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sabato 25 aprile 2020

Ecco, la guerra è finita


DINO BUZZATI

APRILE 1945


Ecco, la guerra è finita. Si è fatto silenzio sull’Europa. E sui mari intorno ricominciano di notte a navigare i lumi. Dal letto dove sono disteso posso finalmente guardare le stelle. Come siamo felici. A metà del pranzo la mamma si è messa improvvisamente a piangere per la gioia, nessuno era più capace di andare avanti a parlare. Che da stasera la gente ricominci a essere buona? Spari di gioia per le vie, finestre accese a sterminio, tutti sono diventati pazzi, ridono, si abbracciano, i più duri tipi dicono strane parole dimenticate. Felicità su tutto il mondo è pace! Infatti quante cose orribili passate per sempre. Non udremo più misteriosi schianti nella notte che gelano il sangue e al rombo ansimante dei motori le case non saranno mai più cosi immobili e nere. Non arriveranno più piccoli biglietti colorati con sentenze fatali, Non più al davanzale per ore, mesi, anni, aspettando lui che ritorni. Non più le Moire lanciate sul mondo a prendere uno qua uno là senza preavviso, e sentirle perennemente nell'aria, notte e dì, capricciose tiranne. Non più, non più, ecco tutto; Dio come siamo felici. E non avremo più gli anni di ieri, non incespicheremo più per le scale col batticuore insorgente, non fisseremo più le altre facce, tacendo al fioco lume, tra gli stillicidi di salnitro, in attesa del colpo, ambigue parole di ufficiali in coperta non ci daranno più l’orgasmo, per tutta la restante vita non sirene, né detonazioni, né fughe, né notti insonni di paura. Addio dunque per sempre. Ricominciamo, o amici, a dormire senza soprassalti, a dire “domani”, a dimenticare la morte. Ecco tutto. Ieri, ancora eravamo giovani, bene o male pronti alla sorte, da stasera non più. Buon riposo, pane bianco, ristoranti illuminati sul golfo, eccetera, dolci cose di un tempo andato, e sia pure!, ma una fossa nera ci separa, e qui abbiamo lasciato la vita. Giovani fino a ieri, da stasera vecchi e prudenti, e lo dovevamo sapere, ce lo potevamo aspettare, idioti che non siamo altro. Che felicità, vero? Ma perché queste facce? Perché non ridete dunque? Fate il vostro dovere.

(da In quel preciso momento, Neri Pozza, 1950)

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C’è questo brano di Dino Buzzati che gira in rete, mutilato dopo il “Dio come siamo felici”, arbitrariamente separato in versi e spacciato per una sua poesia. In realtà è un brano di diario che testimonia quei giorni di aprile del 1945 che portarono alla Liberazione dell’Italia, che si celebra oggi, alla fine di Mussolini, alla caduta di Hitler e alla resa della Germania. È la fotografia di un momento storico e celebra quel senso di libertà che tutti quanti provarono quel 25 aprile, tra “spari di gioia per le vie e finestre accese a sterminio” dopo i lunghissimi anni dell’oscuramento e del timore che i bombardieri venissero a lanciare il loro carico sulle città. Ma Buzzati pensa anche al futuro – una situazione che, molto più in piccolo è la nostra di adesso, con il Covid-19 e i timori per l’avvenire economico: la guerra è finita, dice lo scrittore bellunese, che allora ha 39 anni, ed è stata uno spartiacque tra la gioventù e l’età adulta.

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LA FRASE DEL GIORNO
Cessati l'assalto al potere e la smania del predominio, si vide che dovunque si stabilivano automaticamente la giustizia e la pace.

DINO BUZZATI, Il colombre e altri racconti




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di un grande numero di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per il suo romanzo  Il deserto dei Tartari.


sabato 15 agosto 2015

A Ferragosto

 

ALDA MERINI

FERRAGOSTO

     A ferragosto io sarò in campagna dato che la città è vuota, potrei anche essere al cimitero che è aperta campagna.
     Negli anni ho ricevuto parecchi inviti di vacanze straordinarie in case aperte e ospitali, e non ho mai capito perché mi viene in mente, tra le altre cose, l’ultima vacanza a Genova, ospite di uno psichiatra, dove ero arrivata stanchissima e in preda a forti dolori addominali; se avessi spiegato allora che ero ammalata, e molti lo hanno fatto, mi avrebbero tacciata di superbia. Così molti si sono vendicati perché ho dovuto mandare all’aria appuntamenti.
     Ma non potevo morire di poesia e neanche per amore dei curiosi, i quali son ben lontani dalla verità della poesia che la solitudine è tragedia.
     Questi amici festaioli di Genova mi avevano fatto conoscere tutto il parentado, mi avevano gonfiato di cibo, mi avevano dato la stanza delle loro figliole per poter dire che avevo dormito nel loro letto.Tutte cose che mi avevano mandato in bestia. Avrei pianto, però Dio è clemente: mentre avevo allungato i miei piedi dolenti sotto un tavolo, è arrivato un cane randagio, misteriosamente mandato da Dio, che si è messo a leccarmi i piedi, e io mi sono sentita veramente un povero Cristo, in casa del ricco Epulone.

(da Rose volanti, Piccola Casa Editrice, Acquaviva, 2007)

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Ferragosto non è una festa che amo particolarmente, forse perché è la boa attorno cui vira l’estate. Non sono l’unico, a quanto leggo: Giorgio Manganelli scriveva che “Sebbene sia ormai allenato da tanti mai ferragosti, ogni anno questa bizzarra festa mi sopraggiunge, mi coglie e oltrepassa come un trauma”. Anche la poetessa milanese Alda Merini si trova spiazzata, nella sua solitudine, e ricorda un banchetto del 15 agosto al quale prese parte in quel di Genova quasi per imposizione, per convenzione sociale.

Nonostante tutto, sotto con le angurie, buon Ferragosto!

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Watermelon and Grapes

JUSTIN CLEMENS, “WATERMELON AND GRAPES”

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LA FRASE DEL GIORNO
La mia sensazione più profonda è che il ferragosto sia la festa del Nulla: e a questa convinzione io mi adeguo.
GIORGIO MANGANELLI, Improvvisi per macchine da scrivere




Alda Giuseppina Angela Merini (Milano, 21 marzo 1931 - 1º novembre 2009),  poetessa, aforista e scrittrice italiana. Vide pubblicate le prime poesie a diciannove anni. L’amore agitato con Giorgio Manganelli riportò alla luce i disagi psichici: dal 1965 al 1972 fu internata in ospedale psichiatrico. Dimessa, visse nella sua casa sui Navigli, spesso in stato di emarginazione, circondandosi di artisti.


venerdì 21 dicembre 2012

La fine del mondo


DINO BUZZATI

UNA FINE DEL MONDO

La città dove arrivai era stranamente simile a Milano, si può dire anzi che era identica. Uguali i palazzi, i nomi delle strade, le case, i negozi, le edicole dei giornali, le fermate del tram, perfino i buchi e le cunette nell'asfalto. Anche il dialetto era lo stesso. Solo che gli abitanti erano tutti diversi. Ma giunsi in un brutto giorno. La città era emozionatissima perché avevano annunciato la fine del mondo. La gente fuggiva in campagna. Infatti si pensava che la catastrofe avrebbe colpito per prima la città. Non diluvio, o fuoco, o terremoto. Piuttosto qualcosa come la bomba atomica. Io però non ci credevo e rimasi. L'apocalisse era attesa per mezzogiorno. A mezzogiorno (era una giornata limpida di sole, né calda né fredda) si udirono a brevi intervalli tre forti esplosioni. Guardai dalla finestra verso lo sterminato panorama di tetti (vedevo nettissimo il grattacielo di piazza Cavour). Proprio in quella direzione una specie di colonna scura e compatta di fumo si sollevava verticalmente al cielo. Ma non era fumo. Era una specie di torre a costruzioni sovrapposte, con mensole e tetti che sporgevano. Lo spaventoso edificio cresceva cresceva, pencolando un po' sghembo, sarà stato alto almeno 250 metri. Contemporaneamente altre di quelle torri prorompevano dal piatto schieramento delle case con una forza demoniaca. Il cielo intanto si copriva, la luce del sole dileguò, già scendeva la sera. Quei sinistri pinnacoli dominavano la città come una maledizione. Ben presto fu notte. Allora, dietro ai rami del platano, vidi quattro cinque minuscole lune, grandi come un bottone da paltò. Più a destra altre ancora. Poi se ne levò dall'orizzonte una immensa, tonda e illuminata da una luce azzurrina; aveva un diametro almeno quattro volte la luna usuale. Si vedevano benissimo i crateri, specialmente uno. L'estrema vicinanza le dava espressione oscena. La gente guardava sgomenta quel cielo da cataclismi universali. Il mondo finito non era, però doveva essere successo qualcosa di terribile. Giù nella via, al lume di un lampione, tre bambine sui dieci anni giocavano a "settimana" saltando su un piede solo, attente a non toccare i contorni Iella figura geometrica disegnata col gesso sul marciapiedi.

(da In quel preciso momento, Mondadori, 1963)

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Eh già, ci siamo… Sembra che uno degli sport umani più praticati sia quello di gridare ai quattro venti la fine del mondo: lo fu anche negli anni ‘50 e ‘60, se è vero che Dino Buzzati ha dedicato più di un articolo o racconto a episodi simili. Ogni tanto salta fuori un profeta di minore o maggiore rilevanza ad assicurare che il mondo finirà il tal giorno alla tal ora: secondo i Maya, per chi ancora non lo sapesse – ma non vedo come – oggi 21 dicembre 2012 alle 12.11 italiane (le 11.11 sul meridiano di Greenwich). Se leggete questo post nel pomeriggio, fregatevene e gustate la bella prosa di Dino Buzzati: e se vi trovate qualche analogia con le lune di 1Q84 di Murakami, ricordatevi che nel caso è il giapponese ad aver copiato il genio bellunese. Se lo leggete prima, magari fate ancora in tempo a spaventarvi, oppure potete concludere con un’alzata di spalle, che poi è il finale del breve apologo di Buzzati: il mondo finirà, bene, dopo però torniamo a giocare…

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DINO BUZZATI, "LE ANIME PERSE"

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LA FRASE DEL GIORNO
Finché quella donna del Rijksmuseum / nel silenzio dipinto e in raccoglimento / giorno dopo giorno versa / il latte dalla brocca nella scodella, / il Mondo non merita / la fine del mondo.
WISŁAWA SZYMBORSKA, Qui




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


venerdì 23 dicembre 2011

Il Natale dell’arricchito


GUIDO GOZZANO

IL NATALE DI FORTUNATO


DEAN MORRISSEY, “SCROOGE OUTSIDE HIS LONDON BUSINESS”


Oggi che l’ala della pace cristiana sembra sfiorare la terra, la mia fantasia stanca non ama raccontarvi vicende di orchi e di fate, di gnomi e di malefizi. Evocherò per voi una fiaba non mia, una leggenda che ascoltavo dalla cara bocca d’una fantesca defunta, in altri Natali lontani, quando ero piccolo come voi, miei piccoli amici.

La buona vecchia raccontava ed io fissavo attraverso i vetri il cielo bigio e la città invernale e la mia fantasia s’attendeva di veder rosseggiare la tunica di Gesù fra le rotaie dei tramvai, sotto il bagliore delle lampade elettriche... Quando Gesù veramente compariva su questa terra e lasciava la tunica per travestirsi e confondere i peccatori e confortare gli oppressi, viveva in un paese lontano un contadino rimasto vedovo con molti figli troppo piccoli ancora per guadagnarsi la vita.

Era la vigilia di Natale e Fortunato – così si chiamava il pover’uomo – stava sulla porta di casa, pensoso ed inquieto. Non aveva danaro, non aveva lavoro, né sapeva come sfamare le sue creature. Udiva a tratto, dall’interno della casa, lo strillare dei bimbi e si chiudeva gli orecchi e chinava il capo sulle ginocchia, col cuore spezzato.

– A che meditate, buon uomo? Perché siete così triste?

Fortunato alzò il viso sussultando e vide uno sconosciuto dinnanzi a sé.

– Signore, se sono triste, non è senza ragione; i miei bimbi hanno fame; e non c’è in casa un tozzo di pane, non ho lavoro e non so come fare!

– Se voi voleste lavorare per me, vi pagherei lautamente.

– Non domando di meglio, signore!

– Sta bene. Andate domattina a falciare l’erica sulla brughiera e al tramonto verrò a pagarvi.

– Voi dimenticate che domani è Natale, il giorno più santo dell’anno. Comincierò dopo, con tutto lo zelo.

– Allora non c’intendiamo... Comincio a dubitare che siate un simulatore e che non abbiate quel gran bisogno che dite.

– M’è testimonio Iddio che muoio di fame!

– Fate allora ciò che vi dico.

In quell’istante Fortunato intese i gemiti dei bimbi che dall’interno della casa imploravano disperati.

– Sia! Farò come voi volete, per amore dei miei figli.

E Dio, che vede, perdonerà!

– Sta bene. Trovatevi domani sulla brughiera e al tramonto sarò a pagarvi.

E lo sconosciuto disparve.

L’indomani Fortunato s’alzò di buon mattino, fece le sue preghiere come di costume, intinse le dita nell’acqua benedetta, si segnò con un lento segno di croce, esitò ancora incerto, poi si decise, prese la falce e andò sulla brughiera. Ed eccolo a tagliare l’erica secca.

Lavorò tutto il giorno, mentre dal villaggio veniva sul vento, or sì or no, l’armonia osannante delle campane.

– Dio che vede mi perdonerà...

E proseguiva il lavoro e accumulava fasci su fasci, pregando sommessamente.

Era un Natale senza neve, gelido e sereno. Il sole declinava all’orizzonte in un cielo acceso e Fortunato depose la falce, si sedette stanco sopra una pietra, in attesa.

Ma lo sconosciuto non giungeva.

Fortunato cominciava ad inquietarsi, quando intese un crepitio e vide nell’ombra del crepuscolo un vivo bagliore; si volse, balzò in piedi e vide che i fasci dell’erica divampavano crepitando. S’adoperò invano per domare le fiamme; in pochi secondi l’arido sterpame era in cenere.

– Oh! misero me! Ho faticato tutto il giorno a stomaco digiuno, ho profanato un giorno santo, ed eccomi a mani vuote, più miserabile di prima.

– Non desolarti, buon uomo! Non desolarti così!

Fortunato si volse e vide nell’ombra un altro sconosciuto che lo fissava dolcemente.

Ed egli gli raccontò la sua disavventura.

– Ho avuto torto, lo riconosco; ma i miei figli morivano di fame... Ma più della fame, più della vana fatica, mi duole d’aver profanato questo giorno solenne...

Lo sconosciuto gli prese una mano, lo fissò a lungo, gli disse con voce soave:

– Ebbene, datevi pace. Vi pagherò io la giornata e assai più lautamente. Andate a casa e troverete il compenso. Ma adoperate pel meglio la vostra fortuna; né la casa vostra, né la vostra borsa si chiudano mai dinnanzi alla sventura...

E lo sconosciuto disparve.

Fortunato pensò d’aver male inteso, tanto la promessa era bella, e ritornò verso casa con ansia frettolosa. Giunto in vista dell’abitazione, s’arrestò sbigottito, soffregandosi gli occhi, palpandosi, credendo di sognare.

La misera capanna non c’era più, ma traspariva fra gli alberi una bella casa, dalle finestre luminose nella notte serena. Sulla porta l’attendevano i suoi figli festanti. Lo presero per mano, lo condussero in una sala dov’era imbandita una sontuosa mensa natalizia.

Ad una parete, sul damasco azzurro, erano intrecciati la zappa, il bidente, i suoi attrezzi di contadino con in mezzo la croce di legno della preghiera consueta.

Fortunato piegò le ginocchia dinnanzi a quel trofeo in muta adorazione verso il prodigio divino.

Da quel giorno Fortunato cambiò vita. Acquistò i campi dei vicini, ingrandì i suoi dominii a perdita di vista.

Tutti erano sbigottiti da tanta prosperità e tenevano per certo che Fortunato avesse scoperto un tesoro favoloso.

Egli mantenne la promessa data al benefattore sconosciuto. Nessuna miseria sostava alla sua porta senza essere confortata di parola e di danaro.

Ma col tempo il suo carattere andò mutando; come arriva sovente, la ricchezza gl’indurì il cuore; a poco a poco si dimenticò del suo passato, si circondò di adulatori e di potenti, divenne fantastico, orgoglioso, arrogante.

Un giorno – era il Natale e compiva l’anno dell’incontro miracoloso – egli dava un pranzo di gala e aveva convitato tutti i ricchi e i nobili del paese.

Dalla sala di damasco azzurro era stato tolto il trofeo della croce e delle zappe e confinato nel solaio, come un ricordo vergognoso.

Fortunato aveva ordinato ai servi di non lasciare entrare nessun mendicante nel cortile del castello. Due valletti armati di bastone vigilavano l’ingresso per impedire il passo a chiunque non fosse invitato. Tuttavia, all’ora di sedere a mensa, arrivò nel cortile, non si seppe come, un vecchio mendicante. I servi gli furono sopra respingendolo e malmenandolo.

– Come sei qui, mascalzone? Via! Via! Esci all’istante! – E lo minacciarono coi bastoni alzati.

– Soccorrete un miserabile, in nome di Dio, – disse il poveretto con voce supplicante.

– Oggi no. Ritorna domani.

Ma quegli insisteva e alzava la voce per essere udito dai convitati.

Fortunato intese, s’affacciò alle vetrate, furibondo, perché quei gemiti freddavano l’allegria degli amici.

– V’avevo detto di vietare il passo a quegl’intrusi! Scacciate quel miserabile e se resiste sciogliete i cani.

Furono sciolti i molossi, ma questi lambivano le mani del mendicante, che s’allontanò lentamente scuotendo il capo.

Fortunato ritornò fra i commensali, riprese a bere, a ridere, a celiare.

Poco dopo entrò nel cortile, con gran fragore, una carrozza magnifica tirata da quattro superbi cavalli. E nella carrozza stava un principe, coperto d’oro e di gemme. I servi corsero ad avvertire il signore e tutti s’alzarono da tavola, si protesero alle finestre, guardando curiosi nel cortile.

Fortunato s’avanzò verso la carrozza, col cappello in mano, inchinando fino a terra lo sconosciuto; lo pregò di fargli l’onore di discendere e d’entrare nella casa.

– Grazie, – rispose il forestiero, – non discenderò, e non entrerò in casa vostra. Già son venuto poco fa come mendicante e voi mi avete fatto cacciare dai cani. Vengo ora con l’abito e l’equipaggio d’un signore e v’inchinate fino a terra... Accompagnatemi prima in un luogo non lungi di qui, dove parleremo delle cose nostre...

E il principe accompagnò Fortunato nella brughiera dove aveva falciato l’erica il Natale prima.

– Fortunato, Fortunato! Avete dimenticato così bene il nostro colloquio d’or è l’anno? Un anno di ricchezza e di prosperità è stato sufficiente per fare dell’uomo pio un miserabile orgoglioso! La ricchezza improvvisa v’ha inaridito il cuore: che la povertà ve lo rifaccia pietoso e cristiano!

Lo sconosciuto disparve e Fortunato ritornò di corsa al castello.

Ma il castello non c’era più.

Nevicava, nevicava, nel triste crepuscolo di dicembre; fra i tronchi e i rami Fortunato intravide la sua capanna di prima, illuminata dalla triste lucerna ad olio, intese le grida dei bimbi affamati. Castello, servi, oro, mensa, commensali, tutto era scomparso come in un sogno.

Fortunato sentì ripalpitare in cuore una tenerezza pietosa e riprese la via della salvezza e della povertà...

Questo accadeva quando Gesù compariva sulla terra in misteriosi sembianti e visitava le campagne e sostava alle soglie per ammonire gli uomini.

(da Fiabe e novelline, 1914)

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Il Natale è il pretesto che Guido Gozzano (Torino, 1883-1816) prende a prestito per raccontare uno dei vizi umani, quell’ingratitudine che acceca e fa dimenticare da dove si è partiti prima di arrivare agli onori. Capita spesso che i parvenu disdegnino quelli che un tempo erano i loro simili. Così è di Fortunato, il protagonista di questa favoletta che Gozzano indirizza ai “piccoli amici”: da povero a ricco all’’improvviso, riesce a far fruttare la sua intelligenza contadina perdendo però il suo lato umano, arrivando – dopo solo un anno – a scacciare dalla sua sontuosa dimora un povero come era stato lui fino al Natale precedente. E l’accoglienza riservata al principe è un altro aspetto negativo: la servilità verso i potenti, ritenendo di potere in tal modo entrare a far parte della loro cerchia. Il contrappasso finale è il ritorno alla povertà per riportare allo stato iniziale quel cuore buono che la ricchezza ha reso malvagio. Per citare un aforisma di Ludwig Börne “Fa prima la ricchezza a indurire un cuore che l’acqua bollente un uovo”. La morale della favola non può certo che farci piacere: tutti noi, leggendo in questi giorni il racconto di Gozzano, possiamo pensare alla “casta” dei politici e considerare che anche loro, come il contadino Fortunato, hanno smarrito il senso della misura e dimenticato che non è per il loro portafogli che sono stati eletti, ma per rappresentare la comunità dalla quale provengono.

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LA FRASE DEL GIORNO
Nei cuori induriti dal guadagno e dall’egoismo la sublime poesia del Natale non trova eco pietosa.
EVELYN, A veglia




Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – 9 agosto 1916),   poeta italiano, fu il capostipite della corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo. Inizialmente si dedicò alla poesia nell'emulazione di D'Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti, accomunati dall'attenzione per "le buone cose di pessimo gusto". Morì di tisi a 32 anni.


lunedì 29 agosto 2011

Il corridoio

 


DINO BUZZATI

IL CORRIDOIO DEL GRANDE ALBERGO

image

FOTOGRAFIA © HOTEL ATLANTIS, DUBAI


Rientrato nella mia camera d’albergo a tarda ora, mi ero già mezzo spogliato quando ebbi bisogno di andare alla toilette.

La mia camera era quasi in fondo a un corridoio interminabile e poco illuminato; circa ogni venti metri tenui lampade violacee proiettavano fasci di luce sul tappeto rosso. Giusto a metà, in corrispondenza di una di queste lampadine, c’erano da una parte la scala, dall’altra la doppia porta a vetri del locale.

Indossata una vestaglia, uscii nel corridoio ch’era deserto. Ed ero quasi giunto alla toilette quando mi trovai di fronte a un uomo pure in vestaglia che, sbucato dall’ombra, veniva dalla parte opposta. Era un signore alto e grosso con una tonda barba alla Edoardo VII. Aveva la mia stessa meta? Come succede, entrambi si ebbe un istante di imbarazzo, per poco non ci urtammo. Fatto è che io, chissà come, mi vergognai di entrare al gabinetto sotto i suoi sguardi e proseguii, come se mi dirigessi altrove. E lui fece lo stesso.

Ma, dopo pochi passi, mi resi conto della stupidaggine commessa. Infatti, che potevo fare? Le eventualità erano due: o proseguire fino in fondo al corridoio e poi tornare indietro, sperando che il signore con la barba nel frattempo se ne fosse andato. Ma non era detto che costui dovesse entrare in una stanza e lasciare così libero il campo; forse anch’egli voleva andare alla toilette e, incontrandomi, si era vergognato, esattamente come avevo fatto io; e ora si trovava nella stessa mia imbarazzante situazione. Perciò, tornando sui miei passi, rischiavo d’incontrarlo un’altra volta e di fare ancora di più la figura del cretino.

Oppure – seconda possibilità – nascondermi nell’andito, abbastanza profondo, di una delle tante porte, scegliendone una poco illuminata e di qui spiare il campo, fin che fossi stato certo che il corridoio era assolutamente sgombro. E così feci, prima di aver analizzato la situazione a fondo.

Solo quando mi trovai, appiattato come un ladro, in uno di quegli angusti vani (era la porta della camera 90) cominciai a ragionare. Prima di tutto, se la stanza era occupata e il cliente era entrato o uscito, che avrebbe detto trovandomi nascosto dinanzi alla sua porta? Peggio: come escludere che quella fosse proprio la camera del signore con la barba? Il quale tornando indietro, mi avrebbe bloccato senza remissione. Né ci sarebbe stato bisogno di una speciale diffidenza per trovare le mie manovre molto strane. Insomma, restare là era un’imprudenza.

Adagio adagio sporsi il capo a esplorare il corridoio. Da un capo all’altro assolutamente vuoto. Non un rumore, un suono di passi, un’eco di voce umana, un cigolìo di porta che si aprisse. Era il momento buono: sbucai dal nascondiglio e a passi disinvolti mi incamminai verso la mia stanza. Lungo il tragitto, pensavo, sarei entrato un momento alla toilette.

Ma nello stesso istante, e me ne accorsi troppo tardi per potere riacquattarmi, il signore con la barba, che evidentemente aveva ragionato come me, usciva dal vano di una delle porte in fondo, forse la mia, e mi muoveva decisamente incontro.

Per la seconda volta, con imbarazzo ancora maggiore, ci incontrammo dinanzi alla toilette; e per la seconda volta nessuno dei due osò entrare, vergognandosi che l’altro lo vedesse; adesso sì c’era veramente il rischio del ridicolo.

Così, maledicendo tra me il rispetto umano, mi avviai sconfitto alla mia stanza. Come fui giunto, prima di aprire l’uscio, mi voltai a guardare: laggiù, nella penombra, intravidi quello con la barba che simmetricamente entrava in camera; e si era voltato a guardare alla mia volta.

Ero furioso. Ma la colpa non era forse mia? Cercando invano di leggere un giornale, aspettai per più di mezz’ora. Quindi aprii la porta con cautela. C’era nell’albergo un gran silenzio, come in una caserma abbandonata; e il corridoio più che mai deserto. Finalmente! Scattai quasi di corsa, ansioso di raggiungere il locale.

Ma dall’altra parte, con un sincronismo impressionante, quasi la telepatia avesse agito, anche il signore con la barba guizzò fuori dalla sua camera e con sveltezza impressionante puntò verso il gabinetto.

Per la terza volta perciò ci trovammo a fronte a fronte dinanzi alla porta e vetri smerigliati. Per la terza volta tutti e due simulammo, per la terza volta si proseguì entrambi senza entrare. La situazione era tanto comica che sarebbe bastato un niente, un cenno, un sorrisetto, per rompere il ghiaccio e voltare tutto in ridere. Me né io, né probabilmente lui, si aveva voglia di scherzare; al contrario; una rabbiosa esasperazione urgeva, un senso d’incubo, quasi che fosse tutta una macchinazione ordita misteriosamente in odio a noi.

Come nella prima sortita, finii per scivolare nel vano di una porta ignota e qui nascondermi in attesa degli eventi. Ora mi conveniva, per limitare almeno i danni, di aspettare che il barbuto, certamente appostato come me all’altra estremità del corridoio, sbucasse dalla trincea per primo: lo avrei quindi lasciato avanzare un buon tratto e solo all’ultimo sarei uscito anch’io; ciò allo scopo di imbattermi con lui non più dinanzi alla toilette bensì molto più in qua, cosicché, superato l’incontro, io rimanessi libero di agire senza noiosi testimoni. Se invece lui, prima d’incontrarmi, si fosse deciso a entrare nel locale, tanto meglio; esaudite le sue necessità, si sarebbe poi ritirato in camera e per tutta la notte non si sarebbe più fatto vivo.

Sporgendo appena un occhio dallo stipite (per la distanza non potevo vedere se l’altro stesse facendo altrettanto), restai in agguato lungo tempo. Stanco di stare in piedi, a un certo punto mi accoccolai sulle ginocchia, senza interrompere mai la vigilanza. Ma l’uomo non si decideva a uscire. Eppure egli era sempre laggiù, nascosto, nelle mie stesse condizioni.

Udii suonare le due e mezza, le tre, le tre e un quarto, le tre e mezza. Non ne potevo più.
Infine caddi addormentato.

Mi risvegliai con le ossa rotte, che erano già le sei del mattino. Sul momento non ricordavo nulla. Che cos’era successo? Come mai mi trovavo là per terra? Poi vidi altri come me, in vestaglia, rincantucciati negli anditi delle cento e cento porte, che dormivano: chi in ginocchio, chi seduto sul pavimento, chi assopito in piedi come i muli; pallidi, distrutti, come dopo una notte di battaglia.

(da In quel preciso momento, Neri Pozza, 1950)

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Cominciamo da Anacreonte per parlare di questo racconto bello e inquietante come solo Dino Buzzati (1906-1972) sapeva scriverne: il lirico greco vissuto nel VI secolo avanti Cristo ci ha lasciato questi versi: “Chi si cruccia della critica del prossimo / non avrà gran gioia nella vita”. Le convenzioni spesso non sono altro che insignificanti e inutili riti, sono segno di una fragilità ben diversa dalla timida sensibilità: diventano delle gabbie in cui ci autorecludiamo, incapaci poi di aprire la porta e spiccare il volo. Il testo di Buzzati si può leggere psicologicamente  anche come una critica del conformismo, della sua limitazione alla libertà e quindi alla crescita personale. È, comunque, il segno della grande capacità che lo scrittore bellunese aveva di scrutare dentro l’animo umano, di cogliere i lati oscuri dove si annidano le ombre..

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LA FRASE DEL GIORNO
Se non esistessero le convenzioni e i pregiudizi, l'immoralità non avrebbe motivo di sussistere. Nulla è di per sé morale o immorale.
CARLO MARIA FRANZERO, Il fanciullo meraviglioso




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


martedì 26 luglio 2011

Talete e il mulo


CLAUDIO ELIANO

LA NATURA DEGLI ANIMALI, VII, 42

Talete di Mileto riuscì a rendere vano il proposito malvagio di un mulo grazie alla sua portentosa sagacia. Un giorno un mulo stava portando un carico di sale; mentre attraversava un fiume, fece accidentalmente uno scivolone e finì gambe all’aria. Il sale naturalmente si inzuppò d’acqua e si sciolse, con grande sollievo del mulo, che si sentì alleggerire del carico. Avendo così intuito quale differenza ci fosse tra il sopportare una fatica ed esserne privi e traendo insegnamento per il futuro dalla fortunata circostanza in cui si era venuto involontariamente a trovare, riuscì di nuovo a provocarla a bella posta. Poiché non era possibile per il mulattiere condurlo per un’altra strada, evitando il passaggio del fiume, costui consultò Talete: dopo averlo ascoltato, egli ritenne che quel mulo così malizioso dovesse essere punito con un sottile espediente e così consigliò al mulattiere di sostituire il carico di sale con uno di spugne e di lana. Il mulo, ignaro di questa sostituzione, ripeté, come il solito, lo scivolone e così facendo inzuppò d’acqua il carico; capì allora che il trucco si era risolto a suo svantaggio e da quel momento in poi, attraversando il fiume, stette ben attento a dove metteva le zampe e a non recar danno al sale che portava.

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Il mondo animale è protagonista del trattato di Claudio Eliano, scrittore scientifico latino che però usava la lingua greca, personaggio eminente del circolo romano di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo, attivo dunque negli anni a cavallo tra I e II secolo dopo Cristo. È un trattato che assomma osservazioni reali sulla vita degli animali e fantasiose dicerie, che mischia zoologia e fantasia, proponendo un bestiario che va dalla murena e dal coccodrillo a esseri di pura invenzione come la fenice, il grifone e il basilisco. Ma la caratteristica principale che fa da filo rosso per tutta la narrazione di Eliano è la classificazione degli animali secondo il loro temperamento: sono umanizzati, assumono caratteristiche spesso virtuose – la sapienza delle api e degli elefanti, la giustizia delle formiche, la fedeltà dei colombi, la temperanza dei cervi – e talvolta fraudolenta, come nel caso di questo mulo “furbetto”. L’apologo serve naturalmente da ammaestramento: è un invito a non prendere scorciatoie che ci agevolino la vita a danno degli altri, a rispettare l’onestà, e infine a renderci conto dei nostri errori una volta che il nostro comportamento è stato scoperto e punito, in modo da non ricadere nella colpa. Qui viene fuori l’anima di filosofo stoico di Eliano, seguace sui generis della Stoà: considera secondo la dottrina gli animali esseri inferiori all’uomo, salvo discostarsi da questa convinzione quando la pietà, la simpatia o l’ammirazione lo commuovono. Un’ultima notazione: nell’antichità i maitre à penser erano i filosofi come Talete di Mileto (VII secolo avanti Cristo) e ad essi ci si rivolgeva per essere consigliati; oggi il “faro” sembra essere la televisione. O tempora o mores

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Immagine © Clker-Free-Vector-Images/Pixabay

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LA FRASE DEL GIORNO
Le bestie non sono così bestie come si pensa.
MOLIÈRE, Anfitrione




Claudio Eliano (Preneste, 165/170 circa – 235), filosofo e scrittore romano in lingua greca. Scolaro a Roma del sofista Pausania, apprese, dai precetti della seconda sofistica, la scrittura in greco atticizzante, al punto da essere soprannominato μελίγλωσσος (meliglossos, lingua di miele), per la precisione e l'efficacia del suo stile.


domenica 20 marzo 2011

Erano davvero felici?


DINO BUZZATI

GIUGNO 1947

Che tempi beati, quelli, si dice, non torneranno mai più; e non perché oggi si sia miseri, o malati o afflitti da altre sciagure. Bellissimi sembrano gli anni lontani perché allora si era più giovani e la riserva delle speranze verosimili era molto più grande mentre adesso si è assottigliata e il futuro per quanto lungo possa essere non conterrà in alcun modo le immense cose che si erano sognate. Ma io mi chiedo: erano davvero felici? Non lasciatevi suggestionare dalle apparenze. Pensateci su bene. Cercate di ricordarvi, a titolo di campione, uno di quei giorni lontani, uno dei migliori, anche, se volete, specialmente adatto a simboleggiare la felicità. Rivivetelo nella memoria ora per ora, provate a localizzarne il punto migliore. Un giorno di vacanze, per esempio, in alta montagna. Svegliati che il sole era già alto, vi ricordate?, e batteva sulle grandi pareti. Scesi a far colazione all’aperto, pensavate alle prossime ore, alla gita dell’indomani, alla ragazza che tra poco sarebbe comparsa, con cui andare a fare il bagno nel lago. Proprio di queste banalità sono fatte le antiche gioie. Poi lei veramente è comparsa, solo che si attardava un poco e voi invece avevate premura di andare subito al lago, altrimenti non avreste fatto in tempo. Non in quel punto dunque la felicità, ma un poco più tardi. Eppure anche più tardi, quando eravate con lei in riva al lago, già il desiderio correva avanti, anticipando la vera gioia. D’ora in ora, questa la verità, si correva dietro a qualcosa. E neppure il giorno successivo ci fu l’ora tanto desiderata; all’alba eravate impazienti di essere all’attacco della parete, qui di aver superato il punto più difficile, poi di essere in cima, poi di aver compiuto felicemente la discesa, e discesi si sarebbe voluto essere già al rifugio, e al rifugio nasceva una strana amarezza come quando ci si accorge che una cosa bella è passata. E soprattutto, in ogni istante della giornata, anche nei periodi più placidi, una specie di ansia, una aspettazione dell’indomani, una impazienza. D’ora in ora sospinti con la sensazione che fermarsi è impossibile, che il buono ci aspetta più avanti e conviene affrettarsi. Così di giorno in giorno, mese in mese, anno in anno, senza la più piccola pausa, a perdita di fiato. Ed eccoci finalmente qui e siamo sempre gli stessi, non ci sono state interruzioni né fratture, si tratta sempre della stessa corsa per cui partimmo giovanetti, puntando sull’indomani. A quei tempi lontani dunque, che ci piace ritenere felici, ci lega l’ininterrotta progressione delle ore; le quali non è vero che un dì fossero rosa o celesti e adeso grigie, bensì sempre le stesse pressappoco, fatte in modo che standoci dentro non sembrano nulla di speciale, mentre a guardarle dal di fuori, quando si sono fatte lontane, splendono misteriosamente.

(da In quel preciso momento, Neri Pozza, 1950)


Leggendo questo breve racconto di Dino Buzzati ho pensato subito al paradosso di Achille e della tartaruga, ideato da Zenone di Elea, che qui riporto nella bella descrizione fatta in Altre inquisizioni da Jorge Luis Borges: “Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla”.

Dunque corriamo sempre, inseguiamo di continuo la felicità, ma essa si ritrova sempre un passo avanti a noi. C’è un certo cinismo, sì, ma velato da uno sguardo malinconico, cioè dolorosamente dolce, come quella sensazione provata al rifugio, l’amarezza per una festa finita, un po’ come ci si sente la domenica sera con il lunedì lavorativo incombente e la stanchezza per il week end.

Ci dobbiamo abbattere, allora? Commiserarci? No, continuiamo a vivere il momento, a lasciarci trasportare nel tempo considerando però che Buzzati su una cosa ha ragione: la felicità è un susseguirsi di desideri.

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Disegno di Dino Buzzati

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LA FRASE DEL GIORNO 
Non credere, amico mio, che l'uomo sia capace di sentire tanta felicità quanta ne può concepire; c'è nel desiderio e nell'immaginazione meno forza che nella sensibilità.
SULLY PRUDHOMME
, Diario intimo




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


domenica 26 dicembre 2010

La battaglia di Natale

 

MARIO RIGONI STERN

QUEL NATALE NELLA STEPPA


In quell'inverno di quarant’anni fa (1941-1942 ndr) il grande freddo non aveva rallentato le operazioni militari e dal Mare di Barents al Mar d'Azov la guerra infuriava al pari della tormenta. Malgrado le perdite subite e l'occupazione nazista di gran parte della Russia europea, l'Armata Rossa era partita al contrattacco con una forza disperata e una preparazione tecnica che, dopo quanto era successo nei mesi precedenti, nessuno aveva previsto. Nel dicembre più freddo e più tragico della storia su, oltre il Circolo Polare Artico, finnici e russi del Nord si fronteggiavano in azioni dove più che le qualità guerriere valevano quelle fisiche e molti campioni di fondo caddero con gli sci ai piedi non solo per armi ma anche per gelo e fatica in una unica e lunghissima notte. I tedeschi rifornivano le loro guarnigioni in Lapponia a dorso d'uomo lungo una pista che partiva da Kemi, nel Golfo di Botnia, e che era chiamata «Strada del Mar dì Ghiaccio». Oltre mille chilometri più in basso, Leningrado era accerchiata da mesi e potè essere rifornita solamente quando il Ladoga gelò tanto da sopportare prima il peso delle slitte e poi delle autocolonne. Hitler aspettava ogni giorno la notizia della capitolazione della città: anzi, la resa non doveva nemmeno essere trattata, aveva detto: «Leningrado deve essere cancellata dalla faccia della Terra!». E più precisamente il generale Walimont, capo della «sezione difesa nazionale» del comando superiore dell'esercito, aveva approntato un piano per «bloccare ermeticamente Leningrado, quindi indebolirla con il terrore e con la fame. In primavera occuperemo la città, manderemo prigionieri nell'interno della Russia i sopravvissuti e raderemo al suolo Leningrado con l'esplosivo». Ma c'era anche chi aveva proposto di recintare la città con i reticolati, mitragliare chi tentava di uscire e I lasciare i tre milioni di cittadini morire di fame, anche se ciò creava per i comandi tedeschi «il problema di epidemie che si potrebbero diffondere tra le nostre truppe». Ma la città della Rivoluzione d'Ottobre seppe resistere per più di due anni e dopo, quando venne liberata, risultò che un cittadino su tre era morto per fame. La divisione SS Totenkopf (Teschio) che era giunta fino a Cudovo, interrompendo la ferrovia Mosca-Leningrado, dovette ritirarsi e sul fronte di Mosca le truppe siberiane comandate da Georgij Zukov. che già in ottobre aveva organizzato la difesa di Leningrado, incalzavano senza tregua le truppe corazzate di Guderian che erano arrivate fino a vedere le torri del Cremlino rosseggiare nel tramonto invernale. Ma anche giù, nel Sud, dopo altri mille chilometri da Mosca, il 25 novembre Timoscenko passò all'offensiva contro l'armata di von Kleist e riprese Rostov, la porta del Caucaso, dove l'esercito tedesco abbandonò carri armati e materiali pesanti. Al principio di quell'inverno apparvero anche per la prima volta sul fronte russo i famosi carri T34, dai larghi cingoli per camminare sopra la neve e il fango e con la corazza inclinata e sfuggente per non dare impatto alle bombe anticarro; molto agili nelle manovre, anche se apparentemente rozzi e grossolani nelle rifiniture, erano armati con un cannone da 76 mm e due mitragliatrici, pesavano 27 tonnellate e marciavano a 45 km all'ora con un motore di 500 hp che non s'incantava nemmeno nei freddi più feroci quando Guderian, lo stratega dei mezzi corazzati tedeschi, notava nel suo diario che «a meno 63° molti uomini morivano mentre facevano i propri bisogni» e se non sì era più che lesti a mangiare la zuppa questa in un attimo si solidificava.




Le scarpe

Si racconta anche che un giorno un generale russo si fece portare davanti un gruppo di prigionieri tedeschi e alla presenza dei suoi soldati ordinò a questi prigionieri che si levassero le scarpe facendole posare ognuno davanti a sé. Fece allora notare come gli stivali chiodati dei tedeschi avessero la misura dei piedi, e aggiunse: «Loro non sanno che da duecento anni i soldati del nostro esercito portano le calzature molto abbondanti, in modo che durante l'inverno si possano imbottire di paglia o di carta per non restare con i piedi congelati. Anche questa delle scarpe su misura e una ragione per cui i tedeschi perderanno la guerra». Intanto nel bacino del Donetz il nostro Corpo di Spedizione faceva la sua parte anche se tante difficoltà, non dovute esclusivamente a quel rigidissimo inverno, sottoponevano i soldati a una prova mai subita prima. Nelle basi di Jassinovataia, Rykovo, Gorlovka, Michailovska attorno alle cucine dei reparti stormi di bambini e di ragazzi senza casa e senza più famiglia aspettavano l'ora del rancio per ripulire le marmitte dove i nostri cucinieri lasciavano qualcosa per loro; in cambio si prestavano a raccogliere legna tra le macerie delle case o attingere l'acqua dai pozzi che grondavano lunghe stalattiti di ghiaccio. Alla sera, come i cani randagi, questi bambini sfamati dalla pietà dei nostri soldati si ritiravano a passare la notte nelle fabbriche semidistrutte nei pressi delle miniere di carbone, o in qualche isba di nessuno. Il giorno di Natale i sovietici ripresero l'offensiva proprio nel settore tenuto dalla Celere dove tre battaglioni di bersaglieri, due della Tagliamento e quattro gruppi di artiglieria tenevano un fronte di venti chilometri. Davanti a loro erano state ammassate tre divisioni di fanteria e un corpo di cavalleria. Anche se le unità sovietiche avevano un organico inferiore, la loro superiorità numerica e il loro volume di fuoco erano superiori, e alle 6,40, dopo una violenta e breve preparazione con artiglieria e mortai, uscirono all'attacco appoggiate dai carri armati. Lo scontro fu violento, duro, e l'ordine che avevano i bersaglieri e i militi della Tagliamento, che in quell'occasione dipendevano non dal Csir ma direttamente dal XLIX Corpo alpino tedesco, era di "non cedere un metro di terreno". Ma «superate le difese esterne, il nemico dilagava irrefrenabile nell'interno delle posizioni dove alcuni presidi, completamente aggirati, resistevano fino al totale annientamento». Era un preludio a quello che sarebbe successo un anno dopo sulle rive del Don all'8a Armata italiana. La battaglia continuò tutto quel giorno con alterne vicende e in tanti episodi. Alle 13,30 il comando tedesco ordinò il contrattacco con due colonne miste di bersaglieri e fanti tedeschi, e quando scende la sera di quel 25 dicembre 1941 molti italiani sono irrigiditi per sempre nella neve. Alcuni caposaldi resistono ancora, altri sono silenziosi, alcuni villaggi sono occupati metà dai russi e metà dagli italiani. Il giorno successivo saranno i fanti della Pasubio che interverranno da sinistra contro le colonne russe che tentano di raggiungere il fiume Krinka, minacciando Stalino. I combattimenti continueranno spezzettati fino al giorno 27 quando i reparti del Csir si consolideranno sulle loro posizioni. Lo stesso giorno il comando della 1° Armata corazzata ordina una controffensiva e ancora la Pasubio, la Torino e la Celere il giorno 28 attaccano le linee che hanno di fronte. Si verifica in questa azione la ripetizione dell'attacco sferrato dai russi il giorno di Natale: in un primo tempo le posizioni attaccate vengono prese, successivamente il contrattacco neutralizza l'offensiva. Tutte queste operazioni del Corpo di Spedizione Italiano vanno sotto il nome di «Battaglia di Natale»; ai nostri reparti costarono molte perdite, centinaia furono anche i congelati perché i combattimenti si svolsero in un freddo polare e tra nebbie fitte che stagnavano nelle depressioni delle balche.



Sciatori

Mentre succedeva questo, ad Aosta, nella caserma Chiarle, un piccolo reparto dì un centinaio d'uomini stava completando la sua preparazione tecnica e logistica: erano gli alpini sciatori del battaglione Monte Cervino, scelti da tutti i reggimenti nella cerchia delle Alpi. Come avanguardia di tanti altri alpini partì per la Russia nel gennaio del 1942. Lungo il viaggio, in una città della Polonia, il convoglio del Cervino sostò di fronte a un treno di soldati tedeschi che proveniva dal settore di Mosca: i soldati erano dentro i carri bestiame sdraiati su un po' di strame, le ferite erano fasciate con carta, erano anche senza scarpe e disarmati, pallidi e smunti; per riscaldarsi avevano acceso un po' di carbone dentro gli elmetti. Un giovane alpino chiese nella loro lingua: «Come va la guerra?». «Merda la guerra!» rispose uno per tutti.

(da La Stampa, 24 dicembre 1981, poi in I racconti di guerra, Einaudi, 2007)


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Mario Rigoni Stern racconta da storico appassionato la “battaglia di Natale” che si combatté sul fronte russo nell’inverno del 1941, l’anno precedente la celebre “Ritirata”. In quel momento le sorti della guerra arridevano ancora ai tedeschi, ma proprio quello scontro, cui presero parte anche le divisioni di fanteria italiane Pasubio e Torino, le camicie nere della Tagliamento e la divisione Celere con i bersaglieri, i Lancieri di Savoia e i Cavalieri di Savoia, i carristi della San Giorgio, appoggiati dall’aeronautica, segnò il primo grave scacco per le armate hitleriane. Nel 1942, con l’allargamento del conflitto agli Stati Uniti e l’alleanza anglo-sovietica del 26 maggio, il destino della guerra muterà radicalmente.
Dal racconto di Rigoni Stern emerge anche un’altra indicazione: l’inadeguatezza degli equipaggiamenti. Infatti in questa prima battaglia nel gelo del fronte russo al termine risulta più alto il numero dei morti congelati rispetto ai caduti in combattimento. Il “generale Inverno” fatale a Napoleone, lo sarà anche per Hitler. Intanto, in quei giorni freddissimi con temperature sempre al di sotto dei -20° e sovente al limite dei -60°, l’Armata Rossa contrattacca usando l’arma psicologica di ignorare quei giorni tradizionalmente considerati come tregua, e riconquista Kalinin, Tula e Kaluga, respingendo i tedeschi, che erano arrivati a 50 km da Mosca. Una lezione che non viene appresa, visto che l’inverno successivo si ripeterà l’identica scena e Rigoni Stern, inviato con i suoi alpini del battaglione Vestone, la Divisione Tridentina, la Julia e la Cuneense a supportare le divisioni di fanteria italiane e i corpi d’armata tedeschi, rumeni e ungheresi, dovrà raccontare un’altra odissea nel ghiaccio e nella neve della steppa ucraina.

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LA FRASE DEL GIORNO
Tornammo in pochi, e quando in quel maggio arrivammo alla stazione di Udine, aspettarono la notte per farci uscire dai vagoni bestiame. Non volevano che la gente ci vedesse. Avevamo il torto o la colpa di essere ancora vivi. 
MARIO RIGONI STERN, I racconti di guerra




Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – 16 giugno 2008), scrittore italiano. I suoi testi, di cui il più noto è il romanzo Il sergente nella neve, piccola Anabasi di un gruppo di alpini italiani sul fronte del Don, nel secondo conflitto mondiale, hanno doti di freschezza e d'immediatezza lirica decantata in coscienza morale.


giovedì 16 dicembre 2010

Il solito albero

 

DINO BUZZATI

DECORAZIONI NATALIZIE

«E per Natale tu, a casa, cosa fai?»

«Mah, pensavo di fare il solito albero, ma Giantomaso e Almachiara, i miei più piccoli, si sono messi a contestarlo, dicono che a Mao assolutamente non piace. Pensavo di fare il presepio, ma sembra che le punte più avanzate del Concilio lo abbiano messo in quarantena. Pensavo di mettere qualche ghirlanda d’argento, qualche palla di vetro, qualche candelina, e così via, almeno nell’angolo dove alla vigilia si ammucchiano i regali, ma Pierfrancesco, il mio secondo, dice che è un rito schifosamente consumistico. Pensavo, sopra e intorno al caminetto, di mettere in mostra i “christmas cards” ricevuti, ce ne sono divertenti da morire, ma Giorgiopaolo, il mio grandicello, dice che Marcuse è contrario. Pensavo, sulla terrazza, fuori, di costruire un bel Babbo Natale con la neve, ma il colonnello Bernacca dice che per Natale la neve non verrà”.

«E allora?»

«Niente. Pulirò i vetri».

(da Il panettone non bastò, Mondadori, 2004)

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Quando Dino Buzzati scrisse questo brevissimo dialogo, pubblicato per la prima volta sul Corriere della Sera il 13 dicembre 1969, l’Italia era in pieno Sessantotto. Tutto veniva messo in discussione, tutto veniva vagliato e catalogato in nome di nuovi principi. Anche la Chiesa, che aveva da poco chiuso il Concilio Vaticano II, si muoveva verso nuovi orizzonti. Poi, come accade a tutte le rivoluzioni, il mondo ha trovato il suo assestamento fatto di compromessi e di restaurazioni. Buzzati, sempre attento nel corso dei suoi quarant’anni di giornalismo alla società e ai suoi mutamenti, coglie subito quest’aria di nuovo e la esaspera collocandola in un salotto della buona borghesia.

Un mondo che Milano aveva vissuto l’anno prima, quando, come riportava il quotidiano di Via Solferino, “anarchici, guevaristi, trotzkisti, marxisti, leninisti” avevano provocato incidenti in centro e tentato di impedire l’ingresso ai grandi magazzini della Rinascente. Un mondo senza Natale, senza segni: perché questo è capitalista, quest’altro è consumista, questo è arretrato, quell’altro retaggio di un’altra società. Persino il tempo non è favorevole. Alla fine cosa resta? Il solito nulla… E Buzzati invece, come noi, aveva bisogno delle tradizioni, dell’illusione, della speranza, del sogno.

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LA FRASE DEL GIORNO
E poi chissà che il giorno dopo, può anche darsi, chissà che qualche pezzetto di Natale non vi rimanga attaccato addosso. Basterebbe anche un pezzetto molto piccolo, il Cielo in fondo si accontenta di poco, non vi domanda di più. 
DINO BUZZATI, Corriere Lombardo, 24 dicembre 1945




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


martedì 30 novembre 2010

In questo mondo di ladri

 

ENNIO FLAIANO

I LADRI (FAVOLA ARGUTA)

Quando i ladri presero la città, il popolo fu contento, fece vacanza e bei fuochi d’artifizio. La cacciata dei briganti autorizzava ogni ottimismo e i ladri, come primo atto del loro governo riaffermarono il di­ritto di proprietà. Questo rassicurò i proprietari più autorevoli. Su tutti i muri scrissero: «Il furto è una proprietà». Leggi severe contro il furto vennero emanate e applicate. A un tagliaborse fu tagliata la mano destra, a un baro la mano sinistra (che serve per tenere le carte), a un ladro di cappelli la testa. Poi si sparse la voce che i ladri rubavano. Dapprincipio, questa voce parve una trovata della propaganda avversaria e fu respinta con sdegno. I ladri stessi ne sorridevano e ritennero inutile ogni smentita ufficiale. Tutto parlava in loro favore, erano stimati per gente dabbene, patriottica, ladra, onesta, religiosa. Ora, insinuare che i ladri fossero ladri sembrò assurdo. Il tempo trascorse, i furti aumentavano, un anno dopo erano già imponenti e si vide che non era possibile farli senza l’aiuto di una grossa organizzazione. E si capì che i ladri avevano quest’organizzazione. Una mattina, per esempio ci si accorgeva che era scomparso un palazzo del centro della città. Nessuno sapeva darne notizia. Poi sparirono piazze, alberi, monumenti, gallerie coi loro quadri e le loro statue, officine coi loro operai treni coi loro viaggiatori, intere aziende, piccole città. La stampa, dapprima timida, insorse: sparirono allora i giornali coi loro redattori e anche gli strilloni, e quando i ladri ebbero fatto sparire ogni cosa, cominciarono a derubarsi tra di loro e la cosa continuò finché non furono derubati dai loro figli e dai loro nipotini. Ma vissero sempre felici e contenti.

Nota. I compilatori di un libro di lettura per le scuole elementari mi avevano chiesto una favola arguta per bambini dai sette ai dieci anni. Ho inviato loto questa favola, l’hanno respinta cortesemente, dicendo che «non era adatta». Forse non è una favola arguta. O forse non è nemmeno una favola.

(da “La solitudine del satiro”, Bompiani, 1973)

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“Perché altrove la vita dovrebbe essere differente? Signore, l’universo è così povero di fantasia” scrive Ennio Flaiano in “Una e una notte”. Fantasia che evidentemente a lui non mancava, come si può apprezzare da questa breve “favola” pubblicata su “Il Mondo” del 19 gennaio 1960 e poi raccolta nel celebre “La solitudine del satiro”. Flaiano, che fu un attento osservatore del tessuto sociale, immagina un governo di ladri, accolti con favore come liberatori dall’incubo dei briganti. Ma in breve instaurano la loro “cleptocrazia” in cui rubano tutto, assorbendo le capacità produttive, i trasporti, i beni culturali, impoverendo in poco tempo il paese. Anche la libertà di stampa naturalmente viene soppressa, non appena comincia a rivelare il vero intento governativo. Il lato interessante di questo apologo è nel rovesciamento: immaginare che non sia il diritto a guidare uno stato ma la sua costante violazione. Pensateci la prossima volta che dite “Piove, governo ladro…”

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Immagine dal film “I soliti ignoti” © Cristaldi Film

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LA FRASE DEL GIORNO
In questi tempi l’unico modo di mostrarsi uomo di spirito è di essere seri. La serietà come solo umorismo accettabile. 
ENNIO FLAIANO, Diario degli errori




Ennio Flaiano (Pescara, 5 marzo 1910 – Roma, 20 novembre 1972),  sceneggiatore, scrittore, giornalista, umoristae drammaturgo italiano. Specializzato in elzeviri, scrisse per varie testate. Lavorò a lungo con Federico Fellini, con cui collaborò ampiamente ai soggetti e alle sceneggiature dei suoi più celebri film, tra i quali La stradaLa dolce vita e 


venerdì 26 novembre 2010

Metodo per giudicare le poesie

 

DINO BUZZATI

PER GIUDICARE LE POESIE

C’è un sistema semplicissimo e pratico per stabilire se una poesia è vera poesia: leggetela distrattamente, meccanicamente, senza il minimo sforzo, addirittura pensando ad altro. Se è poesia di quella buona, state pur certi che qualcosa vi entrerà nel cervello, vi toccherà come una punta. Perché la grande poesia contiene una carica di vita che basta toccarla inavvertitamente per ricevere una scossa. Naturalmente, per una totale comprensione, occorrerà in seguito starci su, leggerla e rileggerla. Ma una sommaria identificazione è facilissima. Come succede per i violinisti, che bastano quattro note per capire se sono grandi o no (mentre i pianisti sono un po’ come i prosatori, prima di esprimere un giudizio, bisogna starli ad ascoltare lungamente e poi pensarci su tre volte).

(da In quel preciso momento, Mondadori, 1963)

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Ci sono poesie che salgono e altre che invece non decollano. Umberto Saba diceva che i versi sono come bolle di sapone: alcune volano su e si elevano verso il cielo, altre invece scoppiano subito o si schiantano a terra. C’è poesia che la critica considera – chissà poi secondo quali insondabili giudizi – minore e la poesia dei Vati. C’è la poesia di strada e la poesia amatoriale, la poesia declamata dalla voce dei grandi attori e quella letta negli happening delle librerie. Ma ogni poesia noi la sentiamo “a pelle”, ne comprendiamo la grandezza già dalla prima lettura: ha ragione Dino Buzzati, che propone questo suo personalissimo metodo per riconoscerla. Siamo in grado di provare un’emozione, e questo è il segno che una poesia ha colto il bersaglio.

Certo, sembra un po’ superficiale il metodo di Buzzati, ma non è peregrino. In fondo lo usa anche il Nobel messicano Octavio Paz: “Capire una poesia vuol dire, in primo luogo, udirne il suono”.

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Olga Cassatt, “Ragazza che legge”

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LA FRASE DEL GIORNO
Aperto o chiuso, il testo esige l’abolizione del poeta che lo scrive e la nascita del poeta che lo legge. 
OCTAVIO PAZ, Corrente alterna




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


sabato 6 novembre 2010

Uno, doje, tre e quattro


“Viviana conosce solo Vincenzo. E anche Carmela. Vincenzo conosce Carmela e Viviana ma non Daniele, che non conosce nessuno dei tre. Eppure Viviana, Carmela, Daniele e Vincenzo scrivono un libro figlio di un blog figlio di un libro che detto così sembra il remake di «Apelle figlio di Apollo fece una palla di pelle di pollo». Il tutto senza trucco e senza inganno. Come è possibile? E, anche, perché? La risposta in “Uno, doje, tre e quattro”, la storia di quattro @mici che diventano amici raccontando se stessi, le loro idee, le loro esperienze e le loro differenze - età, politica, studi, città, passioni, modi di pensare e di scrivere - attraverso le pagine di un blog. Il risultato? Un libro avvolgente, scritto con il linguaggio delle passioni e delle ragioni, in cerca di radici e di futuro. Si, “Uno, doje, tre e quattro” è tutto questo e ancora di più, perché in questo gran parlare di cosa cambia e cosa invece no nell'era dei social network, in questa guerra poco entusiasmante e ancora meno convincente tra gli ultras del «toccare» e quelli del «taggare», il volume è anche il segno di un passaggio e di una possibilità. Il passaggio dal mondo degli atomi a quello dei bit, e ritorno. La possibilità di produrre contenuti e non solo consumarli, come invece avveniva nella fase precedente”.

Non avevo mai pensato di aprire un blog: ora ne ho più di uno. Non avevo mai pensato di scrivere un libro: ora invece eccolo qui, come lo presenta la scheda della casa editrice che lo promuove. Le magie che l’evoluzione tecnologica, accelerata negli ultimi decenni, ha portato nelle nostre vite hanno consentito a quattro persone che neanche si conoscevano – e ancora io non conosco personalmente, almeno fino alla presentazione di Napoli del 16 novembre prossimo,  gli altri tre autori – di scrivere un libro assieme. Con Vincenzo Moretti, il sociologo autore di “Enakapata”, Viviana Graniero e Carmela Talamo, abbiamo dato vita a quella che in principio poteva sembrare un’illusione, ma che strada facendo ha messo radici ed è diventata “Uno, doje, tre e quattro”. Vincenzo Moretti racconta le motivazioni: “Certo, le nuove tecnologie ci azzeccano, ma ridurre la cosa a una faccenda di blog e di posta elettronica sarebbe un clamoroso errore, perché quello che veramente è cambiato in questo controverso nuovo mondo nato con l’internet è l’aumento esponenziale del numero di persone che hanno la possibilità non soltanto di consumare contenuti, ma anche di crearli, di produrli. È un passaggio, questo dal consumo alla creazione - produzione, che è tanto più importante perché avviene qui e ora, in un mondo cioè nel quale i contenuti, le informazioni, la conoscenza rappresentano il cuore della sfida competitiva in atto a ogni livello”.

Una sfida che lui ha avviato la vigilia di Pasqua del 2010 tra una pastiera e una torta pasqualina e che noi abbiamo raccolto: “Viviana, Carmela e io abbiamo dato fiducia a quest’uomo che avremmo potuto prendere per visionario, ma che abbiamo invece valutato come un lucido analizzatore dei tempi e dei media. Abbiamo intrapreso questa «follia» sapendo che era la costruzione di qualcosa di nuovo, e lo abbiamo fatto sostenendoci, alla Isaac Newton, sulle spalle dei giganti per vedere più lontano”. Siamo partiti dal social network, da Facebook per la precisione, con la nostra astronave e abbiamo toccato qua e là i pianeti che ci si presentavano: in “Uno, doje, tre e quattro” c’è la ricerca scientifica, c’è il rapporto tra Nord e Sud con il fenomeno leghista, c’è la poesia, ci sono le radici e le nostalgie, ci sono domande e risposte sul perché si scrive e sul perché i cervelli italiani preferiscano fuggire all’estero, c’è il tifo, c’è persino la gestione della spazzatura. Non ci credete? Leggete cosa scrive Carmela Talamo: “Ritorno all’argomento smaltimento rifiuti per dire che Somma Vesuviana è un piccolo esempio, sicuramente ci sono ancora tante cose da migliorare, sicuramente ci sono ancora tante domande a cui si deve dare una risposta ma, come ho detto, da qualche parte bisogna pur iniziare, e iniziare dalle persone di buona volontà continua a sembrarmi una bella cosa. Sì, me ne convinco ogni giorno di più: ci vuole gente che non si arrende alle pur mille difficoltà che la nostra bella terra ci impone in ogni circostanza, gente che ogni giorno cerca di fare comunque un passo avanti, fosse anche piccolo piccolo, non importa, basta che sia fatto nella giusta direzione. Mi piace la gente che riesce a fare, a distinguersi, ad andare oltre, contribuendo così a spazzare via un po’ di sporcizia dalla nostra napoletanità”.

Dimenticavo: c’è anche un’ampia pagina dedicata ai giochi di parole, ai tautogrammi e agli acrostici: lasciamo la parola a Viviana Graniero, l’esperta del gruppo in questo campo: “Quando mi viene in mente un racconto, una cosa da scrivere, una storia da scarabocchiare, in genere quello che ne esce è sempre qualcosa di ironico, giocoso. Ormai credo di avere la mente deformata, intrecciata dalle regole linguistiche, dalle restrizioni e dalle (il)limitazioni della letteratura potenziale. Che cosa può esserci di più meraviglioso? Arrivare fin dove si può e anche oltre, giocare senza fermarsi mai, perché, potenzialmente, per l’appunto, le possibilità della nostra lingua non hanno confini”.

Non hanno confini neppure le nostre connessioni: in un secondo possiamo colloquiare con persone che si trovano a New York o a Parigi o nel Borneo. Il vero senso del libro è questo: gli autori uno, due, tre e quattro insieme da svariati punti d’Italia senza neppure sedersi davanti a un tavolo. Neuroni e fibre ottiche. È il futuro, bellezza…


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.Titolo: Uno doje tre e quattro
Editore: Ediesse
Distributore: PDE
Codice ISBN: 9788823015258

PRESENTAZIONE: 16 NOVEMBRE 2010
NAPOLI: La Feltrinelli, Via Santa Caterina a Chiaia, 23

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LA FRASE DEL GIORNO
Scrivere vuol dire manifestare il proprio essere, dare un significato alle azioni di tutti i giorni. Vuol dire anche cercare di circoscrivere la realtà, racchiudere l’universo o almeno la parte che riusciamo a comprenderne, intrappolarla come acqua in un bicchiere. Una parte infinitesima mentre oceani rimangono ancora là fuori.
V. GRANIERO, C. TALAMO, D. RIVA e V. MORETTI, Uno, doje, tre e quattro