Orgoglio
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Info su questo ebook
Cinque anni da quando abbiamo perso tutto.
Cinque anni da quando ho venduto la mia anima al diavolo, spezzandole il cuore per salvarla.
Il sacrificio e la solitudine sono stati quasi insopportabili… e ora lei è tornata.
Non mi è concesso vederla né parlare con lei, non mi è permesso desiderarla, aprirebbe solo vecchie ferite mai guarite.
Ma non riesco a starle lontano e ripeto a me stesso che voglio solo rivederla un’ultima volta, sapere che il mio sacrificio non è stato vano.
La mia anima è oramai perduta, ma farei qualsiasi cosa per riaverla, anche se questo potrebbe farle ancora più male.
Jennifer Miller
Jennifer Miller is a high school English teacher in Arlington, Texas. She researches LGBTQ+ children’s picture books, digital culture, and subcultures. She is author of The Transformative Potential of LGBTQ+ Children’s Picture Books, published by University Press of Mississippi, and a contributing editor to Introduction to LGBTQ+ Studies: A Cross Disciplinary Approach.
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Anteprima del libro
Orgoglio - Jennifer Miller
Capitolo 1
Cole
«Colpisci come una fottuta ragazzina» urla Jerry, biascicando le parole.
Lo guardo e come ogni giorno l’idea di ucciderlo mi sfiora la mente. Non posso farlo, purtroppo, ma almeno posso sognarlo. Da tempo ho capito che è meglio non rispondere, quindi non lo considero, anche se è difficile resistere alla tentazione di sbattergli quella faccia di merda a terra.
Il sudore corre lungo il mio corpo a fiotti, ma ignoro anche quello, mentre continuo a colpire la sacca di fronte a me. Ho un combattimento a breve, uno di quelli importanti che potrebbe farmi vincere una bella somma. Un altro passo avanti che mi consentirebbe di sfuggire al controllo del mio allenatore. Manca così poco alla fine dei miei obblighi contrattuali che posso quasi sentire il sapore della libertà. Dopo quasi cinque anni, vedo la luce alla fine di un tunnel che ho scavato con le unghie e con i denti, strisciando nel fango e tra i vetri acuminati. Ho risparmiato ogni dollaro guadagnato, ho portato il mio corpo al limite, giorno dopo giorno, e non ho mai perso di vista quel traguardo.
Anche adesso i muscoli delle braccia mi bruciano, fitte di dolore attraversano le mie nocche intrappolate dal nastro e darei non so cosa per una pausa. Invece continuo, assaporando il dolore. Quando ti senti morto dentro, la sofferenza ti ricorda che sei vivo, almeno fisicamente.
Sì, io continuo e non mi arrendo. Inseguo i miei obiettivi, ignorando la voce fastidiosa che mi sussurra nelle orecchie, fottendosene della mia stanchezza o del mio stato d’animo. Vado avanti anche se in realtà non so che cosa mi spinga a farlo.
«Picchia più forte di così!»
L’ordine di Jerry schiocca come un colpo di frusta vicino alle mie orecchie.
«Sei una cazzo di femminuccia! Non capisco perché stia perdendo il mio tempo con te.»
Rido tra me e me. Sappiamo entrambi perché. Sono il suo biglietto d’accesso all’MMA da quando suo figlio Jackson Stone non vuole più avere niente a che fare con lui.
Chiudo gli occhi e continuo a ignorarlo, evocando l’immagine di me che lo colpisco con un rapido pugno alla gola, per poi guardarlo con soddisfazione tossire e sputacchiare, tenendosi il collo con le mani, la faccia paonazza, gli occhi fuori dalle orbite e finalmente zitto. Quella sarebbe la parte migliore, cazzo! Non doverlo più sentire urlare per un po’. Ma posso essere anche più fantasioso. Ieri per farlo fuori volevo strappargli le palle dallo scroto e lasciarlo sanguinante a terra, e prima ancora avrei voluto dare fuoco alla schifosa peluria che ricopre il suo culo grasso.
Mi scappa una smorfia di fronte a certi pensieri e per un attimo penso di avere seri problemi. Poi penso che la maggior parte delle persone fa la stessa cosa senza uccidere nessuno e io per primo mai e poi mai metterei in atto simili fantasie. Solo che immaginare ti aiuta a sopravvivere.
«Cazzo! Mi stai ascoltando? Ho detto picchia più forte. Cosa pensi che sia? Il fottuto culo di una delle tue troiette? Smidollato! Come pensi di vincere se non riesci nemmeno a prendere a pugni un sacco per qualche ora?» urla Jerry, poi sospira a gran voce e scuote la testa, esasperato.
Sa benissimo da quanto sono qui. Qualche volta penso che si lamenti solo per il gusto di farlo. Il fatto che beva non aiuta per niente. Il modo in cui trascina le parole e la sua andatura sono il palese risultato dell’essersi scolato più di una bottiglia.
Sarei voluto andare in palestra da Jax, oggi, Dio solo sa se preferirei allenarmi con i miei amici. Jax, mio amico fin dal liceo, così come Tyson, Ryder, Dylan, Zane e Levi, si allenano tutti nella palestra di Jax, l’XTreme Fitness Center. Una volta mi allenavo lì anche io, ma dopo un litigio poco piacevole con suo figlio Jax, Jerry è stato buttato fuori dal centro, perciò adesso passo più tempo qui che lì.
Lui continua a sputarmi addosso parole inutili, io le blocco aumentando il ritmo. Cerco di ignorare i metodi orribili che usa per allenarmi, consapevole che mi sta usando per vendicarsi del figlio. Vorrebbe rendermi più forte nella speranza che diventi migliore di Jax, ma è solo un povero illuso. Purtroppo, però, non ho altra scelta se non quella di sopportare questa vita. È quella che ho scelto per me ed è una ragione di gran lunga più importante che tollerare quello stronzo nelle orecchie.
Mi asciugo con l’avambraccio il sudore che mi cola sulla fronte, mi allontano dal sacco e lascio cadere le braccia lungo i fianchi.
«Che cazzo stai facendo, bello? Ho detto per caso che abbiamo finito?»
Mi giro verso Jerry e gli rivolgo un’occhiata, una di quelle che dice che ho finito e di non rompermi i coglioni. Quella che fa capire persino a lui di farsi da parte.
Si schiarisce la gola. «Va bene. Porta qui il culo domani mattina presto.»
Scoppio quasi a ridere. Visto il liquore che si scola, non ce la farà mai a essere qui presto e lo sa. Al contrario, decido di non sprecare parole con lui e mi sposto veloce verso lo spogliatoio per farmi una doccia della quale ho davvero bisogno. Apro l’acqua e mi spoglio. Mentre aspetto che diventi calda, osservo il mio corpo e i tatuaggi che lo decorano. Piccole opere d’arte che raccontano la storia della mia vita. Ci sono felicità e tristezza, speranze e traguardi raggiunti, tratteggiati sulla mia pelle come in una preziosa tela. Ho voluto ricordare le cose che mi hanno reso chi sono, sia quelle buone che quelle cattive. Seguo con le dita il contorno del tatuaggio sul mio fianco, una riproduzione delle mie mani avvolte dal nastro, osservo il cuore perforato da un pennino sulla parte interna del mio bicipite e la rosa fatta in onore di mia madre sul braccio. Sfioro con la mano il nome che attraversa il mio petto e traccio con le dita ogni lettera della scritta, mentre i miei pensieri si incupiscono.
Con gli occhi che mi bruciano, mi lavo rapidamente e mi vesto, poi faccio la borsa in tutta fretta, ansioso di uscire dalla palestra. Rimango fermo sul marciapiede per qualche minuto, respirando l’odore di pioggia nell’aria.
Non piove molto in Arizona, ma quando accade è un grande avvenimento. Sono tutti felici e si godono l’odore della terra bagnata e la sensazione della pioggia sulla pelle.
Accendo la macchina e alzo subito il volume della radio, nella speranza di scacciare i pensieri tetri. Quando finalmente arrivo di fronte alla porta del mio appartamento, pronto a inserire la chiave nella serratura, mi blocca il suono di una risata.
Guardo in basso, in direzione dell’appartamento del mio amico Ryder e sorrido al pensiero di quello che succedeva prima. In passato era davvero uno spasso vedere le donne uscire ed entrare da casa sua come se avesse installato una porta girevole, ma ora non è più così e non posso fare a meno di essere contento per lui. Mi piace vivere nel suo stesso condominio e vedere quanto lui e la sua ragazza Tessa siano felici insieme. Tessa si è trasferita da lui solo di recente e, anche se mi manca uscire con il mio amico come una volta, è una cosa positiva e sono felice per entrambi.
Potrei sbagliarmi, ma sospetto che sia rimasto qui invece di trasferirsi nell’appartamento più confortevole di Tessa perché è preoccupato per me. La palestra di Jax non è lontana da qui e Ryder si allena tutti i giorni, perciò ha anche senso che voglia rimanere vicino, ma penso di non sbagliarmi. Vorrei che non si lasciasse condizionare visto che non può fare niente al riguardo e comunque ha cose decisamente migliori alle quali dedicarsi.
Apro la porta, poso le mie cose e mi guardo intorno. Il mio appartamento in penombra è decisamente poco invitante. Prima, tutto quello che volevo fare era tornare a casa, aprire una birra e guardare la partita, ma adesso non mi va molto di stare qui. Prima di ripensarci, giro sui tacchi, chiudo di nuovo la porta a chiave ed esco. Le risate di Ryder e Tessa mi seguono lungo il corridoio.
Rinuncio a guidare e scelgo invece di fare due passi. Svolto a destra e mi dirigo in centro. Faccio un respiro profondo e il mio corpo lentamente si rilassa, mentre apro i pugni serrati e sciolgo i muscoli delle spalle.
Il mio condominio si trova a Mill ed è vicino al college locale. In questo periodo le lezioni sono in pieno svolgimento e la strada è trafficata. Vedo molte persone in fila fuori dai ristoranti e altrettante entrare e uscire dai negozi che restano aperti fino a tardi. Le risate risuonano nell’aria e sento la musica di una band del posto che suona nella vicina piazza.
Neanche la minaccia di pioggia riesce a tenere le persone in casa ed è impossibile non lasciarsi coinvolgere dall’entusiasmo che si respira. Infilo le mani in tasca e continuo a camminare. Adocchio una gelateria e mi chiedo se mi vada di assumere calorie oppure no. Prima di poter decidere, alla mia destra sbuca fuori un ragazzino che mi sorride e mi porge un volantino.
«Ecco a lei, signore.»
Allungo una mano e lo prendo automaticamente, annuendo in risposta. Faccio qualche passo e decido che, dopo tutto, ho proprio voglia di un gelato. Abbasso lo sguardo sul volantino che ho in mano con l’intenzione di gettarlo nel primo cestino della spazzatura che incrocio. Mi aspetto che si riferisca ai saldi di uno dei negozi lungo la strada o magari una pubblicità per qualche spettacolo, ma quello che vedo mi fa sentire come se mi avessero pugnalato al petto con un punteruolo da ghiaccio. Il respiro mi si blocca in gola e io mi fermo, incapace di muovermi.
Sbatto le palpebre diverse volte e la mia mano comincia a tremare mentre fisso il foglio di carta. Noto a malapena che c’è una scritta, perché sono stato letteralmente catturato dagli occhi che mi fissano e che bruciano la mia anima. Belli, anche in bianco e nero, sovrastano un paio di labbra carnose che sorridono a chiunque le abbia impresse su quella foto. Nella mia mente diventano verdi e blu, e traccio con un dito la linea della mascella fino a quando la mia mano non si chiude a pugno.
Distolgo lo sguardo a fatica e qualche secondo dopo riesco a riprendermi. Mi ci vuole un momento per rendermi conto che il mio cuore batte forte nel petto in preda a un sentimento sconosciuto, una sensazione che non sentivo più da molto tempo, tanto da essermi quasi dimenticato che cosa si prova. Sarà perché il mio cuore è morto cinque anni fa.
Vedo una panchina alla mia sinistra e mi siedo, chiudo gli occhi cercando di concentrarmi e mi rifiuto di considerare il bruciore dietro alle palpebre. Quando li riapro, oso guardare di nuovo il volantino per assicurarmi che non si tratti di qualche sogno assurdo. Fisso quel volto nella foto, ma poi mi concentro sul testo. Si tratta di un annuncio di una mostra d’arte. È per il suo lavoro, i suoi quadri. L’orgoglio, che non ho nessun diritto di provare, mi esplode nel petto. Ce l’ha fatta. Sapevo che ci sarebbe riuscita. Sapevo che ne sarebbe stata capace.
E la mostra è qui in centro a Tempe, nella galleria che si trova sulla stessa strada in cui sono io adesso. Mi sporgo dalla panchina e con lo sguardo cerco l’indirizzo indicato sul foglio. Resto sorpreso quando vedo l’insegna illuminata risplendere come un faro, invitante come il canto di una sirena. La fisso per non so quanto tempo, combattendo con me stesso. Il petto inizia a farmi male all’idea di vederla di nuovo e i ricordi iniziano a inondare la mia mente. Li spingo via con ferocia, perché non sono in grado di gestirli, non sono in grado di pensare all’ultima volta che l’ho vista, quando ho rotto con lei.
Prima che mi renda conto di quello che sto facendo, sto già camminando rapidamente lungo il marciapiede. Una parte di me grida il mio nome, tentando di fermarmi o anche solo di rallentare i miei passi, l’altra parte, invece, sa perfettamente quello che vuole, ma io ignoro entrambe e continuo a mettere un piede di fronte all’altro. Camminare non è mai stato così difficile.
Poi mi fermo di botto, mentre finalmente mi rendo conto di quello che sto facendo. Così mi giro e mi muovo veloce in direzione del mio appartamento.
Cosa cavolo pensavo di fare? Se anche mi presentassi di fronte a lei, che cosa potrei mai dirle? Non ho alcun diritto di vederla e non so come reagirebbe. Il cuore aumenta i battiti a quel pensiero e io mi porto una mano sul petto.
Voglio che mi veda? Voglio parlare con lei? Ci sono talmente tante cose che vorrei dirle, che vorrei mi dicesse. È felice? Mi ha pensato in questi cinque anni? Mi odia ancora?
Dovrebbe. Io mi odio ancora.
In qualche modo, senza accorgermene, ho fatto dietro front e sono di nuovo tornato verso la galleria. Davanti all’entrata prendo un profondo respiro, piego il volantino in quattro parti e me lo ficco in tasca, poi mi schiarisco la gola come se dovessi parlare. C’è un’ampia vetrina che offre agli amanti dell’arte una panoramica delle esposizioni nella galleria, nella speranza di evocare abbastanza interesse da persuaderli a entrare. Mi accorgo che le luci sono accese e il bagliore illumina il marciapiede. Mi sposto di lato e do un’occhiatina all’interno, attento a non farmi notare.
I miei occhi si spostano rapidi per la stanza, cercandola. Ci sono delle persone che lavorano e che si muovono nel locale con grandi tele tra le braccia. Probabilmente stanno facendo gli ultimi preparativi per la mostra che, stando al volantino, inizia domani. Vorrei dare un’occhiata alle sue opere, ma non riesco a concentrarmi abbastanza, sono troppo impegnato a cercarla.
All’improvviso un movimento cattura la mia attenzione. Una donna vestita di nero mi dà le spalle ed è girata verso un dipinto che non riesco a vedere, ma riconoscerei quel corpo, quella postura, quei capelli ovunque. Trattengo di nuovo il respiro, chiudo i pugni e digrigno i denti. La sofferenza mi attraversa il corpo, insieme al desiderio, e irrigidisco i muscoli nello sforzo di scacciare il dolore lancinante che mi travolge. Afferro così forte il bordo della vetrina che mi lacero la pelle, mentre mi ritrovo schiacciato contro il vetro nel patetico tentativo di avvicinarmi ancora di più a lei. Le lacrime mi riempiono gli occhi senza che possa fare niente per evitarlo, mentre sbatto le palpebre per scacciarle via.
Apro la bocca, ma non so che cosa dire. Il suo nome? Altri mille scusami?
Lei gira la testa di scatto, come se qualcosa avesse catturato la sua attenzione, ma io non riesco a distogliere gli occhi da lei per vedere di cosa si tratti. Solamente quando un braccio le avvolge le spalle faccio caso a lui. Quando lei gli sorride, è come se una fiamma avvolgesse il mio corpo.
Poi lei solleva la testa verso la sua e lui posa un bacio sulle sue labbra.
La bile mi riempie la gola e proprio nel momento in cui, ne sono certo, lei sta per girarsi verso di me, io mi volto e corro via, sperando il lasciarmi il dolore alle spalle.
Capitolo 2
Tatum
Da quando sono tornata in città i ricordi sono tornati, impossibile tenerli a bada. Sembra soltanto ieri che ho fatto le valigie con le lacrime agli occhi e con la rabbia nell’anima. All’inizio non sarei voluta partire, non perché non avessi voglia di riiniziare da capo, ma perché sapevo di lasciare il mio cuore qui. Avevo un disperato bisogno di cambiamento e volevo dimenticare, ma il pensiero di Hope, non so come, mi ha aiutata ad andare avanti. Restare lontana ha facilitato il mio recupero e pensavo che niente mi avrebbe convinta a tornare. Eppure, eccomi qui.
Mi ero illusa che il passato mi avrebbe dato tregua, che tutte le emozioni legate a ciò che è accaduto sarebbero restate sullo sfondo. Mi sbagliavo di grosso, ovviamente. Anche se sono passati cinque anni, quando l’aereo è atterrato ho sentito lo stesso identico dolore di allora fin dentro le ossa.
«Quest’opera è di una bellezza impressionante, signora.»
Mi distolgo dai miei pensieri. Un’addetta della galleria è in piedi di fronte a una delle mie opere. Rappresenta una donna che si guarda allo specchio. Ha le mani premute sulla pancia e le lacrime scorrono sul suo viso. Si riesce quasi a intravedere il dolore straziante e la tristezza nei suoi occhi, ma fuori dalla finestra, alle sue spalle, c’è un giardino rigoglioso. È pieno di fiori, vegetazione, uccelli e vita. C’è un nido di uccellini su un albero e la loro madre è chinata nell’atto di nutrirli. Fa parte della mia collezione Beautifully Broken. Descrive come la vita vada avanti anche quando pensi che non sia possibile e come si possa trovare la bellezza anche nel dolore.
«Grazie» mormoro con timidezza, perché i complimenti mi sorprendono ancora come la prima volta.
Rivolgo di nuovo la mia attenzione al gruppo di quadri di fronte a me e miei occhi si muovono su ognuno di essi. Osservo le pennellate, vivide e amorevoli, e mi chiedo se gli ammiratori saranno in grado di vedere le lacrime mischiate alla tempera e se riusciranno a leggere e a percepire l’emozione che ho riversato in ognuno di essi. Più li guardo, più forte è la tentazione di tirarli giù dalla parete, di nasconderli. Vorrei celarli, sottrarli agli sguardi, come se facendolo potessi fingere che nulla sia successo. Sono questi i momenti nei quali mi sento più esposta e vulnerabile, ed è straziante. È come mettere a nudo il mio cuore di fronte a estranei, perché tutti possano guardarlo, toccarlo e giudicarlo. Forse non sono pronta per questo, forse non lo sarò mai.
«Stai di nuovo dubitando di te stessa.»
Giro la testa e sorrido all’uomo nella mia vita. Credo che sia un totale paradosso che Blaine mi conosca così bene per certi aspetti e, allo stesso tempo, per altri non mi conosca affatto. Mette un braccio attorno alle mie spalle e sono contenta per quel contatto che scaccia i brutti pensieri.
Visto che non voglio analizzare le sue parole, le spingo via dalla mia mente e sollevo la testa verso di lui, nella