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Il Barbiere dello Stalag VI C: Il mio nome è 78769
Il Barbiere dello Stalag VI C: Il mio nome è 78769
Il Barbiere dello Stalag VI C: Il mio nome è 78769
E-book197 pagine2 ore

Il Barbiere dello Stalag VI C: Il mio nome è 78769

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Info su questo ebook

Le storie degli internati militari italiani nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale potranno sembrare una uguale all'altra, ma non lo erano i sentimenti che intimamente ciascun prigioniero viveva in modo autonomo. Condividevano una patria, la stessa divisa; condividevano un NO fragoroso urlato e ripetuto a chi gli chiedeva di passare dalla loro parte per stare meglio. In 650.000 fecero la scelta di stare peggio ed Aldo era uno di loro. Doveva resistere dove era impossibile farlo, ma farlo assieme ad altri disperati poteva dare forza a tutti. Amicizia, fede, amori e famiglia erano argomenti a cui aggrapparsi. Alcuni non riuscirono a venirne fuori integri. Aldo preferì dimenticare e non parlare di quegli anni per il resto della sua esistenza. Coccolava il suo astuccio e le cose che conteneva, ve ne ripose altre per farne uno scrigno.
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2021
ISBN9791220342827
Il Barbiere dello Stalag VI C: Il mio nome è 78769

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    Anteprima del libro

    Il Barbiere dello Stalag VI C - Paolo Angeloni

    Ringraziamenti

    Paolo Angeloni

    Il barbiere dello Stalag VI C

    Il mio nome è 78769

    Dello stesso autore in edizione Youcanprint

    La talare mancata - 2017

    CHIKA - 2019

    ISBN: 9791220342827

    Youcanprint Self-Publishing

    Il barbiere dello Stalag VI C

    Il mio nome è 78769

    Ai miei genitori

    Contento, proprio contento

    sono stato molte volte nella vita

    ma più di tutte quando

    mi hanno liberato in Germania

    che mi sono messo a guardare una farfalla

    senza la voglia di mangiarla.

    (La farfalla di Tonino Guerra)

    Prefazione

    di Mario Avagliano

    Negli ultimi anni la vicenda degli Imi, i militari italiani catturati dai tedeschi nel settembre-ottobre del 1943 e internati nei lager per due anni perché rifiutarono di aderire all’esercito della Repubblica sociale italiana, ha avuto finalmente maggiore attenzione da parte della storiografia, della pubblicistica e anche delle istituzioni nazionali e locali.

    Non c’è dubbio che è meglio tardi che mai. Tuttavia il sacrificio degli Imi (internati militari italiani) -  termine affibbiato loro da Hitler in persona per punire il presunto tradimento dell’8 settembre (non applicando la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra e sfruttandoli come forza lavoro) e per giustificare che cittadini di una nazione alleata fossero trattenuti nei lager -  è ancora largamente sconosciuto a gran parte degli italiani, per cui ogni contributo è utile e prezioso.

    A dare nuova linfa agli studi sugli internati militari sono state di recente anche diverse pubblicazioni curate su scala territoriale da familiari degli Imi che, attraverso una specie di macchina per i viaggi nel tempo, hanno cercato di ricostruire le vicissitudini dei loro cari, sulla base di documenti, diari, lettere, fotografie o raccogliendo i loro racconti orali, sotto forma d’intervista o di romanzo storico. Materiali utilissimi per ricomporre il puzzle dei sentimenti, delle opinioni e delle motivazioni delle scelte di quegli italiani, come testimonia il libro scritto da me e Marco Palmieri, intitolato "I militari italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz’armi 1943-1945" (Il Mulino).

    In questo filone s’inserisce Il barbiere dello Stalag VI C di Paolo Angeloni, che narra l’esperienza del padre Aldo, classe 1920, soldato del trentunesimo reggimento di fanteria Siena, sradicato da Velletri, costretto a separarsi dalla sua amata Iolanda e inviato appena ventenne dal regime fascista a spezzare le reni alla Grecia, poi destinato al presidio di Creta e catturato dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

    Dall’isola di Creta, Aldo viene condotto sulla terraferma in piroscafo al porto del Pireo e di qui alla stazione ferroviaria di Atene, da dove viene trasportato in carri bestiame allo Stalag VI C, a Bathorn, nel nord-ovest della Germania. Inizia così, con la divisa leggera estiva, come centinaia di migliaia di altri italiani, la sua odissea di internato. Per arrangiarsi e sopravvivere si presta a fare il barbiere per barattare qualche rasatura con alcune bucce di patate o per poche radici di rape rosse.

    Quando Velletri viene liberata dagli Alleati, Aldo non riceve più da casa né lettere né pacchi alimentari.

    Nel racconto romanzato di Angeloni scorrono le immagini della proposta di adesione alla Rsi, del lavoro coatto in fabbrica, della ricerca disperata del cibo, delle punizioni, dell’incontro con gli altri internati e deportati, dell’amicizia con Bruno e con il caposquadra tedesco, Karl, della farsa del passaggio alla definizione di lavoratori civili.

    Aldo fortunatamente non è tra gli oltre cinquantamila Imi che perdono la vita nei lager per fame, torture, fucilazioni o bombardamenti. Tornerà a casa dopo la liberazione e ritroverà la sua Iolanda, leggendo le sue lettere commoventi, mai spedite a causa della guerra, e convolerà a nozze con lei. Ma lo Stato italiano non gli darà nessun premio o riconoscimento, così come ai suoi compagni di prigionia. Il loro NO al fascismo e la loro storia di resistenza silenziosa e senz’armi verranno a lungo dimenticati.

    Parte prima

    IL PRIMO ‘NO’

    1

    Il suo numero di matricola era duecentotrentuno.

    Fu assegnato al trentunesimo reggimento di fanteria Siena.

    Giusto il tempo per qualche saluto agli amici più stretti, le raccomandazioni di una mamma che non vide piangere e, a ottobre del 1940, si ritrovò sul fronte greco-albanese appena ventenne.

    La guerra.

    Era partito per la guerra.

    Avevano la certezza che ne sarebbero usciti vincitori, perché così gli avevano detto. A cose fatte, una volta rientrati in patria, gli avrebbero tributato osanna e giornate di festa.

    Gli dicevano che sarebbe stata una passeggiata, che avrebbero avuto la meglio in poco tempo rompendo le reni a chi era dall’altra parte.

    Di lì a poco si resero conto che non sarebbe andata proprio così: avevano sbagliato i tempi, i modi e anche la stagione per iniziare quella guerra.

    Sul fronte avanzavano lentamente e con difficoltà, nel fango si sprofondava, le gambiere e le uniformi raccoglievano acqua e melma, rendendole pesanti, anche i muli arrancavano ragliando, spinti dal di dietro, tirati dalla capezza, con gli zoccoli che si squamavano. Indietreggiavano e avanzavano, avanzavano e indietreggiavano, un singhiozzo continuo tra le valli, tra respingimenti e miraggi conquistati. Giorno dopo giorno, una settimana alla volta, un mese dopo l’altro, senza via d’uscita con il freddo che quell’inverno picchiava duro sulle colline albanesi. La neve, il vento gelido e i greci non consentivano una marcia tranquilla neanche agli animali che facevano uno sporco lavoro. Qualcuno portava cristalli di ghiacci dalla barba ai sopraccigli e la notte si stringevano a gruppi di tre per non disperdere il poco calore; ognuno odorava il puzzo dell’altro, ma respiravano e tremavano. Non bastarono le rassicurazioni dei comandanti in campo per i quali stava andando tutto secondo i piani.

    Il Natale quell’anno sarebbe stato diverso, lontano da casa. Al fronte non si resero neanche conto che fosse Natale, troppo diverso da quelli passati e con nulla da festeggiare.

    A Roma nevicò e il comandante supremo sperava che il gelo, in Albania, provvedesse a eliminare quelli, tra i suoi, che erano più deboli, non importava se a mandarli lì fosse stata la sua voglia di grandezza; diceva che i sopravvissuti avrebbero fortificato la razza e gli altri potevano pure crepare.

    Anche ad Atene il Natale fu freddo, seppur senza neve e lì, il capo degli altri, si espresse in altro modo: ‘chissà come  patiscono i miei soldati al fronte!’.

    L’ottimismo era evidente da parte di chi volle esserci nel momento di quella che parve l’offensiva finale; presente ma distante, sistemato su una collinetta vicina a quota 731 e quota 717 di Monastero da dove l’attacco sarebbe partito. Da quel punto la visuale era perfetta, come quando si assiste a un film di guerra visto dalla poltrona di casa, con le truppe, galvanizzate dalla sua presenza, che avrebbero raddoppiato lo sforzo e fatto un figurone. I greci sapevano che era arrivato per presenziare al suo trionfo, tronfio e impettito come sempre, vi orientarono i mortai ma non riuscirono a raggiungerlo.

    Niente di ciò che sperava si realizzò.

    L’offensiva non riuscì.

    Gli assalti terminarono con il ripiegamento su posizioni di sicurezza e con l’abbandono del punto di osservazione da parte del comandante supremo: quel film era ai titoli di coda lasciando l’amaro in bocca per un finale inatteso e con cadaveri che non sarebbero mai tornati a casa.

    Il tempo necessario per capire quanti ne erano rimasti. Una conta da effettuare, delle righe tra tracciare sui nomi registrati su un taccuino, la data e il luogo da scrivere al loro fianco.

    Aldo era di pattuglia la sera del quindici gennaio 1941, una serata gelida che l’inverno aveva riservato dal novembre precedente fino a quel momento.

    La luna riusciva a rendere il paesaggio intorno quasi gradevole. Il nemico era lì, poco oltre, anche il freddo era lì, più forte del nemico. Non riuscì a scaldarsi neanche fumando una sigaretta dopo l’altra cercando di nascondere il rosso del tabacco bruciato, ravvivato a ogni boccata.

    Gli parve di scorgere delle figure in lontananza, o forse erano alberi spogli scossi dalla tramontana.

    ‘E se fosse il nemico?’ pensò, mentre le gambe aumentavano il loro tremore.

    Per la prima volta avvertì la paura, la sentì vicina, forse ne scorse anche la sagoma che la personificava. Se fosse stato il nemico, invece che gli alberi, avrebbe avvertito anch’esso lo stesso terrore; se fosse stato il nemico invece che gli alberi forse poteva avere la sua stessa età.

    Restò ritto.

    Gli indumenti di Aldo erano zuppi e rigidi, ogni cosa era irrigidita, il pastrano era diventato pesante e una guerra che doveva durare poche settimane si stava prolungando concedendo poco spazio a pensieri nobili.

    Si allungò in terra, dietro un masso innevato che lo proteggeva e, senza distogliere lo sguardo davanti a sé, cercò di scrutare meglio.

    ‘Cosa faccio?’, pensò imbracciando a fatica il suo fucile. Lo rivolse verso la figura che era dall’altra parte della concertina senza che ci fu reazione. Lo fece lentamente, con difficoltà, quasi non riuscì a puntarlo contro l’altro, tanto pesante gli sembrò quell’arma. Intirizzito, la neve aveva iniziato a gelare e in terra disegnava la sua forma, non era convinto di riuscire a premere il grilletto. Le mani erano avvolte da strisce di lana gelate anch’esse, lasciando scoperte le dita che stavano progressivamente perdendo sensibilità.

    Li dividevano un centinaio di metri.

    Ripeteva una invocazione a ciclo continuo, sempre la stessa, più volte. Era una sorta di litania che Iolanda gli aveva insegnato. Gli disse che doveva recitarla con sentimento, quando ne avrebbe avuto più bisogno, per superare i momenti difficili, con la certezza che prima o poi qualcuno avrebbe ascoltato la sua supplica. 

    Guardò ancora più attentamente, si schiarì gli occhi, aspettava le mosse del presunto nemico come fosse un duello di moderni cowboy, fino a che si rialzò e, voltandosi dalla propria parte, per quella sera non sparò. Poteva toccare a lui oppure all’altro, o forse poteva impallinare l’albero che non avrebbe mai sparato, neanche per difendersi dall’aggressore, ma è stato meglio che non fosse toccato a nessuno dei tre.

    Qualche mese ancora, tra assalti e respingimenti, tra ritirate e controffensive, tra gli immancabili morsi della fame e i gusci di tartarughe svuotati, tra gli amici e i nemici falciati dall’inutilità della guerra, tra le maledizioni lanciate dal comandante supremo per una mancata rapida vittoria e per l’inconcludenza del Regio Esercito.

    Nessuno riuscì a prevalere. 

    Restarono lì, con la pancia che gorgogliava come ad avanzare richieste che non potevano essere soddisfatte. Restarono sul posto fino alla primavera, quando il sole iniziò a temperare l’aria e i ghiacci progressivamente riversarono rivoli d’acqua in valle. Mantennero le posizioni avanzando solo quando i tedeschi diedero la spallata finale più a nord, poi tutto finì.

    Dopo lo sfondamento, restò un altro anno, o poco più, in un territorio greco ormai occupato, il tempo necessario perché la popolazione vedesse gli italiani con occhi diversi e li considerassero sventurati quanto loro. Non erano conquistatori, ma considerati nemici solo perché alleati dei tedeschi. Non hanno mai ritenuto di appartenere a una razza eletta ma facevano la guerra perché era stato loro ordinato di farla, di combattere; lo fecero senza mai dimenticare di essere italiani.

    Si sistemarono decentemente ad Atene, all’interno di una caserma vicino alla sede del parlamento.

    Già da qualche giorno un ragazzino frequentava regolarmente quella zona, sempre alla stessa ora, pressappoco verso le dodici. Per circa un’ora restava seduto su un rudere senza chiedere nulla, anche se il suo aspetto sembrava descrivere uno stato pietoso. Parve un appuntamento mai fissato ma al quale nessuno dei due poteva più sottrarsi.

    «Kalimera,» disse al giovane.

    Kalimera e Kalispera erano le uniche due parole che Aldo conosceva in quella lingua.

    Gli si sedette accanto, prese dalla tasca della giubba un pezzo di pane avvolto in un fazzoletto e glielo diede.

    «Grazie,» rispose il ragazzo, in un italiano comprensibile e, afferrando quel tocco di pane, stringendolo con entrambe le mani come a trasportare una reliquia, si allontanò velocemente. Lo seguì con lo sguardo finché poté, fino a non vederlo più, certo che il giorno dopo avrebbe ripetuto il rituale. Non gli chiese mai l’età, né sapeva in che lingua chiederla, ma poteva avere otto anni, forse nove, non di più e già aveva visto molto, troppo, compresa la paura, la carestia, le bombe, gli amici e i nemici.

    Ad Atene, il caldo che l’estate si portava dietro, era insistente, non meno fastidioso del freddo dell’inverno, appena più sopportabile solo perché almeno non morivano di fame. Ad agosto 1942 gli fu concessa la licenza: dopo due anni trascorsi al fronte poteva tornare a casa. Sapeva già che qualche settimana più in là, quello che rimaneva della divisione Siena, la sua divisione, avrebbe dovuto spostarsi a Creta, ma in quel momento non voleva pensarci.

    Era riuscito a comunicare con il ragazzo, a fargli capire che dal giorno successivo non lo avrebbe più trovato, di non aspettarlo al solito posto né al solito orario, ma se fosse stato fortunato avrebbe trovato altri.

    Doveva abitare nei dintorni se

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