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Anteprima del libro
Novelle - Giovanni Visconti Venosta
AVVERTENZA.
Ecco un libro, che, speriamo, si potrà dir popolare, nel senso più sano e più schietto della parola. Per lungo tempo i libri fra noi furono scritti da chi studiava perchè fossero letti solo da chi studiava. La letteratura era lusso, passatempo o mestiere. I tempi nuovi domandano una letteratura nuova, che ritragga le idee operative della società moderna, risponda alle aspirazioni più vivacemente sentite, e insegni il modo di adempierle, noti i vizi dei contemporanei e si studi di correggerli; sia scuola, educazione, apostolato.
Quando nella nazione, non viva ancora, si svegliò potente il desiderio e la volontà determinata di essere, l’Italia cominciò ad avere una letteratura più pratica. Manzoni, Grossi, Azeglio dipinsero il passato per educare l’avvenire. Ora che abbiamo un presente, cominciano gli scrittori ad esercitarvi intorno l’opera loro.
Giovanni Visconti Venosta è fra questi. Le vicende ch’egli racconta sono di ieri, e saranno pur troppo anche di domani: i personaggi che vi hanno parte, voi gl’incontrate tutti i giorni, e ciascuno di voi potrebbe dare a ciascuno di essi un nome proprio. Non angosce di grandi passioni, non pompa di declamazioni, non sfoggio di stile: non usciamo mai dalla vita quotidiana, dall’eloquio e dai costumi casalinghi; ma dalla bonomia ironica e tutta manzoniana del racconto scaturiscono spontanei gli alti insegnamenti, e al riso sano ed allegro provocato dalla barzelletta ingenua, talora si mesce una lagrima involontaria spremuta dai più nobili movimenti del cuore.
Questi pregi, che ci hanno raccomandato il libro del Visconti Venosta, confidiamo che lo raccomanderanno del pari ai lettori.
Gli Editori.
UNA SCAPPATA FUORI DEL NIDO.
MEMORIE DI ALBERTO.
R.... nella valle di....
1 gennaio 1864.
Le due cose più brutte che ho vedute nella mia infanzia sono proprio quelle che non solo non mi uscirono mai dalla memoria, ma che ci rimasero anzi più scolpite e più vive. Le cose belle e ridenti trovano una via facile e armonica nella fantasia infantile, e l’attraversano rapidamente lasciandovi spesso poca traccia di sè. Queste due brutte cose erano una vecchia sorella del curato e un suo passero, e formavano nel mio pensiero una cosa sola; tanta era l’abitudine di vedere questi due esseri in compagnia. La sorella del curato infatti diceva d’avere, dal canto suo, circondato questo passero di tutti i suoi affetti, ch’erano quelli d’un celibato severo. Che cosa dicesse l’altro non so. Parmi che vivesse nel celibato esso pure; ma anche qui non so se fosse un celibato spontaneo, o un celibato imposto dalla sua amica per non introdurre alcuna disparità. Questo passero era zoppo e mezzo spennato; si faceva di solito tutto raggruppato e grosso; lasciava cadere un’ala a terra, e non teneva aperto che un occhio. Faceva le viste di non dar retta e di non accorgersi di nessuno; ma la sorella del curato diceva che capiva tutto, e che era un mostro di talento. Ella si era privata per lui del cocuzzolo di un celebre cappellino, che in sua gioventù aveva fatto fare apposta per andare alla città a vedere l’entrata di un vescovo. Se n’era privata, e l’aveva riempito di bambagia per farne un letticciolo, ordinaria dimora del passero. Fu questo uno di quegli atti di entusiasmo e di annegazione, di cui se ne riscontrano tanti nella vita della donna.
La bruttezza di quel passero esercitava, non so perchè, un gran fascino sulla mia fantasia. Ogni momento, io correvo in casa del curato a contemplare il passero, e non me ne sapevo staccare, per quanto non ci trovassi proprio niente di nuovo. La sorella del curato, per mettere a profitto il mio tempo, mi enumerava frattanto tutte le virtù del passero, e me le proponeva ad esempio. Mi diceva però nello stesso tempo, come, prima d’essere diventato così tranquillo, obbediente e studioso, ne avesse fatta una grossa, la quale gli aveva procacciato il castigo d’andarne malconcio per tutta la vita. «Perchè bisogna sapere che quando egli era ancora nel nido sotto la gronda, ed era grande poco più di te,» continuava la sorella del curato, «era ostinato, capriccioso, e non dava retta a nessuno. Aveva messe appena quattro pennuzze alle ali, e si era già fitto in capo di scappare fuori del nido, e di andarsene per il mondo. I suoi genitori, ch’erano pieni di esperienza, gli dicevano cose d’oro; ma lui si tirava in un cantuccio, alzava le spalle, non diceva una parola, e masticava con dispetto una pagliuzza del nido. Un giorno poi, mentre padre e madre avevano appena svoltato l’angolo della gronda, cosa fa il nostro bellumore?... Si tira sull’orlo del nido, e apre le ali. I suoi fratellini ebbero un bel pigolare, e tenerlo a tutta forza; egli lasciò loro una penna della coda, e spiccò il salto. Finì diritto sul fondo della corte; e fu un miracolo se non si ruppe il naso. Nella corte poi c’era un pilastro, e dietro il pilastro un gatto; il quale, pratico di queste cose, spiava da un pezzo il nido, e se ne stava accoccolato e tranquillo. Quando il passero ebbe spiccato il salto, lo spiccò anche il gatto....»
«E allora?» esclamavo di solito io, quando la storia era arrivata a questo punto.
«Allora» ripigliava la sorella del curato «in un attimo il passerino fu in bocca al gatto. Si dibatteva il poverello, e forse era pentito di cuore; ma il gatto intanto si studiava di mandarlo giù in un boccone. E ci sarebbe riuscito, se non fossi capitata io a salvarlo, perchè era proprio l’ora, per combinazione, in cui porto da beccare ai polli. Ma in che stato lo salvai! Mezzo biascicato, e sì malconcio che pareva proprio lì lì per spirare. Capisci, figliolo, cosa succede ai ragazzi disobbedienti! E dopo ce n’è voluta della pazienza, e poi.... e se non c’ero io....» E la filastrocca non finiva così presto.
Più tardi, presso a poco sui quindici anni, quando presi a sdegnare queste inezie, e mi diedi tutto ai gravi pensieri, misi anche la storia del passero tra le cose di cui non mi era più lecito il ricordarmi. A furia di pensieri gravi, finii un giorno a fare anch’io qualche cosa che doveva rassomigliare di molto alla scappata fuori del nido. In allora, e voglio dire dopo che fui scappato anche dalla bocca del gatto, ripensai subito alla storia della sorella del curato, e mi parve che la mi andasse così a taglio da poterne riprendere il filo narrando per conto mio. Questa idea mi ronza per il capo da un pezzo, e a placarla piglieremo la penna. Incomincerò coi ricordi di quando ero sotto la gronda; poi verrò al salto, alla corte, al gatto, e al letticciolo di bambagia.... ma sarò breve, come dicono quegli oratori che vogliono additare essi medesimi qualcosa di buono nel loro discorso.
Il curato del mio paese, che, pover’uomo, morì l’anno passato, aveva il ticchio dei nomi eroici. Non gliene scappava uno; chi nasceva nella sua parrocchia, nasceva nell’antichità. Da trent’anni le comari sostenevano una lotta infelice a favore dei Carl’Antonio e dei Giovanni Battista, e da trent’anni non si battezzavano più che dei Timoleone e degli Epaminonda. I miei compaesani ne susurravano un poco, e si dolevano di non avere ciascuno il suo santo protettore; si dolevano che non ci fosse nell’anno un giorno anche per loro da berne legittimamente un boccale di più. Pareva loro che il non avere un avvocato in paradiso fosse una disgrazia per lo meno eguale all’averne uno su questa terra. Il mio buon curato cercava allora una via di mezzo, e di tanto in tanto accomodava le faccende con qualche Ciriaco o con qualche Aniceto. Ciò però non bastava a tranquillarli tutti, e ce n’era di quelli che dubitavano alquanto di non essere abbastanza cristiani. Talchè, in seno alla famiglia, e intorno alle scodelle della minestra, questi uomini grandi ricevevano, il più delle volte, il secondo battesimo d’un nome un po’ più da galantuomo, come dicevano i miei compaesani, d’un nome alla buona, che servisse negli usi domestici come la giacchetta da lavoro. Ma non si lasciavano intendere dal curato; e, appena fuori dell’uscio, se chiedevate a qualcuno: «Come si chiama questo vostro bamboccio?» vi sentivate rispondere, con voce rassegnata, per lo meno «Pisistrato.» E il buon curalo gongolava tutto nell’accarezzare per strada qualche piccolo Ercole che perdeva le brache, o qualche Demostene che lo fissava con la bocca aperta e con un dito nel naso. «E tu come ti chiami?» domandava talora il curato, e l’altro si faceva tutto rosso per non poter rispondere: «Giovannino;» e non ricordandosi il nome vero, o imbrogliandosi a metà, metteva fine alle domande con una lunga piagnucolata.
Di questi bambocci che piangevano in grazia del loro nome, dovevo un giorno ricordarmi paragonandomi a loro, quando anch’io ebbi a trovarmi gli occhi gonfi di lacrime: e pensavo che il mio nome c’era pur entrato per qualche cosa.
Il curato cercava i suoi nomi tra i greci e i latini; spennacchiava Plutarco e i classici maggiori e minori. Poi saltava nei tre secoli della persecuzione della Chiesa, e ci faceva anch’egli le sue stragi. Qualcosa gli offrivano anche i tempi di mezzo; un po’ meno i tempi nostri, a cui forse non giungeva che per un certo riguardo a Napoleone I. A quali tempi fosse il mio curato, quando io venni al mondo, precisamente non lo so. Egli mi diede il battesimo, e mi chiamò Adalberto. Mi poteva capitar di peggio. Eppure io avrei ben di cuore cangiato di nome col mio curato, il quale si chiamava semplicemente don Carlo: nome di cui certo il buon uomo si affliggeva nel profondo dell’animo suo. Gli è ben vero che di questa sua afflizione egli non ne aveva fatto motto mai con alcuno; ma io che, abusando della dimestichezza che avevo con lui, tante volte spinsi gli occhi sugli scartafacci del suo tavolino, tra le minute dei conti e dei ricordi, tra le asticelle e i ghirigori, avevo pur letto il suo nome ripetuto in cento guise, a modo di sperimentare la penna, e avevo veduto ch’egli scriveva don Karl, come un re franco della prima razza.
I miei di casa, per amore di brevità, mi chiamavano praticamente Alberto, ad eccezione di mio zio, lo speziale, che era il luminare della famiglia, e che, non solito a transigere, mi chiamò sempre Adalberto fin dai miei primi vagiti. Io dunque non ignoravo il mio nome, e frugando per tempo tra i libri dello zio (dacchè lo zio me li aveva tutti severamente proibiti), avevo trovate delle vecchie storie piene di tarli e di nomi simili al mio. Così, a dodici anni, nella mia cameretta, e di nascosto dallo zio, a cavallo d’un bastone, io ero Adalberto che partiva per la Palestina, e che salutava, col cappello di carta a tre punte, una bella, il ritratto della nonna appeso al muro. Altrettanto faceva un guerriero, dipinto sul paracammino del mio camminetto. Egli partiva; e le piume del suo cimiero toccavano il naso della sua bella, che in quel momento spuntava dalle vetrate socchiuse d’un alto verone del castello. Il cielo era buio: la luna, che conosce i suoi doveri, spuntava tutta rossa, per finger forse le sue maraviglie, tra nubi candide di bucato; e pareva il torlo d’un ovo sul tegame in mezzo alla chiara. Per farle velo, e conciliare la sua presenza con la sua modestia, le si avvicinavano alcuni neri nuvoloni e le piume del guerriero. Questa scena io l’avevo rimirata più volte, e la mia fantasia ne era stata vivamente colpita.
Adalberto! esclamavo quand’ero solo, panneggiandomi nel mio nome, alzando la fronte, e misurando la mia cameretta a passi lunghi e gravi. Adalberto! e spingevo un’occhiata dietro la schiena, per vedere che effetto facesse il mio nome sopra di me. Ma c’era un guaio: il guaio che dietro il nome veniva un cognome, il quale aveva pochissimo a fare con le crociate. Il mio cognome, che è pur quello d’un centinaio forse de’ miei compaesani, è modestissimo, e non ricorda nulla, proprio nulla di strepitoso. A me ricorda le virtù modeste di mio padre e di mio zio: ai più vecchi di me quelle di mio nonno, e la illibata rettitudine della loro coscienza e del loro onore. Ma più in là non ne so nulla. È probabile che abbia anch’io degli antenati, e che i miei vecchi non sieno sbucati dalla terra come i funghi dopo una pioggia d’estate. È probabile che i miei antichi abbiano fatto anch’essi quel tanto di bene e quel tanto di male, di cui si compone la storia dell’umanità: ma le carte vecchie hanno taciuto di loro, il che vuol dire che in loro non hanno trovato mai nè virtù così alte, nè bricconerìe così basse, da mandarne illustri per sempre i figlioli e i nipoti. Ma il solito paracammino mi toglieva in allora a queste riflessioni tranquille. Decisamente io rifiutavo il mio cognome. Buon per me che anche i miei, come quasi tutti quelli del paese, avevano un soprannome; un soprannome, in cui potevo trovare quel rifugio e quei conforti che m’erano negati dal cognome.
Cinquant’anni prima ch’io venissi al mondo, da un ciglione della montagna, alle cui falde giace il mio paese, staccossi una frana che mise a nudo un largo tratto di roccia. Se di quell’evento se ne parla ancora nel mio paese, figuratevi quanto chiasso ne avranno fatto i nostri buoni vecchi! E figuratevene poi la paura! Poichè mi si conta che fosse opinione generale di tutti quelli che in simili faccende ci vedono, che quella prima fetta di montagna venuta giù non fosse altro che un primo saggio: ma quanto prima, si diceva, sarebbe capitato il rimanente, sarebbe venuta la vera frana, la quale avrebbe sepolto tutto il paese, e fattane scomparire perfino la ricordanza. Che cosa si fa? Sui due piedi dunque si decreta, si acclama di innalzar su quel monte una cappelletta dedicata al santo protettore del paese; i più agiati fanno voto di tirar di penna sui debitucci dei più poveri, e di chiudere un occhio sui fitti di quell’anno.
Ma passa un mese, ne passano due, ne passano tre, e pare che la vera frana voglia pigliare le cose con comodo. Allora quelli che ci vedono, proclamano e ripetono «quel che han sempre detto» che la montagna per circa due secoli non si moverà più. La cappelletta e i fitti sono mutati in una processione, e molti la rendono più solenne andandoci scalzi; così risparmiano anche le scarpe. Mio nonno, che faceva l’oste, intanto che i suoi compaesani con la bocca aperta, e le mani dietro le reni, speculavano sulle crepature del monte, sulla cappelletta, sui fitti e sui due secoli di agio, con le mani dietro le reni anche lui osservò che da una larga fessura della roccia, lasciata a nudo, tirava un’aria fresca e tutta nuova, quale non si era mai sentita in quel posto. Ci fece da solo le sue visite e i suoi scandagli; s’avvide che la natura, provvida sempre, gli aveva dischiuso una deliziosa grotticella capace di due botticini e d’una credenza per il salame. Una voce in cuor suo gli disse subito che delle frane non ne sarebbero cadute più, e divenne il conforto de’ suoi compatriotti! Chiuse in parte la fessura della roccia; ci mise un uscio; tirò su un bel muro e, per non far le cose a mezzo, l’affidò al pennello d’un artista, l’autore credo del mio paracammino. L’artista lo dipinse a mattoncelli antichi, a screpolature secolari, e a erbacce d’una vegetazione di tempi ignoti, in modo da farne un venerabile avanzo di un evo discretamente remoto. Ma non gli bastò. Compiuta l’opera, per renderla sempre più antica, ci aggiunse una medaglia a chiaroscuro, che fingeva in bassorilievo una testa di Diogene, con le screpolature anch’essa, e con le erbe. Ma anche il Diogene non bastò al nostro pittore, il quale dichiarò al nonno che ci voleva ancora qualcosa di più antico; che ci volevano i merli. Il nonno, sazio di spender quattrini, per quanto rispetto avesse per il pittore, fu sulle prime inflessibile contro i merli. Ci furono dei grossi guai. Alla fine si venne a un compromesso: il mio avo si arrese, ma non ne concedette che sei; e il pittore li foggiò diroccatissimi, e avvolti anch’essi nella solita antichissima erba. Il pittore s’incaricò anche dell’insegna, che rimase fino ai miei tempi, e che diceva così: Alla ròcca merlata, vino fresco che pare impossibile.
La fama della ròcca merlata, dove il vino si faceva squisito per naturale virtù del luogo, divenne così gigante e così generale nei dintorni, da offuscarci in allora perfino i fasti e le geste di Giuseppe II contro i Turchi. La ròcca merlata diede il nome a tutta la falda del monte; diede il nome a tutto il vino che vendeva mio nonno; e diede il nome a mio nonno stesso, che d’allora in poi fu chiamato in tutto il distretto l’Andrea della ròcca merlata. Mio nonno morì: la fama della ròcca merlata andò scemando, a dir vero, e lasciò parte del suo posto alle nuove rinomanze dei tempi: ma i vecchi del paese, conservandosi devoti al culto delle passate memorie, non vogliono berne che di quello della ròcca, e alle nuove generazioni insegnarono con l’esempio a chiamare la gente di casa mia col nome dell’antica grotticella.
Tale era dunque il soprannome nel quale io mi rifugiavo ogni qualvolta mi accingevo a partire per le crociate. L’avessi almeno lasciato in Palestina!; ma lo tirai fuori in altre spedizioni ancor meno felici; me ne vestii non solo quand’ero a cavallo della granata, ma lo ripresi anche dopo aver messo il dente della sapienza. Ho camminato con esso, superbo di tanto paludamento, finchè esso mi si attortigliò per le gambe, e io diedi del naso in terra, come un eroe da teatro diurno. Ora non lo riprendo più; e nel riandare queste mie prime memorie ne vorrei ridere di cuore, se, in fine della commedia, l’eroe burlato non fossi stato proprio io!
Quand’ebbi toccati i dieci anni, un congresso di famiglia decise de’ miei destini. Il maestro del mio paese dichiarò ch’io ero il Napoleone dell’analisi, e l’Alessandro il Grande dell’aritmetica; ch’egli mi aveva ormai insegnato tutto; ch’ero un mostro di talento, e che sarei morto quanto prima. Per quanto mi rincresca il distruggere la premessa del mio maestro, mi è forza confessare che sono ancor vivo. La qual cosa io devo senz’altro al maestro che ebbi subito dopo, il quale invece non seppelliva così presto la sua scolaresca, e ci dava a tutti, e a tutto pasto, dell’asino.
Io ero dietro l’uscio il giorno in cui mio zio, dopo avermi detto con molta gravità che mi ritirassi, fece risolvere mio padre sul conto mio, e trionfò degli ultimi dubbi che lo facevano pensieroso. «S’io non avessi la fortuna o la disgrazia, direi meglio, d’essere troppo profondo conoscitore degli uomini,» diceva mio zio, «esiterei; direi fors’anche, fate voi.... Da qual cosa credete voi che provengano tutti i mali della società? Provengono da ciò, che gli uomini non trovano quel profondo conoscitore che dica loro: tu sei nato per questo, e tu per quest’altro; e così i poveretti sbagliano strada, ed è allora che tralignano, che si perdono.... Credete voi che se io non avessi fatto lo speziale, sarei ora quel che sono? Io oscillerei come un pendolo, cercando il mio vero centro di gravità, e sarei, come tant’altri, un uomo da nulla.... Era ancora in collo alla balia Adalberto, e non faceva che picchiare con le sue manine su tutti i miei vasi e su tutte le mie ampolle. È un segno, vedete, questo! è un segno!... Egli vi rompe tutti i bicchieri dell’osteria, ma guardate un po’ s’egli ruppe mai una sola delle mie storte! Sono segni, vedete! sono segni!... Sta bene che il figliolo, come dite voi, ha da seguire di regola il mestiere del padre; ma ci sono le eccezioni per quelli che devono battere le grandi vie loro segnate dalla Provvidenza. Vostro figlio deve fare lo speziale!... Poco monta a tant’altri che la loro bottega vada un giorno chiusa e venduta: lo capisco. Ma.... la polvere che distrugge la Mantis religiosa di Linneo fu scoperta, chi non lo sa! nel mio laboratorio; e questo, capirete, impone dei doveri alla famiglia....»
Non udii che questo. Ma poco dopo, mio zio uscito di camera mi fece un sorriso, e, piantatosi dinanzi a me, mi guardò con una insolita benevolenza e mi accarezzò. Non c’era più dubbio: in quel sorriso io mi sentii diventato un farmacista.
Per qualche tempo non bollirono nella mia fantasia che storte ed ampolle, e dal campo dei crociati trapiantai i miei castelli in un avvenire di pillole e di decotti. Io ero uno speziale! e guardavo i miei compagni d’alto in basso, come quando dicevo loro: io sono un guerriero. Imitavo il fare grave di mio zio, e come lui mi ravvolgevo talora mezza la faccia in una cravatta bianca; tiravo il berretto giù fino al naso, e di nascosto mi inforcavo gli occhiali. Correvo nella cucinetta, che mio zio chiamava il suo laboratorio, e componevo con un po’ di tutto degli empiastri ch’io chiamavo le mie scoperte, e che dovevano rigenerare la società, e far diventare poi me principe, millionario, generale d’armata, e fors’anche secretario comunale. La mia ambizione non aveva confini, e la mia fantasia non si fermava che tratto tratto, per qualche giorno, quando m’accadeva di mandare in frantumi qualche vaso o qualche ampolla. Ruppi anche le famose storte, che mio zio aveva dichiarate al sicuro d’ogni guasto per fatto mio: ne accusai ingenerosamente un gatto, e fui creduto dallo zio, che vedeva nel nuovo colpevole una conferma della sua teoria. Lo zio però, che, come dissi, non era uso a transigere, compose subito un empiastro, e lo divise in ventiquattro parti. Arrotondatele, le sparse per il laboratorio, con la missione di propinare il veleno a quel gatto, che, per quanto fosse un individuo della casa, pure se ne mostrava degenere. Eravamo da capo con Filippo II e Don Carlo. Alla voce del rimorso, raccolsi di soppiatto quelle pillole insidiatrici, e ne posi al loro posto altrettante di midolla di pane. Il gatto se le mangiò più volte tranquillamente, e mio zio ne farneticava. Quando un giorno.... io forse ne dimenticai una, e il povero gatto lo si trovò, dietro l’uscio, lungo disteso. Ne fui afflitto; e ne fu ben afflitto anche lo zio, il quale aveva già annunziata una scoperta, e incominciato uno scritto, sul nesso tra i gatti e i principali veleni.
Spuntò presto l’alba d’una vigilia del san Carlo, e con gli abiti nuovi e tutto intirizzito, fui messo in una vettura con sei seminaristi, e spedito al capoluogo della provincia in un collegio, per esservi allevato, diceva mio zio, dalle Muse; primo passo verso il cammino della spezieria. Da un mese io ero tutto sossopra dietro questa grande novità del collegio, e la mia fantasia trovava nuovi sogni dorati tra cui aggirarsi finchè voleva, trattandosi di cosa che non sapevo che mai si fosse. Il giorno poi che feci la prova generale del vestito da collegio, e che mi trovai sotto a un cappello quale lo portava l’imperial regio Delegato in giro per la provincia, avvolto in in una cravatta bianca e in un abitone, dalle cui falde non mi spuntavano che i piedi, pensatelo voi, come mi sentissi in rivoluzione! Non mi tenevo più nella pelle; non m’accorgevo che le mani fossero imprigionate nelle maniche e le orecchie nel bavero: precorrevo gli anni con l’immaginazione, e già mi sentivo all’altezza e all’ampiezza del mio vestito.
Mi pareva che il giorno in cui l’avessi indossato, e per sempre, io avrei toccata a un tratto la realtà di tutti i miei sogni, e mi sarei trovato un uomo fatto, un cavaliere antico, un re, uno speziale, o che so io. Venne il giorno: eppure, per quanto lo avessi indosso quest’abito di tutte le felicità, come misi il piede sul montatoio della vettura provai un novissimo sentimento di mestizia, che mi serrò il cuore e mi fece venire voglia di piangere. Lasciata la casa, e dentro in quella vettura, mi parve quasi di non esser più figliolo di nessuno. Io avevo veduti partire altri fanciulli per il collegio, tra i baci e le paroline delle loro mamme, e mi pareva che non dovesse essere poi tanto brutto un distacco in mezzo a tante carezze. Ma io partivo senza un bacio, senza una parola; e in quel momento, forse per la prima volta, ebbi coscienza d’un fatto, su cui la mia mente così giovanile era trascorsa fino allora, senza quasi comprenderlo: io avevo perduta, e quasi nemmen conosciuta mia madre. In quella prima tristezza che mi scendeva per istinto nel cuore c’era tutta la storia, fino allora inavvertita, delle mie sventure infantili. Non eran solo i baci di quella mattina che mi fossero mancati: erano le mille cure amorose e previdenti, era una guida sicura, carezzevole e buona, che, a differenza degli altri fanciulli, io non avevo trovata a compagna della mia prima giovinezza. Quale fortuna sarebbe stata per me, se tutte le fantasie della mia mente avessero sempre trovata vicina quella bontà che piega e non spezza, che persuade e non costringe, e si fa amare quando ammaestra! Lo zio, a cui dovevo succedere nell’arte, reclamò per tempo da mio padre la mia educazione; e per lo zio l’educazione era un empiastro fatto di certi principii e di certe dosi da comporre e spedire, come una ricetta. Così la prima, e la più dura esperienza della vita, la feci tutta a mie spese.
Io fui dunque consegnato al vetturale e ai sei chiericotti, i quali per tutto il viaggio non fecero altro che mangiar noci, senza che uno, neppure in fallo, ne offrisse una sola a me. Non gli ho dimenticati quei chierici per un pezzo. Tempo fa ne ritrovai uno, e facendo con lui una gran baruffa per il potere temporale, di cui non voleva cedere una briciola, mi risovvenni ancora di quelle noci. Mio padre mi aveva congedato con un bacio la sera innanzi e mi aveva detto: sii sempre buono: poi, quasi gli fosse passato un brutto pensiero, s’era a un tratto tutto rannuvolato. So che a mio padre doleva assai il vedermi partire, e che solo ci si era rassegnato per i grandi ragionamenti dello zio. E mio zio, che quella mattina era tutto in faccende intorno a un decotto che bolliva, non mi accompagnò nemmeno alla vettura, ed ebbe appena testa da potermi dire: «Svelto, svelto, che son sonate le sette.»
Il vetturale, come fummo giunti ed ebbe stropicciati con la paglia i suoi cavalli, mi consegnò al portinaio del collegio, e il portinaio mi condusse poi dinanzi al rettore, che era un abate e che mi fece subito un centinaio di domande. Io non risposi alla prima; e, non so perchè, rimasi duro coi denti chiusi fino all’ultima. Allora il rettore mi fece condurre nel dormitorio dicendomi: «Voi siete un asino.» La mia educazione era incominciata. Un po’ per quella malinconìa del mattino, un po’ per il piglio brusco del rettore, il cuore mi traboccò, e diedi in un pianto dirotto.
Qui incomincia la storia del collegio, la storia degli anni chiamati i più belli della vita, e su cui passo di galoppo e facendomi il segno della croce, come si passa per una strada dove si è incappati ne’ malandrini. Tale è la bella pagina che i miei educatori hanno impressa nella mia tenera mente, che aspettava da loro l’impronta maestra di tutta la vita! Dopo tre mesi di educazione, io ero già qualificato dal rettore come epicureo, per l’appetito che avevo portato dai miei monti; come falsario, per avere scritto il còmpito d’un compagno che non aveva saputo farlo; e come propalatore di principii pericolosi, per aver detto che il brodo della minestra era tutto acqua. Immaginatevi che cosa fossi in fin d’anno! Fors’anco divenni un po’ cattivo in verità. Mi ricordo che, quantunque novizio e piccioletto, fui presto amico dei più grandi, i quali di tanto in tanto mi facevan persino l’onore di incaricarmi di qualche mariolerìa per loro conto. Intanto il rettore andava sempre più persuadendosi ch’io avevo bisogno d’esser tenuto con una mano di ferro. Scoperse che in me c’erano i germi di tutti i delitti; e per un pugno che diedi a nome d’un amico, mi appese al collo per un mese un cartellone su cui stava scritto: sicario. Scoperse parimenti ch’io ero uno zotico, un montanaro, uno spaccalegne, e che non conoscevo neanche i primi rudimenti della creanza. Così intraprese a insegnarmela da capo: ma, se ho a dirla, il mio buon rettore, a furia di insegnar creanza, decisamente l’aveva insegnata tutta, e non gliene era rimasta più nè per lui, nè per me. Il peggio fu che andava frattanto scrivendo allo zio cose di fuoco sul mio conto, e lo persuadeva a non richiamarmi per le vacanze d’autunno, perchè non avessi a perdere il frutto di quelle prime sementi di cui, con tanta fatica, mi aveva messo a coltura.
S’io ne fui furente! Da quel giorno mi dichiarai in istato di guerra: guerra delle più accanite, che io cominciai col fingere un appetito insaziabile per far dispetto al rettore, e farlo perdere a lui; gettando per giunta dalla finestra quanti pani mi capitavano in mano, e che non riuscivo a mangiare. Io non sapevo rassegnarmi. Avevo poi in cuore un’ansia, un’inquietudine, quale non avevo provata mai; mi pareva che una voce secreta mi dicesse: «corri a casa tua.»
In quell’autunno morì mio padre. Io non lo seppi che molti mesi dopo. Mio zio non aveva avuto coraggio di scrivermelo, e aveva incaricato il rettore di darmene a poco a poco la triste novella, e i tristi conforti. Il rettore ne incaricò il prefetto, il quale me lo annunziò un giorno come un castigo del cielo per le mie sbadataggini, e per non so quali sgorbi sul quadernuccio del latino.
Spartaco!... e nient’altro che Spartaco! Ecco la gran conclusione a cui ero arrivato dopo quattro anni di latino. Altro che i decotti! I classici, che dovevano guidarmi in grembo alle ricette, tradirono mio zio: quattro anni soli di latino m’avevano già condotto a Spartaco! Sì; io sognavo di spezzare le catene del collegio, di dichiarare liberi tutti, e, sulla base delle vacanze universali, stabilire un ordine di cose più giusto. Il mio disegno, che nella pratica avrebbe forse incontrato delle difficoltà, dopo avermi reso per qualche tempo felice, incominciò anch’esso a lasciarmi di nuovo solo, stanco, stizzoso. La mia giovane fantasia, irrequieta, ardente, aveva trovato chiuso il campo gentile degli affetti domestici, e sbarrato l’alveo diritto d’una educazione autorevole e soda. Condannata a schiudersi da sola una via, prese a correre, a ingrossarsi, a straripare. Così se dallo stagno modesto ove ora mi ridussi, guardo il cammino percorso, di me non trovo che un po’ di schiuma e un po’ di chiasso.
Spartaco se n’era andato! Le catene del banco dell’asino, e del galateo del mio rettore, si erano fatte pesanti più che mai. Il campo delle cattiverie, dei dispettini, delle scappate, ormai era mietuto. M’ero fatto grandicello, e cominciavo a disprezzare il rettore, e a sentirmi molto al di sopra del prefetto. Ma il mio animo, invaso sempre da un vago sentimento di inquietudine e di stizza, si crucciava in cerca d’un modo di azione, d’una formola sotto cui protestare e agitarsi, d’un altro Spartaco, insomma, che non mi piantasse così presto. E il nuovo Spartaco venne!
Tra gli alunni più grandicelli e anziani del collegio, che mi favorivano, come dissi, la loro protezione, c’era un certo Marcello B..., uno dei primi della scola, tanto negli studi che nelle risse; capo di tutte le combriccole, ma di un gran cuore, e che ci teneva tutti in una certa soggezione. A Marcello io avevo chiesto molte volte qualche savio consiglio, che m’aveva poi fruttato il pane e acqua; e nelle principali questioni lo avevo sempre avuto dalla mia. Marcello, da un anno, trascurava un po’ le baruffe; aveva preso un fare misterioso; e ogni mese, quando andava a pranzo dai suoi, per alcuni giorni era tutto intento a leggicchiare di nascosto, con tre o quattro tra i suoi più fidi, dei libruzzi e dei foglietti stampati. Io non ne capivo gran che, nè m’ero arrischiato di parlargliene. Quando un giorno Marcello mi tirò da parte, sul finire della ricreazione, e, fissandomi tutto serio, mi dice all’orecchio, mentre mangiavo pane e ciliege: «Quali sono le tue opinioni politiche?» Io rimasi di stucco, come a una domanda di lingua greca. Le opinioni e la politica non m’erano parole affatto nuove; le avevo udite, ma senza curarmene: nè sapevo precisamente che cosa volessero significare. Marcello, vedendo ch’io tacevo, mi replicò all’orecchio, e questa volta ancor più misteriosamente: «Sei tu repubblicano?» — «No;» risposi allora franco, parendomi di leggere negli occhi di Marcello che dovessi rispondere così. «No?» riprese Marcello, «me ne duole; ciò vuol dire ch’io non potrò mai accettare un portafoglio con te.» E bruscamente mi volse le spalle.
Anche il portafoglio! Decisamente non m’era capitato mai, fuorchè nello studio del greco, di non capir niente, niente da capo a fondo, come questa volta. Un portafoglio da dividere con Marcello!... e quelle altre parole!... Marcello che mi leva la sua protezione!... e io non capirne niente! Mi sentivo umiliato, confuso; e più ci pensavo, e meno ci trovavo modo di imbroccarne una. Delle cose del quarantotto, avvenute due anni prima, a dire il vero, io ne avevo capito poco. Mi ricordavo che il rettore in sulle prime aveva date delle ammonizioni severe ai più grandi, per certe ariette che questi zufolavano pei corridoi; poi si era parlato di guerra; poi ci si fece cantare tutti delle canzoncine sull’Italia e Pio IX. Si studiava poco; il rettore s’era fatto mansueto come un agnello; e alla fin di luglio ci lasciarono andare tutti a casa. Al san Carlo, il rettore era tornato brusco come prima; e un giorno ci disse nella scuola, «che dei guazzabugli dell’estate non se ne parlasse più; che Cesare aveva vinto Pompeo; e che tutto era finito bene.» Così, se prima ne avevo capito poco, molto meno dopo. Mio zio non era uomo da grandi confidenze coi ragazzi, e, se mi faceva qualche parola, era per parlarmi dei doveri dello speziale. Una volta però io avevo scoperto che lo zio era andato di notte, e con gran mistero, al casino della ròcca merlata; e il famiglio di casa diceva in secreto d’averci portato, nascosto in un barile, un antico berretto di velite del regno d’Italia, che lo zio aveva cavato fuori durante i mesi del Provvisorio. E qui a un dipresso finivano le mie nozioni in politica.
A queste cose andai ripensando, dopo le parole di Marcello, e le richiamavo alla memoria come le larve d’un sogno. Eran pure le sole a cui potessi connettere la parola politica, forse la meno nuova tra quelle dettemi da Marcello. E se fosse tutt’altro? Insomma non me ne potevo dar pace. Alla fine, dovetti pur venire a una risoluzione. «Confesserò ingenuamente a Marcello che io non ne so nulla di tutte le cose che mi ha domandate; me le spieghi, e io sarò del suo parere.»
Attesi con impazienza la mattina del giorno seguente, la colazione, e la mezz’ora di riposo che le teneva dietro. Il mio animo si era tutto rasserenato. «Sì,» dicevo tra me, «domattina dopo la colazione sarò repubblicano anch’io; Marcello sarà ancora mio amico, e mi avrà insegnata anche quella diavolerìa del portafoglio!»
Due mesi dopo le spiegazioni di Marcello, quell’affaruccio degli Austriaci in Italia non era più per me che una questioncina di poco momento, un atomo impercettibile destinalo a scomparire colla vicina caduta del capitale e dell’io. Marcello me le aveva spiegate queste cose semplicissime, in un modo chiaro e lampante. Io però le ripetevo a buon conto tutto il giorno tra me, perchè avevano una singolare tendenza a sfumare come le nubi. «Peccato» dicevo io, nel fare la mia valigia in fin d’agosto; «peccato che mi deva dividere così presto da Marcello! I libri però dove ha imparato tutto quello che sa, gli ha promessi anche a me. Intanto non vorrei dimenticarmi le cose cardinali.... questi foglietti li nasconderò tra le calze.... L’importante dunque è che scompaiano gli individui e che non rimangano che le masse.... poi, che traverso all’emancipazione della donna e del pensiero, si costituiscano gli Stati Uniti d’Europa.... il cui governo sarà un triangolo formato dall’eguaglianza, dalla fratellanza e dalla libertà....» E così riandando i punti principali della scienza di Marcello, mi avviavo al mio paese per le vacanze d’autunno, in quella solita vettura ove era già messa in pratica la teoria di sopprimere l’individuo in favore della massa.
Per chiarirmi un po’ le idee, mi misi a leggere l’Organisation du travail, uno dei libri datimi da Marcello. Non ne potei capire una parola. «E dev’essere tanto bello!» pensavo tra me. «Ecco come si insegna il francese in collegio! È la cospirazione dell’oscurantismo; è il rettore che si frappone tra una gioventù alitante di fede e i trovati dell’avvenire!» Così detto stupivo di me stesso, trovandomi salito in così poco tempo a tanta altezza di parole e di pensieri. Per quell’autunno dovetti quindi accontentarmi dei foglietti sottili a caratteri fitti, e di certi opuscoli in lingua italiana, i quali pure mi fecero nascere il sospetto che anche della lingua nostra me ne avessero in collegio celata una parte.
Lo zio intanto, persuaso ch’io fossi speziale fin nel midollo delle ossa, non capiva talora come avessi mutato d’abitudini; come non soffiassi più nel fornello con tanta lena; come girassi il pestello nel mortaio con così poco entusiasmo. «Ma siccome nei casi dubbi io vado diritto al metodo analitico,» diceva egli un giorno al curato sull’uscio della bottega, «così scoprii che mio nipote legge di giorno, e legge di notte. Esce poco di casa, e ha di già sul tavolino il decimo volume del mio dizionario botanico. Lo misi per tempo al fornello, ed è là che ha capito d’essere nell’empirismo. Ora la sua impazienza lo porta a un assaggio precoce della teoria; la teoria lo trasporterà di galoppo nella pratica, e la pratica nella teoria. Son cose che io ho predette fin da quando l’ho destinato a questa professione.» E io che l’avevo udito dalla finestra, ritornavo alle meditazioni profonde, ai solitari giri della mia cameretta; e crollando il capo dicevo tra me: «No! io non sarò mai un venduto nè della spezieria, nè dell’io! Io non appartengo che all’umanità!»
Così passavo, leggendo e fantasticando, i giorni interi nella mia cameretta. Era l’antica cameretta, che mi aveva veduto salutare la bella imitando, a cavallo d’un bastone, il guerriero del paracammino. Al paracammino ritornava qualche volta il mio sguardo, ma non vi leggeva più nulla; non ci ritrovava più i sogni, le emozioni d’una volta. «Come c’invecchiano» dicevo tra me «gli studi pratici, i trovati dell’avvenire!» E a ogni nuovo pensiero era una passeggiata per la camera e una fermata alla finestra. Che se poi vedevo spuntare da lontano un elmo che mi annunziava il gendarme del paese, subito mi ritiravo, gustando la voluttà del sentirmi compromesso. E tornavo ai miei studi, alla mia scienza, agli opuscoli e ai foglietti di Marcello. Leggerli e rileggerli; fantasticarci sopra, e capirne poco, era tutto il mio grand’affare. Ma i forti pensieri mi avevano così alienato dai decotti e dalle malve, che il mio maggiore studio era di lasciarmi trovare men che potessi dallo zio, cambiando il supplizio dei fornelli con un esilio nella mia cameretta. La noia però veniva piano piano a sedersi vicina alle mie nuove meditazioni, e cercava sedurmi fin col tintinnìo degli aborriti pestelli: poi, mi conduceva e riconduceva alla finestra, a farmi fare le cento volte capolino in strada, o a tenermi intento a spiare dalle stecche della persiana.
Di là cominciai a guardare e riguardare la bionda testolina d’una fanciulla del fornaio, che aveva la bottega presso la nostra farmacia. La fanciulla usciva il dopo pranzo col panchetto sull’uscio a lavorar di maglia o a cucire, non saprei dire con qual punto, ma con punti che mi parevano piuttosto lunghi. Che strani capelli aveva quella fanciulla! Erano biondi; ma così lucidi, così chiari, così fitti che ti parevano un piccolo pagliaio, o una matassa di seta scompigliata. Non valevano a tenerli a dovere nè il pettine, nè le trecce, nè la dirizzatura: la rivolta era generale e permanente. «È un indizio!» pensavo tra me: «sotto quei capelli deve battere un cuore libero, indipendente!» Il fascino di quei capelli andava crescendo a ogni occhiatina ch’io mandavo loro dalla finestra. Le cose un poco strane mi seducevano sempre. La fanciulla che non s’era mai accorta di me, di tanto in tanto alzava gli occhi in su, e guardava le rondini che, passando, pareva la salutassero col loro acuto pigolio. Io mi facevo indietro, e mi sentivo montare il rosso al viso, quasichè ella mi avesse veduto e avesse udito i miei pensieri. Rimanevo un poco in agguato, zitto e senza battere palpebra; poi, piano piano, ritornavo a far capolino. Cos’era questa nuova agitazione, che non mi lasciava lontano un pezzo dalla finestra, e mi faceva spiare le rondini, sperando che tutte passassero per di là?... «Spiare le rondini, che ragazzata!» dicevo io, e pieno di vergogna ritornavo al tavolino degli opuscoli e delle forti cartoline. Ma anche nelle cartoline c’era un’insidia, e quei foglietti pieni di sorelle e di amanti, al cui grembo dovevamo correre a riposarci subito dopo la vittoria, conciliavano a maraviglia i capelli biondi con la nazione armata. Io sentii il dovere urgente d’avere una sorella o un’amante.
La mia fantasia fece in breve una lunga strada, come era suo costume. Ci furono dei soliloquii sull’amore nello stile di quelli sulla politica. Mi pareva già che l’esperienza delle due cose fosse in me profonda del pari; e a ragione. Non aspettai più le rondini per guardare in giù. Quali visacci facessi a quella fanciulla per rapirla in estasi, non lo so; certo non dovevano essere i più belli, perchè la poverina finì, io credo, col prenderne paura, e non si lasciò più vedere. E allora? Allora il san Carlo s’era fatto vicino, e addio capelli biondi.... bisognava ritornare alle Muse. Il tempo volava: che cosa dovevo far io?... Scrissi; scrissi una lettera alla figliola del fornaio, sfoggiando tutto quel poco che avevo letto sulla emancipazione della donna, sul suffragio universale, sull’imposta unica e progressiva.... una lettera amorosa insomma, destinata a far colpo, dacchè non ci ero riuscito con la mimica. La vettura, i bauli, gli addii della mia partenza avrebbero fatto chiasso; la figliola del fornaio sarebbe ricomparsa sull’uscio, e il fatal foglio avrebbe toccato il suo destino.
La mattina venne, e questa volta mio zio, più tenero