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La Centuria Alata
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E-book343 pagine5 ore

La Centuria Alata

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La crociera aerea atlantica Orbetello - Chicago - New York - Roma si tenne fra il 1° luglio e il 12 agosto del 1933. Venne organizzata da Italo Balbo nel primo decennale della Regia Aeronautica e vi presero parte 25 idrovolanti SIAI-Marchetti S.55X, organizzati in 8 squadriglie, con a bordo 52 ufficiali piloti, 1 ufficiale ingegnere e 62 sottufficiali specialisti. Ritornarono in Italia in 24 velivoli, uno essendo stato perso nel tragico incidente alle Azzorre, dopo aver coperto circa 20.000 chilometri in circa 100 ore di volo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2021
ISBN9791220851749
La Centuria Alata

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    La Centuria Alata - Italo Balbo

    Intro

    La crociera aerea atlantica Orbetello - Chicago - New York - Roma si tenne fra il 1° luglio e il 12 agosto del 1933. Venne organizzata da Italo Balbo nel primo decennale della Regia Aeronautica e vi presero parte 25 idrovolanti SIAI-Marchetti S.55X, organizzati in 8 squadriglie, con a bordo 52 ufficiali piloti, 1 ufficiale ingegnere e 62 sottufficiali specialisti. Ritornarono in Italia in 24 velivoli, uno essendo stato perso nel tragico incidente alle Azzorre, dopo aver coperto circa 20.000 chilometri in circa 100 ore di volo.

    LA CENTURIA ALATA

    Ai 560 Camerati

    caduti nei sette anni del mio comando

    per la gloria dell’Aeronautica Italiana.

    L’ATLANTICO, SOGNO D’OGNI AVIATORE

    Dal giorno in cui l’aviazione è nata fino ad oggi, e per lungo tempo ancora, l’ambizione di ogni pilota, dal più novellino al più esperto, è stata ed è di traversare in volo l’Atlantico. Splendida impresa dal punto di vista sportivo: ma nel desiderio di collegare più rapidamente il vecchio mondo al nuovo, entrano anche motivi di ordine superiore. Spesso l’uomo interpreta inconsapevolmente nell’intimo della coscienza l’inespressa volontà delle moltitudini. In ogni aviatore che vince l’Oceano è certamente un adempimento all’imperativo della civiltà moderna che combatte la più strenua battaglia per abolire le distanze e rendere più intima la convivenza della famiglia umana dall’uno all’altro polo. Non vi sono più terre nuove da scoprire: in compenso l’uomo si butta con fervore di apostolato alla esplorazione in profondità delle più ricche e complicate civiltà moderne: una volta erano i popoli più progrediti che marciavano incontro a quelli ancor primitivi del mondo nuovo: ora il vecchio continente ha molto da imparare dalla civiltà meccanica americana. Ma il flusso e riflusso della curiosa gente umana di qua e di là dell’Oceano stabilisce il giusto compenso: non è minore il desiderio degli americani di riavvicinare e conoscere l’antica Europa, madre comune e inesausta sorgente di luce e calore spirituale.

    Debbo dire che il fascino della transvolata atlantica ha toccato in modo particolarissimo gli italiani. Nel glorioso manipolo degli aviatori atlantici l’Italia tiene un posto d’onore: come numero gli italiani rappresentano circa la metà dei trasvolatori di tutto il mondo: se chiedete oggi a un pilota della penisola quale è il suo pensiero dominante, vi risponderà che è quello di arrivare in volo in America. Ai motivi generali che spingono tutti i popoli verso il Nuovo Mondo, il popolo italiano aggiunge un particolare sentimento di simpatia, di affetto e di gratitudine verso la terra che fu scoperta da un italiano, che porta il nome di un altro italiano e nella quale vivono, lavorano, prosperano centinaia di migliaia di italiani. Seconda patria, fu detto: e non per metafora. L’umile contadino lucchese, il valligiano del Piemonte, il candido montanaro della Calabria, conoscono spesso la grande terra d’America, con i suoi dedali di strade lanciate sugli spazi sconfinati dall’una all’altra delle città tentacolari, con i prodigiosi misteri del suo ricco sottosuolo, con le meraviglie delle grandi foreste intersecate dai fiumi maestosi, più di quanto forse non conoscano la regione natia. I rapporti familiari sono così stretti fra coloro che rimangono e coloro che percorrono le strade del Nuovo Mondo, che, virtualmente, la distanza fra l’Italia e l’America era abolita nel fondo degli spiriti, assai prima che l’aeroplano riducesse la traversata dell’Atlantico a poche ore di volo.

    Ma lo sforzo maggiore dell’aviazione italiana, nel Decennio della sua prodigiosa resurrezione, si è rivolto quasi esclusivamente, per un insieme di circostanze, verso l’America del Sud.

    Allorché nel dicembre del 1928 io mi recai con un gruppo di Ufficiali e di industriali al Congresso Internazionale di Aviazione di Washington ed ebbi occasione di visitare per la prima volta l’America da New York a Los Angeles, dai confini del Canada al Golfo del Messico, la volontà di guidare una squadra aerea italiana di là dall’Atlantico cominciò a concretarsi in un disegno positivo, di cui furono anche gettate le basi durante le lunghe ore propizie della traversata di ritorno sul Conte Grande. La conoscenza diretta della grande Repubblica Stellata aveva nell’animo mio aumentato il vecchio fascino per lei. Avvertivo e apprezzavo come non mai l’importanza che l’America aveva nel mondo per il progresso generale della civiltà. Quel popolo che la guerra aveva fatto uscire dal suo intangibile isolamento e mescolato al nostro, nella cruenta sagra dell’eroismo, allorché tutti i valori del mondo moderno sembravano sprofondare nella voragine, aveva ancora una grande missione da compiere: era l’anticipatore geniale del progresso meccanico, l’immensa riserva di ottimismo, di salute, di forza, la garanzia di una più stabile pace, all’indomani dell’atroce cataclisma che aveva lasciato il vecchio mondo semisepolto sotto la cenere delle rovine, straziato nell’intimo da laceranti contraddizioni e sotto l’incubo di un incerto domani. Ma in modo particolare mi avevano interessato i progressi compiuti dall’America nella tecnica e nell’attività aviatoria. Essa continuava a mantenere un primato che i primi voli dei fratelli Wright le avevano incontestabilmente assicurato all’inizio del secolo. L’aviazione era parte integrante della sua civiltà, strumento e stimolo della sua vertiginosa conquista, anticipazione ardita di un avvenire già in marcia. Le applicazioni civili e la trasformazione tecnica dell’aeronautica di guerra, in tutti i servizi che la moderna società richiede, erano in America un fatto stabilito e ordinario, una forma consolidata nel costume, allorché in Europa si stavano sperimentando i primi tentativi fra l’ostilità e lo scetticismo del pubblico.

    Avvicinarsi e stringere, se possibile, un collegamento permanente con quel mondo aviatorio così sicuro di sé, già trionfante nello spirito e imponente nel numero, come quello americano, ecco, mi dicevo, una missione degna dell’Italia di Mussolini. Sul Conte Grande le discussioni fervevano. Scartai subito l’ipotesi del volo isolato di un solo apparecchio, il cui successo avrebbe avuto un’importanza relativa, perché già era stato preceduto da esperimenti analoghi e non avrebbe portato quelle conseguenze di ordine più altamente civile e sociale che mi ripromettevo. La mia teoria dell’aviazione di massa è troppo nota perché debba qui ripeterla. Nel progetto di trasvolata dall’Italia all’America sovrabbondavano gli argomenti per confermarla. Pensavo tra l’altro non soltanto al prestigio, ma alla doviziosa esperienza che l’Inghilterra aveva tratto dalla sua marina, che per secoli aveva inviato squadre di navi in giro per tutti i mari del mondo. Se non esisteva sull’orbe terracqueo un solo porto che il marinaio inglese non conoscesse, ciò si doveva alla regola tradizionale della vecchia Inghilterra di spingere sui mari intiere squadre navali col compito di sciogliere ai venti l’orgogliosa bandiera della Patria ovunque il mare permettesse un transito o uno sbocco. L’aviazione italiana, ripetevo a me stesso, avrà un giorno non soltanto un piccolo gruppo di virtuosi del volo, a cui la fortuna arrise in un’avventura straordinaria, ma centinaia e centinaia di piloti abituati a sfidare i più strani e lontani cieli del mondo.

    Purtroppo le condizioni generali della tecnica aviatoria non erano tali nel 1929 da permetterci l’esecuzione immediata del progetto vagheggiato sul Conte Grande. Si dovette rinviarlo, ma poiché non è nel mio costume, non è nel costume del Fascismo italiano, la rinuncia a un sogno ardimentoso destinato a far più grande la Patria, decidemmo di dare la precedenza alla transvolata in massa dell’Atlantico meridionale, che presentava minori difficoltà e per la quale non era impossibile, in breve volgere di tempo, preparare uomini e macchine.

    Infatti quell’impresa, iniziata non già come fine a se stessa, ma come esperimento necessario per l’impresa maggiore degli anni venturi, ebbe trionfale coronamento allorché gli idrovolanti italiani, partiti da Orbetello il 17 dicembre 1930, dopo avere sorvolato l’Oceano da Bolama a Natal il 6 gennaio 1931, si ancorarono il giorno 15 dello stesso mese nella stupenda baia di Rio de Janeiro. Quarantaquattro uomini in un colpo solo erano stati portati per le vie dell’aria di là dalle colonne d’Ercole, oltre il tenebroso Atlantico: l’Italia aveva scritto una pagina immortale nella storia del progresso aeronautico del mondo.

    Non appena arrivati a Rio de Janeiro i giornalisti mi stavano assediando di domande sulle intenzioni che io avevo chiaramente manifestate di non arrestare lo sforzo dell’aviazione italiana al trionfale successo della transvolata Italia-Brasile, allorché mi giunse improvviso, come un lampo che squarcia le oscure tenebre dell’avvenire, il messaggio del Duce che proclamava la necessità di andare oltre: «nell’attesa di quella che sarà la ancora più grande prova aerea nell’anno X della Rivoluzione, l’Italia Fascista è fiera ed ammirata di voi, trasvolatori dell’Atlantico». Il Duce spalancava davanti ai miei occhi l’ardito programma dell’Atlantico del Nord: indirizzava la volontà, fissava la mèta. Con più sicura coscienza mi fu possibile annunciare per radio agli italiani degli Stati Uniti che volevano dalla mia viva voce il saluto dei trasvolatori, che tra non molto, nel Decennale della Rivoluzione, la squadra aerea italiana avrebbe drizzata la prua degli argentei velivoli verso la grande repubblica stellata.

    La parola del Duce squillò nel quadrato dove tutti gli equipaggi degli apparecchi atlantici erano convenuti sulla riva fiorita che Rio de Janeiro ci offriva a premio e ristoro dell’aspra fatica; nel grido «Viva il Re - Viva il Duce» che coronò la lettura del superbo ordine del giorno, era già l’orgoglio e la certezza della futura vittoria.

    Chiamai subito, nei giorni che seguirono, durante la nostra permanenza nella ospitale metropoli brasiliana, i miei più vicini collaboratori, Maddalena e Longo, a lunghi consulti per dar forma concreta al nostro sogno.

    Lo studio allargava i nostri orizzonti invece di restringerli e sferzava le nostre volontà. Basti dire che prima di partire dall’America, il Comandante Maddalena si era fornito delle carte marittime del Nord Atlantico e aveva raccolto una quantità imponente di dati. Ancora una volta il piroscafo che mi riportava verso l’Italia fu propizio alle lunghe discussioni e pieno, per così dire, dei fantasmi della terra, ricca, suggestiva, potente che da anni era la mèta dei nostri sogni.

    Fin da allora il problema si poneva così: quale rotta è la migliore? Quella che tocca gli estremi limiti del nord, sui margini dei mari polari oppure quella che congiunge gli Stati Uniti con le Azzorre e le Bermude?

    Il nostro interrogativo era destinato a rimanere per molti mesi senza risposta sicura. Ci pungeva il ricordo del decollo notturno di Bolama, delle sei ore passate nell’oscurità tempestosa del cielo atlantico prima che l’alba sorgesse all’orizzonte: ci sembrava pericoloso fino alla temerarietà, se non addirittura impossibile, aggiungere a un volo notturno le burrasche implacabili e le persistenti nebbie del mare polare. D’altra parte sapevamo che le Azzorre offrivano minime possibilità di ammaraggio a una squadra numerosa di idrovolanti; e difficoltà ancora maggiori presentavano per il loro decollo. La seconda ipotesi - quella della rotta meridionale - non aveva dunque maggiori probabilità di successo: era, oltre a tutto, molto più lunga.

    Ma eravamo troppo freschi d’entusiasmo per il recente trionfo perché noi stessi mettessimo limiti alle speranze. Lungi dal recedere davanti all’ambizioso progetto, cedevamo alla tentazione di allargarne i confini. Allorché il piroscafo ci sbarcò tra le folle deliranti della Penisola, l’itinerario della Crociera del Decennale era in linea di massima già fissato nella carta e comprendeva, né più né meno, il giro del mondo: Mediterraneo, Golfo Persico, India, Cina, Giappone, Isole Curili, Kamciatka, Isole Aleutine, Alaska, California, Panama, Florida, New York, Terranova, Irlanda, Italia.

    Fedeli a noi stessi, senza perder tempo, ci demmo subito alla preparazione della straordinaria crociera.

    Purtroppo un’improvvisa sciagura doveva interrompere il nostro lavoro. Il colonnello Umberto Maddalena che aveva preparato ad Orbetello con un ardore ed una perizia senza pari il gruppo dei trasvolatori dell’Atlantico meridionale e al mio fianco aveva guidato i giovani aquilotti dall’Italia al Brasile, proprio nei giorni in cui si chiamavano ad Orbetello i predestinati al nuovo volo intorno al mondo, che egli avrebbe certamente educati a nuova vittoria, trovava nelle acque del Tirreno, presso Marina di Pisa, tragica fine. Maddalena era l’uomo del mare. Sul mare aveva passato gran parte della prima adolescenza, seguendo l’irresistibile vocazione, quale mozzo, marinaio, ufficiale, sui velieri che continuavano la tradizione degli antichi navigatori italiani, affrontando i viaggi più lontani e difficili dall’uno all’altro continente. Conosceva l’arte della vela in modo impareggiabile; aveva sicuro l’istinto dell’orientamento; sapeva affrontare le improvvise collere che squarciano gli abissi verdi degli oceani e le lunghe bonacce che li assopiscono in una specie di sonno catalettico: le leggi dei venti che dominano le distese azzurre, non avevano misteri per lui. Il viso lungo e angusto, gli occhi un poco sognanti, il passo bilanciato delle lunghe gambe asciutte sulle spalle un po’ curve, la parola, il gesto, tutto tradiva in lui l’esperienza marina. Un po’ timido e impacciato su terra, sul mare si sentiva sicuro di sé: lo sguardo prendeva una certa metallica durezza, la voce improvvisamente si irrobustiva: era un altro uomo, volontario, riflessivo, imperioso. Quando l’aviazione lo chiamò, fu un idrovolantista di elezione: l’orizzonte marino lo affascinava. Aveva compiuto imprese memorande, l’ultima delle quali, prima della grande crociera, sulla banchisa polare, alla ricerca dei naufraghi dell’Italia, ne aveva reso il nome familiare per il mondo. Più tardi il record di durata e di distanza in circuito chiuso, da lui conquistato sui cieli del Lazio, in compagnia del giovane Fausto Cecconi, appena uscito dall’Accademia e a lui legato da vincoli filiali, l’avevano fatto ascendere nella piccola aristocrazia dei detentori di veri record, a cui è affidato il compito di avanguardia nel rapido progresso delle conquiste aeronautiche. La misura completa delle sue possibilità di pilota, di organizzatore e di comandante era stata dimostrata dalla Crociera Italia-Brasile: in previsione della nuova transvolata intorno al mondo che si sarebbe conclusa con la tappa tra l’America del Nord e l’Europa, egli stava preparando con Cecconi un nuovo record di volo in linea retta da Roma a Cuba. Proprio sull’apparecchio destinato a quest’ultima impresa, si abbatteva l’artiglio atroce della sorte. Il mistero della sciagura non fu completamente spiegato allora e rimane oscuro anche oggi: tutte le ipotesi affacciate contraddicono alla superba perizia dei comandanti e alla perfezione tecnica dell’apparecchio: mentre una ragione sembra affacciarsi plausibile da una parte, dall’altra appare del tutto impossibile. Ma vi è, nella morte di Maddalena, un elemento ancor più misterioso: mentre dei suoi compagni furono presto o tardi ritrovate le spoglie mortali, il Tirreno non ha mai più restituito, non solo l’eroica salma di Umberto Maddalena, ma neppure un oggetto, una reliquia, un qualsiasi indizio di lui. Precipitato dal cielo, in quel limpido meriggio primaverile, a pochi metri dalla spiaggia, il mare se lo è ripreso, il mare lo ha inghiottito, il mare lo custodisce in eterno. Destino degno di un semidio. La sua leggenda passa di bocca in bocca fra i piloti che sorvolano i mari e spalanca il sogno dei bimbi italiani che egli tanto amava: sarà un giorno cantata da un poeta degno di lui. Noi, compagni suoi fraterni, abbiamo riconosciuto il segno di un compiuto destino e per così dire la rivelazione di un miracolo, nel ciclo folgorante e perfetto della sua vita eroica, che dal mare incomincia e nel mare finisce. Ne invochiamo l’ombra gentile ogni volta che un velivolo tricolore si innalza sugli oceani.

    Ma il nostro dolore? Invano lo sfiora l’ala della poesia. Allorché il colonnello Tedeschini, oggi generale, che era allora mio Capo Gabinetto, venne ad annunciarmi l’improvvisa sciagura, mi parve che un lampo mi attraversasse il cervello e il cuore si fermasse. Ero in un ristorante romano. Senza pronunziare parole volai sul Lido di Pisa dove la tragedia era avvenuta poche ore prima. Sulle erbe selvagge del litorale, sotto le chiome oscure dei pini secolari, nel silenzio religioso di quella landa deserta contro la quale l’onda del mare ritmicamente batteva come un singhiozzo, trovammo quasi tutti i resti dell’apparecchio distrutto: ma di lui nulla: la cupa disperazione di quella notte nella vana lusinga che il mare ci restituisse l’immagine dell’amico perduto, rimane nella mia memoria come un incubo.

    Pure la vita rivendicava i suoi diritti: noi dovevamo proseguire senza di lui, ciò che lui solo sembrava destinato a eseguire. La Scuola di Alta Navigazione di Orbetello era rimasta senza Comandante. Il tenente colonnello Longo era a Madrid per finirvi l’anno assegnato alla sua missione di Addetto aeronautico. Urgeva sostituire Maddalena. Nessuno mi parve più adatto del generale Aldo Pellegrini che per quattro anni era stato mio Capo di Gabinetto e aveva nel suo passato una brillante carriera di ufficiale di marina e di idrovolantista. Messo al bivio se andare al comando, importante e bellissimo, di una Zona Aerea, che lo equiparava nelle funzioni e nel prestigio al grado di generale di Corpo d’Armata, oppure preferire il comando della ricostruita Scuola di Orbetello, in vista della imminente Crociera intorno al mondo, il generale Pellegrini scelse subito la via più rischiosa: optò per Orbetello. Quale Comandante in 2 a, fino al giorno in cui non fosse rientrato in Patria il tenente colonnello Ulisse Longo, fu nominato il tenente colonnello Guasconi, che doveva poco dopo morire miseramente sul lago, in un volo radente.

    Nella scelta del personale destinato alla Scuola di Orbetello seguii un criterio nuovo. Mentre per le Crociere precedenti si erano invitati soltanto gli idrovolantisti, pensai fosse necessario questa volta allargare l’appello a tutti gli ufficiali dell’Aeronautica, comprendendovi anche i terrestri. Due requisiti erano tassativamente richiesti: essere qualificati ottimi ufficiali ed avere da diciotto a venti ventesimi come pilotaggio. Il bando per i nuovi equipaggi atlantici, che dovevano esser tutti composti di volontari, raggiungeva così anche i piloti più oscuri. Non volevo grandi nomi, ma uomini sicuri e, pur lasciando ai vecchi atlantici una percentuale nel gruppo dei nuovi transvolatori, esprimevo chiaramente il desiderio che all’imminente impresa prendessero parte elementi tratti dai reparti ordinari della Forza Aerea Italiana. Come sempre bastò lanciare l’appello perché le domande piovessero da ogni parte in forma plebiscitaria. Non vi era ufficiale in possesso dei titoli richiesti che non solo non desiderasse, ma insistentemente supplicasse di essere inviato ad Orbetello. Nella rigorosa selezione che fu fatta risultò che i 70 ufficiali prescelti erano per quattro quinti provenienti dall’aviazione terrestre.

    La preparazione si presentò naturalmente più complicata. Era necessario prima di tutto abituare alla vita marina dei piloti abituati alla terra ferma e provenienti dai diversi reparti della caccia, della ricognizione, del bombardamento. Dare un’istruzione marinaresca completa, far conoscere a perfezione la vita sull’acqua e sopra l’acqua a gente abituata a sorvolare pianure o montagne, non è cosa semplice. Per mesi e mesi i nuovi atlantici furono comandati a maneggiare i remi e la vela, a destreggiarsi su piccole e medie imbarcazioni, a esercitarsi in ogni forma di attività marina. Il mare li impregnò di salsa, il sole ne abbrunì il volto. Non vi fu rischio o fatica ai quali non si sottoponessero con gaio entusiasmo. Al ritorno del colonnello Longo, anch’egli antico e provetto veleggiatore, gli esercizi si moltiplicarono. Dopo qualche mese nessuno avrebbe potuto distinguere l’origine terrestre o marina degli allievi di Orbetello.

    Urgeva intanto iniziare uno studio approfondito dell’itinerario della Crociera. Molte zone, destinate ad essere sorvolate dalla squadra aerea italiana, si presentavano del tutto vergini di esperimenti aeronautici: di altre avevamo soltanto notizie vaghe: di moltissime ci mancava una cognizione diretta. D’altra parte era tale l’ampiezza del giro predisposto che per avere una esplorazione sicura delle probabili basi, occorreva tempo: per raggiungerle coi mezzi ordinari erano necessari mesi e mesi. Fra i piloti della precedente Crociera i più sfortunati, ma i non meno eroici, erano stati certamente Recagno e Abbriata, che nella tragica notte di Bolama, rimasti con l’apparecchio danneggiato, subito dopo il decollaggio, si erano prodigati per ritrovare e salvare il loro compagno perduto e avevano poi modestamente nascosto a tutti, me compreso, gli atti dello sfortunato valore, della nobile abnegazione e soprattutto la causa dell’incidente. Soltanto più tardi conobbi per via indiretta quanto fossero entrambi meritevoli di lode e di premio: dal loro succinto rapporto di due righe, sarebbe stato certo impossibile indovinarlo. Così nessuna forma di ricompensa mi parve migliore della missione di fiducia che assegnai all’uno e all’altro agli inizi stessi della preparazione della nuova Crociera. Il 1° maggio del 1931 il capitano Recagno fu inviato alle Isole Aleutine, in Estremo Oriente, per esplorare e predisporre. Il viaggio non fu né breve né facile, e durò complessivamente sino al novembre. Il rapporto accurato e preciso che egli aveva incominciato ad inviare regolarmente dai luoghi visitati e che completò poi a voce, al suo ritorno, concludeva in modo ottimista. Aveva perlustrato non solo le Aleutine, ma il Kamciatka: si era servito di tutti i mezzi a disposizione, giunche cinesi, vapori giapponesi, treni russi, velieri e barche da pesca: ogni angolo del paese gli era ormai noto e di quei lontani mari conosceva le spiagge, i fondali, gli scogli, le particolarità più bizzarre della meteorologia: sua opinione era che l’itinerario aereo della squadra italiana fosse, non solo possibile, ma relativamente facile: tra le isole Aleutine indicava l’isola di Atu quale base adatta per una squadra aerea.

    Senonché, proprio in coincidenza con il ritorno del nostro esploratore nei mari dell’Estremo Oriente, la situazione tra la Cina e il Giappone, che durante il suo soggiorno si presentava minacciosa, precipitò improvvisamente nella guerra. E quale guerra! La più irregolare, la più incerta. Una guerra senza formale dichiarazione, combattuta dal Giappone con la solita sistematica tenacia, ma sostenuta dalla Cina con bande raccogliticce use al brigantaggio e preda dell’anarchia, facili a passare da un campo all’altro, senza capi responsabili. In queste condizioni vi erano ben poche speranze che la vertenza finisse presto: vi era invece la certezza che una grossa squadra militare italiana di velivoli da bombardamento marino, sia pure disarmati ed in missione ultra pacifica, avrebbe finito per suscitare sospetti e malumori dall’una e dall’altra parte e non avrebbe comunque ottenuto quell’assistenza che si presentava invece indispensabile.

    Alla difficoltà politica si aggiunse quella finanziaria. A partire dal 1931 la stretta economica che travagliava, già da qualche mese, il mondo, si fece sempre più grave: quello fu anzi l’anno acuto della crisi. E l’Italia non ne evitava le dure conseguenze. Una Crociera aerea così lunga, sopra regioni tanto diverse, comprendente nel suo itinerario Tokio e New-York, ai poli opposti del mondo, non avrebbe impegnato meno di venti milioni di lire. Preventivo troppo alto per i nostri bilanci in un momento come quello. Bisognava rinunciare.

    Senza troppo indulgere al naufragato progetto, pensai subito a un secondo itinerario. L’unico punto fermo rimaneva la traversata dell’Atlantico del nord. A questa non volevamo e non potevamo rinunciare. Proprio in quel periodo ferveva in tutto il mondo la nobile ambizione di raggiungere dall’Europa gli Stati Uniti. Era una gara tra le varie Nazioni che esigeva un nuovo contributo di vite eroiche, ma finalmente permetteva anche qualche clamoroso successo. Dopo il fortunato tentativo di Post e Gatty, l’aviatore tedesco Von Gronau, volava dall’Islanda al Labrador con una tappa intermedia in Groenlandia. Le notizie sul suo volo, compiute sul vecchio «Dornier Wall» di Amundsen, dimostravano che si poteva vincere il gelido atlantico settentrionale con mezzi relativamente mediocri, nonostante la permanente avversità degli elementi. Mi interessava soprattutto la possibilità di stabilire basi sicure nelle regioni che l’opinione corrente riteneva proibitive per la stessa marina. Un certo affidamento sembrava promettere, quanto alle condizioni meteorologiche, il periodo intercorrente tra il giugno e l’agosto. Per non ridurre del tutto al minimo l’itinerario della nostra futura Crociera, progettai fin dal primo momento anche il ritorno in volo. La nostra squadra avrebbe così potuto compiere la doppia transvolata dell’Atlantico del nord, evento nuovo e impensato, nei fasti dell’aviazione del mondo.

    Vi era poi, a conforto del mio progetto, un’altra favorevole circostanza: l’annunciata esposizione internazionale di Chicago, alla quale gli americani intendevano dare l’importanza e lo splendore di un avvenimento universale: essa veniva subito definita «Un secolo di progresso»: nel titolo era tutto il programma: dare la dimostrazione delle conquiste realizzate dal mondo intiero, e dall’America in particolare, negli ultimi cento anni. La civiltà meccanica, gloria del nostro tempo, avrebbe celebrato nel giugno-luglio 1933 la sagra centenaria. L’Italia, come le altre nazioni, non avrebbe tardato a prendervi parte. Se in quel periodo una squadra di venti aeroplani italiani avesse potuto raggiungere il lago Michigan e la sua grande metropoli, l’esaltazione della macchina volante, ultima conquista dell’uomo, nata in America, perfezionata dall’Italia, avrebbe assunto il carattere di un’apoteosi. Conoscevo quanto gli Americani si interessano ai problemi dell’aviazione. Ero certo che il nostro volo sarebbe stato interpretato come uno splendido contributo all’esposizione di Chicago. Infine non dubitavo che l’impresa, ricca di significato cavalleresco e romantico, per i rischi inevitabili e lo sforzo umano che l’accompagnavano, sarebbe stata interpretata dagli americani come la prova più tangibile di solidarietà fra il vecchio mondo e il nuovo, tra l’antichissima Italia e la giovane repubblica. Motivi dunque civili, intrecciati con impulsi sentimentali, causa generale del progresso e particolari interessi italiani, consigliavano ad agire senza indugio. Le ali tricolori già avevano reso servizi inestimabili per il trionfo della pace e delle feconde intese fra i popoli. Ma la Crociera del Decennale, per il tempo e il luogo in cui sarebbe stata compiuta, avrebbe superato ogni previsione.

    Restava lo studio preciso della rotta. Non si arrischia il prestigio del proprio Paese, oltre alla vita degli uomini, senza aver preso tutte le garanzie. Le notizie indirette non erano sufficienti. Occorreva una esplorazione profonda delle regioni da attraversare. Poiché già mi ero orientato verso l’Atlantico del nord, stabilii di inviare nuovamente Recagno in servizio di avanscoperta. Egli partì infatti nell’aprile 1932 per la Groenlandia. Alla stessa data, il suo vecchio compagno di Bolama, Abbriata, veniva inviato al Labrador.

    Questi nostri due ufficiali adempirono perfettamente la loro missione, tutt’altro che semplice e facile. Grande è stato il servizio che hanno reso all’Italia, per i fini particolari della Crociera: ma il loro viaggio non è privo d’interesse dal punto di vista universale, per la conoscenza approfondita di quelle lontane regioni, su cui non abbondano purtroppo notizie sicure. Il capitano Recagno aveva preso per mèta la Groenlandia occidentale che meglio si presta ad una possibile base aviatoria per le condizioni della costa che offre una qualche baia sicura. Da Godthaab fino a Julianehaab, Recagno aveva dovuto scendere in un motoscafo guidato da esquimesi in mezzo a montagne di ghiacci natanti, nel dedalo degli innumerevoli golfi incastrati fra i picchi gelati, chiusi da grandi isole o da piccoli scogli. Dopo le bizzarre peripezie del viaggio, l’accurato studio meteorologico e il minuzioso esame della costa, il capitano Recagno si convinse che una base possibile per un ammaraggio in Groenlandia è il lago che sta alle spalle della minuscola cittadina di Julianehaab. Esso è lungo e stretto come un fagiolo fra dorsi di montagne giganti e presenta difficoltà notevoli per l’ammaraggio, che deve essere fatto con precauzione, un apparecchio alla volta. Avrebbe potuto dunque costituire una discreta base di fortuna. Queste notizie, confermate anche dai voli di esplorazione groenlandesi compiuti da Von Gronau nel suo secondo viaggio, ci indussero senz’altro ad aderire al disegno di Recagno allorché questi ritornò in Patria alla fine del luglio.

    Intanto il capitano Abbriata eseguiva una identica missione nel Labrador. Giunto coi mezzi ordinari a S. Giovanni di Terranova, Abbriata si trovò subito in difficoltà per proseguire verso il Labrador. Fortuna volle che egli trovasse un aviatore americano che disponeva di un piccolo «Moth» civile e che codesto ardimentoso collega gli offrisse di condurlo in volo a Cartwright. Il viaggio aereo di andata fu compiuto felicemente e Abbriata poté scendere e rimanere tutto il tempo necessario in quel piccolo centro al quale già si pensava come punto di arrivo della squadra italiana in volo sull’Atlantico. Senonché il povero aviatore americano cadde nel viaggio di ritorno,

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