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I 7 arcani del Vaticano
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E-book443 pagine6 ore

I 7 arcani del Vaticano

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Quale segreto millenario si cela nelle stanze più nascoste del papato?

Sette furono le difese di Roma: i cosiddetti Pignora Imperii, oggetti sacri e misteriosi che secondo gli antichi romani garantivano immortalità all’impero e protezione da nemici e forze ostili. La loro scomparsa è ormai avvolta nel mistero, ma qualcuno, nelle alte sfere religiose, è convinto che il potere derivante dalla loro riunione sarebbe immenso. Quando il Vaticano, deciso a ritrovarli, raduna un gruppo di quattro ricercatori, per loro è l’inizio di un’avventura difficilissima ma entusiasmante. Lorenzo Sarti, giovane e acuto archeologo, Valeria Patruno, affascinante storica delle religioni, un anatomopatologo e un sacerdote esperto di reperti antichi si trovano così a condividere le stanze di Santa Maria Maggiore, dove si confrontano nello studio delle arti divinatorie e delle antiche cerimonie profetiche pagane. Con l’aiuto di questi strumenti potranno cercare di localizzare i pegni mistici dell’Urbe. E così, in un alternarsi di brillanti intuizioni, momentanee delusioni, sempre con l’incrollabile speranza di aver trovato l’indizio definitivo, i quattro arrivano vicinissimi a completare la loro missione. Ma c’è qualcosa di cui non sono a conoscenza: in una delle segrete stanze vaticane, qualcuno cerca di pilotare il loro destino. Qualcuno che ha intenzione di impadronirsi dei Pignora e impedire loro di rintracciarli tutti…

Sette antichissimi oggetti garantivano la supremazia dell’impero romano perché qualcuno nelle segrete stanze vaticane vuole entrarne in possesso?

«Ora vogliamo sapere. Vogliamo conoscere i segreti degli antichi. Sapere di cosa erano capaci e perché tanta gente credeva in quelle antiche forme di culto. Renderci conto di ciò che abbiamo distrutto e cosa invece possediamo. E vogliamo recuperare ciò che è possibile per condividerne la conoscenza, il segreto... la forza, se possibile. Avete mai sentito parlare dei Pignora Imperii?»


Leandro Sperduti
È archeologo e collaboratore presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Roma «Sapienza». Ha tenuto corsi di formazione e aggiornamento scientifico presso numerose università, associazioni, istituti e centri di cultura storica, accademie e istituzioni pubbliche sia in Italia che all’estero. Ha condotto scavi in Italia e all’estero. In collaborazione con la Commissione Pontificia di Archeologia Sacra ha intrapreso studi storici e archeologici sulla Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. È stato Segretario generale dell’Associazione Archeologica Romana e dal 1995 presiede l’associazione culturale Athena di Roma. I 7 arcani del Vaticano è il suo primo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854153035
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    Anteprima del libro

    I 7 arcani del Vaticano - Leandro Sperduti

    Capitolo 1

    «…Semunis alternei advocapit conctos. Enos Marmor iuvato. Enos Marmor iuvato. Enos Marmor iuvato. Triumphe. Triumphe. Triumphe!»

    Il significato di questa lunga formula ci sfugge, anche se in essa ritroviamo il nome arcaico del dio Marte, Marmor. Il testo è riportato su una lastra di marmo rinvenuta nel XIX secolo lungo la via Portuense, insieme ad altre iscrizioni che si sono rivelate dediche e annali dell’antico collegio sacerdotale dei Fratelli Arvali.

    Questo ritrovamento, di eccezionale portata storica, è in linea con la scarsa documentazione trasmessaci dalle fonti letterarie che collocano proprio lungo la Portuense il bosco sacro a Marte affidato al collegio degli Arvali.

    A questi, dunque, si deve attribuire il misterioso canto in latino arcaico pervenutoci, ripetuto dai dodici sacerdoti durante le processioni delle feste Ambarvalia. Purtroppo di tali rituali dalle origini ancestrali, considerati oscuri e vetusti già dagli antichi, non ci è dato sapere di più. Sembra comunque che proprio la ripetizione periodica di queste processioni venisse considerata salutifera per lo Stato e che su di essa, sulla sua precisione e sullo zelo dei sacerdoti, si fondassero la benevolenza divina e la protezione di Roma, due presupposti irrinunciabili su cui si resse per secoli la stessa immortalità dell’impero. Grazie».

    Il teatro parrocchiale si profuse in un sonoro e prolungato applauso non appena Lorenzo Sarti ebbe finito di parlare. Sapeva dosare i tempi nelle sue conferenze pubbliche e riusciva a modulare il tono della voce tenendo vivo l’interesse del pubblico in sala, scegliendo con cura le parole finali per suscitare l’applauso. Ogni volta che arrivava, si sentiva scosso da un lieve fremito di piacere. La sua strana timidezza giocava però in quei momenti un curioso scherzo e così, appena le prime mani cominciavano a battere, si girava, abbassava gli occhi e spegnendo il microfono abbandonava la scena.

    Da ragazzo aveva sognato spedizioni scientifiche e scavi in terre lontane, per questo aveva passato la vita a studiare superando tutti i traguardi con i massimi voti. Ma la vita accademica aveva perso il suo fascino da decenni e gli archeologi si erano ormai trasformati in burocrati o funzionari alla perenne ricerca di finanziamenti per pubblicare i loro tediosi cataloghi di cocci. Molti erano fuggiti dall’archeo­logia, convertendosi all’insegnamento e mortificando la loro passione per l’antichità nelle aule dei licei, davanti a studenti disinteressati e annoiati. Lorenzo invece non si era voluto arrendere. La voglia di comunicare quel che sapeva non si era mai esaurita e si era aperta a chiunque avesse voluto condividere con lui l’amore per la storia.

    La Sodalità Archeologica non era solo una delle tante associazioni culturali del panorama romano. Con i suoi cento anni di storia era la più antica di tutte e molti dei suoi aderenti non erano semplici appassionati, ma storici o archeologi che avevano ricoperto spesso incarichi ufficiali. Andando in pensione avevano continuato a organizzare incontri e conferenze per tenersi costantemente aggiornati sugli ultimi studi e scoperte.

    Mentre il vociare confuso della sala si andava via via affievolendo, uno dei soci più anziani si era avvicinato al palco e, sorridendo come sempre, aveva attirato l’attenzione di Lorenzo.

    «Caro dottor Sarti, grazie davvero per la bella lezione. Molto interessante e, soprattutto… nuova!».

    «Grazie a lei, signor Bonifazi. Spero di non aver fatto errori nella pronuncia delle formule in latino arcaico».

    «Ma si figuri. Gran parte delle parole vengono pronunciate secondo la fonetica etrusca, ma a dire il vero non sappiamo neppure se alcuni suoni fossero realmente espressi. Comunque… ancora complimenti. Quanto prima le farò omaggio di una copia del mio ultimo studio sull’iscrizione arcaica da Satricum».

    «È sempre un onore e un piacere leggere i suoi studi. Grazie ancora e arrivederci».

    Erano passate da poco le otto di sera. Considerando il tempo per raggiungere a piedi l’auto e il consueto traffico romano del sabato sera, non sarebbe arrivato a casa prima delle dieci. Prima di andar via, però, non poteva esimersi dal far capolino nella piccola biblioteca, accanto alla sala teatro, dove era ricavato l’ufficio della presidenza della Sodalità. La professoressa Portinari era una persona squisita, minuta e gentile, dallo sguardo sempre sorridente e dalla voce cristallina, mai avara di complimenti e consigli.

    Lorenzo si avvicinò appena alla porta per un saluto veloce, quando si accorse che la Portinari era intenta a parlare con un uomo che, di spalle, sembrava piuttosto anziano. Per un istante ebbe la tentazione di limitarsi a un cenno della mano e un sorriso, e poi allontanarsi velocemente. Ma la presidente lo scorse e non glielo permise.

    «Oh… Eccolo qui. Vieni Lorenzo…. Entra!».

    L’archeologo entrò col fare impacciato di chi viene sorpreso quando sperava di passare inosservato. «Professoressa Portinari… Volevo salutarla… Scusi il disturbo».

    «Bravo-bravo-bravo! Una conferenza davvero interessante. Soprattutto quella digressione sull’aspetto sciamanico degli antichi ordini sacerdotali romani. E quel collegamento tra i rituali di Troia e quelli di Roma antica… Molto dotto. Davvero… Un argomento nuovo e davvero molto interessante».

    Lorenzo trovava sempre curioso, quasi un po’ infantile, quel particolare modo in cui la professoressa esprimeva la sua approvazione.

    «Grazie professoressa. Sono felice di aver suscitato il suo interesse… Lo sa che ho sempre avuto un debole per gli aspetti più ancestrali e primitivi della civiltà romana antica. Continuo a ritenere che gran parte di ciò che si dice sull’antica religione sia frutto di una precisa volontà cristiana di banalizzare i vecchi culti pagani. Senza tener conto che così facendo si perde una buona parte del modo di pensare degli antichi». Si era lasciato prendere la mano e aveva assunto anche in quel momento un tono un po’ ex cathedra.

    «Lo so, Lorenzo… E ti assicuro che non sei il solo a pensarla così. Forse non proprio in questi termini, ma… permettimi di presentarti un mio caro amico che è venuto appunto per conoscerti e ascoltare la tua conferenza».

    A Lorenzo venne quasi un colpo quando il corpulento ospite si alzò porgendo la mano e sfoderando un gioviale e benevolo sorriso. Quella che di spalle sembrava una comune giacca scura rivelava ora una camicia nera con un colletto rigido bianco. Il piccolo ma incisivo riferimento polemico all’appiattimento culturale imposto dal cristianesimo trionfante non doveva certo essere passato inosservato a quel sacerdote… e molte delle argomentazioni espresse nel corso della conferenza potevano persino suonare nostalgiche. Be’… di sicuro non aveva fatto una bella figura. Ma prima che le parole stentate potessero tradire l’imbarazzo, il sacerdote aveva rotto il ghiaccio: «Ho trovato la sua lectio magistralis di un interesse incredibile! Ben più di quanto sperassi».

    «Monsignor Zorzi, della Pontificia Accademia delle Scienze, teologo, cultore dei martiri e storico ufficiale della Basilica Liberiana». La professoressa Portinari si era sbrigata a presentarli. «Monsignore desiderava incontrarti quanto prima su mia segnalazione, per farti una proposta che penso troverai davvero molto interessante». La professoressa Portinari sapeva come solleticare la curiosità di Lorenzo e far leva sul suo orgoglio e sulla sua innata passione per tutto ciò che collega la storia, l’archeologia e la religione.

    «La professoressa manca sempre di obiettività nei miei confronti», si schernì l’archeologo con falsa modestia.

    «Conosco abbastanza bene la professoressa da sapere che una sua segnalazione non è mai immotivata… e ciò che ho udito stasera, oltre che confermare le mie aspettative, mi ha convinto che lei è l’uomo che fa per me!».

    Lorenzo sorrise abbassando un po’ lo sguardo.

    «Se mi concede qualche minuto le illustro in poche parole la proposta che ho da farle», proseguì subito il prelato.

    Lorenzo sorrise di nuovo e stavolta in cuor suo disse addio al saporito tegame di trippa alla romana che lo attendeva a casa. «Ma certo, prego», e indicando la sedia a Zorzi si sedette lui stesso di fronte prendendo posto accanto alla presidente.

    Monsignor Zorzi era un uomo dall’aspetto estremamente interessante. Come molti uomini di Chiesa aveva un’età non decifrabile, forse prossima alla settantina. Il viso largo e maturo era incorniciato da una corona di capelli bianchi ben curati e accoglieva due occhi scuri e profondi. La voce era pacata ma brillante, resa ancor più gradevole da un leggerissimo accento veneto.

    Il prelato si assestò bene sulla sedia, poi si sporse in avanti, come a dare al colloquio un tono riservato. «Sappia innanzitutto che ciò che le dirò ora ha un carattere puramente indicativo e informativo… Qualora la cosa le interessasse, prenderà parte a un incontro con tutti gli altri collaboratori ed esperti, oltre che con i responsabili coinvolti nel progetto. Solo allora verrà messo a conoscenza dei dettagli, delle informazioni più riservate e, ovviamente, dei compensi pattuiti».

    «Mi sembra ragionevole». L’archeologo non poté fare a meno di notare il cambiamento nella voce del sacerdote. La Portinari sembrava annuire con lo sguardo.

    «Dunque. Cosa sa lei delle antiche difese magiche di Roma?»

    «Allora… So che molte delle città antiche affidavano la loro tutela non solo alle mura e alla difesa strategica del territorio, ma anche a una complessa serie di rituali. Come ho detto nella mia conferenza di stasera, dovevano garantire loro una speciale benevolenza divina. Nella maggior parte dei casi questi riti erano sanciti all’atto della fondazione delle città stesse e ripetuti periodicamente quasi a ribadirne la nascita. Roma non sfuggiva certo a questa tradizione, definita comunemente Renovatio Urbis».

    «Proprio così; era uno degli aspetti più interessanti della ricerca umana del divino. Vede: l’uomo ha subìto da sempre il fascino infinito e insondabile della creazione». Zorzi si lasciò prendere un po’ dal suo ruolo di uomo di fede. «Fin dalla più remota preistoria il Principio Creatore è stato considerato alla base dello stesso concetto di Divinità. Dio è Dio perché crea. Nelle epoche più remote, ovviamente, l’unica forma di creazione che gli uomini avevano davanti agli occhi era quella sessuale. Gli antichi non avevano le idee molto chiare circa il ruolo del maschio nell’attività riproduttiva, così finirono per ritenere la procreazione un’attività prevalentemente femminile».

    Lorenzo annuì. «Questo spiega i culti preistorici della fertilità e della Dea Madre ben documentati dal ritrovamento delle numerose Veneri paleolitiche».

    «Precisamente», riprese il monsignore, «ma con il passare dei secoli e lo sviluppo della civiltà, le conoscenze si fecero molto più complesse e le antiche religioni preistoriche e animiste si articolarono in una miriade di miti, ciascuno originato nel tentativo di spiegare una creazione».

    Lorenzo non si sarebbe mai aspettato da un prete un discorso così illuminato.

    «Un mito per spiegare l’origine di quella montagna… un mito per spiegare la ragione di quella sorgente… uno per chiarire il perché del giorno e della notte… Un mito persino per spiegare l’origine dell’uomo. La più antica letteratura umana altro non è che un’enorme raccolta di miti e leggende volti a chiarire la creazione di tutto ciò che esiste».

    «…Bibbia compresa!». L’archeologo non riuscì a trattenere il suo piccolo tributo alla scienza laica e al Secolo dei Lumi.

    «Touché!». Il prelato rispose bonariamente con un sorrisetto complice, mentre la professoressa Portinari sbarrava gli occhi in segno di imbarazzo. Zorzi continuò. «Poi, un giorno, l’uomo si fece creatore. La conoscenza lo spinse verso imprese sempre più ardite. Tutte le più antiche civiltà erano nate accanto a grandi fiumi e per tutte le loro religioni il Dio creatore aveva agito impastando il primo uomo nel fango: Dio Padre come il sumero Dumuzi, come l’egizio Khnum… Così, quando l’uomo si fece costruttore, il suo impastare mattoni con il fango divenne quasi una profanazione del ruolo divino… un appropriarsi del privilegio della creazione… un manipolare gli elementi primordiali per creare qualcosa secondo una modalità che fosse simile a quella di Dio stesso».

    «…la terra e l’acqua per il fango dei mattoni, il sole o il fuoco per la loro cottura. Questo è il vero senso della blasfemia e della superbia umana espressa dall’episodio biblico della Torre di Babele». Stavolta fu la Portinari a interrompere il discorso.

    Monsignor Zorzi annuì. «Già. Ecco perché alle più antiche costruzioni umane è stato conferito da sempre un valore quasi magico e ai loro architetti sono stati tributati poteri straordinari, quasi divini o persino occulti: da Imothep, architetto del faraone egizio Zoser, a Ihram, costruttore del grande tempio di Salomone. Questo spiega anche perché, con il passare dei secoli, l’architettura sia divenuta un’attività quasi iniziatica fino a evolversi in libera muratoria e quindi massoneria, perdendo persino ogni legame con la stessa attività del costruire».

    Lorenzo adorava quei discorsi che spaziavano tra storia, archeologia, mito e religione, non disdegnando persino qualche piccolo riferimento esoterico. E in quel caso apprezzava la duttilità e l’erudizione del suo interlocutore, che volava così abilmente sull’argomento senza pregiudizi.

    «Ma anche queste creazioni dell’uomo avevano bisogno di miti, di liturgie precise e inalienabili, oltre che di particolari esorcismi volti a placare la divinità per questa usurpazione. Questi compiti vennero allora conferiti al re-sacerdote che riassumeva i poteri della terra e del cielo, oltre che le attitudini di fertilità femminile e fecondità maschile. Il sovrano-sacerdote diveniva dunque anche dio e attuava una sua personale creazione, agendo sulla superficie del terreno cui era unito da un legame quasi matrimoniale. Ecco perché nell’antichità ogni fondazione assumeva l’aspetto di un’aratura e di una semina: da quella dei templi egizi e mesopotamici a quella delle colonie greche… fino alla fondazione di Roma». Finalmente era giunto al cuore del discorso; a breve Lorenzo avrebbe saputo cosa intendevano proporgli.

    Zorzi continuò. «Poco importa che Romolo sia veramente esistito o che addirittura sia stato allattato da un’improbabile lupa. Quel che conta è che per più di mille anni i romani lo credettero e continuarono a perpetuarne la memoria e la liturgia. Nel fondare la città egli aveva tracciato un solco con l’aratro, dunque aveva effettuato un’aratura sacra definendo un confine netto tra ciò che veniva creato e tutto il resto. Questo limite era il pomerio, una barriera sacra che delimitava quella porzione santificata di universo che sarebbe stata Roma. La barriera sarebbe stata perenne e inviolabile, fissata sulla terra ma estesa fino al cielo. Un confine fissato da un uomo fattosi dio e riconosciuto dagli stessi dèi. Sembra addirittura che per consacrare ulteriormente questo limite vi si ponessero le sepolture dei bambini. Pare addirittura che fosse questo il significato della stessa uccisione di Remo da parte di suo fratello».

    Lorenzo annuì dentro di sé. Aveva letto del recente ritrovamento presso il Campidoglio di una serie di tombe di bambini dell’VIII secolo avanti Cristo. Qualche studioso aveva ipotizzato che fossero una sorta di sacrificio umano arcaico, altri erano invece dell’avviso che fosse un modo per trasformare i piccoli defunti della comunità cittadina in guardiani del pomerio. Lorenzo aveva sposato la seconda idea, più consona allo spirito romano delle origini e alla nascita dei sacri Lari Pubblici, le divinità protettrici dello Stato romano, rappresentate in genere in forma infantile.

    «Questa idea del limite sacro era quanto mai presente nella spiritualità romana, basti pensare che uno degli dèi più invocati era proprio Terminus, identificabile con il confine stesso», aggiunse l’archeologo.

    Monsignor Zorzi tradiva entusiasmo per l’interesse che suscitava nel suo interlocutore e per la vivacità e la partecipazione che l’argomento aveva evidentemente destato. «Il rispetto e la sacralità di questo confine erano uno dei presupposti più importanti della religione romana antica. Su di esso si fondava la santità dello Stato e la sua stessa inviolabilità. Ma i confini invisibili sanciti dagli uomini, per quanto regolati e approvati dagli dèi, erano sottoposti alle stesse leggi che governano ogni cosa umana: la caducità e l’invecchiamento. Per questo era necessario rinnovarne periodicamente la forza, ripetendone il rituale con l’ausilio di strumenti eccezionali e amuleti. Lo sa che la stessa caduta di Troia sarebbe avvenuta solo in seguito all’espugnazione delle sue difese magiche?»

    «Sì, certo», ribatté prontamente l’altro. «Si dice che gli Achei sarebbero riusciti a distruggerla solo qualora si fossero verificati particolari eventi, come la partecipazione alla guerra di Achille che secondo la profezia avrebbe trovato la morte proprio nella presa della città. Oppure si sarebbero dovute asportare alcune particolari reliquie dal suo interno, come le ceneri di re Laomedonte o la sacra statua del Palladio. Addirittura uno dei presupposti era che si riuscisse a introdurre nelle mura il leggendario Osso di Pelope».

    Monsignor Zorzi guardò Lorenzo inarcando leggermente il sopracciglio. «L’Osso di Pelope?»

    «Precisamente. Secondo la leggenda, Tantalo, il mitico re di Lidia volle mettere alla prova l’onniscienza divina, così uccise i propri figli e li servì in banchetto agli stessi dèi dell’Olimpo. Quando si accorsero dell’inganno condannarono Tantalo a un supplizio infernale e riportarono in vita i suoi figli. L’unico problema era costituito dal piccolo Pelope, cui la dea Cerere aveva mangiato una spalla. Giove ordinò a Vulcano di fabbricargli una nuova spalla in avorio e il principe tornò a vivere. Poiché Agamennone discendeva da Pelope, se questo mitico osso fosse stato portato entro le mura di Troia, gli Achei avrebbero potuto prendere la città. Sembra che l’Osso di Pelope sia entrato poi nel Tesoro dei re lidi e di qui passato ai romani. Ogni città aveva le sue sante reliquie protettive, un po’ come oggi ogni comunità ha i suoi santi patroni!».

    «Ha idea di che fine abbiano fatto questi oggetti magici?». La voce di monsignor Zorzi mise fine alla dotta digressione dell’archeologo.

    «Scomparsi, credo. Distrutti in secoli di guerre o dai cristiani». C’era un’amara rassegnazione nelle parole di Lorenzo.

    «Eppure lei sa che in varie circostanze la terra ha restituito antichi oggetti sacri sepolti ritualmente o occultati dagli ultimi sacerdoti pagani, proprio per impedirne la distruzione», ribatté Zorzi.

    «Si riferisce alla statua bronzea di Ercole? Quella rinvenuta nel XV secolo nel Foro Boario?»

    «…o alle insegne imperiali di Massenzio trovate pochi anni fa presso l’Arco di Costantino». Il monsignore aveva intanto preso da terra la sua grossa borsa di pelle nera e ne aveva tratto un involto di carta crespa da cui aveva tirato fuori un pacchetto di pelle bruna.

    «Casi straordinari. Più unici che rari… Comunque assolutamente insufficienti per poter costituire un precedente su cui fondare uno studio sistematico o per alimentare infondate speranze», aveva continuato Lorenzo con tono quasi cinico.

    «Penso tuttavia che troverà estremamente interessante il contenuto di questa scatola». Zorzi aveva appoggiato il pacchetto sul tavolo spingendolo verso l’archeologo. La professoressa Portinari non aveva smesso un istante di fissare Lorenzo. Di certo conosceva il contenuto della scatola e sapeva che quel momento sarebbe stato cruciale per lui.

    Prese delicatamente il pacchetto tra le mani riconoscendo sul coperchio il sigillo della Santa Sede e quello della Biblioteca Apostolica Vaticana. Lo aprì. L’interno era foderato di stoffa azzurra e al centro, stretto da un cordoncino con il sigillo papale, c’era un pezzo di osso. Un osso vetusto, come la reliquia di un antico santo, ingiallito ma non poroso.

    L’archeologo si domandò per un attimo cosa significasse quell’oggetto. A guardarlo meglio non era un vero osso, sembrava piuttosto scolpito nell’avorio. Il silenzio irreale durò per alcuni secondi, poi venne rotto dalla voce del monsignore.

    «Allora, dottor Sarti, vuole far parte del nostro gruppo?».

    Capitolo 2

    La luce del primo mattino non raggiungeva ancora le poche alte finestre rivolte verso est, eppure la vasta navata dell’Aracoeli era già rischiarata. La chiesa era deserta a quell’ora.

    Un brusio proveniva solo da una delle cappelle laterali al presbiterio.

    Don Giulio asciugò con il piccolo panno bianco il calice dorato da cui aveva appena bevuto il vino eucaristico e lo ripose sul piano dell’altare coprendolo con il piattino della patena. Coprì con cura la pisside che conteneva le ostie consacrate e si voltò riponendola all’interno del tabernacolo. Quindi si rivolse alle due sole persone presenti, impartendo la benedizione.

    «La messa è finita. Andate in pace».

    «Rendiamo grazie a Dio». Le due signore anziane risposero quasi con un filo di voce poi lentamente si alzarono e si diressero verso l’altare.

    «Bentornato don Giulio. Abbiamo sentito la sua mancanza».

    «Buongiorno signore. Grazie. Sono felice di ritrovarvi in salute».

    «Ha fatto buon viaggio? È andato a trovare qualche parente? Spero non si sia stancato troppo!». Le domande delle due anziane si facevano un po’ insistenti.

    «Non sono andato a trovare nessun parente ma… ho fatto buon viaggio lo stesso». Il sacerdote rispose con un sorriso forzato, scendendo gli ultimi gradini dell’altare con le ampolle in equilibrio precario. Intendeva rifugiarsi in sacrestia senza sembrare scortese. «Spero che passiate una buona giornata».

    «Anche lei, padre… A domattina».

    Era tornato a Roma solo la sera prima e si sentiva ancora frastornato per il fuso orario e per i molti impegni durante la sua permanenza in Argentina. Non fosse stato per la sua statura, avrebbe potuto essere scambiato per un sudamericano, con i suoi capelli neri lisci e i tratti del viso un po’ marcati. Eppure fino a poco più di un anno prima non era mai uscito dall’Italia e non parlava nemmeno una parola di spagnolo. Lo avevano spedito laggiù a prendere in consegna i resti mortali di un indio del XIX secolo, morto in odore di santità e per il quale era in corso il processo di beatificazione. Le pratiche di trasferimento erano state a dir poco infinite e, nonostante la ricca documentazione cartacea e l’immunità garantita dal Vaticano, era rimasto in tensione per tutto il viaggio all’idea di dover aprire la valigetta all’aeroporto e mostrare ai doganieri il suo bagaglio di ossa umane. Del resto quello aveva tutta l’aria di dover diventare il suo incarico ufficiale. Da quando era entrato nella Commissione per le Cause di Canonizzazione lo avevano utilizzato più come corriere di reliquie che come teologo o studioso di documenti e testi sacri. Sorrise all’idea di esser diventato un moderno corposantaro, uno di quei loschi figuri che nel tardo Rinascimento si intrufolavano furtivamente nelle catacombe romane per trafugare le ossa da spacciare come reliquie di martiri.

    Si tolse i paramenti e li baciò riponendoli con cura nel pesante armadio ligneo che occupava l’intera parete della sacrestia; poi appese il turibolo e ripose le ampolle nella teca.

    Erano appena passate le otto. Uscendo sarebbe potuto passare nella libreria vicino al colonnato di San Pietro. Aveva ordinato un testo introvabile con i commentari ispanici all’Apocalisse di Giovanni. L’unica edizione moderna era stata pubblicata in Spagna alla fine degli anni Ottanta e il libraio gli aveva dato buone speranze di riuscire a procacciargliela. Poi sarebbe passato alla posta e alla farmacia del Vaticano. Con un po’ di fortuna poteva sperare di esser libero per un’ora decente e andare a casa dei genitori per pranzo.

    «Don Giulio… Buongiorno… La vogliono al telefono». Era padre Antonio, uno dei frati più anziani della comunità cui era affidata la chiesa dell’Aracoeli. Giulio era solo un ospite provvisorio del convento, alloggiato in una delle stanze della foresteria ricavate nell’edificio moderno addossato all’abside medievale.

    «Buongiorno a lei padre… Grazie… Prendo la telefonata in corridoio».

    Il sacerdote uscì dalla sacrestia dalla porta secondaria e percorse il corridoio fino al capo opposto, in cui vi era una scrivania con il telefono. «Pronto?»

    «Pronto, Giulio? Buongiorno. Sono padre Roland, bentornato», disse una voce limpida con uno spiccato accento anglosassone.

    «Oh… Buongiorno padre, grazie… come sta?». Giulio era lieto di sentire la voce del suo anziano professore di storia ecclesiastica.

    «Bene, grazie… Ho provato più volte a chiamarti sul cellulare ma risulta ancora spento».

    «Ehm… Sì, è vero. Ho dimenticato di riaccenderlo dopo la messa di stamani».

    «Giulio… Ho bisogno urgente di parlarti. Puoi passare da me il prima possibile?». Il tono era socievole e familiare ma non lasciava molto spazio alla libertà di decisione.

    «Sì… Va bene… Il tempo di prepararmi ed esco». Don Giulio piegò il capo e la volontà al rispetto verso il suo vecchio professore: il commentario all’Apocalisse avrebbe dovuto aspettare ancora.

    «D’accordo. A tra poco allora». Padre Roland attaccò senza dargli il tempo di salutare.

    Don Giulio Casati uscì rapidamente dal convento dell’Aracoeli passando dalla porta posteriore. Scese la scala che dal convento portava in piazza del Campidoglio e raggiunse rapidamente il suo scooter.

    In pochi minuti raggiunse piazza Capranica su cui si stagliava la facciata austera dell’Almo Collegio. La piazza aveva cambiato il suo aspetto da quando vi passava gran parte del suo tempo. Il Comune l’aveva pedonalizzata e adesso aveva l’aria di un piccolo salotto buono, abbastanza curato: ben diverso da quando era una specie di parcheggio per le auto dei burocrati del vicino Parlamento. Giulio varcò l’alto portone salutando con un breve cenno il portiere e salì rapidamente la scala interna del collegio raggiungendo il salone comune, dove sperava di trovare padre Roland. Il professore non era ai tavoli da studio né in biblioteca. Un altro insegnante lo indirizzò verso l’altana, dove circa mezz’ora prima aveva visto salire l’anziano professore.

    Giulio uscì sulla terrazza porticata. Una ventata di fresca aria invernale lo costrinse a riallacciare gli alamari del suo montgomery. La veduta spettacolare sui tetti di Roma salutava chiunque salisse lassù, in qualunque ora del giorno. Sembrava di poter allungare una mano e toccare il campaniletto di Montecitorio e, poco più in là, la larga scodella plumbea del Pantheon, mentre tutt’intorno il fondale era fatto di tetti di tegole da cui svettavano cupole di ogni genere.

    Il giovane prete rallentò il passo indugiando per un istante su un particolare della cupola tortile del Borromini poi, scrutando la terrazza, scorse in un angolo padre Roland, intento a leggere il giornale.

    «Well! Eccoti finalmente!», esclamò l’anziano professore vedendo il suo pupillo avvicinarsi.

    «Buongiorno padre! Non ha di meglio da fare che starsene qui sopra a prendere freddo?»

    «Caro ragazzo… ricordati che hai a che fare con un iperboreo. Comunque avevo bisogno di parlarti e questo è l’unico posto dove si riesce ad avere un po’ di tranquillità, al riparo dai curiosi. Non dimenticare che questo è un convitto di soli uomini con tanto tempo a disposizione… il che ne fa un allevamento di pettegoli!».

    Giulio rise sommessamente pensando alle chiacchiere che aveva sentito sugli insegnanti e sugli studenti durante i suoi anni di permanenza al collegio.

    «Siediti ragazzo. Ti faccio portare un cappuccino», disse voltandosi e facendo un cenno eloquente all’inserviente.

    «Grazie padre», si affrettò a rispondere Giulio che, a dire il vero, aveva saltato la colazione dopo la messa per arrivare il più rapidamente possibile.

    «Sono stato contattato da monsignor Glauss, della Segreteria di Stato. Mi ha messo al corrente di un particolare progetto, per così dire esclusivo e mi ha chiesto di segnalare un giovane sacerdote di buone capacità, particolarmente versato in storia ed esperto di paleografia. Credo che per la prima volta si intenda prendere in considerazione certi documenti o testi rimasti sepolti più a lungo del previsto nelle nostre biblioteche. Ciò che mi ha lasciato sorpreso è che, in base a quanto è stato lasciato trapelare, la cosa verrà condotta con un parziale intervento esterno… addirittura con l’apporto di personale specializzato non ecclesiastico. Mah! Comunque io non ho potuto non segnalarti. Sei un po’ testone… ma in fondo rimani il più brillante tra i miei allievi. All’inizio ho pensato che si trattasse della solita raccolta di documenti autografi da presentare in qualche causa di canonizzazione…».

    Don Giulio cercò di reprimere un moto di orgoglio.

    «…ma poi mi è stato detto di mantenere la cosa riservata e di non informare la Congregazione per le Cause dei Santi».

    Il giovane prete si sentì quasi sollevato, poi la curiosità per la strana convocazione fu sostituita da una certa preoccupazione. «Ma… allora come farò a spiegare la mia defezione dagli incarichi già assegnatimi? Non posso lasciarli così, da un giorno all’altro».

    Padre Roland si accorse del suo imbarazzo e si affrettò a tranquillizzarlo. «Non ti preoccupare. La tua nuova assegnazione sarà risolta senza che si facciano troppe domande. Tu limitati, nel caso qualcuno si mostri troppo curioso, a dire che sei stato trasferito alla catalogazione d’archivio. Per il resto lascia che siano gli altri a tutelarti… la stessa Segreteria di Stato metterà tutto in ordine. Sempre che tu sia interessato, s’intende!».

    Ancora una volta l’affermazione di padre Roland aveva un senso puramente retorico. Era chiaro che la partecipazione di Giulio allo strano progetto era stata già decisa. Del resto il giovane sacerdote non aveva alcuna intenzione di declinare l’invito. «Be’… se le cose stanno così credo che sarei uno sciocco a lasciarmi sfuggire questa possibilità. Detto fra noi, sono un po’ stanco di occuparmi di burocrazia e trasferimento di reliquie… Come lei sa bene, ho sempre sperato di mettere a frutto i miei studi paleografici. In fondo in fondo mi sono sempre sentito un po’ archeologo!».

    «Oh… great! Quanto prima verrai contattato da qualcuno della segreteria per partecipare a una riunione preliminare nel corso della quale tu e gli altri interessati verrete messi al corrente dei dettagli. Non so quando avverrà, ma sono quasi certo che vi ritroverete tutti a Santa Maria Maggiore… Pare che il coordinamento del progetto sia stato affidato al cardinal Pinelli, arciprete della Basilica Liberiana».

    Giulio parve quasi sollevato da quell’informazione. Aveva incontrato più volte il cardinal Pinelli, quando era ancora un ragazzo e aveva avuto modo di apprezzarne l’affabilità e l’erudizione. Trattenne a stento un sorriso, al ricordo di un episodio avvenuto più di dieci anni prima, quando frequentava ancora il liceo. All’epoca Pinelli era addirittura Cardinal Vicario e si recava spesso a celebrare messa nelle parrocchie cittadine. Una volta era andato anche nella sua chiesa di quartiere, giganteggiando sull’altare con la sua alta mitra e il pastorale. Si era rivolto ai fedeli che gremivano la navata e aveva detto con dolcezza e indulgenza: «Cari fratelli… poiché vedo che molti di voi sono in piedi cercherò di non dilungarmi troppo». Quindi aveva pronunciato la sua omelia per quasi due ore!

    Intanto l’assistente aveva portato un piccolo vassoio con un cappuccino accompagnato da un cornetto e un caffè. Don Giulio servì. «Zucchero?».

    Il sole cominciava a levarsi alto sui tetti di Roma, conscio, come diceva Orazio, che non avrebbe mai visto nulla di più grande.

    Capitolo 3

    Lorenzo uscì dalla stazione della metropolitana saltando i gradini a due a due. Erano da poco passate le nove del mattino e all’appuntamento mancava più di mezz’ora ma ogni giorno, prima di lavorare o di tuffarsi in biblioteca, amava concedersi un momento di pace in qualche buon bar, per fare un’abbondante colazione salata.

    La mattinata era fresca e luminosa. I portici di piazza Vittorio Emanuele erano già gremiti di una folla multicolore intenta a rovistare nelle bancarelle o a vociare davanti ai bar.

    L’archeologo passò attraverso i capannelli di gente senza prestare troppa attenzione alle merci o alle persone e uscì dalla piazza imboccando la strada che in pochi minuti lo avrebbe portato rapidamente a Santa Maria Maggiore. Non senza fare una sosta di rito davanti alla chiesetta di San Vito. Era poco più di un’arcata di travertino, costruita nel III secolo al posto dell’antichissima Porta Esquilina, ma era stato uno dei suoi primi lavori da archeologo e, come avviene in genere in questi casi, gli era rimasto affezionato.

    La basilica era una delle quattro chiese patriarcali di Roma, la più grande e antica dedicata alla Madonna, uno dei luoghi più venerati della cristianità.

    Lorenzo guardò l’orologio. Mancavano ancora dieci minuti. C’era tempo per entrare in chiesa e perdersi in quell’atmosfera antica, tra colonne marmoree, mosaici e soffitto a cassettoni dorati.

    Il frastuono del traffico e il vociare scomposto della piazza si zittirono di colpo quando, oltrepassato il portico, si chiuse la porta alle spalle. La grande aula della basilica era inondata dalla luce del mattino eppure al suo interno sembrava che tutto dormisse: le

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