Partisan: Sulle tracce di Karl Gufler il bandito
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Anteprima del libro
Partisan - Carlo Romeo
Steurer
Prologo
La sera del venti marzo 1947, verso le diciotto e trenta, una camionetta dei carabinieri proveniente da Merano transitava sulla strada della Val Passiria verso il paese di San Martino. Insieme a tre militi vi era il nuovo comandante della Compagnia meranese, che veniva per la prima volta in perlustrazione in quella zona. Al dodicesimo chilometro, come da accordi, si sarebbero fermati ad attendere un’altra pattuglia che doveva arrivare in senso opposto. L’auto era già quasi ferma a qualche passo dalla pietra miliare, quando dalla macchia sulla destra partirono raffiche di mitragliatrice. In pochi secondi una ventina di proiettili colpirono il veicolo.
I carabinieri riuscirono fortunosamente a scendere illesi e a ripararsi dietro l’automobile, rispondendo a loro volta al fuoco. La sparatoria, al buio, esaurì le munizioni di entrambe le parti.
A questo punto, secondo quanto riportato dalle cronache, ebbe inizio una non meglio chiarita trattativa
, alla fine della quale l’ultimo proiettile rimasto in canna a un carabiniere colpì uno dei due assalitori alla nuca, mentre si ritirava senza rispondere all’ordine di consegnarsi. Il proiettile trapassò il cranio fuoriuscendo dall’occhio destro. L’altro, datosi alla fuga, venne facilmente arrestato in seguito.
Il giorno dopo la cronaca locale dedicò qualche riga all’episodio, soprattutto in merito al deceduto: Karl Gufler, ventisette anni, di San Martino, bandito noto e temuto in tutta la valle. La popolazione, si riferiva, tirava un sospiro di sollievo alla notizia della sua scomparsa. Di certo il giovane steso a terra, con la mitragliatrice da guerra tedesca stretta ancora nella mano, bandito
lo era stato da sempre.
Karl Gufler? Eh, di Gufler qui a San Martino ce ne sono a migliaia. Disperazione dei postini… Ah, il Meiler Karl! Veniva chiamato così dal maso dov’era cresciuto […].
[…] Gufler il bandito? Certo che so chi era! Anche se sono passati tanti anni, qui in Passiria chi ha una certa età come fa a non ricordare il Gufler, lui e la sua banda di assassini […].
[…] Ne ha passate tante il Gufler; non era cattivo, no, lo hanno fatto diventare cattivo. Lui ce l’aveva coi nazisti e rubava a loro, solo a loro […].
[…] Mia madre doveva saperne di più, peccato sia morta. Aveva subito dei furti da parte del Meiler Karl. Mi ricordo una volta, ero piccolo, mia madre era alla finestra, all’improvviso si è ritratta spaventata e ci ha fatto segno di stare fermi e zitti. Passa il Meiler Karl
, ci ha detto con voce tremante […].
[…] Aveva un’esclamazione personale: Schlarg an Aug ausser!
. Tutti la ricordano, ma nessuno me l’ha saputa spiegare. Ho chiesto in giro, ma forse non aveva un vero senso, era un gioco di suoni. […] Era proprio un bel tipo. Anche nei momenti più drammatici, quando sembrava spacciato, scherzava sempre. Sì, era anche un po’ incosciente. […] Suo fratello, Alfons, suonava bene il violino. Alle feste veniva sempre chiamato. Riusciva a guadagnarsi così il pane. Poi è andato via, credo in Germania. Anche Karl era appassionato di musica. E ballava come un forsennato fino all’alba. Faceva delle feste in casa di suo cugino che si lamentava di avere la casa sempre piena. Era persino riuscito a rimediare un grammofono dopo la guerra… Chissà dove l’aveva preso… Il parroco, che lo conosceva bene, gli diceva: Invece di pregare durante la Quaresima perdi tempo in questo modo!
.
Le notizie sull’infanzia di Karl Gufler sono più confuse, o forse confusa fu la sua stessa infanzia. Orfano della madre in tenerissima età, visse fino a sei anni col padre, alcolizzato, che riuscì a dissipare in breve tempo la proprietà di un’osteria. Andò quindi a vivere con lo zio, dal cui maso ebbe il soprannome. Poi, come la maggioranza dei coetanei nella sua condizione, trascorse il resto dell’infanzia e l’adolescenza come Knecht, servo agricolo, passando di stagione in stagione presso masi e famiglie diverse. Nel 1939 Karl Gufler aveva vent’anni. Essendo in età di leva poteva optare per la Germania o l’Italia.
Si arruolò volontario nella Wehrmacht. Perché tutti gli dicevano che era il migliore a sparare e lui aveva la passione delle armi. E in ogni caso non aveva niente da perdere, non si lasciava alle spalle proprio nulla di caro. […]
Partì subito, all’inizio del 1940. Per tre anni del Meiler Karl non si seppe più nulla. Poi, nella primavera del 1943, tornò in licenza a San Martino e si seppe che era stato in Norvegia, Francia e Russia; era stato ferito e decorato. Il due maggio gli sarebbe scaduta la licenza: ma non si ripresentò più.
I
Se l’era visto arrivare, un giorno, con quei pantaloni addosso che sembravano proprio quelli di una divisa tedesca e un sorriso scanzonato e quasi irritante stampato sul viso, a chiedere lavoro. Era il momento di fare il fieno e un paio di braccia in più non avrebbero fatto male. Tuttavia il vecchio Gögele aveva capito subito che qualcosa non andava in quel giovane.
Hansjörg, aveva detto di chiamarsi così, ma dopo averci pensato un po’ su e con un’aria quasi divertita. E quando lo chiamava da lontano con quel nome, non si girava mai. Sul lavoro niente da dire; era capace di tirare anche cinque o sei ore senza una pausa. E poi era entrato subito nelle simpatie di tutti i compagni di lavoro per il suo umore sempre allegro, per gli scherzi e le battute che animavano le sere nel fienile, accomodato a dormitorio. Finché una sera il figlio di Gögele, tornato da una commissione svolta a San Martino, riferì al padre che i tedeschi stavano cercando un certo Karl Gufler, che aveva disertato. Era un decorato e in Russia era stato ferito a un piede e camminava in modo strano. Proprio come Hansjörg.
L’oscurità di quella sera puntellata di stelle era tagliata dalla striscia di luce che proveniva dall’uscio semiaperto del fienile. Quante volte Gögele aveva ripetuto ai braccianti di stare attenti al lume, che bastava un attimo di distrazione per combinare un disastro. A giudicare dalle voci e dagli schiamazzi che provenivano dall’interno dovevano essere alticci. Su tutte le voci dominava quella del nuovo arrivato, che Gögele riconobbe subito, avvicinandosi al fienile. Rimase un istante fermo sull’uscio ad ascoltare.
– Il pezzo di terra più importante della valle è quello dove nasce il Passirio… Uno ci si può mettere a cavalcioni e chiedere un po’ di soldi ogni giorno, a turno, a ogni paese della valle.
– Perché dovrebbero darglieli?
– Altrimenti ci piscerebbe dentro!
– Nel tuo caso uscirebbe solo del vino.
Seguirono altre risate. L’uscio si aprì zittendo tutti.
– Tu, Hansjörg, o Karl… ti devo parlare, vieni fuori!
Karl rimase immobile, a bocca aperta, con la bottiglia stretta nella mano.
– Chi c’è fuori? – disse poi brandendola e guardandosi attorno circospetto.
– Non c’è nessuno, voglio solo fare due chiacchiere per vederci meglio in questa storia. Vieni fuori, ti dico!
Un quarto d’ora dopo Karl rientrò da solo nel fienile. Disse che si fidava di tutti loro. I tedeschi lo stavano cercando, ma non aveva fatto nulla di male. Era stato in Russia e gli avevano sparato a un piede: per questo qualche volta zoppicava, non era vero della tagliola. E ora non voleva più tornare, perché ne aveva avuto abbastanza. Dopo un primo momento di imbarazzato silenzio cominciarono a fioccare le domande. Erano quasi tutti più giovani di lui e sapevano di essere sulla lista dei futuri partenti. Della Russia sapevano solo quello che veniva detto da chi non c’era stato e le lettere dei fratelli maggiori o dei conoscenti già al fronte non dicevano praticamente nulla. Quella notte si dormì poco e si parlò molto nel fienile. Del freddo che c’era lassù, delle Katiusce, di come un’intera armata era stata persa a Stalingrado. E degli irregolari russi, che di notte arrivavano fin oltre le linee, quando meno te lo aspettavi. Colpivano in silenzio, poi sparivano mimetizzandosi nella neve, senza lasciare tracce. E la popolazione li aiutava, non si capiva dove si nascondessero. Ed erano chiamati partigiani.
II
Ben presto Karl si decise ad andar via dal maso di Gögele. Due uomini dell’ADO di San Martino erano passati un giorno fin lassù. Probabilmente non erano venuti lì per lui. Avevano parlato col padrone, seduti fuori della casa, davanti a una bottiglia di vino. Karl li aveva osservati da lontano, con crescente inquietudine. Pensò che sarebbe bastato un cenno da parte di Gögele o di qualcuno dei compagni per farlo prendere. Capì che sarebbe stato insopportabile continuare a starsene lì, in quell’incertezza, col dubbio continuo di essere tradito. Quella sera non tornò al maso. Fece sapere a Gögele che lo ringraziava di tutto e che poteva fargli avere l’ultima paga per mezzo di Anton, con cui sarebbe rimasto in contatto.
Anton era di cinque anni più giovane. In quel mese in cui avevano lavorato insieme, Karl era già diventato per lui un punto di riferimento, quasi un fratello maggiore. Tra poco avrebbe compiuto diciott’anni e i tedeschi avrebbero chiamato anche lui. Suo padre sarebbe rimasto solo con quattro figlie e un ragazzino. I suoi due fratelli più grandi erano entrambi in Russia.
Anton continuò a frequentare Karl, nonostante Gögele glielo avesse sconsigliato. Quando poteva, gli portava qualche vestito e del cibo. Il posto convenuto era una piana sopra Saltusio. Di tanto in tanto l’accompagnava anche la sorella Maria, la più grande delle quattro. Al giorno e all’ora stabilita, giunti al margine della radura, lanciavano un richiamo. Non passavano due o tre minuti che Karl sbucava da chissà dove, silenzioso come un gatto,