Romanzo in corso
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Romanzo in corso - Pasquale Panella
ROMANZO IN CORSO
un prologo
Sto per posare un mattone a puntate. La prima stesura di un romanzo in corso, del quale non so nulla, nemmeno il titolo. Devo trovarlo. Lo troveremo insieme. Con questa ultima frase falsa, quindi crudele, finisce la mia dotazione di piaggeria nei confronti di chi legge, finisce qui il mio servilismo. Forse già so quale sarà il titolo? Senza forse, lo so. Tentare di indovinarlo non servirebbe a nulla, sarà solo inutile. Lo rivelerò alla fine, quando non inchioderò il cartello con su scritta la parola Fine, che sempre mi appare come la terza sfumatura di una gradazione di varianti che va da Affittasi passando per Vendesi fino appunto a Fine, termine che alle volte potrebbe anche essere posto in testa, a seconda di come uno vede le cose, da questa o dall'altra parte (fine come inizio, inizio come fine: questi cerebrali passatempi)... lo rivelerò alla fine, il titolo, quando non impalerò il cartello al limitare dell'ultima aiuola lineare delle parole in riga come erbaggi dell'orto (ma sì, tutto è in vendita, dalle pareti ai ravanelli), no, lancerò due dadi sul tappetino spianato dell'ultima pagina e, lo dico già adesso, usciranno identiche le cifre delle due facce superiori, e sommate daranno come risultato, eccolo là, il titolo alla fine (adesso non si capisce nulla, poi tutto sarà stupido). Voglio forse dire che Fine
sarebbe un buon titolo provvisorio, una buona parola messa in testa? No, non l'ho detto né lo voglio dire. Fine
mi sembrerebbe un titolo un po' troppo civettuolo. Ma che, sto giocando? Ma che, è un gioco d'azzardo lo scrivere? A guardarsi intorno, no, anzi è ben sistemato, previdente, tagliato, cucito, allineato, piegato, stirato, imbustato a mestiere, lo scrivere, corretto e preciso come un libro stampato. Ma qui siamo superiori a queste cose, qui ci giochiamo la vita sonante (la vita, questa somma di spiccioli). Prima di tutto, ecco, soffio nel pugno, lancio...
1
Domani scriverò. Fu il mio motto. Ecco fatto, l'ho scritto. Il segreto è svelato, il mio segreto. Il mio motto segreto. Cosa non si fa per farsi coraggio. (Non si fa?). (Si fa, si fa). Cosa si fa per farsi coraggio (senza esclamativo, ecco bravo, risparmia sugli esclamativi, ne ricaverai una piccola rendita futura in parentesi). Fu? Era. Era il mio motto: domani scriverò. Era? È stato, devi dire. E ancora non lo sappiamo se lo è stato o ancora lo è.
Domani scriverò. È il mio motto. E oggi che faccio? Non so ancora se sto scrivendo o dicendo. Davvero non so cosa dico (non so nemmeno cosa scrivere). Ma finora che hai fatto? (Chi ha parlato?).
Il sole era alto nel culo...
, ecco quello che ho fatto, ho scritto per esempio refusi. Per dare l'esempio. Davvero un esempio di umiltà. Quegli occhi in basso. Il culo? Lo presi per il cielo. Ecco, sì, la presa per il cielo (umilmente scrivo ancora refusi). Prendere per il cielo (anche le religioni lo fanno), ma sì: non ho perso il vizio, non ho perso il mio umore scherzoso.
E quella cosa là, lo scrivere non oggi ma domani, sempre domani
, da cosa mi viene quella cosa? Pigrizia, infanzia? Ma sì, è una deriva che dura ovviamente dalle letture infantili, le letture della sapienza orale altrui: discorsi, voci, chiacchiere, sfoghi, i disgorghi a mulinello nelle mie orecchie così candidamente analfabete, i racconti casalinghi, casigliani, condominiali, vicinali, di prossimità, la letteratura del posto, frasi, frasette, lucidate dall'uso come manici curvi di bastoni atavici (i manici, queste appendici così collaudate), gioghi bovini arcuati e lisci, piani di tavolo dalle venature e dai nodi lucenti d'usura e a rilievo, un albero disteso e anatomizzato (questi alberi, questi legni così pazienti)...
Com'è che ricordo quello che non sapevo di ricordare? È il segno di una vocazione? «Se non sai inventare, non devi, non farlo, non inventare, scrivi. O inventi o scrivi.» Ma tante cose non mi sono capitate (ero ingenuo, lo sono), obiettavo. «Scrivile e vedrai che ti capiteranno.» Allora è vera questa sentenza? Di chi? Non lo so, l'ho inventata al momento per questa occasione. Ci siamo. È segno che allora ci siamo? È segno?
Torniamo alle letture infantili. Quella frase sapiente, per esempio, me la ricordava mia madre quando io dimenticavo tutto di me, soprattutto i proponimenti e le acide buone intenzioni antipatiche.
Mi pare, andando a ricordo favolistico, che mia madre srotolasse una striscia di carta, forse anche di stoffa... la danda, oddio, cosa mi viene in mente, la danda (o commozione, aspettami dietro l'angolo e dopo questa sceneggiata ti raggiungo e ci facciamo nuova e nuovo, ci facciamo), e sulla striscia era scritto qualcosa che mia madre leggeva e la leggeva per me: Domani digiuna Nicola
, era un promemoria di tale Nicola a sé stesso.
Ma quello che ero sono davvero io? Quello che ero allora sono io ora? Sono davvero io quello che ero nei miei panni, nei miei anni a una cifra? Ho solo cambiato abiti perché non c'entravo più: è tutto qua il crescere? E ti pare poco, anche se fosse?
I filati, i tessuti, l'organizzazione del lavoro al telaio, il fuso, la spola e l'ago
(ma cosa vado a ricordare, le fiabe?), la foggia, il vegetale, l'animale, le fibre acriliche, il poliestere, la moda. Cosa si impone in ogni tempo? La moda del tempo. Si fanno guerre per tutto ma non per abbattere lo strapotere di un capo, inteso di vestiario, di un colletto dalle orecchie mozzate, di un risvolto rivoltoso, bisogna solo attendere che ogni moda si elimini da sé alla vista della prossima moda, barbara ai confini, sempre barbara all'inizio, poi invadente, vorace consumatrice di civiltà di massa.
La moda seguente appare sempre rivale della precedente, È anche filosofica quindi, forse, la moda, la voga? La moda, questo scetticismo sul vivere oltre una infatuazione. Questo vivere, quindi, solo nel tempo di una infatuazione. La passione intensa ma superficiale, c'è di meglio? La vita a balzi, a strappi, a dirotti slanci e pianti. La moda la riconosci dal singhiozzo, la brusca contrazione involontaria. La moda singhiozzante, lacrimosa, appare e incede come se avesse già perduto chi la segue (ha vocazione mariana per caso? Su queste cose non si scherza mica). E noi la seguiamo scivolando sulle lacrime, scodinzolando come un codazzo di cortigiani che sdrucciolano, che perdono equilibri. Stampiamo sulla nostra pelle e sui nostri modi e gesti e atteggiamenti l'attestato dell'avvenuto pagamento per la fruizione del nostro tempo (così è scritto dietro la tessera stagionale). Del nostro poco tempo (è singhiozzante per questo, la moda?).
Voglio dire (forse volevo dire solo questo): sono un manierista, sono di moda in me.
Ero un ragazzino, salivo sul tram, mi impressionava chi, passando davanti al bigliettaio appollaiato, diceva (come annunciandosi di casa, casa reale, vita vera, realtà) tessera
o anche l'esibiva come un invito al ballo (un invito ricevuto, come forse è un invito ricevuto ogni documento di riconoscimento, un invito a vivere, o no?) e proseguiva andando a sedere intorno ai bordi della pista (lasciare libero il passaggio) o restava in piedi con soddisfazione impugnando il tubo, la pertica da evoluzioni ginniche e danzanti: era il gran ballo della scarrozzata. Affioravano sulle guance nèi posticci, calavano parrucche sulle teste, nell'aria sbuffi di talco, cipria, polvere di riso, calcina, vetivèr, notti persiane, gesso, stucco, odori di frittata ancora calda in mezzo al pane, e di cicoria ripassata anche, e broccoletti e salsiccia mica no, sfioramenti, appoggiature, adesioni. Il vagone, che magnifica attrazione, quasi un ala del castello di Versailles, che imitava con le vetrate i finestrini ma non ancora si spostava su rotaie. E tutto questo per aver detto tessera
. Ecco cosa voleva dire mettersi al passo con il proprio tempo sulla tratta della vita alla corte delle ferrovie Termini Laziali-Centocelle, per esempio.
Io me la cavavo con gli spiccioli ai quali dicevo addio, e loro tintinnando nella mangiatoia metallica del bigliettaio sul posatoio dicevano addio a me. Tal dei tempi il costume
(non me lo scordo mai quello Chénier, le ultime grandi parole su musica, Illica, sì, poi non scherziamo, ossia scherziamo e basta). Tessera
e sei a cavallo, anzi in carrozza. Ma sentire il suono degli spiccioli ti mantiene vigile. E se fossi pagato a spiccioli sonanti, pochi per ogni acquirente che nemmeno se ne accorge? Potrei averne addirittura diritto, il diritto d'autore. È previsto. Pensa un po' dove arriva la premura umana. Bene, ci sto. Nacque in me l'ambizione: fare il bigliettaio sul tram. Andiamo a vedere come si fa.
2
Domani scriverò, per intanto faccio i primi passi in tram. Insomma, ho un'ambizione: fare il bigliettaio sul tram, starmene in bilico sul posatoio in mezzo a tubi da giungla d'acciaio con davanti la mangiatoia di ghisa nella quale cadono saltellando i tintinnanti spiccioli (da piccolo il denaro è così vivace), starmene spesso né in piedi né seduto ma quasi in piedi e quasi seduto, diagonale in mezzo ai tubi come uno di quei coltelli nel ceppo d'acciaio, le natiche sul bordo del seggiolino né verticale né orizzontale ma obliquo e basculante perché lo faccio oscillare e oscillo anch'io con esso, e punto i piedi sul poggiapiedi, sussultante, pelvico, strafottente, così: per insolenza.
Spiccioli per biglietti: per due spiccioli ecco a voi il biglietto, che è color aragosta o verdemare o turchino, anche grigio, giallo chiaro canarino, giallo scuro canarino olandese, fragola (a seconda degli orari delle corse del romanzo), gli stessi colori e la stessa consistenza di quei foglietti con su scritto il titolo ovvero la tratta, il percorso e tutto il resto appresso, servizio, vettura, andata, ritorno, direzioni e versi, numeri, cosette cantabili in viaggio, e le ruote ci mettono ritmo e musica sotto. Cose che accadevano un tempo. Ci sono cose che non accadevano un tempo, forse? L'oggi è un punto di vista, non è mica un tempo.
L'oggi è il posatoio, i biglietti prendono il volo come farfalle tra le dita dell'umanità viaggiante, dell'umanità destinata a passare, come infatti mi passa davanti dopo la salita alla fermata dalla quale ci allontaniamo, e la fermata è già quel tempo, per dire, perduto. Le farfalle trascinano chi acchiappa farfalle, dita e tutto, non è vero il contrario (è sulle fragili e polverose ma colorate ali di spavalderie come questa che la scrittura procede).
Dietro il biglietto c'è scritto: Conservare il biglietto e presentarlo aperto a ogni richiesta del personale
. Comunicazione perentoria, ingiunzione imperiosa, ammonimento sacerdotale, profezia, cos'è? Manuale, Catechismo, Pizia, Sibilla? È incredibile come il passato a rileggerlo è tutta veggenza, precetto e dizionario. Ricordo scurrili revisioni della frase (ah, quell'editing triviale che è poi diventato correzione in correttezza... mi viene in mente, oddio, il correzionale, il riformatorio per minorenni... da quanto non me lo sentivo nominare) ma non è questo il punto. Il punto è quel biglietto, la carta suggellata, il foglio volante (te lo ricordi il foglio volante?), la bolla, il piccolo contrassegno di ammissione allo spettacolo, spettacolo esso stesso, carta cantante. Per pochi spiccioli avrei elargito biglietti per viaggetti d'evasione (dal correzionale?) della gente.
A te che leggi sarà sempre chiesto conto di quel che leggi (tienitelo per detto), sappilo, poi non dire che non lo sapevi. Credo che gli dei a questo servano, a chiederti, quando sarà il momento, che ne pensi di quello che hai letto e, qui sta il peggio, cosa hai letto, e non credere che sfoggiare il meglio ti salvi, non crederlo (ci vuole una certa bravura a non cadere nell'equivoco del meglio). Sulla terra non so, forse la critica è esercitata ancora da soggetti addetti, e con le penose e risibili conseguenze che sappiamo, di piagnucolio o di ingannevole esaltazione (si stroncano e si elogiano vittime designate convenienti). Ah no, invece no, lassù lassù con gli elogi e le stroncature ossia con l'aria fritta non ci si fa nemmeno una piccola nuvoletta passeggera, altro che il bello e il cattivo tempo.
I libri servono a recensire te. Perché? Perché è tutto uno scherzo lassù dove tutto è già noto, quindi non c'è spazio se non per la burla, per l'inganno. È amatissimo l'inganno lassù, ma sì, per soddisfare l'ingenua pretesa di ingannare il tempo, e sì, per passatempo anche, giusto, per fingere un po' che il tempo passi e addirittura, to', che il tempo esista, guarda un po'.
E allora sarai interrogato sulla materia che porti dalla terra ossia la vita come passatempo letterario. Comprendiamo tutto ciò che è già compreso nella fascia mediana e conveniente del senso (la fascia per fasciarsi la testa o le corna prima di rompersele scervellandosi), consideriamo citabile tutto ciò che è citabile perché è solo citabile, impennacchiato come un cavallo circense che gira e rigira e rilascia anche rotoli di citabile merda sulla pista, ripetiamo paradossi come fossero enunciati lineari e equilibrati quando invece sono esercizi per trapezisti volanti via dal mondo, per illusionisti che fanno sparire tutto il pubblico, per giocolieri con sei e più palle, per acrobati sul filo del discorso, ci sbricioliamo in tenerezze morali di truciolato fradicio, esibiamo piagnistei a spruzzo con la peretta, offriamo merende di altruismo diarroico spalmabile e appiccicoso, sgoccioliamo come alici pressate le nostre colature sentimentali.
Patetico e risibile, il nostro è il momento del pagliaccio (com'è che non esiste il corrispettivo femminile? Ci sarà una ragione). Noi chi, scusa? (Chi ha parlato?). Noi tu, o asessuato lettore neutro. (Non sei tu la mia lettrice). Cosa abbiamo? Che altro? Vuoi fare spettacolo? Non fare il pagliaccio, siilo. È il tuo momento, c'è sangue e segatura sulla pista, non puoi entrare che tu.
Entra... Ecco, puoi rallegrarti della tua tristezza e rattristarti della tua allegria, tutt'assieme, perché è il momento dell'insensibilità, non sei né triste né allegro, l'allegria e la tristezza ti piacerebbe infliggerle. Quella del pagliaccio è l'unica figura con la quale nemmeno ci provi a immedesimarti (non ce n'è bisogno), è il polo uguale di un magnete al quale ti avvicini perché ti piace che ti respinga, come da te ti respingeresti spesso. Nei tuoi momenti di lucidità crudele ti pare che la sua sia la natura di ogni personaggio letterario (soprattutto quando ti pare che un certo personaggio letterario potresti essere tu). Ma non è un po' inattuale la figura del pagliaccio? (Sento pormi la domanda).
Lo è, lo è da sempre, da sempre è inattuale, rende sopportabile l'allontanamento dalla vita, infatti è una figura relegata, condannata a vivere nei limiti di un cerchio in un rotondo esilio come in un bersaglio (il suo sesso è un naso rosso), figura anche stantia, che sa di costumi nel baule, figura anche ammuffita (le sue verdognole lacrime finte), e che, sì, magari si disfa da sé (è esattamente quello che fa, e non è forse questo il suo eroismo?), così ce ne liberiamo, no? (Piangendo dal ridere, ridendo dal piangere... sì, certo, continuiamo così, tanto è gratis dire qualsiasi cosa). Ma non è comico però, il pagliaccio, questo va detto a sua difesa. Dove eravamo?
Ah sì, in carrozza... il biglietto, il documento, lo stampato, il testo, il libro... e noi siamo libri aperti per gli dei. Chi legge ha questa responsabilità: diventare una carriola e trasferire dalla terra al cielo i fogli sciolti e a pacchetti, i diari fioriti (i fiori: la parte della pianta contenente gli organi sessuali), gli scritti, i testi, i bigliettini, le frasi, i versi (il più fiorito che dice: io contengo ammucchiate nella mia inflorescenza), infiniti commenti a commenti infiniti. Gli dei non leggono (non hanno il tempo, proprio non ce l'hanno) ma gradiscono i riassunti, le citazioni, il frasario celebre, il detto e il contraddetto (il non detto anche, anzi soprattutto), la diceria, il pettegolezzo, il vasto repertorio di sciocchezze terrestri. Le ascoltano ruttando sorrisi di ambrosia lenitiva. C'è chi non crede nell'esistenza degli dei? (Perché? C'è chi ci crede?). Non cambia nulla, sarà interrogato lo stesso.
3
L'umanità ha inventato le parole e i segni, nessun altro essere vivente è andato oltre l'urlo e l'orma, o quasi (del resto l'umanità non è mai andata oltre l'infanzia). Ricordo l'obiezione di lei, sazia e appagata, torpida, veggente con gli occhi semichiusi, supina, la testa su un braccio ripiegato, la nuca sul polso interno, dove batte l'arteria, l'indice un po' curvo dell'altra mano che uncina l'aria sopra la sua fronte (merlettava forme d'animali in volo e in corsa e a nuoto e ali e code e pinne e righe scritte): «Però, davvero, se un topo, un tordo, anche un cavallo, un ermellino, una starna, una volpe, una foca, un grongo, una faina, se un animale, insomma, anche domestico, se una bestia se ne uscisse con una tirata elisabettiana, con una sparata in terzine a rime alterne, con una codata di addio ponti, curvi sull'acque
, ecco, se accadesse, sarebbe una cosa davvero da ridere, raccapricciante, spaventosa però comica, come quando un umano inciampa e cade. Gli animali... andature, corse, balzi, evoluzioni, svolazzi, la sempre bella calligrafia dei movimenti in aria, sul solido e nel liquido, versi essenziali, che altro dire? Hanno bisogno di significare? Manti, livree, piumaggi, pelami, chiocciole, anelli, figurativismo e astrattismo tutt'uno, che altro? Installazioni nei cieli, sulla terra e nel mare, da sempre (quelle dei nostri artisti non sono che trappole per concetti sovrastimati). Animalesca fluidità nell'elemento in tutte le stagioni, primavera-estate, autunno-inverno, stagioni che le bestie umane percorrono soltanto in passerella con la scioltezza e la falcata e la volatilità delle bestie bestie. Ma vogliamo scherzare? Vorremmo che declamassero, cantassero scemenze su basi musicali, scrivessero sonetti, poemi, romanzi, le bestie? E perché? Sarebbe la loro pagliacciata, un imbarazzante sproposito, comico, anche triste.»
Sì, davvero, che pagliacciata. Solo l'umanità scrive, tutta l'umanità. Solo io no. Domani scriverò (è il mio motto), non oggi. Non sono pronto. Devo prima imparare a leggere. Non l'ho ancora detto che non so leggere? È che non sapevo come scriverlo.
Da bambino ho ascoltato il rosario, è stata la mia formazione, avrò avuto sei anni, anche sette. La scricchiolante voce solista del prete, le sillabe che coi loro colpetti di punta e di taglio e di contorni convessi e con cozzi e pressioni aprono crepe sul guscio da uova sode e da cupole delle vocali, il respiro delle donne pronte a tutto che sibila tra labbra che fremono come lacerazioni lì lì per slabbrarsi in fenditure latine, e poi, poi, eccolo, eccolo, ancora lo sento quello scroscio delle voci femminili, serrato, impetuoso, una vorace onda d'urto, una straripante nuvola trafitta da un raggio di sole che già penetra nello squarcio che si allarga e da esso sgorga il pietrisco minuto, polvere e voci e poi ciottoli e massi di petti di donna a pieni polmoni, e tutta la volta precipita e la nuvola ambrata e gonfia di voci e di petti toccando il suolo balza all'insù con spasmi barocchi. Il rosario. Che piacere. E io stavo lì in mezzo. Poi dice che uno non si converte (chi lo dice?). Mi convertii, aderii a quelle voci che mi accolsero in una abbondante cipria dorata. A ogni rosario la chiesa rovinava sul suo pavimento espandendosi nell'ambrata nuvola dal colore del melone aperto e attraversato dal tagliente sole vespertino estivo (era sempre estate, perché?) e io non dico al centro ma là in mezzo gioivo. Non ero niente di chissà che, anzi se mi rivedo vedo me come un animaletto recente ancora nella lanugine, nudo, con gli occhi più grandi delle mie palle a quel tempo. La questione è che restavo incolume in mezzo a tutto quel crollo, anzi gaudente senza nemmeno sapere che stessi godendo e nemmeno perché, figuriamoci di che. Miracoli.
Insomma, ma che vi leggete? Cosa vi manca sopra questa terra che la cercate nei libri di lettura amena? Amena accanto a lettura non s'accosta più? È perché? L'aggettivo non è sconcio. È sconcio? Io non so a che punto stanno le parole. A me amena piace. Vado a leggere (o dei, so già un po' leggere col dito sotto): ... che ha per fine più il diletto che l'educazione
. Ecco, ho capito perché mi piace. Ma chi è che legge ormai più per diletto? Dopo quel giorno, poi, dopo quel giorno (ma davvero si muore leggendo per diletto?). O forse è solo per diletto che leggeremmo, in solitudine e senza che si sappia. O no?
Saremo interrogati. Mi pare anche giusto. Cosa c'è nell'aldilà, oltre la quarta di copertina? Non sono domande avvincenti?
Certe volte giochicchio con un pensiero tondo tondo come con una moneta alla quale fare salire e discendere il dorso delle dita, me la spasso col pensiero che addirittura possano anche esistere gli dei, ma solo loro, solo dee e dei (sono forse il mio passatempo gli dei?), e che siano gli umani a non esistere, cioè ci siano per non esistere, ecco, che siano parte del nulla, che c'è per non essere, c'è per non esserci (il nulla deve pur esserci prima di prendere la decisione di non esserci, il che vuol dire che tutto è sempre quel nulla che sta lì lì per decidere). Le creature umane esistono come assurda dimostrazione dell'esistenza degli assurdi dei. In realtà non c'è realtà, anch'essa assurda. Com'è che tutto questo mi pare più facile del contrario, del cosiddetto esistente? Anche meno pesante.
(E se fossero il mio pubblico le dee, gli dei?).
E queste righe? Nulla anch'esse. Oppure chi le legge