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Gli ordini cavallereschi
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E-book600 pagine8 ore

Gli ordini cavallereschi

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Il mito dei nobili cavalieri rivissuto nelle imprese, nelle avventure e negli amori di sovrani, principi e soldati, in Europa e negli altri continenti

Rassegna araldica di Filippo Maria Berardi

Il motivo portante di quest’opera è il mito della cavalleria, che ancor prima di essere un’istituzione è un ideale.
Come tale lo si può rivivere dalle origini tra leggenda e storia – con i cavalieri di Clodoveo e di Artù e i Paladini di Carlo Magno – attraverso i cantori medievali: le gesta e gli amori, da Camelot ad Aquisgrana, da Lancillotto e Ginevra a Tristano e Isotta, a Orlando e Rinaldo. Seguono i grandi ordini cavallereschi costituiti all’insegna delle crociate in Terra Santa, dai Cavalieri del Santo Sepolcro ai Cavalieri di Malta, dai Templari ai Teutonici, fino ai numerosi ordini della Reconquista nella penisola iberica, rivissuti nelle imprese di sovrani e principi, nei palazzi delle sedi principali dei cavalieri, attraverso la letteratura, la musica, l’arte e il cinema. Si raccontano quindi in una terza parte tutti gli ordini nati in Europa dal XIV secolo ad oggi con un carattere nazionale; in ordine cronologico e suddivisi per nazione, richiamati dai personaggi e dalle case regnanti che li hanno qualificati, tra eventi e luoghi storici: i cavalieri dello zar, degli Asburgo, dei Borbone, dei Savoia, dei principi e imperatori germanici, del papa. Fa seguito una quarta parte dedicata agli ordini extraeuropei, tutti perlopiù sorti dall’Ottocento in poi con caratteristiche diverse da quelle europee, sulla base di rivendicazioni nazionali specialmente per le nazioni che erano state colonie. Conclude l’opera una rassegna araldica curata da Filippo Maria Berardi, relativa al glossario cavalleresco, alle armature d’epoca, ai tornei, al codice d’onore, alle classi degli ordini e alle onorificenze.

Miti e leggende, storie e grandi imprese dai primi cavalieri del Medioevo agli ultimi ordini sopravvissuti.

• Dalla leggenda all’epopea
• I cavalieri della Santa Ampolla
• I cavalieri della Tavola Rotonda
• Gli ordini cavallereschi delle Crociate
• All’insegna della Croce di Cristo
• I cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme
• I cavalieri di Malta
• I cavalieri Templari
• I cavalieri di San Lazzaro
• I cavalieri di San Tommaso d’Acri
• I cavalieri Teutonici
• I cavalieri dello Spirito Santo
• I cavalieri della Reconquista
• Gli ordini cavallereschi europei ed extraeuropei
• Rassegna araldica
Claudio Rendina
scrittore, poeta, storiografo, ha legato il suo nome a opere storiche di successo, tra le quali, per la Newton Compton, I papi. Storia e segreti; La santa casta della Chiesa; L’oro del Vaticano; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Roma; Storia insolita di Roma; La grande bellezza di Roma; Le grandi famiglie di Roma; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità del Tevere; Dentro Roma e dentro il Vaticano; Vita segreta dei papi e Storia segreta della Santa Inquisizione. Ha diretto la rivista «Roma ieri, oggi, domani» e ha curato La grande enciclopedia di Roma. Ha scritto il libro storico-fotografico Gerusalemme città della pace, pubblicato in quattro lingue. Attualmente firma per «la Repubblica» articoli di storia, arte e folclore e collabora a diverse riviste di carattere storico.
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2015
ISBN9788854179998
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    Anteprima del libro

    Gli ordini cavallereschi - Claudio Rendina

    PRIMA PARTE

    Dalla leggenda all’epopea

    I cavalieri della Santa Ampolla

    In principio è lo Spirito Santo. Che in forma di colomba discesa dal cielo, secondo la narrazione dei Vangeli, domina la scena del battesimo di Gesù nel fiume Giordano. E come tale ricorre nell’iconografia tradizionale, fino ad essere rappresentata dal IX secolo con un’ampolla nel becco, su una placca in avorio di un libro proveniente da Reims. Città che non ricorre casualmente, perché in questa località della Gallia avviene il battesimo del re pagano Clodoveo, il sovrano dei Franchi che, sotto la spinta della moglie Clotilde, della monaca Geneviève e del vescovo di Reims Remigio, tutti e tre in seguito elevati agli onori degli altari, decide di farsi cristiano dopo la vittoria sugli Alemanni nella battaglia di Tolbiac nel 495.

    Come non è localizzabile la città di Tolbiac, forse una roccaforte dell’Alsazia, così è leggenda la stessa cronaca della battaglia, raccontata un secolo dopo da Gregorio di Tours. Le sorti dello scontro fin dall’inizio non sono favorevoli ai Franchi, che stanno sul punto di ritirarsi, quando Clodoveo grida tra le lacrime: «Cristo, o tu, che Clotilde definisce figlio del Dio vivente, aiutami!». Nello stesso istante gli Alemanni si danno improvvisamente alla fuga. Di fronte a questo autentico miracolo, Clodoveo rompe gli indugi e, a battaglia vinta, «convoca i propri soldati, nel numero di tremila, che dichiarano con lui di voler abbandonare gli dei mortali e seguire il Dio immortale proclamato da Remigio». Così, insieme alle sorelle Lantechilde, che era in effetti già cristiana, ma ariana, e Albofledis, che diventerà monaca, e i tremila soldati, Clodoveo va a Reims nel giorno di Natale dello stesso anno per farsi battezzare da Remigio nella basilica di quella città.

    E la leggenda prosegue nel racconto che di quell’episodio fa, con maggiori particolari, Incmaro, arcivescovo di Reims, quattro secoli dopo. Ecco che il re avanza «verso il fonte battesimale» come «un novello Costantino per lavarsi dell’antica lebbra e purificarsi con l’acqua fresca dalle sozze macchie, che lo ricoprono da tempo immemorabile». E Remigio lo accoglie rivolgendoglisi «con bocca faconda: – Piega silenzioso la tua cervice, adora ciò che incendiasti, incendia ciò che adorasti». Ma a questopunto accade l’imprevisto: Remigio non ha l’olio necessario all’unzione. E che, secondo Incmaro, c’è tale folla nella città, che il chierico incaricato di portare gli oli santi necessari all’unzione non è riuscito a farsi strada attraverso la moltitudine. Remigio non sa cosa fare e non trova altra risoluzione che pregare Dio di venire in suo aiuto; così avviene il miracolo.

    Una bianchissima colomba, simbolo dello Spirito Santo, appare dall’alto in una scia di luce e scende lentamente verso Remigio: nel becco porta un’ampolla di vetro grossa come una noce, contenente il crisma. Remigio prende l’ampolla mentre intorno si elevano nuvole di incenso e canti di lode a Dio: un’atmosfera magica si diffonde intorno al vescovo e a Clodoveo, che resta affascinato da quella visione e si sente sopraffatto, riuscendo a stento a sussurrare a Remigio:

    «È questo il regno di Dio che tu mi hai promesso?»

    «No», risponde il vescovo. «Questo è solo l’inizio della strada che porta a quello!». E subito lo battezza con l’olio, qualificandolo come «unto del Signore», ovvero re per volere divino.

    E a leggenda segue leggenda. Pochi anni dopo, nel 499, per celebrare l’evento, Clodoveo costituisce l’Ordine della Santa Ampolla o Ordine di San Remigio, del quale vengono a far parte solo quattro guerrieri, chiamati antistioni o seniores, ovvero dignitari, che diventano proprietari di terre e si pongono alle dipendenze del re con un giuramento di fedeltà. Sono milites, ovvero guerrieri con il cavallo, usato come strumento di battaglia, e pertanto si qualificano come i primi cavalieri della storia, ovvero della leggenda, definendosi come rappresentanti dell’aristocrazia franca. Dell’ordine ci è stato tramandato perfino l’emblema, ovvero una croce, raffigurante al centro una mano che riceve l’ampolla tenuta nel becco da una colomba con le ali spiegate. Di questi cavalieri non ci è rimasta alcuna notizia particolare, ma possiamo immaginarli fedeli scudieri del sovrano, in veste di guardie del corpo e votati alla morte per la difesa di Clodoveo «unto del Signore». Sono autentici cavalieri dello Spirito Santo.

    Sembra peraltro che, a imitazione del re, alcuni seniores si siano circondati a loro volta di guerrieri domestici o clienti, definiti satellites e gasindi, legati da un giuramento di fedeltà nei loro confronti. In questo contesto il senior Lisoye de Montmorency, dietro autorizzazione di Clodoveo, crea nel 500 l’Ordine del Cane, segno simbolico della fedeltà portata al re. Qualche anno dopo Montmorency istituisce l’Ordine del Gallo, destinato a ricompensare i guerrieri che l’hanno accompagnato al consiglio del re ad Orléans. Questi due ordini ben presto vengono unificati nel nome di Ordine del Cane e del Gallo, all’insegna del motto «Vigiles», che resta però in vita solo qualche anno, sparendo senza lasciar traccia. E ugualmente scompare con la morte di Clodoveo nel 511 l’Ordine della Santa Ampolla; anche se l’ampolla non va perduta.

    L’arcivescovo Incmaro nell’852 procede alla traslazione del corpo di san Remigio dal sarcofago in una cassa preziosa; il santo era stato sepolto alla moda romana e vicino al suo cadavere vi erano delle fiale con essenze profumate e una piccola ampolla. Incmaro ritiene che siano sacre reliquie scese dal cielo in quella notte miracolosa del Natale del 495, e così l’ampolla viene custodita come venerabile, diventando in concreto un riferimento emblematico della unzione divina dei re di Francia. Infatti il santo vaso, custodito dal vescovo di Reims, è utilizzato per l’incoronazione dei sovrani fino a Luigi XVI.

    La cattedrale di Reims

    Il titolo è Notre-Dame de Reims (Nostra Signora di Reims) e fu costruita sull’area di una precedente chiesa, una chiesa più antica, che venne distrutta da un incendio nel 1211 ed era eretta sul luogo dove sorgeva la basilica in cui Clodoveo fu battezzato nel 495. La cattedrale venne completata a metà del Trecento, ma la navata centrale fu successivamente allungata per fare spazio alle folle che partecipavano alle incoronazioni. Le torri campanarie sono alte 81 metri, e quella meridionale contiene due grandi campane, una delle quali pesa oltre10 tonnellate e fu chiamata Charlotte dal cardinale di Lorena nel 1570. I tre portali sono ricoperti di statue; quello centrale, dedicato alla Vergine, è sormontato da un rosone incastonato in un arco decorato da statue; la «Galleria dei Re» sopra al rosone mostra al centro la statua di Clodoveo e ai lati quelle dei suoi successori. La facciata del transetto verso nord è decorata con statue dei principali vescovi di Reims; l’interno contiene numerose statue, simili a quelle presenti all’esterno, e raffinati arazzi, tra i quali notevoli quelli fatti realizzare da Robert de Lenoncourt, arcivescovo durante il regno di Francesco i, che rappresentano la vita della Vergine. Magnifici i dipinti del Tintoretto e di Nicolas Poussin, oltre alle splendide vetrate di Marc Chagall installate sul retro e sul fianco della cattedrale. Il Tesoro della cattedrale contiene la Santa Ampolla fatta costruire da Carlo X nel 1825. L’edificio è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità nel 1991.

    Con la Rivoluzione Francese l’ampolla finisce di esistere: il 7 ottobre 1793 un deputato della Convenzione repubblicana, un certo Roux, su ordine di Joseph Fouché, la distrugge in segno di disprezzo per il suo religioso significato. Ma un fedele realista di nascosto ne raccoglie alcune schegge incrostate di balsamo secco e, durante la Restaurazione, quei frammenti vengono offerti ai Borbone tornati sul trono. Carlo x ordina che i microgranuli dell’antico balsamo siano miscelati con il crisma per preparare un nuovo unguento, con il quale, nel 1825 a Reims, il sovrano viene unto nell’incoronazione. Che sarà l’ultima. La nuova custodia fatta costruire appositamente per mantenere il balsamo da utilizzare in future incoronazioni, che peraltro non si verificheranno più, in realtà non ha nulla a che vedere con il sacro contenitore originario, definitivamente scomparso trentadue anni prima. La colomba che sovrasta quel reliquiario d’oro è artefatta e neanche la cantata di Gioacchino Rossini Il viaggio a Reims, appositamente realizzata per l’incoronazione, riesce a compiere il miracolo di dare a quella custodia una patina divina. E con le schegge della venerata reliquia è andato in frantumi qualsiasi riferimento alla mitica leggenda dei cavalieri della Santa Ampolla.

    I cavalieri della Tavola Rotonda

    All’insegna del Santo Graal

    Tutto nasce dal Graal. Che è il calice che Gesù usò durante l’Ultima Cena; viene consegnato a Pilato che, a sua volta, non volendo tenere nulla che sia appartenuto al Nazareno condannato a morte, lo dà al membro del Sinedrio Giuseppe d’Arimatea, discepolo segreto di Gesù. Pilato permette a Giuseppe anche di staccare il corpo di Cristo dalla croce e seppellirlo in un sepolcro; e in quella circostanza il membro del Sinedrio raccoglie nel calice il sangue sgorgato dalle ferite di Cristo.

    Giuseppe di lì a poco, nel clima di persecuzione dei seguaci di Cristo, finisce in prigione, e qui gli appare Gesù. Il Messia ha in mano il piatto in cui ha spezzato il pane, ovvero la patena, e glielo consegna raccomandandandogli di «commemorare la morte in croce con il calice», profetizzando che «saranno apparecchiate varie tavole per celebrare il sacramento», come scriverà Robert de Boron nel libro L’estoire dou Graal intorno al 1210. Inoltre «il contenitore del sacramento ricorderà il sarcofago di pietra in cui mi hai deposto», gli spiega Gesù, «la patena che vi sarà posta sopra ricorderà il coperchio con cui lo hai ricoperto, e il panno chiamato corporale ricorderà il sudario in cui mi hai avvolto».

    Giuseppe, una volta liberato dalla prigione, va via dalla Giudea insieme alla sorella Enygeus, al cognato Bron e alcuni discepoli, affrontando un lungo viaggio per mare fino al nord del Galles. Vuole diffondere il messaggio di Cristo e lo fa utilizzando il calice e rappresentando l’Ultima Cena. Invita i discepoli a sedere intorno ad una tavola apparecchiata a somiglianza di quella dove sedette Gesù con gli apostoli; verrà tramandata come la seconda tavola della santa celebrazione. Peraltro uno dei discepoli, in un gioco di parole, chiama il sacro contenitore «Graal, perché rallegra immensamente quanti stanno al suo cospetto, sentendosi sollevati come un pesce che, sfuggito alle mani di un uomo, torna all’acqua corrente». E il riferimento al pesce non è casuale; si dà il caso che il successivo custode del calice, alla morte di Giuseppe, sia suo nipote Elain, figlio di Bron, che viene soprannominato Re Pescatore, e i suoi seguaci, secondo Robert de Boron, costituiscono la Compagnia del Graal. In ogni caso il termine Graal trova un riferimento nel vocabolo medievale latino gradale, con il quale veniva chiamata una sorta di coppa nelle dimore aristocratiche.

    L’opera di evangelizzazione prosegue con questo secondo custode del Graal, che sposta la sua missione in Britannia, dove guarisce dalla lebbra il re pagano Kalafes, sovrano della regione di Logres detta Terra Foranea o Desolata, perché era stata oggetto di una devastazione. Kalafes si converte e, avendo ricevuto il battesimo da un sacerdote chiamato Alfesim, assume il nome di Alfasem, e insieme ad Elain costruisce un castello a Corbenic, utilizzato per custodire il Graal ed essere la residenza di una stirpe di Re Pescatori. Così a Kalafes succede Giosuè, fratello di Elain, e quindi Manaal, Lambor e il figlio Pellehan, in un susseguirsi di generazioni lungo quattro secoli, fino a Pellès e suo figlio Eliezer. Quest’ultimo vanta un più ampio territorio con altri castelli, tra i quali la Cassa, dove vive sua sorella Amite. Il Re Pescatore è però malato per una menomazione infertagli tra le cosce da un’arma non ben definita, probabilmente una lancia, visto che soltanto il contatto con la mitica Lancia di Longino potrebbe ridare forza e salute al Re Pescatore, che pertanto custodisce da invalido il Graal.

    A fronte dell’ultima generazione dei Re Pescatori nella figura di Pellès, nell’epopea della seconda metà del V secolo scritta da Geoffroy de Monmouth intorno al 1150, compaiono Uther e suo fratello Aurelio Ambrosio, re della Britannia, territorio identificato ultimamente dai ricercatori inglesi Steve Blake e Scott Lloyd nelle regioni di Gwynedd, Powys e Galles del Sud. Con loro è quella sorta di consigliere fraudolento che è il mago e profeta Merlino, generato una notte dall’incubo Aquibez, un ekupede, ovvero un angelo decaduto per lussuria, nella figlia del re di Dementia, a sud del Galles. Insieme respingono l’assalto dei Sassoni, poi Uther va in Irlanda per compiere la mitica impresa di impossessarsi di prodigiosi macigni che delineano il Cerchio dei Giganti del monte Kilaraon e trasportarli in Britannia. Merlino lo aiuta con i suoi sortilegi: fa crollare i macigni e li trasferisce presso Salisbury, edificando un monumento per i soldati morti nella battaglia contro i Sassoni, che andrebbe identificato nel santuario di Stonehenge.

    Pochi giorni dopo il ritorno di Uther, Aurelio Ambrosio muore avvelenato e Uther diventa re; Merlino gli aveva preannunciato l’evento dall’apparizione nel cielo di una fantastica stella in forma di testa di drago, e da quella «testa di drago», ovvero pandragon, viene il soprannome di Uther che si chiamerà Utherpandragon. Ma in quella stessa circostanza Merlino vaticina anche al nuovo re la nascita di un figlio, Artù, che sarà re e avrà fama in tutto il mondo. Tanto che già ne prevede le vicende in collegamento alla storia del Graal ed è ansioso di metterle per iscritto, dettandole al suo allievo mastro Blaise, che viene ufficialmente incaricato di tramandare le imprese della Compagnia del Graal, come si legge nella storia di Robert de Boron. «E io ti dico che mai la storia della vita di un re sarà ascoltata tanto avidamente quanto quella di re Artù e della sua corte», profetizza Merlino, e «il tuo libro, chiamato II libro del Graal, sarà ascoltato con il massimo piacere, perché ogni parola ed ogni impresa sarà buona e benefica».

    Utherpandragon mette subito in atto la fecondazione del mitico figlio. Accade che alla festa per la sua incoronazione intervenga il duca di Cornovaglia, Gorlois, con la moglie Ygerne; appena la vede, Utherpandragon ha una voglia irrefrenabile di possederla, per cui la copre di attenzioni. Il duca si insospettisce e abbandona furioso la festa, trascinando con sé Ygerne. Utherpandragon si ritiene offeso e dichiara guerra al duca, facendo scorrerie in Cornovaglia; Gorlois si asserraglia nella città di Dimiloc, mentre rinchiude la moglie nella fortezza di Tintagel. Utherpandragon freme dalla voglia di andare a letto con Ygerne e, su suggerimento dell’amico Ulfin, attua un piano diabolico progettato da Merlino, che si basa su tre cambiamenti di identità. Grazie ad un filtro Utherpandragon diventa la copia perfetta di Gorlois, Ulfin prende l’aspetto di un amico del duca, e Merlino è tale e quale a Bretel, il paggio di Gorlois. Così camuffati i tre entrano nel castello e fin nelle stanze di Ygerne; Utherpandragon soddisfa il suo desiderio con la duchessa, che peraltro si mostra accondiscendente con chi ritiene sia suo marito. E quella notte viene concepito Artù.

    Il monumento di Stonehenge

    Il monumento megalitico, che risale al 11 millennio a.C., è nella contea di Wilt, 12 km a nord di Salisbury. Inizialmente una superficie circolare, con diametro di 100 metri era circoscritta da un fossato con un ingresso a sud-est, caratterizzato da un porticatio e un monolite. Nell’età del bronzo fu ingrandito con blocchi di 50 tonnellate disposti su quattro cerchi concentrici, opera che nella leggenda arturiana è accreditata ad Uther. È ritenuto una sorta di santuario del culto solare, perché nel solstizio d’estate il sole è sull’asse dell’ingresso.

    Intanto l’esercito di Utherpandragon conquista Dimiloc, abbandonandosi al saccheggio, e Gorlois muore nella vana difesa. Alcuni suoi sudditi corrono a Tintagel per annunciare la disfatta, e qui hanno la sorpresa di vedere vivo il loro sovrano, che credevano di aver lasciato morto a Dimiloc, e in compagnia di Ygerne. A questo punto Utherpandragon, appresa la sconfitta del nemico, corre al suo accampamento, riprende la propria identità e torna con l’esercito a Tintagel, impossesandosene. E Ygerne diventa la sua sposa, futura madre di Artù, nonché di Anna, sorella del mitico re, chiamata anche Belisenda o Morcadès.

    Ma Utherpandragon mette in atto un altro consiglio di Merlino: l’istituzione della Tavola Rotonda. È la terza delle tre tavole del Graal, alle quali fa riferimento Gesù quando appare a Giuseppe d’Arimatea. La prima risale all’Ultima Cena e la seconda è quella della Compagnia del Graal; questa terza è destinata invece ad accogliere dodici fedeli sudditi del re, nello stesso numero degli apostoli, anche se un posto dovrà restare vuoto. È il Posto Proibito, quello occupato da Giuda nella prima tavola e destinato «a chi sarà stato alla presenza del Graal»; tanto che chi sedesse in quel posto senza averne diritto sarebbe inghiottito dalla terra o incenerito. Ma Merlino non dà a Utherpandragon ulteriori indicazioni, se non quella di designare i membri della tavola tra i nobili della sua corte, che avranno pari dignità intorno ad una tavola circolare, prevenendo ogni divergenza sull’assegnazione del posto e sulla gerarchia. Se è così come racconta Robert de Boron, la Tavola Rotonda nasce come una sorta di consiglio del re e comunque senza uno specifico riferimento alla ricerca del Graal da parte dei nobili, ricerca che evidentemente diventerà motivo esaltante dei cavalieri intorno alla tavola retta da Artù, il figlio di Utherpandragon.

    Artù, appena nato, è assegnato a Merlino per ricompensare l’aiuto prestato dal mago a Utherpandragon nell’assalto al ducato di Cornovaglia; oltretutto il mago ha fatto presente al sovrano che il bambino non sarebbe stato riconosciuto come legittimo erede al trono perché concepito fuori della legge del matrimonio, e quindi sarebbe stato meglio tener segreta quella nascita, facendo crescere il figlio in luogo segreto, senza alcun pericolo per la sua stessa esistenza. Così Merlino lo affida al barone Cynyr Farfog, accompagnandolo con una missiva di Utherpandragon, nella quale gli viene rivelato che il bimbo è figlio del re; lo stesso barone provvede a farlo battezzare con il nome di Artù.

    Utherpandragon non vedrà più Artù, che cresce alla corte di Cynyr insieme al figlio di questi, Cai, ignorando la sua origine, educato nell’arte militare sulla base dei principi cristiani con onore e dignità, secondo il codice della cavalleria; Cai infatti sarà un cavaliere e Artù potrà diventare un palafreniere al servizio di un nobile cavaliere o dello stesso Cai. Utherpandragon viene tenuto al corrente dell’educazione di Artù da Cynyr, che resta fedele tutore del ragazzo, assicurando che difenderà la sua assunzione al trono di Britannia in caso di morte di Utherpandragon.

    Che in effetti muore nel 480, secondo Goffredo di Monmouth, combattendo contro i Sassoni, nuovamente all’assalto del suo territorio. Ha inizio allora la disputa della discendenza, dal momento che ufficialmente Utherpandragon è morto senza eredi maschi; e Merlino si mette subito in movimento per guidare l’elezione di Artù. Intanto, in un piano lungimirante, s’impossessa della Tavola Rotonda e la consegna a Leodagan, re di Carmelide, padre di Ginevra, futura sposa di Artù.

    021

    Howard Pyle, Utherpandragon.

    Alla corte di re Artù

    Quando Cynyr viene convocato con il figlio Cai alla corte reale della Bretagna, per partecipare con gli altri nobili britanni alla scelta del successore di Utherpandragon, il quattordicenne Artù è al loro seguito come palafreniere di Cai. Tutti i nobili candidati alla discendenza sono stati convocati per il giorno di Natale nella cattedrale di Caer Fuddai dall’arcivescovo Dubricio; ed è presente anche il mago Merlino che, come fiduciario del sovrano morto, è divenuto arbitro di quello che si può considerare una sorta di testamento di Utherpandragon. Ha conficcato «dentro una roccia quadrata color del marmo una spada», sulla quale è incisa questa scritta: «La spada è il segno che indicherà colui che è degno re alla vista di Dio. Nessuno sarà mai in grado di estrarla dalla roccia eccetto quello designato da Dio». Si chiama Excalibur, ma i nobili non sanno che è stata forgiata nella paradisiaca isola di Avalon, terra al largo delle coste del Galles del Nord, regno della fata Morgana, misteriosa sorellastra di Artù, in quanto figlia di Ygerne e Gorlois, nonché amante di Merlino. E da lei il mago ha avuto quella spada, «la migliore mai esistita, che taglia il ferro come fosse legno», predestinata a diventare il mezzo per elevare Artù al regno. Infatti sarà re colui che riuscirà ad estrarla dalla pietra; peraltro Cynyr non rivela ai nobili la vera identità di Artù, probabilmente perché non ritiene che sarebbe creduto, e così si svolge la gara.

    Duchi e baroni si cimentano nell’impresa di sfilare la spada dalla roccia, ma nessuno ce la fa, e allora l’arcivescovo rinvia la prova ad altra data, lasciando dei soldati di guardia alla spada. Nel frattempo vengono bandite giostre e quintane, e nel corso di una di queste Cai rompe la propria spada e pertanto chiede ad Artù di procurargliene un’altra. Accade che il giovane girovagando tra i padiglioni non riesca a trovare una spada, finché si ritrova nello spiazzo antistante la chiesa, dove spicca la spada incastrata nella pietra. Stranamente i soldati di guardia si sono allontanati e allora Artù velocemente e senza alcuna fatica la sfila dalla roccia, nascondendola sotto la tunica, e la porta a Cai. Il giovane però la riconosce ed è fuori di sé dalla gioia, urlando: «Io sono il re! Io sono il re!». Il padre non crede ai suoi occhi e va di corsa con il figlio e Artù al piazzale antistante la chiesa e vede che in effetti la spada non c’è più; ma a questo punto Cai confessa al padre che la spada gli è stata consegnata da Artù e che evidentemente è stato lui ad estrarla dalla roccia. Cynyr allora ordina ad Artù di rimettere la spada al suo posto e di tirarla fuori un’altra volta davanti a lui; e il giovane palafreniere lo fa senza alcuno sforzo.

    A questo punto Cynyr non può nascondere più la vera identità del giovane; Artù è figlio di Utherpandragon e per questo è riuscito ad estrarre la spada dalla roccia senza difficoltà. E invita i nobili a rendere omaggio al giovane e riconoscerlo come re. Ma i nobili, una volta tornati e avendo visto il giovane rinfilare ed estrarre la spada nella roccia con estrema naturalezza, dichiarano che non avrebbero riconosciuto mai re quel ragazzo, non ritenendolo un nobile; e pretendono di ripetere la prova. Lo fanno, ma falliscono tutti. Allora l’arcivescovo Dubricio decide di rimandare ogni decisione alla festa religiosa della Candelora, invitando anche Artù; tutti ripetono la prova e nessuno riesce a sfilare la spada, mentre Artù ce la fa con la solita naturalezza. Ma i nobili ancora non lo riconoscono. E c’è una terza prova, la vigilia di Pasqua, che dà il solito risultato: a questo punto tutti i nobili decidono di riconoscere nel quindicenne Artù il nuovo sovrano. Che il sabato santo viene fatto cavaliere e il giorno di Pasqua è incoronato nella chiesa di Caer Fuddai dall’arcivescovo Dubricio.

    Inizia quel giorno il regno di Artù, che è avvolto nella leggenda, ma ha in qualche modo un riferimento storico nelle battaglie contro Sassoni, Pitti e Scoti da lui combattute a fianco di duchi e baroni britanni come capitano supremo. Le battaglie sarebbero state ben dodici, secondo quanto racconta la Historia Brittonum scritta verso l’800 a Bangor, nel Galles del Nord, e attribuita a Nennio. L’ultima battaglia in Gran Bretagna è presso il Monte Badon, battaglia in cui Artù personalmente avrebbe ucciso 960 nemici, conquistando tutta la Gran Bretagna e le isole del Nord. Ma Artù combatte anche contro i Romani e i popoli dell’Europa occidentale, facendo suo il continente fino ai Pirenei, dopo aver ucciso un gigante che spargeva il terrore nella regione di Mont-Saint-Michel, battaglia per la quale si ipotizza l’anno 537. L’opera di Nennio segnala che il sovrano quando combatte ha sempre con sé la spada Excalibur e dall’ottava battaglia porta lo scudo chiamato Pridwen, sul quale è incisa l’immagine della Vergine Maria; Artù ha anche una lancia speciale chiamata Roit e due cavalli, Passeland e Vair de Brevelet.

    Camelot

    È per tradizione la località dove sorgeva il castello di Artù e come tale compare nel Lancillotto di Chrétien de Troyes. Viene localizzata nel Galles alla confluenza dei fiumi Camlad e Severne, là dove in effetti si trova la città di Montgomery. Ma gli studiosi hanno chiarito che non esiste alcun rapporto tra questa città e la mitica Camelot, che «resta una mera invenzione letteraria», come hanno scritto Steve Blake e Scott Lloyd. Così non ha neanche troppo credito l’interpretazione dello scrittore inglese Thomas Malory, che nella sua Le Morte d’Arthur del 1485 tende a identificare Camelot con Winchester, nell’Hampshire, capitale d’Inghilterra dall’827; peraltro nel salone del castello della città è esposta una tavola che viene presentata come la Tavola Rotonda. Ha un diametro di 6 metri circa, pesa oltre una tonnellata ed è costituita da 121 pezzi di quercia di almeno 7 alberi; la datazione al radiocarbonio fa risalire la sua costruzione al 1260, probabilmente nella fase iniziale del regno di Edoardo I, e quindi non è l’originale, ma una imitazione voluta proprio dal sovrano inglese. Appare anche abbellita da una decorazione che risale al XVI secolo, probabilmente per la visita dell’imperatore Carlo V alla corte di Enrico VIII nel 1522; infatti Artù è raffigurato nelle sembianze di un giovane Ènrico, in un’identificazione del sovrano con il mitico re dei Britanni.

    Secondo i resoconti delle gesta di Artù narrate da Chrétien de Troyes, Nennio, Guglielmo di Malmesbury e Robert de Boron, Artù e i nobili combattevano a cavallo, almeno fin quando non erano disarcionati, e continuavano come fanti finché uno scudiero non procurava loro un’altra cavalcatura. Artù in persona era solito trascinare i suoi all’assalto, sventolando il dragone dorato del suo drappo, là dove ogni battaglia si riduceva a scontri corpo a corpo, in una serie di singoli duelli.

    E c’è poi la curiosità di un cane, una sorta di mascotte del re, chiamato Cabal, ovvero cavallo; mentre insegue un cinghiale, Cabal lascia l’impronta delle zampe su una pietra, e allora Artù decide di collocare quella pietra su un cumulo di sassi cui dà il nome di Caern Cabal (Teschio di Cavallo), dal quale nessuno riuscirà mai a separare la pietra, perché se mai è portata via di lì, il giorno dopo vi ricompare.

    Per la capitale del suo regno si è fatto il nome di Camelot, con il relativo castello, probabilmente nel Galles del Sud, sede della sua reggia, incentrata sulla Tavola Rotonda, intorno alla quale sedevano quelli che possiamo considerare i suoi ministri, ovvero uomini d’arme definiti cavalieri. Ad Artù si deve appunto la creazione della compagnia dei Cavalieri della Tavola Rotonda, giunta al re come dono per le sue nozze con Ginevra, figlia di Leodagan.

    E Merlino ha rivelato ad Artù il motivo sacro della Tavola Rotonda, strettamente legata al Graal, in un preciso disegno per il suo destino, quello di diventare imperatore di Roma. E questo non potrà verificarsi «finché un cavaliere della Tavola Rotonda non avrà compiuto fatti d’arme e imprese cavalleresche in tornei e andando alla ricerca di avventure, tali da diventare il cavaliere più famoso del mondo», come si legge nella storia di Robert de Boron. «Quando quel cavaliere avrà raggiunto simili altezze da essere considerato degno di entrare alla corte del ricco Re Pescatore malato, e avrà chiesto a cosa era servito il Graal e a chi era destinato, il Re Pescatore guarirà immediatamente. Poi gli dirà le parole segrete di Nostro Signore prima di passare dalla vita alla morte. E quel cavaliere custodirà il calice del sangue di Cristo. Con questo svanirà l’incantesimo che affligge la terra di Britannia e la profezia si compirà».

    La ricerca del Santo Graal è intrapresa dall’intera compagnia della Tavola Rotonda, ma lo scopo della ricerca non è quello di risanare il Re Pescatore, piuttosto significa il cammino del cavaliere verso la salvezza della propria anima nella contemplazione del contenuto del calice: Cristo fatto carne nella Transustanziazione. È così che la Tavola Rotonda, simbolo della militanza secolare della cavalleria di Dio, rispecchia una società cavalleresca caratterizzata da valore militare e cortesia, sempre al servizio di chiunque sia vittima dell’ingiustizia, per il trionfo della presenza di Cristo tra gli uomini.

    La compagnia della Tavola Rotonda è costituita da dodici cavalieri, che siedono intorno al re. Tra i primi sono i parenti di Artù, come il cugino Calogrenant e i nipoti Ivano, Galvano e Gueheriet; il siniscalco Keu e Perceval, nipote del Re Pescatore, più di ogni altro impegnato nella riconquista del Graal, insieme a Bohort e Galaaz, rispettivamente cugino e figlio di Lancillotto del Lago, che lega il proprio nome alla passione d’amore con la regina Ginevra; nonché i compagni di avventura di quest’ultimo, Galahot e Lionel, oltre a Tristano, la cui storia resta segnata dall’amore per Isotta. Ma i cavalieri, dai dodici iniziali, passano a cinquanta, quindi a centocinquanta e poi ancora a duecentocinquanta e trecentosessantasei, così che la Tavola Rotonda diventa il nucleo dei primi dodici, intorno al quale ruota un vero e proprio ordine cavalleresco. Peraltro ogni posto della tavola reca un nome, che svanisce quando il titolare muore, e a cui subentra il nome di un nuovo cavaliere scelto tra vari candidati dell’ordine.

    Quando siedono intorno alla tavola i cavalieri narrano le avventure intraprese per la ricerca del Graal, che si arricchiscono di varianti di carattere guerresco e amoroso, a volte con la sovrapposizione di imprese compiute da più cavalieri; e Artù, spesso coinvolto nelle avventure, su consiglio di Merlino provvede a farle mettere per iscritto affinché se ne conservi memoria tra i posteri. Sono nate così le trame di numerosi poemi all’insegna dell’immaginario, che è capace di trasformare il reale in visioni fantastiche dove, come ha scritto Jacques Le Goff, «il meraviglioso forma un sistema insieme al miracoloso e al magico». Ed ecco svilupparsi allora leggende e miti dei protagonisti della Tavola Rotonda.

    Ivano, il cavaliere del leone

    Ivano, figlio di Morgana, è il protagonista di una delle avventure sorte a margine della ricerca del Graal. Per lui tutto è cominciato con l’arrivo di suo cugino Calogrenant alla corte di Artù. Il cavaliere aveva raccontato l’avventura capitatagli nella foresta di Brocelandia e di come era stato fortunato ad esserne uscito vivo. Calogrenant, su indicazione di un gigante mostruoso, aveva scoperto una fontana che sgorgava da un blocco di pietra, ricco di gemme preziose e con un enorme pino dal quale pendeva un bacile d’oro. Appena sceso da cavallo per bere, gli si era scatenato improvvisamente addosso un violento temporale, durato appena un minuto, ma sufficiente a far cadere un fulmine sulla pianta e spogliarla delle foglie; subito dopo uno stormo di uccelli si era posato sui rami nudi. E altrettanto improvvisamente ecco comparire da dietro l’albero un cavaliere, che si era presentato come Esclados il Rosso, custode della fontana; aveva accusato di tentativo di furto Calogrenant e lo aveva sfidato a duello, lasciandolo ferito in mezzo alla strada.

    Il racconto è così affascinante che Artù stesso vorrebbe avventurarsi alla ricerca della fontana insieme ai cavalieri, ma Ivano lo precede perché vuole essere il primo, e si allontana dalla corte in gran segreto raggiungendo la foresta di Brocelandia. E qui Ivano rivive l’avventura di Calogrenant fino all’apparizione del cavaliere della fontana, Esclados il Rosso; ma Ivano nel duello ha la meglio, costringendo alla fuga il cavaliere mortalmente ferito e incalzandolo in un lungo inseguimento. Esclados ripara in un castello e Ivano non fa in tempo a varcare il portale, perché le saracinesche in ferro si abbattono fino a terra; quella esterna cala come una spada sul suo cavallo, tranciandogli la parte posteriore dietro la sella; la saracinesca interna cala davanti a lui, così che Ivano resta preso in trappola.

    Intanto Esclados, in seguito alle ferite riportate, muore, e i suoi soldati vanno alla ricerca di Ivano, certi di trovarlo intrappolato nelle saracinesche, smaniosi di vendicare la morte del loro signore. Ma Ivano non c’è più. È accaduto che Lunete, ancella della moglie di Esclados, Laudine, avendo riconosciuto in Ivano il cavaliere che in passato le ha reso un favore, lo ha liberato; e lo ha fatto nascondere in una stanza del castello, dandogli anche un anello, che lo rende invisibile. Ivano così può assistere ai funerali del suo avversario e vedere la vedova Laudine piangere sulla sua tomba: se ne innamora all’istante. Ed è ancora Lunete ad aiutare Ivano in veste di paraninfa: eccola infatti presentarlo alla sua signora come un fedele difensore della fontana. Chi potrebbe farlo meglio del cavaliere che ha vinto il difensore precedente? Che lo sposi, perché sarebbe oltretutto rischioso per Laudine restare sola nel castello.

    Vengono celebrate le nozze e Ivano si mette a guardia della fontana. Pochi giorni dopo arriva Artù con gli altri cavalieri alla ricerca della fontana e si imbattono in Ivano, ma non lo riconoscono, avvolto com’è nell’armatura. E il siniscalco Keu lo sfida a duello, ritenendo che sia Esclados, ma viene disarcionato; subito dopo Ivano si presenta agli amici, invitando tutti a seguirlo nel castello. Artù e i cavalieri sono ospitati regalmente per alcuni giorni e quando stanno per andarsene Galvano ammonisce il cugino Ivano a non abbandonarsi agli agi della vita matrimoniale nel castello e a tornare alla cavalleria errante, frequentando i tornei.

    Ivano chiede licenza alla moglie, che concede allo sposo un anno di congedo; il cavaliere lo trascorre unendosi alla compagnia della Tavola Rotonda, ma tornei e avventure lo divagano a tal punto che dimentica la scadenza. Laudine s’infuria e gli invia una damigella con il messaggio che lei non lo accoglierà più; Ivano si precipita al castello, ma Laudine non lo fa entrare, accusandolo di essere un fellone. Folle di dolore, Ivano vaga nella foresta vivendo come un selvaggio e andando a caccia per un eremita, che gli dà pane e acqua. Si nutre solo di pane e acqua finché, vittima della depressione, rinuncia anche al pane e non beve; così, incosciente e debole, viene soccorso dalla padrona di un castello, che lo riconosce da una cicatrice e lo cura con un magico unguento.

    Ivano si riprende e consacra lo spirito cavalleresco al servizio dei deboli, a cominciare dalla liberazione di una castellana da un barone che l’ossessiona corteggiandola perché vorrebbe sposarla a tutti i costi. Così un giorno arriva a salvare un leone attaccato da un serpente e da quel momento l’animale, riconoscente, caccia per lui e diventa il suo inseparabile compagno; tanto che Ivano, deciso a nascondere la propria identità per aver trattato indegnamente la moglie Laudine, sarà noto a tutti come il cavaliere del leone. Così racconterà le sue gesta Chrétien de Troyes nel romanzo Le chevalier au lion intorno al 1180.

    Un giorno capita presso il castello di Laudine, dove Lunete è stata arrestata sotto l’accusa di averlo aiutato, tradendo la propria signora; rischia di finire al rogo il giorno seguente. Ivano si ripromette di affrontare i suoi tre accusatori a singolar tenzone e trascorre la notte in un castello vicino, dove gli si presenta un gigante che a sua volta lo sfida a duello. Il giorno dopo Ivano è sottoposto ai due combattimenti, nei quali ha la meglio grazie all’aiuto del leone, pur restando ferito.

    Ma l’attività cavalleresca di Ivano è senza tregua. Infatti, ripresosi dalle ferite, si offre per difendere i diritti di una dama, privata dell’eredità, contro il campione della sorella maggiore, senza sapere che si tratta di suo cugino Galvano. Mentre si reca al duello si ferma ad un castello, dove trecento dame e damigelle sono tenute prigioniere e costrette a tessere interminabili tele sotto la sorveglianza di due diavoli. Ivano e il leone li sconfiggono, liberando le donne.

    E arriva il duello tra Galvano e Ivano, ma senza la presenza del leone perché tutto si svolga alla pari. Lo scontro non ha un vincitore: succede che i due, durante una pausa per riprender fiato, si riconoscano e rinuncino a combattersi; peraltro la disputa tra le due sorelle sarà risolta da Artù. E risorge anche l’amore di Laudine, ancora una volta grazie all’intercessione di Lunete; è il trionfo della cavalleria all’insegna della cortesia.

    Lancillotto e Ginevra

    La sua infanzia è già magica, così come è raccontata nel Lancelot en prose scritto intorno al 1230. È figlio del re Bano di Benoic, vassallo di Artù, che muore di dolore fuggendo dal suo castello in fiamme; nel trambusto di quel momento, una fata lo rapisce e lo porta nella propria dimora, che è in realtà un lago. Si chiama Galahaz, l’Eletto, quasi una designazione mistica di Dio tratta dal libro dei Numeri della Bibbia; ma la Dama del Lago, che lo alleva nel suo regno incantato, lo qualifica Principe e rispolvera per lui il nome del nonno, Lancillotto, istruendolo sulle regole del mondo cavalleresco. È Lancillotto del Lago. All’età di diciotto anni viene presentato alla corte di Artù, dove il giovane alla vigilia di ricevere l’investitura di cavaliere incontra la regina Ginevra. Resta affascinato dalla sua bellezza e l’emozione è immensa perché la cerimonia dell’investitura è completata proprio dalla regina che gli fa dono di una spada. E Lancillotto si dichiara suo cavaliere.

    Il novello cavaliere conquista grande fama in numerose avventure. Eccolo estrarre dal corpo di un cavaliere ferito schegge di lancia e dalla testa un frammento di spada; eccolo conquistare il castello detto della Dolorosa Guardia e mettere fine agli incantesimi che da lì provenivano; eccolo dare inizio ad una grande amicizia con Galeotto, che diventa vassallo di Artù. Peraltro Lancillotto invia a Ginevra tutti gli avversari che sconfigge, ma quando ritorna alla corte di Artù le confessa il suo amore. Ed è proprio grazie a Galeotto, costituitosi in veste di paraninfo, che Lancillotto riesce a dare un primo bacio alla regina. Anche la Donna del Lago incoraggia questo amore, volendone però sottolineare la purezza; invia infatti a Ginevra uno scudo che reca le effigi di un cavaliere e di una dama separati da una fenditura, proprio per simboleggiare la casta relazione dei due.

    Gli eventi precipitano quando Artù trascorre una notte con la strega Camilla, che assume le forme di Ginevra, e allora la vera Ginevra si abbandona all’amore di Lancillotto, così che la fenditura dello scudo si salda. Ma Camilla subito dopo attira nel suo amplesso il cavaliere Galvano, Galeotto e lo stesso Lancillotto, che perde temporaneamente la ragione. Interviene allora la Dama del Lago che ridà il senno al suo figlioccio, permettendogli di liberare gli altri prigionieri della strega Camilla, tranne Artù. Questi resta irretito dalla falsa Ginevra, e Lancillotto è più che mai legato alla regina, tanto che Galeotto si rende conto di essere di troppo e si allontana da Camelot con Galvano.

    Lancillotto si sente triste per la lontananza dei due amici e quando viene a sapere che Galvano è stato rapito da un altro cavaliere parte alla sua ricerca; lo libera e va sulle tracce di Galeotto, ma invano. Questi se ne sta isolato, tormentato da sogni che gli preannunciano la morte e contatta un santone che gli spiega il significato funesto di certe visioni, rivelandogli, tra l’altro, che Lancillotto ha perduto il suo nome di battesimo Galahaz perché l’amore per Ginevra gli impedirà di trovare il Graal. Galeotto si sente colpevole per aver agevolato la relazione di Lancillotto con Ginevra e quando gli arriva, falsamente, la notizia della morte dell’amico, muore.

    La storia di Lancillotto idealmente prosegue nel romanzo di Chrétien de Troyes Le chevalier de la Charrette, scritto intorno al 1180. Il romanzo inizia con Galvano in compagnia di un cavaliere dal volto coperto, in realtà Lancillotto, sulle tracce di Ginevra e di altri cavalieri prigionieri di Meleagant, figlio di Baudemagu, vassallo di Artù, nel castello di Gorre, in Scozia.

    I due cavalieri s’imbattono in una carretta condotta da un nano, che si mostra disponibile a guidarli al castello, se uno dei due cavalieri monterà sulla carretta; è disonorevole per un cavaliere montare sulla carretta, utilizzata per il trasporto al patibolo dei condannati a morte esposti al ludibrio dei passanti, ma Lancillotto, mentre Galvano lo segue a cavallo, lo fa, tutto preso dal pensiero di Ginevra, ravvivato dal contatto con uno dei suoi biondi capelli rimasto in un pettine che porta con sé.

    Giunti in vista di una roccaforte, i cavalieri devono scegliere tra due diversi sentieri che conducono a Gorre; Galvano sceglie quello per un ponte Sommerso, mentre Lancillotto si dirige verso il ponte della Spada, dopo essersi fatto riconoscere dall’amico. Mentre procede sul proprio cammino, Lancillotto giunge ad un cimitero, dove, da un’incisione su una lastra di marmo tombale, apprende che riuscirà a salvare Ginevra e gli altri cavalieri; non riesce però ad aprire un’altra tomba, dalla quale si leva una voce che gli rivela come l’amore per Ginevra gli impedirà di conquistare il Graal.

    Lancillotto procede carponi lungo la lama affilata della spada inserita nel ponte, riportando alcune ferite, ma riuscendo ad arrivare nel castello di Gorre: qui affronta in duello Meleagant, ma mentre sta per sopraffarlo, lo scontro è interrotto da Baudemagu. I cavalieri saranno liberati con la regina, e nell’attesa del mattino Lancillotto fa la guardia a Ginevra, senza peraltro giacere con lei. Ma sul letto della regina restano alcune gocce di sangue delle ferite del cavaliere, che vengono scoperte da Meleagant. Questi accusa allora Ginevra di adulterio, ma la sua innocenza verrà dimostrata da Lancillotto in un duello con Meleagant, che viene nuovamente interrotto da Baudemagu.

    Ora i cavalieri prigionieri possono ripartire con la regina, ma Lancillotto viene catturato dagli uomini di Meleagant e imprigionato in una torre. Gli altri cavalieri s’imbattono in Galvano, ancora impegnato nel tentativo di superare il ponte Sommerso; lo liberano e tutti insieme con Ginevra

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