Miscellanea A Cura Di M. Talbot (Studi Vivaldiani 16-2016)

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mISceLLAneA

A cura di Michael Talbot

Il Concerto per violino in Si bemolle maggiore, RV 366, di Antonio Vivaldi


ci è noto attraverso le sue due fonti conservate a Dresda e a Venezia. Quelli dre-
sdensi, in realtà, sono due testimoni distinti ma correlati: una raccolta di parti
staccate copiate da Johann Georg Pisendel su una carta di fabbricazione tedesca,
la cui parte di Basso continuo è intitolata «concerto d[et]to il carbonelli»,1 e un
secondo set di parti, realizzato da un copista della corte sassone, sempre sotto il
controllo di Pisendel.2 Lo stesso brano, stavolta denominato (come quasi tutte
le altre composizioni del gruppo di cui fa parte) «concerto per Sig[no]ra Anna
maria», apre una raccolta di concerti dedicati a questa celebre esecutrice, conte-
nuti in un libro-parte per violino principale conservato nel Fondo esposti della
Biblioteca del conservatorio di musica ‘Benedetto marcello’ di Venezia (che tra-
manda, in forma frammentaria, parte del repertorio musicale dell’ospedale della
Pietà).3 La versione attestata nel libro-parte appartenuto ad Anna maria, che
sembra essere stata copiata nel 1723, presenta delle microvarianti rispetto a
quella dresdense – perlomeno riguardo la parte solistica, che è l’unica soprav-
vissuta.4 È difficile, in mancanza di dati risolutivi desunti attraverso l’analisi fi-
lologica o codicologica, accertare la primogenitura dell’una o dell’altra versione.
In base all’organico del brano, gli studiosi hanno sempre ritenuto che
«carbonelli» fosse il cognome del violinista Giovanni Stefano carbonelli (1694-
1773). Verso il 1719 egli si stabilì a Londra, dove godette della protezione del
Duca di Rutland e guidò per parecchi anni l’orchestra del Drury Lane theatre,
prima di abbandonare la sua avviata carriera di interprete per dedicarsi a una
non meno riuscita attività di mercante di vini (anticipando di pochi anni l’ana-
logo percorso professionale di Johann tost, leader dell’orchestra di esterházy).5
È dunque probabile che carbonelli abbia eseguito egli stesso e fors’anche com-
missionato il concerto in questione direttamente a Vivaldi. Fino ad oggi, tuttavia,
non è stato possibile ipotizzare la circostanza concreta nella quale i due entra-

1
D-Dl, mus. 2389-o-121b.
2 D-Dl, mus. 2389-o-121a.
3 I-Vc, B. 55.1. Presso la stessa biblioteca è conservata anche una copia in partitura del concerto

realizzata agli inizi del novecento da Fausto torrefranca, prendendo a modello la fonte dresdense:
I-Vc, torrefranca ms.A. 55.
4 Sulla versione trasmessa nel Fondo esposti di veda mIcHAeL tALBot, Anna Maria’s Partbook, in

Musik and den Venezianischen Ospedali/Konservatorien vom 17. bis zum frühen 19. Jahrhundert – La musica
negli ospedali/conservatori veneziani fra Seicento e inizio Ottocento («centro tedesco di Studi Veneziani,
Ricerche», 1), a cura di Helen Geyer e Wolfgang osthoff, Roma, edizioni di Storia e Letteratura, 2004,
pp. 23-79: 46.
5 Sulla vita e l’opera di carbonelli si veda mIcHAeL tALBot, From Giovanni Stefano Carbonelli to

John Stephen Carbonelli: A Violinist Turned Vintner in Handel’s London, «Göttinger Händel-Beiträge», 14,
2012, pp. 265-299.

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rono in contatto. L’ostacolo maggiore (e apparentemente insormontabile) era


rappresentato dalla data di nascita di carbonelli, che nell’articolo citato nella
sottostante nota 5 si presumeva potesse risalire al 1699 o 1700, visto che in una
deposizione per ottenere la licenza di matrimonio rilasciata il 16 marzo 1730 (cal-
colato secondo il sistema di datazione antico), egli dichiarava di avere trent’anni
di età.6 Poiché Vivaldi si trasferì a mantova alla fine del 1717 e carbonelli fissò
la sua residenza a Londra solo due anni dopo, restava solo una piccola ‘finestra’
temporale per un loro eventuale incontro. È infatti assai improbabile che
carbonelli fosse stato già così affermato e indipendente da acquistare, o ricevere
in dono, un concerto vivaldiano prima del 1715; inoltre, poiché è stato ipotizzato
(correttamente, come si vedrà) che egli provenisse dal versante occidentale della
penisola italiana, visto che corelli lo annovera fra i suoi allievi, sarebbe stato al-
trettanto problematico immaginare un suo viaggio attraverso gli Appennini per
raggiungere Venezia.
Questo scenario è radicalmente mutato dopo la pubblicazione del mio arti-
colo su carbonelli precedentemente menzionato, quando mi sono imbattuto in
un dato archivistico fin lì trascurato e riguardante la sua naturalizzazione come
cittadino britannico, concessagli il 27 febbraio 1734 (sempre secondo il sistema
di datazione antico), in cui egli è descritto come «John Stephen carbonell, Son
of Peter carbonell, by teresia, his wife, born at Leghorn» («John Stephen
carbonell, figlio di Peter carbonell e di teresia, sua moglie, nato a Livorno»).7
Questa informazione implicava l’esistenza di una qualche traccia, nel registro
dei battesimi della città di Livorno, di un atto redatto attorno al 1700 riguardante
Giovanni Stefano carbonelli, nato da Pietro e teresa carbonelli, dal quale sa-
rebbe stato possibile stabilire l’anno esatto della sua nascita. mi rivolsi perciò a
Federico maria Sardelli, amico e collega presso l’istituto Vivaldi, che sapevo es-
sere originario di Livorno, al quale chiesi in quale modo poter procedere. Questi,
fortunatamente, è amico di Federico marri, ricercatore scientifico proprio in
quella città, il quale ha gentilmente accettato di svolgere questa indagine per
mio conto.
Le sue ricerche hanno dato i frutti sperati, portando alla luce svariati docu-
menti relativi al contesto di origine della famiglia del violinista.8 Questi fu bat-
tezzato il giorno dopo la nascita, il 9 marzo 1694.9 Suo padre, Pietro, era
originario di Aix-en-Provence (nel registro battesimale, la forma del suo co-
gnome è infatti quella tipicamente provenzale, «carboneu», invece della variante
più comunemente utilizzata nel resto della Francia, «carbonnel»), mentre sua

6 Ibid., pp. 266-267.


7 Journals of the House of Commons From January the 16th, 1732 [...] to December the 8th, 1737,
[Londra], House of commons, 1803, p. 394. «Leghorn» è l’antico nome inglese (oggi quasi in disuso)
del porto di Livorno, in toscana.
8 menzionerò in questa sede solo la ‘punta dell’iceberg’ delle scoperte di marri, nella speranza

che un giorno sarà loro dato il rilievo che meritano attraverso un resoconto completo e dettagliato.
9 Livorno, Archivio Vescovile, Battesimi 1694-1699 n. 15.

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madre teresa (nata cocchi) era originaria di Livorno. La loro abitazione sorgeva
in Via nuova, a Livorno. Al neonato fu dato il nome dei nonni Giovanni (per
parte di padre) e Stefano (per parte di madre). La professione di Pietro carboneu
(di cui carbonelli è chiaramente il corrispettivo italianizzato) non è indicata.
marri mi ha anche comunicato che il nostro violinista è menzionato col nome
di «Gio: Stefano carbonèo» in un registro manoscritto che riporta i nomi di tutti
i musicisti forestieri assunti in occasione delle celebrazioni annuali organizzate
a Lucca durante la Festa di Santa Croce (13-14 settembre), in riferimento agli anni
1711 e 1712.10 Si tratta di un’importante precisazione, perché ora sappiamo che
all’epoca il diciassettenne carbonelli aveva già acquisito un livello tecnico tale
da potersi esibire anche al di fuori dalla città natia.11
I sei anni di vita in più ‘guadagnati’ da carbonelli prima del 1700 ampliano
il lasso di tempo in cui egli, essendo già in grado di eseguire le parti principali
di un concerto strumentale, potrebbe aver conosciuto Vivaldi. nel 1711 il Prete
rosso viaggiò a lungo in compagnia del padre, ma carbonelli non gli fu certa-
mente da meno. La cornice più probabile per un loro incontro sarebbe stata si-
curamente una delle stagioni d’opera veneziane, allorché fino a cinque diversi
teatri si contendevano i favori del pubblico lagunare con le rispettive produzioni,
per la cui realizzazione era necessario ingaggiare degli strumentisti forestieri.
Anche se la documentazione inerente a questo flusso di manodopera musicale
è assai scarsa – visto che fra le preoccupazioni degli impresari non vi era certo
quella di lasciare ai posteri gli elenchi degli orchestrali – è nondimeno logico
pensare che si trattasse di una prassi consolidata. Se carbonelli fosse giunto a
Venezia per questo scopo, fra il 1711 e il 1717, Vivaldi potrebbe benissimo aver
composto per lui un concerto, come fece del resto con Pisendel nel 1716-1717.
La copia in parti staccate di RV 366 realizzata da quest’ultimo (che, in effetti,
converte un ‘materiale d’archivio’ in un ‘materiale d’orchestra’) potrebbe essere
stata ricavata da un esemplare perduto cui egli aveva avuto accesso, oppure po-
trebbe essere stata trascritta direttamente da un originale conservato all’interno
dell’archivio personale del compositore.
Da un punto di vista stilistico, RV 366 non è molto diverso dagli altri concerti
composti da Vivaldi durante gli anni Venti del secolo (la cosiddetta ‘epoca della
produzione concertistica vivaldiana di massa’, come tendo sempre più a defi-
nirla). I soli e i tutti dei movimenti rapidi, ad esempio, sono nettamente diffe-
renziati, in quanto i cambiamenti nell’orchestrazione rispecchiano in tutto e per
tutto l’alternanza fra gli episodi solistici e i ritornelli orchestrali. L’incipit del

10
I-Li, Fondo Puccini, Autori diversi, 39, nomi, cognomi e patria dei virtuosi sì di voci che d’istrumenti
che sono intervenuti alle nostre funzioni di S. Croce (1711-99), 4 voll.
11
Poiché il registro lucchese inizia nel 1711, si potrebbe essere indotti a non escludere una pre-
cedente partecipazione di carbonelli ai medesimi festeggiamenti. In realtà, si tratta di un evento im-
probabile, poiché proprio nel 1711 fu adottato il nuovo regolamento della Festa di Santa croce, che
permetteva per la prima volta ai forestieri di prendervi parte.

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primo intervento solistico è inoltre ripreso alla fine del movimento, per rimar-
care il definitivo ritorno alla tonica. Per forma, organico e carattere, il movimento
centrale è modellato sui tempi lenti della sonata coeva. Se Vivaldi ha composto
questo brano prima di trasferirsi a mantova, è assai probabile che lo abbia fatto
proprio a ridosso della sua partenza. esistono, dunque, delle buone ragioni per
ipotizzare una datazione attorno al 1716, in concomitanza con la presenza di
Pisendel (e carbonelli?) a Venezia.
non sono molti, per converso, gli elementi di RV 366 che possono suggerire
una forma di omaggio a qualche specifica caratteristica interpretativa di
carbonelli. Se mai fosse stata nelle intenzioni di Vivaldi, questa sorta di perso-
nalizzazione avrebbe assunto una connotazione riduttiva, identificabile nella
tendenza a evitare le note più acute del Fa5: un limite all’acuto che certamente si
adatta ai concerti di corelli, ma ben al di sotto dell’estensione raggiunta in quelli
di Vivaldi o del suo allievo Pisendel.12 L’articolo che charles Burney scrisse in
tarda età, senza firmarlo, per la Cyclopædia di Abraham Rees, accenna di sfuggita
(a dispetto degli sporadici commenti contenuti nella sua precedente General
History) alle doti violinistiche di carbonelli, specificando che «la sua mano non
era brillante, ma aveva una buona intonazione e conosceva bene la musica».13
carbonelli, da parte sua, negli anni della maturità non fu del tutto immune alle
influenze dell’arte vivaldiana: l’undicesima sonata della raccolta del 1729, infatti,
tradisce delle chiare reminiscenze dei concerti RV 519 (op. III n. 5) e RV 355
(The Cuckow), mentre alla mano destra dell’esecutore è richiesto, per una volta,
di salire fino alla settima posizione (La5). Sappiamo, inoltre, che carbonelli ese-
guiva regolarmente dei concerti propri per il pubblico londinese, fra cui, nel
1733, un brano per due oboi e due corni (una delle strumentazioni preferite dagli
inglesi, dopo l’incredibile successo arriso alla Water Music di Händel nel 1717),
nessuno dei quali è però sopravvissuto. Possiamo pertanto solamente immagi-
nare l’influenza che l’arte compositiva vivaldiana potrebbe aver esercitato su
questi lavori maturi, oggi dispersi.

Le più significative pubblicazioni vivaldiane che hanno visto la luce nel 2015
e nei primi mesi del 2016 sono i due volumi inaugurali della collana online Saggi
vivaldiani.14 Il primo – lo dico non senza imbarazzo ma con una punta d’orgoglio –
è una Festschrift preparata segretamente in mio onore, il cui titolo riprende il vi-

12
che carbonelli avesse in generale poco interesse per il registro sovracuto è evidente anche
nelle sue sonate per violino op. I (1729), che sono forse l’esempio più significativo di questo genere
compositivo (comprese quelle di Handel), prodotto sul suolo britannico durante il diciottesimo secolo.
L’unica eccezione è costituita dall’undicesima sonata (che, non a caso, fu uno dei cavalli di battaglia
di Richard charke, uno dei migliori interpreti del Cuckow, RV 335), che sale fino al La5.
13
The Cyclopædia, or Universal Dictionary of Arts, Sciences and Literature, a cura di Abraham Rees,
45 voll., Londra, Longman and others, 1819-1820, vol. 6, ad vocem.
14
consultabile e scaricabile online all’indirizzo elettronico <http://www.cini.it/publication-
category/pubblicazioni-online>.

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goroso verso latino «Fulgeat sol frontis decorae» (le parole di incoraggiamento
che Abra rivolge alla propria padrona nella Juditha triumphans).15
Il volume ospita una ventina di contributi, che spaziano dalle cosiddette
laudationes (inerenti più alla mia persona che a Vivaldi) ai saggi propriamente
detti, incentrati sulla figura del nostro compositore. Anche se non intendo elen-
care in questa sede titoli e autori di ciascun contributo (uno dei vantaggi mag-
giori di una pubblicazione online è che questo tipo di informazioni può essere
ottenuto semplicemente con un paio di click), vorrei nondimeno menzionarne
due che, a mio parere, si distinguono rispetto a tutti gli altri: il primo, di Paul
everett, formula nuove ipotesi sulla natura, lo scopo e le circostanze materiali
da cui ebbe origine il corpus delle cantate vivaldiane custodite a Dresda (preci-
sando alcune delle conclusioni cui ero giunto nella mia monografia sulle cantate
da camera di Vivaldi, già oggetto di studio e di riflessione negli apporti suc-
cessivi di Jóhannes Ágústsson);16 l’altro contributo, di Roger-claude travers,
ricostruisce la cronologia e interpreta assai intelligentemente la storia delle
registrazioni vivaldiane realizzate fra il 1948 e il 1959, la cosiddetta epoca
‘monoaurale’, colmando una lacuna che si era trascinata fin troppo a lungo.17

Il secondo volume della serie, firmato da myriam Zerbi, racconta la storia


della fondazione e i primi anni di vita dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi,
dall’immediato dopoguerra fino al 1978, quando entrò a far parte della
Fondazione Giorgio cini di Venezia.18 L’autrice attinge da una documentazione
tanto vasta quanto eterogenea, fra cui i ricordi personali di alcuni dei protago-
nisti, riuscendo a dar vita a una narrazione a tutto tondo ma equilibrata, illumi-
nante e, non di rado, assai divertente. Ho trovato particolarmente affascinante
la descrizione di quell’‘euforia caotica’ che caratterizzò l’Italia dell’immediato
dopoguerra, quando sembrava che tutto fosse possibile – come in realtà avvenne
nel nostro caso, grazie a una buona dose di fortuna, ma anche e soprattutto alla
determinazione delle persone coinvolte, alla loro efficace cooperazione e al so-
stegno finanziario discreto di coloro che credevano nel loro progetto. Anche chi
già conosce a grandi line la storia dell’IIAV troverà all’interno di questo libro
molte informazioni in grado di sorprenderlo o di deliziarlo. Io, ad esempio, sono
rimasto impressionato e in un certo qual modo commosso nell’apprendere che
Alberto Gentili, lo scopritore dei manoscritti vivaldiani torinesi, diede il suo be-
nestare al nuovo progetto nel 1946, compiendo un gesto che ha il valore di un
ideale passaggio del testimone.

15 Fulgeat sol frontis decorae. Studi in onore di Michael Talbot («Saggi vivaldiani», 1), a cura di

Alessandro Borin e Jasmin melissa cameron, Venezia, Fondazione Giorgio cini, 2016.
16 PAUL eVeRett, Vivaldi at Work: The Late Cantatas and the Consignment for Dresden, in Fulgeat sol

frontis decorae, cit., pp. 97-113.


17 RoGeR-cLAUDe tRAVeRS, Le temps du monaural: 1948-1959. Premier âge d’or méconnu du disque

vivaldien, in Fulgeat sol frontis decorae, cit., pp. 235-307.


18 myRIAm ZeRBI, Un fiume di musica. Antonio Vivaldi alle origini di una riscoperta («Saggi vivaldiani», 2),

Venezia, Fondazione Giorgio cini, 2016.

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Fra le altre pubblicazioni degne di nota ve n’è una che non ho ancora avuto
il piacere di leggere, ma che, per la grande stima che nutro verso il lavoro del-
l’autrice, promette di essere molto interessante. Ruth tatlow (di nazionalità bri-
tannica, ma residente in Svezia), è esperta in un particolare aspetto della tecnica
compositiva di J. S. Bach, vale a dire la sua attenzione quasi maniacale per le
proporzioni numeriche – un interesse che non ha solamente un valore ermeneu-
tico, ma che esprime, in termini religiosi, la sua ricerca della perfezione e del-
l’armonia delle sfere celesti. mentre Vivaldi trova diletto nell’asimmetria e nella
spontaneità, Bach si compiace della simmetria e dei calcoli di piani costruttivi
predeterminati. La tatlow ha da poco pubblicato un poderoso volume che rap-
presenta la summa delle sue ricerche in questo campo – Bach’s Numbers:
Compositional Proportion and Significance – un capitolo del quale è dedicato
ai concerti Brandeburghesi e alle dodici trascrizioni per tastiera di concerti com-
posti da Vivaldi e da altri autori.19

Un interessante articolo di Frances Jones, che contiene alcuni rilievi mar-


ginali ma assai significativi riguardanti Vivaldi, è uscito quest’anno sulla rivi-
sta The Consort.20 Lo scopo principale dell’autrice è quello di evidenziare –
sembra per la prima volta – come la Sinfonia Pastorale di Beethoven utilizzi in
maniera consistente ed evidentemente intenzionale dei riferimenti a tre canti
natalizi dell’europa centrale (pastorelle), oltre alla pastorale associata nella tra-
dizione cattolica romana alla novena di natale. Si tratta di una intuizione nien-
t’affatto scontata, perchè, sotto certi aspetti – come nella presenza del canto degli
uccelli nel movimento lento –, la sinfonia di Beethoven è così evidentemente
ispirata all’estate nella scelta programmatica delle immagini (anche se va detto
che nell’Arcadia romana la celebrazione del natale avveniva d’estate, nella cor-
nice di un mondo pastorale idealizzato che ne superava la tradizionale caratte-
rizzazione stagionale!). Le argomentazioni addotte dalla Jones per dimostrare
la citazione, da parte di Beethoven, di molti spunti motivici derivati dal patri-
monio folclorico sono assolutamente convincenti, come i parallelismi che ella
ravvisa nelle opere di compositori precedenti, quali corelli, Vivaldi, J. S. Bach,
Händel, chédeville, Brixi e i due mozart (Leopold e Wolfgang Amadeus).
L’autrice evidenzia, anzitutto, come la Danza pastorale che conclude La primavera,
RV 269, si inserisca – a dispetto dell’incongruenza stagionale (proprio come la
sinfonia di Beethoven) – nel solco della tradizione della Pastorale ad libitum che
chiude l’op. VI n. 8 di corelli e della Piva che apre la quarta scena del Messiah
di Händel. Ancor più significativo è il rilievo secondo cui il concerto da camera
La pastorella, RV 95/95a, sia tematicamente correlato alla pastorella nĕzábudka pri
potóčku (cosicché l’allusione contenuta nel titolo del concerto vivaldiano si rife-

19
RUtH tAtLoW, Bach’s numbers: Compositional Proportion and Significance, cambridge, cambridge
University Press, 2015, pp. 255-274.
20
FRAnceS JoneS, The Influence of the Christmas Pastorella on Beethoven’s ‘Pastoral’ Symphony, «the
consort», 72, estate 2016, pp. 90-107.

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risce al canto popolare e non a una pastorella in carne ed ossa). Infine, vengono
individuate alcune citazioni di pastorali e pastorelle nelle parti de Il pastor fido,
RV Anh. 95, interamente composte da chédeville.

Recentemente, mi è capitato di fare una scoperta illuminante mentre stavo


compiendo delle ricerche sulla vita e l’opera di Johann Friedrich Schreivogel
(detto «il tedeschino»), un violinista-compositore, probabilmente di origine sviz-
zera, che diresse l’orchestra arciducale di milano negli anni compresi fra il 1720
e il 1750, prima dell’assunzione di carlo Zuccari.21 eccetto uno, tutti i lavori stru-
mentali superstiti di Schreivogel – che sono costituiti dalle sonate per violino
(se ne contano due complete e poche altre con notazione incompleta o di incerta
attribuzione) e da tre concerti per violino – sono conservati presso la SLUB di
Dresda e appartengono alla vasta mole di musiche copiate da Pisendel durante
il suo soggiorno italiano del 1716-1717.
Quattro di queste sonate, composte o attribuibili a Schreivogel, sono com-
prese in un cD di sonate per violino conservate a Dresda, tratte per la maggior
parte dal manoscritto mus. 1-R-70, un codice copiato in tutta fretta da Pisendel,
lavorando evidentemente sotto pressione a causa del poco tempo a sua disposi-
zione.22 In una nota nel libretto del cD, la violinista dell’ensemble, martyna
Patuszka, menziona il “carattere piuttosto bizzarro ed ‘esotico’ della musica”,
che ella accoglie generalmente come oro colato nella sua esecuzione. Un esame
del manoscritto ha dimostrato che questo presunto ‘esoticismo’, quando non era
il risultato di una mancanza di familiarità con alcune inaccuratezze all’epoca
molto comuni (come la Terzverschreibung, che consiste nello scrivere una o più
note sopra o sotto l’altezza effettiva), molto frequentemente derivava dall’errato
posizionamento delle alterazioni di passaggio. Questo fatto mi ha indotto a ri-
flettere su come tale forma di imprecisioni ricorra in effetti con una certa fre-
quenza nei manoscritti di Pisendel, tanto da chiedermi se egli non fosse affetto
da una patologia che oggigiorno tendiamo a identificare – non sempre corret-
tamente da un punto di vista medico – con la dislessia. Ho accennato questa
mia idea a Javier Lupiáñez, che sta studiando i manoscritti di Pisendel, il quale
mi ha subito ricordato la stravangante indicazione metrica 8/9 in testa al movi-
mento conclusivo della copia manoscritta della Sonata RV 15 di Vivaldi realiz-
zata da Pisendel (mus. 2389-R-8,1), che potrebbe essere stata involontariamente
generata da una inversione analoga – stavolta sul piano verticale piuttosto che
su quello orizzontale.23 La conseguenza pratica che deriva dal riconoscere questa

21
Un mio articolo, intitolato Certainly Milanese, Possibly Swiss: the Violinist and Composer Johann
Friedrich Schreivogel (fl. 1707-1749), dovrebbe apparire a breve nello «Schweizer Jahrbuch für
musikwissenschaft». In questo articolo si evidenzia come Schreivogel abbia quasi imitato lo stile vi-
valdiano nei suoi concerti della seconda decade del Settecento.
22
Music in Dresden in the Times of Augustus II the Strong (2012: Dux 0968).
23
esiste, tuttavia, un’altra possibile spiegazione per questo particolare errore, poiché anche l’edi-
zione originale di Giuseppe Sala della sonata a tre op. I n. 9 di Antonio Vivaldi, riporta, nella parte

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insolita ‘vulnerabilità’ nella prassi notazionale di Pisendel consiste soprattutto


nella particolare cautela con cui si dovrebbero accettare come autentiche delle
lezioni improbabili da un punto di vista musicale. Di questa accresciuta consa-
pevolezza mi sono certamente giovato nel preparare la recente edizione critica
di una Sonata per violino in mi minore di Schreivogel (mus. 2808-R-1), nella
quale sono numerosi i simboli perfettamente corretti che Pisendel ha posizionato
in modo errato.24 Ritengo che questa consapevolezza debba essere tenuta in giu-
sta considerazione nel realizzare le future edizioni di musiche vivaldiane (o re-
visionare quelle già pubblicate), basate su fonti di mano del violinista tedesco.

del Violino primo, la bizzarra indicazione metrica di «8/9». non si può dunque escludere che nel caso
della sonata RV 15 Pisendel abbia copiato acriticamente l’indicazione metrica direttamente da un ori-
ginale vivaldiano!
24
Launton (Regno Unito), edition HH, 2016. Un esempio di questo tipo di errore consiste nello
scrivere la cifra 6/5 nella parte del basso continuo come un 5 seguito da un 6, per effetto di una rota-
zione di 90 gradi dei due simboli.

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