I generali di Hitler
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La vita, le battaglie, i crimini e la morte degli uomini che giurarono obbedienza al Führer
I generali di Hitler che guidarono la Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale furono nel loro insieme probabilmente i migliori comandanti che una forza combattente abbia mai avuto. Ma, nonostante le indubbie capacità, non riuscirono a evitare la sconfitta della Germania. Questo libro racconta la storia di più di centoventi di loro, tra feldmarescialli e generali dell’esercito, della Marina, dell’Aeronautica e delle Waffen SS. La vita, le battaglie, le vittorie, le sconfitte, i crimini, la prigionia e la morte di uomini che diedero tutto per la patria ma che si dannarono per obbedire a Hitler. Un testo completo di mappe delle campagne militari, delle descrizioni delle uniformi, dei gradi e delle onorificenze e, per la prima volta, dell’elenco dei 1149 generali che prestarono servizio nelle forze armate tedesche durante il nazismo.
Le storie di chi ha scelto di servire il regime nazista
Tra i temi trattati nel libro:
- I generali dello stato maggiore generale
- I feldmarescialli
- I generali combattenti
- I comandanti militari: Herman Göring e Heinrich Himmler
- I generali che si opposero a Hitler
- I generali che commisero crimini di guerra
- Wilton Park e Trent Park: i generali prigionieri in Inghilterra
Marco Lucchetti
È nato a Roma. Laureato in Giurisprudenza, è ufficiale della riserva e Benemerito dell’ordine dei Cavalieri di Vittorio Veneto. Appassionato di storia militare e uniformologia, è anche scultore e pittore di figurini storici e titolare di una ditta produttrice di soldatini da collezione. Consulente per numerosi scrittori, collabora con «Focus Wars». Per la Newton Compton ha scritto 101 storie su Mussolini che non ti hanno mai raccontato, La battaglia dei tre imperatori, 1001 curiosità sulla storia che non ti hanno mai raccontato, Le armi che hanno cambiato la storia e I generali di Hitler.
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Anteprima del libro
I generali di Hitler - Marco Lucchetti
Prefazione
Erano quelli vestiti meglio. Erano quelli dall’aspetto più marziale, nei film di guerra prodotti da Hollywood e dintorni che siamo stati abituati a vedere fin da piccoli, al cinema come in televisione. Ce li presentavano come i cattivi
, anche se talvolta li umanizzavano, come Marlon Brando ne I giovani leoni; eppure non potevamo fare a meno di averne soggezione, di rimanere affascinati dalla loro classe, che spesso accompagna la loro fiera figura stagliarsi tra le macerie che si lasciavano alle spalle.
Erano i comandanti nazisti.
Prima ancora che dell’indottrinamento di Hitler, gli uomini che hanno occupato i vertici delle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale sono il risultato e il prodotto di una tradizione, che possiamo far ascendere, a seconda dell’ottica con cui si affronta la storia, all’affermazione del Secondo Reich con la vittoria della Prussia sulla Francia nel 1871, alla militarizzazione prussiana di Federico ii il Grande un secolo prima, o addirittura, risalendo ancor più indietro nel tempo, al xvii secolo, alla conflittualità endemica tra Stati tedeschi durante la guerra dei Trent’anni. Ciascuno è libero di valutare quando la Germania ha iniziato a evidenziare quei tratti guerrieri che ne hanno fatto lo Stato più versato nell’arte militare in epoca moderna (una corona che, tuttavia, qualcuno potrebbe attribuire anche all’Inghilterra), così come i romani lo erano stati nell’epoca antica. Qualcuno potrebbe anche azzardarsi a risalire ai tempi di Arminio, quando le tribù germaniche delle foreste a oriente del Reno si dimostrarono il solo popolo che l’Urbe non riuscì ad assoggettare: il loro indomito spirito bellico avrebbe rappresentato per Roma un ostacolo troppo duro da superare.
Se riusciamo a prescindere dagli eventi orribili di cui si sono resi correi, i comandanti ai quali Hitler delegò la guida dei suoi eserciti erano la punta di diamante di un sistema militare di straordinaria efficienza, che non può non suscitare ammirazione e spirito di emulazione. Di estrazione nobiliare o meno che fossero, i personaggi inquadrati in questa brillante e attenta rassegna hanno contribuito tutti, in maggiore o minore misura, alla prepotente ascesa del Terzo Reich con la forza delle sue armi, ritagliandosi un posto nella storia militare più ancora dei loro omologhi negli eserciti avversari. E le loro vicende, belliche e umane, inserite in un contesto che ne ha fatto degli eroi tragici e perdenti, vittime dei loro stessi errori e di scelte discutibili, li rende, ancora di più, dei personaggi degni di essere raccontati, i protagonisti di trame narrative avvincenti, esaltanti e patetiche, fonte di ammirazione e di indignazione al tempo stesso.
Proprio le sensazioni che dovrebbe trasmettere un romanzo.
Eppure quello che il lettore ha tra le mani non è un’opera di narrativa ma un saggio; un saggio storico, che si prende la briga di porre all’attenzione anche dei non addetti ai lavori la pletora di generali tedeschi che hanno combattuto con l’impossibile compito di assecondare gli obiettivi sempre più spropositati del loro comandante supremo; e lo fa con mirabile equilibrio, come uno storico dovrebbe fare pur in presenza di eventi che suscitano tutt’oggi forti reazioni emotive, permettendoci di capire quale ruolo ebbero questi generali nell’affermazione e nel crollo della Germania nazista, quali furono le loro virtù militari e quali le loro colpe politiche e umane, se mai ne hanno avute.
Di sicuro c’è e ci sarà ancora molto da raccontare sugli uomini di Hitler. Ma è altrettanto certo che Marco Lucchetti ne ha raccontato, con lucidità e passione, una bella fetta.
Andrea Frediani
Introduzione
La Wehrmacht è stata la più grande forza combattente della storia tedesca, considerata dalla maggior parte degli appassionati di storia militare – insieme alla legione romana e alla Grande Armée –, uno dei massimi esempi di efficienza militare. Le vicende di una forza combattente sono evidentemente legate al valore dei propri soldati e alle capacità dei propri comandanti e la Wehrmacht costituisce, in tal senso, quasi un unicum nella storia militare: è difficile trovare un tale concentrato di generali dotati di elevate capacità tattiche e strategiche come avvenne in Germania durante la seconda guerra mondiale.
Si trattava di ufficiali mediamente intelligenti e colti e allo stesso tempo coraggiosi, fedeli nei confronti della nazione e obbedienti agli ordini del proprio leader politico. Praticamente tutti avevano combattuto durante la prima guerra mondiale: alcuni di loro con il grado di ufficiali superiori; molti come giovani ufficiali alle prime armi; tanti avevano fatto esperienza negli stati maggiori di unità combattenti o nello stato maggiore generale; altrettanti avevano trascorso gli anni del conflitto al fronte, nelle trincee, sui mari o nei cieli. Numerosi tra loro erano figli di generali e ufficiali dell’esercito imperiale tedesco e continuarono la tradizione dei loro familiari, tramandandola ai loro figli, tanti dei quali morirono sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale. Al termine della Grande Guerra entrarono a far parte della Reichswehr, l’esercito della nuova Repubblica tedesca, subentrata nel 1919 allo sconfitto impero.
Le nuove forze armate di Weimar erano state drasticamente ridotte rispetto a quelle imperiali dalle clausole del trattato di Versailles: niente carri armati, cannoni di grosso calibro, aerei e sottomarini, solo poche imbarcazioni e centomila uomini, di cui quattromila erano ufficiali. Furono scelti i migliori e la loro preparazione fu impostata sulle capacità e la competenza con il risultato che furono più di mille i generali che si distinsero su tutti i fronti della seconda guerra mondiale.
Nel ventennio tra le due guerre, le forze armate tedesche vennero segretamente riorganizzate: la casta degli ufficiali germanici non aveva mai accettato le durissime condizioni imposte dai Paesi vincitori nel 1918. Giovani e anziani che fossero, furono tutti uniti da questo spirito di rivalsa e, tranne poche eccezioni, condivisero il modo in cui la ristrutturazione delle forze armate andava programmata. La modernizzazione degli armamenti e l’applicazione di nuove idee tattiche, come la Blitzkrieg e la guerra sottomarina, furono accettate come presupposto di tale riorganizzazione. Quando nel 1933 il nazismo salì al potere, questi ufficiali trovarono in Hitler l’uomo che avrebbe realizzato i loro desideri: completare finalmente il tanto atteso riarmo, in barba al trattato di Versailles. Pochi furono gli ufficiali che aderirono al nazismo, ma molti, per motivi opportunistici, simpatizzarono per esso. Fino agli inizi del 1938, i capi degli stati maggiori generali delle forze armate e della neo-costituita Wehrmacht riuscirono a limitare le ambizioni di Hitler: costoro erano infatti convinti che, nonostante la massiccia politica di riarmamento, la Germania non fosse in grado di combattere, e soprattutto vincere, una guerra non solo contro la Francia e la Gran Bretagna, ma anche contro la Cecoslovacchia e la Polonia. Pur preparando con scrupolo ed efficienza i piani di invasione sia a occidente che a oriente, si opposero all’annessione dell’Austria, dei Sudeti e della Cecoslovacchia, preparando addirittura un colpo di Stato; tuttavia, man mano che Hitler otteneva un successo dietro l’altro senza colpo ferire, le loro convinzioni cominciarono a vacillare e iniziarono a credere nelle capacità e nella fortuna del Führer.
Questi, dopo lo scandalo Fritsch-Blomberg, assunse sempre di più il comando diretto delle forze armate e, proprio grazie a quei successi, si convinse della propria invincibilità e, soprattutto, di essere un genio militare. Le brillanti e rapide vittorie ottenute tra il 1938 e la primavera del 1941 consolidarono in tutto il mondo questa credenza non del tutto immeritata. Hitler infatti forzò in molti casi la mano ai suoi generali, spingendoli a osare le tattiche più rischiose. I suoi comandanti, nonostante la diffusa preoccupazione di una catastrofe per il Paese, eseguirono al meglio gli ordini dando fondo a tutte le proprie indubbie capacità. I meriti delle vittorie caddero sulle spalle di Hitler, ma la fama arrise anche a numerosi generali, come Rommel, von Rundstedt, von Manstein e Student. Questi uomini diedero il meglio e dimostrarono con i fatti la loro abilità nel guidare il Paese alla vittoria. La Wehrmacht si rivelò una forza combattente praticamente invincibile, anche perché in Polonia, Paesi Bassi, Francia, Jugoslavia e Grecia le truppe corazzate, motorizzate e i paracadutisti, reparti specializzati che rappresentavano solo una piccola parte delle forze armate tedesche, ottennero facilmente e rapidamente la vittoria, supportate dalla Luftwaffe e dalla guerra sottomarina degli U-Boote.
Tutto sembrava funzionare a meraviglia e il fallito tentativo di invadere l’Inghilterra non fu considerato un preoccupante allarme. Poi venne il 22 giugno 1941 e il vento cambiò. I tedeschi invasero l’Unione Sovietica con il solito impeto, ma già dopo pochi mesi fu chiaro che l’Armata Rossa era un ostacolo difficile da superare. La resistenza britannica e l’entrata in guerra degli Stati Uniti fecero il resto, fino all’inevitabile sconfitta finale della Germania. Sconfitta che, già dalla fine del 1942, apparve certa a quasi tutti i generali tedeschi: i quali, nonostante tutto, combatterono con il massimo impegno ritardando l’ineluttabile fine. Il 20 luglio 1944 un gruppo di ufficiali cercò di assassinare Hitler, illusi di poter negoziare la pace con gli anglo-americani e combattere al loro fianco contro i russi. L’attentato fallì e l’epurazione che ne seguì fu rapida: colpevoli o presunti tali vennero sommariamente giustiziati o costretti a suicidarsi. I vertici militari si compattarono ancora di più intorno al Führer e guidarono i loro uomini nello scontro finale. Sapevano che non c’era speranza, ma sapevano anche di non poter arrendersi ai sovietici che avrebbero fatto pagare loro tutti i crimini compiuti durante la campagna di Russia. Infatti i generali della Wehrmacht non si coprirono solo di gloria durante il conflitto, ma, chi più chi meno, seppero, approvarono, presero parte ai più efferati crimini di guerra e contro l’umanità, fin dal settembre del 1939.
Fu in Polonia, che i generali, gli ufficiali e gli altri ranghi dell’esercito tedesco furono messi faccia a faccia con la dura realtà delle politiche razziali di Hitler, dato che le brutalità delle operazioni di rastrellamento avvenivano sotto gli occhi di tutti. Il cammino della Germania verso la degenerazione e la distruzione nazionale e morale cominciò in Polonia e proseguì per tutto il corso del conflitto e non solo a oriente, ma anche nell’Europa occidentale e in Italia. Fu una macchia indelebile e inutile sarà il tentativo di salvare l’onore dell’esercito tedesco addebitando i crimini alle sole ss e alla Gestapo. È fin troppo comune l’asserzione che furono solo gli uomini di Himmler a compiere i massacri e non la Wehrmacht; ma questo è solo un equivoco derivato dall’errore comune di credere che la Wehrmacht fosse l’esercito tedesco, diverso dalle Waffen-ss e cioè le truppe combattenti delle ss che si resero colpevoli di numerosi eccidi. In realtà la Wehrmacht rappresentò le forze armate tedesche nel loro insieme e cioè esercito, aeronautica, marina e Waffen-ss ed esiste un’ampia documentazione che testimonia la partecipazione di numerose unità dell’esercito a crimini e massacri contro le popolazioni civili, i prigionieri di guerra (soprattutto russi), gli ebrei, le minoranze etniche e i commando alleati. La Panzer-Division della Luftwaffe Hermann Göring si procurò una sinistra fama durante la campagna d’Italia proprio per le rappresaglie e le violenze contro la popolazione locale.
Naturalmente i comandanti erano a conoscenza di questi atti e non solo li commisero per obbedire agli ordini superiori, ma spesso li ordinarono anche quando non erano strettamente necessari. A spingerli fu sicuramente la follia della guerra, l’eccitazione della vittoria, l’odio razziale da tempo radicato in tutti gli strati della popolazione tedesca, il disprezzo per gli slavi, considerati dei subumani, e i bolscevichi, ritenuti il nemico della cultura occidentale; quando subentravano dubbi sulla validità di questi argomenti, ecco il mito del dovere nei riguardi della nazione e nella indiscutibilità degli ordini superiori. Pochi generali provavano simpatia per Hitler, ma era il capo dello Stato cui avevano prestato giuramento e verso cui dovevano obbedienza assoluta. Essere soldati significava non occuparsi di politica e svolgere il proprio lavoro con la professionalità e la disciplina che li aveva sempre contraddistinti. Ma la professionalità non è sufficiente; essere tecnicamente brillanti non è sufficiente; obbedire a un giuramento e agli ordini non è sufficiente. Ciò che le tradizioni, l’indottrinamento e l’addestramento non riuscirono a dare ai generali di Hitler fu proprio un più ampio senso della responsabilità politica e sociale, oltre alla convinzione che obbedire alle proprie coscienze costituisse un dovere primario. Solo i cospiratori dell’attentato del 20 luglio 1944 riuscirono a spezzare quei legami psicologici e morali nel tentativo di riscattare la dignità delle forze armate tedesche, senza però ottenere il risultato voluto.
I generali di Hitler furono un gruppo di ufficiali eccezionali che, per un mal riposto senso dell’onore, vendettero l’anima al diavolo.
Questo libro nasce dall’idea di fornire un quadro più completo dei generali che servirono nelle armate di Hitler. I generali della Wehrmacht furono quasi 1200 e mi sembrava giusto raccontare le biografie di almeno un centinaio di loro. La scelta, naturalmente arbitraria, è caduta su coloro che ho ritenuto più rappresentativi della tragica epopea del nazismo. I feldmarescialli sono stati presi tutti in considerazione, anche se non sono stati inseriti al completo nel capitolo di loro competenza, perché alcuni di loro, secondo la mia modesta opinione, meritavano una collocazione più specifica, magari nell’ambito degli stati maggiori o in qualità di oppositori a Hitler. Ampio spazio è dato ai crimini di guerra e contro l’umanità con due capitoli, il primo dedicato ai generali che più di altri si distinsero per i misfatti ordinati e compiuti, il secondo dedicato ai processi tenutisi a Norimberga al termine del conflitto. Ho trovato interessante dedicare un capitolo a quei generali che, catturati nel corso della guerra, furono internati in una lussuosa villa nei dintorni di Londra (Trent Park), dove, non sapendo di essere costantemente intercettati, discorrendo tra di loro rivelarono verità scabrose e interessanti per la futura comprensione di quel momento storico. Il capitolo più ampio riguarda, naturalmente, i generali le cui imprese militari sono passate giustamente alla Storia. Per l’ampiezza dell’argomento ho dato per scontata la conoscenza complessiva degli accadimenti di quegli anni, trattandoli nello specifico solo quando strettamente necessario: non era mia intenzione scrivere l’ennesima storia della seconda guerra mondiale raccontata dai protagonisti. Ho ritenuto essenziale scrivere alcuni capitoli che fornissero una panoramica delle origini, dei cambiamenti e dello sviluppo delle forze armate tedesche e aggiungere, in calce al testo, alcune cartine che aiutassero a comprendere le campagne militari più importanti. Chiudono il lavoro alcune appendici che spero saranno apprezzate dai lettori, come la descrizione delle uniformi indossate dai feldmarescialli e generali, le tabelle comparative dei gradi e delle decorazioni, l’elenco delle campagne combattute dalla Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale e, il lavoro più faticoso e allo stesso tempo prezioso, l’elenco completo di tutti i feldmarescialli e generali con il loro massimo grado raggiunto.
A conclusione di ogni biografia viene riportata una tabella riassuntiva con le decorazioni ottenute, la data e il grado del generale: per questioni di spazio, la dicitura delle decorazioni è rappresentata da una sigla, la cui spiegazione si trova nell’apposita appendice. Ovviamente, data l’ampiezza dell’argomento, non pretendo di essere stato esaustivo, ma spero di aver contribuito a fornire una buona base per un approfondimento sul tema.
La casta militare prussiana
L’esercito germanico (Deutsches Heer), meglio conosciuto come Reichsheer (esercito nazionale) o Kaiserliches Heer (esercito imperiale), trae le sue origini da quello prussiano, nato con le milizie brandeburghesi nel corso della guerra dei Trent’anni (1618-1648). Durante il regno di Federico ii il Grande (1740-1786), l’esercito prussiano raggiunse il massimo della sua efficienza, per poi subire un forte ridimensionamento durante le guerre napoleoniche. La sconfitta dell’esercito, ritenuto invincibile, scioccò la classe dirigente prussiana: nel 1808 i generali furono sostituiti in massa, il corpo ufficiali fu reso accessibile alla classe media e vennero create le basi dell’accademia militare e dello Stato maggiore generale (1814). Il nuovo esercito contribuì alla liberazione del Paese dai francesi e, nonostante fosse considerato un bastione del conservatorismo contro le tendenze interne liberali e democratiche, fu visto dai componenti della Confederazione tedesca come il mezzo più idoneo per unificare tutti gli Stati germanici. Con Federico Guglielmo iv e Helmuth von Moltke, capo di stato maggiore generale dal 1857 al 1888, l’esercito prussiano subì un completo rimodernamento che gli permise di affrontare vittoriosamente le guerre di unificazione (seconda guerra dello Schleswig, 1864; guerra austro-prussiana, 1866; guerra franco-prussiana, 1870-71). Il 18 gennaio 1871 Guglielmo i venne incoronato imperatore di Germania e l’esercito prussiano andò a costituire il nerbo dell’esercito imperiale tedesco.
In realtà, l’esercito imperiale tedesco ereditò quasi tutte le caratteristiche e le tradizioni di quello prussiano, il cui codice militare fu introdotto in tutto il Reich. La maggior parte degli ufficiali provenivano dalla nobiltà terriera prussiana, gli Junker (dall’antico tedesco giovane signore
), e formavano un gruppo sociale ristretto e compatto, fortemente conservatore sia nelle abitudini comportamentali che nelle idee politiche. Gli Junker, di cui il cancelliere Otto von Bismarck (1815-1898) era un esponente dell’ala più reazionaria, fornivano allo Stato non solo i vertici militari ma anche la burocrazia statale. Nonostante l’unificazione del Paese e la preminenza dell’esercito prussiano, von Bismarck mantenne nella Deutsches Heer la struttura federale pre-unitaria, dove insegne, divise e distintivi rimanevano quelli del proprio Stato originario. L’esercito imperiale era quindi costituito, oltre che dall’esercito prussiano, anche da quello bavarese, sassone, del Württemberg e degli altri piccoli Stati tedeschi. Il comandante supremo era il Kaiser (l’imperatore), assistito dal gabinetto dell’esercito, che controllava il ministero della Guerra, e dallo stato maggiore del regio esercito bavarese, che aveva mantenuto una certa indipendenza anche se sempre subordinato al coordinamento dello stato maggiore prussiano. La nobiltà tedesca dominò per lungo tempo l’apparato militare, perché l’essenzialità prussiana, ossia il suo carattere militare, doveva restare inviolata e svolgere il suo compito di spina dorsale della monarchia e colonna portante dell’impero. Furono comunque istituite una serie di riforme che assicurassero un’organizzazione e una pianificazione precisa e ben coordinata tra tutti i livelli di comando e amministrativi dell’esercito, dallo stato maggiore fino ai sottufficiali. L’esercito imperiale divenne così un’organizzazione militare efficiente e preparata, naturalmente con una chiara impronta prussiana. Il mondo militare rimaneva l’essenza dello Stato, il corpo ufficiali la classe più elevata della società e il servizio militare la scuola della nazione, dove il popolo, come affermava von Moltke, «era educato al vigore corporale, all’amor patrio e alla virilità». L’imperatore era soprattutto un soldato, anzi il primo soldato dell’impero, e quindi ogni soldato doveva essere superiore ai comuni cittadini. Un generale aveva un grado superiore a quello di un ministro, mentre un accademico godeva di una certa considerazione solo nella sua veste di ufficiale della riserva. Gli ufficiali, fossero essi di carriera o riservisti, erano solitamente dotati di una educazione scolastica superiore, preferibilmente di tipo umanistico. Al termine del ginnasio, raggiunta la maggiore età, chi decideva di intraprendere la carriera militare entrava in un reggimento con il grado di aspirante e seguiva l’iter per diventare sottotenente. Lo stesso percorso era seguito da coloro che invece accedevano all’età di 10 anni ai collegi militari. Divenuti ufficiali, i migliori erano selezionati per la scuola di guerra e coloro che riuscivano a superare i difficilissimi esami erano avviati presso gli stati maggiori. Le selezioni erano completamente meritocratiche, con poco spazio lasciato alle raccomandazioni e ai titoli nobiliari; ma entrambi gli ufficiali, sia quelli provenienti dalla borghesia che quelli di origini nobili, erano portatori dello stesso principio di concezione aristocratica del mondo, in opposizione a quella democratica
. Nella Regia disposizione sulle corti d’onore degli ufficiali dell’esercito prussiano del 2 maggio 1874, il Kaiser si riallacciò al codice cavalleresco:
Quanto più altrove si propagano lusso e benessere, tanto più seriamente ogni ufficiale è tenuto a ricordare che non sono i beni materiali a procuragli la stimata posizione che egli riveste nell’ambito dell’ordinamento statale, né essi possono conservarla. La bramosia di guadagno e benessere non solo metterebbe in pericolo l’abilità bellica dell’ufficiale, danneggiandola con un tenore di vita assai lascivo, ma potrebbe condurre al totale sconvolgimento delle fondamenta e dei principi sui quali il rango stesso di ufficiale si regge.
Moltke continuava così: «Ciò che abbiamo conquistato in sei mesi con la forza delle armi, con le armi dovremo proteggere per sei secoli, affinché non ci venga di nuovo sottratto. […] E forse allora il mondo si convincerà che la presenza di una potente Germania al centro dell’Europa è la più grande garanzia di pace per il nostro continente». Inutile aggiungere che i Paesi vicini non ne fossero affatto convinti!
Nel 1885 il Deutsches Heer venne diviso nel Feldarmee (l’esercito campale), costituito dall’esercito permanente, dalla riserva militare, dall’artiglieria e dal genio, e dal Landwehr, la milizia mobile formata dalle truppe di deposito, di guarnigione e territoriali. L’unità base era la divisione, formata da due brigate di due reggimenti ciascuna, con tre battaglioni per reggimento. L’artiglieria era reggimentale. Due o più divisioni costituivano un corpo d’armata, in tempo di pace posto a copertura di una specifica area geografica. I corpi d’armata erano responsabili del mantenimento delle riserve e dei Landwehr nella propria zona di controllo. L’area di Berlino era controllata da un corpo della guardia (Gardekorps). Con questa organizzazione l’esercito imperiale tedesco entrò in guerra nell’agosto del 1914: furono quasi tredici milioni i soldati tedeschi impiegati durante il conflitto.
L’aviazione militare tedesca (Die Fliegertruppen des Deutschen Kaiserreichs, Servizio aereo dell’esercito imperiale tedesco
) era parte integrante dell’esercito imperiale e così rimase per tutta la durata della prima guerra mondiale, anche quando nel 1916 assunse il nome di Deutsche Luftstreitkräfte.
Le forze armate tedesche (1918-1935)
Io divido i miei ufficiali in quattro gruppi: gli intelligenti, i diligenti, gli stupidi e i pigri. Normalmente due di queste caratteristiche sono combinate tra loro nella stessa persona. Alcuni sono intelligenti e diligenti e il loro posto è nello staff generale. Gli altri sono stupidi e pigri e il novanta per cento delle loro attività quotidiane possono essere paragonate a quelle degli animali. Chi è intelligente e pigro è qualificato per i massimi incarichi di leadership, perché possiede la necessaria chiarezza intellettuale e compostezza per le decisioni più impegnative. Chi è invece stupido e diligente non gli deve essere affidato alcun incarico di peso a causa della sua irresponsabilità, ma deve solo eseguire.
(General der Infanterie Kurt von Hammerstein-Equord, comandante in capo della Reichswehr, 1° novembre 1930 – 27 dicembre 1933)
Quando von Hammerstein-Equord espresse questa sua arguta considerazione, la Reichswehr aveva ormai raggiunto un notevole livello qualitativo e organizzativo che le avrebbe permesso, in pochissimo tempo, di espandersi a dismisura. Tuttavia, nel marzo del 1920 il compito del futuro Generaloberst Hans von Seeckt si presentava arduo. Le perdite per l’impero tedesco erano state di più di sette milioni, di cui quasi due milioni erano stati i morti. Alla conclusione delle ostilità sul fronte occidentale, milioni di soldati germanici rimanevano in armi e non si sentivano sconfitti: molti di loro confluirono nei Freikorps (corpi liberi
o corpi franchi
), organizzazioni paramilitari che si dedicarono a contrastare le sollevazioni comuniste in Germania e a combattere i russi bolscevichi nel Baltico tra il 1919 e il 1920. Nel frattempo era stato firmato l’armistizio e il trattato di Versailles aveva imposto alla nuova Repubblica tedesca durissime sanzioni, tra le quali il drastico ridimensionamento dell’esercito. Nel marzo 1919 fu costituita una forza difensiva provvisoria con unità dell’esercito e della marina (Vorläufige Reichswehr) per un totale di 400.000 uomini. Si trattava di un esercito di transizione organizzato in attesa che fossero stipulati gli accordi finali con i vincitori, il che avvenne il 1° gennaio 1921. Da quella data, le forze armate tedesche vennero limitate a 100.000 unità con un massimo di 4000 ufficiali: fu vietata la coscrizione obbligatoria e sciolti lo stato maggiore generale e le accademie militari. La Reichswehr (questo era il nuovo nome) era composta dal Reichsheer, un esercito costituito da sette divisioni di fanteria, tre di cavalleria, senza cannoni pesanti, aviazione, carri armati e stato maggiore, e dalla Reichsmarine, una marina militare formata da 15.000 uomini e 36 navi di piccolo tonnellaggio, senza sommergibili.
L’incarico di riorganizzare questo piccolo esercito (e di riarmarlo segretamente) venne affidato al generale von Seeckt che, come primo provvedimento dopo avere sciolto lo stato maggiore generale, istituì il Truppenamt (ufficio truppe
, una sorta di stato maggiore clandestino nel quale fece convergere i migliori ufficiali sopravvissuti alla prima guerra mondiale). Anche la selezione dei centomila
fu accurata, prediligendo uomini capaci e di valore, sia per quel che riguardava gli ufficiali che i sottufficiali e la truppa. I componenti delle forze armate, indipendentemente dal grado, vennero sottoposti a continui corsi di aggiornamento e, quando e dove possibile, a esercitazioni. Fu curata la preparazione fisica e l’addestramento al comando, in modo che quando si sarebbero potuti nuovamente ampliare gli organici delle forze armate, gli ufficiali subalterni avrebbero potuto integrare quelli superiori, i sottufficiali avrebbero potuto prendere il posto dei tenenti e i soldati quello dei sottufficiali. La stipula di patti segreti di collaborazione con l’Unione Sovietica a partire dal trattato di Rapallo (16 aprile 1922), permise ai tedeschi di usufruire delle industrie russe per progettare e costruire aerei e carri armati in territorio straniero e inviare i propri tecnici e gli equipaggi a sperimentarli. Anche cannoni di grosso calibro e mitragliatrici moderne furono realizzate all’estero (il famoso cannone tedesco da 88mm fu sperimentato in Svezia e lì vennero costruiti i primi prototipi).
Per quando riguarda l’aviazione, i piloti veterani furono assunti nelle prime compagnie civili, mentre i giovani che si sentivano attratti dal volo furono avviati a corsi sugli alianti. Una volta ottenuto il brevetto entravano a loro volta nell’aviazione commerciale e venivano ogni tanto inviati all’estero (soprattutto negli Stati Uniti, Unione Sovietica e Italia) per corsi di perfezionamento. Il regime fascista di Mussolini accolse numerosi futuri assi della Luftwaffe per insegnare loro le tecniche di combattimento sui caccia e sui bombardieri, naturalmente mascherate da corsi di aggiornamento per l’aviazione civile.
Nel frattempo il Truppenamt apportava continue riforme alla Reichswehr, rendendola pian piano la forza armata più moderna ed efficace di quei tempi, una compagine elitaria composta da professionisti, basata sulla mobilità e la modernità degli armamenti, con una dottrina tattica impostata su una guerra prevalentemente offensiva con la collaborazione tra le armi (esercito, marina e aeronautica). La qualità era stata realizzata: ora mancavano i numeri, che si sarebbero potuti trovare solo grazie a un cambio radicale della politica della nazione. Ciò avvenne a partire dal gennaio 1933 quando Hitler divenne cancelliere del Reich e si dichiarò favorevole a una politica di ampio e rapido riarmo in barba ai divieti delle nazioni vincitrici del primo conflitto mondiale. Per assurdo, furono proprio le ristrettezze imposte dal trattato di Versailles a rendere così efficienti le nuove forze armate tedesche. Il trionfale successo della tattica e delle forze corazzate naziste nei primi due anni della seconda guerra mondiale, ad esempio, svelò l’ironia che contraddistinse le misure prese per disarmare la Germania sconfitta dopo l’altra guerra. Materialmente, tali misure si rivelarono efficaci, poiché le numerose infrazioni compiute dai capi militari tedeschi erano su piccola scala e in se stesse non portarono a un considerevole recupero di forza. Fino al momento in cui il governo nazista calpestò apertamente le restrizioni del trattato di pace, i progressi effettivi del riarmo della Germania non avevano costituito un serio pericolo. Fu l’esitazione dei vincitori dopo quel momento che permise alla Germania di riacquistare una potenza formidabile. Inoltre, una conseguenza importante del disarmo forzato fu quella di partire senza ingombri: l’esercito tedesco non era intralciato da quell’accumulo di armi del 1914-18 che legava invece le mani alle nazioni vittoriose, un carico di mezzi superati che le teneva vincolate ai vecchi metodi e che le aveva indotte a sopravvalutare la loro forza. Quando l’esercito tedesco iniziò il riarmo su vasta scala, ebbe il beneficio di un maggior agio per lo sviluppo delle armi più moderne suggerite da concezioni nuove. Von Seeckt fu l’artefice di questo miracolo, ma già nell’ottobre del 1926, per divergenze politiche, fu posto in congedo. Lo sostituirono il Generalleutnant Wilhelm Heye (1926-1930), il General der Artillerie Kurt von Hammerstein-Equord (1930-1933) e il Generalleutnant Werner Freiherr von Fritsch (1934-1935).
La Wehrmacht (1935-1945)
Il 2 agosto 1934 moriva il feldmaresciallo Paul von Hindenburg, presidente della Repubblica di Weimar. Adolf Hitler, cancelliere della Germania, lo sostituì e divenne anche il comandante in capo delle forze armate. Il dittatore poteva così dare l’avvio al riarmo che aveva promesso ai vertici militari fin dal suo insediamento. Il primo provvedimento fu il ripristino della coscrizione obbligatoria, che entrò in vigore per legge il 21 marzo 1935. Quel giorno veniva ufficialmente disatteso uno degli obblighi imposti alla Germania dal trattato di Versailles. La durata del servizio di leva fu fissato a un anno per tutte le forze armate, ma già il 24 agosto 1936 fu portata a due. I giovani, fin dall’età di diciassette anni, erano obbligati a servire nel Reichsarbeitsdienst (rad, servizio lavoro del Reich) dove contribuivano alla costruzione delle opere pubbliche e si sottoponevano a esercitazioni sportive e militari allo scopo di prepararsi alla futura vita del soldato. Raggiunta la maggiore età, gli idonei venivano ammessi nelle forze armate e, se optavano per la carriera militare, dopo dodici anni di servizio potevano accedere alla scuola sottufficiali.
Il 21 maggio 1935 la Reichswehr prese il nome di Wehrmacht (forza di difesa
) il cui primo comandante in capo fu il feldmaresciallo Werner von Blomberg, ministro della Difesa. La Wehrmacht era costituita da tre forze armate: la Heer (l’esercito), la Kriegsmarine (la marina militare) e la Luftwaffe (l’aeronautica militare). Su volontà di Hitler, in seguito, i reparti combattenti delle ss, le Waffen-ss, entrarono a far parte della Wehrmacht, dipendendo però dall’okw solo dal punto di vista logistico.
Fu istituito un comando supremo, l’Oberkommando der Wehrmacht (okw), che doveva sovraintendere ai comandi delle tre forze armate che, tuttavia, pretesero e godettero di larga autonomia. Essi erano l’Oberkommando des Heeres (okh) che coordinava le operazioni dell’esercito ed era diretto dal generale Werner von Fritsch; l’Oberkommando der Marine (okm), con a capo l’ammiraglio Erich Raeder e l’Oberkommando der Luftwaffe (okl) al cui vertice c’era il Reichsmarschall Herman Göring. Nel 1938, dopo lo scandalo Blomberg-Fritsch, Hitler assunse il comando in capo della Wehrmacht, abolì il ministero della Guerra e nominò al vertice dell’okw il generale Wilhelm Keitel con capo di stato maggiore Alfred Jodl e capo dell’ufficio operazioni Walter Warlimont.
Nel 1939 l’esercito, dalle dieci divisioni del 1921, si trovò con 98 divisioni, di cui 62 immediatamente utilizzabili: erano divisioni corazzate, meccanizzate, di fanteria, di fanteria da montagna, di cavalleria e aviotrasportate, tutte supportate da reggimenti di artiglieria e reparti del genio e delle trasmissioni. Le unità di punta erano composte da truppe d’élite che sapevano come impiegare i mezzi corazzati in una guerra rapida e offensiva. La maggioranza delle unità, però, si spostava ancora a piedi e cannoni, rifornimenti e vettovagliamenti erano trainati e trasportati da cavalli e da muli. Durante i primi anni di guerra, le folgoranti vittorie della Wehrmacht nascosero questo limite logistico che esplose in tutta la sua evidenza durante la campagna di Russia.
La marina, a partire dal 29 giugno 1935 iniziò il suo rafforzamento con il varo di una prima flottiglia di U-Boote, seguiti dalla costruzione di due corazzate, tre corazzate tascabili e sei incrociatori leggeri. A queste unità si aggiunsero 21 cacciatorpediniere, 12 motosiluranti, 57 sommergibili oceanici, 4 incrociatori pesanti e, tra l’agosto 1940 e il febbraio 1941, le corazzate Bismarck e Tirpitz. Il fiore all’occhiello della Kriegsmarine saranno però gli U-Boote, di cui ne entreranno in servizio 1193 entro il luglio 1943.
La Luftwaffe venne fondata clandestinamente nel 1933 e fu ufficializzata al mondo il 1° marzo 1935. Nel settembre 1939 era composta da quattro Luftflotte (flotte aeree) alle quali se ne aggiunsero altre tre nel corso della guerra, di cui una, la Luftflotte Reich, creata appositamente per la difesa del territorio tedesco. La Luftwaffe entrò in guerra con 2695 velivoli, 771 dei quali erano caccia Messerschmitt Bf 109. Dal 1942 la Luftwaffe organizzò un suo esercito di terra con numerose divisioni di fanteria (Luftwaffe Feld-Division), divisioni di paracadutisti (Fallschirmjäger), unità di artiglieria pesante e contraerea. Fu anche costituita una divisione corazzata, la Panzer-Division Hermann Göring, che divenne famosa sul fronte italiano oltre che per la sua combattività anche per gli eccidi nei confronti della popolazione civile. I paracadutisti si coprirono invece di gloria su tutti i fronti dove si trovarono impegnati.
Le Waffen-ss parteciparono a quasi tutte le battaglie della seconda guerra mondiale distinguendosi per l’efficienza, la forte motivazione ideologica, lo sprezzo del pericolo e l’efferatezza nei confronti di nemici e civili. Le Waffen-ss comprendevano divisioni corazzate, granatieri, truppe da montagna, fanteria meccanizzata e paracadutisti, molte composte da volontari stranieri di etnia tedesca o comunque ideologicamente legati al nazismo nonostante la loro provenienza.
I soldati che servirono nella Wehrmacht durante la guerra furono quasi diciotto milioni, da un minimo di 4,7 milioni nel 1939 a un massimo di 12 milioni nel 1944. Man mano che le unità al fronte si dissanguavano, i vuoti venivano colmati con personale proveniente dall’organizzazione giovanile nazista, la Hitlerjugend, da anziani e da invalidi, che andarono a costituire il Volkssturm (milizie militari), battaglioni addestrati e armati approssimativamente. Le perdite complessive ammontarono a 13.448.000, di cui quasi 5 milioni furono i morti. Solo sul fronte orientale le perdite arrivarono a 11.135.000, tra cui 3.888.000 caduti in azione e 374.000 morti in prigionia.
Caduto il Terzo Reich e firmata la resa incondizionata, la Wehrmacht fu sciolta ufficialmente solo nell’agosto del 1946. Alla Germania venne impedita la formazione di un esercito indipendente dotato di armamenti moderni fino a che la guerra fredda non rese necessaria la creazione di forze militari da parte delle due Germanie. L’esercito della Repubblica Federale Tedesca, la Germania Ovest, venne ufficializzato il 5 maggio 1955 con il nome di Bundeswehr, mentre quello della Repubblica Democratica Tedesca, Germania Est, vide la luce il 1° marzo 1957 con la denominazione di Nationale Volksarmee. Sia nell’uno che nell’altro esercito furono impiegati ex ufficiali della Wehrmacht.
Il generale
Hitler
In tempo di guerra ogni cosa appare diversa da come risulta nella luce più chiara che viene dopo. E niente appare più diverso delle figure dei capi. Mentre la guerra è in corso, l’immagine che di loro si costruisce l’opinione pubblica non soltanto è irreale, ma varia con le alterne vicende delle operazioni militari. Prima del conflitto, e ancor più al tempo della conquista dell’Occidente, Hitler parve una figura gigantesca, nella quale si fondevano il genio strategico di un Napoleone, l’astuzia di un Machiavelli e il fervore fanatico di un Maometto. Dopo i primi scacchi subiti dalle forze tedesche in Russia la sua figura cominciò a rimpicciolire, e verso la fine della guerra egli era considerato, in materia militare, un dilettante sprovveduto, i cui ordini pazzeschi e la cui crassa ignoranza erano stati per gli alleati il maggior punto di forza. La responsabilità di tutte le disfatte dell’esercito germanico venne attribuita a Hitler; di tutti i successi, invece, venne attribuito il merito allo stato maggiore generale tedesco. Il quadro contiene una certa dose di verità, così come è vero, però, che Hitler, come stratega, era ben lungi dall’essere uno sprovveduto. Piuttosto era fin troppo brillante e risentiva dei difetti naturali che tanto spesso si accompagnano a questa dote. Aveva un senso sottile della sorpresa e un talento magistrale per il lato psicologico della strategia.
(B.H. Liddell Hart, Storia di una sconfitta)
A partire dal 1938 Hitler integrò sempre più la leadership politica con quella militare. Non si tratta di un fenomeno isolato. Quasi sempre il capo dello Stato è anche il capo delle forze armate: fu così per i re dell’antichità, per i dittatori di Roma, per i sovrani medievali, per i monarchi dell’Era dei lumi e per i presidenti e i dittatori dell’Età moderna e contemporanea. Essere a capo degli eserciti non implica necessariamente, soprattutto nelle epoche più vicine alla nostra, il comando sul campo di battaglia o la conduzione diretta delle operazioni militari. L’evoluzione dell’arte bellica ha portato alla creazione di specifici ruoli all’interno delle forze militari che svolgessero professionalmente l’arte del comando. Reclutare, organizzare, istruire soldati, progettare piani di guerra e guidare gli uomini in battaglia divenne così compito specifico di militari di professione, come generali e ufficiali di stato maggiore (usando un termine moderno), che potevano lavorare quasi autonomamente rispetto al capo dello Stato al quale però rispondevano del loro operato in tempo di pace e delle vittorie o sconfitte in tempo di guerra. L’ultima parola spettava comunque al sovrano di turno, che decideva, in questo caso consigliato anche da politici, della necessità di iniziare o concludere un conflitto. Il capo delle forze armate, in quanto anche capo di Stato, soprattutto negli ultimi quattro secoli, rimaneva comunque lontano dai campi di battaglia, limitandosi a consigliare, a premiare o sfiduciare il generale di turno. Ci sono state importanti eccezioni, come Napoleone e Federico ii di Prussia, monarchi assoluti dalle buone capacità politiche ed eccezionali condottieri di eserciti in battaglia. Ci furono poi comandanti militari che, attraverso elezioni democratiche, divennero capi di stato grazie a una guerra vinta, come i generali Ulisse Grant e Dwight Eisenhower, mentre altri furono nominati primi ministri, come il duca di Marlborough e il duca di Wellington. Ai nostri giorni, l’esempio più eclatante di comandante in capo è il presidente degli Stati Uniti d’America, che detiene il potere di dichiarare guerra e quello di spingere il fatidico bottone
, ma sono poi i comandanti di stato maggiore a stabilire le strategie e le tattiche effettive con cui condurre le ostilità sul campo.
La vicenda di Adolf Hitler fu sostanzialmente diversa: contestualmente alla nomina a cancelliere del Reich divenne anche il capo di una forza armata ancora fortemente limitata nel numero degli effettivi e negli armamenti secondo le clausole della pace di Versailles. Violando gli articoli del Trattato, furono riorganizzati stato maggiore, esercito, aviazione e marina che risorsero in tutto il loro antico splendore grazie a una sfrenata corsa agli armamenti che il Führer promosse per finalizzare le sue brame politiche. Inizialmente si appoggiò ai vari Fritsch, Beck, Brauchitsch, Halder e Blomberg, esautorandoli e sostituendoli a seconda delle proprie esigenze, abitudine che conserverà durante tutti gli anni della guerra. Poi, insoddisfatto, prese nelle proprie mani la direzione del conflitto, senza mai diventare un condottiero da prima linea – alla Rommel, tanto per intenderci. Lo fece convinto di saperne di più dei propri sottoposti, sicuro di portare a termine vittoriosamente la guerra grazie alle proprie innate capacità strategiche (così almeno riteneva), alla sua esperienza di soldato, e al suo spirito d’iniziativa e di voglia di sperimentare nuove tattiche e armi rivoluzionarie.
In fondo, bisogna ammettere che Hitler aveva una personalità magnetica, ipnotizzante. […] mi resi subito conto che Hitler lasciava disorientata la gente per la sua straordinaria memoria, oltre che per la sua effettiva conoscenza di dati tecnici e militari. Tali caratteristiche lo misero in condizione di diventare il creatore di un esercito dotato delle armi più moderne. Non aveva un approccio disciplinato e un preciso parametro di giudizio individuale che distingueva gli ufficiali del nostro stato maggiore generale. Non aveva una visione chiara di tutte le possibilità e premesse; capiva comunque i concetti operativi. Dovrei citare come esempio il piano di von Manstein per la campagna di Francia e la sua personale concezione dell’offensiva delle Ardenne nel dicembre 1944 (H. von Manteuffel).
Da dove nascevano queste convinzioni? Innanzitutto dalla sua esperienza di combattente durante la prima guerra mondiale. Residente dal 1913 in Baviera, Hitler, nonostante fosse cittadino austriaco, riuscì a ottenere il reclutamento nel 16° reggimento bavarese della riserva e partì per il fronte allo scoppio delle ostilità. Il soldato Hitler combatté per tutto il periodo del conflitto sul fronte occidentale, quasi sempre contro gli inglesi, e si distinse per il suo coraggio: ferito cinque volte, fu promosso caporale e decorato con la Croce di Ferro di 1ª e 2ª classe. Per un artista fallito, emarginato, non più giovane, non appartenente alla classe dei borghesi e degli intellettuali e disprezzato
dalla aristocrazia prussiana, il potersi trovare in mezzo a quei soldati, figli di quelle classi cui tanto agognava di far parte, fu il primo risultato positivo dopo tanti anni di sofferenza. Al fronte si sentì per la prima volta accettato e considerato e presto i tempi della fame e dei dormitori pubblici furono dimenticati.
Nonostante la terribile realtà della guerra e le morti cui aveva assistito (in breve tempo quasi tutti i commilitoni che erano partiti con lui per la guerra erano deceduti), Hitler considerò quegli anni «felici». Il desiderio di sentirsi ancora più utile lo spinse a diventare una staffetta portaordini: gli anni trascorsi come meldegänger (staffetta), e cioè quasi tutto il conflitto, gli saranno spesso rinfacciati dai suoi avversari come un periodo di imboscamento, quasi paragonabile alla codardia. In realtà, nel corso della prima guerra mondiale la staffetta svolgeva un compito non solo essenziale, ma pericolosissimo. Non partecipava ai sanguinosi assalti contro le trincee nemiche, ma non godeva neanche dei periodi di riposo nelle retrovie tra un attacco e l’altro. Le staffette dovevano essere sempre a disposizione e consegnare i dispacci in qualsiasi momento, con qualsiasi tempo, cercando di sopravvivere ai colpi dei cecchini e delle mitragliatrici che battevano i reticolati tra le prime linee al primo movimento sospetto. Pochi sopravvivevano e anche Hitler, nonostante fosse furbo e cauto (studiava con attenzione mappe e percorsi), fu ferito gravemente alla coscia e costretto a trascorrere una convalescenza di cinque mesi in Germania. Di fronte al quotidiano tentativo di sopravvivere a quell’ecatombe, Hitler si convinse dell’incapacità degli alti comandi e della casta militare prussiana di condurre una guerra fino alla vittoria finale. Il disprezzo per quegli uomini, che si porterà appresso per tutta la vita, aumentava anche in considerazione del fatto che gli ordini, spesso sbagliati e forieri di morte, non tanto per i nemici ma per i propri soldati, provenivano da comandanti che distavano decine, se non centinaia di chilometri dal fronte, lontani dal pericolo e all’oscuro dei disagi e delle sofferenze di chi combatteva e cercava di sopravvivere in prima linea. Negli anni a seguire, una volta divenuto capo politico e poi capo militare, apostroferà gli ufficiali di stato maggiore con frasi come «Voi non avete combattuto» oppure «Voi non sapete cosa è la guerra». Ciò nonostante quando venne il suo turno di dare gli ordini come capo supremo, non esitò a farlo da quartier generali fortificati e sicuri, lontani dal fronte e, soprattutto, cosa ancor più grave, impose ai propri uomini, e di conseguenza a tutta la nazione, di combattere fino alla morte prima di cedere un metro, anche quando sacrificarsi risultò completamente inutile ai fini della strategia generale.
La sconfitta della prima guerra mondiale, confermò e accentuò la sua avversione verso le caste politica e militare. Visse la fine del conflitto dal letto di un ospedale dopo essere stato ferito da una scheggia, graziato da un soldato inglese durante la battaglia di Cambrai-San Quintino, e poi intossicato da un attacco di gas iprite.
Le indubbie capacità strategiche di Hitler si palesarono molto prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, quando espose ai suoi collaboratori l’audace piano che avrebbe portato alla conquista della Norvegia e quando illustrò come si potevano sconfiggere i francesi aggirando la linea Maginot. Ma dove veramente si dimostrò uno stratega formidabile fu quando concepì e attuò le conquiste incruente di Renania, Austria, Sudeti e Cecoslovacchia. Fu molto abile nel comprendere e sfruttare le debolezze psicologiche degli avversari e nel minare preventivamente le capacità di resistenza di quei Paesi che poi avrebbe aggredito. Il tutto contro i pareri dei suoi generali che persero così credibilità ai suoi occhi e si videro sempre più esautorati dal prendere decisioni e poco considerati quando davano pareri. Si creò una netta frattura tra Hitler e lo stato maggiore generale che, alla lunga, si rivelò deleteria per l’andamento delle operazioni. L’intuito strategico del Führer si rivelò vincente nelle campagne iniziali: la conquista della Polonia, della Norvegia e dei Paesi Bassi, della Francia, dei Balcani e della Grecia risultarono agli occhi dell’opinione pubblica come trionfi personali di Hitler e in cui i generali avevano avuto il solo merito di obbedire agli ordini del comandante supremo e di dare libero sfogo alla loro indubbia efficienza operativa. I generali, favorevoli o contrari che fossero al dittatore, una volta al comando delle proprie truppe svolsero al meglio il compito per cui erano stati preparati. La loro radicata disciplina e il senso profondo dell’importanza del giuramento di fedeltà che essi avevano prestato al capo dello Stato prevalse in ogni frangente, anche perché non potevano contare sulla completa fedeltà delle proprie truppe, legatissime a Hitler. Inoltre, il Führer li aveva messi in disparte dalla vita pubblica e sfruttato le ambizioni individuali e i conflitti personali. Anche quando l’alto comando tedesco sostenne che la Germania non era in