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martedì 9 giugno 2015

Delle viole sinuose

 

ÁNGEL GONZÁLEZ

SONO BARTOK DI TUTTO

Sono bartok di tutto,
bela
bartok del violino che mi rincorre,
delle sue finte precise,
delle viole sinuose,
dell’insidia che tende l’oboe,
della pesantezza ammonitoria del fagotto,
della furia del vento,
del profondo crepitare del legno.
Risuona bela in tutto bartok: ho
paura.
La musica
ha occupato la mia casa.
Per quel che sento,
può essere pericolosa.
Mandatela fuori.

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La musica che prende tutto, che impregna ogni cosa, che si espande come capita di vedere talvolta nei cartoni animati: in questo caso è quella di Béla Bartók, compositore ungherese della prima metà del Novecento, capace di fondere la musica classica con il folklore popolare superando il romanticismo ottocentesco. È la sua musica a inseguire il poeta spagnolo Ángel González (1925-2008) e a invadere la sua casa.

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Musica

 

 

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LA FRASE DEL GIORNO
La musica è il linguaggio della trascendenza.
EMIL CIORAN, Un apolide metafisico




Ángel González Muñiz (Oviedo, 6 settembre 1925 – Madrid, 12  gennaio 2008), poeta spagnolo della Generazione del ‘50. Premio Principe delle Asturie nel 1985 e Premio Regina Sofia nel 1996. La sua opera mescola intimismo e poesia sociale con un tocco ironico. Il passare del tempo, l’amore e la civilizzazione sono i suoi temi ricorrenti, giocati su toni di un’ottimistica malinconia.


giovedì 2 maggio 2013

E nemmeno un rimpianto

 

EDGAR LEE MASTERS

IL VOLINISTA JONES

La terra ti suscita
vibrazioni nel cuore: sei tu.
E se la gente sa che sai suonare,
suonare ti tocca, per tutta la vita.
Che cosa vedi, una messe di trifoglio?
O un largo prato tra te e il fiume?
Nella meliga è il vento; ti freghi le mani
perché i buoi saran pronti al mercato;
o ti accade di udire un fruscio di gonnelle
come al Boschetto quando ballano le ragazze.
Per Cooney Potter una pila di polvere
o un vortice di foglie volevan dire siccità;
a me pareva fosse Sammy Testa-rossa
quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor.
Come potevo coltivare le mie terre,
- non parliamo di ingrandirle -
con la ridda di corni, fagotti e ottavini
che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa,
e il cigolìo di un molino a vento - solo questo?
Mai una volta diedi mani all'aratro,
che qualcuno non si fermasse nella strada
e mi chiedesse per un ballo o una merenda.
Finii con le stesse terre,
finii con un violino spaccato -
e un ridere rauco e ricordi,
e nemmeno un rimpianto.

(da Antologia di Spoon River, 1916 – Traduzione di Fernanda Pivano)

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Dopo La collina e Francis Turner presento un’altra delle poesie di Edgar Lee Masters che Fabrizio De André inserì con libero adattamento nel suo bellissimo concept album del 1971 Non al denaro, non all’amore né al cielo. Il violinista Jones è uno dei pochi nella raccolta di Masters a dichiararsi felice e soddisfatto della sua vita: per non avere nemmeno un rimpianto si è affidato alla libertà, suonando quando ne aveva voglia, divertendosi, sorridendo, rendendo allegra la gente.

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fiddlerpainting

PAULA BLASIUS McHUGH, “THE FIDDLER”
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LA FRASE DEL GIORNO
Un musicista deve aprire il cuore per renderci migliori.

HANS WERNER HENZE





Edgar Lee Masters (Garnett, Kansas, 23 agosto 1868 – Melrose Park, Pennsylvania, 5 marzo 1950), poeta, scrittore e avvocato statunitense, noto soprattutto come autore dell'Antologia di Spoon River, raccolta poetica di immaginarie epigrafi tombali del cimitero dell’altrettanto immaginaria città di Spoon River.


giovedì 23 febbraio 2012

Ascoltando Borodin

 

CHARLES BUKOWSKI

LA VITA DI BORODIN

La prossima volta che ascolti Borodin
ricorda che era solo un farmacista
che scriveva musica per distrarsi;
la sua casa era piena di gente:
studenti, artisti, barboni, ubriaconi,
e lui non sapeva mai dire di no.
la prossima volta che ascolti Borodin
ricorda che sua moglie usava le sue composizioni
per foderare la cuccia del gatto
o coprire vasi di latte acido;
aveva l’asma e l’insonnia
e gli dava da mangiare uova à la coque
e quando lui voleva coprirsi la testa
per non sentire i rumori della casa
gli lasciava usare soltanto il lenzuolo;
per giunta c’era sempre qualcuno
nel suo letto
(dormivano separati quando proprio
dormivano)
e siccome tutte le sedie
erano sempre occupate
spesso lui dormiva sulle scale
avvolto in un vecchio scialle;
era lei a dirgli di tagliarsi le unghie,
di non cantare o fischiare
di non mettere troppo limone nel tè
di non schiacciarlo col cucchiaino;

Sinfonia n.2 in si minore
Il principe Igor
Nelle steppe dell’Asia centrale
riusciva a dormire solo mettendosi
un pezzo di stoffa scura sopra gli occhi;
nel 1887 partecipò a un ballo
all’Accademia di medicina
indossando un allegro costume nazionale;
sembrava finalmente di un’insolita gaiezza
e quando cadde sul pavimento,
pensarono che volesse fare il pagliaccio.
la prossima volta che ascolti Borodin
ricorda...

(da Burning in Water, Drowning in Flame, 1972 - Traduzione di Vincenzo Mantovani)

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La cinica crudezza caratteristica dei versi del poeta e romanziere americano Charles Bukowski è presente anche in questa Vita di Borodin, ma risulta attenuata da una sottile vena di malinconia che la attraversa tutta nel rappresentare il grande musicista russo succube della moglie e stressato dalla sua vita di chimico, tanto da arrivare a scrivere musica per sfuggirvi. L’antisociale, l’anticonformista Bukowski simpatizza con il povero Aleksandr Borodin, sempre troppo dentro le righe, sempre controllato, tanto da destare stupore quando, stroncato da un attacco cardiaco, crollò al suolo il 27 febbraio 1887 ad un festoso ballo della sua Accademia.

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BUSTO DI BORODIN A SAN PIETROBURGO © ALEX756

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LA FRASE DEL GIORNO
Mi piace pensare alla musica come a una scienza delle emozioni.
GEORGE GERSHWIN, The Composer in the Machine Age




Henry Charles "Hank" Bukowski Jr., nato Heinrich Karl Bukowski noto anche con lo pseudonimo Henry Chinaski, suo alter ego letterario (Andernach, Germania, 16 agosto 1920 – Los Angeles, California, 9 marzo 1994), poeta e scrittore statunitense. Romanzi e poesie trattano della sua vita in un rapporto morboso con l'alcol e il sesso, nel genere definito “realismo sporco”.


sabato 19 novembre 2011

Il calore di una vita già indossata

 

FRANCISCO BRINES

GIORNI D’INVERNO NELLA CASA ESTIVA

Nella solitudine di questi giorni d'inverno
con gli alti fiori di aloe rossi
nel giardino, in casa non c’è nessuno
e io la abito.
Ci sono gli uccelli. E la luce del sud
nel giorno indeciso.
Viene la notte con gli occhi bendati
e cieca cade fuori dai muri
così fredda, così ampia.
Vivo nell’intimità della casa vuota,
e nelle stanze disabitate
posso sentire il suono attutito della vita,
toccare il tempo congelato,
gustare negli specchi un sapore dolce,
la noia di un'immagine senza gioventù.
E ci sono, però, il calore di una vita già indossata,
il segreto entusiasmo di essere stato.

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Come sarebbe andare nella casa che si usa per le vacanze estive in inverno? Quali sarebbero le sensazioni che darebbe? E quali emozioni innescherebbe una presenza “fuori posto”? Sono le domande cui risponde il poeta spagnolo Francisco Brines con i suoi versi di ispirazione classica e malinconica che navigano nel corso del tempo con la serena accettazione del suo scorrere. Quello che alla fine emerge, da quei giorni trascorsi nella casa delle vacanze estive così diversa – le sere brevi, il ghiaccio, il silenzio, il tempo che sembra scorrere più lento – è un sapore dolce di nostalgia.

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FOTOGRAFIA © CHEST OF BOOKS

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LA FRASE DEL GIORNO
La nostalgia è rendersi conto che le cose non erano insopportabili come sembravano allora.

ARTHUR BLOCH, La legge di Murphy




Francisco Brines Bañó (Oliva, 22 gennaio 1932),​ poeta spagnolo. Inquadrato nel gruppo della Generazione dei ‘50, se ne distaccava per la sua poesia elegiaca attenta alla bellezza, al malinconico scorrere del tempo e alla caducità del vivere. Ê stato insignito del Premio Cervantes per il 2020.


venerdì 12 agosto 2011

La voce di Billie Holiday

 

DESMOND EGAN

PER TUTTI QUELLI CHE CONOSCO

(canzone per Billie Holiday)

Tesoro, la notte invecchia
Tesoro
Il mio amore però non si dichiara
come il profumo di una gardenia appassita
o il vago luccichio di un vecchio 78 giri
ricordo di passeggiate giovanili
in questa voce stanca
quasi sbiancata ora
che la morte suo ultimo amante
accarezza la sua gola
e quella gioventù
ogni gioventù
ogni vita

si trasforma in addio.

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Su questo blog già è apparso un omaggio a Billie Holiday, una delle voci più amate del jazz: una poesia dell’americana Rita Dove. Questo è un altro, scritto dal poeta irlandese Desmond Egan: come in quello, protagonista è l’inconfondibile voce di Billie, una voce capace di far sorgere emozioni indescrivibili ma anche di lasciar intravedere ciò che la attende, voce graffiata dall’abuso di alcol, droghe e narcotici, voce dolorosa che attende il destino.

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BILLIE HOLIDAY, DOWNBEAT, NEW YORK, 1947 © WILLIAM P. GOTTLIEB


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LA FRASE DEL GIORNO
Quello che esce fuori è ciò che sento. Non mi va di cantare una canzone così com'è. Devo cambiarla alla mia maniera. È tutto quello che so.

BILLIE HOLIDAY, La signora canta il Blues




Desmond Egan (Athlone, 15 luglio 1936), poeta irlandese. Ha pubblicato 24 raccolte di poesie e pubblicato traduzioni del Filottete di Sofocle e della Medea di Euripide.  Ha fondato The Goldsmith Press (1972), ha curato la rivista trimestrale per le arti Era (1974-1984) e a partire dal 1987 è stato direttore artistico del Gerard Manley Hopkins International Festival ogni luglio a Kildare.


lunedì 13 dicembre 2010

La Piaf, uscendo di scena


EVGENIJ EVTUŠENKO

COSÌ LA PIAF USCIVA DALLA SCENA

C’era a Parigi, c’era una sala e davanti alla sala
qualcuno motteggiava, volteggiando col sedere,
avendo coi suoi salti calpestato l’arte per un’ora…
Era solo un proemio per la Piaf.

Ed ecco entrò, fino al fanatismo
simile a un rozzo idolo,
come se, sbagliando porta, in uno sketch allegro
entrasse una tragedia stanca.

E, sulle stolidaggini da baraccone
ella si eresse, pallida e senza forze,
come una piccola civetta dagli occhi ammalati,
pesante con le sue ali spossate.

Piccoletta e truccata, coll’abito corto,
trattenendo la tosse, con un filo di vita,
ti apparteneva, o epoca,
reggendosi appena sulle gambette esili.

Ci guardava, come guardando la Senna,
dal cui parapetto fosse lì, lì per lanciarsi;
e sentivo la voglia di correre sul palcoscenico
per sostenerla, ché sarebbe caduta.

Un gesto preciso della manina rugosa
e partì l’orchestra… Arrivò fin sull’orlo
del palcoscenico… Costrinse la schiena
a raddrizzarsi e, tremando, aspirò la musica.

Cominciò a cantare, quasi prendendo il volo,
ricadendo davanti agli sguardi puntati,
quel corpo tagliuzzato dai chirurghi,
ansando, girandosi su se stesso, come dentro di noi!

Esso, volteggiando, singhiozzava, rideva con fragore,
bisbigliava come le erbe in delirio al Bois de Boulogne,
rimbombava come un carrettino a Saint-Germain,
urlava come una sirena. Questa era la Piaf.

In lei una mescolanza di campane a stormo,
di pioggia a dirotto, di cannonate,
di insulti, di gemiti, di mormorii, di fantasmi…
Così noi, a un tratto, quasi senza volerlo,
ci sentivamo nei suoi confronti buoni come dei giganti con una lillipuziana.

Attraverso la sua gola passava il dolore, passava la fede,
passavano le stelle, passavano le campane…
Giocando, come una gigantessa, ci prendeva nella mano,
come tanti miseri Gulliver.

Ma in lei, artista autentica, la cosa più importante
era che, a dispetto della morte che l’aspettava,
per la sua gola passavano nuovi artisti,
che dietro si lasciavano nodi di lacrime.

Così la Piaf, uscendo di scena, come tuono,
profetizzava nella sua frenesia.
La piccola civetta cantava, come canterebbe una chimera
caduta sul palcoscenico dall’alto di Notre-Dame.

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All’inizio degli Anni ‘60 il trentenne Evgenij Evtušenko comincia ad essere conosciuto come la voce del dissenso sovietico, la sua fama di polemico rappresentante del disgelo si sparge all’estero: la sua voce di protesta contro il dogmatismo e contro l’indifferenza della burocrazia verso l’uomo lo portano a compiere numerosi viaggi in cui i giovani lo acclamano per i suoi sentimenti di ribellione e di speranza. È a Monaco, a Cuba, a Londra, a Parigi…

Nel 1963, nella capitale francese, ha l’occasione di assistere ad un evento memorabile, l’addio alle scene di Edith Piaf, ormai prossima a morire. Quando la cantante entra in scena dopo un inutile spettacolo preparatorio, tutto cambia, tutto assume la sua importanza. È uno scricciolo debole e malato, Edith Piaf, tenuto insieme dalla morfina, ma quando apre la bocca e inizia a cantare, è tutto un mondo che racconta, è il dolore drammatico delle sue canzoni, è il pathos che la sua voce crea. L’ultima volta, irripetibile. E questo lo sa anche il giovane poeta venuto da lontano: non c’è una donna malata su quel palcoscenico ma il simbolo immortale di un’epoca.

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LA FRASE DEL GIORNO
Il dolore guarda abbassando dolorosamente gli occhi, / perché anche nel profondo vede. 
EVGENIJ EVTUŠENKO, Il vento del domani




Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, nato Gangnus (Zima, 18 luglio 1932) poeta e romanziere russo. Tra i poeti più significativi della generazione successiva alla morte di Stalin, ha unito nella sua opera la rivendicazione della libertà di espressione e la denuncia del perdurare, oltre la scomparsa del dittatore, dello stalinismo.


martedì 3 agosto 2010

La breve vita di Robert Johnson

Oggi è di scena la musica. In realtà è in primo piano la vita di un musicista: il talento sprecato nel fiore degli anni lascia sempre il rimpianto dei capolavori che sarebbero potuti nascere. Come i film di James Dean, di River Phoenix e di Heath Ledger o i romanzi di Cesare Pavese e di Albert Camus o le poesie di Attila Joszef, Antonia Pozzi e di Carlo Michelstaedter o ancora le canzoni di Rino Gaetano, di Jim Morrison, di Janis Joplin e di Jim Croce.

Il musicista in questione è il chitarrista e cantante blues Robert Johnson, un afroamericano nato nel maggio del 1911 a Hazelhurst, nello stato del Mississippi. La sua fine era già scritta nel suo DNA, nelle sue canzoni, come in “Hellbound on my trail”: «Devo correre, il blues viene giù come grandine. La luce del giorno continua a tormentarmi... c'è un emissario infernale sulle mie tracce». Nasce probabilmente qui la leggenda del patto con il diavolo, che in cambio della sua anima gli avrebbe dato la straordinaria tecnica del fingerpicking e quella voce particolare che cantava di demoni e di spettri. Testimoni dell’epoca raccontano che il ragazzo era goffo nel suonare lo strumento e solo un anno dopo era divenuto un vero talento: la risposta “scientifica” sarebbe Ike Zinnemann, un oscuro maestro abituato a suonare nei cimiteri…



Comunque tra il 29 novembre del 1936 e il 20 giugno del 1937, Robert Johnson registra ventinove pezzi che saranno ricordati a lungo e ripresi da artisti come Eric Clapton, i Led Zeppelin, i Fleetwood Mac e i Blues Brothers. In quel periodo, Johnson ne ha già passate parecchie: la prima moglie, sposata a 18 anni, muore di parto; lui allora diventa un forte bevitore e abbandona anche la seconda moglie, sposata a vent’anni, per dedicarsi interamente alla musica. Ora è il miglior esponente del delta blues.

Un mese dopo, il 13 agosto, Robert Johnson suona con i colleghi Sonny Boy Williamson e Honeyboy Edwards a 15 miglia da Greenwood, nel Mississippi, in un locale chiamato “Three Forks”, che li ha ingaggiati per alcune settimane. Robert si innamora della moglie del proprietario e intreccia con lei una relazione clandestina, della quale l’uomo non tarda a rendersi conto. Ma quella sera di giovedì 13 agosto, perse le inibizioni per i fumi dell’alcool e travolti dalla crescente eccitazione, i due amanti si comportano in maniera spudorata e imbarazzante. In una pausa a Robert viene passata una bottiglia di whisky senza tappo. Sonny Boy gliela fa cadere e gli dice che non è prudente bere da bottiglie non sigillate. Robert si arrabbia, grida “Non togliermi mai una bottiglia di mano!” e afferra un altro whisky già stappato che gli viene portato. Qualche minuto dopo non è più in grado di suonare e si trova in stato confusionale. Lo accompagnano a casa e comincia a delirare: è stato avvelenato. Eppure nessun medico viene chiamato e Johnson muore il 16 agosto, dopo due giorni di agonia. Nella bottiglia c’era stricnina.

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CROSSROAD BLUES

ME AND THE DEVIL BLUES


.Immagini © Delta Haze e Early Blues

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LA FRASE DEL GIORNO
Segui pure il detto antico di mio zio serpente; verrà certo un giorno, in cui la tua somiglianza con Dio ti farà paura.

JOHANN WOLFGANG GOETHE, Urfaust

lunedì 1 marzo 2010

Bicentenario di Fryderyk Chopin

“Ti ricordi la sera che i due si baciavano e tu, solo? Chopin discese dalle mansarde di Dio, ti colpì per sempre alla nuca facendoti grande e infelice”. Così Dino Buzzati in una tavola del suo “Poema a fumetti”.



Fryderyk Chopin, la musica che scende dall’alto e che ha il potere di colpire. I “Notturni” che milioni di mani hanno suonato sul pianoforte, gli “Études”, i “Valzer”, le “Polonaises”… meravigliose opere che rivoluzionarono la musica svincolandola dalle forme classiche della sinfonia e della sonata, perfettamente compiute in sé, rivoluzionarie e romantiche forme di immediatezza espressiva.

Oggi ricorre il bicentenario della nascita del compositore polacco. Era il 1° marzo del 1810 - così sosteneva lui, per la parrocchia invece il 22 febbraio - quando venne alla luce a Zelazowa Wola, vicino a Varsavia, figlio di un precettore francese e di una donna polacca che amava suonare il pianoforte. Incarnò la figura principe del compositore romantico, cagionevole di salute e sensibile, protagonista della vita parigina e del lungo amore per la scrittrice George Sand, compresa la morte a soli 39 anni.

Ecco, Chopin: come omaggio stasera ascolteremo la tua musica, magari il “Notturno” n. 2 dall’Opera 9 o il valzer “Tristezza”, e ci lasceremo colpire alla nuca da quelle note di pianoforte, meditando sull’amore e sulla felicità…

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LA FRASE DEL GIORNO
La musica è forse l’esempio unico di ciò che avrebbe potuto essere – se non ci fossero state l’invenzione del linguaggio, la formazione delle parole, l’analisi delle idee, – la comunicazione delle anime.
MARCEL PROUST, La prigioniera

lunedì 17 agosto 2009

Kind of blue

Mezzo secolo. È il tempo trascorso dall'uscita di un album che ha cambiato la storia del jazz e della musica: “Kind of blue” di Miles Davis usciva il 17 agosto 1959. Da allora ha venduto oltre quattro milioni di copie. Con il grande trombettista avevano suonato il sassofonista John Coltrane e il contrabbassista Paul Chambers, già suoi collaboratori nel fortunato “Round about midnight” del 1955. A questi aveva aggiunto il sax alto di Julian “Cannonball” Adderley, la batteria di Jimmy Comb e il piano dell'unico bianco del gruppo, Bill Evans. Ad uno dei brani, “Freddie Freloader” partecipò anche un altro pianista, Wynton Kelly.




E pensare che il trentatreenne Miles Davis si presentò in sala d'incisione con solo qualche abbozzo dei brani che intendeva registrare: gli furono sufficienti solo dieci ore, divise in due sessioni il 2 marzo e il 22 aprile di quell'anno, per realizzare questa pietra miliare. Lo studio era quello della Columbia, nella Trentesima Strada di New York, sorto sui resti di una chiesa armena: l'acustica era resa eccezionale dalle pareti di legno. Ma a rendere memorabile il disco furono la bravura e l'abilità dei musicisti: incisero una sola volta ciascuno dei cinque brani inseriti nell'album, fatto inusuale anche per quel periodo. L'improvvisazione e la sperimentazione erano ben note alla band di Miles Davis, che aveva praticato la musica modale, quella cioè basata sulle scale, già nella colonna sonora di “Ascensore per il patibolo” di Louis Malle nel 1957 e in “Milestones” nel 1958.

“Kind of blue” è divenuto quello che viene comunemente definito “un disco di riferimento”: i cinque brani non rappresentano una semplice successione di canzoni, ma un vero e proprio viaggio sonoro. In breve si pose come un punto da cui partire per fare nuova musica: vi si ispirarono anche i Beatles per “Sgt. Pepper's”.

  

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LA FRASE DEL GIORNO
Cos'è il jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai!   
LOUIS ARMSTRONG

venerdì 14 agosto 2009

Tango!

 

JORGE LUIS BORGES

IL TANGO

Dove saranno? chiede l'elegia
Di quelli che non sono, come se
Vi fosse una ragione dove l'Ieri
Potesse essere Oggi, Ancora e Sempre.

Dove saranno (io ripeto) i teppisti
Che fondarono in polverose strade
Di terra o in dimenticati villaggi
La setta del coltello e del coraggio?

Dove saranno quelli che passarono
Lasciando all'epopea un episodio,
Una favola al tempo, e che senz'odio,
Senza guadagno o amore si assalirono?

Li cerco nella leggenda, nell'ultima
Brace che, a modo d'una vaga rosa,
Serba qualcosa di quei coraggiosi
Dei Corrales e di Balvanera.

Quali vicoli oscuri o che deserto
Nell'altro mondo abiterà la dura
Ombra di quegli ch'era un'ombra oscura,
Juan Muraña, il coltello di Palermo?

E quell'Iberra fatale (che i santi
Lo perdonino) che ammazzò su un ponte
Il Ñato suo fratello, che ne aveva
Uccisi più di lui, saldando i conti?

Una mitologia di pugnali
Lentamente si annulla nell'oblio;
Una canzone di gesta s'è persa
In sordide notizie poliziesche.

Un'altra brace, incandescente rosa,
E' nella cenere che li tramanda;
Son lì i superbi gli accoltellatori
E il peso della daga silenziosa.

Benché la daga ostile o un'altra lama,
Il tempo, li abbiano spenti nel fango,
Oggi, di là dal tempo e dall'infausta
Morte, quei morti vivono nel tango.

Nella musica stanno, nelle corde
Della chitarra dal suono ostinato
Che trama nella milonga felice
La festa e l'innocenza del coraggio.

Gira nel vuoto la dorata ruota
Di cavalli e leoni, e odo l'eco
Dei vecchi tanghi di Arolas e Greco
Che vidi già ballare sulla strada

In un istante che emerge isolato,
Senza prima né poi, contro l'oblio,
Ed ha il sapore di ciò ch'è perduto,
Di quanto è stato perso e ritrovato.

In quegli accordi sono antiche cose:
L'altro cortile e l'intravista pergola
(Dietro le sue pareti sospettose
Il Sud serba un pugnale e una chitarra).

Questa raffica o sortilegio, il tango,
Gli affaticati anni sfida; e l'uomo,
Fatto di polvere e di tempo, dura
Meno della leggera melodia

Che è solo tempo. Il tango crea un confuso
Irreale passato, forse vero,
Un assurdo ricordo d'esser morto,
Battendomi, a un cantone del sobborgo.

(da Fervore di Buenos Aires, 1923)


Il tango è prossimo a essere proclamato “patrimonio mondiale dell’umanità” dall’UNESCO. Il classico ballo sudamericano, presentato dalle città di Buenos Aires e Montevideo al comitato di esperti , ha passato la prima selezione. Ora si attende che la riunione di fine settembre ad Abu Dhabi dia il responso. Un primo risultato positivo è stato quello di mettere d’accordo Argentina e Uruguay: entrambi rivendicano di essere la culla del tango. “Che la cultura serva come linguaggio, che la cultura serva come strumento d’intesa, è per noi molto importante” ha sottolineato il ministro argentino della Cultura, Hernán Lombardi, fiducioso che la dichiarazione dell’UNESCO possa portare turismo in Argentina. La notizia è stata data alla presentazione del Festival y Mundial de Baile de Tango, che si tiene da oggi al 31 agosto a Buenos Aires: 500 ballerini di spicco parteciperanno alla gara.

Il tango non è un semplice ballo: è pura passione, uno stato di vita che fonde il sangre caliente dei latini con la nostalgia di quelle terre lontane. I testi stessi dei tanghi assurgono a poesie, i ballerini sono già arte con la loro sensualità, con i loro vestiti e le loro scarpe. Jorge Luis Borges ne fu un cantore appassionato, come si può apprezzare in questi versi.

 

 

FABIAN PEREZ, “TANGO”

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LA FRASE DEL GIORNO
La vita è un tango e se scivoli, continua a ballare.
PROVERBIO ARGENTINO

domenica 31 maggio 2009

Bicentenario di Haydn

Cade oggi il bicentenario della morte di Franz Joseph Haydn: il compositore austriaco si spense a Vienna all’età di 77 anni il 31 maggio 1809. Haydn riveste un importante ruolo nella storia della musica classica: pur non avendo il genio di Mozart e Beethoven, fu l’iniziatore della musica strumentale moderna, traghettando il tardo barocco con il suo stile galante a una piena razionalità costruttiva, preludio di quello che sarà il Romanticismo. Fu Haydn a dare una forma definitiva alla sonata e alla sinfonia, ponendo le basi per la musica da camera, soprattutto con l’utilizzo del quartetto per archi.

Il rigore e l’equilibrio con cui sviluppava i testi, l’eleganza apparentemente semplice della scrittura, la facilità d’invenzione sono le caratteristiche dell’opera di Haydn. La sua intuizione fu decisiva per la forma-sonata, basata su due temi e articolata nell’esposizione, nello sviluppo e nella ripresa, e per la definitiva costituzione in quattro movimenti della sonata, della sinfonia e del quartetto classici: allegro, andante, minuetto, allegro.

 Il catalogo di Haydn conta 108 sinfonie (da citare le sei Parigine e le dodici Londinesi), 50 concerti per strumenti, 47 divertimenti per orchestra, 83 quartetti per archi, 52 sonate per pianoforte, 194 trii. A queste opere strumentali vanno aggiunte le 26 messe, opere teatrali (Il mondo della luna, L’anima dei filosofi), cantate e oratori.

Alla vita e alle opere di Haydn è dedicata una mostra a Eisenstadt, in Austria, dal 1° aprile all’11 novembre 2009: a Palazzo Esterházy si esamina la cultura musicale di corte. Nella casa di Haydn sono esposte testimonianze della vita artistica e privata del compositore. Nel Museo Diocesano si passa in rassegna la musica sacra di Haydn. Il Landesmuseum Burgenland analizza i viaggi del compositore tra varie culture e i rapporti con la musica popolare.

 

Thomas Hardy, “Ritratto di Haydn”

 

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LA FRASE DEL GIORNO
Se dunque la musica ha un maggior numero di amatori che non la poesia, o l'architettura, o la scultura, questo non si deve al fatto che essa è «più spirituale», come suol dirsi, bensì al fatto inverso: che è più sensuale.
VITALIANO BRANCATI, I piaceri

lunedì 18 maggio 2009

Isaac Albéniz

Cento anni fa, il 18 maggio 1909, all'età di quarantanove anni si concludeva la vita di Isaac Albéniz. Vita avventurosa per un musicista. Era nato nel 1860 a Camprodon, in Catalogna, da un ispettore delle tasse che ne intuì subito il talento musicale e lo istradò verso una carriera da bimbo prodigio: a quattro anni il piccolo Isaac fece il suo debutto improvvisando ad un concerto pubblico, a sette sua madre lo portò a Parigi per studiare con il maestro di Bizet e Debussy, Jean-François Marmontel.

Ma difficile è la vita dei bambini prodigio: tornato in Spagna, Albéniz fuggì di casa, visse all'aperto mantenendosi come suonatore acrobata negli spettacoli di vaudeville. In pratica, vestito come un moschettiere, con tanto di spada, suonava la tastiera posta dietro la schiena con le nocche, tenendo i palmi in su!
Aveva dodici anni quando, dopo incidenti e traversie, si imbarcò da clandestino su una nave per Buenos Aires, città che lasciò poi per Cuba e per gli Stati Uniti, dove iniziò a dare concerti a New York e a San Francisco. Tornò in Europa e suonò a Liverpool, Londra e Lipsia.

Il suo spirito libero - aveva allora solo quindici anni! - non tollerava vincoli e catene, non era in grado di sottostare alla disciplina necessaria per portare avanti studi regolari: Albéniz si affidava esclusivamente al suo talento. Furono gli incontri con altri geni della musica a indicargli la strada, a condurlo per mano: Liszt a Budapest, Dukas a Parigi e Felipe Pedrell in Spagna. Costui, studioso del folklore e delle danze popolari, convinse Isaac a diventare un compositore, servendosi della lingua spagnola. Il trentenne Albéniz si dedicò alla zarzuela, l'opera spagnola, mettendola in scena a Parigi, prima di musicare dietro compenso i libretti del banchiere inglese Money-Coutts. Con il passare degli anni, la sua musica per pianoforte, con quel gusto spagnolo che mediava folklore e impressionismo, gli diede notorietà: Parigi, Barcellona e Nizza se lo contendevano. Fu proprio allora che il destino si accanì contro di lui: la giovane figlia morì, la moglie venne colpita da un male incurabile, lui stesso sviluppò la malattia di Bright.

Albéniz fu un precursore di quella scuola spagnola che avrebbe portato a Granados, De Falla e Turina: seppe fondere gli elementi folkloristici, memore certo del vaudeville e degli insegnamenti del musicologo Pedrell: la sua ispirazione, se anche la struttura pianistica ha un grosso debito con Liszt, è tutta spagnola, dalle chitarre ai ballerini di flamenco, dai ritmi esuberanti alle melodie sensuali.

DISCOGRAFIA ESSENZIALE

Ibéria. Navarra. Suite Española - Alicia de Larrocha Decca 417 887-2DH2 (126’)
Ibéria - Marc-André Hamelin Hyperion CDA67476/7 (126')
Albeniz. Granados. Rodrigo - Julian Bream RCA Navigator 74321 17903-2 (77')




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LA FRASE DEL GIORNO
Non sarebbe la musica una lingua perduta, della quale abbiamo dimenticato il senso, e serbata soltanto l'armonia?
MASSIMO D'AZEGLIO, I miei ricordi, X

lunedì 20 aprile 2009

Omaggio a Billie Holiday



RITA DOVE

CANARINO

a Michael S. Harper
La voce bruciata di Billie Holiday
aveva tante ombre quante luci,
un candelabro triste contro un lucido piano,
la gardenia la sua firma sotto la faccia rovinata.

(Ora sì che vai bene, batterista e basso,
cucchiaio magico, magico ago.
Prenditi la giornata se ti serve
col tuo specchio e il braccialetto di canto).

Il fatto è, l'invenzione di donne sotto assedio
è stata affinare l'amore al servizio del mito.

Se non puoi essere libera, sii un mistero.


Che splendido omaggio questo della poetessa americana Rita Dove alla cantante Billie Holiday: c'è tutto l'amore per il jazz e l'amarezza per una vita buttata con l'alcol e le droghe. La Holiday, che fu prostituta-bambina prima di trovare la strada della musica, morì a 44 anni, stroncata da un'epatite. Tony Scott, uno dei suoi musicisti disse di lei: "Billie Holiday è stata e sempre sarà un simbolo della solitudine: una vittima dell'american way of life come donna, come nera e come cantante jazz. Per la società bianca tutto questo voleva dire essere l'ultima ruota del carro. Questo insieme di choc e traumi la spinse a cercare un qualcosa che l'aiutasse ad annebbiare il dolore spirituale e mentale. Appena si presentò l'opportunità, cominciò subito a far uso di stupefacenti".

Rita Dove, Premio Pulitzer per la poesia nel 1987, ne traccia un profilo preciso partendo dalla sua caratteristica principale, la voce di carta vetrata, calda e roca, piena di passione. Fulminea, come una stilettata, la sentenza che chiude la poesia: dalla prigionia della solitudine, dei pregiudizi razziali, delle categorie sessuali la fuga per Billy è arrivata attraverso il mistero.




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LA FRASE DEL GIORNO
Puoi strizzare i tuoi seni in raso bianco con gardenie nei capelli e nessuna canna da zucchero intorno per miglia. Ma sarai ancora a lavorare nella piantagione.
BILLIE HOLIDAY, La signora canta il blues




Rita Frances Dove (Akron, Ohio, 28 agosto 1952), poetessa e scrittrice statunitense, vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia 1987. La sua opera è originale per le varie tematiche affrontate e la meticolosa ricerca linguistica con cui riesce a catturare e trasferire sul foglio emozioni complesse.



lunedì 12 gennaio 2009

Cinquant'anni Motown


C'è uno stile musicale che è chiamato "Motown": designa un genere soul caratterizzato dall'uso del basso, da una struttura melodica e da un arrangiamento particolare subito riconoscibili. È legato a una casa discografica, la Motown Records, Inc., che venne fondata a Detroit, nel Michigan, la capitale americana dell'automobile. Il nome dell'etichetta viene da lì, da quel settore motoristico che dava lavoro a un'intera città e che ora segna il passo, travolto dalla peggiore crisi del dopoguerra.

Era il 12 gennaio del 1959 quando Berry Gordy fondò la Tamla Records - questo il primo nome della casa discografica. Nessuno poteva pronosticare il successo cinquantennale che diede fama e notorietà a stelle del rhythm & blues e del soul: i Jackson Five, i Commodores, Marvin Gaye, Diana Ross, Martha Reeves & The Vandellas, Stevie Wonder, The Four Tops.


Fotografia © Motown


Con il trascorrere degli anni sono cambiate molte cose: nel 1972 la Motown abbandonò Detroit per Los Angeles, nel 1988 venne incorporata dalla MCA. Oggi ha sede a New York ed è una società indipendente della Universal Music.

Ma lo stile Motown resta inconfondibile...



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LA FRASE DEL GIORNO
Siamo gente da blues. E il blues non lascia che mai la tragedia abbia l'ultima parola.
WYNTON MARSALIS, Smithsonian Magazine, Novembre 2005 (dopo Katrina)

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UNA PICCOLA NOTA: "Il canto delle sirene" oggi compie un anno. Dal primo post, "Tanto per cominciare", pubblicato il 12 gennaio 2008, si è evoluto e ha assunto una sua fisionomia ben definita.

A chi è capitato qui per caso, a chi frequenta o ha frequentato queste pagine, ai lettori del "Canto delle sirene" insomma, voglio esprimere il mio grande grazie.

Daniele

domenica 16 novembre 2008

Fleurs 2


È uscito due giorni fa il nuovo album di Franco Battiato, "Fleurs 2". Nonostante il numerale, è il terzo album di cover del maestro siciliano, che aveva volutamente intitolato come terzo il precedente "Fleurs" in spregio delle mode che riproponevano reinterpretazioni di brani altrui - da Baglioni alla Pausini, ai Pooh - seguite al successo del primo album, addirittura del 1999.

Battiato rivisita dei pezzi famosissimi a cavallo tra gli Anni '60 e i '70, rivestendoli di un nuovo abito che si avvale del pianoforte di Carlo Guaitoli, rendendo la tipica atmosfera che il cantautore di Milo ha ricreato già nelle due uscite precedenti. C'è una triste canzone di Sergio Endrigo, autore forse troppo sottovalutato, "Era d'estate", che è una delle mie preferite. Gli altri brani in italiano sono pezzi dell'amico Juri Camisasca ("Il carmelo di Echt" e "La musica muore"), una traduzione da una canzone di Anthony, cantata con l'interprete ("Del suo veloce volo") e un inedito bellissimo, scritto a due mani con Manlio Sgalambro e cantato con Carmen Consoli, "Tutto l'universo obbedisce all'amore".

"E più ti amo" è il ripescaggio di uno dei primissimi 45 giri incisi da Battiato - erano già allora cover affidate a cantanti non ancora famosi e venivano allegati a riviste di enigmistica, tanto che il gruppo di accompagnamento si chiamava "Gli Enigmisti": questa è del 1965, gli autori originali erano Gino Paoli e Alain Barriere. Chiude l'album una canzone a suo tempo scritta per Giuni Russo, "L'addio".

I brani in inglese sono naturalmente diversi dagli originali, e non poteva essere altrimenti. Ma "It's five o'clock" degli Aphrodite's Child, il rhytm & blues di "Sitting on the dock of the bay" di Otis Redding e "Bridge over troubled water" di Simon & Garfunkel sembrano avere una marcia in più rispetto alla pur notevole esecuzione di Battiato. I pezzi in francese invece risentono meno del confronto con l'originale: "Et maintenant" di Gilbert Becaud e "Il venait d'avoir 18 ans" di Dalida, qui anche per la presenza della bella voce di Sepideh Raissadat, cantante iraniana.

In conclusione è un disco che rivela ancora una volta la predilizione di Battiato per gli Anni '60 - anche il suo primo film, "Perduto amore", ricostruiva quel periodo con canzoni e si può affermare che la colonna sonora è in effetti il quarto album dei "Fleurs", sebbene le interpretazioni lì sono affidate anche ad altri. La contaminazione di generi è la base del successo di Battiato: questo suo destreggiarsi tra rock, pop, sufi, elettronica, sperimentalismo, musica classica, opera lirica non è solo sintomo del suo poliedrico tocco d'artista, ma un invito al multiculturalismo, a non chiudersi nel proprio orticello e andare per il mondo a confrontarsi con gli altri.







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LA FRASE DEL GIORNO
Nella musica e nella vita avviene così: all'una come all'altra i silenzi più che gli accordi danno significato.

JULES BARBEY D'AUREVILLY, Le diaboliche

lunedì 8 settembre 2008

Lucio, 10 anni fa


Il 9 settembre di dieci anni fa all'ospedale San Paolo di Milano moriva Lucio Battisti. In effetti quella fu solo la sua scomparsa fisica, poiché da diciotto anni non appariva più in pubblico e le sue poche immagini erano quelle rubate dai paparazzi: lo si era visto in una regata di barche a Fiumicino o nel parcheggio di un supermercato.

Quella sua "separazione" dal mondo non era andata giù allo star system: e più lo cercavano, più Lucio si isolava con moglie e figli nella villa di Molteno. Ma ai battistiani questo non importava: quello che è sempre interessato è stata la sua musica, dalle gemme inestimabili composte con Mogol negli Anni Settanta alle astruse elucubrazioni scritte per lui da Pasquale Panella.

Il giro di accordi La-Mi-Re-Mi della "Canzone del sole" è la prima cosa che prova a strimpellare chi impara a suonare la chitarra. Le serate tra amici sulla spiaggia non possono concludersi senza che sia stata cantata mentre il principiante o già esperto chitarrista li suona sullo strumento: "Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi, le sue calzette rosse..."

"La canzone del sole", "Emozioni", "Pensieri e parole", "Il giardino di marzo", "Il mio canto libero", "Mi ritorni in mente" sono pietre miliari della canzone italiana: sanno originare un'emozione, sanno trascinare l'anima nella condivisione di un sentimento. Ecco perché Lucio Battisti era un mito ancora prima della sua scomparsa. L'isolamento aveva aggiunto un tocco di mistero alla carriera di quel ragazzo di Poggio Bustone che da autodidatta aveva affinato il suo genio e lo aveva condotto con il talento del paroliere Mogol a cavalcare mode e tendenze, a precorrerle e a indirizzarle grazie alla capacità di cogliere le emozioni quotidiane e di saperle tradurre nei pochi minuti di una canzone.

C'è tutta una società in quei brani che parlano d'amore ma sottintendono anche i mutamenti del costume: dal sogno di una casa di "Dove arriva quel cespuglio" e del "Monolocale" all'emancipazione della donna di "Questo inferno rosa", dall'esclusione sociale di "Gente per bene, gente per male" all'invadenza della pubblicità di "Ma è un canto brasileiro".

Anche chi si era innamorato delle sue canzoni per un vezzo adolescenziale ha saputo traghettarle nell'età adulta e quando una di esse passa per radio o in un programma televisivo, si sorprende a canticchiare quei versi e si sente all'improvviso più giovane.


Lucio Battisti nel 1972 (Pubblico Dominio)

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LA FRASE DEL GIORNO
La musica è una delle vie per la quale l'anima ritorna al cielo.
TORQUATO TASSO, citato in "Musica, divina armonia" di Silvano Chiereghin

mercoledì 27 agosto 2008

Mezzo secolo di bossanova


Era un giorno d’inverno a San Paolo quando, nell’agosto di cinquant’anni fa, nacque la bossanova. La canzone che lanciò il nuovo genere era “Chega de suadade”, scritta dal poeta Vinícius de Moraes e da Antonio Carlos Jobim e cantata da Joao Gilberto. Alcuni “addetti ai lavori“ provenienti da Rio de Janeiro la presentarono su un 78 giri ad Alvaro Ramos, direttore delle vendite di Lojas Assumpçao, principale distributore musicale all’epoca in Brasile.

Ramos non apprezza il tono intimista e minimale di Gilberto, si lamenta, crede addirittura che il cantante sia raffreddato. I produttori insistono: perché un pezzo abbia successo, deve sfondare nella capitale economica del paese. E poi quel brano di un minuto e cinquantanove secondi è costato sforzi tecnici notevoli: Joao Gilberto ha preteso due microfoni, uno per la voce e uno per la chitarra, cosa all’epoca assolutamente straordinaria. È una ventata di novità nel mondo della musica e bossanova significa appunto "stile nuovo".

Alla fine la Lojas Assumpçao decide di produrre il disco ed è un successo incredibile: in soli cinque mesi vende 15.000 esemplari, diventeranno 35.000 in otto mesi, cifra considerevole per la fine degli Anni Cinquanta.

In pochi anni la bossanova invade il mondo, trasformando sconosciuti musicisti in stelle di prima grandezza nella musica: oltre i tre precursori Jobim, De Moraes e Gilberto, sfondano Sergio Mendes, Carlos Lyra, Baden Powell e Luiz Bonfa. Il film "Orfeu Negro", girato nelle favelas di Rio dal francese Marcel Camus vince la Palma d'oro a Cannes e un Oscar, grazie anche alla colonna sonora, che comprende la suggestiva "Felicidade".

Dalle spiagge chic di Rio de Janeiro il ritmo sincopato della bossanova si insinua nel jazz americano: nel 1963 il grande sassofonista Stan Getz incide con Joao e Astrud Gilberto "Garota de Ipanema", che diventa un successo mondiale. In Brasile però la bossanova resta confinata nei quartieri bianchi della classe media: Ipanema, Leblon, Copacabana. Per gli altri c'è il samba del carnevale oppure il nuovo funk delle favelas.







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LA FRASE DEL GIORNO
La musica spazza via dall'animo la polvere della vita quotidiana.
RICHARD WAGNER

sabato 21 giugno 2008

60 anni a 33 giri


Il disco in vinile a 33 giri, noto anche come “long playing” o LP compie sessant’anni: fu presentato al pubblico dalla Columbia Records il 21 giugno 1948 all’Hotel Waldorf Astoria di New York. Il presidente della casa discografica Ted Wallerstein dimostrò la “lunga durata” da cui il disco in vinile prese il nome con un discorso di ventiquattro minuti, iniziato e terminato in coincidenza con la musica incisa, ovvero la Suite dello Schiaccianoci di Ciajkovskij. Anche gli scettici dovettero ricredersi e l’applauso segnò la nascita di un oggetto tecnologico che avrebbe rivoluzionato il modo di ascoltare la musica.



Come tutte le novità, anche il 33 giri ebbe bisogno di tempo per sfondare, ma subito la musica classica e le colonne sonore gli si affidarono con entusiasmo. La prima incisione pop fu la riedizione di una raccolta di successi di Frank Sinatra uscita in 78 giri. La musica leggera preferì affidarsi al 45 giri, lanciato nel 1949 dalla RCA. Ci penserà Elvis Presley a infrangere il tabù con gli LP “Elvis Presley” ed “Elvis” nel 1956. Poi arriveranno i Beatles e la lunga stagione dei gruppi rock. Gli album più venduti della storia sono degli LP: “Thriller” di Michael Jackson nel 1982 sfornò oltre tre milioni di copie. In Italia lo stesso anno Franco Battiato superò il milione di dischi venduti con “La voce del padrone”. Nacquero anche i “concept album”, gli album a tema, una serie di brani a formare una narrazione intera sulle due facciate del 33 giri: “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” dei Beatles fu il primo nel 1967, Claudio Baglioni in Italia raccontò una storia d’amore tormentata in “Questo piccolo grande amore” nel 1972.

Un punto di forza dei “long playing” è la copertina, spesso diventata un capolavoro di arte moderna: la banana di Andy Wahrol per “The Velvet Underground” dell’omonimo gruppo nel 1966, o il fenicottero rosa di Christopher Cross. Spesso venivano usate come poster. Il difetto invece sono i graffi cui vanno soggetti i microsolchi: già dopo pochi ascolti si rovinano irrimediabilmente causando lo sgradevole suono simile a un friggere d’olio.
Così nel 1982, quando apparvero i primi compact disc perfetti e puliti con la loro tecnologia laser e facilmente impilabili per le loro ridotte dimensioni, iniziò il declino degli LP. Anche poter passare da una traccia all’altra senza bisogno di una ricerca meccanica, sollevando il braccio del giradischi o addirittura voltando il disco, sancì la supremazia del CD.

Il 33 giri compie 60 anni ed è ormai un prodotto di nicchia, un vintage per chi non si rassegna al progresso e ritiene che la sonorità dell’adorato “long playing” sia più calda dell’incisione digitale.




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LA FRASE DEL GIORNO
Nella notte del senso, nella solitudine del vivente, la poesia è l’ultimo soffio vitale che resiste.
ANTONIO PRETE, Trattato della lontananza

sabato 9 febbraio 2008

Pica!

A tre anni di distanza da “Akuaduulza” è uscito “Pica!”, il nuovo album di Davide Van De Sfroos.
Prende il titolo dal ritornello di uno dei migliori brani, “Il minatore di Frontale”: “Pica!” (“Batti!”) è il grido che risuona nelle gallerie.
È un ottimo album, che segna la maturità del musicista di Lezzeno, abile come sempre nel suo folk-rock virato al blues. Meravigliosa è “New Orleans”, che racconta una storia d’amore che si spezza nel devastante uragano “Katrina”, con sonorità cajun. “El puunt” sembra riprendere un brano di “…E semm partii”, ovvero “Me canzun d’amuur en scrivi mai” e condirlo con una salsa più amara.
Tornano i temi cari a Van De Sfroos: il lago in “La terza onda” e “Il costruttore di motoscafi”, la natura e le culture native in “Lo sciamano”, la gente caratteristica dei piccoli paesi in” L’Alain Delon de Lenn” dove il canto si scioglie quasi in filastrocca, le carte da gioco di ”Loena de picch”, costruita sulla falsariga di “I ann selvadegh del Francu”, blues di Tom Waits sperimentato in “Laiv”
Da segnalare ancora il contrabbandiere in“La ballata del Cimino” e la poetica “40 pass”, ambientata a Milano e suonata tutta al pianoforte.

Davide Van De Sfroos terrà un concerto in unica data il 19 aprile al Forum di Assago.






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LA FRASE DEL GIORNO
A volte basta una virgola per distinguere una banalità da un’idea.
NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA, Tra poche parole