Una Bugatti da guerra
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Anteprima del libro
Una Bugatti da guerra - Chiara Orlandini
Indice
Prefazione
I - 1939 1 Settembre
II - 1939 3 Settembre
III - 1940 17 Giugno
IV - 1942 Giugno
V - 1942 Luglio
VI - 1942 Settembre
VII - 1942 Novembre
VIII - 1942 2 - 3 Dicembre
IX - 1942 Dicembre
X - 1942 Natale
XI - 1942 Fine dicembre
XII - 1943 Gennaio - Febbraio
XIII - 1943 Marzo - Aprile
XIV - 1943 Maggio
XV - 1943 Settembre
XVI 1944 Aprile
Epilogo
Foto
Bibliografia
Notes
Notes
Notes
Orlandini Chiara
Una Bugatti da guerra
ISBN | 9788892676527
Questo libro è stato realizzato con PAGE di Youcanprint
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Titolo | Una Bugatti da guerra
Autore | Chiara Orlandini
ISBN | 978-88-92678-41-5
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.
Youcanprint Self-Publishing
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A Eto e ad Alberto,
il miglior babbononno
del mondo
Prefazione
Daniele Carozzi
In diverse occasioni ho presentato memoriali di veterani della Seconda guerra mondiale o sono stato il prefatore di loro opere. Volti lignei, scavati dall’età e da ferite o sofferenze mai cancellate negli anni, occhi lucidi e voce roca nel raccontare fatti irremovibili dalla memoria.
Così apparivano i miei anziani interlocutori nel ripercorrere la disumana prigionia in Russia, la ritirata nel gelo della steppa o quella rovente che da El Alamein condusse i nostri soldati all’ultima battaglia di Enfidaville, in Tunisia, nell’aprile del 1943.
Abituato a siffatti testimoni, la mia sorpresa fu davvero grande quando, un paio d’anni or sono, una giovanissima voce di donna mi raggiunse telefonicamente per dirmi che era suo desiderio immortalare in un volume la storia del nonno Eto Orlandini, bersagliere sul fronte russo, con la venerazione per Tazio Nuvolari e per un’auto guidata dal campione: la Bugatti. Una storia che Eto, solitamente taciturno e ritroso sull’esperienza di Russia, per la amata e coccolata nipote Chiara accettò di registrare in una lunga intervista zeppa di fatti, paure, coraggio e colpi di scena avviluppati nella tragedia della guerra.
L’idea mi affascinò. Ma, mi spiegò la fresca voce femminile, per stabilire con esattezza date e spostamenti del nonno militare mancava un documento importante: il foglio matricolare. Ovvero quel pezzo di carta, spesso vergato a mano con gli svolazzi calligrafici di un oscuro furiere, che dettaglia la presentazione del coscritto al reparto, la partenza per il fronte, i mesi di guerra riconosciuti e, purtroppo non per tutti, la data di rientro in Patria e quella di smobilitazione.
Procurato il documento di nonno Eto grazie alla collaborazione del Centro Documentale di Milano, lo consegno a Chiara durante una cena con la sua bella famiglia, nel loro agriturismo di Caprino Bergamasco tenuto come un gioiello. Lì mi sono stati rivelati fatti e antefatti di nonno Eto combattente, della sua passione per tutto ciò che erano auto e motori, delle avventure russe con il suo camion militare Lancia 3RO
, poi l’avanzata e la tragica ritirata nel ghiaccio con le decine di migliaia di uomini vestiti di stracci che ogni giorno giocavano a rimpiattino con la morte bianca. Ma anche nei momenti più tragici, nonno Eto pensava e agiva sognando il suo eroe: Nuvolari alla guida della sua Bugatti.
Storie del genere, per lo scrivente, rappresentano un invito a nozze. Si suggella così l’alleanza (e l’amicizia) fra me, anziano e appassionato estimatore di opere storiche, e la neo-scrittrice Chiara Orlandini; giovane signora determinata, volitiva e dotata di talento nel narrare e nel romanzare un verosimile
assolutamente compatibile con la realtà dell’opera. Poi, capitolo dopo capitolo, la voce del nonno si trasforma in vita vissuta, in speranze e delusioni, in atti di coraggio e paure, attraverso la fluida narrazione della nipote che la fa rivivere in libro, in testimonianza, in una di quelle storie nella Storia
che videro coinvolta una intera generazione. I più fortunati tornarono. E uno di loro ebbe persino l’ebbrezza di accarezzare una Bugatti.
Daniele Carozzi
(giornalista, scrittore, Presidente Nazionale dell'Associazione Bersaglieri)
I - 1939 1 Settembre
I
1939
1 Settembre
Leda Barsotti è in cucina, seduta al tavolo di fronte al lavello. E' in punta alla sedia, con le caviglie incrociate ed è tutta sbilanciata da una parte, sulla sinistra, dove col gomito appoggiato al tavolo si sorregge la testa, mentre con la mano destra vortica lentamente nell'acqua di una bacinella, dove ha messo i pezzi del coniglio già tagliato e mondato ad ammorbidire.
I capelli ricci e nerissimi le ricadono sulla spalla sinistra e arrivano a sfiorare il tavolo. Quando li bagna le si allungano fino a toccarle il sedere ma da asciutti sono talmente ricci che a mala pena le arrivano alle scapole.
Sulla spalla destra che resta scoperta una miriade di lentiggini sembra ricamare un quadro naif sulla sua pelle bianca come il latte. E' il primo di settembre, l'estate, quest'anno davvero afosa, è quasi al termine e qualche giornata al mare se l'è concessa, giù alla Spiaggia dei Frati, a Salivoli o a Calamoresca, poco sopra Piombino. Eppure non c'è niente da fare, è come se ogni singola cellula della sua epidermide si dotasse di uno scudo, uno per ogni singolo raggio di sole, che le rimbalza addosso e la sua pelle resta bianca, ma a pois. Nel pallore del viso, contornati dalla chioma nera e messi ben in evidenza dalla fronte alta, due bellissimi occhi pececarboncorvino spiccano, tondi ma taglienti, sugli altri lineamenti: il naso ben disegnato e diritto, la bocca non troppo pronunciata.
Quel venerdì mattina sua mamma, Natalina Sozzi, si era raccomandata con lei di preparare il pranzo. Sarebbe uscita per delle commissioni che le avrebbero portato via tutta la mattinata rientrando prima di mezzogiorno, dopo aver ripreso Vilma, rimasta a giocare da una amichetta della sua età.
D'altronde sua sorella Vilma ha soli cinque anni e lei, già maggiorenne, si è rotta di farle da bambinaia.
Mentre era ancora assonnata e stava facendo colazione in cucina, sua mamma le aveva spiegato per filo e per segno tutto quello che avrebbe dovuto fare quella mattina: tenere a mollo nell'acqua per una mezz'oretta il 'conigliolo' per poi metterlo a cuocere nel tegame di alluminio, quello coi manici di ceramica che le aveva lasciato già pronto sul fornello, con dentro un filo d'olio, uno spicchio d'aglio, due foglie di salvia e un rametto di rosmarino. Doveva farlo rosolare piano, piano, prima scoperto e poi con un coperchio sopra per far cuocere bene anche l'interno, aggiustandolo di sale e di pepe.
«Mi raccomando, fai in modo che sia tutto pronto per mezzogiorno, così appena io arrivo tu porti la panierina a babbo per il pranzo.»
«Sì mamma.» Le aveva visto cucinare il coniglio almeno un milione di volte e adesso era persa in tutt'altri pensieri e non aveva nessuna voglia di ascoltarla.
«Mi stai ascoltando? Ma che cos'hai ultimamente?» si avvicina e le appoggia una mano sulla fronte per sentire se ha la febbre, «Sei così strana da qualche giorno a questa parte.»
«Sì mamma ti ascolto, è tutto a posto. Adesso vai!»
Così tutta trafelata Natalina era uscita verso le otto trascinandosi dietro Vilma, anche lei ancora intorpidita dal sonno. E mentre varcava l'uscio di casa aveva aggiunto: «E vedi di tirare giù dal letto quel dormiglione di tuo fratello!...e se riesci rifai pure i letti!»
Leda ha finito la sua colazione con tutta calma, sempre immersa nei suoi pensieri.
Da qualche giorno a questa parte, o meglio, da una settimana esatta alternava momenti in cui si distaccava completamente dalla realtà, a momenti di totale euforia e convulsione, ad altri ancora di sconforto.
Fino ad una settimana fa quando arrivava al venerdì le veniva il nervoso a sapere che nel pomeriggio doveva recarsi dai Tognoni, da sua zia Maria, la sorella di sua madre, a rammendar mutande e calzini bucati, lavati sì, ma non troppo candidi e profumati. La famiglia Tognoni viveva a pochi chilometri da Piombino, in una fattoria; per arrivarci doveva prendere il treno per Campiglia Marittima, scendere a Populonia e da lì proseguire a piedi per un paio di chilometri. Tutta la famiglia era dedita al lavoro nei campi. La zia Maria si occupava più che altro dell'orto, mentre il marito Camillo e i due figli, Enzo ed Ennio, erano vinai.
Lo fa come favore a sua zia e per accontentare sua madre, non di certo per quei pochi spiccioli che ci guadagna: a malapena ci copre il viaggio. Spesso capita che invece dei soldi le diano un pollo, oppure una bella pagnotta di pane toscano appena sfornato, e in quel caso riesce a far contento pure il babbo.
D'altronde lei è la primogenita femmina in famiglia ed Agostino era stato chiaro: se doveva metter soldi per far studiare qualcuno sarebbero stati per il maschio. A poco erano valse le lusinghe e le preghiere della sua maestra Giannini delle elementari che alla fine della quinta si era recata apposta a cercare suo padre alla Magona per spiegargli che la bambina era dotata, che era un peccato non farla continuare, magari con delle magistrali per puntare a farla diventare maestra. A nulla era servito per babbo Agostino il constatare che il maschio di famiglia era un vero scapestrato e di voglia di studiare non ne aveva punta.
Così non le era rimasta altra scelta che fare la scuola di sarta e alla fine si era mostrata valida anche in questa professione, tant'è che si era sparsa la voce e la giovane iniziava a farsi conoscere sia in Piombino città, dove viveva e dove le capitava ogni tanto di confezionare abiti per signore, sia nelle campagne limitrofe, dove le famiglie contadine, che non potevano permettersi spesso vestiti nuovi, facevano rammendi su rammendi, pezze e giunte pur di consumare fino alla fine le stoffe ormai logore.
Chiaramente Leda preferisce tagliare e cucire dal nuovo; anzi, il suo vero sogno è entrare in una di quelle fabbriche moderne che ci sono adesso, magari di quelle che confezionano mutandine e reggiseni, tipo quelle belle lingerie francesi di cui vede ogni tanto le pubblicità sui settimanali e che lei meticolosamente ritaglia e colleziona, sognando un giorno di poterle realizzare davvero. Ma lì vicino non ci sono proprio industrie di questo tipo, Piombino è solo carbone, miniere e acciaio.
Anche quel venerdì pomeriggio avrebbe preso il treno alle due per arrivare dai Tognoni verso le tre e questa volta non le pesava affatto, anzi era tutta un fremito. Già da qualche tempo la cosa le sembrava meno noiosa perché sempre lì dai Tognoni aveva iniziato a venire anche un'altra ragazza, Marialea Orlandini, di qualche anno più giovane di lei, ma insuperabile con ago e filo. Non le pareva vero di avere un po' di compagnia e di chiacchiere mentre era al lavoro. Marialea anche se più giovane era una tipa sveglia e smaliziata e avevano subito stretto amicizia. Non sentivano affatto la differenza di età. Marialea aveva solo 14 anni, ma era talmente bella che si era già abituata ad avere gli occhi di tutti addosso. Leda invece avrebbe compiuto 19 anni il prossimo 10 novembre, ma col fatto che non era molto alta, aveva sempre dimostrato meno della sua età e aveva iniziato a fare un po' la civetta solo da quando aveva conosciuto Marialea.
Intanto che la sua mano continua a vorticare lentamente nell'acqua del coniglio, ormai da quasi un'ora, i suoi pensieri tornano al venerdì precedente, e sono pensieri così dolci che vorrebbe rallentarli un po', per poter cogliere nuovamente tutte le meravigliose sensazioni che le avevano suscitato e che adesso, rivivendole con la mente, le riaffiorano addosso.
Lei e Marialea erano sedute una di fronte all'altra, di fianco al tavolo, nella cucina dei Tognoni. Avevano provato a sedersi fuori tra il podere e il magazzino, ma era davvero troppo caldo, così, riportate dentro le sedie, si erano messe subito all'opera: lei con un paio di pantaloni di uno dei suoi cugini a cui stava accorciando l'orlo che si era tutto sfilacciato, Marialea con un grembiule della zia Maria, le cui tasche ormai completamente scucite penzolavano come fossero appuntate solo con uno spillo. Insieme avevano fatto tante risate a furia di pensare a cosa mai la zia Maria poteva essersi infilata nelle tasche per ridurle in quel modo, e, un po' le risate, un po' quei pantaloni che appoggiati sulle cosce le facevano un gran caldo, Leda era tutta imperlata di sudore ed alcune ciocche di capelli le si erano appiccicate sulle tempie e sul collo.
Ad un tratto avevano sentito il rumore di una motocicletta che si avvicinava e Marialea, trasalita di colpo da tutto quel ridere, si era alzata in piedi di scatto ed era corsa all'uscio per vedere chi stesse arrivando. Immediatamente si era voltata verso Leda e aveva preso a gesticolare tutta animata.
«Presto, alzati e mettiti in piedi sulla sedia!» Le ordinò.
«Perché?» Chiese Leda confusa.
«Non ti preoccupare e fai come ti dico!» Sempre più decisa.
«Ma perché? E poi, chi è che sta arrivando?» Tentò di nuovo di chiederle.
«E' mio fratello Eto. Tu sei un po' bassina, ma se sali sulla sedia lui non se ne accorge. Anzi, così ti vede subito le gambe, che quelle ce le hai belle!» Aveva insistito.
Lei un po' riluttante su questa strana strategia, perplessa tra l'offesa per la sua altezza e il complimento per le sue gambe, aveva fatto scivolare per terra i pantaloni su cui stava lavorando e tenendosi con una mano allo schienale della sedia era salita girata verso la porta. Ora stava lì a gambe unite sulla sedia con Marialea in ginocchio ai suoi piedi che fingeva di armeggiare con l'orlo della sua gonna, poco convinta, ma in fondo Marialea ci sapeva fare meglio di lei coi ragazzi.
Perché mai tante sceneggiate? Marialea le aveva parlato spesso del suo fratello maggiore, di quanto era bello, con gli occhi celesti, con i baffetti alla Clark Gable, coi pantaloni alla zuava, slanciato...ma le aveva anche detto che aveva solo diciassette anni e mezzo. Era più giovane di lei!
Le aveva raccontato che era un meccanico formidabile con una vera passione per i motori.
Mentre faceva questi ragionamenti lui aveva varcato la soglia e...
Di colpo Leda sente due mani che le si infilano da dietro, tra lei e il tavolo, due braccia l'avvolgono, stringendole il seno, e iniziano a farle il solletico sotto le ascelle, mentre una testa bionda sbuca di fianco al suo orecchio e le schiocca un sonoro bacio sul collo.
«Accidenti a te, stupido imbecille, quante volte ti ho detto che non mi devi far prendere questi spaventi!» Leda si dimena dalla presa del fratello Roberto e intanto con la mano cerca di arginare l'acqua che sul tavolo le è schizzata fuori dalla bacinella del coniglio. Corre verso il lavello a prendere un asciughino e intanto che coi fianchi scansa gli spigoli del tavolo cerca di allungare un nocchino sulla testa di Roberto. Invano, perché lui appena quindicenne, è già due spanne più alto di lei.
«Dove eri? Nel paese dei cuoricini o in quello dei coniglietti?» Inizia a scherzarla lui.
«Ma lo sai che giorno è oggi? Lo sai cosa è successo poco fa?» Continua Roberto con aria entusiasta. «La Germania ha invaso la Polonia. Ci siamo, e questa volta non sarà come è stato con Austria e Cecoslovacchia; vedrai che questa volta l'Inghilterra e la Francia se la pigliano davvero; vedrai che scoppia la guerra!»
Per un attimo Leda si sente interdetta, un brivido le corre lungo la schiena, come se una parte di lei si rendesse conto dell'entità della notizia appena appresa da suo fratello; non tanto per le ripercussioni a livello mondiale, ma solo per il fatto che potenzialmente la sua vita poteva essere in qualche modo influenzata dall'evento.
Tuttavia non vuole dare soddisfazione al fratello: «Chi se ne frega della Polonia, e pure di quell'altro imbecille coi baffi! E poi, tu come l'hai saputo?»
«E' passato Costantini poco fa e si è messo a urlare sotto la mia finestra fino a svegliarmi. Non sono sceso a vergarlo solo per la bella notizia che mi stava dando. Pensa che ero nel bel mezzo di un sogno in cui il Duce e Hitler si erano incontrati proprio per discutere e organizzare l'invasione della Polonia, e Costantini arriva e mi porta dal sogno alla realtà. Vedrai che adesso per davvero Mussolini ci si butta a capofitto, sennò finisce che i tedeschi ci ripigliano l'Alto Adige e Trieste; a maggio abbiamo firmato il Patto d'Acciaio.»
Intanto che Roberto parla, Leda scola finalmente il coniglio, mette i pezzi in un panno e li tampona con le mani. Poi li trasferisce nel tegame che le aveva lasciato pronto la madre e li pone a cuocere sul fuoco della cucina a legna.
«Adesso vado alla Casa del Fascio 'che ci si ritrova con gli altri e si vede un po' se c'è qualcosa da fare», prosegue Roberto.
«Te devi stare attento, ti metterai nei guai. Anzi, ci sei già nei guai fino al collo e lo sai come ci sta male babbo, ma questa volta rischi sul serio. Guarda che qui sono tutti anarchici e comunisti.» Ribatte Leda con aria preoccupata.
«Babbo farebbe bene a preoccuparsi un po' meno; anzi, dovrebbe ringraziarmi, perché se non ha ancora assaggiato la purga è solo perché suo figlio è dalla parte giusta.» Taglia corto Roberto che non ha nessuna voglia di ascoltare le raccomandazioni della sorella. Poi prende ed esce di casa.
Leda resta da sola in cucina, si appoggia con entrambe le mani al tavolo e si morde tra i denti un angolo del labbro inferiore. E' preoccupata, non tanto per la Polonia e le varie vicende socio politiche in fermento. E' preoccupata per Roberto. Nessuno in famiglia si capacita di come sia potuto venir fuori così scapestrato. Anche suo padre in gioventù era stato un tipo un po' movimentato. Era originario di Monteverdi, in provincia di Pisa, e lei stessa era nata lì e vi aveva vissuto i primi due anni della sua infanzia. Agostino aveva fatto solo la quinta elementare, ma a Monteverdi lo chiamavano tutti il Vescovo. Non aveva ancora capito bene se per le sue doti oratorie, o in tono ironico, perché era un mangia preti. Comunque quando era giovane capitava spesso che con un gruppetto di coetanei magari alzassero un pochino di più il gomito, si recassero nel paese vicino, Canneto, che era in forte rivalità con Monteverdi, e sapendo che c'era qualche festa o sagra, all'imbrunire con un bastone rompessero qualche lampada lungo una strada per toccare le tette alle ragazze. Se poi la malcapitata era in compagnia di un fidanzato o consorte che voleva difendere le sue virtù e la bravata si tramutava in una bella scazzottata, erano ancora più contenti. Poi aveva rimesso la testa a posto, vuoi che la Grande Guerra l'avesse ammansito, o che Natalina fosse riuscita a tenerlo buono. Aveva fatto per un po' il boscaiolo, prima di partire per la guerra, e dopo era entrato in miniera, dove lavorava in condizioni davvero precarie. Provò di tutto per uscire dalla miniera e ci era riuscito finalmente nel 1924, quando era entrato alla Magona, l'acciaieria di Piombino, e con la moglie e Leda di soli due anni si erano trasferiti da Monteverdi.
Inizialmente avevano vissuto per un po' in affitto nelle case della Magona, quelle vicino allo stabilimento. Poi visto che lo stipendio era buono, era riuscito a costruirsi una casa propria, quella dove vivevano, al numero 5 di via Alfieri, in pieno centro e a due passi dal mare, vicino alla Chiesa di San Francesco, una palazzina di due piani in cui i Barsotti occupavano l'appartamento più grosso situato a piano terra con un bel giardino.
Di sacrifici suo padre ne aveva fatti tanti, e anche il lavoro