ippica.

D'un tratto bofonchiò qualcosa d'incomprensibile. «Pardon?» feci io.

Dalla sua bocca uscirono altri suoni indecifrabili e mi domandai se per caso non
fosse ubriaco. Quando provai di nuovo ad attirare la sua attenzione, prese ad
agitare le mani sputacchiando e mi vomitò addosso un fiume di parole.

Arretrai di un passo.

«Gesù, un vero stereotipo», mormorai nella mia lingua.


Il segretario strinse gli occhi, digrignando i denti. A quel punto girai i tacchi e
uscii.

Ero infuriata. Andai in un bar a prendere un caffè, cercai sull'elenco il numero


dell'archivio di Mende e chiamai Mathilde dal telefono pubblico.

Iniziò a strillare quando le spiegai ciò che era successo.

«Ci penso io», disse. «Torna da lui fra mezz'ora».

Qualunque cosa Mathilde avesse detto a Monsieur Jourdain al telefono, aveva


funzionato, eccome. Sia pur guardandomi con cipiglio, il segretario mi condusse,
attraverso un corridòio, in una stanzetta dove c'era una scrivania colma di carte.

«Attendez», borbottò e uscì. Pareva di essere in una soffitta e nell'attesa


curiosai un po' intorno. Ovunque si vedevano scatoloni zeppi di libri, alcuni dei
quali davano l'impressione di essere molto antichi. Fasci di documenti che avevano
l'aria di essere atti amministrativi giacevano ammucchiati sul pavimento, mentre la
scrivania era disseminata di buste ancora chiuse, tutte indirizzate ad Abraham
Jourdain.

Dopo qualche minuto l'uomo ricomparve con uno scatolone fra le braccia e lo lasciò
cadere sulla scrivania, quindi se ne andò di nuovo senza degnarmi di un'occhiata.

Dentro lo scatolone c'era un compoix simile a quello che avevo visto a Mende, ma
ancora più voluminoso e in pessimo stato. La copertina di cuoio era frusta al punto
da non riuscire più a tenere insieme le pagine. Per quanto cercassi di maneggiarlo
con cura, di tanto in tanto si staccavano dei pezzi di carta che io mi affrettavo a
nascondere in tasca, nel timore che Monsieur Jourdain se ne accorgesse, prendendomi
a male parole.

Alle dodici in punto mi cacciò via.

Ero all'opera da non più di un'ora, quando comparve sulla soglia e bofonchiò
qualcosa guardandomi corrucciato. Riuscii a capirlo solo perché continuava a
picchiettare col dito sopra l'orologio.

Precedendomi nel corridòio, si trascinò fino al portone, lo aprì e, non appena fui
uscita, lo richiuse con violenza tirando subito il chiavistello.

La luce del sole mi fece battere le palpebre dopo il buio di quella stanzetta
polverosa.

All'improvviso mi ritrovai circondata da uno sciame di bambini che uscivano dal


vicino asilo.

Grazie, Signore, pensai, respirando a pieni polmoni.

Comperai qualcosa da mangiare in una bottega che stava ormai per chiudere:
formaggio e pesche, e una pagnotta rossiccia. Il negoziante mi spiegò che si
trattava di una specialità della zona, pane di castagne. Imboccai una viuzza che
saliva fra le case di pietra, fino alla chiesa in cima al villaggio.

Decisamente sobrio, l'edificio era alto suppergiù quanto era largo.

L'entrata principale era chiusa a chiave ma, girando intorno alla chiesa, scoprii
una porticina aperta con la data 1828 incisa sulla traversa. Dentro non c'erano che
panche di legno deserte e le due pareti più lunghe erano sovrastate da balconate.
Vidi un organo di legno, un leggìo e un tavolo su cui era aperta una grossa Bibbia.
Nient'altro.

Nessuna decorazione, né statue, né crocifissi, neppure una vetrata. Non avevo mai
visto una chiesa così spoglia. Non c'era neanche un altare per distinguere il luogo
riservato al sacerdote da quello destinato ai fedeli.

Mi avvicinai alla Bibbia, l'unico oggetto di culto che si trovasse là dentro.


Sembrava antica, anche se non quanto il compoix che stavo esaminando in municipio.
Iniziai a sfogliarla. Mi ci volle un po' di tempo, - non conoscevo l'ordine dei
libri della Bibbia, - ma alla fine trovai quel che cercavo. Iniziai a leggere il
salmo

31: J'ai mis en toi mon espérance: Garde-moi donc, Seigneur.

Quando giunsi alla prima riga del terzo versetto, avevo gli occhi pieni di lacrime:
Tu es ma tour et forteresse, tu sei la mia rocca e la mia fortezza...

Smisi di colpo e scappai via.

Che stupida sei, dissi, in collera con me stessa, sedendomi sul muretto di fianco
alla chiesa. Mi asciugai le lacrime e cercai di mangiare qualcosa, battendo le
palpebre nella luce intensa del mezzogiorno. Il pane di castagne era dolce e
croccante. Quel sapore mi rimase in bocca per tutto il giorno.

Tornando alla mairie, trovai Monsieur Jourdain seduto alla scrivania, con le mani
giunte davanti a sé. Non stava leggendo il giornale, anzi pareva quasi che mi
stesse aspettando.

Azzardai un saluto: «Bonjour, Monsieur. Potrei avere il compoix, per favore?» Il


segretario aprì un armadio lì accanto, tirò fuori lo scatolone e me lo porse. Poi
rimase a fissarmi con attenzione.

«Come si chiama?» mi domandò con l'aria incuriosita.

«Tournier. Ella Tournier».

«Tournier», ripeté, senza togliermi gli occhi di dosso. A un tratto storse la


bocca, passandosi la lingua sui denti.

Pareva colpito dai miei capelli. «La Rousse», mormorò.

«Cosa?» esclamai a voce alta. Mi venne la pelle d'oca in tutto il corpo.

Monsieur Jourdain sgranò gli occhi, stupito. Poi allungò la mano toccando una
ciocca dei miei capelli. «C'est rouge.

Alors, la Rousse».

«Ma i miei capelli sono castani, Monsieur».

«Rouge», ribadì lui con fermezza.

«Certo che no. Sono sempre...» Mi tirai un ciuffo davanti agli occhi e rimasi senza
fiato: aveva ragione lui.

I miei capelli erano venati da scintillanti riflessi color rame.

Ma erano castani l'ultima volta che m'ero guardata allo specchio, quella mattina!
Era già successo che il sole mi schiarisse i capelli, ma non così tanto, né così in
fretta!

«Che vuol dire La Rousse?» feci, indispettita.

«E' un soprannome. Da queste parti si usa per le ragazze coi capelli rossi.

Non è mica un insulto, sa», si affrettò ad aggiungere il segretario.

«Era così che chiamavano la Vergine, la Rossa, perché un tempo si credeva che
avesse i capelli rossi».

«Ah». D'un tratto mi sentii come stordita, avevo la bocca secca e la nausea allo
stesso tempo.

«Senta, Madame». L'ometto si passò di nuovo la lingua sopra i denti. «Se vuole può
mettersi a lavorare lì...» Indicò una scrivania vuota davanti alla sua.

«No, grazie», risposi con voce flebile. «Sto benissimo nell'altro ufficio».

Monsieur Jourdain annuì. Pareva sollevato. Di certo non gli andava di dividere la
stanza con me.

Ripresi dal punto in cui ero rimasta, ma non facevo che interrompermi tornando a
guardare i miei capelli.

Alla fine mi rassegnai. Non puoi farci niente, Ella, mi dissi. Vedi piuttosto di
finire questa benedetta ricerca.

Volevo sbrigarmi, convinta com'èro che l'inaspettata benevolenza di Monsieur


Jourdain si sarebbe rivelata effimera.

Saltai tutte le annotazioni relative alla natura dei tributi e mi concentrai


unicamente su nomi e date.

Man mano che mi avvicinavo alla fine però il mio sconforto aumentava, così per
farmi coraggio ricorrevo a piccole scommesse con me stessa: nei prossimi venti
documenti troverò almeno un Tournier; ne salterà fuori uno entro cinque minuti.

Rimasi a fissare l'ultima carta della raccolta: riguardava un certo Jean Marcel e
c'era accanto soltanto una voce, chàtaignes, un termine che ricorreva spesso nel
compoix, castagne. Il nuovo colore dei miei capelli.

Infilai il libro nello scatolone e mi avviai adagio verso l'ufficio di Monsieur


Jourdain, in fondo al corridòio. Seduto alla scrivania, il segretario stava
battendo velocemente con due dita sui tasti di una vecchia macchina da scrivere.

A un tratto si chinò in avanti e una catena d'argento gli uscì dal colletto
sbottonato della camicia. Il ciondolo che c'era attaccato andò a sbattere contro i
tasti e l'uomo alzò gli occhi, sorprendendomi con lo sguardo fisso su quello strano
oggetto.

«La croce degli ugonotti», disse. «La conosce?» Scrollai la testa. La tenne
sollevata perché potessi vederla meglio. Era una croce di Malta, con una colomba ad
ali spiegate appesa al braccio inferiore.

Posai lo scatolone sulla scrivania vuota. «Voilà», dissi. «E grazie per la


cortesia».
«Ha trovato qualcosa?»

«No». Gli porsi la mano. «Merci beaucoup, Monsieur».

Dopo un attimo di esitazione la strinse.

«Au revoir, la Rousse», gridò mentre me ne andavo.

Era troppo tardi per tornare a Lisle, così presi una camera in uno dei due alberghi
del villaggio. Dopo cena telefonai a Rick ma non era in casa.

Allora chiamai Mathilde, che mi aveva dato il suo numero, pregandomi di tenerla al
corrente sull'esito delle mie ricerche. Si mostrò dispiaciuta quando le dissi che
non avevo scoperto nulla, anche se era stata la prima ad avvisarmi che si trattava
di un'impresa disperata.

Le chiesi come fosse riuscita a convincere Monsieur Jourdain a mostrarsi più


gentile con me.

«Oh, sensi di colpa. Gli ho semplicemente fatto presente che stai conducendo delle
ricerche sugli ugonotti. Vedi, anche lui discende da una famiglia protestante, anzi
da uno dei capi della rivolta dei Camisard, René Laporte, se non sbaglio».

«Così quel tizio è un ugonotto».

«Certo. Cosa ti aspettavi? Non devi giudicarlo male, Ella. Sta passando un brutto
momento, il poveraccio. Tre anni fa sua figlia è scappata con un americano. Un
turista, e per di più cattolico! Non so se lo renda più furioso il fatto che fosse
americano o la sua fede cattolica! Hai visto com'è ridotto? Prima era un ottimo
funzionario, un uomo brillante. Pensa che l'anno scorso mi hanno spedito laggiù per
dargli una mano a mettere in ordine gli uffici».

Rividi la stanzetta ingombra di libri e scartoffie dove avevo lavorato e mi sfuggì


un risolìno.

«Perché ridi?»

«Ma hai visto la stanza in fondo al corridòio?»

«No. Diceva di aver perduto la chiave e che comunque era vuota».

Le descrissi il piccolo ufficio.

«Merde, lo sapevo che mi stava nascondendo qualcosa.

Avrei dovuto insistere di più».

«Comunque, grazie di tutto».

«Figurati, non è niente». Poi aggiunse, dopo una pausa:

«Allora, chi è questo Jean-Paul?» Arrossii. «Uno dei bibliotecari di Lisle. Ma tu


come fai a conoscerlo?»

«Ha chiamato oggi pomeriggio».

«Ha chiamato.., te?»

«Certo. Voleva sapere se avevi trovato quello che stavi cercando».


«Davvero?»

«Sembri sorpresa».

«Be'... sì, no... non lo so. E tu cosa gli hai detto?»

«Gli ho detto di chiederlo a te. Sei innamorata cotta, eh?» Sussultai.

Presi la strada panoramica che conduce a Lisle seguendo il corso tortuoso del Tarn.
Era una giornata nuvolosa e non mi andava proprio di guidare. Mi venne perfino la
nausea per colpa di tutti quei tornanti. Alla fine cominciai a chiedermi chi me
l'avesse fatto fare di buttarmi in quell'avventura.

Rick non era in casa quando arrivai e in studio non rispondeva nessuno. La nostra
casa pareva disabitata. Mi misi a vagare da una stanza all'altra, ma non avevo
voglia di leggere, né di guardare la Tv. Andai in bagno e rimasi a lungo davanti
allo specchio a guardarmi i capelli. Il mio parrucchiere a San Francisco aveva
sempre cercato di convincermi a tingerli color rame, diceva che si sarebbero
intonati perfettamente ai miei occhi castani. Non avevo mai voluto accogliere il
suggerimento, ma alla fine sembrava averla spuntata: i miei capelli stavano proprio
diventando rossi.

Verso mezzanotte cominciai a preoccuparmi: Rick non aveva preso neppure l'ultimo
treno da Tolosa. Non conoscevo il numero di nessuno dei suoi colleghi, ammesso che
fosse in loro compagnia, e in città non c'era nessuno cui potessi telefonare, una
voce amica cui rivolgermi in cerca di conforto. Per un momento pensai di chiamare
Mathilde, ma era tardi e non avevo abbastanza confidenza con lei per disturbarla a
mezzanotte con le mie ansie.

Così chiamai mia madre a Boston. «Sei sicura che non ti abbia detto dove andava?»
continuava a ripetere la mamma.

«E tu dov'èri, Ella? Gli sei stata accanto in questi mesi?» Non le interessavano le
mie ricerche sui Tournier. Quella non era più la sua famiglia ormai. Per lei la
Cévennes e i pittori francesi non significavano nulla.

Cambiai discorso. «Mamma, i miei capelli stanno diventando rossi».

«Cosa? Hai fatto l'henné? Come ti sta?»

«Non ho fatto niente.. .» Mi fermai.

Non potevo certo dirle che stavano cambiando colore da soli: non aveva senso.
«Bene», mi limitai a dire, «mi sta davvero bene. È così... naturale».

Andai a letto ma rimasi sveglia per ore, in attesa di sentire la chiave di Rick che
girava nella toppa, tormentata dai dubbi. Da una parte mi dicevo che in fondo Rick
era adulto e vaccinato, ma d'altro canto sapevo bene che non era da lui sparire in
quel modo.

La mattina dopo mi alzai presto e restai seduta in cucina a bere caffè fino alle
sette e mezza, quando finalmente una delle centraliniste dello studio di Rick
rispose al telefono. La ragazza non sapeva nulla di lui ma promise di farmi
chiamare dalla sua segretaria appena fosse entrata in ufficio.

La telefonata arrivò alle Otto e mezza e a quel punto ero intossicata dal caffè e
mi girava un po' la testa.
«Bonjour, Madame Middleton», esordì la segretaria con la solita cantilena.

«Come sta?» Tralasciai di spiegarle che non usavo mai il cognome di mio marito.

«Sa dirmi dov'è Rick?» chiesi subito.

«Ma è a Parigi per lavoro», disse lei.

«È dovuto partire all'improvviso ieri l'altro. Torna stasera. Non l'ha informata?»

«No. Non mi ha informata».

«Le do subito il numero dell'hotel, così può chiamarlo».

Quando riuscii a mettermi in contatto con l'hotel, Rick se n'era già andato.

Per qualche motivo questo mi rese più furiosa che mai.

Quando tornò a casa non avevo neppure voglia di rivolgergli la parola. Parve
sorpreso di vedermi, ma anche felice.

Non lo degnai nemmeno di un ciao.

«Perché non mi hai detto dove andavi?» domandai seccata.

«Ma se neanche sapevo dov'èri!» Inarcai le sopracciglia. «Lo sapevi benissimo. Ero
all'archivio di Mende a fare delle ricerche. Avresti potuto cercarmi!».

«Ella, in tutta onestà, non so proprio cosa tu abbia fatto nei giorni scorsi...»

«Cosa intendi dire?»

«...né dove avessi intenzione di andare.

Non ti sei fatta sentire nemmeno una volta. Ignoravo dove fossi diretta, per quanto
tempo saresti stata via. È stata una sorpresa per me trovarti qui. Per quel che ne
sapevo, saresti potuta tornare anche fra due settimane».

«Ora non esagerare».

«Non sto esagerando. Piantala, Ella, non puoi sparire così e pretendere che io ti
dica dove sono».

Chinai la testa, scura in volto. Aveva perfettamente ragione e la cosa mi irritava


al punto che l'avrèi preso a schiaffi. Sospirai. «Giusto», ammisi.

«Scusami. Mi dispiace. E' solo che non ho scoperto nulla e quando sono tornata tu
non c'eri e ah, ho bevuto troppo caffè. Mi è perfino venuta un po' di nausea».

Rick scoppiò a ridere e mi gettò le braccia al collo. «Raccontami tutto quello che
non hai scoperto».

Nascosi il volto contro la sua spalla.

«Un bel niente. Ho solo conosciuto una ragazza simpatica e un vecchio isterico».

A un tratto sentii la guancia di Rick allontanarsi dalla mia testa. Lo guardai in


faccia. Pareva sconcertato.
«Ma ti sei tinta i capelli?» Il giorno dopo era sabato e andammo insieme a fare un
giro al mercato. Mi sentivo serena e Rick mi cingeva le spalle con un braccio. Per
festeggiare la ritrovata armonia, visto che anche la psoriasi pareva finalmente in
via di guarigione, avevo indossato il vestito che preferivo, un tubino leggero
senza maniche color giallo chiaro.

Man mano che l'estate si avvicinava, il mercato del sabato si faceva sempre più
ampio e affollato. Ormai occupava l'intera piazza. Gli agricoltori erano venuti
dalla campagna con i loro furgòni colmi di frutta e ortaggi, formaggio, miele,
pancetta, pane, pàté, polli, conigli, carne di capra.

Avrei potuto comperare una montagna di dolci, un grembiule come quello di Madame la
fornaia, perfino un trattore, se avessi voluto.

Al mercato c'erano tutti: i nostri vicini, la donna della biblioteca, Madame seduta
su una panchina in compagnia delle amiche, una signora che avevo conosciuto al
corso di yoga, la madre del bimbo che stava per soffocare e i negozianti della
città al gran completo.

Nonostante la ressa, lo notai subito.

Sembrava sul punto di azzuffarsi con un venditore di pomodori, ma di colpo i due si


scambiarono un sorriso complice e subito dopo grandi pacche sulle spalle. Jean-Paul
prese il suo sacchetto, si voltò e per poco non mi venne addosso. Io feci un balzo
indietro per evitare di ritrovarmi i pomodori spiaccicati sul vestito e inciampai
sul selciato. Subito Rick e Jean-Paul mi presero per i gomiti e, mentre recuperavo
l'equilibrio, sentii le loro mani stringermi per un momento. Poi Jean-Paul mollò la
presa.

«Bonjour, Ella Tournier», disse salutandomi con un cenno e marcando appena le


sopracciglia.

Indossava una camicia celeste.

All'improvviso mi venne una gran voglia di toccarla.

«Ciao, Jean-Paul», risposi con voce calma. Ricordavo di aver letto da qualche parte
che, nelle presentazioni, è buona norma rivolgersi prima alla persona più
importante. Così mi voltai verso Rick e dissi: «Rick, questo è Jean-Paul.

JeanPaul, questo è Rick, mio marito».

I due uomini si strinsero la mano.

Rick disse Bonjour e Jean-Paul Hello.

Mi veniva da ridere. Quant'erano diversi: Rick alto e muscoloso, biondo e schietto


di natura; JeanPaul invece piccolo e nervoso, con i capelli scuri e subdolo. Il
leone e la volpe, pensai. Certo diffidavano l'uno dell'altro.

Seguì qualche istante di imbarazzato silenzio, poi JeanPaul si voltò verso di me e


disse in inglese: «Allora, come sono andate le tue ricerche a Mende?» Mi strinsi
nelle spalle, cercando di apparire indifferente.

«Non troppo bene. Niente di utile. A dire il vero, niente di niente». In realtà non
mi sentivo affatto tranquilla, combattuta com'èro fra piacere e sensi di colpa. Ero
compiaciuta che Jean-Paul mi avesse cercato da Mathilde. Il suo inglese
insolitamente zoppicante era l'unico indizio del suo turbamento interiore.
Era così diverso da Rick. Comunque mi piaceva sentirmi addosso gli occhi di
entrambi.

«Sei andata a cercare anche altrove?» Evitai lo sguardo di Rick. «Sì, a Le Pont de
Montvert, ma anche li nulla.

Non è rimasto granché di quegli anni.

Comunque, non è poi così importante.

Dico davvero».

Il sorriso sardonico di Jean-Paul voleva dire tre cose: stai mentendo, hai visto
che non era così semplice?

io ti avevo avvertito.

Ma non furono queste le parole che uscirono dalla sua bocca. Si limitò a guardarmi
i capelli con attenzione, dicendo: «Stanno diventando rossi».

«Sì», feci io con un sorriso. L'aveva detto nel modo giusto, senza alcun tono
inquisitorio, né velati rimproveri. Per un momento Rick scomparve insieme al
mercato.

Proprio in quel momento sentii la mano di mio marito che tornava a cingermi le
spalle. Risi nervosamente.

«Comunque ora dobbiamo andare», dissi.

«È stato un piacere».

«Au revoir, Ella Tournier», rispose Jean-Paul.

Io e Rick non ci parlammo per qualche minuto. Finsi di essere assorbita dalla
scelta del miele, mentre lui soppesava con cura le melanzane, una per una. A un
tratto disse: «Così è lui, eh?» Lo guardai di traverso. «E' il bibliotecario di cui
ti ho parlato.

Punto e basta».

«Sei sicura?»

«Sì». Era da un pezzo che non mentivo a mio marito.

Un pomeriggio, ritornando a casa dal corso di yoga, sentii squillare il telefono.


Corsi dentro e feci appena in tempo a esalare un trafelato

«Pronto?» Subito una voce acuta ed eccitata iniziò a parlarmi tanto velocemente che
dovetti sedermi aspettando che finisse. A un certo punto, però, la interruppi in
francese: «Ma chi è?»

«Mathilde, sono Mathilde. Ascolta, è fantastico, devi vederla!»

«Calma, Mathilde, non correre così!

Non capisco una parola. Cos'è fantastico?» Mathilde fece un profondo respiro.

«Abbiamo scoperto una cosa sulla tua famiglia, i Tournier!»


«Aspetta un attimo. Cosa vuol dire

"abbiamo"?»

«Io e Monsieur Jourdain. Ti avevo detto che ho lavorato per un po' con lui a Le
Pont de Monrvert?»

«Sì».

«Bene. Siccome oggi non ero di turno, ho pensato di fare un salto a trovarlo, per
dare un'occhiata all'ufficio di cui mi avevi parlato.

Un vero immondezzaio! Così gli ho dato una mano a metterlo in ordine. E in uno di
quegli scatoloni pieni di libri lui ha scoperto la tua famiglia!»

«Cosa intendi dire? Un libro sulla mia famiglia?»

«No, il nome della tua famiglia scritto su un libro. È una Bibbia. Il frontespizio
di una Bibbia. Le famiglie che ne possedevano una ci annotavano sopra le date di
nascita e morte, i matrimoni».

«E che ci faceva lì?»

«Questa è una buona domanda. Una negligenza terribile da parte di Monsieur


Jourdain: abbandonare lì in quello stato oggetti di tale valore! A quanto pare
qualcuno aveva donato al municipio quella raccolta di libri.

C'è un po di tutto, atti della parrocchia, vecchi contratti. Ma la Bibbia è di


sicuro la cosa più preziosa. Be', almeno ciò che ne rimane».

«In che condizioni è?»

«Bruciacchiata. La maggior parte delle pagine sono annerite dal fuoco. Ma ci sono
elencati parecchi Tournier.

Sono i tuoi antenàti. Monsieur Jourdain ne è sicuro».

Tacevo, sforzandomi di assimilare la novità.

«Allora, vieni a vederla?»

«Certo. Dove sei?»

«Per il momento sono ancora a Le Pont de Monrvert.

Ma possiamo incontrarci a metà strada.

Magari a Rodez, fra.., tre ore». Dopo un momento di silenzio aggiunse:

«Conosco un posto, si chiama Crazy Joe's Bar. Si trova proprio dietro la


cattedrale. È di un americano, così potrai farti un vero martini!» Poi proruppe
nella solita risata stridula e riattaccò.

Mentre attraversavo Lisle, passai davanti all'hòtel de ville.

Non fermarti, Ella, mi dissi. Lui non ha niente a che vedere con questa storia.

E invece fermai la macchina, saltai giù e corsi dentro al palazzo, divorando i


gradini. Aprii la porta della biblioteca e infilai dentro la testa. Jean-Paul era
seduto da solo dietro il bancone con un libro fra le mani. Mi gettò un'occhiata ma
non si mosse.

Rimasi sulla soglia. «Sei occupato?» domandai.

Si strinse nelle spalle. La sua freddezza non mi sorprese affatto, dopo il nostro
ultimo incontro.

«Ho trovato qualcosa», dissi sottovoce. «O meglio, qualcun altro l'ha trovata per
me. Prove concrete.

Ne sarai soddisfatto».

«A proposito del tuo pittore?»

«Non credo. Vieni con me e lo scopriremo».

«Dove?»

«La cosa viene da Le Pont de Montvert, ma devo incontrarmi con una persona a
Rodez». Abbassai lo sguardo.

«Vorrei che tu venissi con me».

Jean-Paul rimase a guardarmi per un momento, poi annuì. «Ok. Fra poco chiudiamo. Ti
va se ci vediamo al distributore della Fina, quello sulla strada per Albi, fra un
quarto d'ora?»

«Al distributore? Perché? E tu come ci arrivi?»

«In macchina. Ci vediamo lì e poi andiamo con la tua».

«Perché non vieni subito con me? Ti aspetto fuori».

Jean-Paul sospirò. «Dimmi una cosa, Ella Tournier, tu non hai mai vissuto in un
paese prima di trasferirti a Lisle, vero?»

«No, ma...»

«Te lo spiego mentre andiamo».

Jean-Paul arrivò al distributore con una vecchia Citroen Deux Chevaux bianca, una
macchinetta buffa che mi ricorda il "maggiolino" della Volkswagen. Ha il tettuccio
di tela che si apre come una scatola di sardine e l'inconfondibile ronzio un po'
scoppiettante del motore mi mette allegria ogni volta che lo sento.

Pensavo che uno come Jean-Paul avesse una macchina sportiva, ma tutto sommato anche
la Deux Chevaux gli si addiceva abbastanza.

Aveva un'aria così furtiva mentre scendeva dalla sua macchina per salire sulla mia
che scoppiai a ridere. «Dici che nasceranno delle voci sul nostro conto?» scherzai,
imboccando la strada per Albi.

«Lisle è una piccola città. Le vecchiette trascorrono il tempo a curiosare e poi si


scambiano le indiscrezioni».

«Ma di sicuro lo fanno senza malizia».

«Va bene, Ella, ti descriverò la tipica giornata di una di queste donne. La mattina
fa colazione sul terrazzo, così può vedere tutti quelli che passano per strada. Poi
va a fare la spesa. Fa il giro delle botteghe e chiacchiera con le altre comari,
tenendo sempre gli occhi ben aperti.

Tornata a casa, si ferma a spettegolare sulla porta con la vicina e intanto guarda
quel che capita per la via. Dopo pranzo schiaccia un pisolino, tanto a quell'ora
non succede nulla perché dormono tutti. Il resto del pomeriggio lo trascorre sul
balcone, fingendo di leggere il giornale ma in realtà sbirciando la gente giù in
strada. Prima di cena va a fare altri due passi e chiacchiera ancora un po' con le
amiche. In pratica queste donnette passano la vita a spettegolare sui fatti
altrui».

«D'accordo. Ma avranno ben poco da dire sul mio conto».

«Qui può bastare niente per creare un caso».

Presi una curva un po' larga. «Non credo di aver fatto nulla di interessante o
scandaloso o roba del genere di recente».

Jean-Paul rimase in silenzio. «Tu compri sempre la quiche alle cipolle, giusto?» mi
domandò poi.

M'irrigidii per un istante e subito dopo scoppiai a ridere. «SI. Ne sono


assolutamente assuefatta! Una notizia davvero scioccante, immagino, per le vecchie
pettegole».

«Be', erano convinte che tu fossi.., insomma che tu fossi...» Jean-Paul


s'interruppe. Mi voltai. Pareva imbarazzato, ma alla fine riuscì a completare la
frase. «Pensavano che tu fossi incinta».

«Cosa?» -

«Sì, che tu avessi le voglie».

Iniziai a ridacchiare. «Ma è ridicolo!

Come si fa a pensare una cosa del genere? E poi cosa gliene importa?»

«Vedi, nei paesi tutti si conoscono e ognuno sa tutto di tutti.

Quelle vecchiette si sentono in diritto di sapere se aspetti un bambino. Comunque


ormai hanno capito che non sei incinta».

«Bene», mormorai. Poi mi voltai verso Jean-Paul. «E come hanno fatto a capirlo?»
Con mia sorpresa, Jean-Paul sembrava ancora più a disagio di prima.

«Niente... niente... è solo che...» Le parole gli morirono in bocca e iniziò a


giocherellare con il taschino della camicia.

«Allora?» La cosa cominciava a darmi la nausea. JeanPaul tirò fuori le sigarette.


«Hai presente la macchinetta della Durex, accanto alla piazza?» disse dopo un po'.

«Ah!» Qualcuno doveva avere visto Rick che comprava i preservativi quella sera. Dio
mio, pensavo, cos'altro avranno scoperto? Chissà, forse il dottore emette un
comunicato stampa ogni volta che visita un paziente, oppure vengono a rovistare nel
nostro bidone della spazzatura?

«Che altro dicono di me?»


«Lasciamo perdere».

«Che altro dicono?» Jean-Paul si voltò verso il finestrino. «Osservano tutto quello
che compri. Il postino va a dire in giro se ricevi qualche lettera strana.

Sanno a che ora esci di casa, quante volte vai fuori a cena con tuo marito.

E poi, se non chiudi bene le persiane, sbirciano dentro». Detta così, pareva quasi
che fosse colpa mia se la gente mi spiava perfino fra le pareti di casa!

Rammentai il bimbo che per poco non era soffocato e mi vennero i brividi, al
pensiero di quel muro di spalle chiuso davanti a me.

«Insomma, cos'è che hai sentito dire?»

«Vuoi proprio saperlo?»

«Sì».

«Dunque, ci sono state le quiche e le voglie. E poi in città ti considerano un po'


spocchiosa perché ti sei comprata la lavatrice».

«Ma perché?»

«Le vecchiette pensano che dovresti lavare a mano, come fanno loro. Solo la gente
che ha figli dovrebbe possedere una lavatrice. E poi dicono che il colore con cui
hai dipinto le persiane è volgare, non va bene per Lisle. Che manchi difinesse. Che
non sta bene andare in giro con i vestiti senza maniche. Che è da maleducati
parlare una lingua straniera.

Che sei bugiarda, perché hai detto a Madame Rodin alla boulangerie che abitavi in
città, e non era vero. E hai raccolto la lavanda nella piazza, e non si fa. Diciamo
che questa è stata la prima impressione che hanno avuto di te. Ora è difficile far
loro cambiare idea».

Proseguimmo in silenzio per qualche minuto. Mi vennero le lacrime agli occhi,


eppure mi scappava da ridere.

Avevo parlato in inglese una sola volta in pubblico, ma era bastato a far
dimenticare ai miei concittadini tutte le volte in cui mi ero sforzata di
rivolgermi a loro in francese.

JeanPaul si accese una sigaretta e abbassò un poco il finestrino.

«Tu mi giudichi maleducata e priva di finesse?»

«No». Jean-Paul sorrideva. «E penso che dovresti indossare più spesso abiti senza
maniche».

Arrossii. «Insomma, non dicono proprio niente di carino su di me?» Ci pensò su un


momento. «Dicono che tuo marito è un bell'uomo, nonostante il...» Si indicò la nuca
con un dito.

«Codino».

«Sì. Però non riescono a capire perché vada a correre e dicono che porta i
pantaloncini troppo corti».

Risi fra me. Dunque il jogging era considerato un'attività esotica in quello
sperduto paesino della Francia.

Per fortuna Rick non si era mai curato degli sguardi della gente.

Il sorriso mi morì sulle labbra.

«Com'è che tu sai tutte queste cose su di me?» chiesi un po' irritata. «Le quiche,
la gravidanza immaginaria, le persiane, la lavatrice? Ti dai tante arie, però a
quanto pare sei al corrente di tutti i pettegolezzi come le donnette».

«Non sono un chiacchierone», fece Jean-Paul asciutto, soffiando il fumo nella


fessura del finestrino.

«Qualcuno è venuto a raccontarmi queste cose, a mo' di avvertimento».

«Avvertimento?»

«Ella, ogni volta che io e te c'incontriamo tutti ne parlano. Non è giusto che tu
mi frequenti. Girano già delle voci su di noi. Mi hanno perfino detto di stare più
attento. A me non importa, ma tu sei una donna, ed è diverso. Ora mi dirai che
queste cose non hanno senso», proseguì Jean-Paul, impedendomi di interromperlo,
«ma, giusto o sbagliato che sia, è così. Tu sei sposata. E straniera, per di più.

Questo non fa che peggiorare le cose».

«Mi dispiace e mi offende che per te il giudizio della gente sia più importante del
mio. Cosa c'è di sbagliato se ci vediamo? Non stiamo facendo niente di male, per
l'amor di Dio. Certo, sono sposata con Rick, ma questo non significa che io non
possa parlare con altri uomini!» Jean-Paul rimase in silenzio.

«Ma come fai a vivere così?» dissi spazientita. «Fra le maldicenze di questi
paesani? Sanno tutto anche di te?»

«No. Ovviamente è stato traumatico dopo aver vissuto in una metropoli, ma ho


imparato l'arte della discrezione».

«E la chiami discrezione: darmi appuntamento di nascosto? Ora sì che sembriamo


colpevoli!»

«Al contrario. Li offendi ancora di più, se gliela fai sotto le narici».

«Sotto il naso», lo corressi e non potei fare a meno di sorridere.

«E' vero... sotto il naso». Jean-Paul ricambiò il sorriso, un po a disagio.

Quando era turbato il suo inglese peggiorava. «La loro psicologia è diversa».

«Be', in ogni caso quegli ammonimenti non sono serviti a nulla. Dopotutto, siamo
insieme».

Non fiatammo per il resto del viaggio.

La copertina era mezza bruciata, le pagine annerite dal fumo e del tutto
illeggibili, a eccezione della prima.

Ecco cosa c'era scritto in una grafia contorta, di un marrone scolorito: Jean
Tournier n. 16 aoùt 1507 m. Hannah Tournier 18 juin 1535 Jacques n. 28 aoàt 1536
Etienne n. 29 mai 1538 m. Isabelle du Moulin 28 mai 1563 Jean n. 1 janvier 1563
Jacob n. 2 juillet 1565 Marie n. 9 octobre 1567 Susanne n. 12 mars 1540 m. Bertrand
Bouleaux 29 novembre 1565 Deborah n. 16 octobre 1567 Quattro paia di occhi mi
stavano fissando: quelli di Jean-Paul, di Mathilde, di Monsieur Jourdain - che con
mia grande sorpresa avevo trovato seduto accanto a lei, davanti a un long drink - e
infine quelli di una bimbetta bionda, appollaiata su uno sgabello con una Coca fra
le mani, gli occhi sgranati per l'eccitazione. Era Sylvie, la figlia di Mathilde.

Per quanto mi sentissi confusa e stordita sorrisi a tutti, portandomi la Bibbia al


petto.

«Oui», dissi soltanto. «Oui».

5 - Segreti

Com'erano diverse quelle montagne.

Isabelle osservava i pendii intorno a lei. I nudi lastroni di roccia in prossimità


della cima parevano sul punto di precipitare da un momento all'altro. Alberi a lei
sconosciuti, ammucchiati come ciuffi di muschio, concedevano spazio qua e là al
verde scintillante di un'esigua radura.

I monti della Cévennes sono come il ventre d'una donna, pensava Isabelle.

Lo Jura invece ricorda le spalle, più aguzzo e definito, ma meno accogliente. Sarà
tanto diversa la mia vita fra queste montagne. Rabbrividì.

S'erano fermati in riva a un fiume, nei pressi di Moutier.

Partiti da Ginevra insieme con altri pellegrini, stavano cercando un luogo in cui
stabilirsi. Isabelle avrebbe voluto dire ai compagni di non fermarsi ancora, di
proseguire fino a una località più gradevole. Nessuno però sembrava condividere la
sua inquietudine. Etienne scese al villaggio insieme ad altri due uomini del
gruppo, in cerca di lavoro.

Il fiume che scorreva nella valle era piccolo e scuro e orlato di betulle. A parte
gli alberi, il Birse non era poi così diverso dal Tarn. Ma aveva un aspetto meno
bonario. Ora era poco profondo, ma in primavera diventava tre volte più grosso.
Mentre gli adulti discutevano, i bambini scesero di corsa verso la sponda. Petit
Jean e Marie tuffavano le mani nell'acqua fredda, mentre Jacob, accovacciato presso
la riva, fissava i ciottoli sul fondo.

Allungando il braccio con attenzione, estrasse dal fiume una pietra nera che
ricordava vagamente un cuore e la sollevò in alto per farla vedere a tutti.

«Eh, bravo, mon petit!» gridò Gaspard, un uomo dal carattere gioviale, cieco da un
occhio. Gestiva una taverna a Lione ed era scappato insieme alla figlia, Pascale,
su un carro carico di provviste che divideva con chiunque ne avesse bisogno. I
Tournier li avevano incrociati sulla strada che veniva da Ginevra. Avevano già
finito le castagne e le poche patate rimaste sarebbero bastate solo per un giorno.

Gaspard e Pascale li avevano rifocillati, rifiutando qualunque riconoscenza o


offerta di pagamento.
«Dio lo vuole», aveva detto Gaspard ridendo, quasi si trattasse d'un motto di
spirito. Pascale s'era limitata a sorridere, e aveva fatto tornare in mente a
Isabelle il viso sereno e i modi delicati di Susanne.

Gli uomini tornarono dal villaggio.

Etienne sembrava sconcertato, e i suoi occhi spalancati per lo stupore parevano


perdersi nel volto glabro.

«Non c'è nessun capo in questo paese, nessun duca de l'Aigle!» annunciò, scuotendo
la testa. «Nessun padrone da cui prendere in fitto un podère, nessuno cui offrire
le braccia».

«E allora per chi lavora la gente di qui?» chiese Isabelle.

«Ognuno lavora per sé», rispose Etienne con voce incredula. «Però ci sono dei
contadini che hanno bisogno di aiuto per raccogliere la canapa.

Potremo fermarci per un po'».

«Cos'è la canapa, papà?» chiese Petit Jean.

Etienne si strinse nelle spalle.

Non vuole ammetterlo, ma non lo sa neppure lui, pensò Isabelle.

Si fermarono a Moutier e prima che la neve comincìasse a cadere, i Tournier avevano


già lavorato per tutti i coltivatori della zona. Il primo giorno li avevano
accompagnati in un campo di canapa che avrebbero dovuto tagliare e mettere a
seccare. Erano rimasti sbalorditi davanti a quelle piante robuste e stoppose, alte
quasi quanto Etienne.

Alla fine fu Marie a dar voce ai pensieri di tutti.

«Maman, ma come si fa a mangiare queste piante?» Il contadino scoppiò a ridere.

«Non, non, ma petite fleur», disse,

«non sono da mangiare. Ne ricaviamo un filo che usiamo per fare funi e vestiti.
Vedi questa?» Indicò la camicia grigia che aveva indosso.

«Be', è fatta di canapa. Prova a toccarla!» Isabelle e Marie tastarono la stoffa


con le dita. Era spessa e ruvida.

«Questa camicia durerà finché mio nipote diventerà padre!» E l'uomo spiegò che dopo
averla essiccata la mettevano a bagno in una pozza d'acqua per ammorbidirla e
separare la fibra dal legno. Poi la lasciavano seccare ancora un po' e quindi la
battevano per staccare meglio la fibra. Solo allora la canapa era pronta per essere
cardata e filata.

«E' questo che farete durante l'inverno», aggiunse il contadino, indicando con la
testa Isabelle e Hannah. «Vedrete che mani forti vi verranno».

«Ma cos'è che mangiate?» insistette Marie.

«Un sacco di cose! Vendiamo la canapa al mercato di Bienne e comperiamo farina e


capre e maiali e tante altre cose. Non temere, fleurette, non morirai di fame».
Etienne e Isabelle tacevano. Nella Cévennes non erano avvezzi a mercanteggiare, la
roba che avanzava l'avevano sempre data al duca de l'Aigle. Isabelle si portò le
mani al collo. Non le pareva sensato coltivare piante che non erano buone da
mangiare.

«E poi abbiamo gli orti», continuò il contadino, per rassicurarli. «Alcuni seminano
il grano d'inverno. Non preoccupatevi, c'è cibo in abbondanza dalle nostre parti. E
poi guardate il villaggio: vedete per caso gente affamata o povera per la via? Dio
provvede. Noi lavoriamo sodo e Lui pensa a noi».

Era vero. Moutier aveva un'aria assai più florida del villaggio da cui erano
fuggiti. Isabelle afferrò la falce ed entrò nel campo. Le pareva d'essere sdraiata
come un tempo in mezzo al fiume, in balia della corrente, con la speranza di
rimanere a galla.

A levante di Moutier, il Birse piegava verso nord scavando fra le montagne una
forra imponente di roccia giallastra, solida all'apparenza ma alquanto friabile al
tocco. Quando la vide per la prima volta, Isabelle ebbe l'impulso di
inginocchiarsi: le pareva d'essere in una cattedrale.

Il podère dove erano diretti non era bagnato dal Birse, ma da un altro ruscello che
scorreva ancor più a oriente. Per andare a Moutier si doveva attraversare per forza
quel canalone e quando ci passava da sola Isabelle faceva sempre il segno della
croce.

La casa che fu loro assegnata era fatta di una pietra che non avevano mai visto,
più leggera e morbida del granito della Cévennes. Qua e là la malta si era
scrostata, e dai pertugi entravano acqua e spifferi. Gli infissi di porte e
finestre erano di legno, così come il soffitto, e Isabelle aveva paura che la casa
prendesse fuoco. Com'era diversa la fattoria di pietra dei Tournier!

Ma la cosa più strana era l'assenza del camino. Nessuna casa della vallata l'aveva.
Il fumo si accumulava nello spazio vuoto fra il soffitto e il tetto, disperdendosi
da piccoli fori aperti sotto le gronde. In quel vano veniva appesa la carne ad
affumicare, ma i vantaggi finivano lì. Tutta la casa era coperta da un sottile
strato di fuliggine e quando porte e finestre erano chiuse l'aria si faceva densa e
scura.

Vi furono momenti, durante quel primo inverno, - magari quando era costretta ad
avvolgersi i capelli in panni sudici e anneriti, filando senza sosta, con il timore
di macchiare la ruvida canapa con le dita sanguinanti, oppure quando, seduta al
tavolo, tossiva e ansimava a causa del fumo, sapendo che il cielo fuori era basso e
gonfio di neve e sarebbe rimasto così ancora per mesi, - in cui Isabelle ebbe paura
d'impazzire. Le mancavano da morire il sole a picco sulle rocce, la ginestra
ghiacciata, le giornate limpide e fredde della sua terra, l'enorme focolare dei
Tournier che sprigionava calore sputando fuori il fumo. Però non diceva nulla. Era
già una fortuna aver trovato un tetto.

«Un giorno costruirò un camino», promise Etienne, in una tetra giornata d'inverno,
con i bambini che non riuscivano a smettere di tossire. Poi si voltò verso Hannah e
la vecchia annuì.

«Sì, ci vuole un camino, un bel focolare», continuò. «Ma prima dobbiamo far
crescere le piante.

Appena me lo potrò permettere lo costruirò con le mie stesse mani, e allora questa
casa sarà completa. E sicura». Etienne si voltò verso la parete, evitando lo
sguardo di Isabelle.
La donna uscì dalla stanza e passò nel devant-huis, una specie di corte riparata
dal tetto, che univa abitazione, stalla e fienile. Da lì poteva guardare fuori
senza essere schiaffeggiata dal vento o bagnata dalla neve. Respirò l'aria fredda a
pieni polmoni e sospirò. L'apertura del cortile si affacciava a meridione ma la
luce calda del sole non riusciva a far breccia nel cielo. Isabelle andò con lo
sguardo ai candidi pendii dalla parte opposta e scorse una sagoma grigiastra
acquattata nella neve.

Arretrò di un passo nell'ombra buia del devant-huis, e rimase a guardare finché la


figura non sparì trotterellando in mezzo agli alberi.

«Ora mi sento al sicuro», disse sottovoce, rivolta a Etienne e Hannah. «E la vostra


magia non c'entra per nulla».

Ogni due o tre giorni, Isabelle prendeva il viottolo ghiacciato che passava per la
forra di roccia giallastra, diretta al forno comune di Moutier. Nella sua terra
aveva sempre cotto il pane in casa, nel focolare dei Tournier o in quello di suo
padre, qui invece andavano a cuocerlo tutti nello stesso posto. Appena la bocca del
forno fu aperta si sentì avvolgere da un'ondata di calore e infilò dentro le
pagnotte. Le donne intorno a lei avevano in testa cuffie rotonde di lana e
parlavano piano fra loro. Una le sorrise.

«Come stanno Petit Jean, Jacob e Marie?» le domandò.

Isabelle ricambiò il sorriso.

«Vorrebbero tanto uscire. Non ne possono più di stare al chiuso. A casa nostra non
faceva così freddo. Qui bisticciano molto di più».

«Ora questa è casa vostra», la corresse la donna in tono gentile.

«Dio si prenderà cura di voi, ora che siete qui. Vi ha già concesso un inverno
assai mite».

«Proprio così», assentì Isabelle.

«Dio vi conservi, Madame», disse la donna prima di allontanarsi con le sue pagnotte
sotto braccio.

«Altrettanto a voi».

Qui mi chiamano Madame, pensò Isabelle. Nessuno bada ai miei capelli rossi. Nessuno
li ha mai visti. Un villaggio di trecento anime e nessuno che mi chiami la Rossa.
Non sanno nulla dei Tournier, solo che siamo seguaci della Verità.

Quando passo per strada non mi parlano dietro le spalle.

La gratitudine che sentiva nel cuore le dava la forza di sopportare la vita fra
quei monti aspri, le strane piante, gli inverni rigidi. Forse avrebbe potuto
farcela anche senza un camino.

Isabelle incontrava spesso Pascale al forno comune o in chiesa. Le prime volte la


ragazza spiccicava a malapena qualche parola, ma piano piano s'era fatta più
loquàce e aveva finito per raccontarle la sua vita d'un tempo fin nei minimi
dettagli.

«A Lione lavoravo in cucina, perché mi piaceva di più», confidò una domenica a


Isabelle, mentre erano sul sagrato insieme agli altri fedeli, «ma quando la mamma
morì a causa della pestilenza dovetti iniziare a servire ai tavoli.
Non mi andava di stare in mezzo a degli sconosciuti che mi mettevano le mani
dappertutto». La fanciulla rabbrividì. «E poi mescere il vino, quando a noi è
proibito berlo, mi pareva sbagliato. Appena potevo andavo a nascondermi in cucina».

Rimase in silenzio per un po'.

«Invece a papà piace un sacco il suo mestiere», soggiunse.

«Vorrebbe prendere lo Cheval-Blanc, se i proprietari fossero disposti a cederlo. Fa


sempre l'amicone con loro, perché non si sa mai. Anche la nostra taverna a Lione si
chiamava Cheval-Blanc. Per papà è un segno del destino».

«E a te non manca quella vita?» Pascale fece di no con la testa.

«Sto bene qui. Mi sento più sicura.

Lione è così affollata e piena di gente infida».

«Sì, qui è più sicuro. Ma a me manca tanto il cielo», disse Isabelle, «il cielo
grande del mio paese, dove lo sguardo riesce a giungere al confine del mondo. Qui
le montagne rimpiccioliscono il cielo mentre da noi sembravano spalancarlo».

«A me mancano le castagne», annunciò Marie, accostandosi alla madre.

Isabelle annuì.

«Quando le mangiavamo tutti i giorni non ci pensavo mai. E' come l'acqua: ti rendi
conto che esiste solo se hai sete e non ce n'è neanche una goccia».

«Ma era pericoloso laggiù, non è vero?»

«Sì». Isabelle deglutì, ripensando all'odore della carne bruciata, ma preferì


tenere per sé l'angoscioso ricordo.

«Non sono ridicole quelle cuffie rotonde?» disse invece, indicando un gruppo di
donne. «Ti immagini se la portassimo anche noi?» Scoppiarono a ridere.

«Magari un giorno le avremo anche noi e le nuove arrivate rideranno vedendoci»,


aggiunse Isabelle.

Gaspard stava parlando in mezzo a un gruppetto di fedeli ma la sua voce roboante


arrivò fino a loro. «Soldati!

Lasciate che vi dica un paio di cose sui soldati cattolici. Cose da far rizzare i
capelli!» A Pascale il sorriso morì sulle labbra. Chinò la testa e s'irrigidì di
colpo, serrando i pugni. Non le aveva mai detto nulla sulla loro fuga da Lione, ma
Isabelle l'aveva sentita raccontare da Gaspard più di una volta. Ora il vecchio
oste la stava ripetendo a beneficio di un nuovo amico.

«Quando vennero a sapere del massacro di Parigi, i cattolici si esaltarono e


arrivarono subito allo Cheval-Blanc pronti a farci la festa. Insomma, fanno
irruzione nella taverna e io mi dico: l'unico modo per salvare la pelle è
sacrificare il vino. Così, senza pensarci due volte, offro da bere a tutti. Aux
frais de la maison!

urlavo. Bene, è bastato a fermarli. Lo sapete, no, come sono i cattolici, non
rinunciano mai a un buon bicchiere! E' stata la nostra fortuna. In men che non si
dica erano così ubriachi che avevano perfino scordato perché erano venuti. Mentre
Pascale li teneva impegnati, ho caricato quel che potevo sul carro. Insomma
gliel'abbiamo fatta sotto il naso!» All'improvviso Pascale si allontanò da
Isabelle, scomparendo dietro la chiesa. Ma come fa a non accorgersi che sua figlia
ha qualcosa che non va?

pensò Isabelle, vedendo che Gaspard continuava a parlare e ridere di gusto.

Poco dopo andò a cercarla. Pascale aveva appena finito di vomitare e si stava
pulendo la bocca, appoggiata al muro della chiesa. Isabelle notò subito il pallore
e gli occhi gonfi della ragazza: è già di tre mesi, pensò, e non ha uno straccio di
marito.

«Isabelle, tu facevi la levatrice, giusto?» disse alla fine Pascale con un filo di
voce.

Isabelle scosse la testa.

«Mia madre mi aveva insegnato l'arte ma Etienne... la sua famiglia, non hanno
voluto che continuassi, dopo che ci siamo sposati».

«Ma tu sai come si fa... con i bambini, e...»

«Sì».

«E sei anche capace di... di farli sparire, i bambini?»

«Vuoi dire, fare in modo che il bambino non venga, perché è Dio a volerlo?»

«Io... Sì, proprio così. Perché è Dio a volerlo».

«So quel che bisogna fare in quei casi».

«C'è qualcosa... una preghiera speciale?» Isabelle ci pensò su un momento.

«Vieni nel bosco, sopra la gola del fiume, fra due giorni.

Pregheremo insieme».

Pascale pareva esitare.

«E' successo a Lione», sbottò d'un tratto. «Quando siamo scappati. I soldati
avevano bevuto troppo. Mio padre non lo sa...»

«E non lo saprà mai».

Isabelle andò nel bosco a cercare foglie di ruta e bacche di ginepro.

Due giorni dopo, quando Pascale la raggiunse in cima al canalone, le diede da


mangiare un intruglio, quindi entrambe s'inginocchiarono e pregarono santa
Margherita, finché la terra non si coprì di sangue.

Fu il primo segreto della sua nuova vita.

Venne il Natale e Isabelle scoprì che la Vergine la stava aspettando a Moutier.

C'erano due chiese nel villaggio. I seguaci di Calvino si erano impadroniti di


Saint Pierre, bruciando le immagini dei santi e rovesciando l'altare. I canonici
erano fuggiti, chiudendo l'abbazia che da centinaia d'anni era stata testimone di
miracoli. La cappella annessa all'abbazia, l'Eglise de Chalières, divenne così la
parrocchia di Perrefitte, minuscolo villaggio alle porte di Moutier. Quattro volte
l'anno, nei dì di festa, gli abitanti di Moutier andavano per la funzione mattutina
a Saint Pierre e a Chalières per il vespro.

Quel primo Natale, con gli abiti neri prestati loro da Pascale e Gaspard, i
Tournier si fecero largo nella piccola cappella. Era così gremita che Isabelle
doveva stare in punta di piedi per vedere il pastore. Presto ci rinunciò e si mise
ad ammirare gli affreschi dalle vivaci tinte verdi, rosse, gialle e marrone che
ornavano le pareti del coro. Raffiguravano il Cristo che reggeva fra le mani il
Libro della Vita. Ai suoi piedi c'erano i dodici Apostoli. Era dai tempi della sua
fanciullezza, con la vetrata e la Vergine nella nicchia, che non vedeva una chiesa
decorata.

Dopo un po' Isabelle si alzò di nuovo sulle punte per sbirciare gli altri
affreschi. A malapena riuscì a soffocare un gemito di stupore: alla destra del
pastore l'immagine sbiadita della Vergine la guardava da lontano, mestamente.

Subito gli occhi di Isabelle si riempirono di lacrime ma il suo volto rimase


impassibile. Teneva lo sguardo fisso sul predicatore, gettando di tanto in tanto
furtive occhiate alla figura dipinta sul muro.

E a un tratto la Vergine le sorrise: fu appena un istante e subito il santo volto


riacquistò la sua espressione addolorata. Nessuno se n'era accorto.

Questo diventò il secondo segreto di Isabelle.

Da quella volta, nei giorni di festa, correva anzitempo alla cappella di Chalières
per stare più vicina possibile alla Vergine.

Fu il sole primaverile a portare il terzo segreto. La neve si sciolse rapidamente,


formando miriadi di cascatelle che precipitavano dai monti ingrossando il fiume. Il
sole brillava di nuovo nel cielo azzurro e l'erba tornò a spuntare ovunque.
Finalmente si potevano lasciare porte e finestre spalancate e il fumo dell'inverno
scappava fuori insieme ai bambini.

Etienne si stiracchiava al sole come un gatto, sorridendo a Isabelle. I capelli


grigi lo facevano sembrare più vecchio di quanto non fosse.

Isabelle era felice che il sole fosse tornato a splendere, ma iniziò a stare in
guardia. Andava ogni giorno nel bosco con Marie e le controllava i capelli,
strappando tutte le ciocche rosse. Marie sopportava con pazienza e non gridava mai
per quelle piccole fitte di dolore. Però chiese alla madre il permesso di
conservare i capelli, e nascose l'involto, che cresceva ogni giorno di più, nel
cavo di un albero lì vicino.

Una mattina andò di corsa da sua madre, affondandole il viso in grembo.

«I miei capelli sono spariti», sussurrò fra le lacrime, stando ben attenta a non
farsi sentire dagli altri. Isabelle guardò subito Etienne, Hannah e i ragazzi. A
parte l'amarezza sul volto di Hannah, nulla lasciava intendere che sospettassero
qualcosa.

Mentre aiutava la figlia a cercare intorno all'albero, Isabelle alzò lo sguardo e


vide un nido che scintillava sotto i raggi del sole.

«Eccoli!» esclamò, indicando i capelli col dito e Marie iniziò a gioire e a battere
le mani.

«Prendete anche questi!» gridava agli uccelli, sollevando i lunghi capelli per poi
lasciarli ricadere sul viso come un velo dorato.

«Prendeteli, sono vostri! Ora saprò sempre dove cercarli».

La bimba si mise a girare come una trottola finché non cadde a terra, ridendo
forte.

Il fischio salì acuto e poi ricadde, sfociando in un gorgheggio che ricordava il


canto di un uccello. Lo si sentiva per tutta la vallata. Poco dopo, si udì il
rumore d'un carro che si avvicinava cigolando, fra il tintinnìo di una campanella.

Rimbalzando fra le rocce, il rumore giunse fin sopra i campi dove i Tournier
stavano piantando il lino.

Etienne mandò Jacob a vedere chi era.

Quando il ragazzo tornò, prese per mano la moglie e imboccarono tutti insieme il
sentiero che portava al villaggio. Il carro s'era fermato ed era già circondato da
una piccola folla.

Il venditore ambulante era un ometto scuro di capelli, con la barba e lunghi baffi
attorcigliati in modo stravagante, le orecchie nascoste da un cappello a strisce
rosse e gialle che sembrava un secchio rovesciato.

Dominando la folla dall'alto del suo carro, ricolmo di merci d'ogni tipo, l'omino
saltellava qua e là fra le mercanzìe con la sicurezza di un provetto saltimbanco. E
intanto parlava senza sosta da sopra la spalla con uno strano accento, quasi una
cantilena, che fece ridere Isabelle e lasciò Etienne interdetto.

«Arance, arance! Guardate che arance, olive, limoni di Siviglia! Ecco, una
splendida pentola di rame per Madame!

E una borsa di cuoio per vossignorìa!

E guardate che fibbie!

Vuole fibbie per le sue scarpe, mia bella signora? Certo che sì! Ho anche i bottoni
intonati! Filo e merletti per tutti! Si sono mai visti merletti più belli? Venite,
venite! Guardate, venite a toccare, non abbiate paura!

Ah, Jacques La Barbe, bonjour encore!

Vostro fratello manda a dire che presto verrà da Ginevra, ma vostra sorella invece
rimarrà a Lione.

Perché, dico io, non viene a vivere qui con voi in questo bellissimo paese? Non
importa. Abraham Rougemont, c'è un cavallo che farebbe proprio al caso vostro giù a
Bienne.

Un vero affare, l'ho visto con i miei occhi. Concedete una bella cavalcata alla
vostra graziosa figliola. E, Monsieur le régent, ho incontrato vostro figlio...» Il
mercante non la finiva più di parlare e intanto continuava a vendere le sue cose.
La gente rideva e scherzava con lui. Lo conoscevano da sempre e ogni volta erano
felici di vederlo arrivare, dopo i rigori dell'inverno e per la festa del raccolto.

Sempre più infervorato, l'ometto si chinò verso Isabelle.

«Che bella, non vi ho mai visto prima d'ora», esclamò.


«Volete dare un'occhiata alle mie merci?» E intanto dava piccole pacche con la mano
ai rotoli di stoffa che aveva accanto. «Venite!» Isabelle sorrise timidamente e
chinò la testa. Etienne invece inarcò le sopracciglia. Non avevano nulla, anzi meno
di nulla, visto che erano in debito con tutta Moutier. Al loro arrivo, infatti,
avevano ricevuto in dono due capre, un sacchetto di semi di lino, uno di canapa,
coperte, vestiti.

Nessuno aveva chiesto nulla in cambio, ma tutti si aspettavano che i Tournier si


mostrassero altrettanto generosi qualora fossero giunti altri rifugiati privi di
tutto. Così Etienne e Isabelle si limitarono a guardare i compaesani che facevano
acquisti, ammirando le trine, i bei finimenti da cavallo, i candidi grembiuli.

A un certo punto però, Isabelle sentì nominare la città di Alès dal mercante.

«Forse lui sa qualcosa», sussurrò in un orecchio a Etienne.

«Non chiedergli niente», fece Etienne a denti stretti.

Non vuole sapere, pensò Isabelle.

Invece io sì.

Attese che Etienne e Hannah si fossero allontanati e quando anche Petit Jean e
Marie, ormai stanchi di girare attorno al carro, decisero di correre giù al fiume,
si avvicinò al venditore.

«Una parola, per gentilezza, Monsieur», mormorò.

«Ah, bella, vuoi dare un'occhiata anche tu? Vieni, vieni!» Isabelle scosse la
testa.

«No, volevo soltanto sapere se... siete passato da Alès?»

«Verso Natale, sì. Perché, avete forse un messaggio da affidarmi?»

«Mia cognata e suo marito vivono laggiù... almeno credo. Susanne Tournier e
Bertrand Bouleaux. Hanno una figlia, Deborah, e dovrebbero avere anche un bambino
di pochi anni, se Dio vuole».

Per la prima volta l'ambulante tacque e si fece pensieroso. Sembrava quasi che
stesse rovistando fra i nomi e le facce che aveva incontrato o di cui aveva sentito
parlare durante i suoi viaggi, e che ora erano stivati nella sua memoria.

«No», disse alla fine. «Non li ho mai conosciuti. Ma li cercherò per voi la
prossima volta che andrò ad Alès. Come vi chiamate?»

«Isabelle. Isabelle du Moulin. Mio marito è Etienne Tournier».

«Isabella, che bella. Un nome perfetto. Non lo scorderò!» L'ometto le sorrise.


«Solo a voi mostrerò la mia merce più preziosa, una cosa speciale», disse poi
abbassando la voce.

«Très cher sono in pochi ad averla vista».

Condusse Isabelle dietro il carro e dopo aver frugato per un po' fra i rotoli di
stoffa ammucchiati tirò fuori un fagotto di tela bianca.

Jacob apparve all'improvviso accanto a Isabelle e il mercante gli fece un cenno con
la mano.
«Vieni, vieni anche tu. A te piace guardare! Hai gli occhi curiosi.

Allora guarda!» In piedi sul carro, davanti a loro, l'uomo svolse la tela bianca e
ne scaturì il quarto segreto: il colore che Isabelle aveva pensato di non vedere
mai più in vita sua. Gettò un grido e allungò subito le mani per sentire quella
stoffa fra le dita. Una lana soffice, dalla tinta accesa.

Chinò la testa e si accarezzò la guancia con il panno.

Il mercante annuì.

«Voi conoscete questo azzurro», disse compiaciuto. «Lo sapevo. Lazzurro della
Vergine di San Zaccarìa».

«Dov'è?» chiese Isabelle, lisciando la stoffa.

«Ah, è una bellissima chiesa di Venezia. Quest'azzurro ha una storia, sapete? Il


tessitore che l'ha creato s'è ispirato al manto della Vergine che compare in un
dipinto di quella chiesa. Intendeva così ringraziarla per il miracolo».

«Quale miracolo?» Jacob fissava il mercante con occhi sgranati.

«Il tessitore aveva una figlia che adorava. Un giorno la bimba scomparve, come
capita spesso ai bambini di Venezia. Cadono in qualche canale, sapete, e affogano».
Lometto fece il segno della croce.

«Insomma, la bambina era sparita e il tessitore andò a pregare per la sua anima
nella chiesa di San Zaccarìa.

Pregò per ore e quando fece ritorno a casa trovò la figlia sana e salva! In segno
di gratitudine filò questa stoffa, l'azzurro straordinario che avete davanti agli
occhi. Era convinto che, indossandolo, la sua bimba sarebbe vissuta per sempre
sotto la protezione della Madonna. Altri tessitori hanno cercato di copiarlo ma
nessuno c'è mai riuscito. Vedete, questa tinta nasconde un segreto di cui solo il
figlio di quell'artigiano è al corrente. Un segreto di famiglia».

Isabelle guardò il tessuto, poi sollevò lo sguardo verso il venditore.

«Non ho nulla con cui pagarvi», disse fra le lacrime.

«Ma io ho una cosina per voi, bella, soltanto per voi.

Una briciola d'azzurro».

L'uomo si chinò sopra la stoffa, strappò dall'orlo sfrangiato un filo lungo quanto
un dito di Isabelle, e glielo porse con un solenne inchino.

In seguito, Isabelle ripensò spesso a quella lana azzurra.

Non sarebbe mai stata in grado di comperarla, ma anche se avesse potuto Etienne e
Hannah non le avrebbero consentito di tenerla in casa.

«Stoffa cattolica!» sarebbe stato il rimbrotto di Hannah se fosse stata ancora in


grado di parlare.

Nascose il filo nell'orlo del vestito e lo tirava fuori soltanto quando era da sola
o insieme a Jacob, che era un ragazzo di poche parole e non avrebbe mai rivelato a
nessuno che possedevano un pizzico di quell'azzurro.
Poi ci fu un ultimo segreto da custodire: una delle loro capre partorì un piccolo
di cui solo Isabelle si accorse.

La capra aveva già dato alla luce due capretti, li aveva lavati per bene con la
lingua e allattati, e ora riposava con i due cuccioli pigiati contro le mammelle
gonfie. Quando Isabelle tornò dai campi per controllare che tutto fosse andato
bene, vide spuntare la membrana rossa di un'altra testolina.

Aiutò il corpicino a uscire fuori, si accertò che fosse vivo e lo mise davanti alla
madre perché lo leccasse.

Mentre il nuovo nato poppava, Isabelle si sedette a guardare, e intanto rifletteva.


I suoi segreti la facevano sentire più coraggiosa.

I boschi attorno a Moutier erano tanto estesi che c'erano angoli dove non andava
mai nessuno. Portò il capretto in uno di quei posti sperduti, gli costruì un riparo
di legno e paglia, e per un'intera estate andò a dargli da mangiare senza che
nessuno se ne accorgesse.

Qualcuno però se n'era accorto. Un giorno Isabelle stava dando alla bestiòla il
latte della madre, quando Jacob spuntò da dietro un faggio.

Accucciandosi accanto a lei, il ragazzo si mise ad accarezzare il capretto.

«Papà vuole sapere dove sei», disse Jacob, coccolando l'animale.

«Da quanto tempo sai che vengo qui?» Il ragazzo fece spallucce e continuò a giocare
col pelo del capretto, lisciandolo prima in un senso e poi nell'altro.

«Vuoi aiutarmi a crescerlo?» Jacob alzò gli occhi verso di lei.

«Naturalmente, mamma».

Erano così rari i sorrisi di Jacob che ogni volta parevano un regalo inaspettato.

Questa volta il fischio del mercante non la colse di sorpresa. L'ometto le fece un
gran sorriso e Isabelle lo ricambiò, continuando a guardare le sue stoffe insieme
ad Hannah. Intanto Jacob era salito sul carro e con la scusa di mostrare i suoi
ciottoli al mercante gli riferì sottovoce un messaggio da parte della madre. L'uomo
annuì, mentre ammirava stupito le forme bizzarre di quei sassi variopinti.

«Che occhio, bambino mio!», disse.

«Questi sassi sono davvero belli.

Osservi tutto e parli poco, tu. Non sei come me! Ah, a me piace parlare, e invece a
te piace scoprire le cose, vero? Si».

Poi l'ambulante iniziò a recapitare ambasciate a destra e a manca. A un tratto gli


cadde lo sguardo su Isabelle e fece schioccare le dita.

«Ah, sì, ora ricordo! Sì, ho trovato la vostra famiglia ad Alès!» Perfino Etienne e
Hannah dovettero voltarsi verso il mercante, gli occhi pieni di trepidazione.
L'uomo era davvero abile a infiammare il suo pubblico.

«Sì, sì», ripeteva gesticolando. «Li ho visti al mercato di Alès. Ah, bella
famiglia! Gli ho portato vostre notizie e sono felici di sapervi in buona salute».
«E loro come stanno?» chiese Isabelle.

«Hanno un bimbo piccolo?»

«Sì, sì, una bambina. Bertrand e Deborah e Isabella, ora ricordo».

«No, io sono Isabelle. Forse intendevate dire Susanne». Il mercante doveva essersi
sbagliato.

«No, no, c'è solo Bertrand con le due bambine, Deborah e Isabella, la piccolina».

«E Susanne? La loro mamma?»

«Ah». L'uomo tacque di colpo e prese a lisciarsi i baffi nervosamente. «Be', è


morta mettendo al mondo la piccola.

La piccola Isabella».

Il mercante distolse lo sguardo. Gli rincresceva sempre dare cattive notizie e per
distrarsi iniziò a cercare le briglie di cuoio che un compratore gli aveva chiesto.
Isabelle abbassò la testa, gli occhi pieni di lacrime. Etienne e Hannah si
allontanarono in silenzio, a capo chino, dalla piccola folla.

Marie prese Isabelle per mano.

«Maman», sussurrò. «Un giorno rivedrò Deborah, vero?» Più tardi, Jacob seguì il
mercante lungo la strada. Il baratto avvenne fra le ombre della sera: la capra in
cambio dell'azzurro. Il ragazzo nascose il tessuto nel bosco e il giorno seguente
ci portò Isabelle.

Tirarono fuori la stoffa, la spiegarono e rimasero a fissare quell'esplosione di


colore tremolante.

Poi la riavvolsero nella tela e la portarono a casa nascondendola nel pagliericcio


che Jacob divideva con Marie e Petit Jean.

«Ci faremo qualcosa», promise Isabelle al figlio. «Dio mi dirà che cosa».

Quell'autunno raccolsero la prima canapa dai loro campi. Un giorno Etienne mandò
Petit Jean nel bosco a tagliare i rami di quercia che avrebbero usato per battere
le piante.

Intanto gli altri preparavano i trespoli e iniziavano a portare fuori dal fienile
bracciate di canapa, adagiandola sopra.

Petit Jean tornò con cinque bei bastoni in spalla, e fra le mani il nido fatto con
i capelli di Marie.

«Guardate cos'ho trovato, Mémé», disse porgendo alla nonna il nido che mandava
bagliori rossastri.

«Oh!» fece Marie, incapace di trattenersi. Isabelle trasalì.

Lo sguardo severo di Etienne passò da Marie a Isabelle.

Hannah rimase per un po' a studiare lo strano nido, confrontandolo con i capelli
della nipote, dopodiché lo porse al figlio, fulminando Isabelle con un'occhiata.

«Andate al fiume», ordinò Etienne ai ragazzi.


Dopo aver posato a terra i bastoni, Petit Jean allungò il braccio e tirò i capelli
a Marie con tutte le forze. La fanciulla scoppiò in lacrime e il fratello sorrise,
con un'espressione che fece tornare in mente a Isabelle la faccia di Etienne da
ragazzo.

Mentre si allontanava, Petit Jean prese il coltello per la punta e lo lanciò. La


lama andò a conficcarsi con precisione nel tronco di un albero. Ha solo dieci anni,
pensò Isabelle, eppure ragiona e si comporta come un uomo.

Jacob prese la sorellina per mano, e si allontanò voltandosi a guardare Isabelle


con gli occhioni sgranati.

Etienne non fiatò finché i ragazzi non furono lontani.

Poi indicò il nido con la mano.

«Cos'è?» Isabelle diede un'occhiata a quel nido di capelli e abbassò gli occhi. Non
era mai stata brava a tenere un segreto e tanto meno sapeva cosa fare una volta
scoperta.

Così decise di dire la verità.

«Sono i capelli di Marie», mormorò.

«Stanno diventando rossi e io l'ho portata nel bosco per strapparli, gli uccelli li
hanno presi e ci hanno fatto il nido». Deglutì. «Non volevo che nostra figlia fosse
derisa... marchiata a vita».

Quando vide lo sguardo d'intesa che Etienne aveva scambiato con la madre, Isabelle
si sentì lo stomaco pesante come se avesse ingoiato un macigno.

Capì che avrebbe fatto meglio a mentire.

«Volevo proteggerla!» esclamò.

«Proteggere tutti noi!

Non intendevo fare niente di male!» Etienne si voltò a guardare l'orizzonte.

«Ci sono in giro delle voci», disse lentamente. «Sono giunte fino a me».

«Quali voci?»

«Jacques La Barbe, il taglialegna, dice che ti ha visto nel bosco con un capretto.
Qualcuno ha scoperto una chiazza di sangue per terra. Girano voci sul tuo conto,
Rossa. E' questo che vuoi?» La gente parla di me, pensava Isabelle. Anche qui. I
miei segreti sono stati svelati. Ed essi conducono ad altri segreti.

Verranno scoperti anche quelli?

«E c'è un'altra cosa. Quando siamo partiti da Mont Lozère eri insieme a un uomo. Un
pastore».

«Chi te l'ha detto?» Quello era un segreto che Isabelle aveva tenuto nascosto
perfino a se stessa, non concedendosi mai di pensare a lui. Il suo segreto più
segreto.

Si voltò a guardare Hannah e capì in un istante: la vecchia è ancora capace di


parlare, pensò. E parla solo con Etienne. Ci ha visti quella notte sul monte. A
quel pensiero le vennero i brividi.

«Cos'hai da dire, Rossa?» Isabelle non fiatava, consapevole che non c'erano parole
in grado di aiutarla. Anzi temeva che altri segreti potessero sfuggirle di bocca.

«Cosa ci nascondi dunque? Che ne hai fatto di quella capra? Lhai uccisa?

Magari l'hai sacrificata al demonio? O forse l'hai scambiata col mercante cattolico
che ti guardava in quel modo?» Etienne afferrò uno dei bastoni e la trascinò in
casa, tirandola per il polso. Dopo averla spinta in un angolo, cominciò a frugare
ovunque, rovesciando le pentole, smuovendo la brace, disfacendo il loro
pagliericcio e poi quello di Hannah. Quando toccò a quello dei ragazzi, Isabelle
trattenne il respiro.

E' la fine, pensò. Madre Santa, aiutami tu.

Etienne aprì il pagliericcio togliendo tutta la paglia.

Il rotolo di stoffa non c'era.

Il primo colpo fu più che altro una sorpresa: suo marito non l'aveva mai picchiata.
Il pugno la spedì in mezzo

alla stanza.

«Non ci porterai alla rovina con le tue stregonerie, Rossa», sibilò Etienne. Poi
prese uno dei bastoni che Petit Jean aveva tagliato nel bosco e la picchiò finché
tutto non diventò nero intorno a lei.

6 - La Bibbia

Fu il fumo a svegliarmi, o forse l'aria fresca che entrava dal finestrino. Aprendo
gli occhi, vidi il cerchietto arancione di una sigaretta accesa, poi la mano che la
reggeva, posata sul volante. Senza muovere la testa, risalii dal braccio alle
spalle, fino al suo profilo. Lui fissava il parabrezza, come se stesse ancora
guidando, ma la macchina era immobile e il motore spento; non emetteva neppure il
rado ticchettìo che fa man mano che si raffredda.

Insomma non avevo proprio idea di quanto tempo fosse passato da quando c'eravamo
fermati.

Me ne stavo rannicchiata sul sedile del passeggèro, rivolta verso di lui, la


guancia schiacciata contro il tessuto ruvido del poggiatesta. I capelli mi erano
scesi sul viso, appiccicandosi alla bocca. Sbirciando dietro, vidi la Bibbia sul
sedile posteriore dentro un sacchetto di plastica.

Benché non mi fossi mossa né avessi fiatato, Jean-Paul si voltò verso di me e i


nostri occhi s'incontrarono.

Rimanemmo così a lungo, senza dire una parola. Era incantevole quel silenzio, anche
se mi domandavo a cosa stesse pensando. Il suo volto era tutt'altro che
inespressivo ma non riuscivo a decifrarlo.

Quanto tempo ci vuole per buttare al vento due anni di matrimonio, e altri due di
fidanzamento? Non avevo mai avuto tentazioni prima di allora, quando avevo
incontrato Rick mi ero detta che la caccia era chiusa. Le mie amiche mi avevano
sempre parlato della ricerca dell'uomo giusto, fra appuntamenti finiti male e cuori
spezzati, ma non avevo mai provato a mettermi nei loro panni. Mi sembrava di
guardare un documentario su una località dove sai benissimo che non andrai mai,
tipo l'Albania, la Finlandia, Panama. E invece mi ritrovavo con un bel biglietto di
sola andata per Helsinki.

Allungai la mano posandola sul suo braccio, sulla pelle calda. Risalii fino
all'incavo del gomito, infilando le dita dentro la manica arrotolata della camicia.
Ero incerta sul da farsi, quando lui coprì la mia mano con la sua, giusto in cima
alla curva del bicìpite.

Senza mollare la presa mi raddrizzai, liberandomi il viso dai capelli.

Sentivo ancora in bocca il sapore di olive per i martini che Mathilde mi aveva
fatto bere. La giacca nera di Jean-Paul mi copriva le spalle, morbida, con il suo
odore di sigaretta, di foglie, l'odore della sua pelle. Non avevo mai indossato le
giacche di Rick, era troppo grande e grosso per me, e le sue cose mi facevano
sentire come dentro un sacco, imprigionandomi le braccia. Quella giacca nera invece
sembrava mia da sempre.

Al bar, insieme agli altri, io e Jean-Paul avevamo parlato in francese per tutta la
sera e mi ero ripromessa di continuare così. «Nous sommes arrivés chez nous?»
dissi, ma mi pentii subito. La frase era corretta dal punto di vista formale, ma
chez nous dava l'idea che vivessimo insieme. Mi capitava spesso quando parlavo in
francese: il significato letterale delle mie frasi era quasi sempre giusto, ma il
senso del discorso risultava impreciso.

Non so se Jean-Paul avesse colto il mio uso improprio della sintassi, comunque non
lo diede a vedere. «Non, le Fina», si limitò a dire.

«Grazie per aver guidato al posto mio», feci io, sempre in francese.

«Di niente. Ce la fai ad arrivare fino a casa?»

«Sì». All'improvviso tornai completamente sobria e mi resi conto che la sua mano
era ancora lì che premeva sulla mia. «Jean-Paul», attaccai, impaziente di dire
qualcosa, ma al tempo stesso incapace di proseguire.

Lui non rispose subito. «Non indossi mai colori vivaci», osservò poi.

Mi schiarii la voce. «E' vero. Ho smesso quando ero ragazzina».

«Ah. Goethe diceva che solo i bambini e le persone semplici amano i colori vivaci».

«È un complimento? Comunque preferisco i tessuti naturali, lana, cotone e


soprattutto... come si dice in francese?» gli domandai, indicando la manica del
vestito. JeanPaul tolse la mano dalla mia e iniziò a sfregare la stoffa fra pollice
e indice, strusciando con le altre dita sulla mia pelle.

«Le lin».

«Ho sempre amato il lino, specialmente d'estate. È più bello nelle tinte naturali,
bianco, marrone e...» Mi arenai.
Il mio povero francese non bastava certo a esprimere il lessico dei colori: come si
diceva pomice, caramello, ruggine, écru, seppia, ocra?

Jean-Paul tornò a posare la mano sul volante. Guardai la mia, abbandonata sul suo
braccio e, pensando alle inibizioni che avevo dovuto vincere per arrivare fino a
quel punto, mi venne voglia di piangere. Sia pur con riluttanza, la ritirai e me la
infilai sotto il braccio, sistemandomi la giacca di Jean-Paul sulle spalle. Mi
voltai. Che stavamo a fare lì seduti a parlare di vestiti?

Avevo freddo e volevo andare a casa.

«Goethe», dissi sbuffando. Puntai i tacchi contro il tappetino, agitandomi nervosa


contro lo schienale.

«Goethe cosa?» disse Jean-Paul.

Tornai d'istinto all'inglese. «In un momento come questo, mi vieni a parlare di


Goethe».

Jean-Paul gettò il mozzicone della sigaretta e tirò su il finestrino.

Aprì la portiera e scese dalla macchina, sgranchendosi le gambe. Gli passai la


giacca e mentre se la infilava mi misi al volante. Jean-Paul si chinò verso di me,
una mano sulla portiera, l'altra sul tetto della macchina. Mi guardò negli occhi
scuotendo la testa.

Gli sfuggì un sospiro spazientito.

«Non mi va di fare l'intruso in una coppia», borbottò in inglese. «Anche se non


riesco a staccarle gli occhi di dosso e lei non fa che bisticciare con me e la cosa
mi irrita e mi eccita allo stesso tempo». Si abbassò ancora un po' e mi baciò in
fretta su entrambe le guance. Stava già per rialzarsi quando la mia mano, quella
mano audace e fedifraga, scattò fulminea agganciando la sua nuca e attirando il suo
viso contro il mio.

Non mi capitava da anni di baciare qualcuno che non fosse Rick. Avevo scordato che
ogni uomo è diverso dall'altro. Le labbra di Jean-Paul, morbide e sode, lasciavano
immaginare ciò che avrei potuto scoprire al di là. Il suo odore era addirittura
inebriante. Mi staccai dalla sua bocca, sfregando la guancia contro quella mascella
che sembrava carta vetrata, poi tuffai il naso nell'attaccatura del collo e
inspirai a fondo. Lui s'inginocchiò e mi spinse indietro la testa, passandomi le
dita fra i capelli. Sorrideva. «Sembri più francese con i capelli rossi, Ella
Tournier».

«Non li ho tinti, te lo giuro».

«Ci credo».

«Rick invece...» Di colpo c'irrigidimmo entrambi. Le dita di Jean-Paul si


bloccarono di colpo.

«Scusami», dissi. «Non volevo...» Un bel sospiro e vuotai il sacco. «Sai, non mi
ero mai accorta di essere infelice con Rick, ma ora capisco che c'è qualcosa che
non va: le tessere del mosaico sono tutte al posto giusto ma è l'immagine a essere
sbagliata».

All'improvviso mi venne un groppo in gola e dovetti tacere.


Jean-Paul tolse le mani dai miei capelli. «E stato solo un bacio, Ella.

Non per questo il tuo matrimonio deve andare a rotoli».

«No, ma...» M'interruppi. Se avevo dei dubbi su me e Rick, il primo a esserne


informato doveva essere Rick.

«Ma voglio che continuiamo a vederci», dissi. «Ti va?»

«Certo, però in biblioteca, non al distributore della Fina». Mi prese la mano e la


baciò sul palmo. «Au revoir, Ella Tournier. Bonne nuit».

«Bonne nuit.

Si alzò in piedi e io chiusi la portiera. Rimasi a guardarlo mentre andava verso la


sua macchinetta e ci saliva. Mise in moto e si allontanò, salutandomi con un lieve
colpo di clacson. Mi sarebbe dispiaciuto andarmene per prima.

Aspettai che le luci posteriori della Deux Chevaux svanissero in fondo al lungo
viale alberato, poi feci un gran sospiro, presi la Bibbia dei Tournier dal sedile
posteriore e me la misi in grembo, fissando la strada deserta.

Mentire a Rick si rivelò di una facilità sconvolgente. Ero sempre stata convinta
che mi avrebbe scoperta subito se gli avessi mentito, che non sarei mai riuscita a
nascondere il mio senso di colpa, perché mi conosceva troppo bene. Ma in realtà la
gente vede solo quello che vuole vedere.

Rick si aspettava che mi comportassi in un certo modo e fu così che io mi


comportai. Quando entrai con la Bibbia sotto braccio, appena mezz'ora dopo aver
baciato Jean-Paul, Rick alzò gli occhi dal giornale. «Ciao, piccola», disse, e fu
come se non fosse mai successo niente. Proprio così: ero a casa mia con il mio
Rick, biondo e innocente, inondato dalla luce dell'abat-jour, lontanissimo dalla
penombra della macchina, dal fumo, dalla giacca nera di Jean-Paul. Il suo volto era
il ritratto della schiettezza: non aveva nulla da nascondermi. In un certo senso,
non era successo niente. Era sorprendente come la vita si lasciasse dividere in
compartimenti stagni.

Certo, sarebbe ancora più facile se Rick fosse uno stupido, pensai.

D'altro canto non avrei mai sposato uno stupido. Lo baciai sulla fronte.

«Devo farti vedere una cosa», annunciai.

Mise da parte il giornale e si tirò su. M'inginocchiai accanto a lui e lasciai


cadere la Bibbia sulle sue gambe.

«Ehi, cavolo! Niente male!» esclamò Rick passando la mano sulla copertina.

«Dove l'hai presa? Al telefono non ho capìto bene dove fossi diretta».

«Ti ricordi il vecchio segretario comunale che mi ha aiutato a Le Pont de Montvert?


Monsieur Jourdain? L'ha trovata lui nell'archivio. E me l'ha regalata».

«Vuoi dire che è tua?»

«Sì. Guarda il frontespizio. Vedi?

Sono i miei antenàti!» Rick diede un'occhiata all'elenco di nomi, annuendo.


Poi mi sorrise.

«Ce l'hai fatta. Li hai trovati!»

«Sì. Con un po' d'aiuto e tanta fortuna, ma ce l'ho fatta». Non potèi fare a meno
di notare che Rick aveva guardato la mia preziosa Bibbia senza l'appassionata
attenzione di Jean-Paul. A quel pensiero mi si strinse lo stomaco: era un confronto
assolutamente ingiusto. Basta, pensai risoluta. Devo lasciar perdere Jean-Paul. Ora
basta.

«Vale un sacco di soldi, lo sai, vero?» disse Rick. «Sei sicura che te l'abbia
davvero regalata? Ti sei fatta dare una ricevuta?» Lo guardai incredula. «No, non
gliel'ho chiesta! Tu mi chiedi la ricevuta ogni volta che ti faccio un regalo?»

«Dài, Ella, volevo solo aiutarti.

Poniamo che cambi idea e la rivoglia indietro? Gli fai mettere tutto per iscritto e
vivi tranquilla. Ora però ci vuole una bella cassetta di sicurezza, magari a
Tolosa. Dubito che nella banca di Lisle le abbiano».

«Non ci penso nemmeno! La terrò qui con me!» dissi rabbuiandomi. Fu quello il
momento: sei lì che osservi al microscopio una creatura unicellulare e a un tratto,
chissà perché, la creatura si spacca a metà. Anche noi stavamo mutando e presto
saremmo diventati due entità distinte, con prospettive del tutto differenti. Che
strano: solo adesso che eravamo sul punto di allontanarci percepivo la forza della
nostra unione.

Rick però non parve accorgersi del cambiamento che era avvenuto in me.

Continuavo a fissarlo senza dire una parola e a un certo punto inarcò le


sopracciglia, «Si può sapere cosa ti prende?» mi domandò.

«Io... be', non la chiuderò in una cassetta di sicurezza, questo è sicuro. E'
troppo importante per me».

Presi la Bibbia e me la strinsi al cuore.

Per fortuna il giorno seguente Rick doveva partire per la Germania.

M'inquietava il varco che s'era aperto fra noi e sentivo il bisogno di stare da
sola. Mi salutò con un bacio, ignaro del mio turbamento, e io mi domandai se per
caso non fossi anch'io altrettanto incapace di leggere nel suo cuore.

Era mercoledì e morivo dalla voglia di correre in quel bar vicino al fiume per
vedere Jean-Paul. Alla fine però la ragione prevalse sul sentimento: era meglio
lasciare le cose come stavano. Feci passare un po' di tempo, e quando fui sicura
che fosse ormai seduto al tavolino al riparo del suo giornale, uscii di casa per le
solite compere. Speravo ardentemente di non incontrarlo per strada, in mezzo a
tanta gente curiosa di ogni nostra più piccola mossa. Non avevo alcuna intenzione
di vivere quella storia davanti all'intero paese. Mentre camminavo verso la piazza
del mercato, mi tornò in mente il ritratto che Jean-Paul aveva fatto di Lisle,
quello che si diceva in giro sul mio conto, e mi venne voglia di tornare di corsa a
rifugiarmi nell'intimità di casa mia, chiudendo anche le persiane.

Mi obbligai ad andare avanti. Quando comperai l'Herald Tribune e Le Monde, la donna


dell'edicola si mostrò assai gentile, e non mi guardò affatto in modo strano.
Scambiammo perfino alcune battute sul tempo e non mi parve interessata alla mia
lavatrice, né alla scollatura dei miei vestiti.
Ma la prova del nove sarebbe stata Madame. Marciai decisa verso la boulangerie.
«Bonjour, Madame», feci appena entrata, cercando di imitare la cantilena dei
francesi. La vecchia stava parlando con qualcuno e si limitò a corrugare un poco la
fronte.

Gettai un'occhiata al suo interlocutore e mi ritrovai faccia a faccia con Jean-


Paul. Lui riuscì a mascherare la sorpresa ma non abbastanza alla svelta per Madame,
che iniziò a guardarci con un'espressione trionfante di compiaciuto disgusto.

Oh, per carità di Dio, pensai, quand'è troppo è troppo.

«Bonjour, Monsieur», dissi con voce squillante.

«Bonjour, Madame», rispose Jean-Paul.

Anche se era rimasto impassibile, il tono sembrava contrariato.

Mi rivolsi a Madame. «Madame, vorrei venti delle sue quiche, per favore.

Sa, le adoro. Le mangio tutti i giorni, a colazione, pranzo e cena».

«Venti quiche!» ripeté la vecchia rimanendo a bocca aperta.

«Sì, grazie».

Madame chiuse la bocca di scatto, premendo le labbra così forte da farle


scomparire; quindi, senza togliermi gli occhi di dosso, allungò il braccio per
prendere un sacchetto. Sentii Jean-Paul che si schiariva piano la voce. Quando
Madame si chinò per infilare le torte nel sacchetto, mi voltai verso di lui:
fissava un vassoio di mandorle con un sorriso sulle labbra, sfregandosi il mento
fra pollice e indice. Tornai a guardare Madame. La vecchia si rialzò dalla vetrina
e chiuse il sacchetto di carta, torcendone gli angoli.

«Sono soltanto quindici», borbottò, guardandomi con severità.

«Oh, che peccato. Dovrò passare dalla patisserie per vedere se ne hanno».

Immaginavo che la patftisserie non dovesse andare a genio a Madame: una donna seria
come lei di certo giudicava frivoli i dolciumi. Avevo ragione: allargò gli occhi e
inspirò con furia, fra scrollate di testa e grugniti.

«Non hanno le quiche!» esclamò. «Solo io faccio le quiche a Lisle-sur-Tarn!»

«Ah», ribattèi. «Chissà, magari all'Intermarché?» A quel punto, Jean-Paul non


riuscì a trattenere un mugolìo divertito e per poco a Madame non cadde di mano il
sacchetto pieno di quiche.

Avevo osato nominare il nemico in persona, la più grave delle minacce che
insidiavano la sua bottega: il supermercato alla periferia della città, un locale
privo di storia e dignità, senza un briciolo di finesse.

Un po' come me, insomma, pensai sorridendo. «Quanto le devo?» chiesi.

Madame non rispose subito, aveva l'aspetto di una che ha bisogno di sedersi. Jean-
Paul ne approfittò per mormorare: «Au revoir, Mesdames» e se la svignò.

Appena se ne fu andato persi ogni interesse per la tenzone. La vecchia mi sparò una
cifra esorbitante che pagai senza battere ciglio. Ne era valsa la pena.
Quando uscii mi ritrovai subito accanto Jean-Paul.

«Lei è una donna malvagia, Ella Tournier», mi sussurrò in francese.

«Gradisce una quiche alle cipolle?» Scoppiammo a ridere.

«Pensavo che non dovessimo incontrarci in pubblico. E qui...» dissi, indicando con
la mano la piazza intorno a noi, «siamo molto in pubblico».

«Ah, ma io ho un motivo professionale per parlare con te. Allora dimmi, hai
studiato con attenzione la tua Bibbia?»

«Non ancora. Senti un po', ma tu non ti fermi mai? Non dormi nemmeno?» Jean-Paul
sorrise. «Non ho bisogno di dormire molto.

Domani vieni in biblioteca con la Bibbia. Ho scoperto alcune cose interessanti


sulla tua famiglia».

La Bibbia aveva un formato insolito, lungo e stretto, ma non pesava molto e si


teneva in mano facilmente. Sebbene consunto e pieno di venature, il cuoio della
copertina era morbido e liscio, con delle chiazze marroni qua e là.

Oltre alle striature, la pelle presentava in più punti i forellini prodotti dalle
tarme. Il retro della copertina era annerito e per metà bruciato, ma sul davanti
l'arabesco di linee e foglie e punti impressi in oro zecchino era assolutamente
intatto. Il dorso era ornato di fiori d'oro e una variazione del medesimo motivo,
sempre impresso a mano, tornava sul margine di ogni pagina.

Andai al primo passo della Genesi:

«Dieu crea au commencement le ciel et la terre». Impaginato su due colonne, il


testo era scritto in caratteri semplici, per cui, nonostante la strana ortografia,
riuscivo a leggerlo abbastanza bene: almeno ciò che ne restava. Infatti, tutta la
parte finale del libro era stata consumata dal fuoco e le pagine di mezzo rese
illeggibili dalle bruciature.

La sera prima, al Crazy Joe's Bar, Mathilde aveva discusso a lungo con Monsieur
Jourdain circa le origini di quella Bibbia e di quando in quando anche Jean-Paul si
era inserito nel discorso. Io riuscivo a seguirli solo in parte, perché la
pronuncia di Monsieur Jourdain era difficile per me e Mathilde come al solito
parlava troppo in fretta. Facevo sempre fatica a capire due persone che
conversavano fra loro in francese, mentre andava un po' meglio se si rivolgevano
direttamente a me. A quanto pareva erano entrambi dell'idea che il libro fosse
stato stampato a Ginevra e tradotto presumibilmente da un certo LeFèvre d'Etaples.
Monsieur Jourdain aveva pronunciato il nome di quest'ultimo in tono enfatico.

«Chi era?» avevo chiesto timidamente.

Il vecchio segretario s'era messo a ridacchiare. «La Rossa vuol sapere chi era
Lefèvre», aveva ripetuto, scuotendo la testa. Si era già scolato tre drink. Resa
indulgente dai martini, m'ero limitata ad annuire con pazienza.

Alla fine mi aveva spiegato che Lefèvre d'Etaples era stato il primo traduttore
della Bibbia dal latino al francese volgare. L'aveva fatto perché potessero
leggerla tutti, e non soltanto i preti. «Fu quello l'inizio», aveva sentenziato il
vecchio. «L'inizio di tutto: il mondo si spaccò in due!» E per sottolineare la sua
affermazione s'era lanciato dallo sgabello, atterrando in mezzo al bar.

M'ero sforzata di rimanere seria, mentre Mathilde si copriva la bocca con la mano e
Sylvie si sganasciava dalle risate. Jean-Paul dal canto suo sorrideva, continuando
a sfogliare la Bibbia. Ricordai che era rimasto a lungo a fissare il frontespizio
con l'elenco dei Tournier, prendendo appunti sul retro d'una busta. La sera prima
però ero troppo stordita per farci caso.

Avevo appreso con delusione, e Mathilde addirittura con disappunto, che Monsieur
Jourdain non riusciva a ricordare chi gli avesse consegnato la Bibbia. «E' per
questo che bisogna tenere i registri in ordine!» l'aveva rimproverato Mathilde,
«per dare risposta a quesiti importanti come quello di Ella!» Con un'aria da cane
bastonato, il segretario aveva preso nota dei nomi dei miei avi, promettendo di
compiere ricerche su ciascuno di loro, compresi quelli che di cognome non facevano
Tournier.

Io avevo dato per scontato che la Bibbia provenisse da Le Pont de Monrvert, ma in


realtà poteva averla portata lì qualcuno che vi si era trasferito. Quando avanzai
l'obiezione però sia Mathilde che Monsieur Jourdain scrollarono la testa.

«Non l'avrebbero certo consegnata alla mairie se fossero stati forestieri», mi


aveva spiegato Mathilde. «Soltanto una famiglia della Cévennes l'avrebbe affidata a
Monsieur Jourdain. C'è un forte attaccamento alla storia qui da noi, nessuno
farebbe mai uscire dalla Cévennes un bene di famiglia prezioso come questa Bibbia».

«Ma a volte le famiglie emigrano. La mia, ad esempio, l'ha fatto».

«Sì, ma a causa della religione», aveva ribattuto Mathilde, scartando la mia


osservazione con un gesto della mano.

«I tuoi antenàti si trasferirono negli anni che sappiamo, ma l'ondata migratoria


avvenne soprattutto dopo il

1685.

Anzi, è curioso che se ne fossero andati con tanto anticipo, perché per i
protestanti della Cévennes la situazione divenne davvero tragica più di cento anni
dopo. In fondo, la Notte di San Bartolomeo fu solo...» Qui l'archivista s'era
interrotta, cedendo la parola a Jean-Paul con un cenno della mano: «Glielo spieghi
lei». Mathilde indossava una calzamaglia rosa e una minigonna scozzese.

«Una faida in seno alla borghesia, per così dire», aveva proseguito Jean-Paul in
tono forbito, sorridendole. «La nobiltà protestante venne distrutta, ma gli
ugonotti della Cévennes erano contadini e troppo isolati per sentirsi davvero in
pericolo. Di certo vi furono tensioni con i pochi cattolici della zona. La
cattedrale di Mende, ad esempio, era una roccaforte dei papisti. Forse
approfittarono del massacro parigino per terrorizzare qualche famiglia protestante.

Tu che ne pensi, Mademoiselle?» aveva concluso Jean-Paul con fare scherzoso,


voltandosi verso Sylvie. La ragazzina l'aveva guardato candidamente; poi aveva
allungato le gambe, gli alluci divaricati, esclamando: «Guarda, la mamma mi ha dato
lo smalto bianco sulle unghie!» Esaminai di nuovo l'elenco dei Tournier. La
famiglia che si era trasferita a Moutier doveva essere quella composta da Etienne
Tournier, Isabelle du Moulin e i loro tre figli, Jean, Jacob e Marie. Stando alla
lettera di mio cugino, nel 1576 Etienne si era arruolato e il figlio Jean aveva
preso moglie nel 1590.

Controllai le date: combaciavano perfettamente.

Quel Jacob era uno dei tanti Jacob che si erano succeduti nella mia famiglia nel
corso dei secoli, giù giù fino al mio cugino svizzero. Devo informarlo, pensai, gli
scriverò una lettera.
Poi il mio sguardo fu attirato dall'interno della copertina cui nessuno pareva aver
prestato attenzione. Nonostante le macchie del tempo, s'intravedeva una scritta
sbiadita, Mas de la Baume du Monsieur.

Presi la mappa della zona attorno a Le Pont de Montvert che mi ero procurata
durante il viaggio e, partendo dal borgo, iniziai a cercare nomi simili nel
territorio circostante. Dopo appena cinque minuti lo trovai, a circa due chilometri
dal paese, verso nordest.

Si trattava di una collina giusto sopra il Tarn, coperta per metà di boschi. Annuìi
soddisfatta.

Quello era pane per il mio amico bibliotecario.

Di certo Jean-Paul non si era accorto della scritta la sera prima, altrimenti ce
l'avrebbe segnalata. A cosa alludeva, dicendo che aveva scoperto qualcosa sulla mia
famiglia?

Osservando con attenzione i nomi e le date, notai soltanto due particolari curiosi:
un Tournier aveva sposato una Tournier e uno dei Jean era nato il giorno di
Capodanno.

Il pomeriggio seguente, quando arrivai in biblioteca con la Bibbia dentro una borsa
di plastica, Jean-Paul mi presentò formalmente alla sua collega.

Non appena le cadde lo sguardo sulla Bibbia, ogni traccia di diffidenza scomparve
dal viso della donna.

«Monsieur Piquemal è un esperto di libri antichi, soprattutto di storia», disse con


la solita cantilena. «Quella è la sua specialità. Io invece conosco meglio romanzi,
novelle, cose del genere. Insomma, roba più popolare».

Mi era parso di cogliere una nota di sarcasmo nella sua voce, ma mi limitai ad
annuire. Jean-Paul aspettò che i convenevoli avessero fine, dopodiché mi condusse
nell'altra sala della biblioteca. Aprii la Bibbia su uno dei tavoli, mentre lui
tirava fuori la busta su cui aveva preso appunti la sera prima.

«Allora», disse subito, impaziente.

«Cos'hai scoperto?»

«Ti chiami Piquemal di cognome?»

«Sì, perché?»

«"Punta cattiva". Mi pare perfetto», lo canzonai. JeanPaul inarcò le sopracciglia.

«Pique vuol dire anche "lancia.», borbottò «Ancora meglio!»

«Allora», ripeté, «vuoi dirmi cos'hai scoperto?» Per prima cosa gli mostrai il nome
del podère all'interno della copertina, poi aprii la mappa e indicai il luogo dove
si trovava. Jean-Paul annuì.

«Bene», disse, scrutando la cartina.

«Non è rimasto nessun edificio laggiù, ma almeno abbiamo la prova che la Bibbia è
originaria di qui. C'è altro?»
«Due Tournier si sono sposati fra loro».

«Sì. Dovevano essere cugini. Non era insolito a quei tempi. Poi?»

«Be'... ce n'è uno che è nato a Capodanno».

Jean-Paul mi guardò male. Mi pentii di aver parlato.

«C'è altro?» ripeté stizzito.

«No». Era indisponente come al solito, eppure era difficile per me stare seduta
accanto a lui come se niente fosse, dopo quella notte. Le nostre braccia si
sfioravano sul tavolo. Non saremo mai più vicini di così, pensavo. Oltre questo non
si va. Ma com'era triste e inutile stare seduti l'uno accanto all'altra, in quel
modo.

«Insomma, non hai trovato niente d'interessante?» fece Jean-Paul sbuffando. «Bah,
l'educazione americana. Saresti un pessimo detective, Ella Tournier». Quando vide
la mia faccia smise di sorridere, un po' imbarazzato. «Scusami», disse, passando
all'inglese, quasi per rabbonirmi. «Non ti va di essere presa in giro».

Scrollai la testa, senza staccare gli occhi dalla Bibbia.

«Non è quello. Se fosse così, avrei smesso di parlare con te già da un pezzo. No, è
che...» Agitai la mano, come per scacciare un'immagine dalla mia mente. «Dopo
l'altra sera», mormorai, «faccio fatica a rimanere qui seduta».

«Ah». Restammo in silenzio per un po', gli occhi fissi sull'elenco dei miei
antenàti, consapevoli più che mai della nostra vicinanza.

«Che buffo», dissi rompendo il silenzio. «Me ne accorgo soltanto ora: Etienne e
Isabelle si sono sposati il giorno prima del compleanno di lui, 28 maggio, 29
maggio».

«Già», fece Jean-Paul, picchiettando piano col dito sul dorso della mia mano.
«L'avevo notato anch'io. Mi sono chiesto se non si trattasse di una semplice
coincidenza. Ma poi ho guardato quanti anni aveva: ne compiva venticinque il giorno
dopo il matrimonio».

«Giusto».

«Fra gli ugonotti, il figlio maschio, giunto al venticinquesimo anno di età, poteva
sposarsi anche senza il consenso dei genitori».

«Ma ne aveva ancora ventiquattro il giorno delle nozze, quindi doveva per forza
avere il loro permesso».

«Sì, però sposandosi proprio alla vigilia del compleanno, rendeva legittimo il
sospetto che i suoi genitori non approvassero l'unione. Mi è sembrato strano, così
ho guardato meglio», Jean-Paul indicò la pagina.

«Guarda la data di nascita del primogenito di Etienne e Isabelle».

«Sì, il giorno di Capodanno. L'ho notato anch'io. E allora?» Jean-Paul aggrottò le


sopracciglia.

«Guarda bene, Ella Tournier, usa il cervello».

Iniziai a riflettere sulle date e non impiegai molto a intuire dove Jean-Paul
volesse arrivare. Strano che la cosa fosse sfuggita proprio a me.

Mi misi subito a fare i calcoli, aiutandomi con le dita.

«Hai capìto adesso?» Annuìi e qualche istante dopo annunciai il risultato dei miei
conteggi. «Il concepimento deve essere avvenuto intorno al 10 aprile».

Jean-Paul sembrava divertito. «Il 10 di aprile, eh? Cosa stavi facendo con le
dita?» e prese a scimmiottare il mio gesto di poco prima.

«La nascita avviene di solito duecentosessantasei giorni dopo il concepimento,


giorno più, giorno meno.

Ovviamente la gestazione varia da donna a donna, e forse allora aveva tempi


leggermente diversi, a causa della dieta e della diversa costituzione. Comunque il
concepimento avvenne in aprile: ben sette settimane prima del matrimonio».

«E tu come fai a sapere questa cosa dei duecentosessantasei giorni, Ella Tournier?
Non hai figli, vero? Non è che li tieni nascosti da qualche parte?»

«Sono un'ostetrica».

Siccome Jean-Paul mi guardava con aria perplessa, lo ripetèi in francese:

«Une sage-femme. Je suis une sage-femme».

«Toi? Une sage-femme?»

«Sì. Non mi hai mai chiesto che lavoro facevo».

Jean-Paul aveva abbassato la cresta.

Quell'espressione avvilita era decisamente insolita per lui: una volta tanto avevo
avuto la meglio.

«Non fai che sorprendermi, Ella», disse, sorridendo e scuotendo la testa.

«Dài, non fare il cascamorto con me, altrimenti la tua collega lo andrà a dire a
tutta la città».

Guardammo istintivamente verso l'ingresso della sala e ci raddrizzammo sulle sedie.


Mi allontanai un poco da lui.

«Dunque è stato un matrimonio col fucile», sentenziai, cambiando discorso.

«Cosa vuoi dire?»

«Sì, un matrimonio riparatore: i genitori di lei lo obbligarono a sposarla dopo


aver scoperto che era incinta. Da noi c'è questo stereotipo del padre che spinge
l'uomo all'altare imbracciando l'artiglieria».

Jean-Paul ci rifletté un momento. «Può darsi che sia andata così». Non sembrava
convinto.

«Però?»

«Però, questo matrimonio "col fucile", come dici tu, non spiega perché si sposarono
proprio a ridosso del compleanno di Etienne».
«Be', sarà stata una coincidenza. Che importanza ha?»

«E dàgli con le coincidenze, Ella Tournier. Sei tu a decidere quando si tratta di


eventi fortuìti, vero?

Questa è una coincidenza e Nicolas Tournier no!» Mi irrigidii. Non avevamo più
parlato del pittore dopo l'aspra discussione dell'ultima volta.

«Potrei dire la stessa cosa di te!» ribattèi. «L'unica differenza fra noi è che
scegliamo di dare credito a coincidenze diverse».

«Io mi sono interessato a Nicolas Tournier finché non ho scoperto che non era un
tuo antenato. Gli ho dato una possibilità. E ne concedo una anche a questa
coincidenza».

«Ok. E cosa ti fa pensare che non sia frutto del caso?»

«Sia il giorno che il mese in cui si è svolto il matrimonio.

Sono entrambi nefasti».

«Cosa intendi per nefasti?»

«In Languedoc c'era la credenza che portasse male sposarsi in maggio o novembre».

«Perché?»

«Maggio è il mese della pioggia e quindi delle lacrime, novembre quello dei morti».

«Ma sono solo superstizioni: pensavo che gli ugonotti non dessero importanza a cose
del genere. La superstizione non era forse un vizio dei cattolici?» La mia
preparazione in materia lo lasciò interdetto: dunque non era l'unico a leggere
libri di storia.

«In ogni caso, è vero che in quei mesi venivano celebrati meno matrimoni. E poi il
28 maggio del 1563 era un lunedì, e di solito ci si sposava di martedì o di sabato,
che erano considerati i giorni più propizi».

«Aspetta un attimo. Come fai a sapere che era lunedì?»

«Ho trovato un calendario perpetuo su Internet».

Questa proprio non me l'aspettavo.

Sospirai. «Evidentemente hai una teoria su ciò che è successo. Chissà perché mi
ostìno a mettere becco nella faccenda».

Jean-Paul si voltò verso di me.

«Pardon. Ti ho sottratto la tua ricerca, vero?»

«Sì. Non fraintendermi, apprezzo il tuo aiuto, però ho l'impressione che lavori
solo di testa, non ci metti il cuore.

Capisci cosa intendo?» Jean-Paul annuì, un po' imbronciato.

«Mi interessa la tua teoria. Però è solo una teoria, capìto? Resto dell'idea che si
sia trattato di un matrimonio riparatore».
«Va bene. Probabilmente i genitori di lui erano contrari alle nozze, ma quando
scoprirono che c'era di mezzo un bambino accelerarono i preparativi, per far
credere in paese che il figlio avesse sempre goduto del loro consenso».

«Ma non credi che il sospetto sia rimasto, vista la data che avevano scelto?» Non
facevo fatica a immaginare una Madame del sedicesimo secolo pronta a ricamarci
sopra.

«Può darsi, ma era sempre meglio che ammettere l'esistenza di un contrasto


all'interno della famiglia».

«Insomma l'importante era salvare la faccia, giusto?»

«Giusto».

«Quindi le cose non sono cambiate granché negli ultimi quattrocento anni».

«Cosa credevi?» La collega di Jean-Paul apparve sulla soglia. Dovemmo sembrarle


assorbiti dal lavoro, perché si limitò a sorriderci scomparendo di nuovo nell'altra
sala».

«Un'ultima cosa», disse Jean-Paul.

«Forse è solo un dettaglio: il nome Marie. È insolito per una famiglia ugonotta».

«Perché?»

«Calvino voleva che il popolo smettesse di venerare la Vergine Maria. Credeva in un


contatto personale e immediato con Dio, senza il bisogno di alcuna intercessione.
La considerava una distrazione dalla divinità suprema. La figura della Madonna è
parte integrante del cattolicesimo, per questo mi pare strano che abbiano dato alla
bambina il nome della Vergine».

«Maria», ripetèi.

Jean-Paul chiuse la Bibbia. Fissavo la sua mano che sfiorava le foglie dorate della
copertina.

«Jean-Paul».

Si voltò. Gli brillavano gli occhi.

«Vieni a casa mia», dissi, quasi senza rendermene conto.

Il suo volto non tradì alcun turbamento ma avvenne qualcosa fra noi, in
quell'istante, come il vento quando cambia di colpo direzione.

«Ella, sto lavorando».

«Dopo».

«E tuo marito?»

«E' via». A quel punto mi sentii un po' umiliata. «Lascia perdere», mormorai.

«Dimentica quello che ho detto».

Feci per alzarmi ma Jean-Paul mi fermò mettendo una mano sulla mia.
Mentre mi lasciavo cadere sulla sedia, gettò un'occhiata verso l'altra sala e tolse
la mano.

«Ti va di venire in un posto, stasera?» chiese.

«Dove?» Jean-Paul scrisse qualcosa su un pezzo di carta. «L'ora giusta è verso le


undici».

«Ma che cos'è?» Scosse la testa. «Una sorpresa. Vieni e vedrai».

Feci una doccia e mi preparai per uscire, dedicando al mio aspetto un attenzione
cui non ero abituata da tempo.

E pensare che non sapevo neppure dove stavo andando: Jean-Paul si era limitato a
scribacchiare un indirizzo di Lavaur, una cittadina a più di 30 chilometri da
Lisle. Per quanto ne sapevo, poteva essere un ristorante, la casa di un amico o un
bowling.

M'era rimasto impresso ciò che aveva detto la sera prima a proposito del mio modo
di vestire. Non ero sicura che si fosse trattato di una critica, tuttavia cercai
nel guardaroba qualcosa di colorato. Alla fine optai per il solito tubino giallo
chiaro senza maniche, la cosa più vivace che avessi.

Almeno mi faceva sentire a mio agio, e con le decolleté marroni e un po' di


rossetto non ero poi male. Ovviamente non potevo ancora competere con le donne
francesi, che riuscivano ad apparire eleganti anche in jeans e maglietta, ma
passabile lo ero di certo.

M'ero appena chiusa la porta alle spalle, quando suonò il telefono.

Dovetti precipitarmi a rispondere prima che scattasse la segreteria.

«Ehi, Ella, eri già a letto?»

«Rick. No, in effetti, stavo, ehm, stavo andando a fare una passeggiata.

Sul ponte».

«Una passeggiata alle undici di sera?»

«Sì. Fa caldo e mi stavo annoiando.

Dove sei?»

«In albergo».

Mi sforzai di ricordare: era ad Amburgo o a Francoforte?

«Com'è andata la riunione?»

«Benissimo!» Rick mi raccontò la sua giornata, dandomi così il tempo di


riprendermi. Però quando mi chiese cosa avevo fatto io, non mi venne in mente nulla
di credibile.

«Niente di speciale», tagliai corto.

«Allora, quando torni?»

«Domenica. Prima devo passare da Parigi. Ehi, amore, come sei vestita?» Era un
giochino che facevamo sempre al telefono: uno dei due elencava gli abiti che
indossava e l'altro fingeva di spogliarlo. Guardai il tubino e le scarpe eleganti.
Non potevo certo dirgli la verità, né rifiutarmi di giocare con lui senza una
ragione.

Per fortuna fu lo stesso Rick a salvarmi, dicendo: «Aspetta un momento, ho una


chiamata in attesa. Devo riattaccare». «Certo. Ci vediamo fra qualche giorno».

«Ti amo, Ella». Riagganciò.

Attesi qualche minuto, afflitta dai sensi di colpa, per essere sicura che non
richiamasse.

Mentre guidavo continuavo a ripetermi: puoi ancora tornare indietro, Ella.

Non sei costretta a farlo. Puoi arrivare laggiù, parcheggiare, arrivare davanti
alla porta di questo posto e girare i tacchi. Puoi addirittura vedere Jean-Paul e
passare con lui la più innocente delle serate, e tornartene a casa pura e

"inadulterata". Proprio l'aggettivo giusto.

Lavaur era una cittadina tre volte più grande di Lislesur-Tarn, con una bella
cattedrale, il borgo medievale e qualche traccia di vita notturna: un cinema, vari
ristoranti, un paio di bar degni di questo nome. Dopo aver controllato sulla
cartina, parcheggiai nei pressi della cattedrale, un imponente edificio di mattoni
con il campanile ottagonale, e mi avviai verso il centro. Nonostante le allettanti
occasioni di svago, non c'era in giro nessuno: luci spente e persiane chiuse
ovunque.

Non fu difficile trovare l'indirizzo: era impossibile non notare la stupefacente


insegna al neon della taverna. L'entrata dava su un vicolo e sulla finestra accanto
qualcuno aveva dipinto quelli che mi parvero dei soldati senza volto di guardia a
una donna che indossava un'ampia tunica.

Quelle strane figure mi resero inquieta e mi affrettai verso l'entrata.

Il contrasto fra l'esterno e l'interno non avrebbe potuto essere più stridente. Si
trattava di un piccolo bar, fiocamente illuminato, gremito di gente e pieno di
fumo. I pochi caffè che avevo visto da quando abitavo in Francia s'erano rivelati
piuttosto squallidi, poco accoglienti e frequentati solo da maschi. Finalmente uno
spiraglio di luce nelle tenebre.

Tale fu la sorpresa che mi bloccai sulla soglia.

Proprio davanti a me una splendida donna in jeans e camicetta di seta marrone stava
cantando Every Time We Say Goodbye con un marcato accento francese. Sebbene fosse
di spalle, riconobbi subito Jean-Paul chino sul pianoforte bianco, con la sua
solita camicia celeste. Concentrato ma tranquillo, di tanto in tanto sollevava gli
occhi dai tasti per gettare uno sguardo alla cantante.

Altre persone intanto premevano alle mie spalle e dovetti infilarmi fra il
pubblico. Non riuscivo a staccare gli occhi da Jean-Paul. Al termine della canzone
vi furono urla entusiaste e lunghi applausi. Jean-Paul si guardò intorno e
vedendomi fra la gente mi sorrise. Un uomo alla mia destra mi diede una lieve pacca
sulla spalla. «E' meglio che tu stia attenta: quello è un lupo!» esclamò, ridendo e
indicando il pianoforte con la testa. Arrossii e mi allontanai. Quando Jean-Paul e
la donna attaccarono una nuova canzone, mi avviai sgomitando verso il bar dove per
miracolo riuscii a trovare uno sgabello libero.
La carnagione olivastra della cantante pareva quasi luminosa. Aveva ciglia perfette
e lunghi capelli castani e ondulati, che portava sciolti e con cui giocava mentre
cantava, infilandoci le dita, gettando la testa all'indietro e premendo i polsi
sulle tempie nelle note più acute. Jean-Paul era assai meno istrionico e la sua
compostezza compensava le movenze teatrali della collega, di cui sottolineava la
voce spumeggiante con un sobrio fraseggio.

Decisamente affiatati e sicuri di sé, i due scherzavano spesso fra loro con
evidente complicità. Avvertii una fitta di gelosia.

Due canzoni dopo fecero una pausa e Jean-Paul venne verso di me fermandosi a
parlare con tutti quelli che incontrava. Iniziai a tirarmi nervosamente l'orlo del
vestito, cercando invano di coprirmi le ginocchia.

Quando finalmente mi fu vicino disse:

«Salut, Ella» e mi baciò sulle guance come aveva fatto con una decina di altre
persone. Mi sentivo più calma adesso, sollevata ma anche un po' delusa per non aver
ottenuto un'accoglienza speciale. Che cosa ti aspettavi, Ella? pensai, in collera
con me stessa. Jean-Paul dovette accorgersi della mia confusione.

«Vieni, ti presento alcuni amici», disse con semplicità.

Scivolai dallo sgabello e presi la mia birra, aspettando che il barman gli servisse
un whisky. Jean-Paul indicò un tavolo dall'altra parte del locale e mi posò la mano
sulla schiena, tenendola per tutto il tempo che impiegammo a fendere la folla.
Appena fummo davanti ai suoi amici la lasciò cadere.

Sei persone, inclusa la cantante, erano sedute sulle panche da ambo i lati di un
lungo tavolo. Si strinsero per farci posto e io mi ritrovai proprio accanto alla
chanteuse.

JeanPaul era di fronte a me e le nostre ginocchia si toccavano per la mancanza di


spazio. Notai con un certo compiacimento che il tavolo era pieno di bottiglie di
birra e bicchieri di vino.

Stavano discutendo di musica, citando cantanti francesi di cui non avevo mai
sentito il nome, e ogni tanto esplodevano in fragorose risate alludendo a
situazioni a me sconosciute. C'era così tanto rumore e parlavano tutti così alla
svelta che dopo un po' rinunciai ad ascoltare.

Jean-Paul si accese una sigaretta.

Rideva alle battute ma non partecipava alla conversazione. Di tanto in tanto


sentivo i suoi occhi posarsi su di me. Quando una volta lo sorpresi disse: «ça va?»
Annuìi e Janine, la cantante, mi rivolse la parola: «Allora, preferisci Ella
Fitzgerald o Billie Holiday?»

«Oh, a dire il vero non ascolto nessuna delle due». Una risposta alquanto sgarbata.
In fondo, Janine mi stava offrendo l'opportunità di unirmi alla conversazione. E
poi volevo convincermi di non essere gelosa di lei, della sua bellezza, della sua
innata eleganza, del suo legàme con Jean-Paul, così mi affrettai ad aggiungere: «Mi
piace Frank Sinatra».

Un tizio stempiato, con la faccia da bambino e la barba di due giorni, seduto


accanto a Jean-Paul, sbuffò.

«Troppo sentimentale, troppo show-biz». Aveva usato l'espressione inglese,


sventolandosi le mani davanti alle orecchie, con un sorriso affettato. «Vuoi
mettere Nat King Cole!»

«Sì, ma...» farfugliai, mentre tutti mi osservavano incuriositi. Ricordavo una cosa
che mio padre diceva sempre a proposito della tecnica di Sinatra e stavo cercando
disperatamente di tradurla in francese nella mia testa: ovvero l'esatto contrario
di ciò che mi aveva consigliato Madame Sentier.

«Frank Sinatra canta senza respirare», annunciai alla fine e mi fermai lì.

Non era quello che intendevo: volevo dire che aveva una voce così morbida che non
riuscivi a distinguere il respiro. Ma il mio francese mi aveva piantato in asso.
«La sua...» Troppo tardi, stavano già parlando d'altro. Non ero stata abbastanza
veloce. Mi imbronciai, scuotendo piano la testa, arrabbiata con me stessa e al
tempo stesso imbarazzata, come capita quando inizi a raccontare una storia e
capisci che nessuno ti sta ascoltando.

Jean-Paul mi sfiorò la mano. «Mi fai venire in mente quando ero a New York», disse
in inglese. «A volte non capivo nulla nei bar e intorno a me urlavano tutti, usando
parole che non conoscevo».

«Non riesco ancora a pensare velocemente in francese.

Specie le cose più complicate».

«Ci riuscirai. Se rimarrai qui abbastanza a lungo, ci riuscirai».

L'uomo con la faccia da bambino aveva ascoltato la nostra conversazione in inglese.


Mi squadrò dalla testa ai piedi, poi domandò: « Tu es américaine?»

«Oui».

La mia risposta ebbe uno strano effetto, come se una scossa elettrica avesse fatto
il giro del tavolo: tutti si chinarono in avanti, guardando stupiti prima me e
subito dopo Jean-Paul. Anch'io lo guardai, sconcertata da quella reazione.

Jean-Paul allungò la mano verso il bicchiere e con un movimento secco del polso
finì il suo whisky, un evidente gesto di sfida.

A quel punto, l'uomo che mi aveva fatto la domanda si fece sarcastico.

«Ah, ma tu non sei grassa. Perché non sei come gli altri americani?» Gonfiò le
guance e mise le mani a coppa davanti a sé, mimando un immaginario pancione.

Avevo scoperto una cosa del mio francese: quando ero arrabbiata riuscivo a parlare
a raffica. «E' vero, forse gli americani sono grassi ma di certo non hanno la bocca
larga dei francesi!» Tutti scoppiarono a ridere, anche il mio interlocutore.

Anzi sembrava pronto a tornare all'attacco. Dannazione, pensai, ho abboccato


all'amo, adesso mi provocherà per tutta la serata.

Infatti l'uomo si sporse verso di me.

Coraggio, Ella, la miglior difesa è l'attacco. Era la frase preferita di Rick. Mi


pareva quasi di sentirlo.

Partii lancia in resta senza dargli il tempo di aprir bocca.

«Va bene, parliamo dell'America.


Naturalmente lei tirerà in ballo, aspetti eh... vediamo di andare per ordine: il
Vietnam. No, forse prima il cinema e la televisione americani, Hollywood, il
McDonald's sugli Champs-Elysées». Proseguìi l'elenco, contando sulle dita. «Poi il
Vietnam.

La violenza e le armi. E la CIA, sì, immagino che citerà la CIA diverse volte. E
magari, se è comunista, lei è per caso comunista, Monsieur? magari un accenno a
Cuba. E alla fine la Seconda Guerra Mondiale, cui gli americani parteciparono ma
solo in un secondo momento e non furono mai occupati dai tedeschi, come i poveri
francesi. Questo è il pièce de résistance, n'est-ce pas?» Cinque persone ridevano
divertite, mentre l'uomo aveva messo il broncio.

Jean-Paul portò alla bocca il bicchiere vuoto per nascondere il sorriso che gli era
spuntato sulle labbra.

«Ora», continuai, «potrei chiederle se la colonizzazione francese del Vietnam sia


stata migliore di quella americana.

Se si sente orgoglioso per quello che è successo in Algeria.

E che mi dice del vostro razzismo verso i nordafricani? O sugli esperimenti


nucleari nel Pacifico?

Vede, siccome lei è francese per me rappresenta sempre e comunque il suo governo e
immagino che approvi ogni sua scelta, giusto?

Stronzetto». Dissi l'ultima parola in inglese e a denti stretti. Solo Jean-Paul


riuscì a sentirla e mi guardò con tanto d'occhi. Gli sorrisi: vedi, non sono la
signora per benino che sembro.

L'uomo stempiato si puntò le dita sul petto e subito dopo allargò le braccia, in
segno di resa.

«Ma torniamo a Frank Sinatra e Nat King Cole. Deve scusare il mio francese, ma a
volte ho bisogno di un po' di tempo per esprimermi. Quel che volevo dire è che non
si sente il suo... come si dice?» Mi posai una mano sul petto e inspirai.

«Respiration», suggerì Janine.

«Sì. E impossibile sentirla, quando canta».

«A quanto dicono, è perché conosceva la tecnica della respirazione circolare...»


Con mio grande sollievo, un tizio all'altro capo del tavolo aveva deciso di
intervenire.

Jean-Paul si alzò. «Devo andare a suonare», disse piano guardandomi. «Ti fermi
ancora un po'?»

«Sì».

«Bene. Credi di poter difendere la posizione?»

«In che senso?»

«Saprai farti valere...»

«Stai tranquillo, la rissa non mi spaventa!»

«Ho visto».
«Me la caverò».

In effetti, tutto filò liscio. Nessuno tirò più in ballo luoghi comuni relativi
all'America. Di tanto in tanto prendevo anch'io parte al discorso e quando non
riuscivo a capire di cosa stessero parlando, mi limitavo ad ascoltare la musica.

Jean-Paul suonò un po' di honky-tonk, dopodiché Janine sì unì a lui.

Eseguirono un repertorio che andava da Gershwin a Cole Porter, e parecchie canzoni


francesi. A un certo punto lei gli bisbigliò qualcosa all'orecchio, e dopo avermi
lanciato un'occhiata complice attaccò Let's Call The Whole Thing off di Gershwin,
mentre Jean-Paul sorrideva chino sui tasti.

Più tardi la folla si diradò e Janine venne a sedersi accanto a me. Eravamo rimasti
soltanto in tre al tavolo, e ci abbandonammo al silenzio piacevole e rilassato che
cala a tarda notte dopo una serata intensa. Perfino l'uomo stempiato taceva adesso.

Jean-Paul continuava a suonare, una musica tranquilla, contemplativa, pochi accordi


ad accompagnare semplici linee melodiche, che oscillavano fra il jazz e la musica
classica, un misto di Erik Satie e Keith Jarrett.

Mi accostai a Janine: «Cosa sta suonando?» Lei sorrise. «La sua musica. L'ha
composta lui».

«E' bellissima».

«Sì. La esegue solo a fine serata».

«Che ore sono?» Janine guardò l'orologio. Erano quasi le due.

«Non pensavo fosse così tardi».

«Non porti l'orologio?» Sollevai il polso. «L'ho lasciato a casa». I nostri occhi
si posarono sul mio anello nuziale. Ritirai istintivamente la mano. C'ero tanto
abituata che l'avevo dimenticato. Del resto, credo che non l'avrei tolto comunque,
mi sarebbe parso un gesto troppo calcolato.

Incrociai lo sguardo della cantante e arrossii, peggiorando ancora di più le cose.


Per un istante pensai di andare in bagno a levarmi l'anello, ma sapevo che se ne
sarebbe accorta, così mi nascosi le mani in grembo e cambiai ostentatamente
discorso, chiedendole dove avesse preso quella camicetta. La donna capì al volo.

Pochi minuti dopo il resto della compagnia lasciò il tavolo. Con mia grande
sorpresa Janine se ne andò insieme all'uomo stempiato. Mi salutarono cordialmente
con un gesto della mano e Janine lanciò un bacio a Jean-Paul che continuava a
suonare.

Ormai non c'era più nessuno nel locale, soltanto io e il barman che aveva già
iniziato a raccogliere i bicchieri e a pulire i tavoli.

Terminato l'ultimo pezzo, Jean-Paul rimase in silenzio per un momento. Il barman


stava mettendo le sedie sui tavoli, fischiando un motivetto stonato. «Ehi,
François, due whisky per favore, se non vuoi fare la figura dello spilorcio!»
François fece una smorfia ma andò lo stesso dietro il bancone e riempì tre
bicchieri. Me ne mise uno davanti, con un leggero inchino e ne posò un altro sul
pianoforte. Poi estrasse il cassetto dal registratore di cassa, e tenendolo in
equilibrio su una mano, sparì nel retro col suo bicchiere di whisky nell'altra.
Io e Jean-Paul sollevammo i bicchieri e bevemmo insieme.

«C'è una splendida luce sulla tua testa, Ella Tournier».

Alzai lo sguardo verso il giallo tenue del faretto alle mie spalle che dava ai miei
capelli riflessi d'oro e ramati. Guardai Jean-Paul e lui suonò un accordo delicato
con la mano sinistra.

«Hai studiato musica?»

«Sì, quand'ero giovane».

«Conosci Erik Satie?» Jean-Paul posò il bicchiere e iniziò a suonare un pezzo che
conoscevo, in cinque quarti con una melodia scarna e cadenzata. La musica perfetta
per quella stanza, con quella luce, a quell'ora. Mentre suonava mi sfilai l'anello,
mettendolo in tasca.

Al termine del brano, Jean-Paul rimase per un momento con le mani sulla tastiera,
poi prese il bicchiere e lo scolò.

«Dobbiamo andarcene», disse alzandosi.

«François ha bisogno di dormire».

Uscire all'aperto fu come tornare a vedere il mondo dopo una settimana trascorsa a
casa con l'influenza: tutto pareva più grande e misterioso e mi sentivo un po'
smarrita.

Faceva più freddo e il cielo era pieno di stelle. «Chi è quella donna?» chiesi a
Jean-Paul quando passammo davanti alle imposte dipinte con i soldati e la figura
femminile.

«E' la Dame du Plo. Una martire catara del tredicesimo secolo. I soldati la
stuprarono e poi la buttarono in un pozzo, riempiendolo di pietre».

Rabbrividii e Jean-Paul mi cinse le spalle con il braccio.

«Andiamo via», disse, «altrimenti mi accuserai di dire cose strane».

Scoppiai a ridere. «Come Goethe».

«Sì, come Goethe».

Mi ero chiesta se sarebbe arrivato il momento di decidere, se ne avremmo discusso,


riflettendo su ciò che ci stava capitando. Ora che il momento era giunto mi apparve
chiaro che l'intera serata era stata in realtà una tacita trattativa: la decisione
era già stata presa. Con mio grande sollievo non fiatammo mentre andavamo verso la
macchina, e non parlammo quasi per nulla durante il viaggio.

Passando davanti alla cattedrale di Lavaur, Jean-Paul notò la mia automobile nel
parcheggio deserto. «La tua macchina», disse, una semplice constatazione più che
una domanda.

«Verrò a prenderla domani col treno».

Fine del problema.

Appena fummo in aperta campagna gli chiesi di aprire il tettuccio di tela della
Deux Chevaux. Jean-Paul lo ripiegò all'indietro, senza neppure fermarsi. Gli andai
vicino e lui mi cinse le spalle, accarezzando la pelle nuda del mio braccio, mentre
guardavo i platani che sfrecciavano sopra le nostre teste.

Quando attraversammo il ponte sul Tarn mi tirai su.

Anche se erano le tre del mattino un minimo di decoro mi pareva opportuno.

Jean-Paul abitava dalla parte opposta della città, rispetto a casa mia, al confine
con la campagna.

E tuttavia non ci volevano più di dieci minuti a piedi da una casa all'altra. Mi
sforzai di scacciare quel pensiero.

Parcheggiammo e scendemmo dalla macchina, rimettendo a posto il tettuccio. Le case


vicine erano buie, le persiane chiuse. Seguìi Jean-Paul su per una rampa di scale
esterne fino alla porta. Appena fui entrata accese la luce, illuminando una stanza
ordinata e piena di libri.

Si voltò e mi porse la mano. Deglutii.

Avevo un nodo in gola. Ora che si trattava di fare l'ultimo passo ero terrorizzata.

Alla fine allungai il braccio, presi la sua mano e lo attirai a me, stringendolo
forte, le mani aggrappate alla sua schiena, il viso contro la sua pelle. La paura
svanì di colpo.

La camera da letto era arredata con semplicità ma non avevo mai visto un letto così
grande. La finestra dava sui campi. Jean-Paul fece per chiudere le persiane ma lo
fermai.

Fu come un unico movimento, ininterrotto. Neppure per un attimo pensai ai miei


gesti, ai suoi. Non vi erano pensieri, solo due corpi che si riconoscevano,
ritrovando insieme la completezza.

Non dormimmo fino al sorgere del sole.

Fu la luce piena del mattino a svegliarmi nel letto vuoto.

Mi misi a sedere, guardandomi intorno.

Uno dei comodini era colmo di libri.

Sulla parete dietro il letto un poster nero e porpora di un concerto jazz, per
terra un tappetino di fibra grezza color del grano. Fuori dalla finestra, prati di
un verde lucente che lambivano un filare di platani, e poi la strada. Ogni cosa mi
ricordava la semplicità dei vestiti di Jean-Paul.

Si aprì la porta e lui entrò in pantaloni neri e camicia bianca, con in mano una
tazzina di caffè. La posò sul comodino e si sedette sul bordo del letto.

«Grazie per il caffè».

Annuì. «Ella, devo andare a lavorare».

«Sei sicuro?» Rispose con un sorriso.

«Mi sembra di non aver chiuso occhio», dissi.

«Hai dormito tre ore. Ma se vuoi puoi rimanere qui e dormire ancora un po'».
«Mi farebbe uno strano effetto, senza di te».

Mi accarezzò una gamba. «Potresti almeno aspettare che ci sia in giro meno gente».

«Giusto». Per la prima volta mi resi conto delle grida dei bambini che passavano
sotto le finestre. Fu come se venisse giù un muro: la prima intrusione del mondo
esterno. E con essa, uno sgradevole senso di clandestinità, la necessità della
cautela. Non ero sicura di essere pronta per cose del genere, e m'infastidiva un
po' la sua prudenza.

Quasi mi avesse letto nel pensiero, Jean-Paul disse, guardandomi negli occhi: «Lo
dico per te. Non per me.

Per me è diverso. E' sempre diverso per un uomo, da queste parti».

La franchezza delle sue parole mi risvegliò del tutto, costringendomi a pensare.

«Questo letto...» feci una pausa. «È decisamente troppo grande per una persona
sola. E poi non avresti due comodini se ci dormissi solo tu».

Jean-Paul scrutò il mio viso. Poi si strinse nelle spalle.

Quel gesto salutò il nostro ritorno alla vita di tutti i giorni.

«Ho vissuto con una donna per qualche tempo. Se n'è andata un anno e mezzo fa. Il
letto era stato una sua idea».

«Eravate sposati?»

«No».

Gli strinsi un ginocchio. «Scusami», dissi in francese.

«Non dovevo impicciarmi».

Si strinse di nuovo nelle spalle, sorridendo. «Sai una cosa, Ella Tournier? A furia
di parlare francese sta venendo la bocca larga anche a te!» La luce del sole
scintillava sulle sue ciglia mentre mi baciava.

Quando sentii il portone di casa che si chiudeva, tutto mi sembrò diverso.

Non mi ero mai sentita così strana a casa di qualcun altro. Mi sedetti sul letto
rigida come un manichino, sorseggiando il caffè. Ascoltavo le voci dei bambini giù
in strada, le macchine che passavano, ogni tanto una Vespa. Jean-Paul mi mancava
terribilmente e volevo andarmene al più presto, ma ero imprigionata lì dai rumori
del mondo.

Alla fine mi alzai e feci una doccia.

Il mio vestitino giallo era tutto sgualcito e puzzava di fumo e di sudore.


Indossandolo mi sentii una perfetta barbona. Desideravo tornare a casa ma mi
costrinsi ad aspettare che la strada si facesse silenziosa. Andai in soggiorno a
curiosare fra i suoi libri.

C'erano molti testi di storia francese, romanzi e qualche autore inglese: John
Updike, Virginia Woolf, Edgar Allan Poe. Uno strano miscuglio.

Fui sorpresa che i libri fossero disposti a casaccio: testi letterari insieme a
saggi e nessun ordine alfabetico. A quanto pareva aveva lasciato la sua
professionalità fuori dalla porta.

Quando capii che la strada era sgombra, fui assalita dalla titubanza.

Sapevo che una volta uscita non sarei più potuta tornare indietro. Guardai le
stanze per l'ultima volta, poi andai in bagno e presi dalla cesta dei panni sporchi
la camicia celeste che Jean-Paul aveva addosso la sera prima.

L'arrotolai e la infilai nella borsa.

Varcando il portone mi parve di entrare su un palcoscenico, anche se non si vedeva


in giro neppure l'ombra di uno spettatore. Discesi le scale di corsa e mi affrettai
verso il centro.

Iniziai a respirare meglio solo quando mi ritrovai nelle vie che percorrevo
solitamente la mattina, ma continuavo ugualmente a sentirmi esposta. Avevo
l'impressione che tutti mi stessero osservando, che a nessuno potessero sfuggire le
pieghe del vestito, le mie occhiaie. Coraggio Ella, pensavo per tranquillizzarmi,
lo sai che ti guardano sempre e comunque. E' perché sei straniera, non perché hai
appena... Non riuscii a finire il pensiero.

Solo quando giunsi nella nostra strada mi ricordai che non dovevo andare subito a
casa. La vista della casetta mi procurò un attacco di nausea.

Dovetti fermarmi, appoggiandomi al muro dei vicini. Quando ci metterò piede,


pensai, dovrò vedermela con i sensi di colpa.

Impiegai un bel po' a riprendermi. Poi mi voltai, incamminandomi verso la stazione.


Fortunatamente dovevo andare a recuperare la macchina: almeno avrei avuto una buona
scusa per dimenticare la mia vita.

Mi sedetti sul treno, ancora stordita, felice e amareggiata a un tempo, e quasi mi


scordai di scendere alla fermata successiva dove avrei preso il treno per Lavaur.
Avevo intorno impiegati, donne con le borse della spesa, ragazzini che
amoreggiavano. Mi pareva così strano che nessuno si accorgesse della cosa
straordinaria che mi era appena capitata.

«Lo sa cosa ho fatto poco fa?» avrei voluto dire alla signora dalla faccia mesta
che sferruzzava davanti a me.

«Lei lo avrebbe fatto?» Ma quel treno non si curava per niente della mia vita, e
neppure il resto del mondo. Nei forni il pane continuava a cuocere, le pompe davano
benzina, si preparavano quiche e i treni viaggiavano in orario. Perfino Jean-Paul
era al lavoro, intento a consigliare romanzetti rosa ad anziane signore. E Rick
partecipava alla sua riunione in Germania, all'oscuro di tutto. Inspirai a fondo:
solo io non tenevo il passo, solo io non avevo niente di meglio da fare che andare
a recuperare un'automobile, in compagnia del senso di colpa.

Bevvi un espresso in un bar di Lavaur, dopodiché raggiunsi il parcheggio.

Avevo appena aperto lo sportello della macchina, quando sentii esclamare dietro di
me: «Eh, L'américaine!» Mi voltai e vidi l'uomo stempiato con cui avevo bisticciato
la sera prima.

Veniva verso di me e aveva la barba di tre giorni. Spalancai la portiera e mi ci


appoggiai, quasi facendomene scudo.

«Salut», dissi.
«Salut, Madame». Non mi piacque il tono con cui aveva detto Madame.

«je m'appelle Ella», risposi asciutta.

«Claude». Mi porse la mano e io gliela strinsi freddamente. Mi sentivo un po'


ridicola. Gli indizi di ciò che avevo fatto erano sotto i suoi occhi: l'auto ancora
parcheggiata lì, l'abito della sera prima tutto spiegazzato, la mia faccia stanca.
Tutto portava a un'unica conclusione. Restava da vedere se l'uomo avrebbe avuto il
buon gusto di evitare l'argomento. Ne dubitavo.

«Ti va un caffè?»

«No, grazie. Ne ho già preso uno».

L'uomo sorrise. «Dài, andiamo a bere un caffè». Si avviò senz'altro, dando per
scontato che lo seguissi. Io non mi mossi. Lui si voltò e si fermò, scoppiando a
ridere. «Oh, tu, tu, sei proprio una tipa difficile, sai! Come una gattina pronta a
tirare fuori gli artigli, così...» e mimò gli artigli, piegando le dita. «E con il
pelo tutto arruffato. Va bene, niente caffè.

Allora sediamoci un momento su questa panchina, ok? Devo dirti una cosa».

«Cosa?»

«Voglio aiutarti. No. Voglio aiutare Jean-Paul. Per cui siediti, ti prego, solo un
secondo». Si sedette su una panchina lì accanto e rimase a guardarmi con occhi
fiduciosi.

Alla fine chiusi la portiera e andai a sedermi al suo fianco.

Invece di guardarlo in faccia, mi misi a osservare il giardino di fronte a noi, con


le aiuole ordinate dove i fiori iniziavano a sbocciare.

«Cosa intende dire?» dissi nel più formale dei modi, per scoraggiare la confidenza
che l'uomo ostentava nei miei confronti. Non servì a niente.

«Sai, Jean-Paul è un nostro caro amico, mio e di Janine.

Tutti quelli che frequentano La Taverne gli vogliono bene».

Tirò fuori le sigarette e me ne offrì una. Scossi la testa. L'uomo se ne accese una
e appoggiò la schiena alla panchina, incrociando le gambe all'altezza delle
caviglie e stirandosi la schiena.

«Ha vissuto con una donna per un anno, lo sapevi?» proseguì.

«Sì. E allora?»

«Ti ha mai parlato di lei?»

«No».

«Era americana».

Mi girai verso Claude per cercare di scoprire che tipo di reazione si aspettasse da
me, ma lui teneva lo sguardo fisso sul traffico, un'espressione indecifrabile sul
volto.
«Per caso era grassa?» Claude esplose in una fragorosa risata. «Tu!» esclamò.

«Sei proprio... Ora capisco perché piaci tanto a Jean-Paul.

Sei davvero una gatta!»

«Perché l'ha lasciato?» Si strinse nelle spalle e finalmente smise di sghignazzare.

«Le mancava il suo paese. Non riusciva ad ambientarsi qui da noi. Diceva che la
gente non era amichevole. Insomma si sentiva emarginata».

«Gesù», mi scappò detto in inglese.

Claude si chinò in avanti e allargò le gambe, appoggiando i gomiti sulle ginocchia,


le mani penzoloni. «La ama ancora?» gli domandai.

Si strinse di nuovo nelle spalle. «E' sposata adesso».

Quello non è un problema, pensai, guarda me. Evitai di dirlo.

«Capisci», continuò Claude, «noi cerchiamo di proteggere il nostro amico. Ed ecco


che spunta fuori un'americana carina e piena di spirito, una gatta selvaggia che
gli mette gli occhi addosso, però è sposata. E allora pensiamo: Forse questa cosa
non è buona per lui, anche se sappiamo che Jean-Paul non la pensa così. Oppure la
pensa così, ma la tentazione è troppo forte...»

«Sì, ma...» Non sapevo cosa dire. Se avessi osservato che non tutte le americane
devono per forza scappare via con la coda fra le gambe, - un'opzione che peraltro
anch'io avevo preso in considerazione nei momenti più cupi, - Claude avrebbe sempre
potuto ricordarmi che ero una donna sposata. Non si capiva quale delle due cose lo
preoccupasse di più. Forse quell'ambiguità era voluta, come una specie di
strategia. Ma era troppo antipatico e non me la sentivo di approfondire la
questione.

Quello che si capiva benissimo però, era che secondo lui non andavo bene per Jean-
Paul.

E fu questo pensiero, - oltre al sonno e all'assurdità di trovarmi seduta su una


panchina accanto a un tizio che mi diceva cose che sapevo già, - a farmi crollare.
Mi chinai in avanti, puntando i gomiti sulle ginocchia, e mi coprii gli occhi, come
se volessi ripararmi da una luce accecante. Poi iniziai a piangere sommessamente.

Claude si raddrizzò. «Mi dispiace, Ella. Non volevo rattristarti».

«Come pensavi che avrei reagito?» risposi stizzita. Allargò le braccia, ripetendo
il gesto di resa della sera prima alla taverna.

Mi asciugai le mani sul vestito e mi alzai. «Devo andare», borbottai, scostandomi i


capelli dal viso. Non mi riuscì di ringraziarlo e neppure di salutarlo.

Durante il viaggio di ritorno, piansi per tutto il tempo.

La Bibbia sulla scrivania pareva quasi un rimprovero. Mi pesava stare da sola ma


purtroppo non avevo scelta. Sentivo soprattutto il bisogno di sfogarmi con un
amica. Erano sempre state le donne ad aiutarmi nei momenti di crisi. Ma negli Stati
Uniti a quell'ora era notte fonda e poi per telefono non era la stessa cosa. Non
avevo nessuno con cui confidarmi in Francia. L'unica persona con cui fossi riuscita
a instaurare un rapporto simile all'amicizia era Mathilde, ma la sera della Bibbia
non aveva fatto altro che corteggiare Jean-Paul e di sicuro non le sarebbe piaciuto
quello che era successo fra noi.

In tarda mattinata ricordai che nel pomeriggio avevo la lezione di francese a


Tolosa. Chiamai Madame Sentier per rimandarla, con la scusa che non mi sentivo
bene. Quando mi chiese cosa avevo, risposi che m'era venuta la febbre da fieno.

«Ah, trovi qualcuno che si prenda cura di lei», esclamò l'anziana signora. Le sue
parole mi fecero tornare alla mente quelle di mio padre, preoccupato al pensiero di
quella figlia abbandonata in terra straniera, senza nessuno che potesse aiutarla.
«Chiama Jacob Tournier, se ti trovi in difficoltà», mi ripeteva sempre.

«Quando uno ha dei problemi, è bene avere accanto qualcuno di famiglia».

Jean-Paul Vado dai miei parenti. Mi sembra la cosa migliore. Se rimanessi qui
affogherei nei sensi di colpa.

Ti ho preso la camicia azzurra.

Perdonami.

Ella.

Rick invece non ebbe nessun biglietto.

Chiamai la sua segretaria e gli lasciai un brevissimo messaggio.

7 - Il vestito

Non la lasciavano mai da sola.

Qualcuno rimaneva sempre con lei, Etienne o Hannah o Petit Jean. Di solito toccava
ad Hannah e Isabelle ne era contenta, perché Hannah non poteva o, forse, non voleva
parlare e comunque era ormai troppo vecchia e minuta per farle male. Le braccia di
Etienne invece erano sempre pronte all'ira e non si fidava più di Petit Jean, con
il coltello in tasca e quel ghigno dipinto sul viso.

Ma com'era potuto succedere? pensava Isabelle, le mani intrecciate dietro la nuca,


i gomiti appoggiati al petto.

Possibile che io debba avere paura perfino di mio figlio? Era uscita nel devant-
huis e il suo sguardo vagava fra il bianco monotono dei campi, le montagne scure e
il cielo grigio.

Hannah apparve sulla soglia. Etienne sapeva sempre tutto di Isabelle, eppure lei
non era mai riuscita a sorprendere la suocera a colloquio con il figlio.

«Chiudete la porta, Mémé!» urlò Petit Jean dall'interno della casa.

Isabelle guardò la stanza buia e fumosa oltre le spalle di Hannah, e le vennero i


brividi. Con le finestre tappate e la porta sempre chiusa, il fumo diventava una
coltre spessa e soffocante che bruciava gli occhi e la gola. Allora Isabelle andava
su e giù per la stanza con il passo pesante di chi cammina nell'acqua. Nel devant-
huis faceva freddo ma almeno si riusciva a respirare.

A un tratto Hannah toccò il braccio di Isabelle e le indicò il fuoco con un cenno


della testa. Poi si scansò per farla passare: era tempo di tornare dentro.

Durante l'inverno filavano dalla mattina alla sera e la canapa ammucchiata nel
fienile pareva non finire mai. Mentre lavorava, Isabelle pensava alla morbidezza
del panno azzurro e immaginava di avere quello fra le mani, invece della fibra
grezza che le graffiava la pelle lasciandole sulle dita una rete di minuscoli
taglietti. Per quanto si sforzasse, il filo non le veniva mai sottile come quello
di lana della Cévennes.

Era sicura che Jacob avesse nascosto la stoffa da qualche parte, nel bosco o forse
nel fienile, ma non gli chiedeva nulla. Meglio così: anche se li avessero lasciati
da soli un momento non voleva conoscere il suo segreto, altrimenti c'era il rischio
che Etienne la costringesse a vuotare il sacco a suon di legnate.

Era difficile pensare in mezzo al fumo, fra la canapa da filare e il buio, nel
silenzio ovattato della stanza. A volte Etienne si metteva a fissarla e non
distoglieva lo sguardo neppure quando lei se ne accorgeva.

I suoi occhi parevano più cattivi senza le ciglia e ogni volta che li guardava
Isabelle non poteva evitare di sentirsi intimorita e colpevole a un tempo.

Così iniziò a parlare sempre meno. La sera rimaneva in silenzio davanti al fuoco,
invece di raccontare storie ai figli o cantare filastrocche, ridendo insieme a
loro. Pareva che volesse nascondersi dentro di sé, quasi fosse convinta che stando
zitta sarebbe diventata meno visibile, sfuggendo al sospetto che la imprigionava,
alla minaccia senza nome che incombeva su di lei.

La prima volta sognò il pastore in un campo di ginestra.

L'uomo raccoglieva i fiori gialli e li schiacciava fra le dita.

Fanne un infuso con l'acqua bollente e bevilo, diceva. Ti farà bene, vedrai.

La cicatrice era scomparsa dal suo viso.

Quando gli aveva chiesto dove fosse finita, lui aveva risposto che s'era spostata
in un'altra parte del corpo.

Poi sognò suo padre che frugava con un bastone fra la cenere di un camino
diroccato, in mezzo alle rovine fumanti di una casa.

Lo aveva chiamato, ma preso dalla ricerca il vecchio non si era voltato.

Infine le apparve una donna. Isabelle non riusciva mai a guardarla in faccia.
Compariva sempre su una soglia o fra gli alberi, e solo una volta accanto a un
fiume che sembrava proprio il Tarn. Le dava conforto quella figura, anche se non
diceva mai nulla, né si lasciava guardare da vicino.

Dopo Natale i sogni cessarono.

La mattina di Natale tutti indossarono i vestiti neri della festa, ma questa volta
erano i loro, fatti con la canapa dei loro campi. Il tessuto era duro e ruvido ma
gli abiti sarebbero durati per anni. I ragazzi si lamentavano, dicendo che
pizzicava e graffiava. Isabelle la pensava allo stesso modo, ma non fiatava.
Fuori della chiesa di Saint Pierre scorsero Gaspard fra la folla dei fedeli e
andarono verso di lui per salutarlo.

«Ecoute, Etienne», disse Gaspard.

«Alla taverna ho conosciuto un uomo che potrebbe procurarvi la pietra dì cui avete
bisogno per il camino. In Francia, a una giornata di cavallo da qui, verso
Montbéliard, c'è una cava di granito.

La prossima primavera potrebbe portarvene una grossa lastra. Datemi le misure e


affiderò un messaggio alla prima persona diretta da quelle parti».

Etienne annuì.

«Gli avete detto che lo pagherò in canapa?»

«Bien sùr».

Etienne si rivolse alle sue donne.

«Questa primavera avremo il camino», disse a voce bassa in modo che gli svizzeri lì
intorno non lo sentissero.

«Grazie a Dio», esclamò con impeto Isabelle.

Etienne le gettò un'occhiataccia, stringendo le labbra, ma subito distolse lo


sguardo quando Pascale si unì a loro. La donna rivolse un cenno di saluto ad Hannah
e sorrise timidamente a Isabelle. Negli ultimi tempi si erano viste soltanto in
chiesa e non avevano più avuto occasione di parlarsi.

Arrivò il pastore, Abraham Rougemont, e si fermò a salutare Hannah. Isabelle ne


approfittò per scambiare due parole con Pascale.

«Scusami se non sono più venuta a trovarti», bisbigliò.

«E... difficile, adesso».

«Hanno saputo del... del...»

«No, stai tranquilla».

«Isabelle, io ho I'...» La ragazza s'interruppe di colpo, confusa: Hannah era


apparsa al fianco di Isabelle, e la fissava con durezza.

Vincendo l'imbarazzo, Pascale disse sommessamente:

«Dio vi protegga quest'inverno».

Isabelle fece un sorriso forzato.

«Altrettanto a voi».

«Verrete a farci visita, prima della funzione serale?»

«Bene. Ora dimmi, Jacob, cosa mi hai portato questa volta, chéri?» Il ragazzo
estrasse dalla tasca una pietra di un verde opaco a forma di piramide e la porse a
Pascale.

Isabelle si avviò verso la chiesa. A un tratto si voltò e vide che Jacob diceva
qualcosa all'orecchio della sua amica.

Alla fine della funzione Etienne le rivolse la parola.

«Tu e Maman andrete a casa, ora», borbottò.

«Ma la funzione a Chalières...»

«Tu non ci verrai, Rossa».

Isabelle aprì bocca per ribattere ma la chiuse subito: suo marito aveva già
allargato le spalle e la guardava male. Così non potrò vedere Pascale, pensò. Non
vedrò la Vergine nella cappella. Chiuse gli occhi e si coprì la testa con le
braccia, in attesa delle botte.

Etienne la prese per un gomito e la trascinò lontano dalla folla.

«Vai», disse, spingendola verso casa.

Hannah andò subito a mettersi al fianco della nuora.

Isabelle sollevò un braccio.

«Marie», chiamò. La bimba la raggiunse con un balzo.

«Maman», esclamò, prendendole la mano.

«No. Marie verrà in chiesa con noi.

Vieni qui, Marie».

Marie guardò la madre e subito dopo il padre. Poi, senza dire una parola, lasciò la
mano di Isabelle e andò a mettersi a metà strada fra i genitori.

«Qui», ordinò Etienne indicando un punto accanto a sè.

Marie lo fissava con i suoi occhioni blu.

«Papà», disse a voce alta. «Se picchierete anche me come fate sempre con la mamma,
mi uscirà il sangue!» Etienne sembrava ancora più grosso per la rabbia che aveva in
corpo. Fece un passo verso la figlia ma si fermò quando vide che Hannah aveva
alzato la mano, come per metterlo in guardia, e scuoteva la testa. Allora si voltò
a guardare la folla dei fedeli: nessuno fiatava. Dopo aver gettato un'ultima
occhiataccia a Marie, Etienne si girò avviandosi a grandi passi verso la casa di
Gaspard.

Hannah imboccò il sentiero che portava alla loro terra, ma Isabelle non si mosse e
chiamò la figlia.

«Marie, vieni con noi».

La bambina rimase dove si trovava finché Jacob non le si avvicinò, prendendola per
mano.

«Dài, andiamo al fiume», disse il ragazzo e Marie si lasciò condurre via


docilmente. Nessuno dei due si voltò.

Quando il freddo li imprigionava in casa, Jacob e Marie giocavano insieme,


inventando giochi sempre nuovi con i sassi. Jacob le insegnò a contare e poi a
disporre le pietre in vari modi, a seconda del colore, delle dimensioni, del luogo
da cui venivano.

Poi cominciarono a disegnare gli oggetti: prendevano una falce, la posavano per
terra e la circondavano di pietre.

Quando la tiravano su una fila di sassi colorati ne tracciava il contorno sul


pavimento. Fecero lo stesso con i rastrelli, le vanghe, le pentole, la panca, i
grembiali, le brache, le loro mani.

«Ora voglio disegnare te», disse una volta Jacob alla sorellina.

Marie iniziò a ridere e battere le mani, poi si sdraiò supina sul pavimento e Jacob
allargò le falde del vestito in modo che i sassi ne mostrassero la forma per
intero.

Scelse le pietre con cura: granito della Cévennes intorno alla testa e al collo,
ciottoli bianchi lungo il vestito, verdi per gambe, piedi e mani. Seguì con
precisione i contorni dell'abito, il taglio della vita, l'incavo delle braccia.
Quand'ebbe finito, aiutò Marie ad alzarsi senza muovere le pietre. Rimasero tutti
meravigliati davanti alla sagoma della ragazzina con le braccia e le gambe
divaricate sopra il pavimento di terra.

Isabelle notò che sia Jacob che Etienne lo guardavano in modo strano.

Etienne muoveva le labbra senza emettere alcun suono.

Sta contando, pensò Isabelle. Perché?

D'un tratto fu presa dall'angoscia.

«Basta!» urlò e corse verso il disegno, disperdendo i sassi a calci.

I mesi dopo il Natale furono i peggiori. Faceva tanto freddo che aprivano la porta
solo per prendere la legna e la canapa da filare. Il cielo era quasi sempre grigio,
carico di neve, e fuori era buio quasi come dentro casa. Di tanto in tanto Isabelle
andava in cortile in cerca di sollievo, ma non ne trovava affatto guardando il
cielo greve o la piatta distesa di neve, rotta qua e là in lontananza dalle cime
dei pini o da qualche spuntone di roccia. L'aria fredda era come una sbarra di
metallo sulla pelle.

Poi iniziò a sentire quel gusto metallico anche in bocca, nel duro pane di segale
che Hannah andava a cuocere una volta alla settimana nel forno comune, nello
stufato di verdure che mangiavano tutti i santi giorni.

Doveva buttarlo giù a forza, anche se sapeva di sangue, mascherando i conati di


vomito. Spesso lasciava che fosse Marie a finire la sua scodella.

A un certo punto le venne un forte prurito nell'incavo dei gomiti e dietro le


ginocchia. Si grattava attraverso i vestiti perché faceva troppo freddo per
spogliarsi e togliere i pidocchi. Un giorno però vide la stoffa macchiata di rosso
e allora si tirò su la manica, scoprendo una piaga: squame argentee di pelle secca
e chiazze rosse. Di pidocchi neanche l'ombra. Nascose subito il braccio, temendo le
accuse che Etienne avrebbe potuto rivolgerle vedendo il sangue.

La notte, sdraiata al buio, si grattava muovendosi il meno possibile per evitare


che Etienne la sentisse.

Ascoltava il respiro regolare del marito sempre con la paura che si destasse, e
rimaneva sveglia in attesa, non sapeva neppure lei di cosa. Vegliava per nottate
intere nell'oscurità, respirando appena.

Tanta accortezza però non fu sufficiente e una notte all'improvviso Etienne le


afferrò il braccio e vide il sangue. La picchiò come al solito e subito dopo la
prese da dietro, con violenza. Fu un sollievo per Isabelle non essere costretta a
guardarlo in faccia.

Una sera Gaspard venne a sedersi davanti al fuoco in casa loro.

«Ho ordinato il granito», disse a Etienne, tirando fuori dalla tasca la pipa e
l'acciarino. «Siamo d'accordo sul prezzo e le misure sono quelle che mi avete dato.
Lo porterà prima di Pasqua. Ve ne serve dell'altro per il comignolo?» Etienne
scrollò il capo.

«Non avrei di che pagarlo. E comunque il calcare di qui andrà benissimo per il
comignolo. La pietra dura mi serve solo per il focolare, dove il calore è più
forte».

Gaspard iniziò a ridacchiare.

«Giù alla taverna dicono che dovete essere pazzo. Che diavolo se ne fa di un
camino? dicono. Ha una casa tanto bella!

Cadde il silenzio, ma Isabelle sapeva a cosa stavano pensando: al vecchio camino


dei Tournier.

Marie si appese al gomito di Gaspard, perché le facesse il solletico come al


solito. L'uomo allungò la mano grattandole la pelle sotto il mento e tirandole per
gioco le orecchie.

«E tu lo vuoi il camino, mon petit souris? Non ti piace il fumo, vero?»

«La mamma lo odia più di tutti», fece Marie, continuando a ridacchiare.

«Ah, Isabelle». Gaspard si voltò verso di lei. «Non avete un bell'aspetto.

Mangiate abbastanza?» Hannah inarcò le sopracciglia ed Etienne rispose al posto


della moglie.

«C'è da mangiare in abbondanza, in questa casa, se uno vuole», grugnì.

«Bien sùr». Gaspard accarezzò l'aria davanti a sé, come se stesse lisciando un
panno sgualcito. «Il raccolto è stato ottimo, possedete due capre, insomma non vi
manca nulla. Però Madame vuole il camino». Indicò Isabelle con un cenno del capo.
«E Madame ottiene sempre ciò che vuole».

Isabelle sbatté gli occhi, e guardò l'uomo con intenzione attraverso il fumo. Scese
di nuovo il silenzio, finché Gaspard non se ne uscì con una risata incerta.

«Scherzavo!» esclamò. «Volevo solo canzonarvi un po'».

Dopo che se ne fu andato, Etienne iniziò a misurare la stanza a grandi passi,


guardando il fuoco da ogni angolatura.

«Il camino verrà qui, contro questa parete», spiegò a Petit Jean, dando pacche sul
muro opposto alla porta.

«Fino a lassù, vedi? Tirerò su quattro bei pilastri e da lì salirà il fumo, uscendo
dal buco che faremo in cima al tetto».

«Quanto sarà grande, papà?» chiese Petit Jean. «Come quello della casa vecchia?» Lo
sguardo di Etienne prese a vagare per la stanza e alla fine si posò su Marie.

«Sì», disse. «Sarà un gran camino. Tu che ne pensi, Marie?» Non pronunciava quasi
mai il suo nome e Isabelle sapeva quanto lo detestasse. Solo minacciando di
maledire il raccolto, era riuscita a ottenere il permesso di chiamarla così. Per
tanti anni i Tournier avevano avuto paura di lei e lei ne aveva approfittato, ma
solo quella volta. Ora però la paura era scomparsa, rimaneva soltanto il rancore.

Marie guardava accigliata Etienne che continuava a fissarla con occhi dilatati e
freddi. A un certo punto la bambina scoppiò in lacrime e Isabelle corse subito ad
abbracciarla.

«Non è niente, chérie, non piangere», le sussurrò, accarezzandole i capelli.

«Se fai così è peggio. Non piangere».

Oltre le sue spalle, Isabelle scorse Hannah rannicchiata in un angolo. Per un


istante ebbe l'impressione che non stesse bene. Aveva una faccia diversa, le rughe
sul suo volto parevano più profonde del solito. Poi si accorse che la vecchia stava
solo sorridendo.

Da quel giorno Isabelle volle tenere Marie sempre accanto a sé, e le insegnò a
filare, ad avvolgere in gomitoli il filo di canapa, a cucire vestitini per la sua
bambola di pezza.

Non faceva che toccarla, stringendole un braccio, sfiorandole la testa, per essere
sicura che fosse ancora lì. Per distinguerla meglio in mezzo al fumo, le puliva
continuamente il faccino con un panno, sicché Marie pareva quasi brillare nella
penombra di quella stanza.

«Devo poterti vedere, ma petite», le aveva spiegato, sebbene Marie non avesse mai
chiesto alcuna spiegazione.

Intanto faceva del suo meglio per tenerla lontana da Hannah, mettendosi fra loro
ogni volta che poteva.

Non sempre le riusciva, però. Un giorno Marie le arrivò davanti con le labbra che
luccicavano.

«Mémé mi ha spalmato il lardo sul pane!» esclamò la bambina.

Isabelle si accigliò.

«Forse ne darà anche a te domani», disse Marie. «Così anche tu ingrasserai. Sei
così magra, Maman. Sei sempre stanca».

«Perché Mémé vuole che ingrassi?»

«Forse perché sono speciale».

«Nessuno è speciale agli occhi di Dio», disse Isabelle con severità.

«Ma il lardo era buono, Maman, tanto buono. Ne voglio ancora!» Una mattina Isabelle
fu svegliata dal rumore dell'acqua e capì che finalmente l'inverno era passato.

Quando Etienne aprì la porta e la luce e il calore del sole inondarono la casa, si
sentì come per incanto più leggera.

La neve si stava sciogliendo ovunque e formava una quantità di rivoli che


scendevano verso il torrente. I ragazzi balzarono fuori di corsa quasi fossero
stati tutto il tempo legati, e ridevano e correvano, sguazzando con le scarpe nel
fango.

Isabelle andò nell'orto e s'inginocchiò nella melma. Per la prima volta da mesi era
completamente sola. Eccitati dall'arrivo della primavera, i suoi familiari s'erano
scordati di lei. Chinò la testa e iniziò a pregare a voce alta.

«Madre Santa, non riuscirò a resistere un altro inverno qui. Non sopravviverò»,
mormorò. «Ti prego, Vergine cara, non lasciare che questo accada». Poi si strinse
le braccia sullo stomaco. «Proteggi me e questo bambino», disse. «Tu sei l'unica a
saperlo».

Isabelle non era più stata a Moutier da Natale. Per tutto l'inverno Hannah era
andata a cuocere il pane al posto suo e quando il tempo lo permetteva Etienne
andava alla funzione con i ragazzi. Ma Isabelle era sempre rimasta a casa con
Hannah. Quando sentirono il fischio del venditore ambulante che tornava con la
primavera, Isabelle era sicura che le avrebbero negato il permesso di andare da
lui, che suo marito l'avrebbe picchiata se solo si fosse azzardata a chiederglielo.
Così rimase nell'orto a piantare le erbe aromatiche.

Fu lì che la trovò Marie.

«Vieni con noi, Maman?»

«No, ma petite. Ho da fare, non vedi?»

«Ma papà mi ha mandato a cercarti.

Dice che puoi venire».

«Tuo padre vuole che io venga in paese?»

«Sì». Marie abbassò la voce. «Ti prego, Maman. Non dire niente. Vieni e basta».

Isabelle guardò la sua bambina: gli occhi azzurri pieni di luce e di candore, i
capelli biondi in superficie e più scuri all'attaccatura, com'erano stati un tempo
quelli di suo padre. Ogni giorno le spuntava un capello rosso, che ora Hannah in
persona pensava a strappare.

«Sei troppo giovane per essere così saggia».

Marie fece una giravolta, infilò la mano nel cespuglio di lavanda e corse via
ridendo.

«Andiamo in paese! Andiamo tutti in paese!» gridava.

Isabelle si sforzò di sorridere quando giunsero davanti alla piccola folla radunata
intorno al carretto. Si sentiva addosso gli occhi dei compaesani. Ignorava cosa
pensassero di lei, se Etienne avesse incitato o smentito le voci sul suo conto.

Chissà, magari l'avevano già dimenticata.

Monsieur Rougemont le andò incontro.

«E' un piacere vedervi di nuovo, Isabelle», disse il pastore con freddezza,


prendendole la mano.

«Possiamo sperare di vedervi di nuovo anche la domenica?»

«Sì», fece Isabelle. Non credo che tratterebbe una strega in questo modo, pensava.

Arrivò Pascale, il viso tirato per l'apprensione.

«Isabelle, sei stata malata?» A disagio, Isabelle gettò un'occhiata ad Hannah che
era al suo fianco come sempre.

«Sì», disse poi. «Avevo il mal d'inverno. Ma ora mi pare di star meglio».

«Bella!» sentì urlare alle sue spalle.

Si voltò e vide il mercante che incombeva su di lei da sopra il carro.

L'uomo si chinò, le prese la mano e la baciò. «Ah, che gioia vedervi, Madame!

Che gioia!» Sempre tenendole la mano, scavalcò le proprie mercanzìe e le fece fare
il giro del carro, portandola lontano da Etienne, Hannah e i bambini che rimasero a
guardarli ma non si mossero. Pareva quasi che il mercante avesse gettato su di loro
un incantesimo.

L'uomo lasciò andare la mano di Isabelle e si accucciò sul bordo del carro,
guardandola negli occhi.

«Ma voi siete triste, bella» disse dolcemente. «Cosa vi è capitato? Come potete
essere triste con una stoffa tanto leggiadra da rimirare?» Isabelle scosse la
testa, incapace di spiegare, poi chiuse gli occhi per nascondere le lacrime.

«Ascoltate, bella», fece il mercante con dolcezza. «C'è una cosa che devo
chiedervi».

Isabelle aprì gli occhi.

«Vi fidate di me, vero?» chiese lui.

Lei cercò di scrutare dentro gli occhi scuri del mercante.

«Sì, mi fido di voi», sussurrò.

«Dovete dirmi di che colore sono i vostri capelli».

Con un gesto istintivo Isabelle si portò la mano verso il panno che aveva in testa.

«Perché?»

«Forse ho un messaggio per voi, ma lo saprò con certezza solo se mi direte il


colore dei vostri capelli».

Isabelle scosse piano la testa.

«L'ultima notizia che mi avete dato era che la mia cara Susanne era morta.

Perché dovrei ascoltarvi ancora?» Il mercante si accostò ancora di più a lei.

«Perché ora siete triste e questo messaggio potrebbe rendervi felice.


Non è niente di brutto, ve lo prometto, bella.

Nessuna cattiva notizia. E poi...» Fece una pausa, guardandola in faccia.

«È stato un brutto inverno, non è vero? Ciò che sentirete non potrà certo essere
peggiore di quello che avete passato».

Isabelle abbassò gli occhi verso le sue scarpe immerse nel fango. Inspirò a fondo.

«Rossi», disse. «Sono rossi, i miei capelli».

L'uomo sorrise.

«Ma è meraviglioso! Il colore dei capelli della Vergine, sempre sia lodata. Perché
vergognarsene? È la risposta che mi aspettavo. Ora posso farvi l'ambasciata. Viene
da un pastore che ho incontrato ad Alès quest'inverno. Vi ha descritta, chiedendomi
di cercarvi. Ha i capelli neri e una cicatrice sulla guancia. Lo conoscete?»
Isabelle rimase di sasso. Fra il fumo e la stanchezza e la paura che le
raggrumavano i pensieri, finalmente una scintilla di luce.

«Paul», mormorò.

«Sì, sì, proprio lui! Mi ha detto di riferirvi che...» Il mercante chiuse gli
occhi, sforzandosi di ricordare le parole:

«Ogni estate viene a cercarvi vicino alla sorgente del Tarn.

Non ha mai smesso di cercarvi».

Isabelle si mise a singhiozzare. Per fortuna fu Marie, non Etienne o Hannah, a


correre al suo fianco, prendendola per mano.

«Cos'hai, Maman? Cosa ti ha detto quell'uomo cattivo?» La bambina fece gli


occhiacci al venditore.

«Non è cattivo», disse Isabelle fra le lacrime. L'uomo rise, scompigliando i


capelli di Marie.

«Tu, bambina, vai su e giù come una gondola, ma rimani sempre a galla. Sei
coraggiosa, per essere così piccina».

Accarezzandole i capelli, il mercante scoprì una ciocca rossa che era sfuggita ad
Hannah.

«Vedete», disse a Isabelle, «non c'è nulla di cui vergognarsi, sono bellissimi».

«Ditegli che sono sempre laggiù con il pensiero», mormorò Isabelle.

Marie guardò la mamma e poi il mercante.

«Ditegli? A chi?»

«Niente, Marie. Stavamo solo chiacchierando. Grazie», disse infine all'uomo del
carro.

«Siate felice, bella».

«Ci proverò».
La pietra per il camino arrivò alla vigilia del Venerdì Santo.

Etienne e i ragazzi stavano arando i campi, mentre Isabelle e Hannah pulivano la


casa, liberandola dal fumo e dall'oscurità dell'inverno.

Sfregavano pareti e pavimenti, facevano bollire pentole e tegàmi, lavavano i


vestiti, cambiavano la paglia nei pagliericci, lo strame nel fienile. Però non
imbiancarono le pareti. Tutte le famiglie della vallata lo facevano una volta
l'anno, in primavera, ma i Tournier volevano aspettare che ci fosse il camino.

Isabelle stava mescolando una tinozza piena di biancheria fumante, quando vide
arrivare il carro con il pesante carico trainato a fatica dal cavallo.

«Marie, va' a dire a papà che è arrivato il granito», disse.

Marie mollò subito il bastone che aveva infilato fra i vestiti zuppi d'acqua e
corse nei campi.

Quando Etienne tornò con i ragazzi, l'uomo del carro era seduto alla tavola pulita
di fresco davanti a una scodella di verdure stufate. Mangiava in fretta, il viso
chino sulla scodella. Quand'ebbe finito sollevò la testa.

«Dovremo essere in quattro per scaricare la lastra».

Etienne fece un cenno con la testa a Petit Jean.

«Va' a cercare Gaspard».

Mentre aspettavano, Etienne spiegò come intendeva costruire il camino.

«Prima gli scaverò un letto, così la pietra rimarrà alla stessa altezza del
pavimento», disse.

Hannah, che era rimasta per tutto il tempo dietro il figlio, prese la scodella
vuota e la riempì di nuovo, posandola senza tanti complimenti di fronte all'ospite.

«Perché non la scavate adesso?» disse lui. «Così possiamo mettere subito la lastra
al suo posto».

«Ci vorrebbe troppo tempo», rispose Etienne con evidente imbarazzo.

«Vedete, il terreno è ancora ghiacciato, e non voglio trattenervi».

L'uomo tastò il pavimento con un piede.

«Non mi sembra ghiacciato».

«È molto duro, però. Purtroppo ero impegnato nei campi e non ho avuto il tempo di
preparare il fondo. E poi credevo che sareste arrivato più tardi. Dopo Pasqua».

Non è vero, pensò Isabelle, guardando il marito che, a testa bassa, fissava il buco
prodotto dallo stivale dell'ospite.

Gaspard l'aveva avvisato che il granito sarebbe arrivato prima di Pasqua. Capitava
di rado che Etienne mentisse tanto spudoratamente.

Intanto l'uomo seduto a tavola aveva finito anche la seconda scodella. «Le vostre
donne cucinano benissimo su questo fuoco», disse, indicando con un cenno del capo
le fiamme che danzavano in un angolo della stanza. «Perché volete cambiare?»
Etienne si strinse nelle spalle.

«Noi siamo abituati ad avere il camino».

«Ma ora siete in un altro paese, con altri costumi. Perché non li fate vostri?»

«Ci sono tradizioni che uno porta con sé ovunque vada», disse Isabelle.

«Fanno parte di ciascuno di noi. Nulla può cancellarle».

Si girarono tutti a guardarla.

Un'espressione irata comparve sul volto di Etienne.

Perché ho parlato? si disse Isabelle.

Eppure dovrei saperlo che mi conviene tacere. E poi dire una cosa del genere!

Ora mi picchierà come faceva quest'inverno. E potrebbe far del male al bambino. Si
passò la mano sul ventre.

Per fortuna Etienne era troppo impegnato e non ebbe modo di sfogare la propria
rabbia. Ci vollero quattro uomini, grandi e grossi, per sollevare la lastra dal
carro e portarla dentro, non senza vacillare un po'. Poi la appoggiarono contro la
parete accanto alla porta e subito Jacob andò a tastare la pietra liscia, mentre
Marie ci si sdraiò contro, come se fosse un letto.

«È calda, mamma», disse. «Come a casa».

Pasqua era un tempo di redenzione che veniva a dissolvere la durezza dell'inverno.


Isabelle tirò fuori i vestiti neri che indossavano sempre per andare alla funzione
e si cambiò con un'allegria che temeva di aver perduto per sempre.

Si chiama speranza, pensò, l'avevo quasi dimenticata.

Era convinta che Etienne le avrebbe proibito di andare in chiesa dopo quello che
aveva detto all'uomo del granito, e invece la cosa era morta lì. Limpudenza delle
sue parole era stata compensata dalla menzogna di lui.

Aiutò Marie a vestirsi. La bambina non stava nella pelle dalla contentezza,
saltellava per tutta la stanza, ridendo da sola. Quando venne il momento di uscire,
prese per mano Isabelle e Jacob, e tutti e tre insieme imboccarono il viottolo
dietro Etienne e Hannah. Petit Jean era già corso avanti come al solito.

Isabelle non osava pensare alla Vergine di Chalières. È già qualcosa che possa
andare alla funzione del mattino, vedere gli altri, stare un po' al sole, pensava.
Non chiedo di più.

Al termine della funzione a Saint Pierre, Etienne si avviò senza dirle una parola
verso la casa di Gaspard.

Il resto della famiglia si accodò e Pascale raggiunse Isabelle, mettendosi al suo


fianco, sorridente.

«Sono contenta che tu venga alla funzione della sera», le sussurrò. «È bello averti
qui».

In casa, Isabelle si sedette davanti al fuoco accanto all'amica, e ascoltò i


pettegolezzi di cui era rimasta all'oscuro per tutto l'inverno.
«Ma questa la sapete di certo!» esclamò Gaspard, cominciando una nuova storia.
«Hannah deve averne sentito parlare quando veniva a cuocere il pane, ve l'avrà di
sicuro raccontata!

Oh!» L'uomo si portò la mano alla bocca, gettando un'occhiata ad Hannah che
sonnecchiava accanto al figlio sull'altra panca. La vecchia aprì gli occhi e guardò
Gaspard che iniziò a ridere nervosamente.

«Eh, Hannah», si affrettò ad aggiungere, «voi sapete tutto quello che si dice in
giro, n'est-ce pas?

Anche se non potete parlare ci sentite ancora bene!» Hannah si strinse nelle spalle
e richiuse gli occhi.

Sta diventando vecchia, pensò Isabelle. Vecchia e stanca.

Ma può ancora parlare, ne sono certa.

Petit Jean era scomparso quasi subito insieme ai figli di un vicino; Jacob e Marie
invece, per quanto irrequieti, non s'erano mossi e avevano gli occhi che brillavano
d'impazienza. Alla fine Pascale disse a voce alta: «Venite, vi faccio vedere i
cuccioli. Non tu, Isabelle. Soltanto loro due». E uscì verso la stalla insieme ai
due ragazzi.

Avevano l'aria sorridente quando tornarono, soprattutto Marie, che iniziò a


gironzolare per la stanza a testa alta, quasi avesse una corona sul capo.

«Com'erano i piccoli?» chiese Isabelle.

«Morbidi», rispose Jacob e scoppiarono entrambi a ridere.

«Vieni qua, petit souris», fece Gaspard, «o ti butto nel fiume!» Marie strillò,
mentre l'uomo la inseguiva per gioco e quando la raggiunse iniziò a farle il
solletico.

«Se fate così non riusciremo più a tenerla buona durante la funzione», disse
Etienne con voce aspra.

Gaspard la lasciò subito andare.

Pascale tornò a sedersi accanto a Isabelle. Aveva uno strano sorriso dipinto sul
volto e Isabelle non riusciva a capire perché. Ma non disse nulla: aveva imparato a
non fare domande.

«Così, presto avrete il vostro camino», disse Pascale.

«Sì. Etienne se ne occuperà subito dopo la semina, con l'aiuto di Gaspard,


naturalmente. Quella lastra di granito pesa come un accidente.

Dopo averla messa giù ci costruirà sopra il camino».

«Niente più fumo», fece Pascale e Isabelle sorrise, cogliendo una nota d'invidia
nella sua voce.

«Proprio così», disse poi, «niente più fumo».

Pascale abbassò il tono di voce.


«Hai un aspetto migliore dell'ultima volta che ci siamo viste».

Isabelle si guardò attorno. Etienne e Gaspard erano presi dai loro discorsi e
Hannah stava ancora sonnecchiando.

«SI. Ora esco un po' di più», rispose con fare guardingo.

«Prendo più aria».

«Non è solo quello. Sembri più felice.

Come se qualcuno ti avesse svelato un segreto».

Isabelle pensò subito al pastore.

«Forse è così».

Pascale sgranò gli occhi allarmata e Isabelle sorrise.

«Ma quale segreto!» soggiunse poi,

«sarà la primavera, il nuovo camino».

«Allora i ragazzi non ti hanno detto nulla?» Isabelle si raddrizzò.

«A che proposito?»

«Niente, niente. È ora di mangiare adesso, presto dovremo andare a Chalières».


Pascale si alzò, senza lasciare a Isabelle il tempo di replicare.

Dopo cena, si avviarono verso la cappella in una sorta di disordinata processione:


Etienne e Gaspard in testa a tutti con Hannah al fianco del figlio, poi le donne
con Isabelle e Marie che si tenevano per mano e ancora più indietro Petit Jean e la
sua combriccola che facevano un gran baccano, spintonandosi l'un l'altro.

Per ultimo veniva Jacob, che sorrideva con le mani in tasca.

Arrivarono presto e, siccome la cappella era ancora mezza vuota, andarono a


mettersi nelle prime file, da dove si poteva seguire il pastore senza difficoltà.
Isabelle stava quasi sempre a capo chino durante la funzione, ma si sistemò in modo
da riuscire a vedere la Vergine, qualora avesse osato alzare gli occhi.

Marie, accanto a lei, non faceva che ridacchiare.

«Maman», sussurrò a un tratto. «Ti piace il mio vestito?» Isabelle abbassò lo


sguardo.

«È il vestito giusto, ma file. Nero come si addìce alle feste comandate».

Marie sorrise ancora, poi si morse il labbro, vedendo che Jacob aveva corrugato la
fronte.

«Voi due state giocando», disse Isabelle.

«SI, Maman», rispose Jacob.

«Non si gioca qui: questa è la casa di Dio».

Durante la funzione, Isabelle lanciò ripetute occhiate alla Vergine. Di tanto in


tanto si sentiva addosso lo sguardo di Etienne ma rimase impassibile per tutto il
tempo, nascondendo la gioia che sentiva nel cuore.

Monsieur Rougemont tenne un lungo sermone sul sacrificio di Cristo e


sull'importanza della castità.

«Dio ha già scelto, fra di voi, coloro i quali seguiranno il Suo figliolo in
Paradiso», disse con enfasi. «La vostra condotta terrena indica la Sua decisione.
Se scegliete di peccare, di indulgere nelle vecchie abitudini, pur avendo
conosciuto la Verità, se adorate falsi idoli, - e qui Isabelle si affrettò ad
abbassare lo sguardo, - o nutrite cattivi pensieri, non potrete mai ottenere il
perdono divino. Ma se vivete nella purezza, lavorando duramente e venerando il
Signore con semplicità, allora vi sarà concessa l'opportunità di essere accolti fra
i prediletti da Dio, gli unici degni del sacrificio del Suo figliolo. Preghiamo».

Isabelle si sentiva le guance in fiamme. Sta parlando con me, pensò.

Senza muovere la testa, sbirciò verso Etienne e Hannah: con sua grande sorpresa
vide che avevano la faccia spaventata. Guardandosi intorno poi, scoprì la medesima
espressione ovunque; solo i bambini apparivano sereni.

Forse nessuno di noi appartiene agli eletti, pensò, e ciascuno di noi lo sa bene in
cuor suo.

Si volse di nuovo verso l'immagine della Vergine.

«Aiutami», pregò. «Aiutami a ottenere il perdono».

Al termine della funzione, Monsieur Rougemont sollevò la coppa di vino e le ostie


preparandosi all'Eucaristìa.

«Prima i bambini», disse. «Beati siano i puri di cuore».

«Andate». Isabelle diede una leggera spinta a Marie, che corse a inginocchiarsi
davanti al pastore con Jacob e Petit Jean, in mezzo agli altri fanciulli del paese.

Mentre aspettavano, Isabelle tornò a posare gli occhi sulla Vergine.

«Guardami», supplicava in cuor suo.

«Dammi un segno che i miei peccati sono perdonati».

Gli occhi della Vergine erano rivolti verso il basso, come se stesse osservando
qualcosa ai suoi piedi.

Seguendone lo sguardo, Isabelle si ritrovò a fissare sua figlia Marie.

Era tranquillamente inginocchiata, in attesa del suo turno, e il vestitino nero si


era un po' sollevato a causa della posizione. Sotto però non c'era la sottoveste
bianca ma... un azzurro vivace. Marie aveva addosso quella stoffa.

A Isabelle sfuggì un gemito e tutti quelli che le stavano accanto, compresi Etienne
e Hannah, si voltarono verso di lei. Per quanto si sforzasse, non riusciva a
staccare gli occhi dall'azzurro.

Anche gli altri lo videro e ben presto nella cappella fu tutto un bisbigliare e
darsi di gomito. Jacob, che era inginocchiato accanto a Marie, si girò verso la
madre e subito dopo guardò le gambe della sorella. Fece per coprire la sottoveste
azzurra ma si fermò subito. Fu allora che Etienne se ne accorse: prima diventò
bianco come un cencio e subito dopo avvampò. Apertosi un varco fra i fedeli che gli
stavano davanti, raggiunse la figlia e la costrinse ad alzarsi.

Appena la bimba vide l'espressione sul volto del padre, il sorriso le morì sulle
labbra. Sembrava che volesse nascondersi dentro di sé. Etienne la trascinò verso la
porta facendosi largo fra la gente, dopodiché scomparvero entrambi.

Jacob intanto si era alzato ed era rimasto immobile come una statua fra i bambini
ancora inginocchiati, gli occhi fissi sul portone della cappella. Mentre Isabelle
si affrettava verso l'uscita, lo sguardo le cadde su Pascale: stava piangendo.

Corse verso la porta. Fuori, Etienne aveva sollevato il vestito nero, scoprendo
l'azzurro che c'era sotto.

«Chi te l'ha dato? Chi ti ha vestita così?» urlava.

Marie non fiatava. Etienne la fece inginocchiare.

«Chi te l'ha dato? Chi?» Siccome Marie continuava a tacere la colpì duramente
dietro la testa. La bambina cadde con la faccia in avanti.

«Gliel'ho data io», mentì Isabelle.

Etienne si voltò.

«Dovevo immaginarlo che ci avresti ingannati, Rossa.

Ma adesso è finita. Non riuscirai a farci del male. Alzati», ordinò poi a Marie.

La bambina si tirò su lentamente, con il sangue che le colava dal naso fino al
mento.

«Maman», sussurrò.

Etienne andò a mettersi fra madre e figlia.

«Non toccarla», sibilò, rivolto verso Isabelle. Poi tirò su bruscamente la piccola,
guardandosi intorno. «Petit Jean, viens», disse vedendo uscire il ragazzo dalla
cappella.

Petit Jean andò verso di lui.

«Pascale. E stata Pascale, papà», disse il ragazzo prendendo per mano la sorellina.
Mentre il padre e il fratello la trascinavano via, Marie si voltò verso Isabelle.

«Maman, ti prego», disse. A un certo punto inciampò ed Etienne e Petit Jean la


strinsero ancora più forte.

Ora anche Hannah e Jacob erano comparsi sul sagrato.

Il ragazzo corse subito accanto alla madre.

«Le pietre per terra», disse Isabelle senza guardarlo, «servivano per le misure del
vestito».

«Sì», rispose piano Jacob. «Avrebbe dovuto proteggerla. Come ha detto il mercante.
Così non sarebbe mai affogata».

«Ma perché tuo padre le contava?


Perché voleva sapere le misure di Marie?» Jacob la fissava con gli occhi sbarrati.

«Non lo so».

8 - La fattoria

Volai da Tolosa a Ginevra e da lì proseguìi in treno fino a Moutier.

Tutto accadde velocemente e senza intoppi: trovai subito un volo, un treno e il


cugino Jacob parve più felice che sorpreso quando gli comunicai che stavo andando
da lui, sebbene l'avessi avvisato solo all'ultimo momento. Anzi all'ultimissimo:
l'avevo chiamato a mezzogiorno e alle sei il treno entrava già nella stazione di
Moutier.

Solo quando partii da Ginevra la mia mente ricominciò a funzionare. Durante il volo
da Tolosa, infatti, ero in stato confusionale, ma adesso il ritmo del treno, assai
più naturale dell'aereo, mi stava risvegliando. E cominciai a guardarmi intorno.

Davanti a me c'era una robusta coppia di mezza età.

L'uomo indossava un blazer color cioccolato con cravatta a righe e leggeva un


quotidiano, ripiegando ogni volta le pagine con cura; la donna aveva un vestito
grigio di lana, con sopra una giacca di un grigio più scuro, orecchini d'oro a
mezzaluna, scarpe italiane. Sembrava appena uscita dalla parrucchiera: aveva i
capelli gonfi e di un castano tendente al rosso simile al mio, ma dall'aspetto poco
naturale. Teneva la borsetta lucida posata sul grembo, e stava scrivendo qualcosa
su un minuscolo taccuino, forse un elenco.

Starà già preparando la lista per gli auguri di Natale, pensai, un po' imbarazzata
nel mio vestitino sgualcito.

Rimasi seduta di fronte a loro per un'ora buona e non si scambiarono una sola
parola. Quando mi alzai a Neuchàtel per cambiare treno, l'uomo sollevò gli occhi
per un attimo e mi fece un lieve cenno col capo. «Bonne journée, Madame», disse,
con una cortesia che solo le persone che hanno superato i cinquant'anni riescono a
esibire senza apparire ridicole.

Insomma, quella era la Svizzera.

I treni erano silenziosi, puliti e in perfetto orario. Anche i passeggèri erano


silenziosi e puliti, vestiti in modo sobrio, assorbiti nella lettura, controllati
nei movimenti.

Non c'erano coppie che si sbaciucchiavano, uomini che ti fissavano, abiti


scollacciati, ubriachi buttati su due sedili: tutte cose che si vedevano
normalmente sul treno da Lisle a Tolosa. Quello non era un paese stravaccato: uno
svizzero non occuperebbe mai due posti, avendo pagato un solo biglietto.

Forse avevo bisogno di ordine, perché in fondo era dal caos che stavo fuggendo. Ma
era tipica del mio carattere la presunzione di poter cogliere in appena un'ora lo
spirito di una nazione, la fretta di farmi un'opinione con cui giocare, magari
correggendola via via in modo da poterla estendere a tutti quelli che incontravo.
Se avessi voluto, avrei di certo scovato qualcosa di sordido anche su quel treno,
abiti strappati e grida, romanzetti rosa, qualcuno che s'iniettava droga in un
gabinetto, passione, paura. Invece mi limitavo a guardarmi intorno, paga
dell'apparente normalità.

Il paesaggio fuori dal finestrino era affascinante: le imponenti montagne del Jura
che si ergevano ripide a ridosso delle rotaie, le scure distese di abeti, le
casette dai tetti aguzzi, l'ordine geometrico di campi e fattorie. Mi sorprese la
diversità di quella terra rispetto alla Francia, anche se in fondo erano due
nazioni diverse, come avevo spiegato a mio padre. La vera sorpresa semmai fu
scoprire quanto mi fossi abituata alle dolci colline del paesaggio francese, al
verde brillante delle vigne, alla terra color ruggine, alla luce argentea.

Jacob aveva detto che sarebbe venuto a prendermi alla stazione. Non sapevo nulla di
lui, neppure l'età, ma immaginavo che dovesse avere suppergiù gli anni di mio
padre.

Appena scesi dal treno lo notai: assomigliava moltissimo a papà, solo che non aveva
i capelli grigi, ma castani com'erano i miei un tempo.

Era decisamente alto e indossava un maglione color crema un po' sformato sulle
spalle cascanti.

Il viso era lungo e sottile, quasi emaciato, con il mento delicato e vivaci occhi
castani. Aveva l'aspetto di un uomo fra i cinquanta e i sessant'anni, dinamico e
dedito al lavoro, non ancora rassegnato ad entrare nella schiera dei pensionati,
benché consapevole che il giorno non era lontano e forse un tantino preoccupato
dall'eccessivo tempo libero che lo attendeva.

Venne verso di me a grandi passi, mi prese la testa fra le mani e mi baciò tre
volte sulle guance.

«Ella, sei tale e quale a tuo padre», disse la frase rituale in francese staccando
bene le parole.

Sorrisi. «Ah, allora sono uguale a te, perché tu sei mio padre sputato!» Prese il
mio borsone e mi cinse la vita con un braccio, conducendomi giù per la rampa di
scale che portava in strada, poi sempre reggendo la mia borsa disegnò un
semicerchio in aria esclamando: «Bienvenue à Moutierb.

Feci un passo e riuscii a malapena a dire: «C'est très.... prima di cadere a terra.

Mi risvegliai in una stanzetta bianca, semplice come la cella d'un monaco, con il
letto, un comodino, una sedia e una scrivania. Alle mie spalle c'era una finestra.
Rovesciando gli occhi riuscii a vedere la cima di un campanile e il quadrante nero
di un orologio parzialmente nascosto da un albero.

Jacob era seduto su una sedia accanto al letto. In piedi sulla soglia c'era uno
strano individuo dalla faccia tonda.

Immobile nel letto, guardavo i due uomini, incapace di parlare. Jacob disse
dolcemente: «Ella, tu t'es évanouiée!...» Non conoscevo quella parola, ma capii
all'istante cosa volesse dire. «Lucien...» indicò l'uomo alle sue spalle, «stava
passando di lì col furgòne, proprio in quel momento. Eravamo preoccupati perché sei
rimasta senza conoscenza per un pezzo».

«Per quanto?» Vedendo che non riuscivo a tirarmi su, Jacob mi aiutò afferrandomi
per le spalle.

«Dieci minuti. Il tempo che ci abbiamo messo a portarti qui».

Iniziai a scuotere la testa. «Non ricordo nulla».

Lucien venne verso di me con un bicchiere d'acqua e me lo porse.

«Merci», mormorai. Rispose con un sorriso, muovendo appena le labbra.

Bevvi e poi mi toccai il viso. Era umido e appiccicoso. «Come mai ho la faccia
bagnata?» Jacob e Lucien si scambiarono un'occhiata. «Stavi piangendo», disse
Jacob.

«Mentre ero svenuta?» Annuì e d'un tratto mi resi conto che mi colava il naso e
avevo la gola in fiamme. Mi sentivo esausta.

«Ho anche parlato?»

«Recitavi qualcosa».

«J'ai mis en toi mon espérance: Garde-moi, donc, Seigneur.

Ho detto questo?»

«Sì», rispose Lucien. «Era.....

«Hai bisogno di dormire», disse Jacob interrompendolo.

«Adesso riposati, parleremo più tardi». Mi coprì le spalle con una coperta sottile.
Lucien sollevò una mano in segno di saluto. Gli feci un cenno con la testa e sparì.

Chiusi gli occhi ma, mentre Jacob chiudeva la porta, li riaprii per un istante.
«Jacob, questa casa ha le imposte alle finestre?» Mio cugino si fermò e infilò la
testa nella stanza. «Sì, ma io le lascio sempre aperte», poi mi sorrise e chiuse la
porta.

Era buio quando mi svegliai, sudata e un po' confusa.

Fuori si vedevano molte finestre con la luce accesa: nessuno usava le imposte a
Moutier. Il campanile era illuminato da un faretto. Proprio in quel momento le
campane si misero a suonare e per istinto iniziai a contare i rintocchi, dieci:
avevo dormito quattro ore. A me erano sembrati giorni.

Allungai una mano e accesi la lampada sul comodino. Il paralume era giallo e la
stanza fu subito invasa da una soffusa luce dorata. Non ero mai stata in una stanza
così povera di ornamenti, ma quella semplicità mi dava uno strano conforto. Rimasi
sdraiata a osservare i riflessi della luce sulle pareti, incerta se alzarmi o no.
Alla fine però scesi dal letto e, uscita dalla stanza, discesi tastoni una rampa di
scale immersa nell'oscurità. Giunta in fondo mi trovai in un androne quadrato con
tre porte chiuse. Aprii l'unica da cui filtrava uno spiraglio di luce e mi ritrovai
davanti una cucina dalle pareti gialle, con il pavimento di legno lucido e un ampia
vetrata. Jacob era seduto a un tavolo rotondo e leggeva un quotidiano tenendolo
appoggiato a una fruttiera piena di pesche. Una giovane donna dai capelli neri e
crespi era china sul lavandino intenta a strofinare una padella.

Sentendomi entrare si voltò e capii subito che era una parente di Jacob: aveva lo
stesso viso affilato e il mento aguzzo, addolcito da qualche ricciolo sulla fronte
e da lunghe ciglia che orlavano gli occhi castani come quelli di mio cugino.
Era un po' più alta di me e piuttosto snella, con le mani lunghe e sottili e i
polsi esili.

«Ah, Ella, eccoti qua», disse Jacob, mentre la donna mi baciava tre volte sulle
guance. «Questa è mia figlia, Susanne».

Le sorrisi. «Scusatemi», dissi poi guardando entrambi.

«Non pensavo di dormire così tanto.

Non so cosa mi sia successo».

«Non è niente. Avevi bisogno di riposare. Ti va di mangiare qualcosa?» Jacob


allontanò una sedia dal tavolo e mi fece sedere. Poi insieme a Susanne iniziò a
tirare fuori formaggi, salame, pane, olive e un po' d'insalata. Era esattamente ciò
che desideravo, qualcosa di semplice. Non volevo arrecare loro troppo disturbo.

Non parlammo granché mentre mangiavamo. Susanne mi chiese in un francese chiaro


come quello del padre se mi andava un po' di vino e Jacob disse qualcosa a
proposito del formaggio, tutto qui, per il resto del tempo rimanemmo in silenzio.

Dopo cena, Jacob mi versò un altro bicchiere di vino e Susanne uscì dalla cucina.
«Ti senti meglio?» mi chiese mio cugino.

«Sì». Da un'altra stanza giunse una musica assai gradevole, sembrava un pianoforte
ma più leggero, delicato.

Dopo aver ascoltato la melodia per un momento, Jacob disse compiaciuto:

«Scarlatti. Susanne studia l'arpicordo al Concertgebouw di Amsterdam».

«Anche tu sei musicista?» Annuì. «Insegno in una scuola di musica, qui in città.
Sulla collina».

Indicò con la mano un luogo dietro le sue spalle.

«Che strumento suoni?»

«Parecchi strumenti, ma insegno soprattutto pianoforte e flauto. I ragazzi vogliono


tutti suonare la chitarra, le ragazze il flauto ma anche il flauto dolce e il
violino.

Sono in pochi a scegliere il pianoforte».

«Hai dei bravi allievi?» Jacob si strinse nelle spalle. «La maggior parte vengono a
lezione perché sono i genitori a volerlo. I giovani hanno altri interessi,
l'equitazione, il calcio, lo sci. Ogni inverno quattro o cinque ragazzi si rompono
un braccio scìando e non possono suonare.

Però ce n'è uno, un allievo del corso di piano, che suona molto bene Bach.

Lui potrebbe andare al conservatorio».

«Anche Susanne ha cominciato con te?» Scosse la testa. «Con mia moglie».

Papà mi aveva detto che la moglie di Jacob era morta ma non ricordavo quando, né
come.
«Cancro», disse lui, quasi mi avesse letto nel pensiero. «È morta cinque anni fa».

«Mi dispiace», dissi. Poi, conscia dell'inadeguatezza della frase aggiunsi: «Ti
manca ancora, vero?» Sorrise mestamente. «E' naturale. Tu sei sposata?»

«Sì», risposi non senza imbarazzo e cambiai subito discorso.

«Vuoi vedere la Bibbia?»

«La guarderemo domani mattina, alla luce del sole. Hai una cera migliore adesso, ma
sei ancora pallida. Sei per caso incinta?» Sussultai, stupita che potesse chiedermi
una cosa del genere con tanta naturalezza. «No, no, non sono incinta. Io... non so
perché sono svenuta ma non è per quello. È da un po' di tempo che dormo male.
L'altra notte poi non ho quasi chiuso occhio». M'interruppi pensando al letto di
Jean-Paul.

Iniziai a scuotere la testa lentamente, non potevo certo raccontargli quella


storia.

C'eravamo inoltrati in un terreno insidioso. Jacob salvò la situazione cambiando


discorso.

«Che lavoro fai?»

«Be', faccio, o meglio in America facevo l'ostetrica».

«Davvero?» Il suo volto s'illuminò.

«Una bellissima professione!» Abbassai lo sguardo sulla scodella di pesche,


sorridendo. Mio cugino aveva reagito allo stesso modo di Madame Sentier.

«Sì», dissi. «Era un buon lavoro».

«Per cui immagino che te ne accorgeresti se fossi incinta».

Sorrisi. «Credo proprio di sì». Di solito, riconoscevo fin dai primissimi giorni le
donne in stato interessante.

Si muovevano tutte con prudenza, come se per istinto volessero proteggere la vita
che ancora non sapevano di portare in grembo. Poco prima, ad esempio, avevo notato
qualcosa del genere in Susanne: lo sguardo leggermente distratto, come se stesse
ascoltando una conversazione dentro di sé, in una lingua sconosciuta. Forse non le
piaceva ciò che sentiva, anche se non riusciva a capirlo fino in fondo.

Guardai l'espressione schietta sul viso di Jacob: lui non lo sa ancora, pensai. Era
buffo, però: mi considerava una parente stretta al punto da rivolgermi domande
estremamente personali ma allo stesso tempo abbastanza estranea da non doversi
preoccupare per le risposte.

Sicuramente non sarebbe stato altrettanto diretto con sua figlia.

Dormii male quella notte. Assillata dal pensiero di Rick e di Jean-Paul, non facevo
che biasimarmi, senza riuscire a trovare una soluzione, e così la mia inquietudine
cresceva sempre più. Alla fine mi addormentai ma mi svegliai molto presto.

Scesi al piano di sotto portando con me la Bibbia. Jacob e Susanne erano già seduti
in cucina a leggere il giornale, insieme a un tizio pallido con i capelli color
carota. Anche le ciglia e le sopracciglia erano rosse e gli davano un aspetto
curioso, indefinibile. Vedendomi entrare si alzò in piedi e mi porse la mano.
«Ella, questo è Jan, il mio fidanzato», disse Susanne. Aveva la faccia stanca. Il
suo caffè era ancora nella tazza e sulla superficie si stava formando una
pellicola.

Ah, il novello papà, pensai. La sua stretta di mano si rivelò piuttosto moscia.
«Scusami se non sono venuto a salutarti ieri sera», disse in un inglese perfetto.
«Ero a suonare a una festa di fidanzamento a Losanna e sono tornato tardissimo».

«Che strumento suoni?»

«Il flauto».

Sorrisi, un po' per il suo inglese formale, ma anche perché il suo corpo faceva
proprio pensare a un flauto: magro, le membra affusolate, il busto e le gambe
rigidi. Sembrava l'Uomo di Latta del Mago di Oz.

«Non sei svizzero, vero?»

«No. Sono olandese».

«Oh». Intimidita dal suo modo di fare cerimonioso, non sapevo più cosa dire.

Mentre Jan se ne stava lì impalato, mi voltai imbarazzata verso Jacob. «Ti lascio
la Bibbia in un'altra stanza così potrai guardarla dopo colazione.

Ok?» dissi.

Jacob annuì. Tornai nell'androne e provai un'altra porta.

Mi ritrovai in una stanza lunga e soleggiata con le pareti color crema, le


rifiniture di legno grezzo e un lucido pavimento di piastrelle nere.

Arredata in modo essenziale con un divano e due vecchie poltrone, aveva le pareti
spoglie come la camera in cui dormivo. In fondo alla stanza c'era un pianoforte a
coda nero con il coperchio chiuso e, davanti, un grazioso arpicordo in palissandro.

Posai la Bibbia sul pianoforte e andai alla finestra a guardare per la prima volta
la città di Moutìer.

Le case erano disposte in ordine sparso tutto intorno a quella di Jacob e sul
fianco della collina. Di colore grigio o beige, avevano ripidi tetti di ardesia dai
bordi sporgenti come gonne svasate. Gli edifici erano più alti e moderni di quelli
di Lisle con imposte dalle tinte pacate, rosse, verdi e marroni, benché proprio di
fronte alla casa di mio cugino ce ne fossero due di un sorprendente blu elettrico.
Aprii la finestra e mi sporsi per vedere quelle di Jacob: non erano dipinte, ma
color legno naturale.

Sentendo dei passi alle mie spalle, tornai dentro e vidi Jacob che veniva verso di
me con una tazza di caffè in ciascuna mano. «Ah, vedo che stai già spiando i miei
vicini!» esclamò allegramente e mi porse una delle tazze.

Sorrisi. «In realtà stavo guardando le tue finestre. Volevo vedere di che colore
erano».

«Ti piacciono?» Annuìi.

«Allora, dov'è la Bibbia? Ah, eccola lì. Bene, ora puoi anche tornartene a casa»,
disse Jacob in tono scherzoso.
Mi sedetti al suo fianco sul divano e lui aprì il vecchio libro. Rimase a lungo a
fissare l'elenco di nomi con sguardo compiaciuto. Poi prese da una mensola alle sue
spalle un fascio di fogli ingialliti tenuti insieme dal nastro adesivo e cominciò
ad aprirli, stendendoli sul pavimento.

«Questo è l'albero genealogico della nostra famiglia, ricostruito da mio nonno»,


spiegò.

La calligrafia era chiara e lo schema tracciato con cura, ma l'insieme era alquanto
complicato: una serie di linee incrociate, diramazioni, spazi vuoti con segmenti
che finivano nel nulla. Quando Jacob ebbe finito di stendere i fogli, quello che si
poteva vedere sul pavimento non era un rettangolo, né una piramide, bensì una
specie di collage di forma irregolare cui erano stati aggiunti qua e là dei
foglietti pieni di note e spiegazioni.

Ci accovacciammo per guardare meglio.

I nomi erano sempre gli stessi: Susanne, Etienne, Hannah, Jacob, Jean.

La cima dell'albero era appena abbozzata e iniziava con Etienne e Jean Tournier.

«Dove ha scoperto queste cose tuo nonno?»

«In diversi posti. Alcune nel bourgeoisie dell'hotel de ville, qui in città, dove
sono conservati documenti che risalgono fino al diciottesimo secolo. Non so dove
abbia trovato le notizie più antiche. Ha passato anni e anni a studiare quelle
carte. E ora tu hai completato il suo lavoro, aggiungendo il ramo francese!

Ma dimmi, come sei riuscita a scovare la Bibbia dei Tournier?» Gli raccontai per
sommi capi la mia ricerca con Mathilde e Monsieur Jourdain, senza mai nominare
Jean-Paul.

«Che coincidenza! Sei stata fortunata, Ella. E pensare che hai fatto tutta questa
strada solo per farmela vedere».

Jacob passò la mano sopra la copertina di cuoio. Dietro le sue parole si celava una
domanda cui non avevo intenzione di rispondere. Certo doveva essergli sembrato
strano il mio arrivo improvviso, ma non me la sentivo proprio di confidarmi con
lui: assomigliava troppo a mio padre. Non mi sarei mai sognata di raccontare ai
miei genitori ciò che avevo appena fatto, la situazione da cui ero fuggita.

Più tardi io e Jacob andammo a fare due passi in città.

L'hotel de ville, un austero edificio con le imposte grigie e la torre


dell'orologio, si trovava proprio nel centro storico che aveva un aspetto più
moderno di quello di Lisle. Molti palazzi erano di epoca recente o comunque erano
stati ristrutturati, a giudicare dall'intonaco, dalle facciate e dalle tegole
squadrate dei tetti. C'era poi uno strano edificio con la cupola a forma di cipolla
e, dentro una nicchia, la statua di un monaco che reggeva una lanterna. Per il
resto le case si assomigliavano tutte ed erano prive di decorazioni.

Nel corso degli ultimi cent'anni il paese era cresciuto, raggiungendo gli ottomila
abitanti, e per dare alloggio alla popolazione si era dovuto costruire sulle
colline che circondavano la città vecchia.

Appariva molto disordinato e faceva uno strano effetto dopo aver vissuto a Lisle,
il cui abitato, grazie anche al taglio ordinato delle strade, dava l'impressione di
un insieme ben equilibrato. Inoltre, con poche eccezioni, gli edifici di Moutier
rispondevano a criteri puramente funzionali e non concedevano nulla all'estetica,
mancando in genere delle decorazioni di mattoni, legno o ceramica che ornavano le
facciate di Lisle.

A poca distanza dal centro storico c'era un viottolo che seguiva il corso del fiume
Birse, un torrente, in realtà, più che un fiume vero e proprio, orlato da filari di
betulle.

L'acqua scorreva attraverso la cittadina e le donava un tocco di allegria,


collegandola idealmente al resto del mondo e smorzando il senso d'immobilità e
isolamento che suggeriva di primo acchito.

Ovunque andassimo, Jacob mi presentava come una Tournier che veniva dall'America e
tutti mi salutavano con un rispetto e un calore che non mancarono di sorprendermi.

Un'accoglienza molto diversa da quella che avevo ricevuto a Lisle. Jacob sorrise
quando glielo dissi: «Forse sei tu a essere cambiata», osservò.

«Forse». Evitai di aggiungere che, sebbene mi sentissi gratificata da tanta


cordialità, trovavo sospetta un'accettazione così pronta e senza riserve in base al
semplice cognome.

Se tu sapessi quanto sono stata malvagia, pensavo, capiresti che non tutti i
Tournier sono necessariamente persone meravigliose.

Jacob aveva lezione nel pomeriggio.

Prima di andare a scuola mi portò a vedere una cappella nei pressi del cimitero,
appena fuori città, e mi invitò a visitarne l'interno. Mi spiegò che a Moutier
erano stati fondati monasteri a partire dal settimo secolo e che la cappella di
Chalières risaliva al decimo. Piccola e modesta, aveva le pareti imbiancate a calce
eccetto che nel coro, dove erano rimasti alcuni affreschi in stile bizantino dalle
tinte crema e ruggine, un po sbiadite. Osservai ubbidiente le figure, il Cristo con
le braccia spalancate e ai suoi piedi una fila di Apostoli, con pallide aureole
intorno alla testa e le facce quasi cancellate dal tempo. Gli affreschi mi
lasciarono indifferente, con l'unica eccezione di una figura femminile dall'aria
mesta dipinta sulla parete accanto.

Quando uscii, vidi Jacob in piedi dinanzi a una lapide sulla collina, a capo chino,
gli occhi chiusi. Rimasi a guardarlo per un momento e mi vergognai delle mie
stupide angosce davanti alla tragedia di quell'uomo raccolto in preghiera sulla
tomba della moglie. Per non disturbarlo, tornai nella cappella. Intanto una nuvola
aveva coperto il sole e dentro era più buio. I personaggi affrescati incombevano
sopra di me come fantasmi.

Mi avvicinai alla donna dai contorni sfumati che avevo notato in precedenza e la
osservai con più attenzione.

Rimaneva ben poco di lei: le palpebre pesanti, il naso pronunciato, le labbra


serrate, il manto e l'aureola.

E tuttavia, quei tratti appena abbozzati riuscivano a esprimerne l'angoscia con


efficacia.

«La Vergine, ovviamente», dissi sottovoce.

Com'era diversa però la sua espressione dalla Madonna di Nicolas Tournier. Chiusi
gli occhi e mi sforzai di ricordare il dipinto di Tolosa, il dolore, la
rassegnazione, ma anche la strana serenità di quel volto. Tornai a guardare la
figura che avevo davanti e a un tratto capii: dipendeva tutto dalla bocca, che qui
era lievemente incurvata verso il basso.

La Vergine era adirata.

Quando uscii dalla cappella il sole splendeva di nuovo nel cielo e Jacob era
scomparso. Tornai verso il centro della città, con i suoi palazzi moderni, e
raggiunsi la chiesa protestante, la stessa che avevo visto dalla finestra,
svegliandomi la prima volta a casa di Jacob. Si trattava di un vasto edificio in
pietra calcarea, circondato da vecchi alberi. Per certi aspetti mi ricordava la
chiesa di Le Pont de Monrvert: avevano la stessa collocazione rispetto alla città,
non al centro e tuttavia in posizione dominante, a mezza costa sul fianco
settentrionale della collina, con un sagrato erboso e un muretto su cui ci si
poteva sedere per osservare il borgo sottostante.

Girai intorno alla chiesa e trovai l'entrata. Il portone era aperto.

L'interno era un po' più decorato rispetto alla chiesa di Le Pont de Monrvert, i
pavimenti erano di marmo e c'era qualche vetro colorato dietro il coro.

Ma quant'era fredda e austera, perfino impersonale, in confronto alla cappella di


Chalières! Uscii quasi subito.

Mi sedetti al sole sul muretto, proprio come avevo fatto a Le Pont de Montvert. Era
caldo adesso e mi tolsi la giacca. «Dannazione», mormorai: le chiazze della
psoriasi erano ricomparse. Incrociai le braccia sul petto ma poi le stesi di nuovo,
offrendole alla luce del sole. Quel movimento bastò perché una delle macchie si
riempisse di sangue.

All'improvviso un labrador nero arrivò saltellando verso di me, appoggiò le zampe


anteriori sul muretto e cominciò a spingere col muso sul mio fianco.

«Tempismo perfetto, cagnone», dissi.

«Ora vedi di non buttarmi giù».

Lucien apparve in mezzo al prato. Mano a mano che si avvicinava potei osservarlo
meglio rispetto alla sera prima.

Aveva la faccia da bambino, i capelli ispidi e neri e due occhioni color nocciola.
Dimostrava una trentina d'anni e sembrava che non avesse mai conosciuto tragedie o
tribolazioni in vita sua. Uno svizzero tranquillo e un po' ingenuo.

Abbassai lo sguardo, tenendo volutamente le macchie della psoriasi bene in vista.


Ne era spuntata un'altra sulla caviglia e mi maledii per aver dimenticato in
Francia la pomata al cortisone.

«Salut, Ella», disse Lucien e rimase timidamente in piedi davanti a me, finché non
lo invitai a sedersi.

Indossava calzoncini sdruciti e una T-shirt, entrambi macchiati di pittura. Il


labrador ci guardava, ansimando e agitando la coda.

Quando capì che non ci saremmo mossi, iniziò a gironzolare lì intorno, annusando
gli alberi.

«Sei un pittore?» chiesi per rompere il ghiaccio. Chissà, magari aveva sentito
parlare di Nicolas Tournier.
«Sì», rispose. «Sto lavorando laggiù».

Indicò un posto alle nostre spalle, sulla collina. «Vedi quella scala?»

«Ah, sì». Era un imbianchino. Non c'è niente di male, pensai, però a quel punto
rimasi a corto di argomenti.

«Costruisco le case. Le aggiusto».

Lucien guardava la città ai nostri piedi ma di tanto in tanto dava una sbirciatina
alle mie braccia.

«Dove abiti?» gli domandai.

Indicò un'altra casa sempre sulla collina, gettando l'ennesima occhiata alle mie
piaghe.

«Ho la psoriasi», dissi a un tratto.

Annuì. Non era un uomo di molte parole. Notai che aveva i capelli sporchi di
pittura bianca e gli avambracci disseminati di schizzi provocati dal rullo. Mi
vennero in mente i miei traslochi insieme a Rick: la prima cosa che facevamo quando
entravamo in una casa nuova era dipingere le pareti di bianco. Rick diceva che solo
in quel modo riusciva a capire le dimensioni delle stanze.

Per me invece era come liberarle dai fantasmi. Solo dopo che ci eravamo vissuti per
un po e avevamo familiarizzato con gli ambienti, sentendoci finalmente a nostro
agio, iniziavamo a dipingere le stanze di colori diversi. La nostra casa di Lisle
era ancora bianca.

La telefonata arrivò il giorno dopo.

Non so perché mi lasciai cogliere di sorpresa: immaginavo che prima o poi la mia
altra vita si sarebbe intromessa, eppure non avevo fatto nulla per prepararmi.

Stavamo mangiando la fonduta. Quando l'avevo informata che la fonduta era una delle
cose che gli americani associano inevitabilmente con la Svizzera, insieme a
coltellini da campeggio, orologi e cioccolata, Susanne s'era messa a ridere e aveva
insistito per cucinarla in mio onore.

«Secondo l'antica ricetta di famiglia, bien sur!», aveva aggiunto in tono


scherzoso. Era stato invitato anche Jan, ovviamente, insieme a una coppia di
svizzero-tedeschi, - che si rivelarono i proprietari della casa con le persiane blu
elettrico, - e a Lucien, il quale, seduto a tavola accanto a me, di tanto in tanto
si voltava a guardare il mio profilo.

Avevo le braccia coperte, così almeno non poteva sbirciare la psorìasi.

Mi era già capitato di assaggiare la fonduta da bambina, una volta che l'aveva
fatta mia nonna, ma non ricordavo bene che sapore avesse.

Quella di Susanne si rivelò ottima e decisamente alcolica. Inoltre l'annaffiammo


con molto vino e ben presto diventammo tutti alticci e chiassosi. A un certo punto
tuffai un pezzo di pane nel formaggio fuso ma quando tirai fuori la forchettina il
pane era scomparso. La cosa fu salutata da scoppi di risa e applausi.

«Un minuto», feci io. «Che vuol dire?» Poi rammentai quello che mi aveva insegnato
la nonna: il primo a perdere il pane nella fonduta non si sposerà mai. Mi unii alle
risate generali.
«Oh, no, adesso non troverò più marito! Ehi, un momento, io ho già un marito!» E
giù altre risate. «No, no, Ella», esclamò Susanne. «Se il pane ti cade vuol dire
che ti sposerai, e presto!»

«No, nella nostra famiglia vuol dire il contrario».

«Ma la tua famiglia è questa», disse Jacob, «e la tradizione dice che prenderai
marito».

«Allora si vede che ci eravamo confusi. Sono sicura che mia nonna diceva...»

«Sì, vi siete confusi. Del resto anche il cognome che avete è sbagliato», sentenziò
Jacob. «Tuurr-nuurr», sillabò poi cupamente. «Dove son finite le vocali che elevano
e rendono così bello il suono, Tour-ni-er? Ma non fa niente, ma cousine, tu ormai
conosci il tuo vero nome. Sapevate», soggiunse poi, voltandosi verso la coppia dei
vicini, «che mia cugina è un'ostetrica?»

«Ah, ottima professione», rispose l'uomo senza pensarci due volte.

Sentendomi addosso gli occhi di Susanne mi voltai verso di lei, ma la figlia di mio
cugino abbassò subito lo sguardo.

Il suo bicchiere di vino era ancora pieno e non aveva quasi toccato cibo.

Quando squillò il telefono Jan andò a rispondere, poi fece con lo sguardo il giro
del tavolo fermandosi su di me.

«E' per te, Ella», disse con la cornetta in mano.

«Per me? Ma...» Non avevo dato a nessuno il numero di Jacob. Mi alzai e presi il
ricevitore mentre tutti mi fissavano incuriositi.

«Pronto?» dissi con voce incerta.

«Ella? Che diavolo ci fai lì?»

«Rick?» Girai la schiena alla tavolata in cerca di un minimo di intimità.

«Mi sembri stupita». Non l'avevo mai sentito così amareggiato.

«No, è che... Non ti avevo lasciato il numero».

«No, infatti. Ma non ci vuole molto a trovare il numero di Jacob Tournier a


Moutier. Sull'elenco ce n'erano due, ho chiamato il primo e mi ha detto che eri
lì».

«Sapeva che ero qui? Un altro Jacob Tournier?» ripetei come una sciocca, sorpresa
che Rick avesse ricordato il nome di mio cugino.

«Già».

«Be', è una piccola città». Mi guardai alle spalle. Tutti stavano mangiando e
facevano finta di non sentire ma in realtà ascoltavano ogni parola, eccetto Susanne
che si era alzata per andare alla finestra aperta davanti al lavandino.

Mi accorsi che ansimava.

Ormai tutti sanno i fatti miei, pensavo. Perfino un Tournier che abita dall'altra
parte della città.

«Perché te ne sei andata, Ella? Cosa ti ha preso?»

«Rick, io... Senti, possiamo parlarne in un altro momento? Ora non è il caso».

«Hai lasciato l'anello nuziale sul pavimento della camera. Vuol dire qualcosa?»
Stesi le dita della mano sinistra e rimasi a fissarle sconvolta: non mi ero neppure
accorta della sua mancanza.

Probabilmente era caduto dal vestito giallo mentre mi cambiavo.

«Sei in collera con me? Ho fatto qualcosa che non va?»

«Non hai fatto niente, è solo che...

Oh, Rick, io... non hai fatto assolutamente nulla. Volevo solo conoscere la mia
famiglia, tutto qui».

«Ma allora perché sei partita così in fretta? Non mi hai neppure lasciato un
biglietto. Tu mi lasci sempre biglietti dappertutto. Ti rendi conto di quanto mi
hai fatto preoccupare? E l'umiliazione di venirlo a sapere dalla segretaria?» Non
fiatai.

«Chi ha risposto al telefono?»

«Cosa? Il fidanzato di mia cugina. È olandese», aggiunsi, come se avesse qualche


importanza.

«Quel... tizio è lì con te?»

«Chi?»

«Jean-Pierre».

«No, non è qui. Cosa ti fa pensare che dovrebbe esserci?»

«Sei andata a letto con lui, vero? Lo capisco dalla voce».

Questa non me l'aspettavo da lui.

Respirai a fondo.

«Sta a sentire, davvero, non posso parlare ora. Ci sono... altre persone qui con
me. Mi dispiace Rick, io... non so più cosa voglio veramente. Comunque ora non
posso parlare. Non posso».

«Ella...» fece Rick con la voce un po' soffocata.

«Dammi qualche giorno, ok? Poi torno a casa e... ne parliamo. Va bene?

Scusami». Misi giù la cornetta e mi voltai: Lucien aveva gli occhi fissi sul
piatto; i vicini di casa facevano finta di conversare del più e del meno con Jan.

Jacob e Susanne mi guardavano seri con i loro occhi castani, uguali ai miei.

«Allora», dissi con brìo. «Cos'è che stavamo dicendo a proposito del mio
matrimonio?» Mi alzai nel cuore della notte, disidratata per il troppo vino, con la
fonduta che mi pesava sullo stomaco come un macigno, e scesi in cucina per bere un
bicchiere d'acqua.

Mi sedetti al tavolo a luci spente con il bicchiere davanti, ma la stanza sapeva


ancora di formaggio così decisi di spostarmi in soggiorno. Appena fuori dalla porta
udii una musica lieve, le note delicate dell'arpicordo. Aprii piano e vidi Susanne
seduta alla tastiera nell'oscurità, il suo profilo che si stagliava contro la luce
fioca di un lontano lampione.

Suonò poche note e poi si fermò, rimanendo immobile.

Appena sussurrai il suo nome si voltò e subito si rilassò. Mi avvicinai e le posai


una mano sulla spalla. Indossava un kimono scuro di seta, liscio e morbido al
tatto.

«Dovresti essere a letto», le dissi in tono affettuoso.

«Sarai stanca. Hai bisogno di dormire molto, adesso».

Susanne affondò il viso contro il mio fianco e iniziò a piangere. Non mi mossi e le
accarezzai i riccioli, poi mi inginocchiai accanto a lei.

«Jan lo sa?»

«No», rispose, asciugandosi gli occhi e le guance. «Non mi sento pronta, Ella.
Voglio fare altre cose. Ho lavorato sodo e proprio adesso stavo cominciando a
ingranare come concertista». Posò la mano sui tasti ricavandone un accordo. «Un
figlio in questo momento sarebbe una rovina per la mia carriera».

«Quanti anni hai?»

«Ventidue».

«E vuoi avere bambini?» Susanne si strinse nelle spalle.

«Magari un giorno, ma adesso no».

«E Jan?»

«Oh, a lui piacerebbe. Ma sai com'è, per gli uomini è diverso. Non cambierebbe
nulla per la sua musica, per la sua carriera. Quando parla di avere dei figli, ne
parla sempre in astratto, perché ovviamente dovrei essere io a occuparmi di loro».

Un ritornello che mi suonava familiare.

«C'è qualcun altro che lo sa?»

«No».

Ero titubante. Di certo non era mia abitudine proporre l'aborto come opzione: dal
punto di vista professionale le donne si rivolgevano a me quando avevano deciso di
tenerlo, il bambino. Inoltre ignoravo i termini francesi per "aborto" e "opzione".

«Cosa vorresti fare?» le chiesi alla fine con voce incerta, stando bene attenta a
usare il condizionale.

Susanne fissava i tasti. «Un avortement», mormorò, stringendosi nelle spalle.

«Hai pensato a un... aborto?» Mi sarei presa a calci per la goffaggine con cui
l'avevo detto. Susanne però non parve farci caso.
«Oh, preferirei di si, anche se non mi piace l'idea. Non sono molto religiosa per
cui la cosa non mi disturberebbe più di tanto. Ma Jan...» Aspettai che continuasse.

«Be', lui è cattolico. Non va in chiesa e si considera un progressista, ma... le


cose cambiano quando si passa dalla teoria alla pratica. Non so come la
prenderebbe. Credo che ne rimarrebbe sconvolto».

«Devi dirglielo, è un suo diritto sapere, ma non per questo devi decidere insieme a
lui. La scelta spetta solamente a te. Ovviamente sarebbe meglio se foste d'accordo,
ma in caso contrario l'ultima parola dovrà essere la tua, perché sei tu che porti
il bambino in grembo».

Susanne mi gettò un'occhiata di traverso. «Tu hai... a te è capitato...»

«No».

«Vuoi avere dei figli?»

«Sì, ma...» Non sapevo da che parte cominciare con le spiegazioni. Iniziai a
ridacchiare come una scema. Susanne mi fissava, con il bianco degli occhi che
rifletteva la luce del lampione.

«Scusa, ora ti racconto», dissi, «ma prima devo sedermi».

Andai a buttarmi in una delle poltrone mentre Susanne accendeva la piccola lampada
appoggiata sul pianoforte. Si rannicchiò in un angolo del divano con le gambe
ripiegate sotto il corpo, la seta verde tirata sulle ginocchia, gli occhi pieni di
curiosità. Credo fosse sollevata, ora che non doveva più parlare di sé.

«Io e mio marito avevamo pensato di avere un bambino», esordii. «Ci pareva il
momento giusto. Be', a dire il vero l'idea è stata mia, ma Rick si è detto subito
d'accordo.

Così abbiamo iniziato a provarci. Ma io ero... turbata. Continuavo ad avere


quest'incubo. E ora... temo che... insomma abbiamo qualche problema».

«E poi c'è... c'è un'altra cosa.

Un'altra persona». Mi sentivo un po' mortificata a metterla così, ma che


liberazione potersi sfogare con qualcuno.

«Chi?»

«Un bibliotecario della città in cui vivo. Abbiamo... flirtato per un po' e poi...»
Agitai le mani in aria. «Dopo mi sono sentita malissimo e sono dovuta scappare.
Ecco perché sono venuta qui».

«È un bell'uomo?»

«Lui... oh, sì. Credo di sì. È un tipo, come posso dire... un tipo serio».

«E a te piace».

«Sì». Mi faceva uno strano effetto parlare di lui. Non riuscivo neppure a ricordare
la sua faccia. Da lontano, in quella stanza, con Susanna raggomitolata sul divano,
ciò che era accaduto fra me e Jean-Paul sembrava un evento remoto e non così
sconvolgente come mi era parso all'inizio. È buffo però: quando la racconti a
qualcuno, la tua storia finisce sempre per assomigliare a un romanzo più che a una
cosa vera.

Acquista inevitabilmente un'aura d'avventura, che la fa sembrare meno reale perfino


a te.

«Da quanto tempo siete sposati tu e Rick?»

«Due anni».

«E l'uomo, come si chiama?»

«Jean-Paul». La concretezza del nome mi strappò un sorriso. «Mi ha aiutato a


ricostruire la storia della nostra famiglia», proseguìi. «Bisticciamo sempre, ma
solo perché gli interesso, gli sta a cuore quello che faccio.., anzi no, quello che
sono. Mi ascolta.

E' me che vede, non l'idea che si è fatto di me. Capisci?» Susanne annuì.

«E poi con lui riesco a parlare.

Quando gli ho confidato che avevo quell'incubo è stato così disponibile, ha perfino
voluto che glielo descrivessi. Insomma, mi ha aiutato davvero».

«Com'è l'incubo?»

«Oh, non saprèi. Non è proprio una storia. Piuttosto una sensazione.., come se
rimanessi senza... respiration».

Mi diedi una pacca sul petto e mi tornò in mente Frank Sinatra. Caro vecchio blue
eyes.

«E poi c'è quel blu, quell'azzurro», soggiunsi. «Come nei quadri del Rinascimento.
Il colore che usavano per il manto della Vergine. C'è un pittore... dimmi, hai mai
sentito parlare di un certo Nicolas Tournier?» Susanne si tirò su, aggrappandosi al
bracciolo del divano. «Parlami di questo azzurro».

Finalmente un collegamento con il pittore. «E' come se fosse diviso in due: in


superficie il colore è più chiaro e luminoso e...» Mi sforzai di trovare le parole
giuste. «...cambia con la luce. Ma sotto quella luce si cela una tonalità più cupa,
oscura.

Le due sfumature lottano fra loro, ed è proprio questo a rendere il colore così
vivo e indimenticabile.

Perché, vedi, è un azzurro bellissimo, però anche triste, forse per ricordarci che
la Vergine piange sempre la morte di suo figlio, fin dal momento in cui il bimbo
viene al mondo. Come se conoscesse in anticipo la sua sorte. Eppure anche dopo che
lui è morto l'azzurro rimane meraviglioso, pieno di speranza.

Sembra dire che niente è come appare, che le tenebre si nascondono sempre dietro la
luce».

Tacqui e rimanemmo entrambe in silenzio per un momento.

«Anch'io ho fatto quel sogno», disse poi Susanne.

«Una sola volta, circa sei settimane fa, ad Amsterdam.

Mi sono svegliata piangendo, piena di paura. Avevo l'impressione di soffocare


nell'azzurro, lo stesso che mi hai appena descritto. Era strano, perché mi sentivo
felice e triste allo stesso tempo. Jan mi ha detto che avevo parlato nel sonno,
come se stessi recitando qualcosa, un passo della Bibbia. Dopo non sono più
riuscita ad addormentarmi e mi sono alzata per suonare un po', come stanotte».

«Hai del whisky?» le chiesi.

Susanne si avvicinò alla libreria, aprì l'anta in basso e prese una bottiglia mezza
piena e due bicchierini, poi tornò a sedersi nell'angolo del divano e li riempì.

Volevo dirle che non era il caso di bere nelle sue condizioni, ma non fu
necessario: dopo avermi passato un bicchiere, annusò il suo, fece una smorfia e
svitò il tappo della bottiglia, riversandoci dentro il whisky.

Io buttai giù il mio tutto d'un fiato.

Il liquore fece piazza pulita della fonduta, del vino e della mia angoscia a
proposito di Rick e Jean-Paul. Mi diede anche il coraggio di porre a Susanne le
domande più imbarazzanti.

«Da quanto tempo sei incinta?»

«Non lo so con precisione». Susanne tirò fuori le mani dalle ampie maniche del
kimono e iniziò a grattarsi le braccia.

«Da quant'è che non ti vengono le...» Indicai il suo ventre.

«Quattro settimane».

«Com'è capitato? Non usavi niente?

Scusami se te lo chiedo ma è importante».

Abbassò gli occhi. «Una sera ho scordato di prendere la pillola. Di solito la


prendo prima di andare a letto, ma me ne sono dimenticata. Non pensavo fosse un
problema».

Iniziai a dire qualcosa, ma Susanne m'interruppe. «Non sono stupida, sai, né


irresponsabile. Solo che...» Si portò la mano alla bocca. «A volte è difficile
credere che ci sia una relazione fra una pillola così piccola e il concepimento di
un bambino. E' come una magia, le due cose sembrano completamente estranee l'una
all'altra, lo trovo pazzesco. Se ci ragiono riesco a capirlo ma è una cosa che il
mio cuore non accetta».

Annuìi. «Succede spesso che le donne incinte non riconoscano il collegamento fra il
sesso e la gravidanza. Capita anche agli uomini.

Sono due cose così diverse, sembra davvero una specie di magia».

Rimanemmo in silenzio per qualche istante.

«Quando hai saltato la pillola?»

«Non me lo ricordo».

Mi chinai in avanti. «Fai uno sforzo.

È stato nel periodo in cui hai fatto il sogno?»


«Non credo. No, aspetta un attimo, ora ricordo. Jan era andato a Bruxelles per un
concerto. E' tornato il giorno dopo e quella notte ho fatto il sogno.

Sì, è andata così».

«E tu e Jan... avete.., fatto l'amore quella notte?»

«Sì». Susanne pareva imbarazzata.

Mi scusai. «Te l'ho chiesto perché io avevo l'incubo solo le notti in cui io e Rick
facevamo sesso», spiegai.

«Proprio com'è successo a te. Ma appena ho iniziato a prendere i contraccettivi il


sogno è scomparso. E tu non l'hai più fatto da quando sei incinta».

Ci guardammo negli occhi in silenzio.

«E' molto strano», mormorò Susanne.

«Sì, è strano».

Susanne si lisciò il kimono sopra il ventre, sospirando.

«Devi dirlo a Jan», dissi. «Questa è la prima cosa da fare».

«Sì, lo so. E tu devi dire tutto a Rick».

«A quanto pare sa già tutto».

Il giorno seguente andai a consultare l'archivio municipale. Sebbene il nonno di


Jacob avesse fatto un ottimo lavoro, ricostruendo per intero il nostro albero
genealogico, sentivo il bisogno di stringere quei documenti fra le mani.

Ormai ci avevo preso gusto. Rimasi seduta per l'intero pomeriggio nella sala
consiliare, esaminando gli elenchi dov'erano ordinatamente registrati nascite,
morti e matrimoni dal diciottesimo al diciannovesimo secolo. Non sospettavo quanto
fossero radicati i Tournier in quella cittadina, ne erano vissuti a centinaia fra
le sue mura.

Pur essendo assai concise quelle schede mi fornirono una grande quantità di
informazioni: le dimensioni delle famiglie, l'età in cui si sposavano, - di norma
poco dopo i vent'anni, - le occupazioni dei maschi: agricoltori, insegnanti, osti,
intagliatori di orologi. Gran parte dei bambini morivano in tenera età.

Trovai una Susanne Tournier che, fra il 1751 e il 1765, aveva messo al mondo Otto
figli, cinque dei quali erano morti entro il primo mese di vita. Lei stessa era
morta dando alla luce l'ultimo. A me non era mai capitato che un neonato o una
partoriente mi morissero fra le braccia. Ero stata fortunata.

Ma altri dettagli mi aprirono gli occhi sul nostro passato. C'erano figli
illegittimi e incesti in abbondanza in quegli archivi. Alla faccia dei principi
calvinisti, pensai, ma con tutto il mio cinismo, rimasi sconvolta nel leggere
l'annotazione del figlio avuto da Judith Tournier dal padre, Jean, nel 1796.

Altre annotazioni affermavano spudoratamente l'illegittimità di questo o quel


bambino.

Scoprii anche che i nomi di battesimo allora in voga erano ancora largamente
diffusi. Fra quei nomi, per lo più i personaggi dell'Antico Testamento prediletti
dagli ugonotti, Daniele, Abramo, e perfino Noè, trovai parecchie Hannah e Susanne,
e in seguito Ruth, Anne e Judith, ma neppure un'Isabelle o una Marie.

Quando chiesi di poter consultare documenti anteriori alla metà del diciottesimo
secolo, la funzionaria del municipio mi disse che avrei dovuto guardare negli
archivi parrocchiali di Berna e Porrentruy, consigliandomi di avvisare prima.

Presi nota di nomi e numeri di telefono e la ringraziai, sorridendo in cuor mio: se


avesse saputo del mio viaggio improvvisato nella Cévennes sarebbe rimasta
scandalizzata. Eppure nonostante l'improvvisazione avevo avuto successo. In questo
paese però la fortuna non contava: i buoni risultati si potevano ottenere solo
lavorando in modo coscienzioso e progettando ogni cosa con cura.

Andai in un bar lì vicino per meditare sulla mossa successiva. Il caffè arrivò su
un centrìno, con il cucchiaìno, le zollette di zucchero e un quadratino di
cioccolato sistemati con cura sul piattino. Mi vennero in mente i registri che
avevo appena consultato in municipio, i dati annotati con cura in bella
calligrafia. Pur essendo assai più semplici da decifrare, mancavano del fascino e
della fantasia dei documenti francesi. Era come per le persone: sebbene m'irritasse
la totale mancanza di disponibilità dei francesi nei confronti degli stranieri,
alla fine li trovavo più interessanti. Ti costringevano a faticare di più, ma ne
valeva la pena.

Quando tornai a casa trovai Jacob seduto al pianoforte.

Stava suonando un brano dall'incedere lento e malinconico. Mi sdraiai sul divano e


chiusi gli occhi. Era una musica fatta di poche note, una melodia semplice. Quei
suoni ricamati nell'aria mi fecero pensare a Jean-Paul.

Ero sul punto di appisolarmi, quando la musica finì.

Aprii gli occhi e incontrai lo sguardo di Jacob al di là del piano.

«Schubert», disse.

«Bellissimo».

«Hai trovato quello che cercavi?»

«Purtroppo no. Jacob, ti andrebbe di fare un paio di telefonate per me?»

«Bien sur! ma cousine. Stavo pensando a cosa ti potrebbe interessare, fra le cose
di famiglia. Una volta i Tournier possedevano un mulino da queste parti.

Ora è diventato un ristorante, anzi una pizzeria gestita da un italiano.

Nel diciannovesimo secolo però era già una taverna ed era un Tournier a mandarla
avanti. Poi c'è una tenuta agricola, a un chilometro da Moutier, verso la Grand
Val. Ho sempre sentito dire che quella terra era nostra un tempo, ma non c'è niente
di certo.

Comunque è interessante perché la casa ha un vecchio camino. A quanto pare fu una


delle prime case della valle ad averne uno».

«Come sarebbe, non c'è un camino in tutte le case?»

«Oggi sì, ma un tempo era diverso. Le abitazioni dei contadini della regione ne
erano sprovviste».
«E come facevano col fumo?»

«C'era un controsoffitto e il fumo si raccoglieva lì, nel sottotetto. I contadini


ci appendevano la carne a essiccare».

Mi parve una cosa tremenda. «Ma le case dovevano essere sempre sporche e fumose!»
Jacob fece una risatina. «È probabile.

Nella Grand Val c'è ancora un'abitazione senza camino. Ci sono stato: il focolare e
il soffitto soprastante sono neri di fuliggine.

Invece la fattoria dei Tournier, ammesso che fosse dei Tournier, aveva già allora
un camino, per quanto rudimentale».

«A quando risàle?»

«Al diciassettesimo secolo, credo.

Forse alla fine del sedicesimo. Il camino intendo. Il resto della casa è stato
ricostruito più volte ma il camino è rimasto intatto. È per questo che l'ente per
la tutela del patrimonio storico ha voluto acquistare la proprietà, pochi anni or
sono».

«Quindi non ci abita nessuno? Possiamo andare a vederla?»

«Ma certo. Anche domani, se è una bella giornata. Non ho lezione fino al tardo
pomeriggio. Allora, dammi quei numeri di telefono».

Gli spiegai di cosa avevo bisogno e uscii a fare due passi.

Non c'era granché da vedere a Moutier, oltre a ciò che Jacob mi aveva mostrato,
però era piacevole passeggiare senza essere continuamente spiati. Ero lì solo da
tre giorni e già le persone mi salutavano per prime incontrandomi, cosa che a Lisle
non capitava dopo tre mesi. La gente sembrava cortese e meno diffidente che in
Francia.

In effetti scoprii qualcosa di nuovo mentre girovagavo per le strade: una targa su
un muro ricordava che Goethe aveva dormito alla locanda Cheval-Blanc una notte di
ottobre del

1779. Aveva perfino citato Moutier in una delle sue lettere, descrivendo le
formazioni rocciose intorno alla città e in particolare la suggestiva gola che si
trovava a poca distanza dall'abitato, verso est. Mi sembrò un'esagerazione mettere
una targa per commemorare un semplice pernottamento, ma evidentemente a Moutier non
era accaduto nient'altro di memorabile.

Quando mi voltai vidi Lucien che veniva verso di me trasportando due bidoni di
pittura. Ebbi l'impressione che mi stesse fissando già da un po' e che avesse preso
i bidoni solo nel momento in cui mi ero girata.

«Bonjour», dissi. Lucien si fermò posando a terra la pittura.

«Bonjour», rispose.

«ça va?»

«Oui, ça va».

Seguì un momento d'impacciato silenzio. Non riuscivo a guardarlo in faccia perché


mi scrutava in uno strano modo, quasi cercasse qualcosa nei miei occhi. L'ultima
cosa di cui avevo bisogno in quel momento erano le attenzioni di un uomo. E forse
era proprio la mia freddezza ad attirarlo.

Oppure era rimasto affascinato dalla psoriasi, visto che continuava a sbirciarla di
nascosto.

«Lucien, è psoriasi», dissi a un tratto infastidita, compiacendomi del suo


imbarazzo. «Te l'ho già detto.

Perché continui a fissarla?»

«Scusami». Distolse subito lo sguardo.

«E' che... a volte viene anche a me.

Nello stesso posto, sulle braccia.

Pensavo fosse una reazione allergica alla pittura».

«Oh, mi dispiace!» Ora mi sentivo in colpa, però ero ancora irritata con lui, il
che mi faceva sentire ancora peggio. Insomma un circolo vizioso.

«Perché non sei andato dal dottore?» aggiunsi più gentilmente. «Ti avrebbe subito
detto cos'era, e ti avrebbe ordinato qualcosa. C'è una pomata... l'ho dimenticata a
casa, altrimenti la userei».

«Non mi piacciono i dottori», spiegò Lucien. «Mi fanno sentire... disadattato».

Scoppiai a ridere. «Ti capisco. E qui, in Francia voglio dire, ti riempiono di


medicine. Troppe medicine».

«Tu come l'hai presa? La psorìasi».

«Stress, a quanto pare. Ma quella pomata funziona. Dovresti dire al tuo medico
di...»

«Ella, verresti a bere qualcosa con me una di queste sere?» Non risposi subito.
Dovrei darci subito un taglio, pensai. Quell'uomo non mi interessava e non era
proprio il momento. Ma non sono mai stata brava a dire no. - Non avrei sopportato
la sua espressione delusa.

«Ok», dissi. «Fra un paio di giorni, va bene? Ma Lucien...» Aveva un'aria così
felice che non riuscii a proseguire.

«Benissimo. Una di queste sere, allora».

Quando tornai Jacob era di nuovo al pianoforte. Vedendomi smise di suonare e prese
in mano un foglietto.

«Brutte notizie, temo», disse.

«L'archivio di Berna non va oltre il

1750 e quanto a Porrentruy il bibliotecario mi ha spiegato che gli archivi


parrocchiali sono stati distrutti da un incendio. Ci sono però alcuni registri
militari che potresti consultare. Credo che mio nonno si fosse servito proprio di
quelli per le sue ricerche».
«Probabilmente tuo nonno ha già scoperto tutto quello che c'era da scoprire. Ma
grazie lo stesso per aver chiamato». Non sapevo che farmene dei registri militari:
a me interessavano le donne della famiglia, ma preferii non dirlo a mio cugino.

«Jacob, hai mai sentito parlare di un pittore che si chiama Nicolas Tournier?» gli
chiesi invece.

Scosse la testa. Andai in camera mia a prendere la cartolina con il dipinto che
avevo portato con me.

«Vedi, era di Montbéliard», spiegai, porgendogliela. «Penso che potrebbe essere un


nostro antenato. Magari un ramo della famiglia che si era trasferito da quelle
parti».

Jacob osservò il quadro e ricominciò a scrollare il capo.

«Non mi risulta che ci sia mai stato un pittore in famiglia.

I Tournier si sono sempre dedicati ad attività pratiche, eccetto me!» Scoppiò a


ridere ma subito tornò serio. «Ah, Ella. Mentre eri fuori ha telefonato Rick».

«Oh».

Jacob pareva imbarazzato. «Mi ha pregato di dirti che ti ama».

«Oh. Grazie». Abbassai lo sguardo.

«Voglio che tu sappia che puoi rimanere qui da noi finché ti pare. O finché ne
avrai bisogno».

«Grazie. Abbiamo... c'è qualche problema fra noi. Sai com'è».

Si limitò a fissarmi senza dire una parola, e per un attimo mi tornò in mente la
coppia che avevo incontrato sul treno. Dopotutto, Jacob era svizzero.

«Comunque, sono sicura che alla fine andrà tutto bene».

Annuì. «Fino a quel momento, resta qui con la tua famiglia».

«Sì».

Ora che avevo messo al corrente Jacob della difficile situazione con Rick non
sentivo più il bisogno di giustificare la mia permanenza in casa sua. L'indomani
pioveva, così rimandammo la visita alla fattoria e io me ne rimasi tutto il giorno
tranquillamente seduta a leggere o ad ascoltare Susanne e Jacob che suonavano. La
sera andammo a mangiare nella pizzeria che un tempo era stata dei Tournier ma che
ormai aveva un aspetto decisamente italiano.

La mattina seguente partimmo tutti per la nostra gita alla fattoria. Pur essendo
sempre vissuta a Moutier, neppure Susanne c'era mai stata. Il sentiero che
imboccammo, alla periferia orientale della cittadina, era chiaramente indicato da
un cartello giallo con la scritta: Pédestre tourisme.

Diceva anche che avremmo impiegato quarantacinque minuti per raggiungere la Grand
Val: solo in Svizzera viene indicato il tempo che ci vuole ad andare in un posto
invece della distanza chilometrica. Alla nostra sinistra si apriva la gola di
roccia calcarea descritta da Goethe, un imponente massiccio di pietra giallastra
scavato nel mezzo dal fiume Birse. Mi colpì l'aspro dirupo che scintillava alla
luce del sole. Faceva venire in mente una cattedrale.
La valle in cui ci inoltrammo invece era molto più dolce, con un torrentello e la
ferrovia che scorrevano sul fondo, prati sulle pendici più basse e poi i pini e un
ripido pendio che saliva bruscamente verso le rocce sovrastanti. Cavalli e mucche
pascolavano sui prati e le fattorie si succedevano le une alle altre a intervalli
regolari. L'ordine regnava ovunque, nel taglio preciso delle linee, fra una luce
nitida e splendente.

Gli uomini procedevano insieme a passo svelto mentre io e Susanne li seguivamo


adagio. Lei indossava una tunica senza maniche verde mare e larghi pantaloni
bianchi che ballavano intorno alle gambe snelle.

Aveva la faccia pallida e stanca, priva dell'abituale allegria. Mi lanciava di


tanto in tanto occhiate colpevoli e avevo notato che manteneva una certa distanza
da Jan: di sicuro non gli aveva ancora detto nulla.

Io e Susanne rimanevamo sempre più indietro, quasi dovessimo confidarci chissà


quale segreto. Sebbene fosse una calda giornata di sole, a un certo punto mi
vennero i brividi e mi strinsi al corpo la camicia celeste di Jean-Paul. Sapeva di
fumo e di lui.

Jacob e Jan si fermarono nel punto in cui il sentiero si biforcava e quando li


raggiungemmo Jacob indicò una casa poco sopra di noi, nel punto in cui i prati
cedevano alla foresta che si arrampicava sui fianchi delle montagne.

«Quella è la fattoria», disse.

Non ci voglio andare, pensai. Ma perché? Mi voltai verso Susanne. Da come mi


guardava avrei detto che pensava la stessa cosa. Quando gli uomini iniziarono a
salire verso la casa, rimanemmo lì impalate.

«Coraggio», dissi alla fine e mi avviai anch'io, invitando la mia compagna a


seguirmi con un gesto della mano.

Susanne mi venne dietro lentamente.

La fattoria era un edificio lungo e basso, costituito da una casa di pietra e da un


fienile di legno. Le due sezioni erano collegate fra loro dal tetto e avevano,
oltre all'entrata in comune, una specie di tetro cortile che Jacob chiamò devant-
huis. Quello strano cortile era disseminato di paglia, pezzi di legno e vecchi
mastelli. Credevo che l'ente che aveva acquistato la fattoria fosse tenuto a
conservarla in buono stato, invece era in abbandono, con le imposte sbilenche, i
vetri rotti e il tetto coperto di muschio.

Io e Susanne rimanemmo a capo chino mentre Jacob e Jan la osservavano con


attenzione. «Ecco il camino!» Jacob indicò una forma bizzarra e bitorzoluta che
sporgeva dal tetto della casa. Era piuttosto diversa dall'elegante costruzione in
pietra che avevo immaginato. «Come vedi è fatto di calcare», spiegò mio cugino.

«Siccome è una pietra morbida, per irrobustirla hanno dovuto impastarla con una
specie di cemento. La maggior parte del comignolo rimane all'interno invece che
uscire dal tetto. Vieni dentro e potrai vedere il resto».

«Ma sarà aperto?» chiesi riluttante.

Avrei desiderato che la porta fosse chiusa con il lucchetto, che spuntasse da
qualche parte un cartello con su scritto: Propriété privéé.

«Sì. Ci sono già stato altre volte. So anche dov'è nascosta la chiave».
Dannazione, pensai. Non mi andava proprio di entrare, anche se non sapevo bene
perché. In fondo ci trovavamo lì per causa mia. Mi sentivo addosso lo sguardo
disperato di Susanne, quasi toccasse a me fermare tutto. Eravamo come trascinate
dalla fredda logica maschile, incapaci di opporre una qualunque resistenza.

«Vieni», dissi, e le porsi la mano.

La prese: la mano di Susanne era fredda come il ghiaccio.

«Hai la mano fredda», disse lei.

«Anche tu». Ci scambiammo un mesto sorriso ed entrammo insieme nella vecchia casa,
come due bimbe smarrite in una fiaba.

All'interno, l'oscurità era rotta soltanto dalla luce proveniente dalla porta e da
un paio di strette finestre. Mano a mano che i miei occhi si abituavano
all'oscurità, vidi altra legna e alcune sedie rotte, rovesciate sul pavimento in
terra battuta. Subito dopo la porta c'era un camino annerito dal fumo che sporgeva
verso la stanza invece di correre parallelo alla parete. Aveva ai quattro angoli
altrettanti pilastri di pietra squadrata, alti ciascuno un paio di metri, su cui
poggiavano archi pure di pietra. Dagli archi partiva la costruzione bitorzoluta che
finiva sul tetto, una sorta di piramide decisamente goffa ma utile per incanalare
il fumo e portarlo all'esterno.

Lasciai la mano di Susanne ed entrai nel camino per guardare dentro il comignolo.
Buio completo. Provai ad alzarmi in punta di piedi, reggendomi a uno dei pilastri e
piegando il collo. Non si vedeva nulla neanche così. «Deve essere ostruito»,
mormorai. All'improvviso cominciò a girarmi la testa, persi l'equilibrio e caddi
pesantemente sul pavimento.

Jacob accorse in un istante, mi aiutò a rialzarmi e cominciò a spazzolarmi il


vestito con la mano. «Ti senti bene?» mi chiese, preoccupato.

«Sì», risposi con voce malferma.

«Io... credo di aver perso l'equilibrio. Forse la pietra è sconnessa».

Mi guardai intorno in cerca di Susanne. Era sparita.

«Dov'è...» non riuscii a finire la frase: un dolore acuto mi attanagliò lo stomaco


sospingendomi verso l'esterno.

Lì trovai Susanne piegata in due, le braccia strette contro l'addòme, con Jan che
la fissava ammutolito. Appena le posai una mano sulla spalla mandò un gemito e un
fiore scarlatto si disegnò sui suoi pantaloni bianchi all'altezza delle cosce,
scendendo rapidamente giù per le gambe.

Per un attimo rimasi paralizzata dal panico. Madre Santa, pensai, e ora?

Poi ebbi una sensazione che non provavo da mesi: il mio cervello iniziò a
funzionare da solo, e a un tratto ritrovai me stessa e seppi subito cosa dovevo
fare.

Cinsi la ragazza alla vita e le dissi con calma: «Devi sdraiarti, Susanne».

Lei annuì, piegò le ginocchia e si accasciò fra le mie braccia. Dopo averla aiutata
a stendersi su un fianco, alzai gli occhi verso Jan che era rimasto impietrito.
«Dammi la giacca», ordinai. Lui rimase a fissarmi inebetito finché non ripetèi la
frase a voce più alta.

Allora mi porse la sua giacca di cotone marrone che mi faceva pensare agli anziani
giocatori di shuffleboard.

La ripiegai e la misi sotto la testa di Susanne, poi mi tolsi la camicia celeste di


JeanPaul e la stesi a mo' di coperta sul fianco e sul ventre insanguinato della
ragazza.

Una chiazza rossa iniziò ben presto ad allargarsi sulla camicia e per un attimo
rimasi ipnotizzata dai due colori che il contrasto rendeva ancora più affascinanti.

Scrollai la testa, presi la mano di Susanne e mi chinai su di lei. «Non


preoccuparti, andrà tutto bene».

«Ella, che sta succedendo?» Jacob incombeva su di noi, l'ovale del viso stravolto
dall'ansia. Mi voltai verso Jan, che era rimasto immobile, e presi in fretta una
decisione: «Susanne ha avuto un...» Dannazione, il mio francese non poteva
piantarmi in asso proprio in un momento del genere! Madame Sentier non mi aveva mai
insegnato a usare parole tipo "aborto".

«Susanne, devi dirglielo tu. Non so come si dice in francese. Ce la fai?» La


ragazza mi guardò fra le lacrime.

«Devi solo dirlo, tutto lì. Al resto ci penso io».

«Une fausse couche», mormorò con un filo di voce. I due uomini la fissavano
allibiti.

«Ora», dissi con la massima calma,

«Jan, la vedi quella casa laggiù?» Indicai la fattoria più vicina, a circa mezzo
chilometro da noi. Jan non rispose finché non ripetèi il suo nome con una certa
asprezza. Allora annuì.

«Bene. Corri subito laggiù e chiama l'ospedale dal loro telefono. Te la senti?»
Finalmente l'uomo si scosse. «Sì, Ella, vado di corsa alla fattoria e telefono
all'ospedale», disse.

«Bene. In caso l'ambulanza non fosse disponibile, chiedi a quella gente se possono
aiutarci con la loro macchina.

Ora vai!» La mia ultima frase era stata come uno schiocco di frusta. Jan si
accucciò, toccò il terreno con una mano e partì a razzo, quasi fosse su una pista
di atletica. Feci una smorfia. Susanne deve liberarsi di questo ragazzino, pensai.

Jacob intanto si era inginocchiato accanto alla figlia e le aveva posato una mano
sulla testa. «Andrà tutto bene?» mi chiese, sforzandosi di mascherare l'angoscia.

Lo ignorai e risposi direttamente a Susanne. «Ma certo, presto ti sentirai meglio,


vedrai.

Probabilmente fa un po' male, vero?» Susanne annuì.

«Passerà presto. Jan è già andato a chiamare l'ambulanza».

«Ella, è colpa mia», sussurrò.


«No, che non è colpa tua. Certo che no».

«Ma io non volevo il bambino. Forse se l'avessi voluto non sarebbe successo».

«Susanne, tu non c'entri nulla. Gli aborti spontanei sono cose che capitano. Non
hai fatto niente di male. Non è stato per causa tua».

Da come mi guardava si capiva che non era convinta.

Jacob intanto ci fissava come se stessimo parlando arabo.

«Te lo giuro: non è stata colpa tua.

Credimi. Ok?» Finalmente Susanne annuì.

«Ora devo visitarti. Ti va di lasciarmi guardare?» Susanne strinse più forte la mia
mano e le lacrime iniziarono a scendere sulle sue guance. «Si, fa male, lo so, e
non vorresti che io guardassi, ma devo, per accertarmi che sia tutto a posto. Non
ti farò male, fidati».

Gettò un'occhiata verso suo padre, e poi mi guardò negli occhi. Capìi al volo.
«Jacob, tienile la mano», ordinai, accompagnando la mano sottile di Susanne nella
sua. «Aiutala a sdraiarsi sulla schiena e mettiti qui accanto a lei». Feci sedere
Jacob in modo che non potesse vedere quel che facevo.

«Ora parlale». Jacob mi guardò disperato. Riflettèi un momento.

«Ricordi che mi hai raccontato di quel tuo allievo di pianoforte? Quello che esegue
Bach alla perfezione?

Cosa suonerà nel prossimo concerto?

Perché ha scelto quel repertorio?

Raccontalo anche a Susanne».

Dopo un istante di smarrimento, Jacob si rilassò. Si voltò verso la figlia e


cominciò a parlare. Piano piano anche Susanne si fece più calma. Cercando di
muoverla il meno possibile, le calai i pantaloni e le mutandine quel tanto che
bastava per darle un'occhiata, dopo aver tamponato il sangue con la camicia di
Jean-Paul. Poi le tirai su i pantaloni lasciando la cerniera abbassata. Jacob smise
subito di parlare e si voltarono entrambi verso di me.

«Hai perso un po' di sangue, ma per il momento l'emorragia si è fermata.

Presto ti sentirai meglio».

«Ho sete», disse Susanne con un filo di voce.

«Vado a cercare l'acqua». Mi alzai in piedi notando con soddisfazione che padre e
figlia si erano rasserenati.

Girai intorno alla casa, in cerca di una fontana. Non ce n'erano.

Dovevo tornare dentro.

Attraversai il devant-huis e mi fermai sulla soglia. Un sottile raggio di sole


attraversava per intero la lastra del focolare. La nube di polvere sollevata dal
nostro passaggio danzava in quella lama di luce. Mi guardai intorno in cerca di un
rubinetto. La stanza era immersa nel silenzio e nessun suono giungeva a
rassicurarmi: la voce di Jacob o il vento fra i pini sul monte, il campanaccio di
una mucca, il fischio lontano d'un treno.

Nulla. Soltanto il silenzio e quella striscia di luce che tagliava la lastra di


pietra ai miei piedi.

Un'enorme lastra di pietra, chissà quanti uomini c'erano voluti per metterla lì. La
osservai con attenzione. Sebbene fosse tutta sporca di fuliggine si capiva che non
era pietra del posto. Sembrava venire da lontano.

In un angolo della parete di fronte alla porta scorsi un vecchio lavandino.


Dubitavo fortemente che funzionasse ma dovevo provare, per il bene di Susanne.
Girai intorno al camino, con il cuore che batteva all'impazzata, le mani sudate.
Quando raggiunsi il lavandino iniziai a lottare con il rubinetto prima di riuscire
a smuoverlo. Lì per lì non successe niente, poi a un tratto si udì uno scoppiettio
e il tubo prese a vibrare violentemente. Arretrai.

All'improvviso un gran fiotto di liquido scuro si riversò scrosciando nel lavandino


e io balzai all'indietro andando a sbattere con la testa contro lo spigolo di uno
dei pilastri che reggevano il camino. Gettai un urlo e presi a girare su me stessa,
accecata dal dolore. Caddi in ginocchio accanto al focolare e chinai la testa.

Tastandomi i capelli sulla nuca sentii che erano umidi e attaccaticci.

Respirai a fondo più volte. Quando smisi di vedere le stelle sollevai la testa e
abbassai le braccia. Gocce di sangue si staccarono dalle piaghe della psoriasi e
rotolarono dal gomito lungo gli avambracci, confondendosi col sangue che avevo
sulle mani.

Rimasi a guardare i rigagnoli di sangue. «Dunque è questo il posto, non è vero?»


dissi a voce alta. «Je suis arrivée chez moi, n'est-ce pas?» Alle mie spalle lo
scroscio si fermò di colpo.

9 - Il camino

Isabelle stava in silenzio nel devant-huis. Sentì il cavallo che si muoveva


inquieto nel fienile; dalla casa giungevano colpi di vanga.

«Marie?» chiamò a voce bassa. Avrebbe tanto voluto urlare ma non sapeva chi
l'avrebbe sentita. Il cavallo la riconobbe e nitrì debolmente, smettendo di
muoversi. I colpi di vanga però continuavano. Dopo un attimo di esitazione,
Isabelle spalancò l'uscio.

Etienne stava scavando una lunga fossa ai piedi della lastra di granito. Ma vicino
alla porta, invece che lungo la parete dove aveva detto di voler costruire il
camino. Il pavimento era così compatto che Etienne doveva lavorare di taglio con la
vanga per smuovere la terra.

Quando la luce entrò dalla porta l'uomo sollevò lo sguardo. «L'hai...» iniziò a
dire, ma s'interruppe di colpo quando vide che era Isabelle. Si raddrizzò.
«Che ci fai qui?»

«Dov'è Marie?»

«Dovresti vergognarti, Rossa. Dovresti inginocchiarti e chiedere perdono a Dio».

«Perché lavori durante le feste comandate?» Etienne ignorò la domanda. «Tua figlia
è fuggita», esclamò. «Petit Jean è andato a cercarla nei boschi. Credevo fosse lui
che tornava per dirmi che l'aveva trovata sana e salva. Forse a te non sta a cuore
la sorte di questa tua figlia svergognata, Rossa? Faresti meglio a cercarla anche
tu».

«Nessuno mi sta a cuore quanto Marie.

Da che parte è andata?»

«Ha preso il sentiero che porta sulla montagna», rispose Etienne, poi si voltò e
ricominciò a scavare. Isabelle rimase a guardarlo.

«Perché scavi accanto alla porta?

Avevi detto che avresti costruito il camino laggiù in fondo».

L'uomo si rialzò e sollevò la vanga sopra la testa. Isabelle fece un balzo ed


Etienne scoppiò a ridere.

«Vai a cercare tua figlia, invece di fare domande sciocche».

Isabelle uscì indietreggiando dalla stanza e chiuse la porta. Si trattenne per un


momento nel devant-huis.

Etienne non aveva ancora ripreso a scavare. C'era un gran silenzio, un silenzio
pieno di segreti.

Non ci siamo solo io ed Etienne in questa casa, pensò.

Marie deve essere qui, da qualche parte.

«Marie!» cominciò a chiamare, «Marie!

Marie!» Poi uscì nel cortile e continuò a chiamare la figlia. Ma di Marie neppure
l'ombra, c'era soltanto Hannah che arrancava su per il sentiero. Isabelle non
l'aveva aspettata fuori dalla cappella di Chalières. Aveva lasciato la suocera con
Jacob correndo a perdifiato verso casa per essere sicura che Hannah non potesse
raggiungerla. Vedendo Isabelle, la vecchia si fermò appoggiandosi al bastone,
ansimante.

Poi chinò la testa e si affrettò a entrare in casa sbattendo la porta, senza


degnare la nuora di un'occhiata.

***

Non fu facile far ubriacare Lucien. Mi


fissava dall'altra parte del tavolino e beveva la birra così lentamente che per
tenere il suo passo dovevo prendere un sorso e risputarlo ogni volta nel bicchiere.
Eravamo gli unici due clienti in un bar del centro.

Dall'impianto sonoro usciva una musichetta country e la cameriera leggeva il


giornale dietro il bancone.

Moutier in un piovoso giovedì di inizio luglio era un vero mortorio.

Avevo una torcia elettrica nella borsa, ma contavo su Lucien nel caso avessimo
avuto bisogno di altri attrezzi.

Lui però non lo sapeva ancora. Se ne stava lì seduto a giocare con i cerchi che il
bicchiere lasciava sul tavolino e pareva un po' a disagio. Se andavamo avanti così
ci avrei messo troppo a convincerlo. Dovevo ricorrere a misure più drastiche.

Attirai l'attenzione della cameriera e quando si avvicinò ordinai due whisky.

Lucien mi guardò spalancando gli occhioni nocciola. Mi strinsi nelle spalle. «In
America beviamo sempre un whisky insieme alla birra», mentii spudoratamente. Lui
annuì e mi venne in mente Jean-Paul: non si sarebbe mai bevuto una cavolata del
genere. Quanto mi mancava la sua arguzia, il suo umorismo graffiante. Era come una
lama pronta ad affondare con decisione nella melassa della banalità.

Quando la cameriera ci portò i due bicchierini, insistetti perché Lucien buttasse


giù il suo tutto d'un fiato, invece di sorseggiarlo pian piano. E subito dopo ne
ordinai altri due. Lì per li si mostrò titubante, ma al secondo whisky era
visibilmente più rilassato e attaccò a parlare di una casa che aveva costruito di
recente.

Gli diedi corda, benché usasse una quantità di termini tecnici di cui ignoravo il
significato. «E' a mezza costa, sul fianco della montagna, dov'è più difficile
lavorare», spiegò.

«E poi abbiamo avuto dei problemi con il cemento per l'abri nucléaire.

Siamo stati costretti a impastarlo due volte».

«L'abri nucléaire?» ripetei, per accertarmi di aver capìto bene.

«Oui». Lucien aspettò che guardassi nel dizionario che tenevo nella borsa.

«Un rifugio atomico? Hai costruito un rifugio atomico dentro una casa?»

«Certo. È obbligatorio. In Svizzera ogni casa deve avere il suo rifugio.

Per legge».

Scrollai la testa. Lucien scambiò il mio sconcerto per incredulità «È vero, i nuovi
edifici devono essere dotati di rifugi atomici», ripeté con foga.

«E ogni svizzero di sesso maschile presta servizio nell'esercito. Lo sapevi questo?


A diciott'anni si va sotto le armi per diciassette settimane e poi ogni anno se ne
fanno tre nella riserva».

«Ma perché siete tanto militarizzati se la Svizzera è una nazione neutrale?»


Sorrise cupamente. «In modo da poter restare neutrali.

Un paese ha bisogno di un forte esercito per esserlo».


Venivo da una nazione che spendeva un'enorme quantità di denaro in armamenti e non
s'era mai sognata di essere neutrale. Mi sembrava che le due cose fossero
difficilmente conciliabili. Ma non ero certo lì per parlare di politica e ci
stavamo allontanando sempre più dal soggetto che mi stava a cuore. Dovevo fare in
modo che il discorso andasse a cadere sui camini.

«E dimmi, di che cosa sono fatti questi rifugi atomici?» chiesi, fingendomi
interessata.

«Cemento e piombo. Sai, le pareti sono spesse un metro».

«Davvero?» Lucien iniziò a spiegarmi per filo e per segno come si costruisce un
rifugio atomico. Chiusi gli occhi. Che imbecille, pensai. Come diavolo ho fatto a
pensare che potesse aiutarmi?

Purtroppo non avevo scelta. Jacob era ancora troppo sconvolto per l'aborto della
figlia e Jan di certo non se la sarebbe sentita di andare contro le regole. Un
altro fessacchiotto, pensai mestamente. Ma che uomini siete? Mi ritrovai a
rimpiangere di non avere accanto Jean-Paul: lui di certo avrebbe contestato
l'utilità di quello che intendevo fare, avrebbe perfino messo in discussione la mia
sanità mentale, ma sarebbe stato pronto a sostenermi, sapendo che era importante
per me. Avrei tanto voluto sapere come stava. Quella notte sembrava passata da un
pezzo. Era trascorsa solo una settimana.

Comunque Jean-Paul non c'era: dovevo accontentarmi di quel che passava il convento.
Aprii gli occhi e interruppi il soliloquio di Lucien. «Ecoute, ho bisogno del tuo
aiuto», dissi con decisione, passando al francese colloquiale e abbandonando i modi
formali che avevo mantenuto con lui fino a quel momento.

Lucien si zittì e un'espressione stupita e diffidente comparve sul suo volto.

«Conosci la fattoria nella Grand Val?

Quella con il vecchio camino?» Annuì.

«Ieri siamo andati a visitarla.

Apparteneva ai miei antenàti».

«Davvero?»

«Sì. C'è una cosa che devo recuperare là dentro».

«Cosa?»

«Non lo so di preciso», risposi e mi affrettai ad aggiungere: «Ma so dov'è».

«Come fai a sapere dov'è, se non sai di che si tratta?»

«Non lo so».

Lucien rimase in silenzio, scrutando il mio bicchierino vuoto. «Cosa dovrei fare di
preciso?» chiese poi.

«Venire con me alla fattoria, solo per dare un'occhiata.

Hai i tuoi attrezzi con te?» Annuì. «Sono nel furgòne».


«Bene. Potremmo averne bisogno». Mi parve allarmato per cui soggiunsi:

«Non ti preoccupare, non dobbiamo mica forzare l'entrata o roba del genere.

C'è solo da aprire un lucchetto.

Voglio dare un'occhiata in giro, tutto qui.

Allora, mi aiuti?»

«Vuoi dire adesso? Subito?»

«Sì. Non voglio farlo sapere a nessuno, per questo devo andarci di notte».

«Perché non vuoi farlo sapere?» Mi strinsi nelle spalle. «Non voglio che mi
facciano troppe domande. Non mi va che se ne parli».

Seguì un lungo silenzio. Mi preparai a incassare un secco rifiuto.

«Ok».

Lucien ricambiò il mio sorriso sia pur timidamente.

«Sai Ella», disse, «è la prima volta che sorridi in tutta la sera».

***

Stava iniziando a piovere quando

Isabelle entrò nel bosco. Le prime gocce filtrarono fra le foglie nuove dei faggi,
scuotendole appena e riempiendo l'aria di un lieve fruscìo.

Un odore di muschio si levava dal fradicio tappeto di foglie morte e aghi di pino.

Isabelle s'arrampicò su per il pendìo dietro la casa chiamando di tanto in tanto la


figlia, ma rimanendo più spesso immobile ad ascoltare i rumori smorzati dalla
pioggia: il grido rauco dei corvi, il vento fra i pini sulla montagna, gli zoccoli
di un cavallo sul sentiero per Moutier. Marie non poteva essere distante: alla sua
bambina non piaceva stare da sola o lontana da casa. D'altro canto non aveva mai
subito una tale ignominia e davanti a così tanta gente.

E tutto per il colore dei tuoi capelli, pensava Isabelle, perché sei mia figlia.
Anche in questa terra.

Eppure non possiedo magie con cui proteggerti, nulla che possa ripararti dal freddo
o dall'oscurità.

Salì ancora più su, fino alla cresta rocciosa che tagliava la montagna a mezza
costa, e si diresse a occidente.

Sentiva il richiamo di un luogo particolare, la piccola radura dove lei e Jacob


avevano tenuto il capretto per tutta l'estate. Non ci aveva più messo piede da
quando Jacob l'aveva scambiato con il tessuto. Eppure erano ancora visibili le
tracce lasciate dalla bestiòla: il riparo costruito con i rami, il giaciglio di
paglia e aghi di pino, le palline nere degli escrementi rinsecchite qua e là.
Pensavo di essere stata scaltra, di aver nascosto bene i miei segreti, pensò
Isabelle piena di rammarico, davanti al rifugio del capretto. Ero convinta che
nessuno mi avrebbe scoperto. Le sembrava passato tanto tempo e invece era solo
l'estate prima.

Dopo aver rivisto quel luogo segreto, capì che si sarebbe diretta nell'altro. Non
si oppose all'impulso che la trascinava, pur sapendo che difficilmente ci avrebbe
trovato Marie. Seguì la cresta fino all'entrata della gola e, salendo fra le rocce,
ritrovò il punto esatto in cui Pascale s'era inginocchiata a pregare. Qui però non
restava traccia del suo segreto: il terreno aveva assorbito da tempo la macchia di
sangue.

«Dove sei, chérie?» mormorò.

Quando il lupo sbucò dietro la rupe Isabelle ebbe un sussulto e gridò, ma non corse
via. Rimase immobile davanti alla bestia che la fissava con occhi penetranti.
All'improvviso si mosse verso di lei e Isabelle arretrò di un passo.

Il lupo avanzò ancora e Isabelle si vide costretta a scendere all'indietro fra le


rocce. Dopo un po', per non cadere, dovette voltarsi a guardare il sentiero ma ogni
tanto gettava un'occhiata al lupo per assicurarsi che non si avvicinasse troppo. La
bestia però rimaneva sempre alla stessa distanza, rallentando e perfino fermandosi
quando Isabelle lo faceva, e aumentava l'andatura solo se lei affrettava il passo.

Mi sta guidando come se fossi una pecora, pensò Isabelle, vuole portarmi da qualche
parte. Per metterlo alla prova a un tratto scartò di lato.

Subito il lupo balzò al suo fianco e ci rimase finché la donna non ebbe ripreso il
sentiero.

Ben presto si lasciarono le rocce alle spalle e, giunti al margine della foresta,
imboccarono la stradina che portava da Moutier alla Grand Val e alla loro terra. Un
cavallo stava arrivando al trotto. Il cavallo dei Tournier, il suo cavallo, con in
groppa Petit Jean e Gaspard. L'aveva sentito agitarsi nella stalla prima di uscire.
Capì che era quello il cavallo che aveva udito prima nel bosco.

Si voltò a guardare il lupo. Era scomparso.

***

Lucien possedeva un vecchio furgòne

Citroen stipato di attrezzi: proprio come avevo sperato. Partimmo e percorrendo la


via principale della città scoppiettando e sferragliando così forte che di sicuro
tutti dovevano essersi affacciati alla finestra. In barba alla discrezione.

Aveva appena iniziato a piovere, una pioggerellina sottile che rendeva la strada
sdrucciolevole. Mi strinsi nella giacca. Lucien fece partire il tergicristallo che
cominciò a grattare contro il parabrezza rendendomi isterica. Attraversò la città
guidando con prudenza, sebbene non ve ne fosse alcun bisogno: alle nove e mezza di
sera non c'era un anima per le strade di Moutier. Davanti alla stazione, l'unico
posto che ancora mostrava qualche segno di vita, prese la strada per la Grand Val.

Viaggiammo in silenzio. Fortunatamente non mi riempì di domande come avrei fatto io


al suo posto: non avrei saputo cosa rispondergli.

A un certo punto imboccammo una stradina che correva sotto la ferrovia, puntando
verso le colline.

Presso un gruppo di case svoltammo in una strada sterrata che riconobbi: era quella
che avevo fatto a piedi il giorno prima.

Dopo circa trecento metri Lucien si fermò e spense il motore. Finalmente anche il
tergicristallo smise di gemere, mentre il furgòne mandò ancora qualche sbuffo prima
di zittirsi del tutto con un sibilo prolungato.

«E' laggiù». Lucien indicò un punto alla nostra sinistra.

Scorsi subito il profilo della fattoria a non più di cinquanta metri da noi.
Rabbrividii. Sarebbe stata dura scendere dal furgòne e arrivare fin lì.

«Ella, posso chiederti una cosa?»

«Sì», risposi a malincuore. Non intendevo raccontargli tutto, ma non potevo neppure
pretendere che mi aiutasse senza fare domande.

Invece Lucien mi sorprese. «Sei sposata?», disse, un'affermazione più che una
domanda. Confermai con un cenno del capo.

«Era tuo marito quello che ha chiamato la sera della fonduta?»

«Sì».

«Anch'io ero sposato», disse Lucien.

«Vraiment?» feci io, più stupita di quanto avrei voluto mostrarmi. Fu come quando
mi aveva confessato di soffrire di psoriasi: mi sentivo in colpa per non averlo
ritenuto all'altezza di una vita come la mia, piena di stress e passione.

«Hai figli?» gli domandai, cercando di recuperare.

«Una figlia. Christine. Vive con la madre a Basilèa».

«Non è lontano da qui».

«Infatti. La vedo un fine settimana sì e uno no. E tu ne hai?»

«No». Mi cominciarono a prudere i gomiti e le caviglie, la psoriasi reclamava la


mia attenzione.

«Non ancora».

«Già, non ancora».

«Quando scoprii che mia moglie era incinta», disse Lucien pacatamente,

«avevo già in mente di dirle che forse sarebbe stato meglio separarci.

Eravamo sposati da due anni e le cose non andavano affatto bene. Almeno per me. Ci
sedemmo per scambiarci le ultime novità, i nostri pensieri.

Cominciò lei: quando me lo disse non riuscii più a confessarle quello che avevo
pensato».
«Così siete rimasti insieme».

«Fino a che Christine non ha compiuto un anno. Ma è stato un inferno».

Non so da quanto tempo stesse montando, ma a un tratto mi accorsi di avere la


nausea. Mi sentivo lo stomaco Immerso nel cemento. Deglutii e feci un bel respiro.

«Quando ti ho sentito al telefono con tuo marito mi sono tornate in mente certe
telefonate fra me e mia moglie».

«Ma se non ho detto quasi nulla!»

«Era il tono di voce».

«Oh». Mi voltai a guardare il buio davanti a me, imbarazzata.

«Non sono sicura che mio marito sia la persona giusta con cui avere un figlio»,
dissi dopo un po'.

«Non ne sono mai stata sicura».

Pronunciare quella frase a voce alta davanti a qualcuno fu come rompere un vetro.
Rimasi turbata dalle mie stesse parole.

«E' meglio pensarci prima», disse Lucien, «piuttosto che mettere al mondo un figlio
senza amore».

Deglutii di nuovo, annuendo. Rimanemmo in silenzio ad ascoltare la pioggia e io


cercai di concentrarmi sullo stomaco per calmarne gli spasmi.

«Vuoi rubare qualcosa da lì?» chiese Lucien all'improvviso, indicando la fattoria.

Riflettèi un momento prima di rispondere. «No. Devo solo cercare una cosa. Una cosa
che mi appartiene».

«Cosa? Qualcosa che hai dimenticato ieri? Vuoi dire questo?»

«Sì. La storia della mia famiglia».

Raddrizzai la schiena.

«Sei ancora disposto ad aiutarmi?» chiesi asciutta.

«Naturalmente. Ho detto che ti aiuterò e ti aiuterò», rispose Lucien guardandomi


negli occhi senza battere ciglio.

Non è poi così stupido, pensai.

***

Petit Jean non sembrava disposto a

fermarsi. Isabelle sì piazzò in mezzo al sentiero costringendolo a tirare le


redini, poi si avvicinò e gliele prese di mano. Il cavallo le spinse il muso contro
la spalla, sbuffando.

Né Petit Jean né Gaspard la guardarono in faccia, anche se l'uomo si tolse il


berretto e la salutò con un cenno del capo. Petit Jean invece sedeva rigido in
groppa al cavallo, lo sguardo fisso davanti a sé, impaziente di ripartire.

«Dove andate?» chiese loro Isabelle.

«Stiamo tornando alla fattoria», rispose Petit Jean e subito dopo deglutì.

«Perché? Avete forse trovato Marie?

Sta bene?» Il ragazzo non fiatò. Gaspard si schiarì la voce, tenendo l'occhio
guercio puntato su di lei.

«Mi rincresce, Isabelle», borbottò.

«Se non fosse stato per Pascale io non mi sarei impicciato in questa storia.

Se lei non avesse cucito il vestito non sarei stato costretto a dare una mano.
Ma...» Si strinse nelle spalle, rimettendosi in testa il berretto. «Mi dispiace».

Petit Jean fece un fischio e strappò di prepotenza le briglie a sua madre.

«Dare una mano a far cosa?» urlò Isabelle, mentre Petit Jean già spronava il
cavallo che ripartì come un fulmine.

«Dare una mano a far cosa?» Mentre si allontanavano al galoppo, il berretto volò
dalla testa di Gaspard e rotolò in una pozzanghera. Isabelle rimase a guardarli
finché non scomparvero in fondo al sentiero, dopodiché si chinò a raccoglierlo,
scrollando via l'acqua e il fango. Poi prese la via di casa con il berretto fra le
mani.

***

Pioveva sempre più forte. C'infilammo

nel devant-huis e illuminai il lucchetto con la torcia. Lucien provò a tirarlo.

«Questo l'hanno messo per tener lontani i drogués», annunciò.

«Ci sono anche i drogati a Moutier?»

«Naturalmente. Ce ne sono in tutta la Svizzera. Non conosci bene il nostro paese,


vero?»

«Questo è sicuro», borbottai in inglese. «Gesù, com'è vero che l'apparenza


inganna».

«Come avete fatto a entrare ieri?»

«Jacob sapeva dov'era nascosta la chiave». Mi guardai intorno.

«Non ci ho fatto caso. Ma vedrai che riusciremo a trovarla». Servendoci della


torcia frugammo in tutti gli angoli del devant-huis.
«Forse Jacob l'ha portata via per sbaglio», suggerii. «Eravamo tutti sconvolti.
Niente di più facile che sia andata così». Mi sentivo quasi sollevata al pensiero
di abbandonare l'impresa.

Lucien però stava già osservando le finestrelle ai lati della porta. Non sarebbe
stato un problema togliere i vetri ma né lui né io potevamo passare di lì. Anche le
altre finestre sul davanti della casa erano alte e strette. Lucien mi prese la
torcia dalle mani. «Vado a vedere se ce ne sono di più grandi sul retro», disse.
«Te la senti di aspettarmi qui da sola?» Dovetti fare uno sforzo per annuire.

Lui sgusciò fuori dal devant-huis e sparì dietro l'angolo. Mi appoggiai alla porta
stringendomi nella giacca, infreddolita, e tesi le orecchie.

All'inizio sentivo solo il rumore della pioggia, ma poi altri suoni presero a
emergere: il traffico sulla strada sottostante, il fischio di un treno. La
vicinanza del mondo normale riuscì a tranquillizzarmi un po'.

A un tratto dall'interno giunse un cigolìo che mi fece trasalire. «E solo Lucien»,


mi dissi, e tuttavia preferii allontanarmi di qualche passo verso il cortile,
pioggia o non pioggia.

Riuscii a malapena a trattenere un urlo quando vidi la luce ballare dietro la


finestra, seguìta subito dopo dal volto di Lucien.

A un suo cenno mi avvicinai e lui mi passò la torcia attraverso il vetro rotto.

«Ci vediamo sul retro», disse e sparì di nuovo prima che avessi il tempo di
chiedergli se era tutto a posto.

Dovevo girare tutto intorno alla fattoria, come Lucien aveva fatto pochi minuti
prima. La cosa più difficile era svoltare l'angolo: il terreno accanto all'edificio
era privato e di solito non aperto al pubblico. Era come entrare in un altro mondo,
un mondo sconosciuto.

C'era molto fango per terra e dovetti procedere a zigzag fra le pozzanghere per
poggiare i piedi su qualcosa di solido. Quando scorsi la finestra aperta con il
profilo di Lucien all'interno mi mossi con troppa precipitazione e caddi sulle
ginocchia.

Lui si sporse a guardare. «Ti sei fatta male?» Mi rialzai barcollando, con la
torcia che ondeggiava come impazzita. Due cerchi di melma s'erano disegnati sui
miei calzoni all'altezza delle ginocchia. «No, sto bene», borbottai, scuotendo i
pantaloni per ripulirli almeno un po.

Gli porsi la torcia e lui la puntò sul davanzale mentre mi arrampicavo dentro.

Faceva freddo in quella casa, quasi più freddo che fuori.

Mi tolsi i capelli bagnati dagli occhi e mi guardai intorno.

Ci trovavamo in una stanzetta, una camera da letto o forse un ripostiglio, con una
catasta di legna e un paio di sedie sbilenche. C'era odore di muffa e di umidità e
quando Lucien illuminò gli angoli del soffitto vedemmo i filamenti delle ragnatele
che oscillavano mossi dalla corrente creata dalla finestra aperta.

Lucien la chiuse e il legno mandò lo stesso gemito che avevo sentito pochi minuti
prima. Stavo per chiedergli di lasciarla aperta in modo che potessimo disporre di
una via di fuga, ma evitai. Non c'è nulla da cui scappare qui dentro, mi dissi con
fermezza, sebbene avessi lo stomaco in subbuglio.

Lucien mi precedette nella stanza principale, si fermò accanto al focolare e


rivolse il fascio di luce verso il camino.

Rimanemmo a guardarlo a lungo senza parlare.

«Impressionante, non è vero?» dissi.

«Sì. Vivo a Moutier da quando sono nato e avevo già sentito parlare di questo
camino, ma non l'avevo mai visto».

«Ieri, mi ha subito colpito per la sua bruttezza».

«Sì. Sembra una di quelle ruche del Sudamerica che hanno fatto vedere una volta in
televisione».

«Ruche? E che cos'è?»

«La casa delle api. Sai, dove fanno il miele».

«Ah, l'alveare. Sì, ho capito cosa intendi». Avevo visto anch'io da qualche parte,
forse su National Geographic, gli alveari bitorzoluti cui si riferiva Lucien.
Racchiusi in una sorta di cemento che ne celava la forma spigolosa, parevano enormi
bozzoli, decisamente goffi ma funzionali. Mi tornarono in mente le fattorie
abbandonate che avevo visto nella Cévennes, le pietre di granito disposte in modo
ordinato, la sobria eleganza dei comignoli. Qui era tutta un'altra cosa: quello che
avevo davanti era il prodotto di un bisogno disperato, il bisogno di un camino, un
camino qualsiasi.

«Però è strano», disse Lucien fissando il focolare e il camino soprastante.

«Guarda la sua posizione nella stanza.

Non è dove ti aspetteresti di trovarlo. Messo in quel modo non contribuisce a


rendere l'ambiente più confortevole, anzi lo rende più... scomodo. Inospitale».

Aveva ragione. «E poi è troppo vicino alla porta», osservai.

«Davvero troppo vicino. Entrando ci sbatti quasi contro.

E' poco efficace: ogni volta che aprivano la porta gran parte del calore se ne
andava. E la corrente alimentava di sicuro la fiamma, così il fuoco era più
difficile da controllare.

Forse era addirittura pericoloso.

Avrebbero dovuto costruirlo sulla parete opposta. Laggiù. E' strano che della gente
sia vissuta in questa casa per secoli senza che a nessuno sia mai venuto in mente
di spostarlo».

Pensai subito a Rick. Rick sarebbe stato in grado di fornirci una spiegazione.
L'interno delle case era sempre stato il suo forte.

«Allora, cosa facciamo?» disse Lucien, perplesso.

Ciò che mi era parso chiaro e semplice nell'immaginazione si rivelava molto più
assurdo nella realtà umida e fredda di quella stanza.
Presi la torcia e iniziai a ispezionare con cura ogni angolo del camino, i quattro
pilastri squadrati, i quattro archi che andavano da un pilastro all'altro
sorreggendo l'intera struttura.

Lucien tentò di nuovo. «Cosa stai cercando?» Mi strinsi nelle spalle. «Qualcosa...
qualcosa di antico», risposi, ritta sulla lastra del focolare, mentre sbirciavo su
per la cavità. C'erano i resti di vecchi nidi sulle pietre sporgenti all'interno
del comignolo.

«Forse qualcosa di... azzurro».

«Qualcosa di azzurro?»

«Sì'». Saltai fuori dal focolare.

«Dimmi una cosa, Lucien.

Tu costruisci le case, se dovessi nascondere qualcosa in un camino, dove la


nasconderesti?»

«Una cosa azzurra?» Non risposi. Lucien si voltò a guardare il camino. «Be'», disse
poi,

«fa troppo caldo lì dentro, qualunque cosa brucerebbe. Forse più su, nella canna
fumaria. Oppure...» S'inginocchiò e posò le mani sulla lastra del focolare. Dopo
averla tastata per bene, cominciò ad annuire.

«Granito.

Non so proprio dove possano averlo preso. Non ce n'è da queste parti».

«Granito», ripetèi. «Come nella Cévennes».

«Dov'è?»

«Nel sud della Francia. Ma perché avranno usato il granito?»

«E' molto più duro della nostra pietra calcarea. E assorbe il calore in modo più
uniforme. Ma questa lastra è molto spessa, perciò la parte inferiore non doveva
scaldarsi troppo. Credo che sarebbe possibile nascondere qualcosa lì sotto».

«Sì», annuìi, sfregandomi la fronte.

Mi pareva ragionevole. «Dài, solleviamolo».

«E' troppo pesante. Ci vogliono quattro uomini per tirarlo su!»

«Quattro uomini», ripetèi. Rick, Jean-Paul, Jacob e Lucien. E una donna. Mi guardai
intorno. «Hai per caso un, un... non so come si dice in francese». Lucien mi
guardava con aria confusa, così presi carta e penna dalla borsa e feci lo schizzo
di una carrucola.

«Ah, un palan!» esclamò Lucien. «Sì.

Ne ho uno nel furgòne. Ma anche con quello ci vorrebbe qualcuno per aiutarci a
sollevare la lastra».

Riflettèi per un momento. «E se adoperassimo il tuo furgòne?» suggerii. «Potremmo


usare la forza del motore per sollevare la pietra con le palan».
Lucien pareva sorpreso, quasi non avesse mai immaginato che il suo vecchio furgòne
potesse servire a scopi ben più nobili del semplice trasporto. Rimase in silenzio
per un pezzo, osservando tutto con attenzione, misurando le distanze con gli occhi.

Io ascoltavo il rumore della pioggia.

«Sì», disse alla fine. «Forse possiamo farcela».

«Ce la faremo».

***

Giunta a casa, Isabelle provò ad

aprire piano la porta.

Era sbarrata dall'interno. Sentì Etienne e Gaspard che grugnivano per la fatica,
dopo un po' si fermarono e cominciarono a discutere. Invece di chiamare il marito
passò nella stalla dove trovò Petit Jean intento a strigliare il cavallo. Pur
arrivando a malapena alle spalle dell'animale, il ragazzo si muoveva con sicurezza.

Diede un'occhiata alla madre e continuò a spazzolare il cavallo.

Isabelle però s'era accorta che aveva deglutito vedendola arrivare.

Come l'uomo che li aveva fermati lungo la strada mentre fuggivano dalla Cévennes,
pensò, e rivide il brigante con il pomo di Adamo che andava su e giù, e le torce, e
rammentò le parole coraggiose di Marie.

«Papà ci ha detto di rimanere qui, così non gli saremmo stati fra i piedi»,
annunciò Petit Jean.

«Vi ha detto? C'è anche Marie?» Il ragazzo indicò con la testa un mucchio di paglia
nell'angolo più buio del fienile. Isabelle si precipitò da quella parte.

«Marie», mormorò, inginocchiandosi accanto alla paglia.

C'era Jacob invece rannicchiato in quell'angolo, raggomitolato come un riccio.


Aveva gli occhi spalancati ma era come se non la vedesse.

«Jacob! Cos'hai? Avete trovato Marie?» Sulle ginocchia del ragazzo c'era l'abito
nero che Marie indossava sopra la veste azzurra. Isabelle si allungò per prenderlo.
Era bagnato fradicio.

«Da dove viene questo?» domandò mentre lo esaminava.

Era strappato all'altezza del collo e aveva le tasche piene di ciottoli del Birse.

«Dove l'hai trovato?» Jacob fissava le pietre con sguardo assente, senza dire una
parola.

Isabelle lo prese per le spalle e iniziò a scrollarlo.

«Dove l'hai trovato?» gridò. «Dove?»


«L'ha trovato qui», disse una voce dietro di lei. Isabelle si voltò verso Petit
Jean.

«Qui?» ripeté. «E dove?» Petit Jean ruotò il braccio. «Nel fienile. Deve esserselo
tolto prima di scappare nel bosco. Voleva che il diavolo vedesse il suo vestito
nuovo, vero, Jacob?» Stretto fra le braccia di Isabelle, Jacob sussultò.

***

Facendo retromarcia, Lucien accostò il

più possibile il furgòne alla casa.

Fissò un'estremità della corda al gancio posto sotto il paraurti posteriore e la


fece passare dalla finestrella accanto alla porta, dopo aver tolto i vetri rotti
per evitare che sfregandoci contro la corda potesse spezzarsi.

Poi appese il bozzello a una delle travi portanti della casa, infilò la corda nella
puleggia e da lì la fece scorrere fino alla lastra del camino.

Infine attaccò all'estremità libera della corda un triangolo di metallo con due
morsetti.

A quel punto dovemmo scavare lungo uno dei lati della lastra per liberarne la base.
Ci volle un sacco di tempo perché il pavimento in terra battuta era estremamente
compatto. Io lavoravo di taglio con la pala e ogni tanto mi fermavo per asciugare
il sudore che mi colava sugli occhi.

Appena finimmo di scavare, Lucien appoggiò il triangolo di metallo sopra la lastra


con i morsetti che ne serravano il bordo, affondando nel terriccio. Infine con la
pala e uno scalpello togliemmo la terra tutto intorno alla pietra.

Era tutto pronto, ma bisognava decidere chi sarebbe rimasto dentro a controllare il
paranco e chi avrebbe guidato il furgòne. Iniziammo subito a discutere.

«Vedi, non è fissata bene», disse Lucien, guardando inquieto la fune.

«L'angolo non è giusto. La corda sfregherà contro la finestra, laggiù, e contro


quell'arco del camino».

Indicò i due punti illuminandoli con la torcia. «Potrebbe lacerarsi e spezzarsi. E


poi la pressione dei due morsetti non sarà uniforme perché non abbiamo potuto
attaccare il bozzello direttamente sopra la lastra ma di lato, sulla trave. Ho
cercato di compensare il tiro, ma ci sono riuscito solo in parte, perciò è facile
che uno dei due morsetti possa saltare via. E infine c'è la trave.

Ho paura che non sia abbastanza robusta per reggere il peso della lastra. No. E
meglio se resto io a controllare qui dentro».

«No».

«Ella....

«Io rimango qui. Terrò d'occhio la fune, i ganci e le palan».


Il tono della mia voce bastò a convincerlo. Lucien sì avvicinò alla finestrella e
guardò fuori. «Ok», disse sottovoce. «Terrai tu la torcia.

Se la fune dovesse iniziare a sfilacciarsi, o il morsetto scivola via o vuoi che


fermi il furgòne per qualunque motivo, punta la torcia qui». Illuminò lo
specchietto retrovisore sinistro del furgòne, che rifletté la luce verso di noi.
«Quando la pietra si sarà sollevata quanto basta», continuò Lucien, «me lo
segnalerai nello stesso modo e io capirò che devo fermarmi».

Annuìi e presi la torcia dalle sue mani. Poi diressi il fascio di luce verso la
finestra sul retro per consentirgli di uscire, rassegnata a sentire il solito
cigolìo. Mi gettò un'ultima occhiata prima di sparire nell'oscurità. Accennai un
sorriso, ma Lucien non lo ricambiò: sembrava preoccupato.

Andai a mettermi accanto alla finestra, inquieta a mia volta. Se non altro mi era
passata la nausea con tutto quel movimento e, per quanto assurda fosse la
situazione, sentivo che stavo facendo la cosa giusta.

Lucien era il compagno perfetto per quell'impresa: non mi sentivo in obbligo di


spiegargli tutto come sarebbe capitato con Rick o Jean-Paul e d'altro canto era
troppo impegnato a far funzionare la cosa per mettersi a fare domande.

La pioggia era cessata anche se si sentiva sgocciolare ovunque. Il motore del


furgòne si avviò fra scoppiettii e sobbalzi, mentre Lucien accendeva i fari
mandandolo su di giri. Quando si affacciò al finestrino gli feci un cenno con la
mano e, piano piano, il camioncino prese ad avanzare, un centimetro alla volta. La
fune fu prima percorsa da un tremito, dopodiché cominciò a tendersi sempre più. A
un certo punto la puleggia scattò verso di me e la trave scricchiolò di colpo,
sotto la pressione del furgòne. Balzai indietro terrorizzata, convinta che la casa
stesse per crollarmi addosso.

La trave tenne. Allora cominciai a ispezionare con la torcia il percorso della


fune, dal bozzello ai morsetti sulla pietra e poi di nuovo verso la finestra e
fuori sul furgòne.

C'erano un sacco di cose da tenere d'occhio. Feci appello a tutta la mia


concentrazione, tesa come una corda di violino.

Stavo illuminando la lastra da qualche secondo quando all'improvviso uno dei


morsetti iniziò a scivolare lungo il bordo. Diressi subito la torcia sullo
specchietto retrovisore.

Lucien si affrettò a fermare il furgòne, ma nello stesso momento il morsetto saltò


via insieme al supporto di metallo che, dopo aver urtato il camino, schizzò verso
il bozzello andando a sbattere contro la trave.

Strillai e mi appiattii contro la porta. Il pezzo di metallo cadde sferragliando


sul pavimento. Mi stavo sfregando le guance quando Lucien fece capolino dalla
finestra.

«Stai bene?» chiese.

«Sì. E' saltato uno dei morsetti. Ora li rimetto a posto».

«Sei sicura?»

«Certo». Respirai a fondo e andai a raccattare il triangolo di metallo.


«Fammi vedere», disse Lucien. Gli portai l'attrezzo e lui lo esaminò con
attenzione. Per fortuna non aveva subìto danni. Sotto gli occhi attenti di Lucien,
mi avvicinai alla lastra e strinsi di nuovo i morsetti come avevo visto fare a lui.
Poi illuminai tutto con la torcia. Lucien annuì.

«Bene. Credo proprio che possa funzionare», disse e risalì sul furgòne, mentre io
tornavo accanto alla finestra.

***

Accovacciata in mezzo alla paglia,

Isabelle vagava con lo sguardo sulla campagna, oltre il devant-huis.

Pioveva forte e il cielo era già scuro. Presto sarebbe scesa la notte.

Si voltò a osservare i suoi figli.

Petit Jean stava ancora strigliando il cavallo ma ogni tanto si guardava intorno
inquieto. Seduto per terra, Jacob fissava le pietre cadute dal vestito di Marie.

Ne leccò una, poi alzò gli occhi verso la madre.

«Hanno scelto le più brutte», disse sottovoce. «Quelle grigie, senza colore.
Perché?»

«Taci, Jacob!» sibilò Petit Jean.

«Cosa sapete voi due?» gridò Isabelle.

«Cosa mi state nascondendo?»

«Niente, Maman», rispose Petit Jean.

«Marie è scappata, lo sai anche tu.

Vuol tornare al Tarn per incontrare il diavolo. L'ha detto lei».

«No». Isabelle si alzò in piedi. «Non ci credo. Non ci credo!»

***

I morsetti si sfilarono ancora due

volte, ma al terzo tentativo rimasero saldamente fissati alla pietra. Lucien fece
avanzare il furgòne con estrema lentezza, senza strappi, con il motore che urlava
per lo sforzo. Avevo appena puntato la torcia sul bozzello quando sentii quel
rumore, una specie di risucchio, come un piede inghiottito dal fango. Spostai il
fascio di luce e vidi la lastra del focolare sollevarsi a stento dalla terra, due
centimetri, cinque, dieci. Ero come paralizzata.
La trave iniziò a scricchiolare. Corsi ad accucciarmi accanto alla pietra cercando
di illuminare lo spiraglio che si apriva sempre più. Il frastuono era terribile,
fra i gemiti della trave, il motore che girava a mille e il mio cuore che batteva
all'impazzata. Guardai nel buio sotto il focolare.

***

Il tonfo della pietra che colpiva il

terreno li raggelò. Perfino il cavallo smise di muoversi.

Isabelle e Petit Jean andarono verso la porta e Jacob si alzò per seguirli.

Appena Isabelle toccò la porta sentì scorrere il chiavistello ed Etienne comparve


sulla soglia, con la faccia rossa e sudata. Le sorrise.

«Vieni pure, Isabelle».

Sussultò sentendo pronunciare il suo nome ed entrò oltrepassando il marito.

Hannah era inginocchiata a occhi chiusi accanto alla lastra del focolare che
avevano appena finito di deporre. Alcune candele ardevano sopra la pietra.

Gaspard era in piedi in un angolo, a capo chino. Non aveva alzato la testa quando
Isabelle era entrata con i ragazzi. Ho già visto Hannah in quel modo, pensò
Isabelle, sta pregando davanti al focolare.

***

Vidi balenare qualcosa di azzurro, nel

buio, un minuscolo pezzetto di azzurro. La pietra era sollevata di un palmo e io


guardavo là sotto, guardavo e non capivo. Ancora pochi centimetri e vidi i denti e
allora capii. Capii tutto e mi misi a urlare e allo stesso tempo infilai la mano
nella tomba.

Sentii qualcosa, un ossicino. «C'è l'osso di un bambino!» gridai.

«C'è...» Poco più in là le mie dita incontrarono l'azzurro, una lunga striscia di
stoffa avvolta intorno a una ciocca di capelli. Era l'azzurro della Vergine e i
capelli erano rossi, come i miei. Iniziai a piangere.

***

Isabelle fissava il focolare, e la sua

strana posizione nella stanza.


Non ha voluto aspettare, pensò. Non ha voluto aspettare che venissero ad aiutarlo e
ha steso la lastra là dove si trovava.

Una lastra enorme, troppo vicina all'entrata. Erano tutti ammassati lì, fra la
pietra e la porta, lei ed Etienne e Petit Jean e Jacob. Si staccò da loro e iniziò
a girarci intorno.

Poi vide qualcosa di azzurro balenare sul pavimento.

Cadde in ginocchio e allungò la mano.

Era un pezzetto di stoffa azzurra e veniva da sotto la pietra. Tirò e tirò finché
la stoffa non le rimase fra le mani. L'avvicinò a una candela perché tutti
potessero vederla.

***

Vi fu uno schiocco e il rumore della

fune che frustava l'aria: con un forte boato la pietra ricadde al suo posto, mentre
i morsetti andavano a schiantarsi contro la trave.

Riconobbi quel boato, l'avevo già sentito.

***

«No!» gridò Isabelle e si gettò sul

focolare, singhiozzando e picchiando la testa contro la pietra. Poi appoggiò la


fronte sopra la fredda superficie del granito e, premendosi il pezzo di stoffa sul
viso, iniziò a recitare: J'ai mis en toi mon espérance: Garde-moi donc, Seigneur,
D'éternel déshonneur: Octroye-moi ma délivrance, Par ta grande bonté haute, Qui
jamais ne fit faute.

Poi l'azzurro svanì e rimasero solo il rosso e il nero.

***

«No!» gridai e mi gettai sul focolare,

singhiozzando e picchiando la testa contro la pietra. Poi appoggiai la fronte sopra


la fredda superficie del granito e, premendomi il pezzo di stoffa sul viso, iniziai
a recitare: J'ai mis en toi mon espérance: Garde-moi donc, Seigneur, D'éternel
déshonneur: Octroye-moi ma déliverance, Par ta grande bonté haute, Qui jamais ne
fit faute.
Poi l'azzurro svanì e rimasero solo il rosso e il nero.

10 - Il ritorno

Rimasi a lungo in cima ai gradini, prima di decidermi a suonare il campanello.


Posai la borsa da viaggio con accanto la sacca da palestra e mi misi a guardare la
porta. Una porta qualunque, in compensato con lo spioncino all'altezza degli occhi.

Tutto intorno casette basse di recente costruzione, con un po' di verde ma neanche
un albero, giusto qualche evonimo che stentava a crescere.

Insomma, un quartiere non molto diverso dai sobborghi delle città americane.

Dopo aver ripassato mentalmente ciò che intendevo dire, pigiai il campanello. Mi
sudavano le mani e avevo lo stomaco sottosopra. Deglutii e le asciugai sui calzoni.
A un tratto sentii dei piccoli tonfi oltre la porta che subito dopo si spalancò e
una bimbetta bionda comparve sulla soglia.

Un gatto bianco e nero guizzò fra le sue gambe e si fermò sui gradini un attimo
prima di svignarsela, accostando il naso alla mia sacca.

Iniziò ad annusarla e smise solo quando lo allontanai gentilmente con la punta


della scarpa.

La ragazzina indossava dei pantaloncini di un giallo vivo e una maglietta bianca


macchiata di succo di frutta. Mi fissava in equilibrio su un piede solo, appesa
alla maniglia della porta.

«Bonjour, Sylvie. Ti ricordi di me?»

«Com'è che hai la testa viola?» fece lei continuando a fissarmi.

Mi toccai la fronte. «Ho preso una botta».

«Dovresti metterci un cerotto».

«Mi aiuti?» La ragazzina annuì. «Chi è, Sylvie?» domandò una voce da dentro.

«La signora della Bibbia. S'è fatta male alla testa».

«Dille che se ne vada, tanto non compriamo nulla!»

«No, no!» gridò Sylvie. «L'altra signora della Bibbia!» Si sentì uno scalpiccìo
lungo il corridòio e Mathilde comparve alle spalle della figlia in succinti
calzoncini rosa, prendisole bianco e con in mano un pompelmo sbucciato a metà.

«Mon Dieu!» gridò. «Ella, quelle surprise!» Porse il pompelmo a Sylvie, mi attirò a
sé e mi baciò su entrambe le guance. «Perché non mi hai avvertito che saresti
venuta?

Entra, entra!» Non mi mossi. Un tremito mi scuoteva le spalle. Abbassai la testa e


iniziai a piangere.

Senza dire una parola, Mathilde mi cinse la vita con un braccio e prese la borsa.
Quando Sylvie allungò la mano verso la sacca da palestra stavo per urlare: «Non
toccarla!» Invece la lasciai fare e afferrai la mano che mi tendeva. Così entrai in
casa sorretta da madre e figlia.

Non me l'ero sentita di prendere l'aereo. Non mi andava l'idea di stare chiusa là
dentro, ma soprattutto non volevo tornare a casa così in fretta.

Avevo bisogno di più tempo per vivere il cambiamento e l'aeroplano non me l'avrebbe
consentito.

Jacob mi aveva accompagnato in treno fino a Ginevra mettendomi sul bus per
l'aeroporto. A tre isolati dalla stazione ferroviaria però ero andata dall'autista
e gli avevo chiesto di farmi scendere. Poi ero entrata in un bar e, ordinato un
caffè, avevo aspettato una mezz'ora, per avere la certezza che Jacob fosse
ripartito per Moutier. A quel punto ero tornata in stazione e avevo comprato un
biglietto per Tolosa.

Non era stato facile congedarmi da lui e non perché volessi restare. Mi dispiaceva
farmi vedere così impaziente di andarmene.

«Mi rincresce, Ella, che la tua visita a Moutier si sia rivelata così traumatica»,
aveva detto sommessamente nel salutarmi. «Invece di aiutarti ti ha fatto ancora più
male».

Poi aveva gettato un'occhiata al livido sulla mia fronte e subito dopo alla sacca
ai miei piedi. Nonostante le sue riserve, avevo insistito per portarla con me,
sebbene fossi un po' in pensiero per i cani all'aeroporto: un altro buon motivo per
scegliere il treno.

Era stato Lucien a portarmela, il giorno prima, quando l'effetto dei sedativi che
il dottore mi aveva iniettato in vena era finalmente cessato. Mi era comparso
davanti esausto, sporco di terra, la barba di due giorni, e aveva posato la sacca
accanto al letto.

«Questa è per te, Ella. Non aprirla adesso. Lo sai cos'è».

L'avevo guardata ancora un po' inebetita. «Non avrai mica fatto tutto da solo?»

«Un amico mi doveva un favore. Ma non preoccuparti, non lo saprà nessun altro. È
uno che sa tenere la bocca chiusa», aveva detto Lucien. Poi aveva aggiunto a mo' di
spiegazione:

«Abbiamo usato una fune più robusta.

La trave però ha quasi ceduto. Anzi c'è mancato poco che non venisse giù tutta la
casa».

«Magari».

Prima che uscisse m'ero schiarita la voce. «Lucien. Grazie per avermi aiutato.
Grazie di tutto».

Aveva annuito. «Sii felice, Ella».

«Ci proverò».
Mathilde e Sylvie lasciarono i miei bagagli nell'ingresso e mi condussero nel
cortile sul retro: un piccolo prato separato da quelli confinanti da basse
recinzioni con una piscina gonfiabile e disseminato di giocattoli. Mi fecero
stendere su una sedia a sdraio di plastica e, mentre Mathilde rientrava per
prendermi qualcosa da bere, Sylvie si piazzò al mio fianco, fissandomi. A un certo
punto allungò una mano e cominciò a darmi leggerissimi buffetti sulla fronte.

Chiusi gli occhi. Com'era piacevole il tocco leggero della bimba, il calore del
sole su di me.

«E quello cos'è?» chiese Sylvie. Aprii gli occhi. Stava indicando la piaga della
psoriasi sul mio braccio, gonfia e arrossata.

«Una malattia della pelle. Si chiama psoriasi».

«Sau-ria-si», ripeté la ragazzina facendolo sembrare il nome di un dinosauro.


«Dobbiamo mettere un cerotto anche lì, n'est-ce pas?» Sorrisi.

«Allora», fece Mathilde sedendosi sul prato accanto a me, dopo avermi dato un
bicchiere di succo d'arancia e aver spedito Sylvie a indossare il costume da bagno.
«Come hai fatto a conciarti così?» Sospirai, sgomenta all'idea di raccontarle tutta
la storia.

«Sono stata in Svizzera», esordii.

«Dai miei parenti, per mostrare loro la Bibbia».

Il viso di Mathilde si contorse in una smorfia di disgusto. «Bah, gli svizzeri!»


esclamò.

«Volevo cercare una cosa», continuai,

«e...» Uno strillo giunse dall'interno della casa. Mathilde balzò in piedi. «Ah,
avrà trovato le ossa», dissi.

La cosa peggiore era stata lasciare Susanne. Dopo che Lucien se n'era andato, era
venuta in camera mia e si era seduta sul letto. Aveva indicato con un cenno del
capo la sacca da palestra, evitando con cura di guardarla.

«Lucien mi ha raccontato tutto», aveva detto. «Me l'ha fatta vedere».

«Lucien è un brav'uomo».

«Sì. Tu che ne pensi? Perché era lì?» Mi aveva chiesto Susanne guardando fuori
della finestra.

Avevo scosso la testa. «Non lo so.

Forse...» Non avevo portato a termine la frase. Il solo pensiero bastava ad


agitarmi e desideravo che i miei familiari si convincessero che stavo bene, che ero
in grado di mettermi in viaggio.

Susanne mi aveva posato una mano sul braccio. «Scusami, non avrei dovuto parlarne».

«Non devi scusarti». Poi mi ero affrettata a cambiare discorso. «Posso dirti una
cosa in tutta franchezza?» La debolezza mi rendeva sincera.

«Ovviamente».
«Devi lasciare Jan».

Aveva sgranato gli occhi non per la sorpresa ma in segno di approvazione.

Poi eravamo scoppiate a ridere.

Mathilde tornò in cortile tenendo per mano Sylvie che stava piangendo.

«Chiedi subito scusa a Ella per aver frugato tra le sue cose», ordinò Mathilde.

Sylvie mi scrutava con sospetto fra le lacrime. «Scusami», borbottò. «Maman, ora
posso andare a giocare in piscina?»

«Ok».

Sylvie corse verso la vasca, quasi fosse impaziente di allontanarsi da me.

«Scusami», disse Mathilde. «È una bambina curiosa».

«Figurati. Mi dispiace soltanto che si sia spaventata».

«Così sono quelle... era quella la cosa che stavi cercando?»

«Credo che si chiamasse Marie Tournìer».

«Mon Dieu. Allora era una... di famiglia?»

«Sì». Le parlai della fattoria, del vecchio camino, del focolare, dei nomi Marie e
Isabelle. Le raccontai di quell'azzurro, del sogno e del rumore che aveva fatto la
pietra ricadendo sul pavimento. E dei miei capelli che avevano cambiato colore.

Mathilde mi ascoltò senza interrompermi, osservando di tanto in tanto le unghie


rosa shocking e strappandosi le pellicine.

«Che storia!» esclamò alla fine.

«Dovresti scriverla». Rimase in silenzio per un momento, poi passò a un altro


argomento ma s'interruppe subito.

«Cosa volevi dire?» chiesi io.

«Perché sei venuta qui?» mi domandò.

«Ecoute, sono felice di vederti, ma perché non vai a casa? Sconvolta come sei, non
ti farebbe piacere avere accanto tuo marito?» Sospirai. Dovevo ricominciare coi
racconti: ci sarebbero volute ore. La sua domanda però mi fece venire in mente una
cosa. Mi guardai attorno.

«Esiste un... hai un... dov'è il papà di Sylvie?» domandai con qualche imbarazzo.

Mathilde si mise a ridere e agitò la mano. «Chi lo sa? Sono due anni che non lo
vedo. Non gli piacevano i bambini.

E non voleva che tenessi Sylvie, per cui...» Si strinse nelle spalle.

«Tant pis. Ma tu non hai risposto alla mia domanda».

La misi al corrente di tutto, di Rick e della storia con Jean-Paul. Pur non
tralasciando nessun particolare, ci misi meno del previsto.
«Così Rick non sa neppure dove sei?»

«No. Mio cugino voleva avvisarlo per telefono del mio ritorno, ma io l'ho pregato
di non farlo. Gli ho promesso che avrei chiamato Rick dall'aeroporto. Forse me lo
sentivo che non ce l'avrei fatta a tornare a casa».

In effetti, ero partita da Ginevra in stato confusionale, senza pensare a dove


stavo andando. Poi a Montepellier, mentre ero seduta ad aspettare la coincidenza,
avevo sentito annunciare un treno che fermava anche a Mende. L'avevo visto
arrivare, con i passeggèri che scendevano e salivano. Ero rimasta a guardarlo, e
più lo guardavo più la tentazione cresceva, finché non avevo preso i bagagli ed ero
salita a bordo.

«Ella», disse a un tratto Mathilde e io mi voltai verso di lei. Mi ero incantata a


guardare Sylvie che sguazzava nella piccola piscina.

«Bisogna davvero che parli con Rick, n'est-ce pas? Devi dirgli tutto».

«Lo so. Ma non riesco a chiamarlo».

«Ci penso io!» Mathilde balzò in piedi e fece schioccare le dita. «Dammi il
numero». Glielo diedi, sia pur con riluttanza.

«Bene. Ora tienimi d'occhio la bambina. E non venire dentro!» Mi abbandonai sulla
sdraio. Fu un sollievo lasciare a lei quell'incombenza.

Per fortuna i bambini dimenticano in fretta: poco tempo dopo io e Sylvie giocavamo
insieme nella piscina.

Quando rientrammo in casa, Mathilde aveva provveduto a chiudere la mia sacca in un


armadio. Sylvie non parlò più della cosa, mi mostrò tutti i suoi giocattoli e
lasciò che le pettinassi i capelli dividendoli in due folte trecce.

Mathilde non mi disse molto della telefonata. «Domani sera alle Otto», annunciò
enigmatica e mi porse un indirizzo di Mende, proprio come aveva fatto Jean-Paul con
La Taverne.

Cenammo presto perché Sylvie doveva andare a dormire. Sorrisi alla vista del mio
piatto: mi ricordava le cose che mangiavo da bambina, roba semplice e senza tanti
fronzoli. Non c'era pasta condita con salse particolari, olio o erbe aromatiche,
nessun pane sfizioso, nessun audace accostamento di gusti o pietanze. Una bella
braciola di maiale, fagiolini, crocchette di granturco e una baguette: la più
rassicurante normalità.

Morivo di fame, ma quando assaggiai la carne per poco non la sputai: sapeva di
metallo. Provai con i fagiolini e il granturco ma avevano lo stesso sapore. Benché
fossi affamata, qualunque cosa nella mia bocca prendeva subito un sapore
insopportabile.

Non riuscii proprio a nascondere il fastidio, anche perché Sylvie aveva deciso di
mangiare insieme a me: se prendevo un boccone di maiale lo faceva anche lei, se
bevevo alzava subito il bicchiere. Mathilde dal canto suo mangiava di gusto senza
far caso a noi, ma a un certo punto sgridò Sylvie perché ci metteva tanto a finire
la cena.

«Ma Ella mangia così piano!» protestò la ragazzina.

Mathilde diede un'occhiata al mio piatto.


«Scusami», dissi. «Mi sento un po' ridicola ma sento Ovunque un sapore metallico».

«Ah, capitava anche a me quando aspettavo Sylvie! Una cosa orribile.

Ma dura solo qualche settimana. Poi mangerai qualsiasi cosa». Tacque per un
istante. «Oh, ma tu....

«Devono essere le medicine che mi ha dato il dottore», la interruppi. «A volte mi


fanno sentire strani sapori.

Scusami, ma non riesco a mangiare».

Mathilde annuì. Qualche minuto dopo però la sorpresi a scrutarmi con attenzione.

Mi adattai alle loro vite con una facilità sorprendente.

Avevo detto a Mathilde che sarei ripartita il giorno seguente, anche se in realtà
non sapevo proprio dove andare. Lei aveva respinto l'idea con un gesto delle mani.
«No. Tu resti con noi. Mi fa piacere averti qui. Siamo sempre sole io e Sylvie, è
bello avere un po' di compagnia. Sempre che non ti pesi dormire sul divano!» Quando
fu ora di andare a letto, Sylvie volle che le leggessi una storia dopo l'altra,
eccitata dalla presenza in casa di una persona nuova.

La bimba correggeva senza tanti complimenti i miei errori di pronuncia e mi


spiegava il significato di certe frasi che non riuscivo a capire. La mattina dopo
supplicò Mathilde che non la mandasse al campo estivo. «Voglio giocare con Ella!»
gridava. «Ti prego, Maman. Ti prego!» Mathilde si voltò verso di me e io annuìi
senza farmi vedere. «Devi chiederlo a Ella», disse. «Cosa ti fa pensare che voglia
giocare con te tutto il giorno?» Quando Mathilde uscì per andare a lavorare,
urlandoci le ultime raccomandazioni dalla strada, la casa si fece d'un tratto
silenziosa. Io e Sylvie ci guardammo negli occhi.

Sapevo che stavamo pensando tutte e due alla stessa cosa: c'era una sacca piena di
ossa nascosta da qualche parte in quella casa.

«Andiamo a fare una passeggiata», dissi con slancio. «Ci sarà un parco giochi da
queste parti, no?»

«Ok», fece la bambina e corse a prendere tutte le cose di cui aveva bisogno,
infilandole in uno zainetto a forma di orsacchiotto.

Andando verso il parco passammo davanti a una fila di negozi. Mi fermai davanti
alla farmacia.

«Entriamo un attimo qui, Sylvie, devo comprare una cosa». Mi seguì docilmente nel
reparto dei prodotti di bellezza. «Scegli una di queste saponette», le dissi,
«voglio farti un regalìno». Mentre la ragazzina era indaffarata ad aprire le
scatolette annusandole una per una, riuscii a parlare sottovoce con il farmacista.

Sylvie scelse una saponetta alla lavanda. Camminava tenendola in mano per poterne
sentire il profumo, finché non riuscii a convincerla a riporla dentro
l'orsacchiotto.

Appena mettemmo piede nel parco corse dai suoi amichetti e io mi sedetti su una
panchina insieme alle mamme che mi guardavano con diffidenza. Non provai nemmeno a
rivolgere loro la parola, avevo bisogno di riflettere.

Nel pomeriggio rimanemmo a casa.


Mentre Sylvie riempiva la piscina andai in bagno con il mio acquisto.

Poi tornai in cortile e mi sdraiai sul prato a guardare il cielo, con la bambina
che sguazzava nella vasca spruzzando acqua dappertutto.

Dopo un po' venne a sedersi accanto a me. Aveva fra le mani una vecchia Barbie con
un improbabile taglio di capelli. Le parlava e la faceva ballare.

«Ella?» fece a un tratto. Sapevo benissimo dove sarebbe andata a parare. «Dov'è la
borsa delle ossa?»

«Non lo so. Tua madre l'ha messa via».

«Allora è ancora in casa».

«Forse. O forse no».

«Dove potrebbe essere sennò?»

«Magari tua madre l'ha portata con sé, o l'ha data ai vicini».

Sylvie si guardò intorno. «Ai vicini?

E che se ne fanno?» Mossa sbagliata. Cambiai tattica.

«Perché me lo chiedi?» Sylvie abbassò lo sguardo sulla bambola e le tirò i capelli,


stringendosi nelle spalle. «Non lo so», disse sottovoce.

Aspettai un minuto e poi le chiesi:

«Vuoi vederle?»

«Sì».

«Sei sicura?»

«Sì».

«Non è che poi ti metti a strillare o ti agiti?»

«No, se ci sei anche tu».

Andai a prendere la sacca dall'armadio e la portai fuori.

Sylvie era seduta con il mento fra le ginocchia e mi guardava inquieta.

Posai a terra la sacca. «Se vuoi puoi andare in casa. Io sistemo tutto e poi ti
chiamo, che ne dici?» La ragazzina annuì e balzò in piedi.

«Voglio una Coca.

Posso bere una Coca?»

«Sì».

Corse dentro.

Feci un bel respiro e tirai giù la lampo della sacca. Non l'avevo mai aperta.
Dopo aver posato le ossa sul prato andai a cercare Sylvie.

Era seduta davanti al televisore con un bicchiere di Coca Cola.

«Vieni», dissi, porgendole la mano. Ci avviammo insieme verso il cortile. A un


tratto scorse qualcosa nell'erba e si strinse a me.

«Non devi guardare per forza se non ti va. Comunque non ti farà alcun male.

Non è una cosa viva».

«Cos'è?»

«Una bambina».

«Una bambina? Come me?»

«Sì. Le sue ossa e i suoi capelli. E un pezzo di vestito».

Ci avvicinammo. Con mia grande sorpresa, Sylvie lasciò la mia mano e andò ad
accovacciarsi accanto alle piccole ossa. Rimase a guardarle in silenzio per un
pezzo.

«Che bell'azzurro», disse alla fine.

«Cosa ne è stato del resto del vestito?»

«Si è...» putrefatto avrei voluto dire, ma era un'altra parola che non conoscevo.
«E' diventato vecchio e si è distrutto», spiegai goffamente.

«Ha i capelli come i tuoi».

«Sì».

«Da dove viene?»

«Dalla Svizzera. Era sepolta sotto il focolare di un camino».

«Perché?»

«Vuoi dire perché è morta?»

«No. Perché l'hanno sepolta sotto il focolare? Così poteva scaldarsi?»

«Forse».

«Come si chiamava?»

«Marie».

«Dobbiamo seppellirla di nuovo».

«Perché?» Ero curiosa della sua risposta.

«Perché ha bisogno di una casa. Non può rimanere qui per sempre».

«E' vero».
Sylvie si sedette sull'erba e poi si sdraiò accanto alle ossa.

«Adesso dormo», annunciò.

Dovevo dissuaderla, spiegarle che non era il caso, che avrebbe potuto avere degli
incubi, che se Mathilde ci avesse sorprese si sarebbe fatta una pessima idea di me,
della madre che sarei potuta diventare, figuriamoci: una madre che fa dormire sua
figlia accanto a uno scheletro. Invece non dissi una parola e mi sdraiai dall'altro
lato delle ossa.

«Raccontami una storia», ordinò Sylvie.

«Non sono capace di inventare storie».

Sylvie si girò su un fianco. «Tutti gli adulti sono capaci!

Dài, raccontamene una».

«Ok. C'era una volta una ragazzina bionda con un vestito celeste».

«Come me? Una ragazzina come me?»

«Sì».

Sylvie tornò a sdraiarsi con un sorriso soddisfatto e chiuse gli occhi.

«Era una ragazzina coraggiosa. Aveva due fratelli più grandi di lei, una mamma e un
papà, e una nonna».

«E le volevano bene?»

«Tutti, tranne la nonna».

«E perché la nonna non le voleva bene?»

«Non lo so». Mi fermai. Sylvie aprì gli occhi. «Perché era una vecchiaccia
antipatica», mi affrettai ad aggiungere. «Piccola piccola e sempre vestita di nero.
E non parlava mai».

«Come faceva la bambina a sapere che la nonna non le voleva bene se non parlava
mai?»

«La nonna... aveva uno sguardo cattivo e faceva gli occhiacci solo alla bambina.
Per questo lei aveva capito che non le voleva bene. E le cose andavano ancora
peggio quando la bambina indossava il suo vestito preferito, un vestito azzurro».

«Perché? La nonna era invidiosa?»

«Sì. La stoffa era bellissima ma bastava solo per un vestito da bambina. Quando lei
lo indossava sembrava un pezzo di cielo».

«Era un vestito magico?»

«Naturalmente. La proteggeva dalla nonna e anche da altre cose, il fuoco, i lupi e


i bambini cattivi. E con quel vestito addosso non poteva annegare.

Infatti, un giorno la bambina stava giocando accanto al fiume quando ci cadde


dentro. Andò a finire sott'acqua e vedeva i pesci che nuotavano sotto di lei ed era
convinta che sarebbe affogata. Ma ecco che il vestito si gonfiò d'aria e la riportò
a galla e la bambina si salvò. Così ogni volta che si metteva quel vestito sua
madre sapeva che non poteva capitarle niente di male».

Mi voltai verso Sylvie: si era addormentata. Posai lo sguardo sui frammenti di


azzurro stesi fra noi.

«Tranne quella volta», aggiunsi. «E una volta è più che sufficiente».

Sognai di trovarmi in una casa completamente avvolta dalle fiamme.

Schegge di legno cadevano dal soffitto e la cenere volava dappertutto. Poi apparve
una bambina.

Riuscivo a vederla solo con la coda dell'occhio. Se provavo a voltarmi verso di lei
spariva subito. Era circondata da un alone azzurro.

«Ricordati di me», disse.

All'improvviso si trasformò in Jean-Paul. Non si radeva da giorni e aveva un


aspetto trasandato: i capelli lunghi e ricci, il volto, le braccia e la camicia
sporchi di fuliggine.

Allungai una mano per toccarlo e quando la ritirai c'era una cicatrice sul suo
viso, dal naso fino al mento.

«Chi te l'ha fatta quella?» gli domandai.

«La vita», rispose.

Un'ombra passò sulla mia faccia e mi svegliai. Mathilde incombeva su di me,


oscurando il sole del pomeriggio. Ebbi l'impressione che ci stesse osservando già
da un po', le braccia conserte. Mi tirai su. «Scusami», dissi sbattendo le
palpebre. «Tutto questo dovrà sembrarti strano».

Mathilde sbuffò. «Sì, ma sai una cosa, non sono affatto stupita. Ero sicura che
Sylvie avrebbe voluto rivedere quelle ossa. A quanto pare non le fanno più paura».

«No. Ha sorpreso anche me. Era così tranquilla».

Svegliata dalle nostre voci, Sylvie si tirò su, le guance arrossate. Poi si voltò a
guardare le piccole ossa accanto a lei.

«Maman», disse, «la seppelliremo».

«Cosa? Qui in cortile?»

«No. A casa sua».

Mathilde mi guardò.

«Adesso so dov'è», dissi.

Mathilde mi prestò la macchina per andare in centro.

Mi faceva uno strano effetto pensare che ero stata lì solo tre settimane prima.
Quante cose erano successe nel frattempo. Ma provai la stessa sensazione di allora
passando davanti alla cupa cattedrale e camminando per le buie stradine della città
vecchia. Mende non era certo un posto accogliente. Ero felice che Mathilde vivesse
lontano da lì, sia pure in una periferia priva di vegetazione.
L'indirizzo apparteneva alla medesima pizzeria dove avevo già mangiato da sola. Era
vuota quasi come quella volta. Mi sentivo calma quando entrai, ma appena scorsi
Rick seduto in un angolo con un bicchiere di vino davanti e lo sguardo fisso sul
menù, mi venne la nausea. Non lo vedevo da tredici giorni. Tredici lunghissimi
giorni. Appena mi vide entrare si alzò in piedi sorridendo nervosamente.

Indossava gli abiti che metteva di solito per andare al lavoro, una camicia bianca
con le punte abbottonate, un blazer di cotone blu navy e i mocassini. Sembrava
ancora più grande, sano e americano in quell'antro scuro, come una Cadillac che
arranca su per un vicolo.

Ci scambiammo un bacio un po' impacciato.

«Gesù, Ella, cos'è successo alla tua faccia?» Mi toccai il livido sulla fronte.

«Sono caduta», dissi.

«Niente di grave».

Ci sedemmo e Rick mi versò un bicchiere di vino senza darmi il tempo di rifiutarlo.


Lo accostai educatamente alle labbra ma non ne bevvi neanche una goccia. L'odore
del vino mi dava il voltastomaco e posai subito il bicchiere.

Rimanemmo per qualche istante in silenzio e capii che sarebbe toccato a me iniziare
a parlare.

«E così Mathilde ti ha telefonato», dissi con un filo di voce.

«Sì. Dio, come parla in fretta! Però non ho capito perché non mi hai chiamato tu».

Mi strinsi nelle spalle. Sentivo la tensione crescere nello stomaco.

«Ascoltami, Ella. Vorrei dirti un paio di cose, d'accordo?» Annuìi.

«Mi rendo conto che venire a stare in Francia è stato molto più duro per te.

In fondo per me significava semplicemente cambiare studio, fare grosso modo lo


stesso lavoro sia pur con gente diversa. Ma tu, senza amici e senza un lavoro, ti
sei sentita sola e annoiata. Capisco che tu sia stata infelice. E forse ti ho un
po' trascurata per colpa dei miei impegni. Insomma ti annoiavi e di certo le
tentazioni non mancano neppure in una cittadina di provincia come Lisle».

Gettò un'occhiata alla psoriasi sulle mie braccia e per un attimo mi parve confuso.

«Così pensavo», disse, riprendendo il filo del discorso, «che dovremmo ricominciare
tutto da capo».

Fu interrotto dal cameriere venuto a prendere l'ordinazione. Ero così nervosa che
non me la sentivo di mangiare ma, per salvare le apparenze, ordinai la più semplice
delle loro pizze. Il locale era caldo e afoso e avevo la fronte e le mani madide di
sudore. Tremando un poco, presi un sorso d'acqua.

«Ed ecco che si presenta l'occasione», continuò Rick.

«Sai che ero stato a Francoforte per discutere di quel progetto per un nuovo
insediamento abitativo?» Annuìi.

«Mi hanno chiesto di sovrintendere ai lavori che saranno portati avanti dal nostro
studio insieme all'impresa tedesca». Si fermò, guardandomi fiducioso.

«Be', complimenti, Rick. È un'ottima cosa per te».

«Capisci? Potremmo andare in Germania.

Sarebbe l'occasione per ricominciare!»

«Lasciare la Francia?» Il mio tono lo sorprese. «Ella, da quando siamo qui non hai
fatto che lamentarti di questa nazione. Che la gente non è amichevole, che non
riesci a legare con nessuno, che ti trattano come un estranea, che sono troppo
formali. Perché vuoi restarci allora?»

«È casa mia», dissi con voce flebile.

«Senti, mi sto sforzando di essere ragionevole ed è una cosa che di solito mi


riesce bene.

Sono disposto a perdonarti e a dimenticare questa cosa con... tu sai chi. Ti chiedo
solo di stare lontana da lui. E' forse una richiesta irragionevole?»

«No, direi di no».

«Bene». All'improvviso la benevolenza era scomparsa dal suo volto. «Quindi ammetti
che c'è stato qualcosa fra voi?» Sentii lo stomaco rivoltarsi mentre gocce di
sudore mi imperlavano il labbro superiore. Mi alzai di scatto.

«Devo trovare un bagno. Torno subito».

Mi allontanai dal tavolo con calma ma appena mi fui chiusa la porta del gabinetto
alle spalle vomitai l'anima.

Conati interminabili che mi scuotevano da capo a piedi, lasciandomi senza fiato. Da


quanto tempo aspettavo di farlo! Era come se stessi rigettando tutto quello che
avevo mangiato in Francia e in Svizzera.

Alla fine mi sentii come svuotata. Mi sedetti sui calcagni appoggiandomi alla
parete dello stanzìno, la lampadina appesa al soffitto che m'illuminava come un
riflettore. Tutta la mia tensione era finita nel cesso.

Per quanto esausta, ero in grado di pensare lucidamente per la prima volta da
parecchi giorni. Iniziai a ridacchiare.

«La Germania. Ma per favore», mormorai.

Quando tornai in sala le pizze erano arrivate. Presi la mia e la posai sul tavolo
vuoto accanto al nostro, dopodiché mi sedetti.

«Ti senti bene?» mi chiese Rick, marcando appena le sopracciglia.

«Sì!» Mi schiarii la voce. «Devo dirti una cosa, Rick».

Mi guardò con apprensione, sforzandosi invano di leggere nella mia mente.

«Sono incinta».

Fece un balzo sulla sedia. I pensieri più diversi cominciarono a passare sul suo
viso. Sembrava un televisore quando si cambia continuamente canale.
«Ma è meraviglioso! È quello che desideravi, no? Solo che...» A un tratto sul suo
volto si dipinse un dubbio così lacerante che per poco non allungai un braccio per
prendere la sua mano. Mi venne anche in mente che avrei potuto mentire e ogni cosa
sarebbe andata a posto: la via d'uscita che stavo cercando. Ma non sono mai stata
brava a mentire.

«E' tuo», dissi alla fine. «Deve essere successo poco prima che ricominciassimo a
usare i preservativi».

Rick questa volta saltò su dalla sedia e corse ad abbracciarmi.

«Champagne!» urlò. «Qui ci vuole lo champagne!» Si guardò intorno in cerca del


cameriere.

«No, no», dissi. «Ti prego. Non mi sento bene».

«Oh, giusto. Ascolta, ora ti porto a casa. Dài, andiamo.

Hai portato tutto con te?»

«No, Rick. Siediti, per favore».

Si sedette e il dubbio s'impadronì nuovamente del suo viso. Respirai a fondo.

«Non voglio tornare a casa con te».

«Ma... allora a che è servito tutto questo?»

«Cosa?»

«La cena. Pensavo che saremmo tornati a casa insieme.

Ho la macchina qui fuori».

«È stata Mathilde a dirtelo?»

«No, ma io credevo che...»

«Be', non avresti dovuto».

«Ma ora aspetti un bambino!»

«Lasciamo il bambino fuori da questa cosa».

«Non possiamo lasciarlo fuori. È già qui, o no?» Sospirai. «Già, immagino di sì».

Rick buttò giù l'ultimo sorso di vino e posò bruscamente il bicchiere sul tavolo.
«Stai a sentire, Ella, mi devi spiegare una cosa. Non mi hai nemmeno detto cosa sei
andata a fare in Svizzera. Ho fatto qualcosa che non va? Perché ti comporti in
questo modo con me? Sembri dare per scontato che la nostra storia abbia dei
problemi. Per me è una novità. Se c'è qualcuno che dovrebbe essere sconvolto,
quello sono io. Sei tu quella che si fa gli affari suoi».

Avrei voluto dirglielo in modo gentile ma non trovavo le parole. Rick sembrò
intuirlo. «Parla», disse. «Non girarci intorno».

«E' successo da quando ci siamo trasferiti qui. Ora mi sento diversa».

«In che senso?»


«E' difficile da spiegare». Riflettèi un momento. «Sai quando compri un disco e per
un po' ti piace da impazzire, non fai che ascoltarlo e impari a memoria tutte le
canzoni?

Sei convinto che quel disco sia perfetto per te, una cosa speciale.

Prova a pensare al primo disco che hai comprato quando eri ragazzino».

«Surf's up, dei Beach Boys».

«Benissimo. Poi un giorno smetti di ascoltarlo: così senza un motivo. Non è una
decisione consapevole. È solo che all'improvviso non hai più bisogno di sentirlo.
Non ha più lo stesso potere su di te. Le canzoni sono sempre ottime canzoni, ma
hanno perduto la loro magia. Ecco, è una cosa del genere».

«Non mi succederà mai con i Beach Boys. Mi vengono i brividi ogni volta che li
sento».

Picchiai i palmi delle mani sul tavolo. «Dannazione! Perché fai così?» I pochi
clienti del ristorante si voltarono verso di noi.

«Così come?» sibilò Rick. «Cos'è che faccio?»

«Non mi ascolti. Prendi le mie metafore e le distruggi.

Non vuoi capire quel che sto cercando di dirti».

«Cos'è che stai cercando di dirmi?»

«Non ti amo più! Ecco cosa sto cercando di dirti, ma tu non mi ascolti!»

«Ah». Si lasciò andare contro la sedia. «E perché non me l'hai detto subito, invece
di tirare in ballo i Beach Boys?»

«Volevo spiegartelo con una metafora, per rendere la cosa più facile. Ma tu insisti
a guardare le cose dal tuo punto di vista».

«E da quale punto di vista dovrei guardarle?»

«Dal mio punto di vista! Il mio!» esclamai picchiandomi il petto con le nocche.
«Hai mai provato a guardare le cose con i miei occhi? Sei sempre così carino e
riesci ad andare d'accordo con tutti, ma sempre a modo tuo. Fai sempre in modo che
gli altri vedano le cose dal tuo punto di vista».

«Ella, vuoi sapere cosa vedo dal tuo punto di vista? Vedo una donna smarrita, alla
deriva, una donna che non sa più quello che vuole e allora per tenere occupata la
mente sì aggrappa all'idea di fare un bambino.

E siccome s'è stufata del marito si scopa il primo che si fa avanti».

A quel punto Rick tacque e distolse lo sguardo, a disagio. Capiva di aver


esagerato. Non l'avevo mai sentito parlare con tanta schiettezza.

«Vedi, Rick», dissi con voce gentile,

«quello non è il mio punto di vista. E' solo e solamente il tuo». Iniziai a
piangere per il sollievo e per mille altri motivi.
Il cameriere si avvicinò senza fiatare, portò via le nostre pizze ancora intatte e
lasciò il conto sul tavolo, anche se nessuno glielo aveva chiesto. Non lo degnammo
di uno sguardo.

«Questo... cambiamento è una cosa temporanea o definitiva?» chiese Rick quando


smisi di piangere.

«Non lo so».

Tentò di nuovo. «Questa cosa del disco, di cui parlavi.

Non è che potrebbe succedere di nuovo?

Voglio dire... magari a volte un disco torna a piacerti?» Ci pensai un po' su. «A
volte». Ma non dura mai a lungo, aggiunsi fra me. Un sentimento perduto non
ritorna.

«Quindi la situazione potrebbe cambiare».

«Rick, l'unica cosa che so in questo momento è che non posso più stare con te». I
miei occhi tornarono a riempirsi di lacrime. «Tu non sai quello che mi è successo
in Svizzera.

E in Francia. Quello che ho scoperto sui Tournier. È una storia vera.

Una storia che andrebbe raccontata.

Basterebbe riempire gli spazi vuoti qua e là. Vedi, Rick, è come se per me fosse
iniziata una nuova vita, e tu non ne sai niente».

Rick si strinse il dorso del naso fra pollice e indice. «Scrivila», disse poi. Il
suo sguardo tornò a posarsi sulle chiazze della psoriasi. «Ora però devo andare. Fa
troppo caldo in questo posto».

Quando tornai a casa trovai Mathilde ancora alzata.

Seduta in soggiorno stava leggendo una rivista, le gambe appoggiate sul tavolino di
vetro davanti al divano.

Mi rivolse subito uno sguardo pieno di domande. Io mi lasciai cadere sul divano,
fissando il soffitto.

«Rick vuole trasferirsi in Germania», annunciai.

«Vraiment? Così su due piedi?»

«Sì. Ma io non ci vado».

«In Germania?» Fece una smorfia.

«Certo che no!» Sbuffai. «Dimmi, c'è qualche posto che ti piace, a parte la
Francia?»

«L'America».

«Ma se non ci sei mai stata!»

«Sì, però sono sicura che mi piacerebbe un sacco».


«È difficile per me pensare di tornarci. Credo che non mi sentirei più a mio agio
in California».

«Ma è lì che vuoi tornare?»

«Non lo so. Ma di sicuro non andrò in Germania».

«Hai detto a Rick che sei incinta?» Mi tirai su di scatto. «E tu come fai a
saperlo?»

«È evidente! Sei sempre stanca, non ti va di mangiare, ma quando mangi, mangi per
due. E a volte diventi silenziosa e sembra che tu stia ascoltando una voce dentro
di te.

Succedeva anche a me quando aspettavo Sylvie. Allora, chi è il padre?»

«Rick».

«Sei sicura?»

«Sì. Ci avevamo provato per un po'. A quanto pare ci siamo riusciti. Ora che ci
penso, era già da qualche settimana che avevo i sintomi».

«E Jean-Paul?» Mi chinai in avanti tuffando la faccia in un cuscino.

«Jean-Paul cosa?»

«Pensi di rivederlo? Non vuoi parlare con lui?»

«Ho forse qualcosa di bello da dirgli?»

«Mais... di sicuro gli farebbe piacere sentirti, anche se le notizie non sono
buone. Non sei stata molto carina con lui».

«Oh, non lo so. Credevo di avergli fatto un favore evitando di chiamarlo».

Con mio grande sollievo, Mathilde cambiò discorso.

«Mercoledì prossimo non lavoro», disse. «Se vuoi possiamo andare a Le Pont de
Montvert. Sylvie verrà con noi. Le piace da matti quel paesino.

Pensa che bello, potrai perfino rivedere Monsieur Jourdain!»

«Non vedo l'ora».

Mathilde lanciò uno dei suoi gridolini e scoppiammo a ridere.

Quel mercoledì mattina Sylvie volle a tutti i costi aiutarmi a scegliere il


vestito. Entrò nel bagno mentre mi cambiavo - maglietta color avena e pantaloncini
bianchi - e si appoggiò al lavandino, osservandomi con attenzione.

«Perché ti vesti sempre di bianco?» mi chiese.

Oh Dio, ci risiamo, pensai. «Questa maglietta non è bianca», ribattèi.

«E'... color cereale». Non sapevo come si dicesse avena in francese.

«No, non è vero. I miei cornflakes sono arancioni!» Ne avevo mangiato tre scodelle
poco prima e avevo ancora fame.
«Alors, cosa dovrei mettermi, secondo te?» Sylvie batté le mani e corse in
soggiorno a frugare nella mia borsa da viaggio. «Ci sono solo cose bianche e
marroni qui dentro!» esclamò poi delusa. Quando vide la camicia celeste di Jean-
Paul la tirò subito fuori. «A parte questa.

Mettila», ordinò. «Com'è che non te la metti mai?» Jacob aveva lavato la camicia e
la macchia di sangue era scomparsa quasi del tutto. Era rimasto solo il contorno
rossiccio e un po' sbiadito sul di dietro, ma ero convinta che fosse impossibile
notarlo a meno di andarlo a cercare. Mathilde invece lo vide subito. Quando colsi
il suo sguardo accigliato girai il collo, tentando di guardarmi la schiena.

«E' meglio che tu non sappia», dissi.

Scoppiò a ridere. «Una vita piena d'avventura, eh?»

«Una volta non era così, te lo giuro!» Mathilde gettò un'occhiata all'orologio.
«Andiamo, Monsieur Jourdain ci starà già aspettando», disse. Poi aprì l'armadio
nell'ingresso, prese la sacca da palestra e me la porse.

«Ma allora l'hai chiamato davvero?»

«Senti, Ella, è un brav'uomo. Pieno di buone intenzioni.

E ora che ha scoperto che la tua famiglia era di queste parti, ti tratterà come una
nipote, vedrai!»

«Monsieur Jourdain è quello che mi ha chiamato Mademoiselle? Quello con i capelli


neri?» domandò Sylvie.

«No, quello era Jean-Paul. Monsieur Jourdain era l'uomo anziano che è caduto dallo
sgabello. Ti ricordi?»

«A me piace Jean-Paul. Ci sarà anche lui?» Mathilde si voltò verso di me


sorridendo. «Guarda, questa è sua», disse tirando uno dei lembi della camicia.

Sylvie mi guardò. «E allora perché ce l'hai tu?» Arrossii e Mathilde scoppiò a


ridere.

Era una bella giornata. A Mende faceva piuttosto caldo ma più salivamo verso i
monti più l'aria si faceva limpida e fresca. Cantammo per tutto il viaggio, con
Sylvie che mi insegnava le canzoni imparate al campo estivo. Tanta allegria suonava
strana considerando che andavamo a seppellire delle ossa, ma non inopportuna. In
fondo stavamo riportando Marie a casa.

Appena ci fermammo davanti alla mairie di Le Pont de Montvert Monsieur Jourdain


comparve sulla soglia.

Strinse le mani a tutte noi, compresa Sylvie. Trattenne la mia un po' più del
dovuto, mormorando:

«Madame», con un sorrisetto.

Quell'uomo mi metteva sempre a disagio e forse ne era consapevole perché il suo


sorriso aveva un che di forzato, come un bambino che vuole sembrare adulto.

«Andiamo a bere un caffè», si affrettò a dire e ci spinse verso il bar. Ordinammo


tre caffè e un'Orangina per Sylvie, che però si alzò dal tavolino appena ebbe
scoperto il gatto del barista. Io, Mathilde e il vecchio funzionario rimanemmo
seduti in un silenzio pieno d'imbarazzo finché Mathilde non diede una manata sul
tavolino, esclamando: «La mappa! Vado a prenderla in macchina. Così ti facciamo
vedere dove dobbiamo andare».

Dopodiché si alzò e uscì dal bar lasciandoci soli.

Monsieur Jourdain si schiarì la voce e per un attimo pensai che stesse per sputare.
«Ascolti», esordì. «Ricorda che le avevo promesso che avrei fatto qualche ricerca
sui nomi elencati nella sua Bibbia?»

«Sì».

«Alors, ho trovato qualcuno».

«Uno dei Tournier?»

«No, non un Tournier. Si chiama Elisabeth Moulinier. E la nipote di un uomo che


viveva a l'Hòpital, un paese qui vicino. La Bibbia era di suo nonno. L'ha portata
in municipio quando lui è morto».

«Lei conosceva quell'uomo?» Monsieur Jourdain serrò le labbra.

«No».

«Ma... credevo che lei conoscesse tutti da queste parti.

Mathilde me l'aveva assicurato».

Il vecchio inarcò le sopracciglia.

«Era cattolico», disse fra i denti.

«Ma per l'amor di Dio!» sbottai.

Monsieur Jourdain parve imbarazzato ma non per questo disposto a venir meno ai suoi
principi.

«Non importa», mormorai, scuotendo la testa.

«In ogni caso, ho detto a Elisabeth che oggi sarebbe venuta in paese.

Vuole conoscerla».

«E...» Cosa vorresti dire, Ella?

pensai. E' stupendo? Cosa c'entra adesso quest'altra famiglia?

«La ringrazio», dissi alla fine. «È stato gentile a organizzare l'incontro».

Mathilde intanto tornò con la cartina e la stese sul tavolino.

«La Baume du Monsieur è solo una collina», spiegò Monsieur Jourdain.

«Però ci sono i resti di un'antica fattoria, qui, vedete?» Indicò un minuscolo


simbolo sulla mappa.

«Andate pure, vi raggiungerò fra un paio d'ore con Madame Moulinier».

Quando vidi la macchina scassata e piena di polvere ferma sul ciglio della strada,
ebbi un tuffo al cuore.

Mathilde, pensai. Le piace proprio telefonare. Mi voltai a guardarla.

Parcheggiò proprio dietro la Deux Chevaux cercando di apparire innocente ma non mi


sfuggì il sorrisetto compiaciuto che le era spuntato sulle labbra. Si girò verso di
me stringendosi nelle spalle.

«Perché non vai avanti?» disse.

«Sylvie e io andiamo a dare un'occhiata al fiume, che ne dici, Sylvie? Ti


raggiungiamo dopo. Ora va'».

Dopo un attimo di esitazione, presi la sacca, la pala e la cartina, avviandomi per


il sentiero. Fatti pochi passi mi voltai. «Grazie», dissi.

Mathilde sorrise e con la mano mi fece segno di proseguire. «Vas-y, chérie».

Era seduto di spalle su ciò che restava di un comignolo e fumava una sigaretta.
Aveva addosso la camicia color salmone e il sole giocava fra i suoi capelli. Era
proprio lui, in pace con se stesso e con il mondo che gli stava intorno. Mi faceva
quasi male guardarlo. Fui subito assalita da un irresistibile desiderio di lui, del
suo odore, della sua pelle calda.

Quando mi vide, gettò via la sigaretta ma rimase seduto.

Io posai la sacca e la pala. Avrei voluto abbracciarlo, affondare il naso nel suo
collo, dando sfogo alle lacrime. Ma non potevo. Non prima di averglielo detto.
Dovevo fare uno sforzo quasi intollerabile per non toccarlo ed ero così turbata che
non capii le prime parole che mi disse.

Fui costretta a chiedergli di ripeterle.

Non le ripeté. Si limitò a guardarmi in silenzio, scrutandomi in viso. Si sforzava


di rimanere impassibile ma capii che anche lui stava lottando con se stesso.

«Mi dispiace tanto, Jean-Paul», mormorai in francese.

«Perché? Per che cosa?»

«Oh». Intrecciai le mani dietro al collo. «Ho tante cose da dirti che non so da che
parte cominciare». Un fremito mi attraversò la mandibola e per evitare di mettermi
a tremare premetti i gomiti contro il petto.

Jean-Paul allungò una mano e mi sfiorò la fronte.

«E questo chi te l'ha fatto?» Sorrisi mestamente. «La vita».

«E allora raccontami», disse. «Cos'è quella roba». Indicò la sacca con un cenno del
capo. «Dimmelo in inglese.

Se ti aiuta, usa la tua lingua. Io parlo in francese quando è necessario».

Non ci avevo mai pensato ma aveva ragione: non ce l'avrei mai fatta a dire quel che
dovevo dire in francese.

«La sacca è piena di ossa», spiegai, incrociando le braccia e spostando il peso del
corpo da una gamba all'altra.
«Le ossa di una bambina. Si capisce dalle dimensioni e dalla forma. Ci sono anche
brandelli di quello che doveva essere un vestito. E anche ciuffi di capelli. Li ho
trovati sotto la pietra di un focolare in una fattoria che a quanto pare
apparteneva ai miei antenàti. In Svizzera. Credo siano i resti di Marie Tournier».

Interruppi la mia spiegazione smozzicata in attesa delle sue obiezioni. Siccome non
ne avanzava, provai a rispondere a quelle domande inespresse. «Nella mia famiglia i
nomi sono sempre passati da una generazione all'altra. Ci sono ancora oggi dei
Jacob e dei Jean, e Hannah e Susanne.

E' forse un modo per conservare la memoria degli avi. Comunque i nomi originali
sono tutti sopravvissuti, eccetto Marie e Isabelle. Ora tu forse penserai che sto
lavorando troppo di fantasia, ma credo che sia stato a causa di qualche colpa di
cui una Marie e un'Isabelle dovettero macchiarsi, così dopo la morte furono
dimenticate da tutti. E la famiglia abbandonò per sempre i loro nomi».

Jean-Paul si accese una sigaretta e aspirò a fondo.

«Ci sono altre cose, il genere di prove che a te non vanno a genio. Ad esempio i
suoi capelli: i capelli che sono in quella borsa sono dello stesso colore dei miei.
Il colore che hanno preso quando sono venuta a vivere qui.

E quando la pietra del camino che stavamo sollevando è ricaduta, ha fatto lo stesso
rumore che sentivo nel mio incubo: un cupo rimbombo. Ma soprattutto l'azzurro. I
pezzi di stoffa che ho trovato là sotto sono di un azzurro identico a quello che
sognavo. L'azzurro della Vergine».

«L'azzurro di Nicolas Tournier», disse Jean-Paul.

«Sì. Tu dirai che sono semplici coincidenze. So cosa pensi al riguardo. Ma, vedi,
qui ce ne sono troppe. Almeno per me».

Jean-Paul si alzò e si sgranchì le gambe, dopodiché si mise a camminare a grandi


passi fra le rovine, girando tutto intorno alla fattoria.

«Questa è la Mas de La Baume du Monsieur, giusto?» chiese una volta tornato vicino
a me. «La località che avevamo scoperto nella tua Bibbia?» Annuìi. «E qui che
seppelliremo le ossa».

«Posso vederle?» chiese Jean-Paul indicando la sacca.

«Sì». Gli era venuta un'idea: ormai lo conoscevo abbastanza bene da capirlo.

Mi sentii stranamente tranquilla. Il mio stomaco, in subbuglio da quando avevo


visto la Deux Chevaux, finalmente si acquietò e iniziò subito a chiedere cibo. Mi
sedetti su una roccia. Jean-Paul si inginocchiò e aprì la sacca spargendone il
contenuto per terra, poi rimase a lungo a guardarlo, toccando i capelli, palpando
la stoffa azzurra con le dita. A un certo punto si voltò verso di me e mi squadrò
da capo a piedi.

Ricordai che avevo addosso la sua camicia. L'azzurro e il rosso.

«Non l'ho fatto apposta, davvero», dissi. «Non sapevo che ti avrei incontrato.
Sylvie ha voluto a tutti i costi che la mettessi. Dice che non mi metto mai niente
di colorato».

Sorrise.

«Ehi, a proposito, lo sapevi che Goethe ha trascorso una notte a Moutier?» Jean-
Paul sbuffò. «Non è una gran scoperta. Goethe ha dormito dappertutto».

«Suppongo che tu abbia letto tutto di Goethe, vero?»

«Com'è che avevi detto quella volta? E mi vai a tirare in ballo Goethe in un
momento come questo?» Sorrisi. «Touché. Comunque, scusami se te l'ho portata via.
Fra l'altro mi si è... ha avuto un piccolo incidente».

Jean-Paul guardò la camicia con attenzione. «A me sembra a posto».

«Perché non hai visto il dietro.

Lasciamo perdere. Quella, è un'altra storia».

Jean-Paul chiuse la cerniera della sacca.

«Mi è venuta un'idea», disse. «Ma temo che potrebbe turbarti».

«Più turbata di così? E' impossibile!»

«Voglio scavare qui. Sotto il comignolo».

«Perché?»

«Ho una mia teoria». Si accovacciò presso ciò che restava del focolare.

Ben poco in realtà, una grossa lastra di granito, simile a quella di Moutier, però
spezzata nel mezzo e tutta sgretolata.

«Guarda che non intendo seppellirla qui, se è questo che ti sei messo in testa»,
dissi. «E' l'ultimo posto dove la metterei».

«No, ovviamente no. Volevo solo cercare una cosa».

Restai per un po' a guardarlo mentre spostava le pietre, poi mi inginocchiai e


cominciai ad aiutarlo, evitando di fare sforzi eccessivi con i muscoli dell'addòme.
A un certo punto gli cadde lo sguardo sul dietro della camicia e allungò la mano
seguendo il profilo della macchia con la punta del dito. Rimasi carponi e mi venne
di colpo la pelle d'oca sulle braccia e sulle gambe. Jean-Paul risalì col dito
sulla mia nuca, sulla testa e allargò la mano passandola fra i miei capelli come un
pettine.

All'improvviso si fermò. «Non vuoi che ti tocchi», disse, un'affermazione più che
una domanda.

«Sarai tu a non volermi toccare quando saprai come stanno le cose. Non ti ho ancora
raccontato tutto».

Jean-Paul lasciò cadere la mano e impugnò la pala. «Me lo racconterai dopo», disse
e cominciò a scavare.

Non fui troppo sorpresa quando trovò quei denti. Me li porse in silenzio.

Li presi, aprii la sacca e li confrontai con gli altri. Avevano grosso modo la
stessa grandezza: denti di bambino. Li sentivo ancora aguzzi nella mano.

«Perché?» dissi.

«In certe culture vi è l'usanza di seppellire oggetti nelle fondamenta delle case.
Corpi di animali, a volte zoccoli.

Talvolta, anche se più di rado, resti umani. Si credeva che in tal modo le anime
sarebbero rimaste per sempre a proteggere la casa dagli spiriti maligni».

Seguì un lungo silenzio.

«Sacrifici, stai parlando di sacrifici. Questi bambini sono stati sacrificati?»

«E' probabile. Non può essere una coincidenza il fatto che abbiamo trovato piccole
ossa sotto i focolari di entrambe le case».

«Ma... erano cristiani. Gente timorata di Dio, non superstiziosa!»

«La religione non è mai riuscita a cancellare del tutto la superstizione.

Vedi, il cristianesimo si è semplicemente sovrapposto a credenze assai più antiche:


le ha coperte ma non sono mai scomparse del tutto».

Guardai le mandibole che avevo fra le mani e rabbrividii. «Gesù. Che famiglia. E io
sono una di loro. Una Tournier». Cominciai a tremare.

«Ella. Tu sei lontanissima da tutto questo», disse JeanPaul con dolcezza.

«Tu appartieni al ventesimo secolo.

Non sei responsabile delle loro azioni. E ricorda che discendi dalla famiglia di
tua madre, oltre che da quella di tuo padre».

«Però sono sempre una Tournier».

«Sì. Ma non per questo devi pagare per i loro peccati».

Lo fissai. «E' la prima volta che ti sento dire quella parola».

Si strinse nelle spalle. «In fondo, ho ricevuto un'educazione cattolica. Ci sono


cose che è impossibile cancellare del tutto».

Sylvie comparve in lontananza, correndo a zigzag lungo il sentiero, distratta forse


dai fiori o dai conìgli selvatici.

Svolazzava qua e là come una farfallina gialla. Appena ci vide però si precipitò
verso di noi.

«Jean-Paul!» gridò, e corse a mettersi accanto a lui.

Jean-Paul si accucciò davanti alla bambina: «Bonjour, Mademoiselle».

Sylvie iniziò a ridacchiare, dandogli grandi pacche sulle spalle.

«Vedo che voi due avete già cominciato a scavare», esclamò Mathilde, avanzando fra
le rocce con i suoi sandaletti rosa. «Salut, Jean-Paul» disse tutta sorridente,
agitando un paniere giallo. Le sorrisi. Pensai che se avessi avuto un briciolo di
buon senso mi sarei dovuta fare da parte, lasciandoli da soli. Mathilde avrebbe
potuto divertirsi un po' e Sylvie avrebbe finalmente avuto un padre.

Sarebbe stato il mio sacrificio, una sorta di espiazione per i peccati della mia
famiglia.
Feci un passo indietro. «Vado a cercare un posto per seppellire le ossa»,
annunciai. Poi aggiunsi allungando una mano: «Sylvie, vuoi venire con me?»

«No», disse Sylvie. «Voglio restare qui con Jean-Paul».

«Ma... forse tua madre preferisce rimanere sola con lui».

Capii all'istante di aver fatto un errore. Mathilde partì con la sua risata
stridula.

«Ella, a volte sei proprio stupida!» Jean-Paul non disse nulla. Tirò fuori una
sigaretta dal pacchetto e se l'accese, con un sorriso compiaciuto sul volto.

«Sì, sono stupida», borbottai in inglese. «Molto stupida».

Scegliemmo il posto di comune accordo: una radura erbosa nei pressi di una roccia a
forma di fungo non lontana dai ruderi. Grazie a quella strana roccia sarebbe sempre
stato facile ritrovare la tomba.

Jean-Paul iniziò a scavare mentre noi, sedute lì accanto, mangiavamo le cose


portate da Mathilde. Poi presi io la pala e dopo un po' la passai alla mia amica.
Alla fine la buca era bella larga e profonda più di mezzo metro.

Cominciai a deporvi le ossa. C'era posto per due e, anche se Jean-Paul aveva
trovato solamente i denti fra le rovine della casa, li sistemai accanto a Marie
come se sotto ci fosse il resto dello scheletro. Gli altri rimasero a guardarmi ma
mi accorsi che Sylvie bisbigliava qualcosa all'orecchio della madre. Quando ebbi
finito presi un pezzetto di quella veste azzurra e me lo infilai in tasca.

Mentre mi alzavo Sylvie si avvicinò.

«Maman dice che devo chiederlo a te», fece la bambina. «Posso mettere una cosa
accanto a Marie?»

«Che cosa?» Sylvie tirò fuori la saponetta alla lavanda.

«Sì», dissi. «Prima però toglila dalla scatola. Vuoi che ce la metta io?»

«No. Voglio farlo da sola». Si sdraiò accanto alla fossa e lasciò cadere la
saponetta sul terriccio. Poi si rialzò pulendosi con la mano.

A quel punto non sapevo più cosa fare.

Sentivo di dover dire qualcosa, ma che cosa? Mi voltai verso Jean-Paul e vidi con
stupore che aveva chinato la testa e stava muovendo le labbra, a occhi chiusi.

Mathilde faceva lo stesso e anche Sylvie li stava imitando.

Alzai gli occhi al cielo e vidi un uccello che volteggiava in alto sopra di noi,
sbattendo le ali.

Jean-Paul e Mathilde fecero il segno della croce e aprirono gli occhi nello stesso
momento. «Guardate», dissi, sollevando il braccio. L'uccello era sparito.

«Io l'ho visto», esclamò Sylvie. «Non ti preoccupare Ella, l'ho visto anch'io
l'uccello rosso».

Riempimmo la buca e, per impedire agli animali di portare via le ossa, la


ricoprimmo di piccole pietre, formando una specie di piramide alta circa mezzo
metro.

Avevamo appena finito quando udimmo un fischio e ci guardammo intorno.

Monsieur Jourdain era comparso fra le rovine della casa insieme a una giovane
donna. Anche da lontano si vedeva benissimo che la ragazza era all'ottavo mese di
gravidanza.

Mathilde si voltò subito verso di me sorridendo e Jean-Paul, che si era accorto del
nostro sguardo d'intesa, rimase a fissarci perplesso.

Oh, Dio, pensai. Non gliel'ho ancora detto. Sentii lo stomaco contrarsi.

Quando il vecchio e la donna si avvicinarono fui io a rimanere di sasso e anche la


nuova arrivata ebbe un sussulto.

«Mon Dieu!» sussurrò Mathilde.

Sylvie cominciò a battere le mani.

«Ella, non ci avevi detto che veniva anche tua sorella!» Ci ritrovammo una di
fronte all'altra: avevamo gli stessi capelli, la stessa faccia, gli stessi occhi
castani. Ci abbracciammo, baciandoci sulle guance: una, due, tre volte.

La giovane donna scoppiò a ridere.

«Voi Tournier, con questo vizio di baciare tre volte, come se due non bastassero!»
Verso sera decidemmo che era venuto il momento di scendere dalla montagna.

Avremmo bevuto qualcosa insieme e poi ognuno sarebbe andato per la sua strada:
Mathilde e Sylvie a Mende, Elisabeth a casa sua vicino ad Alès, Monsieur Jourdain
nel suo appartamento a pochi passi dalla mairie, Jean-Paul a Lisle-sur-Tarn.
Soltanto io non sapevo dove andare.

Elisabeth mi accompagnò alla macchina.

«Allora, vuoi venire a stare da me?» mi chiese. «Puoi venire anche subito, se ti fa
piacere».

«Verrò presto. Ho un paio di... cose da sistemare. Ma è questione di pochi giorni».

Quando arrivammo alle macchine, Elisabeth e Mathilde si voltarono verso di me in


attesa che dicessi qualcosa. JeanPaul invece guardava l'orizzonte.

«Andate pure avanti», dissi alla fine, rivolgendomi alle due donne. «Mi farò dare
un passaggio da Jean-Paul. Ci vediamo più tardi in paese».

«Poi vieni a casa con noi, vero, Ella?» chiese Sylvie con ansia, dandomi buffetti
sul braccio.

«Non preoccuparti per me, chérie».

Le macchine scomparvero in fondo alla strada e io e Jean-Paul ci ritrovammo da soli


ai lati opposti della Deux Chevaux. «Tiriamo giù il tettuccio?» dissi.

Aprimmo i ganci e arrotolammo il telo fermandolo con le cinghie. Poi mi appoggiai


alla fiancata incrociando le braccia sopra il telaio della portiera. Jean-Paul si
appoggiò dall'altra parte.
«Devo dirti una cosa», esordii, sentendomi un nodo alla gola.

«In inglese, Ella».

«Giusto. In inglese». M'interruppi di nuovo.

«Sai», disse Jean-Paul, «non pensavo di potermi sentire così male per una donna.
Sono quasi due settimane che te ne sei andata. Da allora non riesco a dormire, non
riesco a suonare, non ho voglia di lavorare. Le vecchiette mi prendono in giro in
biblioteca. I miei amici pensano che sono impazzito.

Litigo con Claude per delle scemate».

«Jean-Paul, sono incinta».

La sua faccia si trasformò in una domanda. «Ma noi...» Non finì la frase.

Pensai di nuovo che avrei potuto mentire. Sarebbe stato tutto più semplice. Ma
sapevo che lui se ne sarebbe accorto.

«E' di Rick», dissi sommessamente. «Mi dispiace».

Jean-Paul fece un bel respiro. «Perché ti dispiace?» disse in francese. «Non volevi
un bambino?»

«Oui, mais...»

«E allora perché ti dispiace?» ripeté in inglese.

«Per un sacco di motivi: Rick non è la persona giusta».

«Lui lo sa?»

«Si. Gliel'ho detto ieri sera.

Vorrebbe che andassimo a vivere in Germania».

Jean-Paul inarcò le sopracciglia.

«E tu cosa vuoi fare?»

«Non lo so. Devo capire qual è la cosa migliore per il bambino».

Jean-Paul si staccò dalla macchina e attraversò la strada, fermandosi a guardare i


prati dove la ginestra cresceva tra le rocce. Allungò un braccio e colse un
rametto, schiacciando i fiori gialli e pungenti fra le dita.

«Lo so», sussurrai in modo che non potesse sentirmi.

«Scusami, ma è troppo, vero?» Quando tornò vicino all'automobile aveva


un'espressione risoluta, addirittura stoica. Non l'avevo mai visto così, e
all'improvviso gli sorrisi.

Jean-Paul ricambiò il sorriso.

«Ciò che va bene per la madre dovrebbe andare bene anche per il bambino», disse.
«Se tu sei infelice anche il bambino lo sarà».

«E' vero. Ma io non so più cosa sia bene per me. Vorrei almeno capire qual'è casa
mia. Non è più la California. E Lisle... non me la sento di tornare laggiù. Non
ancora.

E neanche in Svizzera. E di sicuro non andrò in Germania».

«Dov'è che ti senti più a tuo agio?» Mi guardai intorno.

«Qui», dissi. «Qui dove sono».

Jean-Paul spalancò le braccia.

Epilogo

«Alors, tu es chez toi. Bienvenue».

Guardavo l'azzurro del cielo, scolorito dal sole di fine settembre.

Il Tarn era ancora tiepido. Sdraiata nel fiume, agitavo le braccia lungo i fianchi,
i seni distesi, i capelli che fluttuavano intorno alla faccia come foglie. Abbassai
lo sguardo, il ventre cominciava appena ad affiorare dall'acqua. Vi posai sopra le
mani a coppa.

Dalla riva giunse un fruscìo di carta.

«E che ne fu di Isabelle?»

«Non lo so. A volte penso che un bel giorno se ne andò da Moutier e tornò nella sua
Cévennes. Ritrovò il pastore, diede alla luce il bambino e vissero tutti felici e
contenti. Si riconvertì perfino alla fede cattolica per poter adorare la Vergine».

«Un lieto fine».

«Sì. Ma non credo che le cose andarono proprio così. Il più delle volte penso che
sia morta di stenti in qualche fossato, mentre scappava dai Tournier, con un bimbo
in grembo, dimenticata, sepolta in una tomba senza nome».

Cadde il silenzio.

«E potrebbe avere avuto una sorte anche peggiore, la peggiore di tutte, e la più
probabile purtroppo».

«Cosa potrebbe esserci di più orrendo?»

«Sopravvivere. Forse rimase a Moutier e visse per il resto dei suoi giorni con il
corpo della figlia sotto la pietra del focolare».

Isabelle s'inginocchia al crocevia.

Ha tre possibilità: andare avanti, tornare indietro o rimanere lì dove si trova.

«Aiutami, Madre Santa», prega.

«Aiutami a scegliere».

Una luce azzurra scende su di lei, sollevandola per un istante da tutte le sue
pene.

Mi tirai su di scatto, accovacciandomi sulla pietra liscia del fondale mentre i


miei seni recuperavano la loro pienezza. Il bambino si era svegliato e aveva
cominciato a gemere come un gattino. Elisabeth lo sollevò dalla coperta stesa sulla
riva e se lo accostò al seno.

«Jean-Paul lo ha già letto?» chiese la donna, toccando il manoscritto accanto a


lei.

«Non ancora. Ha promesso di leggerlo questo fine settimana. Il suo giudizio è


quello che mi preoccupa di più».

«Perché?»

«E' il più importante per me. Ha delle convinzioni radicate sul modo di intendere
la storia. Sarà di certo molto critico nei confronti del mio approccio».

Elisabeth si strinse nelle spalle. «E allora? Questa dopotutto è la tua storia. La


nostra storia».

«Sì».

«E il pittore di cui mi hai parlato?

Quel Nicolas Tournier, che fine ha fatto?»

«Vuoi dire il "gambero"?»

«Cosa?»

«Niente, niente. C'entra anche lui, comunque la pensi Jean-Paul».

Jacob giunge al crocevia e trova la madre in ginocchio, immersa nell'azzurro. Lei


non lo vede e il ragazzo rimane a fissarla per un po' mentre l'azzurro si riflette
nei suoi occhi. Poi si guarda intorno e prende la via che va a occidente.

Nota storica La Riforma protestante ebbe origine nella Germania del sedicesimo
secolo con Martin Lutero. Uno dei suoi seguaci, Giovanni Calvino, si spostò a
Ginevra e trasmise ai predicatori il suo credo fondato su una condotta di vita pia
e disciplinata, nonché sull'adorazione diretta di Dio, senza la mediazione di un
sacerdote. I predicatori si sparsero per tutta la Francia portando ovunque la
"Verità", com'era comunemente chiamata la dottrina calvinista. Ben presto fecero
proseliti nelle città e fra l'aristocrazia francese.

Passò del tempo prima che riuscissero a far breccia nelle campagne più remote, come
la Cévennes, una regione montuosa della Francia meridionale.

Tuttavia quando i predicatori vi giunsero molti contadini si convertirono alla


Verità e iniziarono a praticare in segreto il nuovo credo in boschi e fienili,
finché non ebbero la forza di scacciare i sacerdoti cattolici occupando le
parrocchie. Fra il 1560 e il 1561 le chiese cattoliche di molti villaggi della
Cévennes passarono di mano e gli ugonotti (così erano chiamati i protestanti in
Francia) presero il controllo della regione.

Nel 1572, migliaia di ugonotti riuniti per festeggiare un matrimonio reale furono
trucidati. La cosiddetta Notte di San Bartolomeo scatenò un'ondata di persecuzioni
che dilagò in tutta la Francia, costringendo numerosi ugonotti a riparare
all'estero. La pace tornò per qualche tempo dopo l'Editto di Nantes, che
riconosceva i diritti dei protestanti, ma i disordini ripresero nel 1685, quando
Luigi XIV revocò l'editto e gli ugonotti si dispersero in tutta l'Europa.

Agli inizi del diciottesimo secolo gruppi di ugonotti della Cévennes si sollevarono
contro il governo francese in quella che viene ricordata come la rivolta dei
Camisard, ma furono sconfitti e dovettero tornare a praticare di nascosto il loro
credo.

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