Un solco senza seme: Scritture in versi 1988-2023
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Info su questo ebook
I solchi del volume che stai per sfogliare contengono: oracoli dell’antichità non ancora verificati, un cesto di esami diagnostici per malattie visibili e invisibili, cinema e televisione sentimentali, una sposa genuflessa e vendicativa, un uomo alle prese con i numeri, centinaia di meduse, le istruzioni per distruggere un matrimonio e molte altre faccende umane che incidono solchi indelebili, a volte con un seme dentro, spesso no.
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Anteprima del libro
Un solco senza seme - Luca Ragagnin
Tavola dei Contenuti (TOC)
come funziona questo libro
I – La balbuzie degli oracoli
II – Biopsie
III – Fabbriche lumière
IV – Misfatto unico
V – Il libro delle meduse
VI – Videre leviter Breve storia in versi della televisione italiana
VII – Granny Smith
VIII – Mangimonio
IX – Trentawatt
Note ai testi
[ ]
luca ragagnin
un solco senza seme
Scritture in versi 1988-2023
Miraggi edizioni
© 2024 Miraggi edizioni, Torino
www.miraggiedizioni.it
In copertina: disegno di Antonella Bukovaz
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Borgoricco (
PD
) nel mese di gennaio 2024
da Logo srl per conto di Miraggi Edizioni
su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr
e Carta Fedrigoni Woodstock Materica Terra Gialla 180 gr
Prima edizione cartacea: gennaio 2024
isbn
978-88-3386-259-0
Prima edizione digitale: gennaio 2024
isbn
978-88-3386-258-3
Sinossi
I solchi del volume che stai per sfogliare contengono: oracoli dell’antichità non ancora verificati, un cesto di esami diagnostici per malattie visibili e invisibili, cinema e televisione sentimentali, una sposa genuflessa e vendicativa, un uomo alle prese con i numeri, centinaia di meduse, le istruzioni per distruggere un matrimonio e molte altre faccende umane che incidono solchi indelebili, a volte con un seme dentro, spesso no.
Biografia dell'Autore
Luca Ragagnin è nato a Torino nel 1965. Il suo ultimo libro è il romanzo Il bambino intermittente, pubblicato da Miraggi nel 2021.
All’interno di questo volume, l’elenco completo dei suoi libri.
dello stesso autore
Musica per Orsi e Teiere
Capitomboli
Imperdibili Perdenti
Agenzia Pertica
Pontescuro
Autoritratto in vinile
Il bambino intermittente
come funziona questo libro
È una selezione di materiali irreperibili con moltissimi inediti.
Questi materiali hanno gli a-capo, si tratta di scritture con gli a-capo, e infatti, inizialmente, nel frontespizio, sotto il titolo, di cui dirò alla fine, c’era la formula scritture con gli a-capo 1988-2023, modificata poi in scritture in versi 1988-2023.
Tanto a chi interessa, a me no di certo.
Però, per correttezza, vorrei specificare che queste scritture sono passate volta a volta come poesie, testi teatrali, filastrocche e testi per canzoni. È tutto abbastanza esatto, nel senso che qui dentro queste forme di scrittura le troverete tutte.
Io vorrei farne un fascio unico e, se a voi va bene, chiamarle testi.
Ok?
Sul tempo, invece, c’è ben poco da discutere: 1988-2023 significa che qui dentro ci sono 35 anni dì testi.
Come passa in fretta il tempo a chi si sollazza con gli a-capo.
Pause e bianchi di esistenza, voragini di anni tra una riga e la successiva, per trovare una rima (o un significato) possibilmente non troppo masticati.
Ci sarebbero poi i medesimi 35 anni da coniugare in scrittura senza gli a-capo, ma se avessi proposto un’antologia di materiali irreperibili con moltissimi inediti in prosa al mio editore, mi avrebbero mandato al macero fisicamente per intervenuta follia irredimibile, un macero prima della stampa. Il che mi rimanda a una meravigliosa frase dell’irredimibile e meraviglioso scrittore e poeta argentino Osvaldo Lamborghini: « Prima pubblicare, poi scrivere ».
Ma non divaghiamo, che il libro è lungo.
La prima sezione – La balbuzie degli oracoli – è dedicata agli Oracoli caldaici, una raccolta di rivelazioni sapienziali in esametri omerici appartenenti alla tradizione misterica greco-romana realizzata probabilmente alla fine del II secolo d.C. da Giuliano il Teurgo. Qui è la voce della divinità che parla direttamente all’uomo, il trascrittore. È ovviamente un apocrifo e inoltre un apocrifo giunto a noi solamente sotto forma di frammenti, di schegge. Ne ho scelte 50 e le ho terminate.
La seconda sezione – Biopsie – prende la scaturigine della malattia, di ogni malattia, e la fa divampare nella parola. Quindi è un prelievo diagnostico della parola, con tutte le sue conseguenze.
La terza sezione – Fabbriche Lumière – è una privata, sentimentale e perciò incompletissima storia del cinema (con gli a-capo).
A farle da specchio sarà la sesta sezione – Videre Leviter –, privata, sentimentale e dunque incompletissima storia della televisione (con gli a-capo).
La quarta sezione – Misfatti unici – conteneva una buona parte di ciò che era rimasto in fondo al setaccio dopo il mio love affair con il teatro. Alla fine ho salvato un solo atto unico, La porta, che quindi è rimasto un misfatto unico al singolare. L’unico misfatto unico. Da cui il titolo della sezione, che è Misfatto unico. La porta. Non so se mi sono spiegato.
Devo alla presenza massiccia dei simpatici esserini planctonici nel mare isolano di una vacanza a Ginostra tanti, tanti anni fa l’esistenza della quinta sezione – Il libro delle meduse –, scritta con enorme disappunto a colpi di matita su carta spruzzata, abbarbicato su uno scoglio riparatorio. La prima edizione di questo volumetto (qui raddoppiato) era illustrata da Giorgia Atzeni.
La settima sezione – Granny Smith – ripristina l’esatta sequenza di una raccolta all’epoca divisa in più sillogi (Crocetti, Scheiwiller) e riviste con gli a-capo.
Dell’ottava sezione – Mangimonio – non vorrei dire niente. È uscita da un cassetto in un giorno di pioggia in cui pensavo al passato e ai calzini. È inedita.
L’ultima sezione, Trentawatt, contiene testi (con gli a-capo) di esaltazione, sdegno, sorpresa e riflessione su dischi, artisti, generi, eccetera (starebbe comoda affiancata a libri come Autoritratto in vinile, Un amore supremo, Canzoni da mangiare e altri, ma sono tutti senza gli a-capo e quindi l’ho messa qui).
Ringrazio la poetessa e artista Antonella Bukovaz per avermi donato il meraviglioso disegno di copertina.
Ringrazio il mio editor Davide Reina. Mi sopporta da sei libri e ancora non si è stancato. Vediamo con questo.
Ah, già, il titolo.
Ho sentito l’espressione « Un solco senza seme » nel film di Riccardo Milani dedicato al semidio dei tacchetti Gigi Riva. La recitava un attore in una sorta di anfiteatro naturale (ma potrei sbagliarmi, sto andando a memoria) e mi ha colpito come un sasso in fronte.
Ho atteso i titoli di coda per capire la provenienza di quel testo recitato ma non ne sono venuto a capo, anzi, a-capo.
Però ho sentito che in qualche modo quell’espressione faceva al caso mio, mi disegnava perfettamente con un’unica, veloce, pennellata: 4 parole.
D’altronde già nel testo Puntasecca (a pagina 48) avevo prefigurato il mio caso.
Guardo da qui questi decenni di scrittura e di vita e mi pare proprio di essere io, quel solco senza seme. Oh, non mi fraintendete e non mi compatite, va tutto benissimo. Mi considero il timoniere responsabile delle rotte che hanno preso la mia vita (e la mia scrittura).
E poi, se nelle pagine che seguono, in qualche modo ci troverete un solco, allora il seme potreste piantarlo voi.
I – La balbuzie degli oracoli
Non porre mente ai confini infiniti della terra:
non nasce in essa l’albero della verità.
E non calcolare la misura del sole a furia di
tavole: per eterno volere del padre esso si
volge, non per te.
Lascia perdere il ronzio della luna: è per opera
della necessità che corre sempre.
La processione degli astri non è stata generata
per te.
L’ampia palmatura delle ali degli uccelli
nel cielo non è mai veritiera, e non lo sono
le sezioni di vittime e di intestini.
Tutti questi non sono che giochi, e fondamenti
di una frode venale.
Fuggili, se vuoi dischiuderti
le porte del giardino sacro della pietà,
dove virtù, sapienza, ordine armonico
si adunano.
Oracoli caldaici
Dio non rivela sé nel mondo.
Ludwig Wittgenstein
World without end remember me.
Laurie Anderson
la rosa di erode
Ancora ancora tre volte
inerpicata sul sangue,
eretta.
La baionetta di spina
in lustro di parata,
gocciolante dell’urlo.
Ancora si infetta
la rosa di Erode:
toccata dall’occhio che stilla,
di tempo in memoria,
lancette di cenere.
La zolla fiorita della lacrima
sul mondo che comincia.
generazione
Danzano: le conchiglie
sotto i piedi frantumate,
il ballo che l’alga scandì in polvere.
Nati
ancora non svezzati
sotto il torchio delle stelle,
scalzi,
forgiavano da un fianco,
legati alla catena per le scapole,
il forcipe lunare:
alla destra la memoria
in aratura cieca riprodotta,
nell’ossequio claudicante,
rotta ad altezza di calunnie.
Rarefatta.
La memoria
che gettò la sua stampella
nello stige dei maiali,
mendìca di un cartoccio di ricordo,
sorretta dalle lucciole
che schiatteranno all’alba.
testimoni
Sfiliamo la coppa dal chiodo:
che l’asma nell’ora del varo
la colmi di uve marcite.
Si plasma da mani arrancanti
nel vuoto, l’arazzo del mondo:
brindiamo alla scheggia. Sul salto
del tarlo del palo che regge
i primi villaggi dei morti
alziamo un corale. Monconi
lasciamo a scoria futura.
Bordello dell’osso asciugato:
anima nostra, stirpe e sete
di nulla. Staffetta mancata.
incursione
Quella che l’occhio ti accende in segreto
è la fiamma del falco.
I barbari l’arsero
sfasciando le culle di quercia
degli antenati.
Dal limite boschivo
il rapace si alzò in cenere
e il campo degli infanti
crivellato dalle urla
vide dal suo mezzo volo.
Tu hai sposato il senno
lui la roccia.
Tu trivella, rosa nera
imprechi l’ora che ti apre
finché il falco rientra nella lingua
come padre.
Allora il giorno ti svapora,
bianco del tuo sangue.
il peso della luce
Radura che il sole attanaglia.
La corazza della sorte
sepolta sotto il peso della luce.
Tartaruga, ceppo di giustizia:
lì veniamo.
Veniamo accanto all’altare tumefatto,
in perdita di brace, inginocchiati.
Veniamo a domandare.
Scaviamo i resti oracolari.
L’eternità del nodo, le carcasse
raccogliamo per l’ornato della cinghia
e lì veniamo.
Veniamo in linfa calcinata, in meteorite,
la ghigliottina sulla voce
per la preghiera di cui sei l’indegno.
segni particolari
Monumentale collisione della rosa:
tu che la mano del bambino schianti di passione
abbellisci la figura, marchia il tumore sulla guancia,
che sappia quanto dura la freschezza.
Disgiungi e sferza, spina.
Sei sola come il pruno fatto verbo
che ci promise al ciglio del riposo,
sull’alba degli squarci,
restituendo con l’affondo della luce
la cavità del tradimento.
Se ho voce di condanna
la palpebra accecata nidifichi la fonte:
il volto primigenio, l’aguzzino
che ha dimora e nome dentro il sole.
la fabbrica del senso
Annotta nella bocca
siero del silenzio:
ti accoglie fiero il doppiatore di me stesso.
Sgretola tu la grotta
dilata, dagli spazio:
appenditi alla corda del misfatto,
mentre io dormo.
Dentro la guancia
la risonanza scuote i pipistrelli.
Deponi la corona dalle cuspidi
una gemma alla volta, lentamente
e lasciati svezzare dagli scheletri
che pago per sgambettarmi intorno.
Disfatto è l’occhio
dopo il colpo esploso in feritoia
di pupilla, ardente.
La traiettoria ci soccorre:
aggancia il virus che battezza lo sgomento.
pietra focaia
Il ceppo sul letto
chi lo accende.
Dimmi dimmelo tu, bambino:
fascina sorridente, latrato della gioia.
Chi infiamma la cornice dell’insonnia.
Sei tu, migrato
al sommo della retina?
Rallenti nell’inquieto, atterri.
Ma io non ho respiro
che dia approdo all’avvoltoio,
o al desiderio.
occidente
Sotto la rosa le acque si assopiscono:
orbate dall’impronta, crespe di fatica.
Disposte nelle orbite
che la crociata perse al suo passaggio:
monete della fuga.
Dirige la sapienza del silenzio
il petalo in arcate diroccato:
asciuga lo scalpo alla marea.
Sub rosa, scempio di superstite
bacio dell’estuario
dirama l’astro che hai stroncato con lo sguardo
sul fiato di ogni bocca nascitura.
Sigillo invalicabile di spina
che abbiamo pianto inseminandolo nel grembo.
la messe
Dal calice si leva un corale
e il polso congeda il firmamento:
saturo nel riflesso, roco.
Diamo stoccata all’annegato
che chiede la salita nel cristallo.
Antro asciugato di veleno
stai attento alla parola
sollevante in vino il cuore.
Vegliamo sul tizzone della voce
che s’imbelletta in salmo:
vegliamola in ragione del frumento
che essuda dalle tombe.
chiaro di luna
Astio della sera, albore disossato.
Ci raggiungi quando scardiniamo l’uscio
e ci stendiamo sulla pietra,
goccia a goccia, spenti,
in soglie di memoria.
A volte abbiamo un’isola davanti
a volte il calcinaccio della prole.
Immobile, nell’occhio ustorio
viene a centrarsi un grido di falena:
ricordo incenerito della luce.
Albero genealogico di serpe
sgrana le perle una ad una
sul dono dell’inutile: le mani.
Le nostre mani, spose della gruccia,
in viaggio sull’infermità del giorno.
la rosa del guado
Fango che il crollo di bocche
correggi di accento, insegna
tre volte al ginocchio la rosa del guado.
Pneuma, soffio uncinato:
ci alzi la veste, raddensi.
Marcisci sul ventre il fiato del padre.
Marcisci tre volte annodato nel cespo
che usammo per elmo, a tempio bruciato,
migrati in empia sorgente, natanti di lava:
al canto del remo tarlato, futuri ossari ridenti.
partitura
L’arpa si è incagliata negli scogli:
l’arpa che allacciava il suono del polmone
alla borraccia, reliquia della sete.
La faccia assorbe della luce il sughero
mentre anneghiamo, arrugginiti,
scuri nel centro della stanza.
Osiamo il volo di terzina
dal fosso dell’amore rampicanti
verso il rostro, siderali.
La alziamo con l’argano del trillo,
fino all’ultima estensione
e discendiamo.
Tu che dirigi, tu nascosto
il fiotto disarciona dall’arsura,
il fiotto di speranza:
con il bastone della legge
riavvolgi questa carta indecifrabile,
consumala in un fuoco,
consumaci.
la via delle indie
Strepito, santuario delle spezie.
Sappiamo che preservi l’ombra immobile
quando smantelli la pienezza
decapitando il chiodo.
A voce tramontata,
dietro il vicolo,
insiste l’anima nella coda del topo
e salta acuminata,
di tagliola in stella,
mendicante.
Chi sei, arteria cava risonante
della moneta che versiamo
sulla promessa della rosa:
fragranza quotidiana, embolo e seta.
Chi sei, tu che lanterne sfili dalle grate
e accendi, dove l’occhio s’impantana,
lo spirito sfasciato del diluvio.
la forma minerale
Indenne, sul volteggio della schiuma,
in avanguardia, la memoria
si frange sulla riva dell’esilio.
C’è ressa dentro ai pori. Quando il riccio
scalda il cratere della costa,
si scosta dall’impronta del calcare
l’affronto minerale della forma:
elude la sosta nel tempo
e s’inabissa mutandosi in alga,
ci lascia il posto. Veniamo a insediare
le nicchie con l’osso: memoria
raggiunta dal sangue, suo estraneo corpo.
la parola
Fiaccola,
lancia votiva che infilzi la parola:
la mano ti arrota.
Uscita dal cerchio,
intrecciate le nocche e gli arbusti,
la mano ti ha incoronata.
Regnante brandello,
suda la tua morte ai piedi del vulcano,
dove sei stata trascinata.
Ti giriamo e rigiriamo, parola
finché il cuore dirama i lapilli,
si schianta.
Dodici volte sopra le teste
in un giorno la lava decolla:
dodici volte anche noi fendiamo la luce,
sotto il respiro.
Ti fendiamo e giriamo, parola
finché scardina il fiato.
Banchetta sulla stele,
dissètati in noi,
nella conca,
dal cratere apostolico.
Dissètati nel bacio che tradisce, parola:
nostro inganno dalla coppa levata.
gli invasori dell’atomo
Una scala di marmo discende nell’anfora:
andiamo a vedere lo stampo,
il diadema dell’atomo.
Una scala discende e l’osso fa l’àncora
al nostro traghetto:
si salpa dal sonno.
Molliamo l’ormeggio.
Il corpo della medusa
l’ansimo sparga sul mattone:
è rugiada dell’uscio, testamento.
Andiamo a firmare lo sdegno
per solchi irradianti la stilla.
Squarciamo l’involucro al soffio
bambini in convoglio, scafandri di argilla.
l’intuizione dei cosmi
Bianco taglio di squama,
noesi tatuata sul labbro
che lame abbassarono al silenzio di grotte:
perché vibri alla brocca
tradendo la mutilazione
dal fondale che imbocca immortale
l’abisso?
La ragione persegue nella sua amputazione
il nido bestiale, interrato di anima
ma il nome sta tutto al di fuori,
in innesto divino, sgozzato.
la balbuzie degli oracoli
La croce che scorteccia l’abbandono
di un volto dal versante del presagio,
sepolta nel silenzio del germoglio
falcidiato, ora ritorna:
l’adagio delle attese si è scrostato
quando il caso, deciso alla ripicca,
inerpicato sulla vena, a mulattiera,
in piombo di visione ha reclamato
la tua bocca.
Quanta balbuzie arcigna nell’oracolo,
mio cuore tolemaico,
sorgiva iniziazione dell’abbaglio:
mai per oblio, ricorda
mai per oblio concedi
al foglio che si legge sulla pelle
di macerare in flutti miserabili.
la scoperta del desiderio
L’occhio si scarnifica sul giorno,
al tuo apparire: ora è dragato il cosmo.
Insieme resistiamo alla matrice
che depone negli antri del battesimo
la pronuncia del nome, l’ossidiana.
Porgi dominio e semina e rifulgi,
al netto della voce:
ignaro della tua stessa materia,
ti generi soltanto nell’estraneo.
Padre, padre che il polline decapiti
dal collo del deserto,
accetta il volto ormai deposto: asciutto
sudario fecondato nell’assenza.
il mare fecondato
Persuasione disvelamento amore:
scendevano la rupe dall’oscuro
lato che nutre la parola a forza
di allentarne la mascella con la scorza
delle onde. L’ancella dalla soglia
li aspettava, dalla bocca di tempesta,
dentro il solco che mescola ed annega:
li aspettava. Persuasione amore
e ci aspettava, disvelata, al rito
sogghignante che i corpi sottopone
alla misura, all’antro, recintati
nell’eterno, ristretti firmamenti.
Allora il mare si richiude sazio:
il centro si fortifica, nascosto
nel nodo inestinguibile del grembo,
trionfante sullo scettro della lava
colata in nostro freddo compimento.
primo incidente
I capelli balenano allo sguardo
in brividi di luce. Scintille
scaturite dal primordio, palpebra
che ricuce la ferita del guado
dove transitò capovolgendosi
la zattera del plasma con i nomi
dentro. Chi ritorna sulla genesi,
tu che il manto all’implacabile onda
sposasti portandole il dono a noi
destinato: il diamante del senso? Chi
si trascende e risale la vena può
sul declino del tempo correggere
il primo incidente. Esplora lo spettro
scomposto di cuore, fin quando l’astro,
il torace, ritrovino sede:
di fuoco terra acqua che tutto nutre.
il telaio degli schiavi
Ogni cosmo si leva all’intelletto
prima che l’orizzonte rubi un segno
e si ritagli nell’albore,
sveglio.
È in attesa la fossa della mente
in calchi subalterni,
fiduciosa:
finché lo spazio si stenda flessibile,
e il disegno,
lei lo attende.
Dopo abbandona.
Prostrata come un fuoco, zoppicante,
adunata nel tranello
accetta l’orbita:
soggiace alla sua folgore,
perenne e non persuasa.
la condanna del naufrago
Signore d’anime, iniziatore del dolore,
sepolto nella luce, aggrovigliato.
Vieni a vedere la nostra fioritura.
Retrocedi alla creatura multiforme
che hai sviscerato dentro un gioco di parole.
Transfuga dell’incetta, ammaliatore:
se accanto al fiore cresci la falcidia,
bene attrezzata all’infezione,
ascolta noi deporre in antri
ritmati dalla stecca del maroso
il voto del ringraziamento.
Arpione d’osso, rete di sudore
che spera di adescare il tuo rimorso
sopra l’onda aperta in cresta,
noi ti vogliamo in schiume giustiziate.
Emergi e affonda, sfinge del faraglione:
così sulla laringe in noi la voce
sale, stella, e poi discende,
carcassa torpida della corrente.
i ribelli
Stirpi che abbondanti fluiscono in rughe,
al mortale disegno mai svelate:
la corolla vi strinse.
La corolla del gelo cresciuta nel fosso,
oscillante dell’esodo.
Stirpi chiamate sul risvolto del sole
ad altra vita: estinte nel sonno del figlio
che trema del sogno del figlio.
A palpebra arsa, in visione di zolla
la legione dell’atomo salpa.
Stirpe che salpi dalla carogna del nome,
la materia è scrollata di parole
sull’alba del vapore.
Elemosina gli strumenti del grido
fuori dal fato, e ricomincia.
dopo la voce
Sulla natura corporea innestati
marea dei respiri,
il volto vi abbandona:
stupefatto.
È avvinta nell’origine del coccio
privata infine anche dei frantumi
la sua voce. La voce che accompagna
sul bordo della rogna il salmo.
Periplo del riflesso
che agganci alla scintilla della ruga
la memoria,
dove cordame, dove tomba o lava
attracchi il tuo giudizio
ora che il greto è stato eroso?
Lascia, lascia l’indizio di presenze antiche
all’eco della luce, al suo riposo.
l’infanzia del cratere
Non lascerai al baratro
scorie di materia, ma lance.
Saette che il sangue stenta a recintare.
È qui che il simulacro pone il vanto:
nella regione risplendente,
sull’anima segnata, in abbandono,
al suono spento dell’artiglio,
indissolubile petraia.
È qui che si rigurgita la frana,
il compimento dell’impronta:
ma un fuoco ha modellato il sacrificio
sulla fauce dell’assenza,
per la fame del vento.
campi notturni
Lancetta dell’esilio, acuminata.
Issata sul nevischio,
ad angolo di strada,
porti il balletto della schiena
lontano da noi:
dilapidati in balbettio,
comete dilaniate.
La sagoma forata dello stemma
al vento secco allontanata
il nostro sonno ulula.
Cigola l’inno della ruggine:
quando tradimmo con poche parole
il peso delle arcate, le travi
confluite in sangue.
Sull’immagine che ci detiene
lo scavo compì il periplo
minuto su minuto, cancellandoci.
Quadrante dell’amore, covone
prosciolto dall’anello, sparpagliato:
qual è l’incastro, quale volto
ti ha liberato dalla luce
per la gioia randagia della iena
illuminata dalla fame.
Un soffio, il soffio acuminato
dell’ultimo che nasce
ti porterà davanti alla sua casa:
chìnati, vagli davanti, immagine.
Ti riconosci adesso nella stoppia?
Radura fumigante,
il cuore è nel carbone.
Chìnati sul ceppo
su cui prega la mantide,
rinasci nel tuo nome.
salina
Sciara della memoria
spenta sotto la luna
vuota:
sei sola come l’isola
che giunse all’orizzonte in brume,
scialba,
quando ruotando, l’osso
apriva il varco all’ombra
e noi, in intreccio fossile
depositava, rude
sulla fortezza della roccia emersa.
La calma ci attraversa:
esuli, spalla a spalla
veniamo al laccio, all’abbandono
e qui salpiamo, immobili.
la fame
Oracolo, disordine del giorno:
a te giunge in ginocchio la fortezza
del mio volto. Ausculta in frana l’aria
che ti porgo come sfida: mantello
di un mago incatenato ad una stele
chino sul boato del miracolo,
passato dalla morte. Luce di neve
e fiele dentro gli occhi, è capovolto
il fiato in un ammasso di ferraglie,
senza più un bacio, oracolo: l’attrito
mi consegna alla centuria delle rughe,
al maglio della fame, e batto forte
dal silenzio. L’identità