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La bella estate. Il romanzo.
La bella estate. Il romanzo.
La bella estate. Il romanzo.
E-book108 pagine1 ora

La bella estate. Il romanzo.

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Info su questo ebook

La bella estate. Il Romanzo è un racconto breve scritto da Cesare Pavese. Successivamente entra a far parte di una raccolta di tre romanzi brevi scritti da Cesare Pavese in tempi diversi. La raccolta fu pubblicata dall'editore Einaudi di Torino nel 1949, con il titolo " La bella estate" nella collana "I supercoralli". Essa comprendeva le opere: La bella estate(1940), Il diavolo sulle colline (1948), e Tra donne sole (1949). Nel 1950 questo trittico vinse l'edizione di quell'anno del Premio Strega.

Sebbene ciascuna delle tre composizioni possa di per sé rappresentare, per contenuti, un lavoro autonomo, essi riportano le stesse tematiche: il passaggio dall'adolescenza alla maturità tramite l'esplorazione, la scoperta e quindi la delusione e la sconfitta.
Nei tre romanzi il personaggio più debole, inesperto e giovane è quello che subisce in maniera più marcata e pesante il passaggio di crescita; particolarmente rilevante è poi la questione della tensione verso il limite che si manifesta nel gusto per la trasgressione e nel tendere al suicidio.
Nell'opera è affrontato anche il classico rapporto tra la campagna e la città; qui, a differenza di altre opere, l'azione è sbilanciata su un'ambientazione urbana.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2021
ISBN9791220844895
La bella estate. Il romanzo.

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    La bella estate. Il romanzo. - Cesare Pavese

    Indice

    Indice

    Preface by Giancarlo Rossini

    La bella estate

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    Preface by Giancarlo Rossini

    Ambientato nell'estate degli anni '30 in Italia, il romanzo è uno studio intimo del personaggio sulla perdita dell'innocenza sotto l'influenza di qualcuno a cui ammiri. Ginia, una ragazza di 17 anni che viene attratta da Amelia, un modello per artisti che rappresenta il tipo di abbandono che Ginia non si era mai concessa prima di provare. Amelia inizia Ginia al mondo degli artisti dove Ginia incontra Guido, un giovane artista enigmatico.

    Il romanzo è molto breve, ma la bella prosa lirica di Pavese lo rende un vero piacere da leggere. Emozioni e sensualità si irradiano dalle pagine di questo classico. L'atmosfera del romanzo attinge pesantemente dall'energia oziosa ma irrequieta dell'estate; un momento in cui la vita sembra contenuta in quei mesi di sole ed esplorazione. Ginia lavora in una sartoria, ma le sue serate e i suoi fine settimana sono incentrati sulla esplorazione delle strade, dei caffè e del mondo di Amelia per la prossima avventura. Amelia porta una sorta di tensione nel mondo di Ginia che rende la ragazza più consapevole della propria inesperienza e imposta con cura la vita. È stato affascinante, e spesso molto riconoscibile, leggere della lotta di Ginia contro se stessa per diventare più aperta al mondo. Molte scene hanno evidenziato la sua ansia e angoscia in situazioni sociali di base, dove si sentiva un'estranea a causa della sua consapevolezza della propria innocenza.

    I libri come La bella estate che hanno l'arte o gli artisti come temi o personaggi generalmente sono molto intriganti sotto questo aspetto, soprattutto per la sua combinazione di amicizia femminile e comunità bohémien. Curiose e interessanti sono le dinamiche di relazione tra gli artisti e Amelia, che sembrava un'amica ma lavorava anche come modella nuda per loro. Mescolato a questo c'era il senso di Ginia di sentirsi esclusa dal gruppo a causa della sua innocenza, che diventa come un peso man mano che la storia procede. Verso la fine del romanzo pervade un senso di protezione nei confronti di Ginia, ma anche la curiosità di vedere come si sviluppa come personaggio.

    Il romanzo di Pavese è sorprendentemente leggibile e accogliente, e la scrittura è sicuramente uno dei suoi aspetti più raffinati. Il personaggio di Ginia; la sua ossessione e il desiderio di passare all'età adulta sono stati descritti molto bene.

    Nel complesso, La bella estate è una storia ben scritta ambientata in una estate italiana.

    La bella estate

    1

    A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare, camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.

    Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano piú cosa dire. Veniva cosí il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia. Le notti piú belle, si capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l’indomani si poteva dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a lavorare, felice di quel pezzo di strada che l’aspettava. Le altre dicevano: – Se torno tardi, poi ho sonno; se torno tardi, me le suonano –. Ma Ginia non era mai stanca, e suo fratello, che lavorava di notte, la vedeva soltanto a cena, e di giorno dormiva. Nelle ore del mezzogiorno (Severino si girava nel letto quando lei entrava) Ginia preparava la tavola e mangiava affamata masticando adagio, ascoltando i rumori della casa. Il tempo passava adagio, come fa negli alloggi vuoti, e Ginia aveva tempo di lavare i piatti che aspettavano nel lavandino, di fare un po’ di pulizia; poi, di stendersi sul sofà sotto la finestra e lasciarsi assopire al ticchettio della sveglia dall’altra stanza. Qualche volta chiudeva anche le imposte per far buio e sentirsi piú sola. Tanto Rosa alle tre avrebbe sceso le scale, fermandosi a grattare contro l’uscio, piano per non svegliare Severino, finché lei non le rispondesse che era sveglia.

    Allora uscivano insieme e si lasciavano al tram. Di comune, Ginia e Rosa non avevano che quel pezzo di strada e una stella di perline nei capelli. Ma una volta che passavano davanti a una vetrina e Rosa disse: – Sembriamo sorelle –, Ginia s’accorse che quella stella era ordinaria e capí che doveva portare un cappellino se non voleva parere anche lei un’operaia. Tanto piú che Rosa, soggetta ancora a padre e madre, non avrebbe potuto pagarsene uno che chi sa quando. Quando passava a svegliarla, Rosa entrava se non era già tardi; e Ginia si faceva aiutare a rimettere in ordine, ridendo sottovoce di Severino che, come tutti gli uomini, non sapeva che cosa voglia dire tenere una casa.

    Rosa lo chiamava «tuo marito», per continuare lo scherzo, ma non di rado Ginia si rabbuiava e ribatteva che avere tutte le noie della casa ma non l’uomo, era poco allegro. Scherzava, Ginia – perché il suo piacere era proprio di starsene quell’ora in casa da sola, come una padrona – ma a Rosa bisognava di tanto in tanto far capire che non erano piú bambine. Neanche per strada Rosa sapeva stare, e faceva dei versacci, rideva, si voltava – Ginia l’avrebbe pestata. Ma quando andavano insieme a ballare, Rosa era necessaria perché dava a tutti del tu, e con le sue matterie faceva capire agli altri che Ginia era piú fine. In quell’anno cosí bello, che cominciavano a vivere da sole, Ginia s’era presto accorta che la sua differenza dalle altre era di essere sola anche in casa – Severino non contava – e di potere a sedici anni vivere come una donna. Per questo fin che portò la stella nei capelli si lasciò accompagnare da Rosa, che la divertiva. Non c’era un’altra in tutto il rione, che fosse scema come Rosa, quando voleva. Sapeva smontare chiunque, ridendo e guardando in aria, e delle sere intere non faceva né diceva niente che non fosse per commedia. E litigava come un gallo. – Che cosa hai, Rosa? – diceva qualcuno, mentre si aspettava che cominciasse l’orchestra. – Paura – (e le uscivano gli occhi dalla testa); – ho visto là dietro un vecchio che mi fissa, mi aspetta fuori, ho paura. – L’altro non ci credeva. – Sarà tuo nonno. – Stupido. – Allora balliamo. – No perché ho paura –. Ginia, a metà del giro, sentiva quell’altro gridare: – Sei una maleducata, una strega, vatti a nascondere. Torna in fabbrica! – Allora Rosa rideva e faceva ridere gli altri, ma Ginia, continuando a ballare, pensava che era proprio la fabbrica che riduceva cosí una ragazza. E del resto bastava guardare i meccanici, che anche loro cominciavano la conoscenza facendo questi scherzi.

    Se nella compagnia ce n’era qualcuno, si poteva star certi che prima di notte una ragazza si arrabbiava o, se era piú scema, piangeva. Prendevano in giro come Rosa. Volevano sempre portarle nei prati. Con loro non si poteva discorrere e bisognava stare subito sulla difesa. Ma avevano di bello che certe sere si cantava, e cantavano bene, specialmente se veniva Ferruccio, con la chitarra, uno alto, biondo, che era sempre disoccupato ma aveva ancora le dita nere e fiaccate dal carbone. Pareva impossibile che quelle mani

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