Storia dell'Italia moderna
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Esistono numerose storie d'Italia dal 1861, anno conclusivo del Risorgimento, ad oggi. Nessuna però si presenta con l'agilità di questa, che condensa in un centinaio di pagine gli avvenimenti dell'Italia unita, i periodi di libertà e democrazia e quello del fascismo, con la partecipazione a due guerre mondiali. Benché lo spazio maggiore sia dedicato agli aspetti politici, non vengono trascurati gli altri, dalla cultura alla società all'economia, in modo da offrire, attraverso una sintesi rapida ma esauriente dei caratteri fondamentali del Paese in cui viviamo, un quadro completo dei fatti e degli uomini che di quei fatti sono stati ora gli attori ed ora le vittime.
Giampiero Carocci
libero docente di storia moderna, è membro della Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici. Tra le sue opere: Agostino Depretis e la politica interna italiana 1876-1887; Giolitti e l’età giolittiana; Storia d’Italia dall’Unità; L’età dell’imperialismo; Destra e sinistra nella storia d’Italia. Con la Newton Compton ha pubblicato: Il Risorgimento, Storia del fascismo; Storia della guerra civile americana; Storia dell’Italia moderna dal 1861 ai nostri giorni e Storia degli ebrei in Italia.
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Anteprima del libro
Storia dell'Italia moderna - Giampiero Carocci
10
Prima edizione ebook: dicembre 2012
© 2012 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4838-3
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Immagine di copertina: © faberfoto_it/ iStockphoto
Giampiero Carocci
Storia dell’Italia moderna
Dall’Unità alla fine del ’900
Premessa
Quali sono i caratteri originari che, formatisi nel corso di una vicenda storica plurisecolare, ci danno i lineamenti fondamentali della società italiana alla vigilia dell’Unità? È possibile individuarne con sufficiente approssimazione almeno tre.
1. L’Italia centrale e settentrionale è il paese dalle molte città, ciascuna delle quali, con le sue tradizioni, la sua cultura, ha concorso a creare la grande civiltà del nostro paese. Ma i cittadini hanno disprezzato e, ancor più, hanno ignorato i contadini, che pure fornivano loro la rendita, dopo averne distrutto spesso le comunità di villaggio, i loro centri di vita autonoma insieme al potere dei signori feudali. Fra città e campagna c’è stata una netta subordinazione, priva di quegli aspetti unificanti offerti, in molti altri paesi, dalla presenza dello Stato, superiore sia alla città che alla campagna. I caratteri originari dell’Italia meridionale sono diversi, sono dati dal prevalere non della città ma del feudalesimo. Tuttavia anche il signore terriero, più che integrare nel suo potere i contadini, li ha ignorati e disprezzati, anziché vivere in campagna ha preferito i lunghi soggiorni nelle grandi città – Napoli e Palermo – dove spendeva la rendita. A partire dalla età della Controriforma l’unico potere che si è interessato dei contadini, ne ha tentato la difesa e ne ha salvaguardato in qualche misura la cultura e l’identità è stata la Chiesa cattolica.
2. Con i Comuni e poi con il Rinascimento l’Italia è stata uno dei paesi o addirittura il paese più colto e civile d’Europa; e anche quando, dopo il Rinascimento, ha perduto il primato, non è mai decaduta completamente nel rango dei paesi che oggi diremmo arretrati, grazie alla cultura diffusa nelle minoranze e grazie alla crescita economica presente in alcune regioni settentrionali, particolarmente la Lombardia. Ma si è sempre trattato di una cultura «alta», elitaria, che ha escluso, tranne sporadiche eccezioni, il popolo e ha dato a coloro che ne erano i depositari l’orgogliosa consapevolezza di far parte di una nazione, unificata dalla lingua di Dante.
3. In Italia non si è mai visto ciò che ha caratterizzato i principali paesi dell’Europa occidentale in età moderna: un re, uno Stato in grado, come abbiamo detto, di affermare la propria autorità sull’intero paese, in grado di unificare le diverse regioni, le diverse etnie e, in qualche misura, le città e le campagne, le diverse classi sociali, imponendo a tutti, o alla grande maggioranza della popolazione, il rispetto delle stesse leggi e il pagamento delle stesse imposte. Infatti gli intellettuali, pur sentendosi parte della cultura italiana, non l’avvertivano come il vincolo a un comune sovrano, servivano indifferentemente i sovrani stranieri e, come ha detto Gramsci, erano cosmopoliti.
Alla vigilia dell’Unità i caratteri fondamentali della società italiana erano dunque la separazione, accentuata in una misura ignota agli altri paesi occidentali, fra le città e le campagne, fra le élite e il popolo, fra le diverse regioni. Sebbene al Risorgimento abbiano partecipato anche numerosi gruppi di artigiani e di popolani, sebbene questi abbiano contribuito in larga misura a formare i Mille di Garibaldi, si è pur sempre trattato di minoranze, sicché guardando le cose nel loro complesso, si può dire che solo le minoranze colte si sentivano pienamente italiane. La maggioranza del popolo, di cui circa il 70% viveva in campagna sulla terra, si sentiva toscana, veneta, siciliana e via dicendo, o addirittura la sua consapevolezza civile non oltrepassava l’orizzonte ristretto del territorio che poteva percorrere a piedi o sul dorso dell’asino. Più che di un’Italia si dovrebbe parlare di tante Italie quante erano le regioni e le classi sociali che la costituivano. Tanto che uno degli studiosi più attenti dell’Italia liberale, Raffaele Romanelli, ha affermato con paradosso solo apparente che la storia dell’Italia unita, da noi scritta nell’ottica dei liberali che diressero il paese nei primi anni, è solo una delle numerose storie che sarebbe possibile scrivere, ponendosi nell’ottica delle tante aggregazioni umane – le regioni, le città, i borghi, i villaggi, le vallate – che, pur lungi dal partecipare a quel «plebiscito quotidiano» che è o dovrebbe essere la nazione, ne costituivano tuttavia il tessuto.
L’unificazione
Nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento molti paesi, che ancora ne erano privi, ambirono conseguire l’indipendenza, l’unità e le libere istituzioni che già avevano i maggiori Stati dell’Occidente, come l’Inghilterra e la Francia. Questo processo di autonomia nazionale, che neppure oggi è esaurito anche se profondamente snaturato, ha avuto le sue conclusioni più felici verso la metà dell’Ottocento in Italia e in Germania, sotto la guida rispettivamente del Piemonte e della Prussia.
Entrambi i processi (quello italiano è stato chiamato Risorgimento) si nutrivano di motivi tratti dalla tradizione storica, dalla cultura, dai bisogni della crescita economica, da considerazioni di rapporti internazionali di forza e di politica estera. In Germania i motivi dominanti furono lo sviluppo impetuoso dell’economia, che chiedeva l’unificazione del mercato nazionale, e le guerre condotte dalla Prussia contro l’Austria (1866) e contro la Francia (1870), che consentirono a Bismarck, statista grande ma sostanzialmente illiberale, di deprimere le aspirazioni liberali, che pure erano state forti nel 1848, e dar vita a un impero con molti aspetti autoritari. In Italia l’economia ebbe un ruolo secondario non solo perché la sua crescita era molto minore ma anche perché le regioni settentrionali, dove questa si manifestava, allacciavano rapporti commerciali più con i paesi transalpini che non con le altre regioni della Penisola. In compenso in Italia il principio nazionale ebbe con Giuseppe Mazzini il suo massimo assertore; e inoltre le idee liberali ebbero una importanza maggiore che in Germania, principalmente perché furono sostenute con fede profonda da colui che sul piano pratico fu l’artefice massimo del Risorgimento, il conte Camillo di Cavour. Per concludere su questo punto, in Germania prevalsero motivi materiali (l’economia e la guerra), in Italia prevalsero motivi ideologici e culturali (il principio nazionale e il liberalismo).
Cavour era un nobile piemontese di sentimenti liberali, attivo e moderno imprenditore agricolo e uomo d’affari, ammiratore dell’Inghilterra e della Francia, una natura profondamente vitale, una mente cosmopolita nutrita di cultura economica, politica e religiosa. Nel corso degli anni Cinquanta del secolo passato Cavour fu quasi ininterrottamente alla guida del governo di Torino, modernizzò il Piemonte e raccolse intorno al suo programma un numero ristretto ma qualificato di nobili e di borghesi piemontesi e delle altre regioni italiane che ne condivisero con crescente convinzione le idee politiche liberali e moderate (furono infatti chiamati moderati e poi anche Destra storica).
I sovrani di casa Savoia, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele
II
, avevano abbracciato le idee nazionali e concesso lo Statuto (così si chiamava la costituzione liberale) per estendere i loro domini nella Valpadana. Cavour eseguì con perizia e fortuna questa politica, cui impresse inoltre il suggello profondamente liberale della sua fede. Diffidente del concorso popolare che si era avuto nella guerra del 1848-49 e consapevole della sua insufficienza, Cavour mirò a realizzare la politica nazionale «dall’alto» con l’azione diplomatica, fece partecipare il Piemonte alla guerra di Crimea (1854-56) e si alleò con Napoleone
III
, imperatore dei francesi, per fare guerra all’Austria e toglierle il Lombardo Veneto. La guerra ebbe luogo nel 1859 e si concluse vittoriosamente con l’acquisto della Lombardia; ma Napoleone la interruppe in modo improvviso, impedendo l’acquisto del Veneto che rimase all’Austria. Tuttavia, attraverso una serie di colpi di scena drammatici, spesso fortuiti ma quasi sempre fortunati, la guerra mise in moto un processo in forza del quale i liberali moderati delle regioni centro-settentrionali cacciarono i loro sovrani legati all’antico regime e proclamarono la volontà di unirsi al Piemonte, cosa che fu poi sancita mediante dei plebisciti.
Nessuno dei liberali moderati, compreso Cavour, pensava di unire al nuovo organismo politico l’Italia meridionale. Ma a questo pensarono, in modo autonomo dai liberali, le forze della democrazia, educata all’amore di patria dall’insegnamento di Mazzini: professionisti e artigiani, elementi della media e piccola borghesia, popolani prevalentemente centro-settentrionali. La loro cultura era certo inferiore a quella dei liberali, non veniva tanto dall’Inghilterra e dalla Francia quanto dal mito mazziniano di Roma, che urgeva liberare dal dominio papale. Mentre Cavour e i suoi seguaci estendevano alle altre regioni le istituzioni piemontesi, molti democratici erano di sentimenti repubblicani come il loro maestro Mazzini, e comunque tutti volevano che fosse una assemblea costituente eletta dal popolo a decidere se il nuovo Stato avrebbe dovuto essere un regno o una repubblica. Il loro capo fu Giuseppe Garibaldi, un uomo di bassa estrazione (da giovane era stato marinaio con la qualifica di mozzo), una figura singolare e affascinante di condottiero popolare, dotato di non comuni qualità militari e di una eccezionale capacità di valorizzare gli aspetti più nobili delle persone semplici. Nel maggio del 1860 Garibaldi, postosi alla testa di una spedizione, organizzata in Liguria e detta dei Mille, sbarcò in Sicilia e, nel giro di pochi mesi, da maggio a settembre, liberò dal dominio borbonico tutta l’Italia meridionale fino a Napoli, con l’idea di proseguire a Roma.
L’attitudine di Cavour nei confronti di questo inopinato e scomodo alleato fu un misto di appoggio (per sfruttare l’impresa a vantaggio di casa Savoia) e di ostilità. L’ostilità divenne totale dopo la conquista di Napoli. Fra gli ultimi mesi del 1860 e i primi del 1861 Cavour si impegnò a fondo per esautorare e sciogliere l’esercito volontario che si era formato nel Mezzogiorno al seguito di Garibaldi. Cavour non poteva ammettere l’esistenza del movimento politico cui Garibaldi si richiamava, l’esistenza di una democrazia che, composta in buona parte da repubblicani, riconoscendo solo a metà la legittimità del nuovo Stato monarchico e premendo per liberare Roma, si poneva come forza potenzialmente sovversiva dell’ordine interno e internazionale. Il nuovo Stato italiano rischiava addirittura di sfasciarsi se l’avventurosa politica di Garibaldi contro il papa Pio
IX
avesse suscitato la reazione delle potenze europee che, come la Francia e l’Austria, erano pronte a difendere la Chiesa.
Anche in questa battaglia Cavour riuscì vincitore. Non solo, ma il pretesto di difendere il papa dalla minaccia di Garibaldi gli consentì di far occupare dall’esercito piemontese lo Stato pontificio ad eccezione del Lazio (cioè l’Emilia, la Romagna, le Marche e l’Umbria). Il 17 marzo 1861 il Parlamento riunito a Torino proclamava la nascita del regno d’Italia. Pochi mesi dopo Cavour, appena cinquantenne, morì per una malattia improvvisa.
La conclusione del Risorgimento è stata un successo luminoso per la conseguita indipendenza nazionale e le sue istituzioni liberali. Essa però si presta anche a due considerazioni. La prima è che l’emarginazione dei democratici attuata da Cavour, pur giustificata dai motivi che abbiamo detto, creava un pericoloso vuoto politico sulla sinistra dello schieramento moderato che appoggiava il governo, disgustava e alienava dalle istituzioni la parte più attiva del popolo e della piccola borghesia, soprattutto nel Mezzogiorno, ne attizzava le tendenze al sovversivismo anarcoide oppure, come oggi si direbbe, al qualunquismo.
La seconda considerazione muove dalla constatazione che l’unità avvenne cacciando i sovrani del vecchio regime. Fra questi sovrani c’era, particolarmente potente per tradizione e per prestigio, il papa col suo Stato temporale al centro della Penisola. Lasciandogli il Lazio, Cavour sperava di mitigarne l’ira, di poter giungere a un accordo con la Chiesa e risolvere quella che fu chiamata la Questione romana. In questa occasione il liberalismo di Cavour, nutrito di idealità religiose, diede la