É tempo di felicità
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Info su questo ebook
Domenico Sorace, nato in Calabria, ha scritto cinque romanzi: Tre settembre 1943, Il misterioso viaggio del Paolfia, La musica degli Invisibili, Il Cielo è azzurro come i tuoi occhi neri e, adesso, È tempo di felicità. Ha, inoltre, redatto un testo teatrale, L’ultima notte di Gioacchino Murat, che racconta le ultime ore del Re di Napoli, prima della fucilazione. Collabora con varie testate, su cui scrive note giuridiche, storiografiche, letterarie e di costume
Ha passione per i luoghi sconosciuti o dimenticati, dei quali discorre in molte delle sue corrispondenze.
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Anteprima del libro
É tempo di felicità - Domenico Sorace
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
A mio Padre e a mia Madre,
che, invecchiando, sono diventati giovani.
A Paola e Sofia,
che scrutano il tempo con gli occhi della giovinezza.
Se cerchi un tesoro devi cercarlo nei posti meno visibili...
Alda Merini
Alice
Nacque dove il sole batte sin dal primo mattino e continua a battere anche quando si fa sera, poiché non c’è valle che l’adombri, né dirupo o anfratto che lo spenga, ma solo sommità, seduta sotto un cestino di stelle.
Nacque dove il mare, pur lontano, si avverte e si confonde con la terra, come fossero parti e prove dello stesso destino.
Nacque dove i monti, pur vicini, sembrano cercare un altro riposo, che non sappia d’arsure e rocce, ma di verdi frescure e limpide acque.
Nacque dove il mondo viene prima delle case e il tempo non è che un accidente arato dai ricordi.
Nacque senza pretese, senza rimorsi, senza attese, in una casa il cui unico rumore era il silenzio e unica luce l’ombra.
Nacque dove il tempo sembrava non avere casa, troppo preso dai monoliti di quell’elefante venuto da chissà quando e da quelle infinite gambe mozze, madri o forse figlie dei Colossi di Memnome¹.
Era Campana², borgo indeciso se stare con la Sila o votarsi alle spumose acque dello Jonio.
E lì, in quella fiera eternità, crebbe e tornò, ogni volta che poté.
1 Si tratta di due enormi statue di pietra, complessivamente alte circa 17 metri, poste sulla riva del fiume Nilo, in Egitto. Furono erette in onore del faraone Amenhotep III e risalgono a circa tremilaquattrocento anni fa. Sono, come il monolite di Campana, in posizione seduta, con le mani appoggiate alle ginocchia. Si narra che, all’alba, in determinate condizioni, emettano un canto soave.
2 Piccolo centro in provincia di Cosenza, noto perché il suo territorio, in una radura rocciosa, ospita due megaliti giganteschi. Il primo, ha le sembianze di un elefante ed è alto mt 5,50. Il secondo, alto mt 7,5, sembra raffigurare le gambe di un guerriero o di un dignitario seduto e ricorda, per questo, i colossi di Memnome, in Egitto. Le origini di questi megaliti sono oscure. C’è chi le anticipa ampiamente alla civiltà egiziana ed a quelle mesopotamiche, muovendo dalle dimensioni e dai caratteri morfologici dell’elefante, assimilabili al paleoloxodon antiquus, vissuto fino a circa dodicimila anni fa, di cui, nel 2017, si è ritrovato uno scheletro pressoché integro nel vicinissimo lago Cecita. Altri ne riferiscono la realizzazione al tempo di Pirro o quello di Annibale, quindi al III secolo a.C.
Andrea
Nacque dove il tempo si era fermato e lo spazio non era che un perimetro di mura, chiuse da ogni lato, da ogni cielo.
Nacque dove il sole sorgeva se le finestre, raramente, venivano aperte e finiva se le finestre, quasi sempre, restavano chiuse.
Nacque dove l’aria è più torbida dei respiri e gli unici rumori erano la ricarica di un frigorifero, uno sciacquone che di tanto in tanto rinculava e le auto che sibilavano, come un riverbero, a distanza.
Nacque senza stupore, né delirio, in una casa in cui erano lui, la madre e quel che restava del padre, una fotografia. E dove le mura si stendevano forti e alte, guardando molto più in là, verso le sorelle d’Hipponion che, infine, l’avrebbero chiamato.
Era Paludi³, dove i segreti sono quelli di Castiglione e la storia è tutta da scrivere e immaginare.
3 Castiglione di Paludi è uno straordinario insediamento archeologico, situato in Calabria, provincia di Cosenza, di possibile costruzione Magno Greca oppure di origine autoctona, precisamente Bruzia. Elemento caratteristico del sito è la vigorosa cinta muraria, realizzata in blocchi di arenaria, munita di possenti torri circolari. All’interno, le vestigia di un teatro con le sedute in parte scavate nella roccia, in parte costruite nella parte bassa della cavea. Il rinvenimento di una favissa
(fossa votiva) testimonia l’attigua presenza di un luogo di culto.
I
La giornata era luminosa, come sanno esserlo le giornate che si schiudono alle terre di mare. In alto, un cielo celeste, ad abbacinare la mente, di fronte una schiera di querce, eucalipti e pini, protesi caoticamente a rinfrescare il sentiero; di lato, la parete aspra e bianca della montagna, colorata di rari ciclamini e cespugli disadorni e crespi. Infine, a destra, il mondo: un tappeto di mare senza confine, da un lato congiunto a uno sfocato lembo di terra, dall’altro confuso nell’ultimo fianco di cielo.
Il sentiero si inerpicava, lento e molle, su un crinale aspro e irto. Via via che saliva, tra tornanti e vibranti torsioni, i colori del Mediterraneo mutavano in quelli, più brumosi e freddi, dell’altura. Così l’aria, prima colta da arsure marine, via via assunse il fremito fragrante della collina. Su tutto, dominava l’azzurro, miscela di cielo e mare, con prodigiosi riflessi posati sulle placide onde e sulle bianchissime vele.
Alice, pantaloncini rossi, maglietta viola, scarpette bianche e calzini gialli, incedeva svelta su per i tornanti sconnessi. Aveva agilità giovanile e mente indomita. Così, risaliva il monte usando gli occhi più del corpo, la mente più delle gambe, il cuore più che il senno. E, poiché non provava fatica, aveva tempo per allungare lo sguardo, anticipare il passo, esplorare le segrete di quel tempio non contaminato: le fenditure del fogliame, l’incavo dei tronchi, il cantico delle cicale, la pelle maculata delle lucertole pezzate, il sorriso caldo delle rondini. C’era un gran silenzio. Solo, si udiva lo stormire degli uccelli e il frusciare secco di foglie e insetti. Nessun altro a farle compagnia, se non il rotòre della sua mente, sempre acceso, sempre vivo.
Era questa, Alice. Figlia di una curiosità che non riusciva a condividere, madre di un ardimento che non conosceva confini. Una così non poteva che essere, per elezione o destino, sola. Mai un fidanzato, a memoria di madre, mai un’amica con cui studiare, mai un gemello con cui condividere le ripetute scorribande. Non che fosse ostile alla comunicazione, tutt’altro. Era ricolma di amici e conoscenti e, con ciascuno, trovava il modo di scambiare un tratto, un fervido sorriso. Per il resto, desiderava star sola, così che potesse coltivare ogni piccolo desiderio, come fosse l’ultimo. E in questo facile esercizio, il rosario della quotidianità sfumava in lieta opportunità. Le bastava smettere il tailleur, i tacchi, la sua aria da severa ricercatrice universitaria per calzare i panni della viaggiatrice solitaria e, così, smarrirsi e trovarsi. Era il suo modo per affrancarsi dal mondo del potere e delle finzioni, per consegnarsi a una leggerezza, a una pazienza, a una libertà che ne erano la cifra opposta e desiderata.
Aveva deciso di muovere da Monasterace, perfetto confine tra le province della Calabria jonica, per risalire la montagna sul crinale ubertoso delle Serre. Da sola, ovviamente, con le povere cose che l’accompagnavano sempre, acqua, frutta secca, carboidrati e l’immancabile macchina fotografica. Le frullava in testa da parecchio quella camminata, per le suggestioni che dava, il granito levigato dallo Stilaro, le ferriere che furono dei Borbone, le cento cascate che le sconnessioni della roccia generavano. Si era convinta, studiando la cartografia, che non fosse particolarmente difficile, a parte le rapide, certamente abbondanti dopo le recenti piogge. Per il resto, si trattava di inerpicarsi seguendo il corso del fiume, guida talvolta visibile, talvolta semplicemente sonora. Aveva scelto il giorno di Ferragosto, una specie di divisore del tempo, perché chiama a sé i fragori dell’estate e le malinconie dell’autunno. Un giorno perfetto per conquistare e per ricominciare.
Non era una persona facile. Bella e procace, aveva i suoi fan, le sue telefonate disperse tra giorno e notte, le tentazioni dei trent’anni, i desideri di una gioventù non ancora premiata. Ma, in attesa della schiusa sentimentale e del buon fine delle ricerche all’università, aveva deciso di anteporre se stessa. Non era facile, né indolore. La solitudine ha il prezzo della malinconia e la malinconia quello della paura. Certo, lei aveva imparato a conoscere questi tiranni e a non restarne sopraffatta, ma la ferita, di tanto in tanto, sanguinava. Ma tant’è, era così, ardita ma mai sordida, audace ma mai improvvida, appassionata ma finemente logica. Tuttavia, aveva un compagno che non tradiva: lo studio, che non era solo un dato, era anche un metodo. Era lo studio, ad esempio, a suggerirle che l’ignoto non era un limite, ma una possibilità. Ecco perché amava partire da sola, poteva coltivare l’ignoto e, soprattutto, il segreto della rivelazione. Così accadeva che, ogni volta che partiva la strada, la forma dei luoghi, le acque, le tracce presenti o remote, gli odori, i silenzi, i turbini, i rovesci diventavano le cornici di un’avventura sognata, che dava senso e scopo alla sua giovane vita. Questo la rendeva, fatalmente, distante, ma anche, e non meno intensamente, prossima. Gli amici lo sapevano, al punto da non poterci rinunciare, anche a costo dei rischi che, con lei, si correvano. D’altronde, senza quel suo modo, senza quel suo essere serenità e tempesta, alfa e omega, non avrebbe potuto fare quel che faceva. Dedicarsi alla ricerca, provare a dare regole al mondo, richiede metodo, immaginazione, contraddizione. E, forse, anche un briciolo di vanità. Serve saper saltare dal visibile all’invisibile, dal concreto all’astratto, dal poco al tutto. Serve amare senza smarrirsi, ascoltare senza subire, immaginare senza sovvertire. E lei era tutto questo, un po’ dell’uno, un po’ dell’altro. Lo era quando calzava i panni della giovane studiosa, lo era quando scivolava negli abissi più impervi, lo era quando la paura faceva velo alla ragione.
Il cammino, via via che saliva, aveva perso le sue tracce, per consegnarsi a un sentiero sempre più fittamente alberato e crespo. Il fruscìo di foglie e rami strapazzati dalle suole frangeva il silenzio e si univa al coro irrequieto di cicale, gufi, tortore, passeri. Il bosco, nel suo immoto silenzio, sospirava lievemente, accompagnando il passo svelto e accorto. Pensare che, appena dodici ore prima, occupava, con studiata eleganza, un ufficio all’università, intenta a viaggiare tra norme e prassi. Si occupava, in questo periodo, del difficile equilibrio tra il diritto nazionale e diritto comunitario, talvolta attraversato da incoerenze implacabili. Le analizzava con piglio esegetico, cercandone una possibile unità. Era il mandato che le aveva assegnato il direttore della facoltà di Scienze Giuridiche, il prof. Leoni, l’uomo che l’aveva scelta. Un lavoro duro, che svolgeva da sola, con il solo ausilio di un collega, ancora acerbo, di prima nomina. Ma non se ne crucciava. Era capace di studiare e lavorare, ininterrottamente, per dodici, quattordici ore di fila, senza nessuna pausa. Considerava più urgente di qualunque implorazione del corpo la soluzione attesa. E, quando un frammento arrivava, un pertugio si apriva, eccola trovare il filo della felicità. Perché quello era, per lei, la felicità: capire che l’attesa non era stata vana e che una piccola luce aveva vinto le tenebre. Accadeva, ma non sempre. Molto più spesso erano le tenebre ad avere la meglio. Era quello il momento in cui tornare alle sue scarpette, allo zaino, alla montagna. Aveva un unico modo per vincere una sconfitta, dimenticarla. Quando aveva scelto di studiare legge non credeva fosse così impervia, scivolosa, ambigua. Credeva, nella sua ingenuità, fosse perfetta, come le meraviglie del creato, i pensieri di una madre, la potenza di Dio. Fuochi di gioventù, sogni di una ragazza al primo anno. Non le ci volle molto per capire che, invece, non era che un riflesso, un po’ più ragionato, delle contraddizioni del mondo, delle sue fragilità e, persino, delle sue incoerenze. In fondo, non era diversa dall’eterno fluire della natura, dalle accidiose intemperanze del tempo, dalle eterne contese che si consumano in nome della vita. Sapeva, intuiva, che in ogni contrarietà vi è un segreto, quello che, svelato, rivela. Era il segreto la molla. Dio, quanto l’annoiavano l’ovvietà, l’evidenza, la vanità. Così, quando, finito l’idillio, impattò l’imperfezione delle leggi, ebbe la sua svolta. Capì che la missione del giurista non era piegarsi, ma ingaggiare una lotta e ribellarsi. Ora, lontana dai suoi libri e dal computer, lontana dalle finestre grigie della sua stanza senza sole, eccola confrontarsi con l’universo libero, con le pendici ubertose della montagna, i suoi declivi, le sue asperità, le sue schiuse audaci, con l’infinito mare e l’infinito cielo e le infinite cose. Eccola di nuovo a casa, come i giorni in cui nacque e quelli, non meno felici, in cui crebbe.
~
Agile come una lepre, incurante di ogni asperità, Alice continuava a salire nel vortice di alberi troppo uguali e troppo fitti. Applicò, per non smarrirsi, il suo metodo di lavoro, i punti fermi, l’osservazione. E, cosa incredibile, via via che il tempo passava, che il labirinto si addensava, si sentiva più forte, più orientata, più centrata. Aveva fede nella natura, perché è benigna con chi sa amarla. Sapeva che nulla è inutile in natura, che in essa risiede l’essenziale, l’equilibrio, l’armonia. È come una partitura perfetta, una creazione di Mozart, che non ammette aggiunte o ripensamenti. Ecco perché abbandonarsi alla perfezione della natura, alle sue leggi immutabili, esercitava su di lei, chiamata a confrontarsi con la mutevolezza delle leggi umane, un fascino irresistibile. Si perdeva nell’assoluta simmetria dei fenomeni, nel ripetersi dei giorni e delle stagioni, nel riverberarsi del sole, nel fiorire e morire dei fiori, nello scorrere implacabile delle acque, nell’audace volo degli uccelli. Provava a immaginare ordinamenti umani altrettanto perfetti e provava strazio a considerare che non si poteva. Diverso era lo scopo, diversi i soggetti, diversa la sostanza. Considerava che la perfezione, fuori dalla natura, può immaginarsi solo in tre cose, tanto suggestive quanto insidiose: l’ideologia, la teologia, la matematica. Ma, obiettava, se il diritto restasse imbrigliato nelle maglie del divino, dell’ideologico, o dei numeri sarebbe servitore di pochi. Eppure, questa era la missione, dare ordine al disordine, unità alle contrapposizioni, utilità ai fallimenti. Perché è dato agli uccelli, ai mari, alle farfalle di essere liberi e dovrebbe non essere concesso agli uomini? Perché lo spettacolo della natura, con le sue leggi immutabili e la sua danzante armonia, non dovrebbe diventare la cifra degli uomini? Perché proprio l’uomo, l’essere superiore, il dominatore della terra, dovrebbe essere escluso dalla grande alleanza che mette insieme bellezza, ordine e felicità? Lei lo sapeva perché. Perché l’uomo si era posto oltre la bellezza, oltre l’ordine e aveva osato sovvertirli. Il conflitto era esattamente il prezzo di tutto questo. Tanto valeva non pensarci. Ora era lì, nell’arca del sublime, piccola scheggia al cospetto della perfetta unità dell’insieme. Dopo circa due ore di cammino aveva raggiunto, dopo un passaggio particolarmente irto, una prima cresta. Il respiro soffiava grave e felice e si posava sulle scaglie di sudore che risalivano dal corpo accaldato. Ebbe bisogno di rifiatare. Si guardò intorno e cercò un posto dove sedersi. Non v’era nulla di utile, se non, appena discosti, i resti di un edificio diruto, con una murata in pietra. Vi si sedette e protese lo sguardo verso l’orizzonte lontano. Poi, rovistò nello zaino alla ricerca dell’acqua.
«Prendi la mia, è fresca», disse l’uomo incedendo, accompagnato da un sinistro rumore di sterpi.
Una paura profonda, disorientante, la scosse. Si voltò di scatto e le si parò un giovanotto dai tratti puliti, quasi indifesi. Si ricompose e, prontamente, rispose.
«Grazie, ho la mia.»
Ingaggiò una dura lotta con il suo tumulto e si impose di risultare linda, a suo agio, gentile. Prese a investigarlo, prima sbrigativamente, poi con più piglio. Era un bel ragazzo e nulla in lui induceva alla paura. Alto, riccio, occhi scuri, pelle abbrumata dalla comune origine mediterranea, sguardo timido e terso. Avrà avuto trent’anni, come lei, più o meno. Tornò pienamente in sé.
«Da dove spunti? Non ti ho sentito.»
«Non ci sono molte strade qui.»
«Da giù dunque?»
«Sì, sono qui da cinque minuti.»
«Appena pochi minuti e avremmo fatto il cammino insieme», disse Alice.
Poi, tra sé, pensò: È lui la breve distanza che separa la noia dall’ebbrezza
. In realtà, c’era qualcosa di indecifrabile e attraente in quel ragazzo: forse il fondo di malinconia che affiorava dal volto adulto ma ancora vergine, forse la gentilezza che accompagnava il gesto e la parola, forse quel sorriso senza lampi, come nascondesse una tristezza profonda, non oscurabile.
«Vorrei risalire sino alle cascate. Ma temo sia difficile in giornata, servono ancora un paio d’ore. E tu? Dove sei diretta»?
Già, dove era diretta? Non era diretta, a lei bastava star lì, in quel mondo incontaminato, senza necessità di una meta e nemmeno di una fine. Ma stette al gioco, perché l’incuriosì.
«Stessa direzione», mentì. Aveva deciso, fidandosi dell’istinto, che quel ragazzo aveva in dote il riserbo e la freschezza, esattamente come la natura che avevano attorno.
«Potremmo proseguire insieme», azzardò lui.
«Perché no?», rispose pronta. «Anche se dovremo dividerci una volta arrivati lassù. Come vedi, sono organizzata per passare la notte», disse indicando il sacco a pelo.
«Da sola?» trasalì: «Dormire soli, in montagna, non è buona cosa.»
«Dici? Io lo trovo normale. Che male c’è a dormire sotto le stelle?»
«Non so, il pericolo può essere ovunque, un animale, una serpe. A me, se devo dirti la verità, fa impressione.»
Lo diceva a lei, che ne era ossessionata e che, tuttavia, non voleva farsi vincere?
«In genere, cerco un posto dove scorre l’acqua, mi tiene compagnia, è un po’ come non essere soli.»
«Sei ammirevole, io davvero non ci riuscirei.»
«Basta lavorare su se stessi, tutto si può», osservò con naturalezza.
«E allora, credo di non essere un buon lavoratore», rispose con un sorriso che, però, rivelava un’amarezza.
«Non è facile, ma tutti possiamo essere buoni lavoratori. Il problema è avere il coraggio di riconoscere le fragilità e non occultarle.»
«Posso dirti una cosa, magari affrettata? Sembri una ragazza molto libera, assolutamente indipendente.»
«Vorrei poterlo essere, è vero. Ci sto lavorando.»
«Sai, io non sono il genere di persona che basta a se stesso, né credo di aver il coraggio di consultare le mie paure.»
«Mi pare di intuirlo», sorrise.
Si sentì scoperto, anzi denudato, oltre le intenzioni che le parole avevano voluto.
«In che senso?»
«Nel senso che è evidente che non sembri tipo da fare le cose da solo.»
«Sì, però non affrettare le conclusioni», provò a correggere.
Qualcosa infuriò, imprevista, nella mente di Alice. Come un riverbero, che il richiamo di Andrea rese fuoco.
«Senti, io sono qui per allontanarmi da certi discorsi», rispose, mossa da un’improvvisa frenesia. «E comunque, sappi che non è mio mestiere affrettare le conclusioni.»
«Scusa, non intendevo...»
«Lascia stare, è colpa mia. Io adesso vado, tu fai un po’ come ti pare.»
«Certo che faccio come mi pare», rispose piccato. «E attenta alla notte.»
«Attento tu, se avrai fegato per restarci.»
Così, mentre lei issava lo zaino e si preparava a ripartire, lui, senza un saluto, le voltò le spalle e la lasciò di sasso.
«Maleducato», rimuginò infuocata di rabbia.
Ne rimase scossa, in maniera che andava oltre il piccolo alterco. L’attenzione scivolò da lui a sé. Le passò, in un attimo, l’intera vita, come se quest’ultima, insignificante, perdita, non fosse che il culmine di un destino segnato. Perché Alice non era solo forza, determinazione, coraggio, era anche quel che non affiorava, paure, insicurezze, malinconie, persino inquietudini. D’impeto, come a voler vincere il destino, si irrigidì, si volse e tornò sui suoi passi.
«E comunque, una