Senza mai toccare terra
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e si trova costretta a cercare di vendere la casa per far fronte alle difficoltà economiche. Viola ha sedici anni, si sente trascinata lì dai fallimenti di sua madre, è arrabbiata e nasconde altre ferite nel suo animo. Nella casa, e in giardino, tutto è in disordine e tutto è da sistemare: fin da subito i lavori si rivelano impegnativi e più lunghi
del previsto. Le due donne fanno fatica ad adattarsi alla nuova vita e ai nuovi spazi, fino a quando, un giorno, a Viola sembra che uno dei molti quadri appesi alle pareti, un dipinto fatto dalla prozia Olga, le stia parlando. Senza mai toccare terra è una fiaba moderna, ma anche un romanzo di formazione e un’avventura condotta sul confine tra le difficoltà della vita e il mondo della fantasia.
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Anteprima del libro
Senza mai toccare terra - Elena Cabiati
Prima
Giulia correva giù lungo la scala di pietra che passava attraverso il gruppo di case arroccate, correva veloce, saltando qualche gradino, mentre il suo giaccone verde si apriva e l’aria fredda le si infilava nel collo. Aveva una treccia mezza disfatta e le guance arrossate. Aveva dieci anni e milioni di fate che le svolazzavano attorno.
Era una specie di rito: tutte le sere, alle cinque, chiudeva il quaderno dei compiti e, pochi secondi dopo, sua zia Olga la rincorreva lungo il vialetto per infilarle la giacca, infine si gettava giù a rotta di collo lungo le scale, fino al muretto della strada, dove c’era il cartello che segnalava la fermata dell’autobus, un po’ storto e con le scritte sbiadite dal tempo.
Era l’ora in cui arrivava la corriera e il sole tramontava dietro il promontorio. Suo padre scendeva dal pullman che arrivava dalla Francia. Era alto e forte, faceva il muratore oltre confine e, quando la prendeva sulle spalle, anche lei diventava improvvisamente grande e poteva vedere, aldilà degli alberi che coprivano l’orizzonte, tutto il cielo e il mare che diventavano rosso e oro.
Abitavano a La Mortola, una piccola frazione di Ventimiglia, subito prima del confine francese, l’ultimo baluardo della Liguria, in mezzo alle pinete ombrose e alle rocce delle montagne che si chiudevano alle sue spalle.
La strada principale stava sotto il mucchietto di case che si appendevano a quelle rocce: nessun negozio, solo la chiesa, un albergo, un ristorante e naturalmente Villa Hanbury, con il suo giardino botanico di piante esotiche.
Giulia adorava quel posto: la luce, il vento, l’illusione che le stagioni non esistessero o, quantomeno, che fossero dolci e pietose, che si trasformassero l’una nell’altra senza farsene accorgere.
Quella sera, come sempre, si sedette sul marciapiede e si fregò le mani per scaldarle. Era arrivata in tempo, la fermata dell’autobus era ancora deserta, il sole era ancora alto. Gennaio stava finendo, un gennaio mite e profumato di ginestre.
Il pullman finalmente arrivò, si fermò, ma non scese nessuno. Le portiere si aprirono, si chiusero, il motore ripartì, come se niente fosse.
Spesso, gran parte delle persone non riesce a vedere il momento esatto in cui avviene un cambiamento importante nella propria vita.
La maggior parte degli eventi è fatta di piccoli sassolini messi l’uno sopra l’altro, per costruire torri, templi o magari prigioni. Persino quando crolla la vita lo fa un pezzetto alla volta: è così che ci abituiamo agli stravolgimenti più terribili, è così che ci rassegniamo. Un sassolino dopo l’altro.
Ma quella sera le cose andarono diversamente, un colpo di vento buttò per terra i sassolini di Giulia tutti insieme. Un vento gelido, che spezzò le ali di ogni fata che frullava attorno alla sua testa bruna e le trasformò in mostri.
Per tutta la vita avrebbe ricordato ogni singolo instante di quella sera di gennaio, una sera tagliente come la lama di una ghigliottina, l’ultima in cui aspettò suo padre. L’ultimo tramonto o forse il primo che non vide, svanito in silenzio dietro gli alberi.
Dopo
Da quel tramonto erano passati più di vent’anni. Quel giorno d’inverno, il padre di Giulia era morto in un incidente al cantiere e da allora nulla era stato più come prima.
Lei era andata a vivere dai nonni, a Milano, e aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai più tornata alla casa del mare. Un giuramento fatto per amore, perché rivedere quel posto dove era stata bambina, dove era stata famiglia, sarebbe stato come bere un veleno in grado di corrodere anche i ricordi. E invece alla fine era tornata e aveva inghiottito tutto d’un fiato l’ennesimo giuramento mancato.
Per di più ora quella casa doveva venderla, se voleva sopravvivere, ed era certa che quando ci fosse riuscita sarebbe morto anche l’ultimo legame con la sua vita di prima, con quel poco di bellezza che sopravviveva in lei.
Tornare lì, dopo tanto tempo, era stata la cosa più difficile della sua vita, a parte naturalmente crescere sua figlia Viola: quello aveva superato la fatica di ogni altra esperienza e Giulia, nel corso degli anni, di esperienze non se ne era fatta mancare quasi nessuna, soprattutto le peggiori.
Sbuffò guardandosi allo specchio del bagno: non aveva ancora quarant’anni, eppure il suo volto era segnato da tante piccole rughe che le rendevano l’espressione stanca e più triste di quanto avrebbe voluto far sapere al mondo.
Erano le 10.00 del mattino, sua figlia dormiva nella camera accanto, mentre avrebbe dovuto essere a scuola e lei avrebbe dovuto svegliarla, insistere, litigarci, portarla a Ventimiglia, obbligarla a entrare in classe; invece se ne stavano chiuse lì dentro entrambe, al buio, mentre la vita fuori scorreva indifferente a loro, quanto loro erano indifferenti a lei.
La casa non era grande, ma per due persone sembrava immensa: era un vecchio edificio di inizio Novecento, i muri bianchi ricoperti di edera, la sala dalla forma circolare affacciata a sud, tre camere piene di vecchi oggetti e un meraviglioso giardino. Era rimasta chiusa da almeno quattro anni, da quando era morta la prozia Olga. Da allora nessuno aveva fatto manutenzione e il giardino si era inselvatichito, la polvere si era posata silenziosa dappertutto e la salsedine portata dal vento aveva corroso le ringhiere e i cardini degli infissi.
Giulia e Viola erano arrivate da una settimana, ma nessuna di loro aveva ancora avuto la forza di mettersi a fare le pulizie e buttare via l’incredibile quantità di cianfrusaglie che saturava lo spazio.
Viola si era rifiutata di guardarsi attorno, come se si aspettasse che ignorando ciò che la circondava, presto sarebbe sparito e si era lamentata in continuazione, forse per consumare la determinazione di sua madre, forse per provocarla e magari farla crollare e tornare a Milano. E Giulia di sicuro lo avrebbe fatto, se solo avesse avuto un’altra possibilità. La sua forza non era data dal coraggio, ma dalla disperazione che paradossalmente la rendeva senza appigli.
Quando era piccola Giulia abitava nel seminterrato, all’inizio con suo padre e sua madre, poi da sola con suo padre quando sua madre era morta. Stavano tutti insieme in due stanze grandi e umide. Zia Olga li ospitava senza chiedere l’affitto: forse era contenta di fare un dispetto al resto della famiglia che non accettava il matrimonio dei suoi genitori o forse le piaceva avere un po’ di compagnia, in fondo non aveva importanza. Adesso quella parte della casa era più o meno ridotta a una cantina o a un garage, visto che dentro c’era parcheggiata la vecchia Fiat Cinquecento della zia.
Era strano pensare che ora la casa era tutta sua e di Viola. Era bello e terribile insieme.
Spalancò le persiane della sala e la luce del sole la inondò facendole male agli occhi. Le pareti della stanza erano piene di quadri. Pareti chiare, un po’ sporche, e, sopra, file sovrapposte di dipinti e disegni di tutte le dimensioni, su carta e su tela, incorniciati e non. Solo il soggetto era sempre lo stesso: nature morte, fiori, piante, frutti. Soprattutto fiori, la maggior parte ad acquerello. Trasparenti, evanescenti. Petali bianchi che sembravano le vesti di una sposa, oppure rose, gelsomino, camelie, strelitzie, ortensie, mimose. E foglie… foglie accartocciate, ruvide, vellutate, spinose. Erano i quadri di Olga. Tutta la vita di sua zia mischiata al colore come la trementina.
Erano fiori, ma sembravano osservarla come ritratti e sotto ognuno di essi c’era una targhetta su cartoncino, scritta a macchina, che ne indicava il titolo. Titoli imprevedibili: date e, molto spesso, il nome di qualcuno.
C’era anche il nome di Giulia, sotto il fiore che doveva essere il suo ritratto. Glielo aveva fatto quand’era bambina e lei lo riconobbe subito: un cespuglio di bougainvillea abbarbicato a un muro, tonalità di rosso e fuxia, miste a quelle ingiallite di petali secchi, fragili come ali.
In mezzo, un intrico di spine.
Ventimiglia, 4 aprile 2019
Mio padre non so chi sia. Ho cercato di cavarlo di bocca a mia madre, ma quella dice che non lo sa neppure lei, che non si ricorda. Quand’ero piccola diceva che era morto, però poi la sentivo parlare con le amiche e buttargli addosso una serie di insulti, uno peggio dell’altro, e non erano insulti che si danno a un morto e neanche a uno di cui non si ricorda il nome.
Un giorno scoprirò chi è. Non che me ne freghi qualcosa, è che vorrei vedere la sua faccia, sapere se gli somiglio. Perché a mia madre non somiglio per niente, per fortuna. Lei è brutta. Dentro e fuori. Forse una volta non lo era: ho visto delle foto di quando era bambina e sorrideva, sembrava carina. Adesso invece non ride mai, è tutta secca, con la pelle grigia e i denti rovinati. Ha trentotto anni e sembra una vecchia. Mi dà fastidio persino il suo odore, ma tanto mi sta ben lontana, perché probabilmente le do fastidio anch’io. Il casino è che io ho solo lei e lei ha solo me, così di giorno mi sta lontana e la notte mi obbliga a dormire nel suo letto. Non so perché lo faccia, non mi parla, né mi sfiora, credo che voglia solo sentire che c’è qualcosa di caldo e vivo vicino a lei. Vorrei che si prendesse un gatto e mi lasciasse in pace. Da quando siamo qui ha smesso di starmi addosso e spero che duri, la sento nella stanza vicina che piange, probabilmente si vergogna di farsi vedere e per me va bene, almeno ho recuperato un letto tutto mio.
Mi fa pena, a volte penso che la odio. Adesso mi ha trascinata qui, in questo posto, in una casa che cade a pezzi, dove il cellulare prende dieci minuti al giorno e solo se ti metti sul balcone, magari a testa in giù.
A Milano avevo una vita o qualcosa che le somigliava. Avevo appena trovato un ragazzo e degli amici. Non che fossero un granché: Luca cercava solo di saltarmi addosso e Greta e Ludo erano due sceme, ma meglio di niente.
Poi mia madre ha rovinato tutto, ha pensato bene di farsi licenziare: ha sputato addosso al suo capo perché le ha toccato il culo. Così non sapeva più come pagare l’affitto, perché probabilmente i soldi di mio nonno, quelli che avevamo da parte, se li era già bruciati tutti a forza di vodka. Già, perché l’alcol è l’unica costante della sua vita, l’unica cosa che non cambia mai, anche quando giura che ha smesso.
Una settimana fa ha buttato tutto quello che ci rimane in valigia. Avesse potuto ci avrebbe buttato pure me, per farmi stare zitta. E abbiamo preso un treno. Credevo sarebbe stato solo per un weekend, era già successo che lei sclerasse, però poi era sempre rinsavita in fretta. Invece, stavolta, ha detto che ci trasferivamo. Dopo il treno abbiamo aspettato un’ora il pullman, poi abbiamo trascinato le valigie a piedi su una stradina e siamo arrivati in questo buco. Ha detto che è la casa della sua famiglia, che non avrebbe mai voluto tornarci, ma che non aveva scelta.
Figuriamoci io.
Non è una mia scelta nemmeno tenere questo diario. Vero, dottoressa Rei? Mi piacerebbe capire che senso ha, perché, se tu rispetterai il nostro patto e non lo leggerai, questa cosa di scrivere sarà completamente assurda, visto che a te non frega niente di quel che racconto. Se invece è solo un trucco per farti i cavoli miei, be’ allora spero che qualcuno ti righi la macchina o ti tagli le gomme. Magari sarò io a farlo.
Fuori
Quando prese la scorciatoia per arrivare all’Aurelia, la stessa che aveva percorso mille volte da bambina per andare incontro a suo padre, Giulia lo fece come in apnea. Come se fosse di vitale importanza arrivare in fondo senza respirare, più velocemente possibile. Come se fosse un’immersione tra gli scogli. Ma non corse e non tenne gli occhi chiusi. E nemmeno trattenne davvero il fiato. Fu il cuore a rimanere chiuso, sigillato, e fu la mente a rifiutare di sentire, di vedere, di ricordare.
Quando sbucò sulla strada ritornò lentamente al mondo, lo fece con lo sguardo basso, nervosa, fino a che non arrivò il pullman a portarla lontano da lì, curva dopo curva, fino in città.
Scese alla fermata davanti al teatro comunale e il frastuono della gente e delle auto le fece uno strano effetto, fastidioso e rassicurante insieme. Il centro era trafficato, pieno di turisti francesi su e giù dai marciapiedi perché era venerdì, giorno di mercato, e la gente arrivava da tutta la Francia per perdersi in quel labirinto di bancarelle che riempiva quasi tutto il lungomare; Giulia si abbandonò a quella corrente di voci, tanto doveva fare poca strada, e poi era una sensazione familiare, un caos che riconosceva.
L’agenzia immobiliare era in via Cavour, vicino alla pasticceria La bombonière dove sua madre, quando lei era piccola, a carnevale le comprava le meringhe colorate a forma di cono gelato da portare a scuola per tutta la classe. Invece fu per questo che mancò il portone giusto, perché la pasticceria non c’era più; al suo posto c’era una boutique, e così Giulia arrivò fino al semaforo dell’incrocio e solo dopo capì che doveva tornare indietro. La sensazione di sicurezza e familiarità svanì in quel preciso momento: erano passati ventisette anni da quando lei aveva abitato in quella città. Non era più casa sua, era solo un posto dove nessuno l’avrebbe riconosciuta, dove qualcuno le avrebbe chiesto se aveva bisogno di indicazioni e probabilmente era davvero così.
Giulia di case non ne aveva più; mentre saliva le scale fino al primo piano, una parte di lei pensò che questa certezza le avrebbe reso più facile fare ciò che doveva compiere.
Si sbagliava, naturalmente.
Addosso aveva la stessa orribile sensazione di quando, poco più che ventenne, era andata all’ospedale Niguarda per abortire. La stessa paura, la stessa tristezza.
Quella volta era rimasta sei ore nella sala d’attesa. Aveva lasciato passare una decina di ragazze ed era tornata a casa senza far nulla. Ci era tornata la settimana dopo