Iceberg
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Iceberg - Giancarlo Laghezza
PARTE PRIMA
1
Nel diciassettesimo secolo i galeoni spagnoli e francesi navigavano sull'Atlantico per trasportare dal nuovo mondo anche i tesori sottratti agli imperi Azteco e Maya. Le enormi ricchezze però non sempre arrivavano in Europa.
Bande di avventurieri, abilissimi negli abbordaggi per mare e nelle scorrerie per terra, si organizzarono e si accordarono per intercettare i velieri e depredarli, celando i bottini in piccole isole del Mar dei Caraibi. Più piccole e sperdute erano le isole e più difficile diveniva per le spedizioni militari spagnole e francesi intervenire per riprendersi i preziosi carichi. I corsari conoscevano meglio di chiunque altro l'esteso mondo delle Antille e sapevano come dissolversi in caso di inseguimenti.
Gli insediamenti lungo le coste dell'America centrale erano saccheggiati continuamente e divenivano oggetto di ricatti e riscatti. I pirati erano gente senza scrupoli, guidati da personaggi con doti di abili navigatori e di comando, dotati di carisma e permeati da fama leggendaria.
Gli attacchi, imprevedibili, avvenivano con abilità aggressiva incontrastabile e senza schemi preordinati. Gli occhi e le menti dei pirati si concentravano sull'obiettivo e gli assalti si abbattevano su di esso con furia inaudita. Il vento, complice invisibile ma efficace, aiutava le sortite soffiando sulle velature e spingendo i veloci vascelli verso le ricchezze da depredare.
Gli spagnoli costruivano spesso gli insediamenti sugli isolotti delle paludi per avere la protezione naturale delle acque basse e della fitta vegetazione, mentre le fortificazioni erano distribuite sulla costa per le incursioni dal mare. Per i pirati, invece, le acque basse erano un vantaggio, offrendo la possibilità di raggiungere gli abitati con le scialuppe, che meglio si celavano nella foresta palustre.
Il pirata Henry Morgan, spinto da Sir Thomas Modyford, il baronetto inglese all'epoca governatore della Giamaica, con mille uomini e una flotta di quattro vascelli bene armati, fece rotta per Maracaibo.
Si fermò a distanza, nel caldo meriggio tropicale, sì che da terra non potessero focalizzare la presenza delle navi, immerse nell'orizzonte caliginoso.
La notte, in vista di diffusi seppur tenui lumi sulla costa e grazie a una lieve brezza, le navi ridussero la distanza dall'insediamento per attaccare più efficacemente al mattino. Sollevarono i portelloni e spinsero fuori le bocche dei cannoni già pronti al fuoco. All'alba dagli spalti del forte si levarono grida di allarme e le campane delle torrette suonarono a distesa.
A meno di mezzo miglio i vascelli corsari solcavano la superficie del mare issando le Jolly Roger: i neri vessilli col teschio, che erano sempre forieri di tristi presagi. I cannoni e le armi tuonarono per tutta la mattina ma l'abilità dei pirati di spostare continuamente i vascelli e operare diversioni ebbe ragione delle difese. Le bordate dalle navi corsare aprirono le brecce nelle muraglie, quel tanto da permettere di dilagare nell'entroterra e metterlo a ferro e fuoco, devastandone il contenuto. Della flotta corsara erano rimasti due vascelli: quello di Morgan e un altro che si era inclinato e insabbiato.
Molti pirati erano morti annegati e altri erano saliti sul vascello superstite. Il tramonto si tinse di rosso e colonne di fumo denso si levarono dalla costa. Maracaibo bruciava come un ciocco di legno. Nella città si levavano le grida degli abitanti. Correvano verso le paludi per salvarsi dalle grinfie dei pirati, che scorrazzavano per le vie ed entravano nelle case prendendo tutto, saccheggiando, violentando e uccidendo.
Aleggiava nell'aria un puzzo di bruciato e di morte. Le strade, colme di cadaveri e di tutto ciò che ai pirati non era servito, erano imbrattate di fuliggine e di sangue. Scene terribili di gente che fuggiva in ogni direzione, portando con sé i figli piccoli e poca roba che potesse consentire qualche giorno di vita, erano ormai l'immagine di una città distrutta.
La stiva del vascello di Henry Morgan, il più temuto pirata dei Caraibi, era colma di ricchezze. Le sue mani e gli abiti erano imbrattati di sangue.
Il governatore di Maracaibo, per salvare la sua vita e quella dei superstiti, era sceso a compromessi pagando un riscatto enorme in gioielli, monete d'oro e pietre preziose. Aveva anche ceduto molte casse di lingotti d'oro, frutto della fusione di oggetti e suppellettili varie tolte dai templi degli Indios.
Alzate quelle vele e andiamo via, qui non c'è più niente per noi!
Urlò Morgan, levando la sciabola, e con un fendente staccò la testa al capitano che aveva tentato di ostacolarlo sui bastioni del porto ma che era riuscito a vibrargli un colpo di stiletto al fianco. Si era accorto dell'arrivo di galeoni spagnoli che stavano per sbarrare i canali d'ingresso alla città e, non potendo più contrattaccare, aveva preferito la fuga.
Ora andiamo a Port Royal. Là ci aspettano birra, rum e tante donnine che non faranno rimostranze come quelle di questo schifoso posto paludoso!
Ordinò al suo braccio destro Alf Norwind, con una fragorosa risata, comprimendo con una mano la ferita sul fianco.
Norwind replicò gli ordini agli uomini e il vascello prese il largo facendo rotta verso l'isola di Giamaica.
Morgan rassicurò l'equipaggio che avrebbe distribuito parte del bottino una volta giunti in porto. Promessa che non mantenne. Quando entrò nelle acque di Port Royal dai pennoni pendevano i corpi di chi aveva reclamato la sua parte. Dal molo la gente sostava in silenzio, quasi a capo basso, come volesse evitare lo sguardo di Morgan che dal ponte, boriosamente, con una mano sulla sciabola e l'altra sul fianco, avrebbe desiderato un'accoglienza trionfale. Quando disse a Norwind di spargere a piene mani sul selciato del molo le sacchette di dobloni d'argento, com'era consuetudine fare al rientro da una ricca battuta, si levarono ovazioni di acclamazione. Strisciavano per terra come vermi a raccattare il denaro e ad azzuffarsi con le unghie e con i denti finché da bordo non partì un colpo di pistola.
Le prossime palle saranno per voi!
urlò Morgan. Si azzittirono, sfollando nelle stradine degli isolati lungo la strada degli attracchi. Sul selciato umido e reso lucido dallo strofinìo delle ginocchia non c'era più un doblone.
Il giorno successivo il vascello del pirata, con bandiera inglese, salpò e si diresse a est. Sul cassero due uomini scrutavano il mare. Morgan era seduto su uno sgabello di legno con l'addome fasciato ma già in grado di muoversi e anche di battersi.
Il veliero prese il largo con l'equipaggio che cantava mentre una brezza più sostenuta, soffiando da sud-ovest sulle vele spiegate, favorì la velocità. Morgan da poppa guardò la scia tracciata dal timone e un sorriso beffardo, fra i baffi e il pizzetto, gli scolpì il viso.
Andiamo, miei compagni, portiamo quel che ho laddove né voi né altri avrete mai!
Il pensiero svanì nel vento che li portava alla Tortuga.
Henry Morgan morì il 25 agosto 1688. Era divenuto governatore della Giamaica per la sua fedeltà e i servizi resi al suo paese, guadagnandosi anche l'appellativo di Sir. Fu sepolto con grandi onori, tributatigli dall'Inghilterra, nel cimitero delle Palisadoes poco fuori Port Royal. Quattro anni più tardi un devastante maremoto avrebbe cancellato il cimitero e i dintorni. Così le spoglie di Morgan con buona parte di Port Royal finirono in fondo al mare.
Molti affiliati alla filibusta avevano già dato l'anima al diavolo senza riuscire a sapere dove fosse e cosa ne sarebbe stato dell'immenso tesoro del pirata, frutto di scorrerie ai danni di galeoni spagnoli, francesi e dei saccheggi a Portobello, Cartagena e Maracaibo. Sapevano che Morgan non si sarebbe mai confidato con nessuno sul luogo in cui aveva nascosto le sue ricchezze e l'area in cui cercare era grande quasi come un continente con una miriade di isole. Il pirata inoltre, grazie ai suoi poteri, aveva messo al sicuro il suo segreto giustiziando con processi-farsa tutto l'ex equipaggio. Andare dunque alla ricerca delle sue ricchezze sarebbe stato come voler trovare un ago nel pagliaio e davvero impossibile senza alcun minimo riferimento.
Entrare in possesso del tesoro di Morgan significava tranquillità e agiatezza per sé stessi e per le proprie future generazioni.
Questo lo sapeva benissimo anche Alf Norwind, norvegese, chiamato Red Fox
dal colore dei folti capelli rossicci e per la sua astuzia. Unico superstite dell'equipaggio di Morgan e suo braccio destro, che era riuscito a sfuggire alla caccia spietata del pirata.
Nella Taverna dell'Orcio
a Port Royal in molti si chiedevano cosa guardasse intensamente da una finestra esposta a nord-est, mentre sorseggiava il suo rum seduto sempre allo stesso tavolo.
Non si ubriacava mai e non superava il boccale, mentre gli altri filibustieri bivaccavano bevendo birra con donne di facili costumi che vivevano dei loro lauti compensi. I pirati dilapidavano tanto denaro quanto i fiumi di alcool che dai barili versavano in corpo. Qualche compagno di taverna gli aveva chiesto cosa osservasse per tanto tempo da quella finestra. La sua risposta era stata sempre la stessa, laconica: Mi piace guardare dove sorge il sole di un nuovo giorno...
A Port Royal tutti sapevano che Alf era morto durante l'arrembaggio al galeone spagnolo Rey Carlos
al largo di Portobello, ma in realtà era stato solo ferito lievemente. La notizia della sua morte, diffusa con dovizia di particolari da un bucaniere ben pagato da Norwind, aveva convinto Morgan a non cercarlo più: ormai nessun altro conosceva il luogo in cui aveva celato i suoi forzieri.
Per lungo tempo Norwind era stato costretto a vagare per i Caraibi senza fissa dimora. La morte del più temibile pirata della filibusta gli aveva consentito di possedere una casa a Port Royal ma con un nome fittizio e poca serenità. Temeva di essere riconosciuto e l'essere stato il braccio destro di Morgan poteva indurre qualcuno a sospettare che sapesse il luogo in cui il pirata aveva nascosto il tesoro. Alf uscì dal locale e si avviò alla sua abitazione nella Queen Street, non molto distante da lì. Era un uomo enorme, alto, robusto ma agile come un vichingo; con sé aveva sempre un pugnale celato nella cintola sotto il mantello e una sciabola tagliagole che maneggiava con l'abilità di uno spadaccino. Giunto a casa sbarrò la porta col chiavistello, chiuse gli scuri delle finestre sulla strada, tolse il cappello, il mantello e posò le armi; prese da una cassa un lungo plico di pelle e sedette al grande tavolo posto al centro della stanza. Considerò che era giunto il tempo di organizzare una spedizione per portar via definitivamente dai Caraibi e dagli appetiti pericolosi un'immensa fortuna.
Aprì un cartiglio di pergamena e lo fermò ai lati con due grosse pistole a ruota. Guardò attentamente il contenuto, facendo scorrere lentamente il grosso dito indice lungo la linea curva e frastagliata del disegno di una costa. Era quella dell'isola della Tortuga e lui, ormai, l'unico a sapere che lì Morgan aveva nascosto il tesoro. Ricordò, forse con una punta di nostalgia, che al termine del saccheggio di Maracaibo Morgan era stato ferito a un fianco. La morte era l'unica cosa che Henry aveva temuto nonostante il suo coraggio e, mentre Alf lo sorreggeva, gli aveva detto con voce grave: Alf, se dovessi morire, prenditi tutto...tu sai dove lo porteremo!
Ora era morto e poteva prenderlo col suo vascello Sea Mary
e un pugno di uomini fidati, pur sapendo che la fiducia sarebbe stata la cosa più difficile da comprare: chiunque in quell'ambiente avrebbe sgozzato la madre pur di avere anche solo un briciolo di quell'enorme ricchezza.
Erano già trascorsi due anni dalla morte di Morgan e quel tesoro poteva essere suo ma aveva bisogno di supporti. Da solo non poteva farcela e quindi si rassegnò a doverlo dividere con chi avesse collaborato. In Port Royal c'erano solo ubriaconi, pirati di bassa lega e tagliagole. Ripassò attentamente il dito sulla linea e, imbevuta la penna d'oca nell'inchiostro, in un punto ben preciso tracciò un segno di croce. Chiuse il cartiglio a chiave nel secretaire dell'armadio e uscì.
"Andiamo sul mar... Il terrore noi siam...
Gli arrembaggi facciam... Sulle impavesate saltiam...
E gli ori prendiam... La...la...la...la...laaaaa...Oh...oh...oh...
Le donne e la birra vogliam...
Andiamo sul mar...
Il terrore noi siam...oh...oh...oh..."
Cantavano gli uomini dell'equipaggio di un vascello corsaro che era approdato da qualche ora nel porto. Sarebbero entrati tutti nelle taverne a spendersi i dobloni predati con donne facili e in fiumi di birra. Lungo il molo c'era un andirivieni di carretti colmi di mercanzie rapinate e di botti di vino, birra e melassa; mendicanti e straccioni, vecchi marinai e avanzi di ciurme andati in malora chiedevano carità e aiuti, svelti a raccogliere sul selciato le monete che dalle navi piovevano fra le risate e gli scherni dei filibustieri.
Port Royal era una città chiassosa, ricca e dissoluta, capitale della Giamaica, rifugio sicuro di corsari e pirati dei Caraibi.
Il suo porto brulicava di navi e imbarcazioni d'ogni tipo e grandezza e, al molo detto di Levante, era attraccato lo stupendo vascello di Alf Sea Mary
, con la bella polena a prua scolpita in legno policromo: un'amabile sirena a seno nudo e fluenti capelli al vento.
Era un vascello veloce di quarta classe, lungo trentacinque metri, armato con trenta cannoni da dodici libbre e artiglieria varia.
Alf gridò all'unico marinaio a bordo John, metti giù la passerella!
L'uomo ubbidì e col verricello scese la rampa di legno sul molo.
Salì velocemente e disse all'altro in sordina John, vieni con me in cabina, ti devo parlare...
L'uomo rialzò la passerella e lo seguì a poppa. Entrarono nel grande ambiente arredato con mobili intarsiati. Era stato un vascello spagnolo preso di notte a Cartagena, mentre a bordo dormivano tutti dopo aver bevuto molta birra. Non si erano accorti di nulla e i pirati silenziosamente avevano tagliato la gola all'equipaggio, ai soldati e agli ufficiali. La nave era passata facilmente nelle loro mani con tutto ciò che conteneva, inclusa una cassa d'oro fuso in barrette. Giunti al largo i corpi furono gettati in mare.
John l'Irlandese
era un pirata devoto ad Alf perché l'aveva salvato da morte certa su