Storia Del Jazz
Storia Del Jazz
Storia Del Jazz
Le radici
È molto difficile fornire una data precisa di quando sia nata la musica
jazz, di certo si sa che questo termine
è apparso stampato, per la prima volta, con riferimento a una forma musicale nel
1913, in un giornale di San Francisco. Quando il termine fu adottato da una delle prime
orchestrine di jazz che dalla città di New Orleans salirono al Nord, a Chicago e a New
York, la Original Dixieland Jazz Band diretta da Nick La Rocca, la parola non aveva,
in ogni modo alcun significato per l’americano medio, e la musica che essa voleva
indicare rappresentava una novità e un motivo di curiosità per quasi tutti [Polillo 1980,
595].
Il processo che portò alla definizione del jazz come musica dalle
caratteristiche proprie e innovative fu molto lungo e attraversò molte
fasi della storia degli Stati Uniti e, in seguito, anche del resto del mon-
do, in particolare dell’Europa e del Sud America. Tutto ebbe inizio si-
30 CAPITOLO SECONDO
Su un totale di undici milioni di africani deportati due milioni sarebbero morti nel
tragitto, mentre sei sarebbero stati utilizzati nelle piantagioni da zucchero, due in quelle
di caffè, uno nelle miniere, uno nei lavori domestici, mezzo milione nelle piantagioni di
cotone, 250.000 a coltivare cacao, e altrettanti impiegati nelle costruzioni. Di questi
solo 500.000 negli Stati Uniti, mentre ben quattro milioni in Brasile, due milioni e mez-
zo nell’impero spagnolo, due nelle Indie occidentali inglesi, 1.600.000 in quelle france-
si, 500.000 nelle Indie occidentali olandesi, 28.000 in quelle danesi e 200.000 in varie
zone europee [Thomas 1997, 804].
In realtà, quindi, il numero degli schiavi africani negli Stati Uniti non
era così alto rispetto a quello di altri paesi. Fu il fatto che questi neri si
trovarono in un territorio culturalmente “vergine” e a contatto con altre
culture completamente diverse dalla loro, e parlo non solo delle culture
europee ma anche di quella dei nativi d’America, a dare l’input per lo
sviluppo di nuove forme culturali e musicali.
Nacquero perciò in tutti gli stati, e soprattutto nelle grandi città mantenendo quasi
intatte le caratteristiche originarie, queste “isole etniche”, divenendo custodi gelose di
quel patrimonio portato dai paesi d’origine che , a livello musicale, avrebbe costituito la
base composita e ricchissima (perché in grado di utilizzare molteplici esperienze) che
creò e rafforzò il particolarissimo humus che al jazz avrebbe fornito le sue inimitabili
caratteristiche [Roncaglia 1998, 10].
Con il passare del tempo, poi, queste “isole etniche” pian piano co-
minciarono a fondersi culturalmente, soprattutto dopo l’abolizione del-
la schiavitù.
Fra tutte le etnie la più prolifica dal punto di vista musicale, almeno
all’inizio, fu di certo quella africana, che in particolare nel XIX secolo
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 31
diede vita a molte forme musicali, che avrebbero dato il via allo svilup-
po del jazz. Tra queste molte erano legate al mondo religioso.
Il canto spirituale nero ha origini remote, che potrebbero farsi risalire alle prime
forme di mercato degli schiavi provenienti dall’Africa nera e sbarcati sulla Congo Square,
la grande antica piazza di New Orleans tristemente nota perché lì si svolgeva la compra-
vendita della mano d’opera africana, destinata a consumare i suoi giorni nelle grandi
piantagioni di cotone adiacenti il delta del grande fiume [Mauro 1994, 9-10].
L’importanza del rito religioso, sia per i neri come motivo di aggre-
gazione, sia per i bianchi, che lo utilizzavano per controllare gli schiavi,
fu indiscutibile.
Infatti le coscienze individuali sono di per sé chiuse le une alle altre; esse possono
comunicare soltanto per mezzo di segni in cui si traducono i loro stati interiori. Perché
il rapporto che si stabilisce tra loro possa sfociare in una comunione, cioè in una fusione
di tutti i sentimenti particolari in un sentimento comune, occorre dunque che i segni che
li manifestano si fondano anch’essi in una sola e unica risultante. L’apparizione di que-
sta risultante avverte gli individui di essere all’unisono, e li conduce ad assumere co-
scienza della loro unità morale: lanciando uno stesso grido, pronunciando una stessa
parola, eseguendo uno stesso gesto concernente uno stesso oggetto essi si mettono e si
sentono d’accordo [Durkheim 1963, 253].
I riti e le funzioni religiose, come le festività civili, hanno il compito di tenere viva la
coscienza collettiva rinnovando quei momenti particolarmente intensi di collaborazione
e fusione degli individui in cui essa si è formata o rinnovata [Izzo 1991, 205-206].
un modo di cantare (anzi di urlare, mutuando lo stile shuot di certi canti del Sud) che
venne via via assumendo caratteristiche originali, musicali innanzitutto, perché accom-
pagnato dal battere delle mani o dei piedi dei presenti (si immagini il risultato della cosa
32 CAPITOLO SECONDO
quando aveva luogo all’interno delle chiese, costruite in genere in legno e con l’impiantito
fatto di tavole sostenute da pali per dividere il corpo del fabbricato dall’umido del
terreno sottostante...), ma anche, e chiaramente, “politiche”. Le riunioni religiose, di
fatto, si trasformarono quindi ben presto in corali ansiti della libertà [Roncaglia 1998,
41].
When Israel was in Egypt’s Land, Quando Israele era nella terra d’Egitto,
Let my people go. Lascia andare la mia gente.
Oppressed so hard they couldn’t stand, Oppressi così duramente da non poter restare,
Let my people go. Lascia andare la mia gente.
Go down, Moses, way down in Egypt’s Land, Scendi giù, Mosè, vieni giù nella terra d’Egitto,
Tell old Pharaon, let my people go. Dì al vecchio faraone, lascia andare la mia gente.
Tabella 1.
Il predicatore, come ha notato Eric C. Lincoln, già all’epoca della fine della Guerra
Civile svolgeva il ruolo di educatore, liberatore, capo politico, persino guaritore, oltre
che difensore e leader spirituale. Ma il suo particolare genio gli derivava dal fatto di
essere vicino alla gente. La maggior parte dei predicatori veniva non dall’esterno, ma
dall’interno della comunità. Il predicatore era più che un leader e pastore, era la proie-
zione delle persone della comunità: impegnato contro le avversità, simbolo del loro
successo, intento a denunciare i loro oppressori con intelligenti metafore, e a prepararle
al giorno del Giubileo, che avrebbe portato la loro liberazione [Cerchiari 1999, 96].
cioè la prassi di recitare (intonando o meno) un verso da parte del predicatore, e di far
seguire l’enunciazione dello stesso verso, immediatamente, da parte dei fedeli, creando
una ricorrente struttura responsoriale: essa corrisponde esattamente, fatto salvo il con-
testo funzionale, al principio africano indicato in lingua inglese con il termine di call
and response, chiamata e risposta [Cerchiari 1999, 77].
Il call and response era molto utilizzato anche nei work songs, i canti
che venivano intonati nei campi di cotone, spesso addirittura per con-
trollare lo schiavo mentre lavorava e assicurarsi che non scappasse. Il
carattere dei work songs è molto vario e ci sono canzoni di protesta,
critica sociale, canzoni su episodi di vita vissuta o di cronaca. Uno dei
più famosi è quello che narra la vicenda di Ol’ Riley, fuggito da un
penitenziario dopo la morte della moglie, o ancora di John Henry, o di
altri eroi della mitologia dei neri d’America. A ogni modo, fu da queste
prime forme musicali che nacque il più vicino parente del jazz, cioè il
blues.
Non per nulla si può dire che il jazz sia nato quando si cominciarono a suonare, oltre
che a cantare, i blues, ciò che divenne possibile soltanto alcuni anni dopo la Guerra
Civile, quando gli schiavi liberati poterono acquistare degli strumenti musicali [Polillo
1975, 37].
La progressione armonica tipica del blues, nella sua forma consolidata, è quella di
tonica-sottodominante-dominante (che certo non è di origine africana): altrettanto tipi-
ca di questa forma musicale è la cosiddetta scala blues, in cui il terzo e il settimo grado
della scala maggiore sono leggermente abbassati e sono detti blue notes [Polillo 1975,
38].
in dodici battute. Va ricordato, però, che questa struttura è solo una strut-
tura di base e che, col passare del tempo, è stata sottoposta a notevoli
variazioni. Soprattutto nel periodo del bebop, quando, per inserire frasi
melodiche ricche di cromatismi, si dovettero alterare gli accordi.
Ecco, quindi, che il jazz rivela la sua natura composita, che gli deriva
dall’essere crocevia di musiche differenti e antiche quali come accen-
nato, il blues.
È facile dire che il jazz non sarebbe potuto esistere senza il blues e i suoi vari ante-
cedenti. Ma è inesatto considerare il jazz come un successore del blues: il jazz è una
musica originale che si è sviluppata dal blues e allo stesso tempo è concomitante con
esso, e poi si è sviluppata su una strada autonoma. È invece interessante ricordare che
blues, in seguito, indicò un modo di suonare il jazz, e che con l’era dello swing, la
grande popolarità dei cantanti blues era stata soppiantata da quella dei jazzisti. Da allo-
ra, per molti, il blues non fu più un genere musicale separato [Baraka 1963, 77].
Le parole di Amiri Baraka rendono chiaro il filo sottile che lega blues
e jazz e sottolineano, ancora una volta, l’importanza della particolare
mistura culturale in cui è nata la musica afro-americana.
Si pensa comunemente che il jazz sia nato a cavallo del secolo, ma le musiche da cui
deriva sono molto più antiche. Il blues è il padre legittimo di tutto il jazz. Non è possi-
bile dire con esattezza quanto sia vecchio il blues, ma di certo non è antecedente alla
venuta dei neri negli Stati Uniti. È una musica indigena americana, il prodotto dell’uo-
mo nero in questo paese o, per dire esattamente come vedo la questione, il blues non
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 35
avrebbe potuto esistere se gli schiavi africani non fossero diventati degli schiavi ameri-
cani [Baraka 1963, 35-36].
Nelle strofe del blues l’universo dolente e squallido del negro americano si tradusse
in poesia. Ma era ed è una poesia di tipo nuovo. Avere i blues è qualcosa di diverso
dall’essere triste dell’uomo bianco. È essere afflitti da un tedio esistenziale, da una
malinconia greve che non lascia spazio alle fantasticherie, vuol dire autocommiserazione,
rassegnazione, vuol dire disperazione sorda, grigiore, miseria. È una poesia fondata
sulle cose di tutti i giorni, su personaggi familiari, visti in una luce realistica, con occhio
disincantato. Non c’è, ne ci vuole essere, nel blues, trasfigurazione lirica, che è un lusso
da bianchi; non c’è dramma, perché il dramma è fatto di ombre ma anche di luci. C’è
invece la consapevolezza di una tragedia in atto che non finirà mai. Il bluesman non
canta la vita, ma il non morire, parla sempre di ciò che non ha e che non avrà mai
[Polillo 1975, 43].
Il blues canta di molte cose che si sono perdute: dell’amore perduto e della felicità
perduta, della libertà perduta e della dignità umana perduta. Spesso ne canta come
attraverso un velo di ironia. La simultaneità di tristezza e di humour è caratteristica del
blues [Berendt 1979, 71].
donna l’unico capo della famiglia. Il risultato era appunto la fuga del
maschio e la conseguente conclusione della donna che l’uomo fosse un
buono a nulla. Anche la cantante Bessie Smith ebbe successo cantando
proprio uno di questi blues. Non mancano, poi, i blues di soggetto eroti-
co, alcuni scritti forse per riscattare la condizione di inferiorità del ma-
schio afro-americano.
Non aveva importanza se tutto ciò fosse vero o meno: il nero ameri-
cano sa che il bianco lo ritiene superiore a lui dal punto di vista sessuale.
È stato questo l’unico conforto per il suo ego per anni e anni.
Il blues, prima dei cantanti di blues classico, era una musica quasi esclusivamente
funzionale, e prendeva vita da un’altra musica, il canto di lavoro, che esisteva solo
come sistema di comunicazione strettamente empirico e parziale tra gli schiavi. Ma
l’idea che il blues potesse essere in qualche modo reso professionistico e trasformato in
uno spettacolo con spettatori paganti, fu una vera e propria rivelazione [Baraka 1963,
99-100].
Fu negli anni Venti, infatti, che alcune case discografiche, cercando nuovi sbocchi
commerciali, scoprirono la redditività del canale nero: nacquero così le collane
discografiche chiamate race records (dischi di razza), riservate al solo mercato dei neri.
Con questi dischi venne fissato sui solchi il ricchissimo patrimonio musicale di cui si è
parlato, e soprattutto il blues vocale e orchestrale [Roncaglia 1998, 64].
A ogni modo il nero americano era entrato nel mondo dello spettaco-
lo, e di lì a poco avrebbe iniziato la sua scalata verso il successo. Oltre al
blues, va detto che anche un altro genere musicale contribuì alla nascita
del jazz, il ragtime.
Una musica che fornì un essenziale contributo alla nascita del jazz fu, a differenza
del blues, allegra, estroversa, creata per il sorriso e il divertimento dell’ascoltatore
[Roncaglia 1998, 85].
Fu per questa somma di ragioni quindi, e non soltanto per la chiusura di Storyville,
che anche i jazzmen dovettero decidersi a tentare la via della migrazione verso il mitico
Nord, ponendo così termine di fatto all’epoca preistorica del jazz, che avrebbe in tal
modo cessato di essere una musica di derivazione folkloristica e limitata a una ristretta
area geografica, per inserirsi sempre più nel contesto della società, allargando in misura
sino ad allora impensabile i propri limitati orizzonti [Roncaglia 1998, 107].
Una delle mete più gettonate dopo New Orleans fu Chicago, qui il
jazz assunse subito caratteristiche assai diverse da quelle originarie, pro-
babilmente per l’uso del sassofono che mal si conciliava con il
contrappunto delle origini. Lo stile di New Orleans, chiamato anche
dixieland, era caratterizzato dall’esecuzione di linee melodiche improv-
visate in collettivo su semplici e tradizionali progressioni armoniche,
con la presenza centrale di tre strumenti tromba, trombone e clarinetto
accompagnati da una sezione ritmica, che si inseguono in un alternarsi
di elementi contrappuntistici innestati l’uno sull’altro. L’elemento rit-
mico era molto vicino a quello della musica bandistica di derivazione
europea, con gli accenti sul primo e sul terzo tempo di una battuta di
quattro. Oltre a questi elementi tecnici ci fu il fatto che anche qui, spes-
so, la musica jazz era suonata in locali frequentati dai gangsters e dalla
malavita cittadina, il che contribuì a peggiorare la fama della nuova
musica. Ne è testimone George Wettling, un batterista che divenne an-
ch’egli assai noto e che ricorda: “Una volta, al Triangle Club, spararono
42 CAPITOLO SECONDO
Figura 5. Una foto della Original Dixieland Jazz Band. Fu il primo gruppo di
jazz a incidere un disco il 26 febbraio 1917. Per ironia della sorte era formato esclusi-
vamente da musicisti bianchi [OD].
Insieme allo stile di New Orleans anche il blues trovò negli anni Ven-
ti il suo periodo d’oro. Nella southside di Chicago, il quartiere nero, si
sviluppò una fervente attività musicale e jazzistica. Qui vennero incisi i
primi capolavori del jazz da parte delle bands guidate da King Oliver,
poi da Louis Armstrong, Johnny Dodds, Jelly Roll Morton, Jimmie
Noone. Contemporaneamente a questa massiccia affermazione dello stile
di New Orleans a Chicago, un gruppo di musicisti bianchi, dilettanti e
professionisti, maturò una propria interiorizzazione del jazz suonato dai
neri, dando vita ad uno stile proprio. Ancora una volta come per il
dixieland, gli elementi della cultura occidentale e bianca contaminaro-
no abbondantemente il jazz nero. Partendo dal modello di
improvvisazione collettiva dello stile New Orleans, a poco a poco, la
sensibilità bianca, derivata dai modelli musicali europei e folkloristici
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 43
per decenni sarebbe stata usata per indicare ai pubblici di tutto il mondo non disposti a
subire la “rozzezza” del jazz ciò che il jazz “avrebbe potuto essere”. Il successo, sin
dalla prima esecuzione, fu enorme: si valuti il fatto, per offrire il destro di equamente
considerarlo, che persino grandi musicisti classici europei come Leopold Stokowsky e
Sergei Rachmaninoff furono presenti alla prima, il 24 febbraio 1924 [Roncaglia 1998,
145].
Dal 1925 al 1929, fino a quando, cioè, la grande crisi economica piombò l’America
nella disperazione, la musica jazz attraversò il suo primo periodo d’oro. Durante quegli
anni brillarono soprattutto le stelle di Louis Armstrong, di Bix Beiderbecke e di Fletcher
Henderson e ascese quella di Duke Ellington, che andò ad affiancare Henderson nella
sua opera di definizione e di arricchimento del linguaggio del jazz per grande orchestra.
Attorno a loro, il coro dei comprimari e delle comparse: uomini, in gran parte, pieni di
entusiasmo e consapevoli della possibilità che era loro offerta di giocare un ruolo nella
invenzione di una musica nuova [Polillo 1975, 127].
Quelli che avevano un lavoro pagavano da bere a chi non stava lavorando. Questo
era una specie di accordo di mutua assistenza; chi poteva pagar da bere oggi avrebbe
potuto aver bisogno che qualcun altro gli offrisse da bere domani [Polillo 1975, 149].
I locali di Kansas City erano famosi per le jam sessions che vi si svolgevano e alle
quali prendevano parte i migliori musicisti presenti in città, fra cui i bianchi non erano
minimamente rappresentati [Polillo 1975, 158].
Il jazz di Kansas City era diverso da quello suonato a New York nei
locali di Harlem.
A Kansas City si sviluppò anzi uno stile di jazz con caratteristiche abbastanza pecu-
liari, grazie soprattutto alla soverchiante influenza del blues e alla presenza di alcuni
musicisti di grande personalità, come il pianista e caporchestra William Count Basie e
Lester Young, un tenorsassofonista che sarebbe stato pienamente compreso soltanto
alcuni anni più tardi [Polillo 1980, 598].
Le reazioni positive, nel mondo del jazz, non tardarono; il jazz, sia chiaro, non era
46 CAPITOLO SECONDO
sparito dal mondo dello spettacolo, anche se molti musicisti erano stati costretti a tro-
varsi altri lavori per l’insufficienza degli ingaggi dovuta alla situazione generale,
stiracchiando giorno dopo giorno i mesi in attesa che qualcosa di nuovo accadesse. E
qualcosa di nuovo, di veramente nuovo, puntualmente accadde [Roncaglia 1998, 163].
L’era delle orchestre swing è stata la prima volta in cui il jazz, ed alcuni suoi stretti
derivati, sono entrati a pieno titolo nel calderone della musica pop. La gente, recandosi
al lavoro, fischiettava i brani più famosi, i musicisti divennero autentiche celebrità sotto
il costante assedio dei fan, e artisti di successo come Artie Shaw, Glenn Miller e Harry
James riuscirono a vendere milioni di dischi [Carr 1998, 38].
Dopo il successo di Goodman, e per alcuni anni, la parola jazz fu archiviata e non si
parlò che di swing, di cui il clarinettista di Chicago fu proclamato re [Polillo 1980, 598].
La grande popolarità del jazz durante l’era dello swing ebbe tuttavia anche effetti
negativi sulla qualità di gran parte della musica prodotta in quegli anni, che molti dei più
celebrati capiorchestra bianchi cercarono in ogni modo di rendere accettabile al grosso
pubblico ricorrendo a effetti “facili”, meccanizzando e standardizzando gli arrangia-
menti e anche l’improvvisazione dei solisti. Sintomatico fu, a questo proposito, l’uso e
l’abuso dei cosiddetti riff [Polillo 1980, 598].
quale definiva l’impostazione del suono della band attraverso gli arran-
giamenti scritti. Completavano il quadro gli interventi improvvisati dei
solisti, sassofonisti o cantanti, che partecipavano come ospiti di spicco
della serata. La formazione delle big bands era dovuta principalmente
all’esigenza di creare un rilevante volume sonoro, sufficiente alla
sonorizzazione dei grossi locali da ballo. Le grandi orchestre si erano
quindi costituite per far ballare la gente, e in questo lo swing fu davvero
infallibile. D’altronde, dopo la Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uni-
ti si verificarono grandi trasformazioni economiche e soprattutto socia-
li. La libertà dei costumi semplificò i rapporti tra uomini e donne, e ciò
ebbe notevoli ripercussioni anche nel mondo della danza. Le vecchie
sale da ballo cominciarono a chiudere, mentre nasceva la moda dei
cabaret e dei night club. La musica preferita dai giovani era il jazz, e i
ritmi del jazz spazzavano via i tradizionali balli di coppia: dal tango al
valzer, dalla polca alla mazurca. Le nuove danze erano quelle apparte-
nenti al genere jitterbug (da jitters: nevrastenia): charleston, lindy hop
(jive), black bottom, shimmy, truckin, big apple, routines. Lo scopo di
molte orchestre che lavoravano nei locali era quello di far ballare i clienti
e far divertire gli spettatori, per questo motivo al jazz puro si sostituiva
il genere “sinfonico”. A partire dal 1925 anche il pubblico bianco scoprì
la piacevolezza del jazz, e cominciò a frequentare i locali che ospitava-
no i migliori gruppi musicali. Broadway diventò il più importante cen-
tro propulsore di novità e produttore di artisti, immancabilmente neri.
L’alta società di New York e tutti i bianchi detentori del potere politico
e finanziario andavano ad Harlem per assistere alle serate dei grandi
musicisti neri che si esibivano al Savoy Ballroom e al Cotton Club. Oggi
le danze che si ballavano sui ritmi jazz non esistono più, il jazz è dive-
nuto una musica di ascolto, e ha perso molta della “spensieratezza” di
quell’epoca.
Le grandi orchestre della Swing Era erano un intrattenimento sia per gli ascoltatori
che per chi danzava ed erano molto istruttive per i musicisti che ci suonavano. L’educa-
zione formale nel jazz era scarsa prima del 1950; in particolare la discriminazione raz-
ziale spesso bloccava l’accesso ai conservatori per i musicisti neri. Lavorando e viag-
giando con le grandi orchestre, ad ogni modo, i giovani musicisti imparavano a suonare
insieme ad altri, a costruire assolo accattivanti, ad accompagnare insieme alla sezione
ritmica con l’uso di riff; i musicisti più anziani offrivano trucchi sulla tecnica ed aiuti
nell’interpretazione degli arrangiamenti scritti. I musicisti inoltre imparavano i valori
extramusicali della presentazione e della presenza scenica, del gestire le questioni finan-
ziarie e del mantenere la disciplina. Questi gruppi, quindi, erano sia unità sociali
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 49
Il successone di The Music Goes ‘Round and Around e dei primi complessi dell’Onyx
diede un contributo decisivo al lancio della 52a strada come “strada dello swing” e, per
i profani, come “la via in cui è sempre la notte di capodanno” [Polillo 1975, 176].
Il mito della 52a strada sarebbe poi proseguito per lungo tempo e
avrebbe fatto di New York la capitale mondiale del jazz.
Per il grande pubblico Glenn Miller e le Andrews Sisters sono state l’esempio più
lampante dell’alleanza tra musica e forze armate durante la Seconda Guerra Mondiale;
con i V-disc, comunque, la musica è stata veramente mandata al fronte [Carr 1998, 55].
All’inizio degli anni quaranta era diventato un punto obbligato di incontro per non
pochi musicisti che di notte, dopo aver finito di suonare nelle varie orchestre, si riuniva-
no fra loro [Roncaglia 1998, 201].
A quei tempi, il Minton’s era il posto per gli aspiranti jazzisti; non è vero che fosse la
“Strada”, come cercano di far credere oggi. Era da Minton’s che un musicista poteva
davvero affilare i denti, e soltanto dopo poteva andare giù alla “Strada”. La
Cinquantaduesima era tranquilla in confronto al Minton’s. Sulla “Strada” ci si andava
per fare soldi e per farsi vedere dai critici musicali bianchi e dai bianchi in generale. Ma
si veniva da Minton’s per farsi una reputazione fra i musicisti. Il proprietario del Minton’s
Playhouse era un nero che si chiamava Teddy Hill. Il bebop nacque nel suo club. Era il
vero laboratorio musicale del bebop. Solo dopo che era stato raffinato al Minton’s
arrivò giù alla Cinquantaduesima Strada, al Three Deuces, all’Onyx e al Kelly’s Stable,
dove c’erano i bianchi ad ascoltare. Ma quello che bisogna ben capire in tutta questa
storia è che, per quanto fosse buona la musica che si sentiva sulla Cinquantaduesima
Strada, non era assolutamente eccitante e innovativa come quella su da Minton’s [Davis
– Troupe 2001, 66-67].
La iperstilizzazione dello swing rese il bop, da un giorno all’altro, uno shock saluta-
re per tutti coloro in cerca di qualcosa di completamente diverso; molte big band del-
52 CAPITOLO SECONDO
l’epoca dello swing, difatti, erano diventate grossi mastodonti sovrarrangiati, alla pe-
renne ricerca di una sonorità caratteristica ma rifugiate nel riff fine a se stesso, a cui
costringevano incessantemente le sezioni fiati. In queste situazioni di rigorosa disciplina
gli assolo erano brevissimi, e comunque riservati prevalentemente al leader o a un paio
di grossi solisti ben pagati. La formula, che aveva mietuto grossi successi, era sul punto
di esaurirsi [Carr 1998, 60].
Parker, come già faceva nelle orchestre swing, anticipa o ritarda di alcune battute il
chorus destinato alla sua improvvisazione, Gillespie raddoppia in alcuni casi la velocità
d’esecuzione dei brani, ancora Parker introduce alterazioni, armonie di passaggio, ac-
cordi sostitutivi di quelli prestabiliti [Cerchiari 2001b, 46].
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 55
Mentre in America e in Europa (è il caso del critico francese Hugues Panassié, che
lancia una crociata antimodernista contrastata fra gli altri da André Hodeir) si sviluppa-
no reazioni negative o censorie nei confronti di Parker e Gillespie, la nuova critica
americana (Leonard Feather, Barry Ulanov) agisce in senso militante a fianco dei boppers
con articoli, produzioni discografiche e radiofoniche. Nel 1949 Feather pubblica presso
J.J. Robbins di New York, attivo da oltre vent’anni nell’editoria musicale, il primo
saggio dedicato alla nuova musica (Inside Bebop), che in apertura riporta ironicamente
una collezione delle più sprezzanti sentenze sfavorevoli al bebop emesse da vari espo-
nenti dell’ambiente musicale. Tra queste l’opinione dello storico della musica statuni-
tense Sigmund Spaeth: «Il graduale sviluppo, o decadenza, della distorsione del jazz...
fino alle artificiali assurdità del cosiddetto stile bebop dovrebbero risultare così ovvie
anche all’ascoltatore casuale» e quella di Tommy Dorsey, trombonista e band leader fra
i più in vista dello stile swing, il quale afferma che «Il bebop ha fatto retrocedere la
56 CAPITOLO SECONDO
Per tutti questi motivi al grosso pubblico, cui il bop non era del resto
destinato, il nuovo jazz non piacque affatto: i suoi temi, spesso esposti
su tempi velocissimi, erano assai poco orecchiabili, e i suoi ritmi, addi-
rittura sconcertanti per il profano, non erano certo adatti per il ballo.
Inoltre, disturbò qualcuno l’atteggiamento ostentatamente scontroso dei
musicisti bop, i cui volti impassibili lasciarono perplessi coloro che nel
jazz avevano fino allora cercato, e il più delle volte trovato, una musica
brillante e scacciapensieri, addirittura mondana.
Proprio perché il bebop esercita le sue prime manifestazioni ai margini del jazz
allora predominante e si sviluppa come mezzo di sperimentazione di nuove forme in
reazione alle correnti in voga, proprio perché è opera di alcuni musicisti neri disgustati
dal jazz che sono costretti a produrre commercialmente, esso segna la presa di coscien-
za, da parte di questi musicisti, di una certa alienazione e della sottomissione a quel
tempo completa della loro musica agli interessi commerciali e ai valori culturali bianchi
[Carles – Comolli 1973, 65].
«Tutto quello che vogliono fare è dell’esibizionismo, e ogni vecchio trucco è buono
purché sia differente da quello che voi avete suonato fino adesso. Così tirano fuori tutti
quegli accordi strampalati che non significano niente, e in principio la gente prova della
curiosità soltanto perché si tratta di una novità, ma poi si stanca perché non è veramente
buona; non c’è nessuna melodia che si possa ricordare e nessun ritmo regolare su cui si
possa ballare. E così tornano a essere di nuovo poveri e non c’è lavoro per nessuno, e
questo è quanto vi ha combinato la malizia moderna». La verità era molto diversa. Il
bebop non soltanto rappresentava un notevole progresso sul jazz precedente dal punto
di vista ritmico, armonico e melodico, ma significata la completa rottura con una musi-
ca industrializzata e stereotipata quale era ormai il cosiddetto swing così come lo suo-
navano le orchestre più popolari d’America, e cioè anzitutto quelle bianche. Il bebop,
anzi il bop, come si cominciò a dire, non voleva essere una musica da ballo; voleva
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 57
«Cool jazz, per me, non ha alcun significato. È un’etichetta priva di gusto, un’eti-
chetta commerciale che venne attaccata, senza alcuna logica, alla musica che incisi anni
fa coi miei gruppi. Cool jazz è un termine stupido. Il jazz che noi si suonava non era
affatto freddo (cool). Era rilassato, era privo di spettacolarità (showmanship), era serio
e impegnato, questo sì, ma non certo freddo» [Polillo 1975, 643].
Il cool jazz ebbe una vita brevissima e non fortunata: in prospettiva appare, oggi,
come una deviazione piuttosto che una tappa nella storia del jazz, il quale riprese il suo
cammino senza tenerne conto, quando l’avventura dei coolsters (qualcuno chiamava
così i campioni del nuovo stile) fu conclusa. Ciò nondimeno fu un’avventura tutt’altro
che ingloriosa: fra le poche incisioni che si possono sicuramente attribuire a questo stile
alcune sono fra le più belle della discografia jazzistica. E fu un’avventura necessaria,
che consentì di saggiare alcune ancora inesplorate risorse del linguaggio del jazz e di
conoscerne i limiti [Polillo 1975, 216].
58 CAPITOLO SECONDO
Bastava fare una passeggiata, la sera, lungo la 52a strada di New York, per rendersi
conto di quanto le cose fossero cambiate, nel giro di qualche anno. Nei localini che si
aprivano sui due lati di quella che era stata la “Swing Street” era adesso molto più facile
imbattersi nelle specialiste dello spogliarello che nei jazzmen, i quali gravitavano ormai
attorno ai nuovi templi jazzistici di Broadway, senza troppe speranze, però, di trovarvi
lavoro, a meno che non fossero personaggi di primo piano [Polillo 1975, 215].
Nel corso degli anni Quaranta aveva avuto luogo la “sovversione” dei musicisti che
avevano sviluppato il bop; quindi, dopo che i boppers ebbero “stabilito le regole” della
loro rivoluzione musicale, il terreno fu nuovamente fertile per la “reazione” in àmbito
jazzistico; a quel punto l’attenzione del pubblico oltrepassò sia la frenesia del bop, sia
l’estroversa emotività delle orchestre swing degli anni Trenta, per appuntarsi su uno
stile introverso e reticente, in seguito chiamato cool jazz. Elemento distintivo della
nuova tendenza cool fu quello di un marcato richiamo alle tradizioni del jazz, differen-
ziandosi marcatamente dal precedente bop; indubbiamente il bop aveva attinto alle radi-
ci bluesistiche e del primo jazz per il suo sviluppo, ma su quella base aveva creato una
struttura affatto nuova, tale da “rinnegarne” le stesse originarie radici, i seguaci del bop
si consideravano infatti alla stregua di “iniziatori del jazz”, ignorando le strutture musi-
cali affermate dalla tradizione jazzistica. Viceversa, nei pionieri del cool era forte la
consapevolezza di far parte di un più generale percorso musicale nell’àmbito del quale
il loro ruolo era quello di semplici “consolidatori” di una musica che veniva da lontano
[De Stefano 1990, 37-38].
Credo che sia stata una sorta di reazione alla musica di Bird e Diz. Bird e Dizzy
suonavano quelle cose velocissime, se voi non eravate tanto rapidi ad ascoltare non
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 59
potevate sentire gli umori e il feeling della loro musica. Il loro sound non era dolce e
non avevano le linee armoniche da poter canticchiare facilmente per la strada a passeg-
gio con la vostra ragazza mentre cercavate di baciarla. Il bebop non aveva la stessa
umanità di Duke Ellington. E non era nemmeno così riconoscibile. Bird e Diz erano
grandi, fantastici, però non erano dolci. Le radici di Birth of the cool sono quelle della
musica nera, da Duke Ellington. Anche la gente bianca poteva apprezzare la musica che
riusciva a capire, quella musica che potevano ascoltare senza diventare scemi. Il bebop
non arrivava da qualcosa che fosse loro familiare e perciò era molto difficile per la
maggior parte dei bianchi ascoltare quel che si stava suonando. Era una musica comple-
tamente nera. Ma Birth of the cool non era soltanto orecchiabile, c’erano anche dei
bianchi che suonavano e avevano anzi dei ruoli importanti. E questo ai critici bianchi
piaceva molto. Piaceva l’idea che sembrassero avere un ruolo preminente in quel che si
stava facendo. È un po’ come se qualcuno ti stringesse la mano con più convinzione.
Colpivamo l’orecchio di chi ascoltava in un modo un po’ più leggero di Bird e Diz,
tenevamo la musica un po’ più sui binari principali, e questo era tutto [Davis – Troupe
2001, 142].
Figura 10. Trascrizione di una parte di Move, un brano contenuto nel disco
“manifesto” del cool jazz, Birth of the cool.
È sempre esistita una scena musicale molto attiva lungo tutta la costa californiana,
ma la sua larga diffusione ha avuto luogo soltanto con il grande sviluppo dell’industria
cinematografica e televisiva nella vasta area metropolitana di Los Angeles [Carr 1998,
92].
Mentre il bebop newyorkese è l’espressione collettiva di una comunità che lotta per
la sopravvivenza e il proprio riconoscimento, i jazzmen della costa occidentale sembra-
no dedicarsi all’introspezione e ai problemi esistenziali con ostentata indifferenza per la
realtà che li circonda. Di conseguenza, sia gli appassionati sia i critici avranno qualche
difficoltà a collocare quei giovani borghesi bianchi sullo stesso piano degli idoli neri del
ghetto [Bergerot – Merlin 1994, 21].
Alla fine degli anni Cinquanta una nuova generazione di musicisti brasiliani si con-
fronta con il jazz, trasponendovi le sincopi ritmiche e l’euforia del samba. Nasce così la
bossa nova, uno stile che presto contagerà i jazzisti americani [Sperandeo 2001, 7].
Già durante gli anni del bebop e dello swing alcuni musicisti suona-
vano i loro temi su ritmi latini, ma fu solo dopo che il cantante e pianista
Dick Farney “importò” il jazz in Brasile che nacque la bossa nova. Molti
furono i grandi interpreti di questo genere, ma il cantore per eccellenza
del nuovo Brasile fu sicuramente Antonio Carlos Jobim che, con le sue
canzoni e le sue musiche delicate, rappresentava nel modo più autentico
la joie de vivre dei brasiliani, il calore e le spiagge di Ipanema.
Figura 11. I principali artefici del successo della bossa nova ritratti insieme.
Da sinistra: Antonio Carlos Jobim, Vinìcius de Moraes, Ronaldo Boscoli, Roberto
Menescal e Carlos Lyra [JOB].
Hard bop
Al di là della parentesi sulla musica brasiliana, la nuova musica propo-
sta dai musicisti dell’Est degli Stati Uniti fu nuovamente energica e
vicina più che mai a quello che era stato il bebop degli anni Quaranta.
Denominato in seguito hard bop proprio per la sua durezza, mise in luce
il ruolo della batteria che divenne quasi uno strumento solista.
Per alcuni anni non si parlò d’altro che di questo jazz aggressivo, muscoloso e
sanguigno, che fece tramontare le formule, del resto divenute presto stereotipate, in-
ventate e imposte dai jazzmen di Los Angeles [Polillo 1980, 600].
Figura 12. Art Blakey, leader dei Jazz Messengers, alla batteria [WG].
64 CAPITOLO SECONDO
Con l’hard bop il jazz era sempre più orientato verso le piccole for-
mazioni e le grandi orchestre iniziarono pian piano a scomparire, anche
perché, nonostante gli sforzi compiuti da qualche band leader per di-
mostrare il contrario, il pubblico dei giovani aveva ormai perduto il gu-
sto di ballare a suon di jazz. A questo scopo aveva provveduto, e con
successo, il rock & roll che, nelle sue successive trasformazioni, sareb-
be rimasta l’unica musica ballabile di derivazione jazzistica.
Ciò che accadde nei tumultuosi anni Sessanta, la Rivoluzione Nera, l’affermazione
della Nuova Sinistra americana, la crescita del dissenso interno negli Stati Uniti, la
fioritura della controcultura underground, il dilagare della violenza, la palingenesi dei
costumi, la rivolta studentesca, la contestazione del principio di autorità e dell’autorità
e il crollo di tanti valori, miti e tabù fino a quel momento considerati intangibili, si
rifletté chiaramente nelle musiche che rappresentavano le espressioni tipiche dei gruppi
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 65
“tradizione atonale” più lunga di quella della musica europea [Berendt 1979, 34-35].
Le innovazioni propriamente musicali prodotte nel free jazz valgono anzitutto come
effetto e sintomo di un mutamento più generale: quello del rapporto dei neri americani
con la loro cultura, e quella del ruolo che questa cultura assume direttamente nelle lotte
politiche. In sostanza un’analisi i una valorizzazione limitate ai soli rinnovamenti musi-
cali apportati dal free jazz non farebbe che occultare ciò che, a livello politico, li deter-
mina, e cioè in ultima analisi l’istanza politica stessa [Carles – Comolli 1973, 15-16].
La parola free era già comparsa nella seconda metà degli anni Cin-
quanta sulle copertine di alcuni dischi di jazz, ma fu il 12 dicembre
1960, quando uscì l’album del quartetto di Ornette Coleman, intitolato
Free Jazz, che ci si rese conto di essere nuovamente a una svolta nella
storia della musica afro-americana. Il disco divenne subito il “manife-
sto” della nuova musica e suscitò molto scalpore, sia per la sua lunghez-
za (trentasei minuti in due parti), sia per le dichiarate intenzioni di sman-
tellare ogni regola consolidata a livello melodico, ritmico e armonico.
Anche il disco My Favorite Things, di John Coltrane, ebbe grande im-
portanza, perché attribuì al sassofonista il ruolo di guida, che in passato
era stata di Charlie Parker, e ne sancì il successo a livello mondiale. Un
altro grande esponente del free jazz, da cui si sarebbe in seguito stacca-
to, fu il contrabbassista Charles Mingus, la cui musica è stata il perfetto
ponte di collegamento tra le due rivoluzioni del jazz moderno: il bebop,
negli anni Quaranta, e il free jazz, negli anni Sessanta. Infine l’album
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 67
la musica volle offrire un contributo alla lotta di liberazione del popolo afro-ameri-
cano, facendosi per la prima volta veicolo di una veemente protesta, di una richiesta
perentoria di giustizia [Polillo 1975, 257].
“Fare da sé”, “Coscienza negra”, sono parole d’ordine che si odono con frequenza
nelle comunità negre d’America, e i musicisti di jazz sono fra i primi a tradurle, o a
tentare di tradurle, in pratica [Polillo 1975, 263].
68 CAPITOLO SECONDO
«Dal punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sono
retrogradi. Ma il jazz è una realtà americana. Una realtà indiscutibile. Il musicista di jazz
è come un reporter, un giornalista estetico dell’America. Quei bianchi che frequentava-
no i localini di New Orleans pensavano di ascoltare la musica dei niggers ma sbagliava-
no: ascoltavano musica americana. Ma non lo sapevano. Anche oggi quei bianchi che
vanno nel Lower East Side forse non lo sanno ma ascoltano musica americana... il
contributo del Negro, il suo dono all’America. Alcuni bianchi pensano di avere diritto al
jazz... è un regalo che il Negro ha fatto loro, ma loro non possono accettare questo
fatto, ci sono coinvolti troppi problemi connessi con le relazioni sociali, storiche fra i
due popoli. Questo fa sì che sia difficile per loro accettare il jazz e il Negro come il suo
vero innovatore» [Polillo 1975, 263-264].
In ogni caso, non bisogna pensare che il free jazz sia stato un feno-
meno musicale di grandi dimensioni, soprattutto all’inizio ebbe grandi
difficoltà a conquistare i favori del pubblico, in particolare bianco. Fu
forse per questo che molti esponenti della nuova musica decisero di
trasferirsi in Europa, dove era più facile trovare lavoro.
In particolare a Copenaghen gli ambasciatori del nuovo jazz trovarono ciò che ave-
vano invano cercato in patria: un locale importante dove poter presentare, per una
discreta paga e per periodi non troppo brevi, la loro musica. Era il Jazzhus Montmartre,
allora il più vivace centro jazzistico europeo: il “Minton’s del free jazz”, come qualcuno
lo definì [Polillo 1975, 268-269].
Gli anni più prolifici per la New Thing furono probabilmente il 1965
e il 1966, anni in cui uscì, tra l’altro, il disco Ascension di John Coltrane
che lasciò, fra la sorpresa di molti, uno degli esempi più impressionanti
di free jazz. In seguito, dagli anni Settanta in poi, alcuni jazzisti si allon-
tanarono parzialmente da questa strada per dedicarsi ai nuovi generi
musicali come il soul, il rock & roll, la fusion, che avevano guadagnato
i favori del pubblico e consentivano certamente un maggiore successo
commerciale, oltre che la possibilità di sperimentare nuovi orizzonti
sonori.
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 69
Si può dire che sia cominciata in quegli anni l’era del rock, che raggiunse l’apogeo
dopo che fu salita sull’orizzonte la stella di Jimi Hendrix, un giovane chitarrista negro
americano che aveva vissuto oscuramente in patria, nel mondo del rhythm & blues, e
che era poi “esploso” a Londra nel 1966, e dopo che il primo grande festival del pop,
organizzato a Monterey, in California, nel giugno del 1967, dimostrò come sterminato
fosse il pubblico per quella musica, e che cosa significasse per chi avesse vent’anni
[Polillo 1975, 287].
Questi erano, quindi, i nomi dei nuovi idoli musicali dei giovani di
tutto il mondo, con cui i jazzisti dovevano confrontarsi. Il musicista che
per primo abbandonò le vie del jazz acustico per entrare nel mondo del
jazz-rock, utilizzando strumenti elettrici, fu Miles Davis, lo stesso che
anni addietro aveva prodotto tanti dischi apprezzati proprio per la leg-
gerezza e l’intensità dell’esecuzione.
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 71
Benché, com’è ormai chiaro, non sia stato Miles Davis a inventare il jazz-rock, è
indubbio che il trombettista seppe esserne il catalizzatore più potente, indicando strade
e prospettive al jazz elettrico, e covando una nidiata di formidabili artisti che ne avreb-
bero codificato i metodi e le opzioni [Martorella 1998, 38].
Si era reso conto che quella musica faceva parte del suo passato e
che i tempi erano cambiati, anche per il jazz, come egli stesso confessa.
La gente della mia età che mi ascoltava “ai vecchi tempi”, i dischi non li compra
nemmeno più. Se dovessi dipendere da loro, anche se suonassi quello che vogliono,
morirei di fame e non riuscirei a comunicare con la gente che invece i dischi li compra:
i giovani. Anche se volessi suonare questi vecchi pezzi non riuscirei più a trovare la
gente capace di suonarli nel vecchio stile [Davis – Troupe 2001, 453].
Questa musica ha aperto linee di comunicazione fra il jazz tradizionale, con il suo
background improvvisativo, e il rhythm & blues, il funk, l’acid rock bianco; questi
canali di comunicazione sono ancora più ricchi dal momento che le musiche non
jazzistiche implicate fanno comunque riferimento al blues [Cerchiari 2001b, 197].
più che un genere musicale, il metodo di lavoro a esso sotteso, il processo attraver-
so il quale si ottiene, tacendo dei materiali che vengono elaborati e processati [Martorella
1998, 17].
72 CAPITOLO SECONDO
«Lo chiamai e la prima cosa che gli chiesi fu: «Hey, ragazzino, suoni anche il basso
elettrico?». Aveva un suono così caldo e ricco su quel Fender Jazz senza tasti, che
pensavo fosse un contrabbasso» [Milkoswky 2001, 50].
Figura 14. Jaco Pastorius “parla” con il suo basso elettrico Fender senza tasti
[PA].
Facendo ampio spazio alle impressioni di viaggio, il loro repertorio è spesso costru-
74 CAPITOLO SECONDO
ito come musica a programma, un po’ alla maniera dei poemi sinfonici europei di fine
Ottocento e primo Novecento. In seguito, la musica dei Weather Report si orienta ver-
so una fusione di influssi diversi, in cui la scansione binaria del rock e delle musiche
tropicali acquista via via maggiore importanza [Bergerot – Merlin 1994, 91].
La scomparsa delle canoniche “palestre” per i gruppi di nome, come i piccoli club
che consentivano di provare le abilità dei singoli musicisti impegnandoli in interminabili
jam sessions notturne, ha di fatto impedito lo sviluppo di personalità autenticamente
originali. Molti jazzisti oggigiorno escono dalle università o dalle scuole di musica per-
fettamente formati e dotati di tecnica sovrumana, ma privi di qualunque caratteristica
individuale atta a distinguerli dalla massa dei loro colleghi [Carr 1998, 212].
Affascinati dalla vitalità della musica di strada, alcuni jazzisti hanno sperimentato un
inedito linguaggio artistico ai confini con il rap, il ritmo creato dai giovani dei ghetti
newyorkesi [Sperandeo 2001, 199].
cato, anche il precursore Miles Davis che, proprio col disco postumo
Doo Bop, uscito nel 1992, un anno dopo la morte, ha conquistato il
pubblico di tutto il mondo con la fusione fra il suono “magico” della sua
tromba e gli scenari del rap. Su questo filone si collocano sicuramente
il bassista Marcus Miller, il cantante Bobby McFerrin, Herbie Hancock,
Quincy Jones, Archie Shepp, Wayne Shorter, Courtney Pine e tutti que-
gli artisti che hanno aderito a una revisione critica del passato e del
presente della musica afro-americana, con l’intento di valorizzarne mag-
giormente la componente nera. La fusione tra rap e jazz si è realizzata
nel corso degli anni e l’hip hop ha preso sicuramente forma dalla musi-
ca funk degli anni Settanta, quando artisti e gruppi come James Brown,
Sly & The Family Stone, Head Hunters, Earth Wind & Fire, hanno ac-
centuato la componente ritmica e sensuale della musica afro-americana
(funk è il termine con cui si definisce l’odore del corpo durante l’atto
sessuale), mantenendo un occhio di riguardo per la consapevolezza nera.
Nell’hip hop tutto questo è stato sviluppato ulteriormente piegando la
musica alla rivoluzione tecnologica in atto, utilizzando batterie elettro-
niche, loop, campionamenti, software e giradischi. La sintesi fra tutti
questi elementi e le caratteristiche improvvisative e timbriche del jazz
hanno creato questo nuovo genere musicale, rendendolo uno dei più
innovativi degli ultimi anni. Accanto al movimento hip hop, che ha poi
ulteriori e numerosi stili differenti, un altro genere che si è sviluppato
dalla musica afro-americana è sicuramente l’acid jazz. Nato a Londra a
metà degli anni Ottanta come musica da ballo
l’acid jazz è stato molto più di questo. Una miscela di innocenza beat, di ribellione
punk e di soul post anni Sessanta; un impulso al ballo; James Brown sotto acido, gli
aspri allappanti sassofoni contralti di Lou Donaldson e di Maceo Parker che suonavano
ad una festa rap; la perfetta fusione di ritmi hip hop urbani e di melodie puramente
jazzistiche. La definitiva soluzione musicale ai problemi culturali degli anni Novanta
[Carr 1998, 215].
Quindi l’acid jazz era stato concepito come una musica per locali da
ballo, ma una musica comunque soffice, che avesse un tono distaccato.
Tutto era iniziato con l’iniziativa di alcuni D.J. come Baz Fe Jazz e
Gilles Peterson rivolta a dedicare le loro serate al Wag Club di Soho al
jazz autentico, un evento che durò per ben cinque anni, un’eternità per
un locale notturno. Nel 1988, dopo un periodo di lavoro nel locale
78 CAPITOLO SECONDO
La strada per l’evoluzione autonoma del jazz europeo si è aperta soltanto dopo che
la musica jazz si era liberata dalla dittatura del metro regolare e uniforme, dell’armonia
funzionale convenzionale dei periodi e dei decorsi armonici simmetrici. La prima spinta
in questa direzione è avvenuta, anche in questo caso, dall’America, da musicisti come
Cecil Taylor, Ornette Coleman, Don Cerry, Sun Ra che crearono il “suonare libero” a
cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma questa spinta ha avuto in Europa un’effica-
cia maggiore che non negli Stati Uniti; sembrava di aver trovato terra particolarmente
fertile al di qua dell’Atlantico. Probabilmente perché il concetto dell’atonalità, nel suo
significato più ampio, non ha provocato in Europa la scossa che invece ha provocato in
America. La moderna musica da concerto ha abituato l’ascoltatore a passaggi musicali
atonali e l’atonalità si era, contrariamente a quanto accadeva in America, inserita nei
concerti e nelle trasmissioni radiotelevisive [Berendt 1979, 396-397].
Fu quindi il free jazz a dare la spinta finale per l’avvio della musica
jazz in Europa, dove, con il dissolvimento dell’armonia funzionale, si
aprì la via all’improvvisazione collettiva, libera e indipendente. D’al-
tronde, il concetto di avanguardia era più facilmente assimilabile in
Europa, dove il radicalismo e l’anarchismo nell’arte erano da tempo
entrati nel giudizio estetico comune. Ecco, quindi, che il jazz europeo si
configura come un jazz collettivo, complice anche la grande tradizione
orchestrale, dove non c’è la predominanza di una star solista, come in-
vece avviene nel jazz più propriamente americano. Restano, comunque,
dei nomi di musicisti europei che hanno raggiunto la fama internaziona-
le come solisti, quali il pianista tedesco Alexander von Schlippenbach,
il sassofonista Peter Brotzmann, il chitarrista inglese Derek Bailey e, in
tempi più recenti, il sassofonista norvegese Jan Garbarek (già collabo-
ratore di Keith Jarrett) e il pianista francese Michel Petrucciani.
Dalla fine degli anni Sessanta il nuovo jazzman europeo è una realtà indiscutibile: è
un musicista che non si limita a suonare alla maniera degli americani, dopo averne
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 81
raccolto di rimbalzo le idee e le proposte stilistiche, ma fa spesso musica con loro e non
ha più paura di inventare [Polillo 1975, 298].
Il musicista jazz europeo di oggi dispone di una tavolozza musicale i cui colori
provengono dalla grande cultura musicale e dal folklore di tutto il mondo e conosce il
suo Stockhausen e il suo Ligeti meglio di qualunque suo collega americano. Di questi
elementi egli dispone con maggior disinvoltura e maestria dei jazzisti americani e dei
concertisti europei, in quanto nei primi predomina la tradizione jazz e nei secondi la
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 83
Figura 16. Mappa cronologica della storia del jazz [Berendt 1979, 13].
84 CAPITOLO SECONDO
Il concetto stesso di “concerto jazz”, d’altronde, non faceva parte in quei tempi del
lessico utilizzato dal mondo dello spettacolo, che rivolgeva i suoi interessi musicali
pressoché esclusivamente a musicisti e orchestre funzionali ai dancings nei quali il pub-
blico chiedeva musica acconcia per ballare [Roncaglia 1995, 40].
Negli american bar d’albergo, ma anche nei locali notturni più o meno esclusivi, i
clienti venivano intrattenuti da orchestre, termine che a tutti gli anni Sessanta servirà a
indicare indifferentemente i complessi da ballo, che a partire dagli anni Venti si sarebbe-
ro servite anche del jazz per accompagnare la vivace ed effervescente cocktail culture
italiana. Spesso si trattava di veri e propri pionieri del ritmo sincopato, costretti a con-
trabbandare il jazz a inizio e fine serata davanti a un pubblico affamato di tanghi, valzer
e al massimo di esotismi latino-americani come la rumba, danza afro-cubana dal carat-
tere fortemente sensuale che negli anni Venti e Trenta incontrerà i favori del pubblico
nostrano [Adinolfi 2000, 383].
L’America postbellica con le sue jazz bands, sopra i frenetici ritmi dei quali si balla
in ogni sala e salotto dell’universo intero, sta metodicamente soffocando le ricche e
delicate tradizione autoctone presso i popoli che sono i depositari legittimi della sag-
gezza e della misura antica [Mazzoletti 1983, 191].
Il jazz, di fatto, si ascoltava a quei tempi nel chiuso delle case, fra amici fidati,
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 87
Ovviamente con uno di essi che, a turno, faceva da “palo” all’esterno per segnalare
l’arrivo di eventuali ronde fasciste o militari: cosicché accadeva sovente che The Sheik
of Araby, tema sul quale ci si sbizzarriva più di frequente, sfumasse nelle note di Giovi-
nezza o di qualche canzonetta in voga all’epoca [Roncaglia 1995, 74].
Venne poi la guerra, che causò un black out sia per le informazioni
che provenivano dagli Stati Uniti, sia per l’attività stessa dei jazzisti
italiani che furono costretti a partire per la guerra o a fare i conti con la
sempre più dura repressione del regime fascista. Ciò che avvenne nel
periodo prebellico costituì, in ogni caso, la solida, necessaria base affin-
ché il jazz conquistasse un equo riconoscimento in Italia. Fu però nel
dopoguerra che il jazz ebbe finalmente la possibilità di poter essere suo-
nato, ascoltato, vissuto senza repressioni e le orchestre iniziarono a inci-
dere dischi non più mascherati sotto falso nome, come nel caso di At
The Woodchoppers Ball di Pippo Barzizza o Tuxedo Junction di
Giampiero Boneschi, realizzato a neppure un mese dalla fine della guerra.
Sempre nel primo dopoguerra ebbero finalmente libertà di esprimersi
studiosi come Arrigo Polillo, Giuseppe Barazzetta e Roberto Leydi,
coautori della Enciclopedia del Jazz, prima opera al mondo di tale mole
e di così ricchi contenuti. In ogni caso fino agli anni Cinquanta e Ses-
santa il jazz italiano era rimasto fortemente ancorato al modello ameri-
cano, non avendo potuto sviluppare una propria autonomia stilistica.
Il jazz italiano è stata una realtà irrilevante finché ha aderito al modello americano in
modo qualunquistico, riproducendo in chiave acritica e imitativa, e quindi ottusa e rea-
zionaria, l’esaltazione derivata da certe immagini musicali; ma l’imitazione si basa essa
stessa su un presupposto di qualunquismo [Castaldo 1978, 116].
dare una forte spinta verso una musica che fosse sì d’ispirazione
jazzistica, ma che includesse anche molti elementi della cultura musi-
cale italiana, così ricca e fertile di talenti. Il musicista napoletano Mario
Schiano può essere considerato uno dei pionieri del free jazz in Italia e
fondò, insieme al sardo Marcello Melis e al romano Franco Pecori, il
Gruppo Romano Free Jazz. Questi musicisti prendevano spunto da quello
che stava accadendo, non solo musicalmente, ma anche socialmente, in
America, per adattare la nuova musica alla loro realtà sociale, come
dirà lo stesso Schiano a Il Manifesto: «Cercavamo di spiegare il nostro
free come adesione ideologica e stilistica alla protesta espressa in musi-
ca dai neri e come risposta provocatoria alla nostra realtà». Non era
però facile il colloquio con un pubblico che, all’epoca, si manifestava
piuttosto indifferente a queste forme musicali, preferendo di gran lunga
le esibizioni dei cantanti nei night club, i quali seguivano una via più
“classica” e riscuotevano maggior successo. Anche lo stesso Schiano
ricorderà, dei suoi esordi nei locali: «Nel 1955 ho suonato nei locali di
Napoli. Lì c’erano locali notturni importanti come il Lloyd Club, il Ros-
so e il Nero, il Milleluci e lo Shaker. Ovviamente esisteva una notevole
differenza tra il night club statunitense e quello italiano. Da noi veniva
privilegiato il repertorio leggero, cose come Maruzzella o Luna Caprese.
La musica internazionale contava poco, anzi quasi nulla. Certamente
non è stato facile abbandonare il night, che in fondo procurava anche
discreti guadagni. Ma è stata una questione di scelte e aspirazioni. Per-
ché i locali notturni non consentono di esprimersi, all’interno manca la
possibilità di improvvisare. Nel night hai di fronte un pubblico che non
è entrato per sentire la tua musica, ma per ballare, o chiacchierare».
Ancora oggi, nella maggior parte dei locali notturni, la gente considera
la musica come un sottofondo piacevole, ma pochi sono i locali dove
effettivamente si va per ascoltare appositamente i musicisti suonare.
In Italia, terminata la Seconda Guerra Mondiale, gli uomini, gli ambienti, sono
diametralmente opposti rispetto alla situazione degli Stati Uniti. Noi la guerra l’aveva-
mo avuta direttamente nelle nostre case! Le situazioni mentali, psicologiche degli italia-
ni, le città ridotte a cumuli di macerie, il ricordo di quegli anni orrendi appena trascorsi,
fanno scattare nella gente una grande molla: la voglia di dimenticare, di ricominciare, di
ballare, di esorcizzare la grande paura appena trascorsa, il desiderio di riassaporare la
gioia dopo tanti anni di sofferenza. Qui da noi non si anticipa il futuro, come facevano
negli Stati Uniti, i jazzisti del bebop, si ricomincia a vivere il presente. Lo swing, il
dixieland, erano generi musicali già precedentemente conosciuti nel nostro paese, solo
ora, nella seconda metà degli anni ’40, nasce un nuovo genere jazzistico interamente
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 89
era imposto nei locali notturni di Torino, città in cui era nato e in cui aveva conosciuto
Leo Chiosso, il paroliere delle sue canzoni più famose. Negli anni Cinquanta è stato il
musicista più richiesto dai locali notturni italiani e anche il primo a usare ritmiche jazz
fino a quel momento insolite per le canzoni di musica leggera [Adinolfi 2000, 404-405].
Gli appuntamenti più elettrizzanti del Victor’s Bar erano quelli del venerdì, veri e
propri gran gala curati nei minimi dettagli da Tombolini. Sarebbero divenuti i primi
tentativi di riportare anche in Italia l’usanza della “sala a tema”, ricreando all’interno di
un locale terre e culture distanti e soprattutto mille esotismi d’America [Adinolfi 2000,
408].
Alle Grotte, note a partire dagli anni Trenta per aver ospitato Frank Whiters, Vitto-
rio Spina e altri jazzmen italiani e stranieri, le orchestre principali cominciavano a suo-
nare intorno alle 23.00 e terminavano alle 4.00. Il ristorante apriva alle 21.00 e già alle
21.30 le saracinesche venivano abbassate per frenare l’afflusso di pubblico. I clienti,
sempre abbienti e dal portafoglio facile, come del resto la clientela degli altri locali,
cenavano cullati da orchestre minori, ma non per questo meno preparate [Adinolfi 2000,
419].
Erano anche anni in cui emergeva in misura sempre più appariscente il concetto
della politicizzazione della musica e la conseguente contestazione, in base alla quale i
gruppi di giovani, utilizzando il principio contenuto nello slogan “la musica è nostra”,
rivendicavano il diritto di assistere gratuitamente a ogni tipo di concerto, rock, pop o
jazz, mettendo in atto lo “sfondamento”, la pressione in massa sugli ingressi ai concerti
[Roncaglia 1995, 60-61].
se non vi importa del jazz, andate pure a Umbria Jazz i prossimi anni,
ammesso che la manifestazione venga ripetuta... ma se invece amate il
jazz e la vita dello zingaro non fa per voi... statevene a casa. Al posto del
jazz, che si ascolta malissimo, stando in piedi o arrampicati chissà dove,
anche sugli alberi, potrebbe esserci qualunque altra cosa: rock, che riu-
scirebbe certo più gradito, o una competizione sportiva, tanto che alla
quasi totalità del pubblico del jazz non importa, e non è noto, pressoché
nulla...». Le parole di Polillo colgono una parte della verità, poiché se è
vero che molti giovani si recavano a Umbria Jazz trascinati dal clamore
e non tanto dalla passione per la musica jazz, ce ne furono di certo molti
che, ascoltando quei concerti, ebbero la possibilità di appassionarsi a un
genere musicale fino ad allora a disposizione esclusivamente di ristrette
cerchie di appassionati, questo anche per i prezzi proibitivi dei concerti.
Ovviamente chi divenne, in quegli anni di tumulti, ascoltatore e parteci-
pe dovette poi rivalutare il suo approccio alla musica, così come il modo
di fruirla. Quindi, nonostante i disagi, il togetherness, lo stare insieme,
riuscì comunque a suscitare riflessioni sulla musica nella testa di molti
giovani ascoltatori.
“vivibili” da parte del pubblico e anche gli stessi musicisti furono ben
contenti di tornare a esibirsi.
che vantano collaborazioni anche con jazzisti importanti. Fra i tanti nomi
vanno citati sicuramente i trombettisti Enrico Rava e Paolo Fresu, che
sono due realtà importanti del panoramo jazzistico italiano, così come i
pianisti Enrico Pieranunzi, Giorgio Gaslini, Franco D’Andrea, Stefano
Bollani, Danilo Rea, i sassofonisti Massimo Urbani, Maurizio
Giammarco, Stefano Di Battista, Rosario Giuliani, i bassisti Giovanni
Tommaso, Bruno Tommaso, Enzo Pietropaoli, Furio Di Castri, Dario
Deidda, i batteristi Massimo Manzi e Roberto Gatto, le cantanti Maria
Pia De Vito e Tiziana Ghiglioni. Questi sono, ovviamente, solo alcuni
dei nomi più importanti del panorama jazzistico italiano degli ultimi
anni. Sicuramente uno dei musicisti più carismatici, attivo ancora oggi,
è Enrico Rava che racconta, ancora oggi, come il suo amore per la mu-
sica e per la tromba in particolare, sia nato quando rimase “folgorato”
dal concerto tenuto da Miles Davis al Teatro Nuovo di Torino nel 1956.
Nato a Trieste il 20 agosto del 1939 si trasferisce ben presto all’ombra
delle Alpi, dato che Torino è la metropoli italiana d’avanguardia per
eccellenza, e nei locali storici come l’Hiroshima, il Aeiou, il Capolinea
n. 8, il Doctor Sax, si sono esibiti i più grandi jazzisti nazionali e inter-
nazionali. Già dagli anni Sessanta, Rava incide su vinile, ma sarà l’in-
contro con il sassofonista argentino Gato Barbieri, avvenuto a Roma nel
1964, a far conoscere il trombettista al pubblico italiano. L’incontro,
invece, con il sassofonista soprano Steve Lacy lo proietta nel mondo del
free jazz, molto in voga in quel periodo di forti rivoluzioni sociali. Da lì
a trasferirsi negli Stati Uniti, dove suonano i migliori jazzisti del mon-
do, il passo è breve, e Rava lo compie dal 1969 al 1977. In quegli anni
suona con Carla Bley, Charlie Haden e con molti altri musicisti che lo
aiutano ad acquisire quella marcia in più che, una volta rientrato in Ita-
lia, lo distinguerà, rendendolo autore e leader di progetti artistici a suo
nome, come nel caso del suo primo disco: Il giro del mondo in ottanta
giorni. Da lì in poi molti saranno i dischi incisi da Rava e molti anche i
successi ottenuti con la sua musica che, col tempo, ha imparato a eman-
ciparsi dai modelli dei primi anni quali Miles Davis e Chet Baker, ac-
quisendo una poetica originale che lo renderà uno dei pochissimi artisti
italiani a vantare un credito sia in Europa che in America.
96 CAPITOLO SECONDO
Le analogie tra le vicende umane di Parker e Urbani sono d’altra parte impressio-
nanti. Bird scompare a trentacinque anni, il sassofonista italiano a trentasei. Entrambi
pagano il prezzo di un’esistenza fatta di eccessi e sregolatezze. Entrambi giungono fino
al punto di autoemarginarsi, trovando nella musica e nel sassofono gli unici stimoli per
andare avanti [AU].
GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ 97
Un fedele ritratto per immagini del musicista è quello tracciato dal regista Paolo
Colangeli nel documentario Massimo Urbani nella fabbrica abbandonata. Le prime
immagini ci mostrano il sassofonista mentre suona da solo in un vecchio capannone
industriale, come a sottolineare la forte individualità che caratterizza la sua concezione
della musica. Poi è lui stesso a raccontarsi, a parlare della sua vita, delle sue scelte e del
suo rapporto tormentato con le droghe. Le scene successive si svolgono di notte, su
un’automobile che percorre le strade di Roma. Massimo suona il suo strumento e ri-
sponde alle domande dell’intervistatore. La città che scorre attraverso i vetri dei fine-
strini appare cupa, difficile, poco ospitale e soltanto a tratti Urbani ritrova il sorriso,
quel lampo nello sguardo, quella gioia e quell’energia che si riverberano nella sua musi-
ca [Sperandeo 2001, 353].