La casa in collina
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Info su questo ebook
Corrado, il protagonista, è un professore di Torino che vive, con uno spirito di indifferenza e di apatia, il duro periodo dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Rifugiatosi sulla collina torinese, egli vive presso due donne molto premurose nei suoi confronti: Elvira e la madre. Così trova piacevole incontrarsi con un gruppo di gente semplice e allegra che si ritrova in una vecchia osteria dalla parte opposta della collina, tra cui ritrova anche Cate, una donna che aveva amato anni addietro e che poi aveva lasciato per paura delle responsabilità....
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Anteprima del libro
La casa in collina - Cesare Pavese
Rossini
Prefazione di Giancarlo Rossini
Giugno 1943. Aerei alleati bombardano la Torino industriale; L'Italia fascista sembra essere in ginocchio. Corrado, un insegnante, si trova in relativa sicurezza sulle colline sopra la città. Non ha attaccamenti e afferma di essere felice in quel modo. Ma contro il suo miglior giudizio viene trascinato in una cerchia di antifascisti che si riuniscono in una taverna vicina. Mentre la rete delle autorità si chiude intorno ai suoi amici, Corrado deve affrontare una scelta dolorosa: impegno emotivo e politico, con tutti i suoi pericoli o ritirata devastante.
Cesare Pavese è nato in un piccolo paese in cui suo padre, un funzionario, possedeva una proprietà. Ha frequentato la scuola e successivamente l'università a Torino. Negato uno sfogo ai suoi poteri creativi dal controllo fascista della letteratura, Pavese ha tradotto molti scrittori americani del XX secolo negli anni '30 e '40: Sherwood Anderson, Gertrude Stein, John Steinbeck, John Dos Passos, Ernest Hemingway e William Faulkner; uno scrittore del XIX secolo che lo influenzò profondamente, Herman Melville (una delle sue prime traduzioni fu di Moby Dick); e il romanziere irlandese James Joyce. Ha inoltre pubblicato critiche, raccolte postume in La letteratura americana e altri saggi (1951; American Literature, Essays and Opinions, 1970). Il suo lavoro probabilmente ha contribuito a promuovere la lettura e l'apprezzamento degli scrittori statunitensi in Italia più di quello di qualsiasi altro uomo.
Fondatore e, fino alla morte, direttore della casa editrice Einaudi, Pavese ha curato anche la rivista antifascista La Cultura. Il suo lavoro lo portò all'arresto e alla reclusione da parte del governo nel 1935, esperienza poi ricordata in Il carcere
(pubblicato in Prima che il gallo canti, 1949; in Il prigioniero politico, 1955) e nella novella Il compagno (1947; Compagno, 1959). Il suo primo volume di poesie liriche, Lavorare stanca (1936; Hard Labor, 1976), seguì il suo rilascio dal carcere. Un primo romanzo, Paesi tuoi (1941; The Harvesters, 1961), richiama, come fanno molte sue opere, i luoghi sacri dell'infanzia. Tra il 1943 e il 1945 visse con i partigiani della Resistenza antifascista sulle colline piemontesi.
La maggior parte del lavoro di Pavese, per lo più racconti e novelle, è apparso tra la fine della guerra e la sua morte. In parte grazie all'influenza di Melville, Pavese si preoccupò del mito, del simbolo e dell'archetipo. Uno dei suoi libri più sorprendenti è Dialoghi con Leucò (1947; Dialoghi con Leucò, 1965), conversazioni scritte poeticamente sulla condizione umana. Il romanzo considerato il suo migliore, La luna e i falò (1950; La luna e i falò, 1950), è una storia cupa, ma compassionevole, di un eroe che cerca di ritrovare se stesso visitando il luogo in cui è cresciuto. Molte altre opere sono degne di nota, in particolare La bella estate (1949).
Poco dopo aver ricevuto il Premio Strega per questa opera, Pavese si tolse la vita nella sua camera d'albergo assumendo un'overdose di pillole.
I
Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch'io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.
Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l'orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sí. Gli sfollati dei prati e dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente più sfiancati e intirizziti di me. Era estate, e ricordavo altre sere quando vivevo e abitavo in città, sere che anch'io ero disceso a notte alta cantando o ridendo, e mille luci punteggiavano la collina e la città in fondo alla strada. La città era come un lago di luce.
Allora la notte si passava in città. Non si sapeva ch'era un tempo così breve. Si prodigavano amicizia e giornate negli incontri più futili. Si viveva, o così si credeva, con gli altri e per gli altri.
Devo dire, cominciando questa storia di una lunga illusione, che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassù dove affittavo quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l'estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l'ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute, Ma si direbbe che la guerra io l'attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina. Adesso accadevano cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pareva un contegno. Quella specie di sordo rancore in cui s'era conchiusa la mia gioventù, trovò con la guerra una tana e un orizzonte.
Di nuovo stasera salivo la collina; imbruniva, e di là dal muretto sporgevano le creste, Belbo, accucciato sul sentiero, mi aspettava al posto solito, e nel buio lo sentivo uggiolare. Tremava e raspava. Poi mi corse addosso saltando per toccarmi la faccia, e lo calmai gli dissi parole, fin che ricadde e corse avanti e si fermò a fiutare un tronco, felice. Quando s'accorse che invece di entrare sul sentiero proseguivo verso il bosco, fece un salto di gioia e si cacciò tra le piante. È bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre, le vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere delle scoperte. Fin da ragazzo, mi pareva che andando per i boschi senza un cane avrei perduto troppa parte della vita e dell'occulto della terra.
Non volevo rientrare alla villa prima che fosse sera avanzata, giacché sapevo che le padrone mie e di Belbo mi attendevano al solito per farmi discorrere, per farsi pagare le cure che avevano di me e la cena fredda e l'affabilità, con le tortuose e sbrigative opinioni sulla guerra e sul mondo che serbavo per il prossimo. Qualche volta un nuovo caso della guerra, una minaccia, una notte di bombe e di fiamme, dava alle due donne argomento per affrontarmi sulla porta, nel frutteto, intorno al tavolo, e cianciare stupirsi esclamare, tirarmi alla luce, sapere chi ero, indovinarmi uno di loro. A me piaceva cenar solo, nella stanza oscurata, solo e dimenticato, tendendo l'orecchio, ascoltando la notte, sentendo il tempo passare. Quando nel buio sulla città lontana muggiva un allarme, il mio primo sussulto era di dispetto per la solitudine che se ne andava, e le paure, il trambusto che arrivava fin lassù, le due donne che spegnevano le lampade già smorzate, l'ansiosa speranza di qualcosa di grosso. Si usciva tutti nel frutteto.
Delle due preferivo la vecchia, la madre, che nella mole e negli acciacchi portava qualcosa di calmo, di terrestre, e si poteva immaginarla sotto le bombe come appunto apparirebbe una collina oscurata. Non parlava gran che, ma sapeva ascoltare. L'altra, la figlia, una zitella quarantenne, era accollata, ossuta, e si chiamava Elvira. Viveva agitata dal timore che la guerra arrivasse lassù.
M'accorsi che pensava a me con ansia, e me lo disse: pativa quand'ero in città, e una volta che la madre la canzonò in mia presenza, Elvira rispose che, se le bombe distruggevano un altro po' di Torino, avrei dovuto star con loro giorno e notte.
Belbo correva avanti e indietro sul sentiero e m'invitava a cacciarmi nel bosco. Ma quella sera preferii soffermarmi su una svolta della salita sgombra di piante, di dove si dominava la gran valle e le coste. Così mi piaceva la grossa collina, serpeggiante di schiene e di coste, nel buio. In passato era uguale, ma tanti lumi la punteggiavano, una vita tranquilla, uomini nelle case, riposo e allegrie. Anche adesso qualche volta si sentivano voci scoppiare, ridere in lontananza, ma il gran buio pesava, copriva ogni cosa, e la terra era tornata selvatica, sola, come l'avevo conosciuta da ragazzo. Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l'antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d'infanzia.
Cominciavo a quei tempi a compiacermi in ricordi d'infanzia. Si direbbe che sotto ai rancori e alle incertezze, sotto alla voglia di star solo, mi scoprivo ragazzo per avere un compagno, un collega, un figliolo. Rivedevo questo paese dov'ero vissuto. Eravamo noi soli, il ragazzo e me stesso. Rivivevo le scoperte selvatiche d'allora. Soffrivo sì ma col piglio scontroso di chi non riconosce né ama il prossimo. E discorrevo discorrevo, mi tenevo compagnia. Eravamo noi due soli.
Di nuovo quella sera saliva dalla costa un brusio di voci, frammisto di canti. Veniva dall'altro versante, dove non ero mai disceso, e pareva un richiamo d'altri tempi, una voce di gioventù. Mi ricordò per un momento le comitive di fuggiaschi che la sera, come gitanti, brulicavano sui margini della collina. Ma non si spostava, usciva sempre dallo stesso luogo. Era strano pensare che sotto il buio minaccioso, davanti alla città ammutolita, un gruppo, una famiglia, della gente qualunque, ingannassero l'attesa cantando e ridendo. Non pensavo nemmeno che ci volesse coraggio. Era giugno, la notte era bella sotto il cielo, bastava abbandonarsi; ma, per me, ero contento di non avere nei miei giorni un vero affetto né un impaccio, di essere solo, non legato con nessuno. Adesso mi pareva di aver sempre saputo che si sarebbe giunti a quella specie di risacca tra collina e città, a quell'angoscia perpetua che limitava ogni progetto all'indomani, al risveglio, e quasi quasi l'avrei detto, se qualcuno avesse potuto ascoltarmi. Ma soltanto un cuore amico avrebbe potuto ascoltarmi.
Belbo, piantato sul ciglione, latrava contro le voci. Lo strinsi per il collare, lo feci tacere, e ascoltai meglio. Tra le voci avvinazzate ce n'erano di limpide, e perfino una di donna. Poi risero, si scompigliarono, e sali una voce isolata di uomo, bellissima.
Stavo già per tornare sui miei passi, quando dissi a me stesso: Sei scemo. Le due vecchie ti aspettano. Lascia che aspettino
Nel buio cercavo d'indovinare il sito preciso dei cantori. Dissi: Magari sono gente che conosci
. Presi Belbo e gli feci segno verso l'altro versante. Mormorai sottovoce una frase del canto e gli dissi: — Andiamo là —. Lui sparí con un balzo.
Allora, lasciandomi guidare dalle voci, m'incamminai per il sentiero.
II
Quando sbucai sulla strada e ascoltavo guardando nel buio, di là dalla cresta, quasi sommerso nelle voci dei grilli, suonava l'allarme. Sentii, come ci fossi, la città raggelarsi, il trepestio, porte sbattersi, le vie sbigottite: e deserte. Qui le stelle piovevano luce. Adesso il canto era cessato nella valle.