L’orizzonte siamo noi
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Info su questo ebook
Il viaggio spirituale in India da giovane, la pratica dello yoga, la magia, la ricerca dell’illuminazione e l’incontro decisivo con Oberto Airaudi, padre spirituale della comunità di Damanhur, sono elementi che si vanno ad aggiungere e completano la personalità di un uomo che non ha mai smesso di fare l’imprenditore, con idee innovative e di successo.
Questo libro racconta la storia personale di Dario Baracco, la sua visione del mondo, la sua ferma volontà di unire indissolubilmente il mestiere di imprenditore con quello di uomo alla ricerca di uno stato spirituale superiore. I due aspetti non sono in antitesi, come alcuni credono, ricchezza materiale e spiritualità profonda possono invece camminare a braccetto, dando vita a una terza via, lontana certo tanto dal consumismo senza freni di oggi quanto dalle dottrine pauperiste di ieri.
Dario Baracco è nato a Castellinaldo d’Alba (Cn) nel 1950. Nei primi anni ’70 ha lavorato per “Uomo Vogue”. Abbandonata l’azienda per motivi personali, nel 1974 si è recato in India alla ricerca del Maestro per l’Illuminazione. Dopo alcuni mesi torna tuttavia in Italia dove fonda la Compagnia della Buona Terra, un’azienda volta “alla scoperta della Spiritualità nel Lavoro”, che vende prodotti biologici del territorio. Risale al 1981 l’incontro decisivo della sua vita, quello con Oberto Airaudi (Falco Tarassaco), il Maestro spirituale della comunità di Damanhur. Grazie alla collaborazione tra i due nel 1983 nasce la Comunità L’Alba, che solo due anni dopo si unifica a Damanhur, trasformando La Compagnia della Buona Terra in Azienda integrata nella società comunitaria. Nel 1995 l’anima imprenditoriale di Baracco porta alla costituzione della Compagnia dei Caraibi che si prefigge di dimostrare che è possibile generare prosperità, bellezza, armonia, crescita sociale e spirituale, pur essendo parte del mercato economico.
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Anteprima del libro
L’orizzonte siamo noi - Dario Baracco
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Prologo
Oggi è martedì 13 luglio, quasi mezzogiorno.
Sono in Bretagna, con mia figlia Galatea, quindici anni, e con lo sguardo cerchiamo verso Nord la punta della Gran Bretagna protesa verso l’Atlantico.
Edelberto e Memfi, i miei figli più grandi, sono a Piazza Affari, a Milano, dove tra pochi minuti suoneranno la campana che tradizionalmente segnala l’ingresso in Borsa di una nuova società. Si tratta della Compagnia dei Caraibi, mercanti di merci e di idee attraverso l’educazione al bere prodotti di qualità da tutto il mondo. Mi piacerebbe essere lì con loro e con i collaboratori più stretti, a celebrare un punto di arrivo che è anche il punto di una nuova partenza. Mi piacerebbe essere lì per festeggiare l’impegno, la competenza, la correttezza e – credo – il talento di tutti noi; lo festeggeremo soprattutto dentro di noi, con discrezione, come nello stile che amiamo, ma lo faremo anche con grandissima intensità e soddisfazione. Il cammino per arrivare qui è stato lungo ma speriamo che quello che ci aspetta lo sia ancora di più.
Mi piacerebbe essere lì ma mi piace molto essere qui, con la figlia piccola
e i suoi sogni, in attesa che diventino progetti, mentre i figli grandi occupano lo spazio che compete loro e che si sono conquistati. Io ho aperto una strada e loro la stanno allargando, a modo loro, e questo è ciò che mi rende felice.
E mentre mi domando insieme a Galatea se quello che vediamo all’orizzonte sia la punta della Cornovaglia o qualche banco di nubi appena un po’ scure, penso che il modo migliore per legare insieme il cammino fatto con quello da fare sia, semplicemente, raccontarlo.
La mia storia intreccia imprenditoria con spiritualità, tradizioni familiari e scoperta di mondi nuovi, individualismo e comunitarismo, e poi volti, ricordi, sapori, qualche rimpianto ma soprattutto molti sogni.
Ho sempre avuto un forte impulso spirituale, che mi ha portato da bambino a essere affascinato dalle vite dei santi, da giovane a cercare il percorso verso l’illuminazione e da adulto a incontrare il mio maestro spirituale.
Ho ereditato un’azienda di famiglia che dapprima ho rifiutato e successivamente ho fatto decollare, facendola vivere in vesti diverse fino al punto che proprio oggi raggiunge.
Ho creduto fortemente nei valori trasmessimi dalla mia terra e ho girato il mondo, custodendo gelosamente quei tesori e coniugandoli con quelli che ho incontrato.
Ho creduto fortemente nella competenza e nella capacità professionale e mi sono sempre lasciato guidare dall’istinto, dall’intuizione, dalla medianità che mi caratterizzano.
E ho sempre usato il passato prossimo, quando scrivo, come trampolino per essere nel presente e nel futuro. Non credo che riuscirei a essere lineare nel mio racconto per cui decido di non esserlo: osservando la vita dalla mia prospettiva, la sento come un discorso di voci diverse che si richiamano l’una con l’altra, e seguo il flusso della parole e dei pensieri come mi sovvengono, senza mai perdere il filo – almeno, spero – ma senza preoccuparmene comunque troppo. È così che funziona.
Gli anni Cinquanta
Nevicava.
A memoria d’uomo, nel villaggio di Castellinaldo d’Alba, nella provincia granda
cuneese, tanta neve non s’era mai vista. La mia storia comincia con questo fenomeno, del quale non ho alcun merito ma che non mi dispiace affatto mettere sullo sfondo del mio arrivo.
Erano le sette di sera di un giorno del gennaio 1950. L’inverno piemontese, oltre che pieno di neve, era molto buio dato che l’illuminazione pubblica, negli anni del secondo Dopoguerra, era ancora ferma ad Alba. Mia madre, Gemma Teresa, aveva le doglie. Per lei era il terzo parto: prima di me aveva avuto Maria Rosa e Anna Tommasina. La forma del pancione e non meglio precisati segni ai quali da grandicello avrei sentito alludere, senza mai ricevere altre spiegazioni, facevano presagire l’arrivo di un maschio e tutti, nella mia ampia famiglia, auspicavano che così fosse: un maschio che da grande prendesse in mano l’attività dei miei genitori, dei miei nonni e dei miei avi, da sempre negozianti in vini fini di Alba, vermouth e liquori
.
Mio padre Bartolomeo e suo cognato, anche lui Bartolomeo, attaccarono tre cavalli alla lesa e si avviarono.
La lesa era una sorta di spazzaneve, composto da due lame messe a punta e tenute a triangolo da una struttura in legno; trainata da tre cavalli, ripuliva le strade del paese.
In quei giorni la lesa – o per meglio dire i cavalli – lavorava incessantemente, data l’abbondanza della neve, e i due Bartolomei dovettero per l’ennesima volta metterla in azione per andare a prendere la levatrice, che abitava a Guarene, a sei chilometri. Sei chilometri non erano considerati poi molti, a quell’epoca, ma con tutta la neve che c’era – e che continuava a cadere – e soprattutto col buio pesto di una sera invernale, marito e fratello di Gemma Teresa ritennero saggio, cavalleresco e anche opportuno partire per aprire la strada alla signora Bongiovanni.
Poco prima di mezzanotte la levatrice raggiunse mia madre. La casa era riscaldata a legna e sulla stufa – il putagé
– erano pronti litri e litri di acqua calda.
Nella casa, escluse le mie sorelle, nessuno dormiva: c’erano entrambe le nonne e tutte le vicine, per partecipare a un evento così importante e per dare una mano.
Io arrivai alle ore 1.31 del mattino, il sospirato maschietto destinato a proseguire l’impresa di famiglia.
La levatrice rimase fino al mattino quando, dopo essersi ristorata con il caffellatte fresco e i biscotti fatti in casa, venne riaccompagnata a casa da mio zio. Ancora nevicava e gli uomini del paese stavano già organizzandosi per pulire insieme i tetti delle case, prima che il peso ne mettesse a rischio la tenuta.
Mia madre e io, per il momento, riposavamo.
La mia vita comincia in questo modo, in un’Italia semplice, quasi da cartolina, fatta di forti legami familiari, di paesi che sono vere comunità, dove il lavoro, la solidarietà, il rispetto sono fatti concreti e non luoghi comuni. E anche oggi che, tanti anni dopo, ho lavorato in tanti ambienti diversi, ho fondato aziende, ho quotato in borsa un’impresa, ho fondato comunità, ho seguito un maestro spirituale, ho viaggiato e conosciuto mezzo mondo, sento profondissime le radici che mi legano a quell’universo e a quel modo di interpretare la vita. Quando mi chiedono qual è il mio sogno – e quando non me lo chiedono trovo il modo di dirlo ugualmente – rispondo che è quello di contribuire a creare un mondo pieno di poesia, dolce e potente, accogliente come sono le colline dalle quali vengo.
La mia era una delle famiglie benestanti di quella zona, incastonata tra le Langhe e il Roero. Benestanti
significava che avevamo terreni e casa nostri, che l’azienda era ben avviata, che non ci mancavano il caldo d’inverno, il cibo, la possibilità di far studiare i figli e di progettare il futuro.
Eravamo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Molte case erano ancora fatte con mattoni crudi. Le strade per arrivare al paese non erano ancora asfaltate e d’altronde di automobili se ne vedevano poche. A Castellinaldo c’era un unico telefono pubblico e nessun televisore, né alla trattoria degli amici
di Fisia né tantomeno nelle case più fortunate. Non c’era neppure nella mia, dove invece l’automobile c’era con il telefono, e arriverà quando già da un pezzo andavo a scuola.
La campagna era coltivata con l’aratro trainato da una mucca o dai rari buoi – del resto, non erano i cavalli che trainavano la lesa? – finché un poco alla volta cominciarono ad arrivare i primi trattori, anzi i motocoltivatori, scoppiettanti e puzzolenti.
C’erano consuetudini non scritte – e proprio per questo, forse, non modificabili – ma fortissime dentro ognuno che insegnavano come si trattano i frutti della natura. Ogni frutto, ogni verdura aveva le sue regole, come in una sorta di galateo gastronomico: il peperone, ad esempio, non doveva mai toccare il metallo, motivo per il quale lo aprivamo a mano, mentre il pomodoro andava tagliato a fette verticali parallele dall’alto al basso e non a spicchi (nel suo caso, trattandosi di taglio, si poteva usare il coltello). Quando si vendemmiava, si poteva mettere in fermentazione