Caribe
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Anteprima del libro
Caribe - Fernando Velazquez Medina
PRIMA PARTE
1
I contrabbandieri
Il mare si avventava con violenza sugli scogli e arrivava oramai ammansito alla caletta dove il gruppetto di uomini stava mettendo in mare la grande canoa fatta di un solo tronco d’albero scavato a fuoco, alla maniera indigena. La formidabile mole della nave ancorata a poca distanza dalla costa occupava col suo oscuro profilo l’orizzonte notturno che si confondeva col mare. I cannoni, le spingarde, i petrieri e i falconetti risaltavano alla luce di una mezzaluna che si rifletteva tremolante sull’oceano e sui fianchi metallici delle armi.
Alle spalle degli uomini riuniti sulla costa, si potevano ascoltare i rumori della notte antillana: sussurri, uno sfiorarsi di foglie, grida inarticolate, gemiti raccapriccianti, e tutta la gamma dei suoni che compongono la sinfonia della vita silvestre tropicale. Ma erano suoni inoffensivi. In quell’isola, oltre all’uomo, c’era un solo animale davvero pericoloso: il coccodrillo. E prima che arrivassero gli europei, gli uomini che vivevano lì erano innocui quasi come gli animali della selva.
La nave corsara stava sul chi vive, in attesa dei mercanti di riscatto
, pudico eufemismo per ciò che, davanti alla legge dell’Impero Spagnolo, era puro contrabbando, violazione dei decreti reali emessi dalla Cancelleria del Reale Alcázar di Madrid, o a San Lorenzo de El Escorial, o al Palazzo Reale di El Pardo, o in una qualunque delle tante residenze reali. In quelle sedi, i membri del Consiglio delle Indie si affannavano a persuadere il re di turno e i suoi ministri ad aumentare le tasse sul commercio indiano, che tanto oro procurava ai mercanti della Casa de Contratación di Siviglia e ai suoi soci – clero e nobiltà – lasciando la maggior parte dell’impero a bocca asciutta.
Il contrabbando era la risposta degli indios più coraggiosi, disposti a sfidare i poteri di uditori e inquisitori pur di vendere i loro prodotti a un prezzo redditizio e sentirsi più liberi eludendo la minaccia della forca o del rogo. Il commercio di riscatto
, il più delle volte, aveva gli eretici come controparte: luterani, calvinisti, ugonotti, e perfino inglesi antipapisti. Ciò significava ribellarsi non soltanto al governo di Madrid ma anche ai precetti della Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica e Romana.
Su tutto questo meditava il più anziano degli uomini, mentre con la piroga oramai in acqua remavano allegramente verso la nave che pareva aspettarli come se anch’essa, oltre al suo equipaggio, guardasse nervosamente all’eventualità di uno scontro con la Real marina spagnola.
Un altro gruppo di isolani era rimasto di guardia, spiando ogni indizio. La spedizione poteva andare male, e anche gli affari con gli onorati corsari – o privati imprenditori olandesi – potevano finire a coltellate. Poteva capitare di tutto: certi coloni erano tornati con le pive nel sacco; altri, saliti a bordo pensando di fare fortuna, erano spariti nelle sentine delle navi ed erano stati venduti come schiavi. A quei tempi ce n’erano bianchi e neri, senza troppe distinzioni. Soprattutto se la nave si dirigeva verso il Mediterraneo e vendeva il suo carico di ingenui ad Algeri o a Tunisi. Quando c’era di mezzo il denaro succedevano cose incredibili.
Se gli uomini appostati sulla spiaggia avessero sentito provenire dalla nave il minimo suono sospetto, l’avrebbero circondata sparando dalla costa e avrebbero chiuso l’ingresso della rada con una catena disposta da un capo all’altro, appoggiata sul fondo marino e pronta a essere tesa per impedire alla nave corsara di prendere il largo se avesse mancato ai patti.
Per gli stessi motivi di cautela l’uomo che stava in barca, con la pelle olivastra, tante rughe scavate nella cute indurita del volto e i capelli completamente canuti, era protetto da un doppio corsetto di cuoio di bufalo, come quello usato dai portatori di picca nei famosi tercios della fanteria spagnola, indossato sopra una fine cotta di maglia, e nella cintola teneva due pistole a miccia, di quelle moderne, fabbricate da armaioli italiani, col calcio d’avorio intarsiato. Aveva anche un pugnale, flessibile come un giunco, che non avrebbe nascosto le sue origini a un conoscitore di questi strumenti: veniva da Toledo. Al fianco sinistro portava una scimitarra damascena, del tipo a gladio, con la lama curva, più larga di una vera scimitarra, col filo su un solo lato e il controfilo sull’ultimo terzo del dorso. Il suo armamento era completato da un coltello nascosto nello stivale destro, se non vogliamo considerare come arma l’affilata fibbia che chiudeva il cinturone adorno di monete d’oro e d’argento di ogni paese: zecchini turchi, scudi spagnoli, e il cosiddetto dollaro del leone, che su una faccia aveva un cavaliere armato con uno scudo che mostrava in primo piano l’immagine di un leone rampante. Ma c’erano anche talleri tedeschi, pistole francesi, dinari, dracme, e un’infinità di altri scintillanti denari di quasi tutti i regni che battevano moneta. Qualcuna di quelle monete aveva strani simboli impressi sui due lati di oro brunito o d’argento lucido, e i profili di re, imperatori, sultani, papi, rajah. Su quel largo cinturone di foggia orientale era incollata una piccola fortuna.
In verità si trattava di uno strano vezzo in quei tempi e in quelle zone, dove la gente nascondeva i soldi e ostentava povertà per sfuggire ai ladri e agli esattori. Don Valdés doveva essere un irresponsabile esibizionista o avere una enorme sicurezza di sé per pavoneggiare in pubblico un simile cinturone. Chissà: forse voleva impressionare i suoi visitatori con lo sfolgorio dell’oro lucente e con la qualità dei suoi ornamenti, che denotavano l’uomo d’arme. Ciò non era affatto frequente in un negro o meticcio delle colonie spagnole: era molto più comune fra le genti d’Oriente, dove i potenti impiegavano negri di alta statura come guardie del corpo o guardiani del serraglio in cui tenevano mogli e concubine. Ma per custodire e convivere con le donne dei potenti dovevano rinunciare alla virilità e diventare eunuchi.
L’arsenale del meticcio era tutt’altro che ordinario fra i pacifici contrabbandieri e i piccoli agricoltori che dovevano sudare per ricavare discreti raccolti. Abituati alla zappa e all’aratro, gli abitanti dell’isola fuggivano i pericoli del mare e poco se la facevano con le navi proibite, che battevano le bandiere dei regni nemici di Spagna. Evidentemente, chi esibiva tali e tante armi non era un qualsiasi bracciante.
I suoi compagni non erano armati così bene e così riccamente. Solo alcuni, dalla faccia feroce e piena di cicatrici, avevano armi da professionisti, intarsiate, affilate e di buona fattura, ben più pericolose degli antiquati spadini e dei tromboni dei paciosi contadini. Armi che, peraltro, non dovevano essere sconosciute all’equipaggio della nave forestiera.
Dai tempi della conquista, centocinquant’anni prima, l’armamento era cambiato. Archibugi e moschetti sparavano sempre più precisi. Le frecce si usavano sempre meno, comprese quelle da balestra, che pure qualche decennio prima erano stimate più affidabili delle armi da fuoco. Oramai c’erano corpi specializzati di moschettieri, come il reggimento del re di Francia, che facevano parte della sua guardia del corpo personale.
Erano queste le cose a cui pensava il canuto comandante ricordando le infernali battaglie a cui aveva preso parte, e i viaggi verso zone incerte, mai raggiunte dall’uomo bianco. Nel frattempo, dalla sua posizione avanzata sulla piccola imbarcazione, prendeva nota di ogni movimento sulla nave all’ancora in mezzo alla baia, una delle tante che si aprivano sul lato nord dell’Isola di Cuba per la gioia dei pirati e dei corsari che brulicavano in quelle acque. Per i guardacoste reali era un difficile impegno, come del resto era difficile pattugliare le coste spagnole del Mediterraneo per respingere gli attacchi dei turchi e dei pirati barbareschi. Dunque, i mercanti stranieri che arrivavano sui litorali di Cuba senza permesso, e cioè tutti a quei tempi, dovevano prendere ogni genere di precauzioni per non farsi scoprire, inseguire, affondare o, Dio non voglia, essere catturati e torturati dal Sant’Uffizio. La riuscita degli scambi, evitando l’intervento delle autorità, dipendeva dalla loro previdenza.
La sagoma del vascello ingigantiva a ogni colpo di remo. L’occhio esperto di Valdés l’aveva classificato come una orca olandese, molto utilizzata per questo tipo di commercio. Galleggiava su uno specchio d’acqua profonda e a portarcela dovevano essere stati dei marinai in gamba, dato che vascelli di quel tipo, a differenza delle caravelle, pescavano parecchio e i marinai prudenti cercano ancoraggi solo in acque profonde e ben note. Quasi certamente, prima di entrare nella rada, avevano mandato in avanscoperta una scialuppa a esplorare i fondali, per non urtare scogli o incagliarsi nelle secche.
Oramai avevano affiancato la nave dalla quale, dopo aver dato la parola d’ordine, sarebbe scesa la scala di corda. Gli uomini di vedetta spiavano la linea della costa e i segnali con cui altre vedette nascoste, appostate al largo della baia, potevano annunciare la comparsa di un galeone o di qualunque natante in grado di dare l’allerta ai vascelli di Sua Maestà.
Sulla coperta che rollava, per Valdés un piacevole ricordo d’altri tempi, li aspettava un comitato di benvenuto, tutti armati, come d’uso negli affari di quattrini, che fanno nascere la sfiducia nel genere umano. Un odore conosciuto solleticò le sue narici mentre accennava a salutare il gruppo di ufficiali che lo aspettava in coperta e che lo ricevettero con onori e gentilezze: «Come state? Come va? Sta bene la sua famiglia?», e altre cortesie tradotte in castigliano da un interprete o traduttore che parlava le due lingue. Il capo degli isolani lasciava parlare gli altri e intanto ispezionava discretamente la dotazione di armi del vascello, la loro disposizione, le armi della gente in coperta, l’alberatura e gli altri indizi sulle capacità del comandante.
Il capitano portava un’armatura filigranata di una bellezza rara per queste zone delle Indie Occidentali, dove le corazze e gli altri accessori guerreschi facevano sudare di brutto chi si intestardiva a indossarli per far figura (tra l’altro, bisognava pulirli bene quasi tutti i giorni, per via del caldo e dell’umidità). Il calore, soprattutto, poteva quasi uccidere chi stava ingabbiato in un’armatura europea di sessanta o settanta libbre. Si chiamava colpo di calore
ed era ben noto sui campi di battaglia del Vecchio Continente, soprattutto nei paesi del sud o sulle galere del Mediterraneo. In questo modo ignobile erano morti molti più guerrieri che per le armi dei nemici saraceni.
Nei Caraibi, i neri e gli europei naturalizzati seguivano l’esempio degli indios – che usavano abiti di cotone contro le armi di pietra dei loro simili, armi poco pericolose – e cercavano di vestirsi il più possibile leggeri; al massimo usavano, come don Valdés, una pettorina di cuoio duro o una cotta di maglia. Osservando la pesante armatura, il riccone cubano dalla pelle scura dedusse che il capitano era nuovo da quelle parti, novizio nel Mare delle Antille, delle Lenticchie, dei Cannibali o Caraibi, da cui prendeva il nome una bellicosa tribù che non si faceva scrupoli a mangiare un bianco o un nero o un indio: per loro erano tutti carne arrosto, lo sapeva per esperienza.
Improvvisamente, con stupore dei presenti, Valdés si rivolse al capitano parlando in fiammingo.
«Het Geachte», disse all’alto ufficiale, chiamandolo vostra signoria
, «vorremmo sapere quali mercanzie trasporta il vostro vascello. Ve lo domando perché qualche settimana fa una nave inglese ci ha fornito molte delle cose di cui avevamo bisogno.»
L’uomo biondo gettò uno sguardo sorpreso sul meticcio che si azzardava a interrompere una conversazione tra uomini bianchi, valutò di buon panno i suoi vestiti e notò che alcune delle sue armi avevano ornamenti d’argento, cosa poco comune per uno schiavo. In effetti, per un uomo di razza negra era singolare il semplice fatto di andare in giro armato. Come se non bastasse, il cinturone pieno di monete confermava che non si trattava di un uomo qualsiasi. Il corsaro olandese si sarebbe detto soddisfatto di andarsene con quel bottino. Ma si rendeva conto che intorno alla sua nave, in ogni cala, in ogni spiaggia, c’erano isolani in quantità che tenevano l’imbarcazione sotto tiro e l’uscita verso l’alto mare era controllata dai compagni di questo meticcio dall’aria sorniona, che non era certo un tipo da lasciarsi defraudare impunemente.
Era altrettanto sorprendente che gli avesse rivolto la parola in ottimo olandese, quando tutti gli altri isolani dipendevano dalle traduzioni di un fiammingo che conosceva la lingua di Lope de Vega per essere stato prigioniero degli spagnoli durante la guerra di Fiandra.
Il capitano si riebbe dallo stupore, vide che gli isolani non avevano rimproverato né il meticcio per la sua audacia né si erano sorpresi per la sua insolenza, e capì che era lui la sua controparte.
Era il suo interlocutore.
Gli rispose in olandese: «Mi par di capire che siete voi al comando in questo affare. Siete anche uomo di mondo, visto che parlate più di una lingua. Siete stato in Europa?»
«In effetti, signore, parlo cinque lingue; anzi: sette, se contiamo l’idioma degli indios cannibali e un po’ di latino. Le altre lingue sono inglese, portoghese, francese e arabo, oltre al castigliano, ovviamente. In questo affare sono, per così dire, il più anziano. Mi chiamo Valdés, per servirvi, voi e il re di Spagna, che Dio lo conservi.»
Il capitano non mancò di cogliere l’ironia verso il re di Spagna, visto che l’affare da discutere consisteva appunto nel frodare il governo e il tesoro del re, che oltretutto era anche nemico dei Paesi Bassi.
«Ma veniamo al dunque», suggerì Valdés. «Facciamo i nostri scambi, in modo da beneficiarne sia la vostra repubblica sia i miei conterranei.» E si sedette su uno sgabello di cuoio, di quelli che si possono aprire e chiudere, che una delle sue guardie del corpo gli aveva messo a disposizione. Con un gesto, accennò ai suoi seguaci di accomodarsi sui banchi di legno sparsi sulla coperta. Riordinò le sue armi in modo che non dessero fastidio, e il capitano notò che i movimenti erano quelli di un uomo abituato a portare addosso e a maneggiare quella ferraglia micidiale.
Tutti si sedettero, tranne i cinque dallo sguardo duro, che – come in una manovra militare ben collaudata – rimasero a protezione del capo, uno esattamente dietro, gli altri appoggiati al bordo per fare in modo che nessuno potesse passare alle sue spalle.
Intanto lui, Valdés, aveva preso nota del fatto che la nave aveva due ordini di cannoni, montati su affusti all’inglese, con ruote piccole, per non disturbare il combattimento. Così si poteva ricaricare l’arma dalla bocca senza intralciare il cannone del lato opposto, anche quando si trattava di ricaricarli contemporaneamente. Molte navi europee usavano gli affusti da campagna, con ruote grandi e un palanchino sul retro, il che, dopo il primo sparo, ostacolava la ricarica. Sulla nave c’erano forse quattro cannoni da 16 libbre, più alcuni falconetti e petrieri. Non avrebbe potuto cavarsela contro una nave di linea dell’Armata Reale. Solo sfruttando leggerezza e velocità gli olandesi sarebbero potuti uscire indenni dallo scontro con un galeone, il tipo di navi con cui la Corona pattugliava acque e coste delle sue colonie americane.
Dopo aver discusso e concordato i dettagli dello scambio di prodotti europei proibiti e mercanzie antillane, il capitano invitò Valdés a una chiacchierata più ristretta: voleva sapere come avesse imparato lingue così diverse come il latino e l’idioma dei Caraibi.
Si staccarono dal gruppo formato dagli ufficiali della nave, da qualche mercante di Rotterdam e dai rozzi contadini, mentre due o tre delle facce patibolari che accompagnavano Valdés lo seguivano, e spiccavano come un colpo di pistola durante una messa. L’ultimo rimase al comando di tutti gli altri che stavano in coperta. Anche il figlio del patriarca Valdés, Leonardo, detto Nardito, quasi bianco come l’olandese, si unì a loro.
«Mi dica dunque, señor, come ha potuto imparare tutte le lingue che ha elencato, in particolare quella della mia patria», domandò il capitano versando vino da una bottiglia. Il meticcio rifiutò gentilmente il bicchiere. A porgergli un’altra bevanda, vino di Porto, fu il suo silenzioso guardaspalle, che per un momento tralasciò di accarezzare il calcio di un pistolone mentre gli altri stavano anche più all’erta: uno sulla porta della cabina, un paio incollati a opposte pareti, e il figlio di Valdés a fianco del padre, anche lui in piedi per poter usare le armi rapidamente in caso di necessità.
«Ah, è semplice», dichiarò il vecchio, «quando ero molto giovane, nel secolo scorso, fui catturato da certi corsari europei e con loro ho navigato in parecchi mari e oceani. Una volta sono stato anche nelle Fiandre. Quanto ad apprendere le lingue, ad Amsterdam una cortigiana fiamminga mi fece da maestra. Come voi ben sapete, Amsterdam è una città cosmopolita, dove approda gente che proviene da tutto il mondo conosciuto. Ma sono stato anche in Africa e nelle isole del lontano nord, come l’Islanda, a caccia di balene, narvali, orche e capodogli. Però non ho avuto il tempo di imparare la lingua degli islandesi e dei norvegesi, che dominano l’isola, malgrado gli sforzi di una delle loro femmine che cercava di insegnarmela: c’erano altri affari in ballo e mi mancò il tempo.»
«Certo lei avrà avuto fortuna con le donne del nord. Da quelle parti non ci sono molti uomini con un colorito come il suo. E alle donne piacciono le cose che scarseggiano, come a noi, del resto. Credo che per uno della mia razza non ci sia niente di più eccitante di una donna negra. Il contrasto è molto stuzzicante. Ma mi dica», proseguì l’uomo di mare, «come fu che i corsari la catturarono? E come ha fatto a liberarsi?»
«Ah! Questa è una lunga storia e ve la racconterò in un altro momento. Ora devo andare con i miei uomini. Dobbiamo tornare per tempo alle nostre case, cenare, dormire ciascuno con la sua donna, svegliarci presto e in forza per caricare le merci. Domani sarà una lunga giornata.»
Si alzò, salutò il capitano e i suoi ufficiali. Uscì dalla cabina, che stava nel castello di prua, e riunì i suoi uomini con una manovra sincronizzata: con gli armati per ultimi, che guardavano dappertutto mentre gli altri scendevano nella lancia su cui erano arrivati.
«Adesso so come mai conoscete tante lingue, padre», disse il figlio maggiore di Valdés, quando oramai erano nella lancia e vogavano verso la spiaggia. «Credevo che parlaste solo castigliano e inglese, e quest’ultimo solo perché è la lingua di mia madre.»
Il padre, che ora stava a poppa della barca, guardava la sagoma della nave dagli alti bordi che appariva sempre più lontana a ogni colpo di remi, confondendosi con le ombre dei boschi tropicali. Dopo un lungo silenzio, come risvegliandosi, si rivolse al figlio, sospirò, e disse: «È ora che ti racconti tutta la storia. Non voglio portarmela nella tomba.»
«Chi ha parlato di tombe, padre? Siete ancora fortissimo, e io e i miei fratelli abbiamo bisogno che ci guidiate e insegniate tutto ciò che sapete.»
«Gli uomini non possono sapere quanto durerà la loro vita e alla mia non deve restare molto tempo. Vi lascerò in eredità il mio patrimonio, ma la mia storia vale molto di più perché contiene il fondamento della mia ricchezza. Concludiamo questo affare con gli eretici
e poi ci siederemo a conversare, voi e io. So che avete molte domande da farmi. La prima delle quali è come può un meticcio possedere soldi e proprietà, e addirittura una moglie, tua madre, di razza bianca. Ma ogni cosa a suo tempo, siamo a terra, sbarchiamo, che è tardi, e le mogli dei nostri uomini saranno preoccupate. Sai bene che gli onorati mercanti che ogni tanto ci fanno visita sono anche dei pirati: essere cortesi non significa mancare di coraggio. Speriamo che le armi, che stasera abbiamo messo in mostra, gli tolgano dal cervello le cattive idee.»
Giunsero a terra, nascosero la lancia e cancellarono le tracce sulla sabbia, in modo che una spia della Corona non potesse sospettare il loro andirivieni sulla spiaggia. Lasciarono due uomini a sorvegliare la grande nave che rollava al ritmo delle onde e si infilarono per i sentieri che penetravano nella foresta e che, di quando in quando, si riducevano a un angusto pertugio nella massa degli alberi.
Sulle loro teste sentivano saltare da una fronda all’altra le hutie mentre i majas, cugini degli anaconda e dei pitoni di Terra Ferma, ma più piccoli e inoffensivi per gli uomini, scivolavano sui tronchi o si arrotolavano sui rami alla posta di una colomba, o un tacchino, un topo o una hutia, per soffocarli nelle loro muscolose spire. Il gruppo marciava con gli occhi sempre all’erta, e con le armi pronte, perché l’esperienza insegna che negli affari contro la legge bisogna diffidare della giustizia ma anche dei complici e degli altri delinquenti. Non avevano con sé né monete né oggetti di valore, ma un’imboscata per rapire e chiedere un riscatto era qualcosa di assolutamente normale e lecito fra onorati mercanti. Perbacco, lo facevano anche i re!
Gli uccelli notturni interrompevano la caccia per guardarli passare, con i loro occhi acuti. Civette e gufi catturavano topi e piccole bisce, mentre i loro cugini sparvieri, falconi e gheppi, cacciatori diurni, dormivano della grossa sulle cime dei pini, delle palme, delle siguarayas e delle ceibas, gigantesche, muscolose, delle dimensioni di una sequoia. Al di sopra e al di fuori della foresta il caldo era asfissiante, ma la vicinanza del mare e il manto protettore degli alberi creavano un clima fresco negli intricati sentieri dove soltanto il fuoco aveva attaccato la selva prima dell’arrivo degli spagnoli. Gli indios che abitavano l’arcipelago usavano gli alberi quasi solo per costruire le canoe.
Finalmente arrivarono alla masseria, anch’essa realizzata con materiale locale: legno di palma alle pareti, foglie della stessa pianta per i tetti. Solo la casa di Valdés, il riccone del posto, era fatta con assi di legno duro e il tetto era di tegole catalane, che dovevano esser costate una fortuna. Una casa che poteva reggere le pallottole di un moschetto e perfino l’impatto del proiettile di un cannoncino. Il riccone avrebbe potuto comprare a buon prezzo quel che gli occorreva dai contrabbandieri, ma si sarebbe messo troppo in mostra. E così, molti anni prima, aveva ordinato a San Cristóbal de la Habana i materiali per il suo tetto facendoli arrivare via nave dal porto di Veracruz, nel Vicereame della Nuova Spagna.
Ignorando i latrati dei cani, gli uomini si scambiarono i saluti. Gli sposati tornarono dalle mogli che li aspettavano nervose, i giovani fidanzati salutarono a gesti le loro promesse, che sorridevano dietro le spalle delle madri. Qualcuno continuò a camminare fino a certe case appartate, sul viottolo che portava al sentiero principale.
In pochi minuti i rumori tacquero, cessarono le conversazioni e il silenzio cadde sul piccolo villaggio, ma alcuni uomini rimasero di vedetta con le armi a portata di mano e i lucignoli accesi, pronti per dar fuoco alle micce degli archibugi, alcuni dei quali erano antichi come la Conquista ma ancora in grado di trucidare cristiani, se necessario.
2
Don Valdés, mentre il figlio maggiore raggiungeva a letto la moglie canaria – mezza spagnola e mezza guanche – sedette al tavolo della sala grande che serviva per ricevere visite, scrivere contratti e pagare i famigli. Si versò un po’ di birra inglese, chiaramente di contrabbando, che gli piaceva assai – anche se nessuno capiva dove aveva potuto far l’abitudine a quel liquido, che spagnoli e portoghesi chiamavano spregiativamente piscio
–, e cominciò a scrivere annotazioni su un quaderno con la copertina di cuoio di vitello, cosa piuttosto rara in quei tempi nei quali pochi sapevano leggere e ancora meno scrivere. Potevano servire da prova delle sue capacità i libri che gli aveva venduto un corsaro catalano, fra i quali ce n’erano molti di cavalieri erranti, e uno intitolato L’ingegnoso hidalgo (ma, a dir la verità, tutti quanti siamo figli di qualcosa o di qualcuno).
Valdés riempiva della sua scrittura un foglio dopo l’altro. Alla luce del candeliere risaltavano la sua corporatura forte ma armoniosa, e i suoi occhi verdi in una faccia dove si mescolavano tratti negroidi, indios e europei. Aveva capelli corti e bianchi, labbra ampie e una smorfia crudele che gli attraversava il volto quando pareva gli tornassero alla memoria giorni lontani. Alla mano che impugnava la penna portava un anello di strana fattura, diversa da quelle usuali sia nel Nuovo Mondo, che tra gli argentieri e gli orefici di Toledo e di Siviglia. Come il suo strano pugnale, avrebbe potuto essere opera di un artigiano del Mediterraneo Orientale, ma non aveva gli arabeschi tipici di quelle botteghe. Doveva essere stato forgiato più a est dell’Arabia Felice, in uno di quei paesi dove andavano in pochi, per sorte o per disgrazia, luoghi situati in mari che fino a pochi anni prima erano vietati ai cristiani e anche agli eretici.
Valdés continuava a scrivere mentre la notte si consumava sulle cime delle palme da cocco, delle canne da zucchero e delle tavole di yucca, e delle tettoie dove erano impilate le pelli e la carne salata dei bovini, i prosciutti di maiale selvatico e i legnami duri che formavano le ricchezze di quel luogo. Nei magazzini c’erano anche piccole quantità del caffè africano che aveva assaggiato in Abissinia e che presto avrebbe conquistato l’Europa; e del tabacco, che era già un vizio diffuso fra gli europei, e fonte di guadagni sempre più grandi. Peccato! Lui non avrebbe fatto in tempo a vederlo espandersi in tutte le terre conosciute. Ma sarebbe stato una buona mercanzia per aumentare le fortune dei suoi figli. Sempre che il governo della colonia non avesse pensato a controllarla: la burocrazia è creativa e trova sempre un nuovo problema per ogni soluzione. L’Inquisizione non aveva forse messo in galera Rodrigo de Jerez al suo rientro dalle Americhe dopo aver partecipato all’avventura di Colombo, perché secondo i teologi soltanto il diavolo poteva dare a un uomo il potere di emettere fumo dalle narici? Frati ignoranti. E pericolosi.
Valdés scriveva e parlava tra sé, ogni tanto beveva o lanciava un’occhiata al chiarore che a poco a poco si insinuava nella finestrella che dava sull’esterno. Improvvisamente il baccano di una raganella lo scosse. Distolse gli occhi dal lavoro, impugnò una pistola, infilò il pugnale nella cintura e si affacciò con cautela alla finestra mantenendosi nell’angolo in ombra. Un uomo correva verso la casa facendo suonare la raganella: era il segnale dell’arrivo di una nave dell’Armata Reale. Valdés aprì la porta a un uomo senza fiato, che boccheggiava ansimando. Ci volle quasi un minuto perché il messaggero riuscisse finalmente a parlare.
Intanto si era andato riunendo davanti alla casa un gran numero di paesani risvegliati dal fracasso della raganella. Anche i cani latravano e univano il loro strepito a quello degli uomini che conversavano, domandavano, congetturavano, in un tumulto simile a quello di un mercato arabo. La maggior parte degli spagnoli che popolavano le Antille non era lì per sfizio, ma perché discendevano da isolani delle Canarie, giudei convertiti e andalusi di sangue mozarabico che fuggivano dalle carestie, dalle ordinanze reali e dallo sguardo malevolo della Santa Inquisizione.
Recuperato il fiato, il suonatore di raganella disse con voce tronca: «Una nave reale si avvicina alla costa. Viene da ovest. Sembra che voglia chiudere il passaggio all’orca.»
«Proprio quel che temevo. Le nostre vite sono in pericolo.»
«Ha l’aria di essere un galeone. Ha una gran superficie velica, per quanto abbiamo potuto vedere. Ma a queste ore di notte ci si può sbagliare.»
«Martin, di’ alla gente di mettersi in assetto di guerra. Bisogna vedere di persona cosa verrà fuori da questo scontro. Potrebbe andarci di mezzo l’esistenza del nostro villaggio. Prendete anche i