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La questione meridionale
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E-book117 pagine1 ora

La questione meridionale

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Furono diversi gli intellettuali e i politici che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale, ancora oggi aperta. Antonio Gramsci, in questo volume, proponeva una strategia rivoluzionaria che mirava a spezzare l’egemonia borghese rappresentata politicamente da Giolitti, creando un'alleanza tra operai del nord e contadini del sud, consapevole che ogni possibile futura politica di sinistra implicava questa unità, l’unica capace di portare i contadini del sud oltre una condizione di isolamento, passività, vocazione al “tumulto incomposto” e al “disordine caotico”, che aveva creato solo il “brigantaggio” o altre forme di “terrorismo elementare.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ago 2011
ISBN9788874171132
La questione meridionale

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    Anteprima del libro

    La questione meridionale - Antonio Gramsci

    La questione meridionale

    Antonio Gramsci

    In copertina: Giovanni Fattori, Butteri e mandrie in maremma

    © 2011 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    Tel 0862 717001

    Fax 0862 761356

    Tel diretto 348 6510033

    www.reamultimedia.it

    [email protected]

    Indice

    Il Mezzogiorno e la guerra

    Clericali ed agrari

    Operai e contadini

    Operai e contadini

    Operai e contadini

    La lettera per la fondazione de «l'Unità»

    Il Mezzogiorno e il fascismo

    La crisi italiana

    La relazione di Gramsci sul III Congresso (Lione) del Partito comunista d'Italia

    Alcuni temi della quistione meridionale

    Il Mezzogiorno e la guerra

          La quarta guerra del Risorgimento italiano non pare debba avere per il Mezzogiorno conseguenze diverse da quella delle altre tre. Lo ha fatto notare A. Labriola alla Camera durante la discussione della politica economica del gabinetto Salandra, ma l'Agenzia Stefani ha trasmesso delle sue parole un riassunto generico e scolorito.

          Già nel 1911 in una pubblicazione semiufficiale posta sotto il patronato dell'Accademia dei lincei, Francesco Coletti, un economista serio e poco amante dei paradossi, aveva fatto notare che l'unificazione delle regioni italiane sotto uno stesso regime accentratore aveva avuto per il Mezzogiorno conseguenze disastrose, e che la cecità dei governanti, dimentichi del programma economico cavouriano, aveva incrudito lo stato di cose dal quale originava la annosa e ormai cronica questione meridionale.

          La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo piú di mille anni. L'invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l'unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d'Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell'industria. Nell'altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l'agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva.

          L'unificazione pose in intimo contatto le due parti della penisola. L'accentramento bestiale ne confuse i bisogni e le necessità, e l'effetto fu l'emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno nel Settentrione per trovare maggiori e piú immediati utili nell'industria, e l'emigrazione degli uomini all'estero per trovare quel lavoro che veniva a mancare nel proprio paese. Il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese, senza che il protezionismo agrario, inutile per lui che produceva, e non sempre neppure, solo quel poco che era necessario al suo consumo, riuscisse a ristabilire l'equilibrio. La politica estera degli ultimi trent'anni rese quasi sterili i benefici effetti dell'emigrazione. Le guerre eritree, quella di Libia, fecero emettere dei prestiti interni che assorbirono i risparmi degli emigrati. Si parla spesso di mancanza di iniziativa nei meridionali. È un'accusa ingiusta. Il fatto è che il capitale va a trovare sempre le forme piú sicure e piú redditizie di impiego, e che il governo ha con troppa insistenza offerto quella dei buoni quinquennali. Dove esiste già una fabbrica, questa continua a svilupparsi per il risparmio, ma dove ogni forma di capitalismo è incerta e aleatoria, il risparmio sudato e racimolato con gli stenti non si fida, e va ad investirsi dove trova subito un utile tangibile. Cosí il latifondo, che tendeva in qualche periodo a spezzettarsi naturalmente tra gli americani ritornati benestanti, rimarrà ancora per un pezzo la piaga dell'economia italiana, mentre le imprese industriali del Settentrione trovano nella guerra una fonte di profitti colossali, e tutta la potenzialità produttiva nazionale rivolta all'industria della guerra, si circoscrive sempre piú nel Piemonte, nella Lombardia, nell'Emilia, nella Liguria e fa illanguidire quel poco di vita che esisteva nelle regioni del Sud.

          Il Labriola è stato l'unico che abbia prospettato alla Camera questo problema tremendo. Salandra gli ha risposto facendo delle promesse vaghe:

           Il paese si va adattando, certo con sofferenza e con disagio, a quella che si chiama l'economia della guerra. Conseguenze gravi e dannose certamente ne deriveranno. L'on. Labriola ha accennato allo spostamento territoriale della ricchezza che deriva dal fatto che una parte del nostro paese, per condizioni naturali e per precedenti storici, è preparata all'esercizio dell'attività industriale, mentre l'altra parte non lo è. Egli aveva ragione, come aveva ragione nell'accennare (ed io sottoscrivo al suo accenno) che bisognerà che si studino i compensi mediante una larga politica agraria, la quale pareggi, per quanto è possibile, le regioni meno fortunate e quelle che dalla guerra subiscono danni ma anche traggono inestimabili vantaggi.

          Le promesse dell'on. Salandra saranno dimenticate, come le tante altre che furono fatte nel passato. E il parlare di una politica agraria non può che giustificare il piú crudo scetticismo. Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali. Non basta costruire una strada, o un bacino montano per compensare i danni che regioni hanno subito per causa della guerra. Bisogna, prima di tutto, che i futuri trattati commerciali non facciano chiudere i mercati ai prodotti di esse. E tutti i programmi anticipati che si fanno di guerre economiche agli Imperi centrali non sono rassicuranti da questo punto di vista. Bisogna che, come al solito, non siano i vasi di creta a spezzarsi tra i vasi di rame che la nave presa nella burrasca fa impazzire ed agitare. Bisogna impedire che la guerra per la cosí detta libertà politica abbia per risultato la tirannia economica aduggiatrice delle forze produttive, e che per punire la Germania, troppo forte e troppo bene organizzata industrialmente perché possa paventare alcuna iattura, si colpisca invece quella parte d'Italia che a parole si dice sempre di voler redimere e sollevare.

    Clericali ed agrari

          La mentalità dei clericali politicanti è la quintessenza aromatizzata della demagogia. I loro giornali sono normalmente imbottiti di lunghe e suggestive polemiche (naturalmente disinteressate e per le quali l'amministratore non compila nessuna fattura) in difesa degli interessi di tutti gli affarismi truccati da industrie nazionali. Ma quando per esempio lo zucchero e il pane attingono prezzi vertiginosi, allora codesti paladini dei poveri trovano il modo di fare la voce grossa e di riversare la loro santa indignazione sugli... accaparratori o sui droghieri, che dalla cuccagna generale cercano di ricavare qualche profitto anche loro.

          Sei mesi fa, il Momento si distinse per una intrepida campagna (quanti pesciolini non abboccano a questi ami) contro l'alto prezzo del pane. Ma ciò naturalmente non gli impedisce ora di bruciare un granellino di incenso in favore della povera agricoltura nazionale e di svolgere simpaticamente un articolo-circolare dell'Agraria, che cerca dimostrare come qualmente il prezzo di 36 lire al quintale fissato per il grano sia addirittura rovinoso per la... Sardegna e per la Calabria.

          Bisogna tener sempre d'occhio questi mestatori dell'opinione pubblica ed impedire che le loro insinuanti argomentazioni facciano presa. Il protezionismo in Italia si è irrobustito perché ha saputo abilmente rendere antagonistici gli interessi immediati delle campagne con quelli della città, e di una parte d'Italia con l'altra. E perciò spetta ai proletari urbani, piú duramente provati dalle alchimie affaristiche degli agrari e d'altronde meglio preparati alla lotta, cercare con la loro resistenza ed opposizione, anche violenta, di smontare la vecchia macchina camorrista che, in ultima analisi, opprime in modo uguale tutto il proletariato.

          L'argomentazione che il Momento fa sua, e che viene pomposamente presentata come un'applicazione della «ben nota teorica del valore denominata del Ricardo», è cosí evidentemente assurda che solo uno scopo demagogico (ottenere la pressione dei contadini della bassa Italia e delle isole, per rendere legittimi i grossi guadagni dei granicultori della Valle Padana) può averla fatta rivogare. In sostanza si vuole che, per non rovinare nessuno, si prenda come punto di partenza per fissare il prezzo massimo del grano la produttività delle terre improduttive. Il dazio protettivo sul grano ha spinto molti nelle campagne a seminare in terre mezzo sterili nella sicurezza di un tenue guadagno procurato dallo Stato, artificialmente, per la solita ragione dell'incremento dei prodotti nazionali. Lo stato di monopolio creato dalla guerra, che da 29 franchi ha portato il grano a piú di 40 franchi, serve a creare l'illusione che anche seminando sulla sabbia ci sia da guadagnare sempre abbastanza. Intanto però gli

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