Santa Maria Zarapoti
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Info su questo ebook
Vincenzo Belcamino (1935-2018) è nato a Santa Maria di Catanzaro. Si è laureato nel 1969 in Lettere Moderne presso l’università di Messina, conseguendo nel 1971 l’abilitazione per l’insegnamento. Dallo stesso anno ha ricoperto la cattedra di lingua e letteratura italiana e storia nell’Istituto “B. Grimaldi” presso Catanzaro. Per due anni è stato coordinatore dei corsi di abilitazione per laureati aspiranti all’insegnamento di educazione artistica e di pedagogia, tenuti a Reggio Calabria. Da sempre studioso appassionato della storia e delle usanze locali, ha pubblicato i volumi: Sant’Antonio e i ferrovieri di Catanzaro Lido (2003), per cui l’Accademia dei Bronzi lo ha insignito del premio Vivarium (2010), e ‘A fharza ‘e Carnalavara (1999). Ha contribuito alla traduzione dal latino delle bolle papali riguardanti la storia del Santo Rosario e ha tradotto per intero la Chronica Trium Tabernarum et quomodo Catacensis Civitas fuerit aedificata, pubblicata da Ursini Edizioni in un prestigioso volume di Domenico Montuoro. Ha collaborato con il periodico popolare catanzarese ’U Vanderi e con vari quotidiani locali. Ha fondato, a Santa Maria, il Circolo Sociale culturale e ricreativo, la Scuola di Musica e la Banda Musicale “Le Chiocciole”.
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Anteprima del libro
Santa Maria Zarapoti - Vincenzo Belcamino
Vincenzo Belcamino
Santa Maria Zarapoti
Storia di un antico suburbio
di Catanzaro
© 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - [email protected]
ISBN 978-88-306-9958-8
I edizione ottobre 2024
Finito di stampare nel mese di ottobre 2024
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Santa Maria Zarapoti
Storia di un antico suburbio di Catanzaro
Ai miei genitori
e alla mia adorata Rosetta
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Fig. 1 Il quadro della Madonna Assunta¹
1 Quadro della Madonna di Santa Maria Zarapoti, trasferito da alcuni anni nel Museo Diocesano di Catanzaro. La sacra icona vuole essere emblematica della storicità civile, religiosa e devozionale di Santa Maria Zarapoti.
Prologo
Agli abitanti di Santa Maria che in ogni tempo popolarono le rive e le campagne dello Zarapotamo² rimasti alla storia sconosciuti, pur dopo una vita nobilitata dal lavoro, dall’amore per la famiglia e dalla devozione per la Vergine Maria del cui nome s’intitola il luogo.
Ad essi, nativi e foresti³, lontani discendenti di città distrutte dalle primiere e potenti poleis greche, nonché di quei nuclei di superstiti della Regio III romana⁴ abbrutiti e immiseriti da popoli barbari e da famelici avventurieri, fu negato di avere una patria e un’identità propria.
Ad essi,
che dopo molte generazioni ed una lunga vicenda di dispersione e riaggregazione⁵, tra fascia costiera e primo interno collinare⁶, sulle ceneri della nobilissima Trischene⁷in più alto e sicuro luogo fondarono Catanzaro, innalziamo un’ara tardiva ad imperitura memoria del loro eroismo esistenziale.
Possa il loro spirito avvertire i moti del mio cuore e attinger conforto da queste mie parole, intese a perpetuarne la memoria e a riscattarne, se a tanto possono valere, la dignità di uomini e di cittadini, da un’anacronistica e sofferta minorità⁸ sociale, agli occhi dei loro discendenti e nel nome glorioso⁹ di Catanzaro.
Ora riposano i miei cari, idealmente uniti nella morte come furono nella vita e per come si conviene nel mondo degli affetti, non più in una fossa comune¹⁰, ma nel nostro modesto Cimitero, sorto da meno di un secolo sulla collina di don Pietro Cirillo, per interessamento del cav. Domenico Procopio, nelle vesti di ufficiale di governo e collaborato dal parroco di allora don Teodoro Diaco.
Il primo corpo di fabbrica di così indispensabile luogo sacro fu affidato, per gara di appalto e per come nei relativi atti del comune, proprio a mio padre, mastro Luigi, il muratore per antonomasia, stimato come tale in paese, per avervi costruito a regola d’arte e a modici prezzi, un gran numero di case, per lo più in pietra viva e tufo, quando ancora del cemento armato qui appena se ne parlava.
Ai così innumerevoli e beneamati estinti, dei quali fino ad oggi nessuno si è soffermato a contemplarne i pregi e l’indomito coraggio, quel che di suo padre scrisse un poeta¹¹, convien ch’io ripeta:
Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi un uomo estraneo, per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno che la prima viola sull’opposto muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro. […]
E, di inverni, quanti vennero a vivere e a morire in questa valle della fiumara¹², ne ebbero da ricordare fin troppo lunghi e duri!
E non tanto per i terremoti e le alluvioni che martoriarono la Calabria fin dai suoi primordi, ma perché, a renderne più amara la vita, valsero poi la crudeltà degli uomini e l’operato di quanti quivi vennero a battagliare per averne il possesso e poter utilizzare l’istmo più breve tra il mare Jonio e il Tirreno.
Le leggi della natura e la cupidigia di quanti nel corso dei secoli vi riuscirono a signoreggiare e a defraudarne le ricchezze del suolo, contribuirono a stravolgerne persino la fisionomia e la configurazione geografica. Incendi e disboscamenti, iniziative di distruzione e di sempre nuovi ed inconsulti insediamenti, valsero a trasformarne e a degradarne il paesaggio e ad abbrutire usi, costumi e prerogative umane.
2 Vedi il paragrafo Zarapotamo, Santa Maria del fiume asciutto
.
3 Considerati paesani, se pure provenienti da altri luoghi, per affinità di usi e di costumi, di parlate, di credenze, di tradizioni e di condizioni di vita.
4 La Regio III Lucania et Bruttii, la terza delle Legioni dell’Italia augustea, confinava ad est ed a nord con la Regio II (Apulia et Calabria), a nord-ovest con la Regio I (Latium et Campania), mentre a sud era racchiusa tra lo Ionio ed il Tirreno e si spingeva fino al Fretum Siculum (lo stretto di Messina).
5 Richiamo qui la visione storica di cui in Zinzi, Catanzaro storia-cultura-economia, 1994, pag. 38.
6 Vedi Castagna, 1983.
7 Vedi il paragrafo Trischene o Tres Tabernae
.
8 Come in Kant, 1784, minorità imputabile a propria colpa, per la mancanza di decisione e di coraggio di servirsi del proprio intelletto: sapere aude!
9 Nella dedica del volume D’Amato, 1670, l’autore cita il glorioso nome dell’illustrissima, famosissima e fedelissima Città
.
10 Fuori dalla chiesa, come l’editto di Saint Cloud (1821) volle che si facesse, e con sopra un marmo che ne potesse distinguere le ossa.
11 Sbarbaro, 1914. Nel contesto della poesia A mio padre l’autore effonde la squisita sensibilità di un genitore, al quale basta un fiore per lenire il rigore invernale, per alimentare il calore affettivo dell’ambiente domestico.
12 A regime torrentizio.
PARTE I
Terra di eroi e di vinti
"Il mare non ha paese nemmeno lui
ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare
di qua e di là dove nasce e muore il sole".
G. Verga (1840-1922), I Malavoglia¹³
Una storia che non tenga conto dell’operato degli strati più bassi di un popolo, in qualunque tempo osservato, asservito al potere, non è una storia¹⁴ compiuta da tramandare ai posteri, ma un fantasmagorico castello costruito dove il mare fa risacca.
Essa, pertanto, va ricostruita in onore della giustizia, della verità e del valore che ogni collettività umana ha acquisito per merito proprio.
Chi tra gli storiografi si è limitato a cantare spade ed allori, personaggi illustri e città blasonate, quasi che il resto dell’umano genere fosse nient’altro che materia vile, null’altro ha insegnato se non ingiustizie, frodi e crudeltà.
Così insegna Niccolò Machiavelli che sfrondando lo scettro ai regnatori, ha mostrato di che lagrime esso grondi e di che sangue¹⁵.
Eroi
Con l’inusitata espressione di eroismo esistenziale, ho inteso omaggiare, con una dichiarazione di stima e di rispetto, tutta la gente del luogo, riconosciuta degna di un ideale monumento e di una durevole testimonianza a ricordo delle proprie virtù comportamentali e operative. Grazie ad esse si è protratto nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni il retaggio morale, civile, culturale e religioso dei nostri padri, che con indefesso spirito di sacrificio, di rinunce e di trasporto devozionale verso la Vergine Santissima, hanno costituito, di genti diverse provenienti da ogni luogo, una famiglia unica intitolata Santa Maria Zarapoti¹⁶.
La storiografia locale non registra a loro carico alcunché di memorabile, in quanto gli scrittori di ogni tempo hanno tralasciato di accostarsi al mondo delle masse popolari, costituite dai bassi ceti sociali, per lo più ignoranti, asserviti ai padroni delle terre e delle ricchezze e detentori di ogni potere. Eppure, solo sudoris aspersione atque sanguinis effusione¹⁷ si scrive la vera storia del genere umano.
In questa plaga di terra sottostante a Catanzaro, caratterizzata da indicibili privazioni, da miseria, da indigenza e da immeritate umiliazioni imposte non solo da calamità naturali quali terremoti, alluvioni, frane, impaludamenti e allagamenti dovuti agli annuali straripamenti della fiumara, si sono aggiunte le epidemie malariche determinate dal putrefarsi delle acque stagnanti.
La plasmosi, con febbri alte e spesso letali, contribuì a mietere vittime specialmente nelle famiglie contadine, le cui risorse umane venivano sempre meno. Sopportare il proprio stato, nel mentre padroni insensibili, se non pure gaudenti, asservivano e immiserivano ancor più quanti tra i superstiti rimanevano validi ad essere sottoposti ai lavori più umili e pesanti, e senza protesta alcuna né lamento, non può dirsi che eroismo.
Qui trattasi di persone comuni, remissive e rassegnate alle sofferenze della vita, abituate a piegarsi alle cose più grandi di loro come le erbe dei prati¹⁸. Così pure è valso l’insegnamento tratto dal proprio ambiente naturale, a essere flessibili come i virgulti d’a’ vrica¹⁹, che si piegano per non spezzarsi al passaggio delle piene travolgenti della Fiumara, per poi raddrizzarsi rinvigoriti dalle acque che li hanno irrigati.
Come i personaggi di Vita dei campi, di Mastro don Gesualdo, dei pescatori d’Aci Trezza nei Malavoglia²⁰, affrontano il miserevole stato della loro esistenza con dignità austera e rassegnazione eroica.
Essi vivono nella fissità di un’indigenza senza scampo e che non lascia spazio a ideali, a sogni o a speranze di migliorare le proprie condizioni di vita, per cui assistono rassegnati e quasi impassibili anche all’inabissarsi della loro barca, deprecabilmente chiamata Provvidenza.
Se così, però, si vuole definire l’atteggiamento di chi china il capo e piega la schiena dinanzi al beneplacito dei padroni e di coloro che a turno si arrogano il diritto di ogni crescente potere, bisogna parlare di eroismo passivo simile a quello dei vinti di stampo verghiano?
Vinti
Se la storia trascura i perdenti, ci viene in soccorso una riflessione letteraria e demologica. Come il catanese Giovanni Verga, anche Giovanni Padula²¹, un abate di Cosenza, città a noi contermine, non si soffermò nelle sue opere sulle condizioni di vita dei centri urbani, ma sullo stato miserevole delle masse che popolano le periferie e le contrade suburbane. Qui gli abitanti, quasi tutti contadini, pastori e artigiani, sono vessati da famelici coloni e affittuari che sfruttano fino all’osso il prossimo più prossimo e più ignorante di loro.
Qui, se è vero che il presente è figlio del passato e padre dell’avvenire²², conviene aprire una breve finestra sulle condizioni di vita delle nostre genti nel pieno Ottocento, appena dopo l’Unità d’Italia.
Per lunga tradizione i fhjumaroti²³ affidano alla Madonna ogni loro umano sentire maturato nei petti degli avi e tramandato da padre a figlio come il più nobile dei retaggi, investendola di ogni personale prerogativa, conferendole titoli ed appellativi, fino a farne una creatura terrena, se pure riconoscendola sovrana di un’unica propria famiglia: Sancta Maria Sirapotensis, (= Zarapoti)²⁴, cioè presso la fiumara. Eroismo, dunque, come accettazione fattiva²⁵, delle proprie condizioni esistenziali, nell’asserzione – direi – manzoniana che Dio toglie una gioia oggi per darne ai suoi figli una più grande e più certa domani.
Sarà stato per avverso destino o per un arcano disegno che la nostra gente, raccogliticcia e proveniente da paesi diversi, a lungo andare si è trovata a stare insieme, a riconoscersi, a integrarsi, a prestarsi aiuto e a rispettarsi. Il mio paese è nato, infatti, senza suo volere come comunità sin dall’età pagana in cui la più alta divinità femminile venerata nei nostri luoghi era riconosciuta con il nome di Atena, la Minerva dei latini, appellata madre delle genti e custode delle città.
Le anime degli estinti, nell’immaginazione degli antichi, si credeva che al distacco dal corpo rimanessero per alcun tempo a vagolare presso i luoghi cari: restie a staccarsi da quanto in vita era stato loro familiare, in attesa di essere traghettate là dove avrebbero trovato eterna pace, nella cura amorevole e nella riconoscente memoria dei propri discendenti.
Desiderio più grande, per gli estinti, non può esserci che di essere ricordati fra quanti ancora, dopo di loro, rimangono a godere della luce del sole. Ad assolvere a un compito così nobile è chiamato lo storiografo sensibile alle esigenze dei trapassati, riconoscendo a ognuno meriti e demeriti, in onore di giustizia e verità.
Una storia di donne e di uomini
È appena il caso di osservare in partenza che la storia ufficiale ammannitaci dai libri più in voga contiene fin troppi topoi vuoti; ma non è questo il vero male, bensì il fatto che coloro che in passato sapevano leggere e scrivere hanno trovato in essi spazio e modo per menar la penna a proprio arbitrio, insensibili alle miserie dei vinti e ricorrendo a fantasiose leggende, a comparazioni inammissibili tra località diverse e lontane nello spazio e nel tempo, e che nulla hanno a che fare con la realtà storica della nostra gente. E ciò, allo scopo di procacciare onore e gloria solo alla propria patria e ai relativi abitanti.
Che storia può essere questa di Santa Maria di Catanzaro?
Gli storiografi del luogo, guidati non dallo spirito obiettivo dei fatti, ma da soperchio amore verso la Città, Illustrissima, Famosissima e Fedelissima Patria dal Nome Glorioso²⁶, sono stati ammirevoli per come sono riusciti a sfumare i contorni delle verità storiche, al punto da lasciar intendere che Santa Maria abbia sempre fatto parte della Città, ovviamente come estensione geografica ed amministrativa, come suburbio, come frazione, come quartiere o come semplice villaggio di antiche tradizioni storiche. Un’idea che cela un interesse, se pure vellutato dal nobile parlare, gradito all’ambiente intra moenia della città.
Suburbio²⁷: perché essa è posta nell’immediato territorio sottostante alla Città.
Frazione: come ancora si riporta in qualche vecchio pannello stradale, indicatore della località e che lascia presupporre che la stessa, in passato, godeva di una qualche autonomia, pur essendo sprovvista di uffici propri.
Quartiere: in quanto ritenuto un nucleo abitativo autonomo per tradizione o funzionalità, all’interno di un agglomerato urbano.
Villaggio: centro abitato di modesta entità, nuovo quartiere cittadino, un tempo villaggio extra urbano di consolidate tradizioni storiche²⁸.
Ma a distanza di secoli le distonie tra centro e periferie, e ciò in particolar modo vale per Santa Maria, un suburbio posto a oltre tre miglia di distanza e rimasto per molti versi sconosciuto, negletto e abbandonato a se stesso e ai suoi indicibili disagi, hanno manifestato derivazioni negative, sul piano materiale, morale e civile.
La denominazione Santa Maria di Catanzaro, quasi a indicare una specificazione di possesso, più che di pertinenza amministrativa, si stagliava fino a poco tempo fa a caratteri cubitali sul frontespizio dei due scali ferroviari, della calabro-lucana e delle ferrovie dello stato²⁹. Gioverà sapere che sino al 1950 la denominazione riportata era invece Santa Maria Zarapoti.
A onor del vero, un’attenta ricerca, condotta attraverso la vasta e damascata bibliografia riguardante Catanzaro, mostra che i suoi abitanti hanno avuto sempre il tocco raffinato nel trattare del proprio e dell’altrui con la medesima leggerezza. Una leggerezza non consona, però, alla sensibilità e alla logica delle masse popolari del circondario cittadino, abbandonate a se stesse e nelle condizioni in cui esse ancora si trovano.
Abbiamo ricostruito la realtà storica che ci appartiene sulla scia degli scrittori antichi e recenti, i quali, a seconda dei tempi, si sono limitati a trattare quasi esclusivamente dei casi, degli aspetti e degli eventi più vistosi del proprio ambiente e ritenuti, comunque, più degni di essere tramandati ai posteri. Hanno tralasciato, purtroppo, di volgere lo sguardo alle masse dei contadini, dei jornateri³⁰, dei tuttofare che si sono arrabattati a sbrigare i lavori più umili e pesanti, versati o costretti a trarre appena l’indispensabile per sopravvivere; questa gente, quand’anche fosse stata taciuta, è la vera protagonista di ogni fattivo progresso, pur se trascurata per il fatto di essere stata gente della fiumara, se non addirittura d’a vrica.
Non tutti sanno, infatti, che questi epiteti, forgiati a dispregio dall’altrui ripugnanza e ostilità, nascondono valori umani altissimi ed esaltanti. Questa visione non scaturisce da un piacevole racconto di cui la gente sia protagonista, bensì connota gli aspetti salienti di essa e le intere generazioni che, nel corso dei secoli, dai vari paesi e dalle contrade vicine e lontane, pervennero a stabilirsi in questa plaga di terra presso la fiumara, denominata, sin dai tempi più remoti e nell’antica lingua greca, Zarapotamo. Ognuno di essi costituisce un tema a se stante, un argomento distinto per materia: l’ambiente geografico e le mutevoli sue caratteristiche assunte nel tempo, le particolarità del nome o dei nomi con relativi significati etimologici, le credenze e la religiosità della gente, usi, costumi e tradizioni, eventi subiti o superati che hanno accomunato e distinto una collettività umana laboriosa e vogliosa di progredire e di evolversi e di definirsi come tale.
Si tratta di una storia lunga e complessa, vista nell’intreccio delle sue articolazioni, le quali si diramano dai filoni portanti della trama e che, nelle rispettive conclusioni, si riannodano in un’unica vicenda: quella degli uomini, tesi a rivendicare, contro i limiti di ogni luogo e di ogni tempo, una propria identità e dignità: del loro valore di creature umane, nate per continuare a vivere anche dopo la morte, nella storia e nel ricordo.
Tutti fhijjhi d’Adamu, tanti Adami
tutti simu ‘e nu fhocu tanti lumi;
tutti simu ‘e nu fherru tanti lami, tutti ‘e na fhunta simu tanti fhjumi.
Adamu fhu lu troncu e nui li rami: la mejjhu nobirtà ssu li custumi.
Così ricorda Silvestro Bressi, in un suo volume³¹ citando una canzone di un anonimo calabrese; a noi basta individuare il contrassegno comune che ci faccia sentire cittadini, per tradizioni, per storia, per cultura, per lingua e per costumi, se non per legami di sangue o di parentela, della stessa grande città, quale si è avviata a diventare la nostra Catanzaro.
Prima di partire
Subentra, a questo punto, la scottante questione etico-sociale che è anche religiosa e politica. Il problema demologico, che riguarda non solo le tradizioni – per così dire – folcloriche, ma ogni aspetto che connota una popolazione, per quanto riguarda i nostri luoghi, è stato seriamente affrontato a seguito dell’Unità d’Italia. Vincenzo Padula³² di Cosenza, primo esempio demologico proveniente dalla Calabria³³, ci fornisce il quadro di una realtà esistenziale vera che, di riflesso, può essere rapportata allo stato e alle condizioni di vita anche della gente di Santa Maria Zarapoti, nel secolo XIX.
Amaru iu! Duvi simminai!
A nu rinacchiu ‘nmienzu a dua valluni. Simminai ranu, e ricoglietti guai, All’aria riventaru zampagliuni. Vinni nu riccu pe’ si l’accattari; Pe’ dinari mi detti sicuzzuni.
Jivi alla curti pe’ m’esaminari,
U capitanu mi misi ‘nprigiuni.³⁴
I contenuti ci appartengono, se pure il dialetto³⁵ è quello cosentino: vale, questo, quanto una denuncia di misconoscenza e di disinteresse degli intellettuali che hanno tralasciato di descrivere la realtà vera, quanto inconcepibile, di una Seconda Italia, distinta e diversa da quella del Settentrione, pur dopo la vantata unificazione del 1861 dalle Alpi alla Sicilia.
Le figure sociali più rappresentative del suo ambiente appartenevano alla classe subalterna, caratterizzata dall’economia fondamentalmente agro-pastorale, molto simile, quindi, a quella di Santa Maria, popolata da contadini, massari, mezzadri, braccianti, pastori, garzoni e briganti. Egli scrive:
Nell’Ottocento precisamente nel periodo postunitario, la figura del contadino conserva ancora la connotazione di doppiezza
che la tradizione gli aveva attribuito (docile e rozzo in apparenza, ma sempre pronto a ingannare il padrone) e torna a essere quella dell’uomo-bestia: un’immagine antica riproposta ora (da padroni e proprietari) con l’autorità e la presunzione di un’ottica scientifica; sulla base, ovviamente, di lagnanze e di relazioni appositamente raccolte per disposizione dei prefetti.
La classe più numerosa e più miserabile è quella dei braccianti. Fino ad otto anni il fanciullo calabrese va dietro all’asino, alla pecora, ed alla troia: a nove anni il padre gli pone in mano la zappa, e la pala, in spalla la corba, lo conduce seco al lavoro, e lo mette in condizione di guadagnarsi 42 centesimi al giorno. A quindici il suo salario cresce, e ne ha 67; a venti non tratta più la zappettina, ma la grossa zappa, e con rompersi l’arco della schiena da