Cuori di nebbia
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Anteprima del libro
Cuori di nebbia - Licia Giaquinto
Mirella 1
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e lui, mio marito Filippo, al lardo ci andava spesso.
La sera se ne andava a dormire con le galline, tanto si coricava presto. Poi, a notte fonda, veniva fuori piano piano dal letto come una lumaca dalla sua casina, e usciva: Per pulire la stalla, diceva.
A me mi sembrava una roba da matti alzarsi a quell’ora a lavorare, e spiavo da dietro i vetri della finestra, e lo vedevo, Filippo, che faceva finta di portare il letame nel fosso laggiù dal poggetto, che non c’era bisogno di andare così lontano, che lì si poteva portare di giorno e non a quell’ora, specialmente d’inverno, com’eravamo, con un freddo, un freddo che gelava anche i sassi. E tutte le volte pensavo: ma come fanno quelle là col sedere e le tette di fuori, coperte solo da un paio di stivali con la zeppa alta un chilometro e la pelliccia finta appoggiata sulle spalle come per proteggersi da un venticello primaverile, ma come fanno ad andare avanti e indietro vicino a quei piccoli fuochi accesi, che non servono certo a scaldarsi, ma solo ad attirare quelle falene dei camionisti, che da quando hanno fatto la deviazione passano tutti da lì per andare a caricare le mattonelle a Sassuolo, che è una continua processione peggio delle formiche dopo la mietitura, con tutti i chicchi di grano che restano nei solchi.
È vero che venivano dai Paesi dell’Est, dove l’inverno dura tutto l’anno, con dei freddi che i nostri gli fanno un baffo, ma anche un eschimese, se lo metti nudo in mezzo al gelo, diventa un ghiacciolo.
Non so spiegarmi perché, ma all’inizio, quando Filippo ha cominciato ad alzarsi di notte, io non ho pensato a loro. Al fatto cioè che poteva essere un cliente. Mi è venuto subito da pensare che andava a fare lo spione, il che mi faceva schifo di un bel po’, ma siccome non avevo nessuna certezza cercavo di non darglielo a vedere, finché un giorno, nel mentre che rovistavo in un buco della stalla, dove mi pareva ci fosse un nido di topi, ho trovato un pacchetto di preservativi alla fragola che era il frutto preferito di Filippo, tant’è vero che aveva messo su una piccola serra proprio per coltivarci le fragole che gli piacevano anche solo a vederle, così tutte belle rosse nascoste sotto le foglie verdi, che quando maturavano guai se ne raccoglievo una, che le voleva raccogliere solo lui col panierino di vimini, e mi sembrava un bambino tanto era felice. E una domenica mattina che stava raccogliendo le fragole con addosso la mantellina e il cappellino rosso della Ferrari, che era un gran tifoso e subito dopo doveva andare a Maranello a festeggiare la vittoria, gli ho detto: Ve’ Filippo, lo sai che pari proprio Cappuccetto Rosso? Attento che se ti vede il lupo ti mangia. Insomma, la scoperta di quel pacchetto di preservativi mi ha sollevata. No, Filippo non era uno che sbavava a spiare le coppiette rintanate a scopare, come quel bazurlone del nostro vicino Nicola, ma scopava di proprio.
Insomma era un uomo normale, uno come tutti gli altri che facevano la fila giorno e notte lungo la statale peggio che all’epoca del fascismo, quando distribuivano il pane, come diceva sempre mia madre e come avevo visto in un film. E siccome non mi chiedeva più niente la notte, e quando me lo chiedeva io facevo un gran sacrificio a dargliela che il più delle volte diventavo peggio di un’ortica quando si avvicinava nel letto, che magari dormivo e mi svegliava, ero contenta se quel lavoro se lo sbrigavano loro, le puttane, che da quando avevano fatto quella deviazione erano piombate nella zona come le api su un campo di fiori dopo una melata.
E ci credo! Lì ai loro Paesi dell’Est facevano la fame, e finché c’era il muro erano costrette a stare di là a forza, ma appena il muro è caduto ed è finito il comunismo, sono venute giù peggio delle invasioni barbariche. Che poi, come ha sempre detto mio padre, quello che c’era in quei Paesi non era vero comunismo.
Però io non ho mai capito come mai da nessuna parte, in Cina, a Cuba, nei Paesi dell’Est, in Albania, c’era questo vero comunismo. E non parlo mica da fascista, che sono una che il comunismo l’ho ciucciato con il latte di mia madre, che in casa nostra ci sono stati anche dei morti uccisi durante la Resistenza, e ho sempre votato comunista, che gli altri partiti non li volevo neanche sentire nominare.
In ogni modo, con la caduta del muro le donne hanno conquistato la libertà di venire a fare le puttane, che gli basta allargare le cosce per guadagnare miliardi, e gli uomini di venire a fare i papponi.
Io non sono mai stata moralista, e ho sempre pensato che ognuno fa il cavolo che gli va di fare. Ma non mi devono venire a dire, come ho sentito che dicono, che quelle puttane che la sera vanno avanti e indietro sulle strade sono tutte laureate, chi ingegnere e chi medico e chi non so che, e che sono venute in Italia, appena è crollato il muro, non per allargare le cosce e fare i miliardi facili, ma per fare uno di quei lavori onesti che, in tempo di vacche magre, facevano le italiane e che adesso, con le vacche che si sono ingrassate, le nostre donne non ci pensano neanche, tipo: pulire il culo ai vecchi, lavorare nelle risaie, fare le custodi di cessi pubblici, eccetera, eccetera… Purtroppo però un gentiluomo in Ferrari con tre Rolex al polso, che le aveva pescate chissà dove in mezzo al gelo della Siberia, e che gli aveva promesso un lavoro in un ospizio, si era dimostrato un gran bugiardo e appena arrivate in Italia le aveva scaricate lungo una camionabile, dove le aveva obbligate a scordarsi la cacca dei vecchi e a sfruttare il tesoro che c’avevano in mezzo alle gambe. Che anche nel Vangelo c’è scritto che ognuno deve sfruttare il suo talento, che per quelle là è la figa.
Ma come? Mi dico, sono tutte dottoresse di qua e ingegnere di là, e si fanno accalappiare come delle bazurlone? Ma se anche le galline, che un animale più stupido non ce n’è, se un giorno le chiami co-cooco-co-cooco e con la scusa del mangime ne afferri una e gli tiri il collo davanti alle altre, il giorno dopo col cavolo che vengono, se le chiami.
E poi, se è vero che sono tutte sfruttate e schiave, com’è che fanno tutte quelle smorfie schifose, e si vestono da gran puttanone truccate peggio delle ballerine in televisione? Che chi passa passa le vede, vecchi donne bambini, come mi è successo a me un giorno, che erano le tre del pomeriggio e stavo accompagnando mio padre a fare una visita per la prostata, e per poco non mi viene un colpo nel vedere una filuccona bionda con addosso solo una pelliccia di non so che animale finto, lunga fino ai piedi, che proprio nel mentre siamo passati, che c’era anche mia madre con noi, si è girata di spalle, si è scostata la pelliccia e si è chinata in avanti per sbattere in faccia agli automobilisti il sedere, che sembrava una grande pera e non era completamente nudo, ma peggio, perché aveva quegli slip moderni con dietro solo una fettuccina di stoffa tipo tagliatella, che entra nel culo giusto per coprire il buco e far venire le infiammazioni e i bruciori là sotto.
Che poi il colmo è che quel giorno io dovevo fare finta di non saperlo che mio padre si doveva fare visitare alla prostata, che si vergognava a dirmelo, e dovevo solo sapere che andava da un dottore.
E poi non mi vengano a dire che è il pappone che le obbliga a farsi vedere il culo in quel modo, che a me per esempio, se uno mi vuole costringere a essere bella e a fare la civetta, è più facile che divento maschio e mi cresce l’uccello davanti.
Se una donna non è portata per certe cose, anche se la metti sulla strada, i clienti non ci vanno perché è tutta spenta, e invece di farli godere, gli uomini, gli fa venire la depressione, a meno che uno non è un pervertito che gli piacciono le morte, che ce ne sono anche di quelli, che al mondo c’è di tutto e non c’è da meravigliarsi di niente, che basta guardare il Maurizio Costanzo Sciò.
Insomma, per me a farmi fare la civetta sarebbe come uno che nasce vitello e lo vuoi far diventare maiale.
Natascia 1
Gregori voleva fare il musicista, ma faceva la fame.
Io volevo fare la pittrice, e non facevo la fame, ma quasi.
Mio padre era uno scienziato. Si trovava a Chernobyl nei giorni del disastro. Era stato uno dei primi a rimetterci la vita.
Io assieme a tantissimi altri bambini dei villaggi più colpiti dalla nube ero stata inserita in un programma sanitario che includeva il soggiorno presso famiglie di nazioni pulite
.
Mio fratello andò in Francia. Io in Italia. Avevo sei anni allora.
Ricordo che all’arrivo all’aeroporto ci sparpagliammo tutti, come pulcini senza la chioccia. Chi di qua chi di là. Io andai a finire in una famiglia di Ravenna.
Erano molto ricchi e avevano una casa enorme con parco. Tutti erano affettuosi e premurosi, e a me sembrava di essere capitata in una fiaba.
Da allora ogni anno passavo in Italia almeno tre mesi. Non vedevo l’ora che finisse la scuola per prendere l’aereo e raggiungere come su un tappeto volante quel mondo incantato.
Da un posto triste e grigio mi trasferivo in una specie di reggia dove diventavo all’improvviso una principessina. Ogni mio desiderio era un ordine. Non facevo in tempo ad aprire bocca che tutti accorrevano ai miei piedi.
Io ero l’unica bimba di quella famiglia composta dai miei due nuovi genitori, dai nonni e dagli zii.
La mia nuova madre, che non voleva avere figli, aveva visto nella possibilità di prendersi cura, per un tempo limitato, di una bambina orfana e in pericolo di vita un ottimo sistema per soddisfare il suo blando desiderio di maternità, senza dovere né partorire né impegnarsi per tutta la vita. Forse era anche per l’alone di morte che mi circondava, visto che avevo un’altissima probabilità di sviluppare un cancro, che tutti mi adoravano e cercavano di proteggermi da ogni più piccolo dolore.
Una bambina così bella! Dicevano con le lacrime agli occhi, come se fossi già morta.
Purtroppo con la fine dell’estate l’incanto svaniva.
Un appartamentino al sesto piano di un palazzone grigio, che guardava su altri palazzoni grigi di una città grigia, era il luogo in cui venivo rispedita, come Proserpina, a trascorrere l’inverno.
Per fortuna i miei genitori italiani non si dimenticavano di me.
Erano loro a pagarmi i bellissimi vestiti che facevano invidia a tutti, e le lezioni private di italiano e di danza. E i colori a olio per dipingere, e le tele.
E permettevano a mia madre alcuni lussi, come andare dal parrucchiere, far studiare musica a mio fratello, farlo vestire con abiti decenti e perfino, a volte, mangiare al ristorante.
Lei, mia madre, non aveva mai conosciuto i miei nuovi genitori, ma li adorava e non provava la minima gelosia verso di loro.
Ricordo che a volte, per questo, pensavo che non mi amasse.
Non hai paura che io voglia più bene alla mia mamma italiana che a te? Le dicevo.
Lei si limitava ad alzare le spalle e a fare un piccolo sbuffo con la bocca, così non sapevo cosa pensare, ma di una cosa ero certa: che lei era felice che io andassi in Italia da quella famiglia, per tutti quei soldi che ci davano e che ci permettevano di fare una vita più che decente.
A volte, soprattutto quando non acconsentiva a soddisfare qualche mio capriccio, con cattiveria le rinfacciavo che viveva col mio danaro.
Mi sentivo in una botte di ferro. Niente avrebbe potuto interrompere quella mia grande fortuna. Anzi ero sicura, e lo era anche mia madre, che crescendo avrei ottenuto ancora di più. Forse i miei nuovi genitori mi avrebbero lasciato, alla loro morte, l’intera eredità.
Purtroppo erano ancora giovani, pensavo a volte, e se anche fossero morti per qualche incidente io non avrei avuto diritto a niente.
Perciò speravo che vivessero a lungo, e soprattutto che mi adottassero.
Un’estate, però, tutto il castello dei miei sogni crollò. Avevo quattordici anni, quando il mio padre italiano venne a prendermi all’aeroporto per l’ultima volta.
Appena mi vide restò come folgorato.
Durante il viaggio da Milano a Ravenna non fece che farmi complimenti, e baciarmi, e toccarmi.
Sembrava in uno stato di totale esaltazione. Di una felicità esagerata. Mi diceva che ero bellissima, che avrei fatto impazzire tutti gli uomini italiani, e io mi sentivo turbata da quelle sue attenzioni, ma soprattutto molto gratificata.
Cominciò tra di noi un gioco segreto.
Io capivo e fingevo di non capire, e rilanciavo atteggiandomi a bambina ingenua, capricciosa e civetta.
Lui aveva terrore di togliersi la maschera e portava avanti il suo gioco con sotterfugi e sottintesi, a cui io rispondevo in modo ambiguo lasciandogli nelle carni e nell’animo il pungiglione avvelenato del dubbio a torturarlo. Sapevo che combatteva una battaglia cruenta con se stesso, per non scoprire totalmente le sue carte e non rischiare la catastrofe.
Fui io che lo spinsi ad abbandonare ogni cautela o remora.
Mi bastò una sola mossa.
Entrai in camera sua un giorno che la moglie era andata a Bologna, e mi infilai nuda nel suo letto.
Mi colse come si coglie un fiore sul ciglio di un burrone.
Hai già fatto l’amore! Mi disse, quando si accorse che entrava dentro di me senza ostacoli.
Sì, quest’inverno, risposi, rendendo ancora più accogliente il mio grembo.
Quando uscii dalla stanza non ero più la stessa, ma soprattutto non era più lo stesso lui.
Io avevo avuto la consapevolezza di quanto fosse potente il mio fascino, e lui cominciò a precipitare in quel burrone sulla cui estremità protesa nel vuoto aveva colto un fiore che non avrebbe mai dovuto cogliere.
Furono tre mesi di dannazione per lui, e di esaltazione per me.
Gli leggevo in faccia la tensione continua e l’attesa di un mio gesto. Tutte le sue giornate furono calamitate verso di me. Io ero il fulcro di ogni suo pensiero, di ogni sua azione.
Se ne accorse anche la moglie, in genere distratta e presa dai suoi giri mondani, dai suoi amici e corteggiatori, dai suoi shopping.
Era sempre stata la dea, altera e bellissima, ma ora si rendeva conto all’improvviso che suo marito era altrove.
Ma dove? Si chiedeva.
La vedevo che frugava, osservava, indagava.
Pensava forse a qualcuna delle tante dee che frequentavano la sua casa, e di cui lei si era sempre disinteressata, convinta di essere totalmente padrona del cuore di suo marito.
Era stato anche per questo che le lusinghe di mio padre
mi avevano colpito. E avevo voluto condurre il gioco fino in fondo. Per strapparlo a lei. Per provare il mio fascino di donna appena sbocciata con una rivale molto potente.
E adesso che ci ero riuscita sapevo che potevo ottenere qualsiasi cosa non solo da lui, ma da tutti gli uomini.
Quando mia madre
capì che non doveva cercare lontano, si mantenne fredda, non lasciò trapelare nulla dei suoi sospetti verso di me, finché al ritorno da un suo finto viaggio ci scoprì che facevamo l’amore in camera loro.
Nicola 1
Io il vizietto ce l’ho, lo confesso che ce l’ho. Ma non esagerato. A me mi deve capitare l’occasione, voglio dire che se mi accorgo che qualcuno si imbuca da qualche parte e io sono nei dintorni, allora colgo l’occasione e spio, altrimenti non è che c’ho l’ossessione come i veri guardoni che li so riconoscere a prima vista, che vanno in giro come anime dannate per le colline e i calanchi, mica qui nella bassa, che i magnaccia ci pensano loro a farli smammare dato che di coppie ci sono solo prostitute e clienti.