Nell’anno di grazia 1583 il gesuita Antonio Possevino scrive che “tre sorti di nationi habitano la Transilvania. Gli Ungheri, i quali propriamente sono fuori di Transilvania; (…) i Valacchi, che non hanno certa sede. I Sassoni, i quali hanno sette città; onde chiamano in loro lingua la Transilvania Siebenburger” (1).
Fra le tre “nationi” citate dal Possevino, i Valacchi sono coloro che, secondo una testimonianza italiana coeva, “fanno professione d’esser discesi da colonia romana, quindi prima condotti da Tiberio (sic) contra Decebalo Re, poi per guardia di quel paese da Adriano ivi lasciati, così ancora usano lingua assomigliante alla antica romana” (2).
Gli “Ungheri”, popolo di lingua ugrofinnica che per secoli aveva errato nelle steppe eurasiatiche, nell’896 valicò al seguito di Arpád il passo carpatico di Verecke, dilagando nella Pannonia ex romana e soggiogando le sparse tribù slave. Sui Carpazi orientali si insediarono i Székely (Siculi, Ciculi, Secleri), un’etnia di lingua ungherese che fa risalire agli Unni la propria origine e rivendica di esser giunta in Transilvania in un’epoca precedente l’arrivo delle tribù magiare guidate da Arpád.
I Sassoni, infine, giunsero in Transilvania come artigiani e commercianti tra il secolo XII e il XIII, assimilando i coloni germanici di altre stirpi che vi erano affluiti già nel secolo XI.
Non essendo questa la sede adatta a ripercorrere le complesse vicende storiche della Transilvania e dei popoli che l’hanno abitata fino ad oggi, ci limiteremo a ricordare, a grandi linee, i momenti più salienti ed emblematici nella storia della regione. Nel 1437 la nobiltà magiara, székely e sassone diede vita a quella unio trium nationum che, oltre a garantire una certa autonomia della Transilvania nei confronti della monarchia ungherese, sancì l’emarginazione politica e sociale dell’elemento romeno.
Dopo la vittoria sull’Ungheria conseguita a Mohács da Solimano il Magnifico (1526), l’unica entità statale ungherese autonoma fu appunto il principato di Transilvania, vincolato alla Sublime Porta da un rapporto vassallatico che non ne comprometteva la libertà interna. In questo periodo i Sassoni diventarono luterani; luteranesimo e calvinismo trovarono seguaci tra la nobiltà magiara.
In seguito alla sconfitta ottomana sotto Vienna (1683) e alla pace di Carlowitz (1699), la Transilvania venne annessa all’Impero absburgico. Fu allora che molti Romeni transilvani, attratti dalla prospettiva di un miglioramento della loro condizione, diventarono “greci uniti”: pur conservando il rituale bizantino, professarono i punti di dottrina caratteristici del credo cattolico e riconobbero l’autorità del Papa di Roma. Siccome i vantaggi desiderati non vi furono, tra la popolazione romena crebbe lo scontento, che culminò nella rivolta contadina del 1784. I diritti che l’Imperatore concesse ai Romeni rimasero lettera morta a causa dell’ostilità della nobiltà magiara, sicché nel 1848 i Romeni di Transilvania si schierarono con Vienna per contrastare la rivolta guidata da Lajos Kossuth.
La svolta decisiva per la storia della regione avvenne con il primo conflitto mondiale: in seguito allo smembramento dell’Austria-Ungheria, la Transilvania fu annessa al Regno di Romania.
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Intorno alla metà dell’Ottocento, il clima romantico indusse Ungheresi, Romeni e Sassoni di Transilvania a indagare i rispettivi patrimoni tradizionali, al fine di rintracciarvi la testimonianza delle loro specifiche identità nazionali e culturali. In realtà, tutto cominciò a Stoccarda, nel 1845, con la pubblicazione di una raccolta di fiabe romene, Walachische Märchen, curata da Albert e Arthur Schott e pubblicata nella collana di favolistica fondata dai Grimm. Due anni dopo, Jacob Grimm fece pubblicare a Berlino i Deutsche Volksmärchen aus dem Sachsenlände in Siebenbürgen. Nel 1863, a Kolozsvár (rom. Cluj), il teologo János Kriza pubblicava Vadrózsák (Rose selvatiche), una raccolta di testi székely che egli aveva cominciato a raccogliere vent’anni prima: canti, ballate, indovinelli, proverbi e una ventina di fiabe popolari. Kriza fu uno dei primi che, anziché rielaborare i testi raccolti, li trascrisse nel dialetto originario e “affermò la prassi di far riferimento alla narrazione orale, che più o meno lasciava intravedere la genuina situazione narrativa, il tratto tipico del narratore” (3). Nel 1888 uscì a Brassó (rom. Brasov) la prima serie di Povesti ardelenesti (Racconti transilvani) a cura del romeno Ion Pop Reteganul, che aveva già dato alle stampe una raccolta di poesie popolari.
Le aspettative nutrite da questi pionieri romantici non sono state deluse dagli esiti che la ricerca etnografica ha potuto conseguire. Quello che oggi risulta evidente, è che la favolistica dei popoli della Transilvania ha custodito, attraverso i secoli, non solo la memoria di eventi e di personaggi storici più o meno trasfigurati in senso leggendario, ma anche una serie preziosissima di elementi mitici e rituali che talvolta risalgono addirittura al neolitico. Non esagerava dunque Ananda K. Coomaraswamy (1877-1947), allorché scriveva che le fate e gli eroi delle fiabe “erano in origine, in gran numero o per la maggior parte, degli dèi”, per cui “un autentico studioso di folclore dovrà essere non tanto uno psicologo, quanto un teologo e un metafisico” (4).
Né esagerava Mircea Eliade (1907-1986), affermando che miti, simboli e rituali del folclore romeno “affondano (…) le loro radici in un universo di valori spirituali che preesiste all’apparizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente antico e del Mediterraneo”, sicché il rigoglioso patrimonio delle tradizioni popolari romene avrebbe conservato non solo elementi della cultura geto-dacica, ma addirittura “frammenti mitologici e rituali scomparsi, nell’antica Grecia, già prima di Omero” (5).
Infatti, per citare Vasile Lovinescu, che fu tra l’altro un esegeta del folclore di quest’area, le tradizioni popolari dei Romeni (in Transilvania e altrove) “offrono al ricercatore un campo d’indagine di un’importanza e di un’antichità poco comuni, un campo così vasto, che ci vorrebbero volumi interi per riassumere e interpretare i racconti e le leggende” (6). D’altronde Lovinescu si muoveva sulle tracce di René Guénon, il quale aveva scritto: “Quando una forma tradizionale è sul punto di estinguersi, i suoi ultimi rappresentanti possono benissimo affidare volontariamente alla memoria collettiva ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto” (7).
Per rendersi conto della fondatezza di tali affermazioni, sarebbe sufficiente leggere una raccolta di favole romene (8) e osservare come tra le figure caratteristiche vi siano, per esempio, le zâne. Il vocabolo romeno zâna rimanda al teonimo latino Diana e quindi alle numerose iscrizioni latine della Dacia dedicate a Diana regina, vera et bona, mellifica, con la quale era stata probabilmente identificata una divinità geto-tracica. Esiste una categoria particolare di zâne, le sânziene (da Sanctae Dianae) alla quale appartiene Ileana Cosinzeana, personaggio principale del folclore romeno. Se talvolta è alle zâne che viene attribuita la funzione di fissare la sorte di un essere umano al momento della sua nascita, tale funzione è altre volte assegnata alle ursitoare o ursitori, personaggi nei quali sopravvive il ruolo delle Parche latine e delle Moire greche, come è d’altronde attestato dall’etimologia stessa di ursitoare, che rinvia al verbo horìzein e richiama l’espressione horìzein moîran, usata in un frammento di Euripide col significato di “determinare il destino individuale”.
Un altro motivo di notevole interesse presente in alcune fiabe romene, è quello dell’eroe (o dell’eroina) rinchiuso in una cassa e gettato in balia delle onde. È questo un motivo che si ricollega ad un archetipo attestato sia nell’Europa antica sia nel Vicino Oriente e perfino in Siberia; il Propp lo ha esemplificato tramite le storie di Mosè e di Sargon. A queste storie però se ne potrebbero aggiungere molte altre: ci limitiamo a citare quella di Danae e Perseo, quella di Auge e Telefo, quella di Neleo e Pelia, quella di Penta narrata in un cunto del Basile. Lo schema è sostanzialmente il medesimo e non staremo a rievocarlo; faremo invece notare come in tutte queste storie ricorra, accanto al motivo della regalità, il simbolismo della luce, che allude alla presenza dello spirito divino accanto al futuro regnante (9).
Quanto alle fiabe ungheresi, che proprio in Transilvania hanno mantenuto pressoché intatti i loro temi originari, già il poeta romantico János Arany (1817-1882) vi aveva rintracciato la presenza di elementi caratteristici della cultura precristiana. Studiosi come Arnold Ipolyi (1823-1886), Lajos Kálmány (1852-1919) e Kabos Kandra (1843-1905) fecero del loro meglio per ricostruire, sulla base del materiale etnografico a loro disposizione, il quadro del mondo magiaro “pagano”. Le successive ricerche sulla favolistica hanno mostrato come nel corso di oltre mille anni di cristianesimo la memoria collettiva degli Ungheresi abbia custodito temi e simboli di origine sciamanica, risalenti ai lunghi secoli di nomadismo che terminarono nell’896 d.C. con l'”occupazione della patria” (honfoglalás).
Sulla persistenza di questi antichissimi elementi sciamanici nelle fiabe ungheresi Anikó Steiner effettuò una ricerca che riteniamo di dover segnalare: non solo perché, in questo campo, è uno dei pochissimi studi accessibili al lettore italiano (10), ma anche perché offre allo storico delle religioni un solido punto di partenza per un’indagine sistematica sulla cultura spirituale dei Magiari precristiani. Passando in rassegna i temi più caratteristici della favolistica magiara, l’autrice fa notare come essi “adombrano le varie tappe dell’iniziazione dello sciamano ed il ruolo a cui egli assolve in seno alla società primordiale” (11). La ricerca in questione individua così, nelle vicende fiabesche, tutta una serie di elementi tipici della tradizione sciamanica: il rapimento, lo smembramento, l’ascensione, l’albero che arriva fino in cielo, il cavallo sciamano (táltosló), la lotta tra sciamani avversari.
Alcune favole ungheresi mostrano in maniera efficace la varietà delle influenze tradizionali che si sono intrecciate e stratificate nella cultura transilvana. Si legga ad esempio la favola del Prode Rózsa (12): a smembrare il corpo del protagonista sono i Giganti, sicché viene spontaneo pensare ad una contaminatio del tema sciamanico col mito di Dioniso-Zagreus dilaniato dai Titani; tanto più che, come nel mito greco è una divinità femminile a salvare il cuore del fanciullo divino e a consentirne la rinascita, così anche nella fiaba in esame è una figura di donna, la fanciulla-serpente, a restituire la vita all’eroe. Vi è poi, nella medesima fiaba, un altro elemento che può indurre a ipotizzare un’influenza estranea all’ambito sciamanico: la fanciulla che si spoglia della pelle di serpente. Se un’eco del mito vedico dell’Aurora (Rigv. X, 85, 28-30) può essere legittimamente rintracciata nella fiaba francese di Peau d’Ane, a maggior ragione sarà possibile scorgere una tale risonanza nella fiaba magiara, poiché il Rigveda parla espressamente di Ushas come di una fanciulla “senza piedi” (apâd, tipico attributo del serpente), che “depone il suo fosco ornamento” (apa krishnâm nirnijam dêvyâvah) e assume aspetto umano.
Un’altra favola, quella del Principe Mirkó (13), ci illustra a sufficienza la tipologia del cavallo sciamano, sicché potremmo ricondurre al prototipo sciamanico anche i “cavalli magici” presenti nella fiaba romena di Crâncu, il cacciatore del bosco e riformulare a nostra volta un interrogativo che già Eliade, per altre ragioni, si era posto: “Sciamanismo” presso i Romeni? (14) Siccome il cavallo volante sembra essere una figura poco frequente nel folclore romeno (15), non è da escludersi che esso debba venir aggiunto all’elenco di quegli specifici elementi sciamanistici che, pur trovandosi attestati anche tra i Romeni, si ricollegano nella loro origine al patrimonio tradizionale degli Ungheresi, i quali introdussero lo sciamanesimo anche in Transilvania.
Per le fiabe sassoni, infine, può valere quello che Wilhelm Grimm sosteneva nel 1822 a proposito della favolistica tedesca in generale, ossia che in essa si sono rifugiati i temi e le figure della religione e dell’epica nordica. In altre parole, Sigfrido si è trasformato nel cacciatore che mangia il cuore di un uccello prodigioso e comprende la lingua degli animali; Brunilde è diventata la bella addormentata nel bosco, risvegliata dal bacio di un principe che altri non è se non Sigfrido; Gudrun si è dissimulata sotto i panni di Cenerentola.
Nella favolistica sassone della Transilvania, è significativa la presenza del Forte Hans (16), che attesta una metamorfosi analoga a quelle menzionate più sopra. Infatti il personaggio del forte Giovanni, con le sue “gesta esagerate d’un garzone di contadino smisuratamente forte e le situazioni assurde da esse provocate” (17), è stata ricondotta da Károly Kerényi alla figura mitica del “fanciullo divino”, sicché il forte Giovanni sarebbe solo il riflesso fiabesco di fanciulli prodigiosi quali i greci Apollo, Hermes, Zeus, Dioniso, l’indiano Nârâyana, il finnico Kullervo, il vogulo Mir-susne-hum. D’altronde lo starke Hans trova una puntuale rispondenza in altri personaggi fiabeschi che gli sono curiosamente omonimi, come il Batyr Ivan dei racconti ciuvassi o, per restare in Transilvania, l’erös János o erös Jancsi della favolistica ungherese.
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Come abbiamo detto, le tradizioni popolari della Transilvania hanno custodito la memoria di diversi personaggi storici e leggendari, ponendone in risalto le caratteristiche meno contingenti e più archetipiche.
Il primo di tali personaggi è il biblico Nemrod, tradizionalmente considerato il comune capostipite degli Unni e degli Ungari e identificato col Menroth dell’antico sciamanesimo ugrico, dio della foresta e patrono della selvaggina. Secondo quanto si legge nel Chronicon Hungaricum di Simone de Kéza, che riecheggia la leggenda del Cervo prodigioso, “Menroth gigans duos filios Hunor scilicet et Mogor ex Eneth sua coniuge generavit, ex quibus Huni sive Hungari sunt exorti” (18). Huni sive Hungari: il “fidelis clericus” di un re come Ladislao IV il Cumano (1262-1290), che volentieri si sarebbe alleato coi khan delle steppe per combattere contro l’Occidente cristiano, non avrebbe potuto affermare con maggior convinzione l’identità degli Ungari e degli Unni. Logico, dunque, che l’onomastica biblica venisse adattata alle esigenze della tradizione magiara e che Magog figlio di Jafet, indicato da alcuni come progenitore degli Ungari, venisse sostituito da Mogor figlio di Menroth; e Mogor diventò facilmente Magyar, come appunto nella leggenda del Cervo prodigioso (19).
Qualche cronista medioevale, seguendo di padre in figlio la discendenza del fratello di Magyar, è arrivato a Bendeguz e a suo figlio Attila, protagonista, quest’ultimo, della leggenda della Spada di Dio (20): il ritrovamento della spada divina costituisce un auspicio di vittoria e di sovranità universale, che però pone un serio problema, in quanto contrasta con la sconfitta storica del “Flagello di Dio” ai Campi Catalauni e con l’improvvisa ritirata degli Unni dall’Italia. La “spada di Dio” fu dunque l’esca di un inganno celeste? Tale è la convinzione di Georges Dumézil: “la scoperta del gladius Martis, la spada sacra, – egli scrive – si rivela in fin dei conti come una trappola che, dando ad Attila un sovrappiù di assicurazione, l’ha condotto gradualmente a due grandi disfatte, seguite poco dopo da una morte ingloriosa” (21). D’altronde l’espansione unna, cominciata nel XII secolo a. C. con la traversata del Gobi e proseguita nel secolo IX con l’irruzione nella Cina, doveva necessariamente terminare con il graduale assorbimento del popolo nomade da parte del mondo sedentario e quindi con la scomparsa degli Unni dalla scena storica. La civiltà dello spazio doveva essere “divorata” dalla civiltà del tempo.
Guidati da Csaba, il più giovane dei figli di Attila, gli Unni scomparvero dall’orizzonte europeo. Ma restò sui Carpazi una frazione del popolo unno, i Székely, i quali nutrirono a lungo l’attesa del futuro ritorno di Csaba. Quest’ultimo rappresentò dunque per i Székely non solo una figura di re taumaturgo (ancor oggi è noto agli Ungheresi l’”impiastro di Csaba” a base di Pimpinella Germanica saxifraga), ma soprattutto l’archetipo del sovrano o dell’eroe che si è occultato e dovrà prima o poi rimanifestarsi: come Artù, come Carlo Magno, come Barbarossa, come Federico II. Come Stefano il Grande, voivoda di Moldavia (22).
Con la figura di Arpád e con la Leggenda del Cavallo bianco (23) arriviamo a quella che per gli Ungheresi è la già citata “occupazione della patria” (honfoglalás). Più che non le rispondenze con il fatto storico dell’896, ci pare interessante osservare come la leggenda abbia custodito il ricordo di quello che per lo sciamanesimo magiaro era il rito sacrificale più importante: l’immolazione di un cavallo bianco.
Con i Corvini siamo in pieno Quattrocento, ben lontano dalle scene nebbiose dei primordi barbarici. Tuttavia l’atmosfera leggendaria non è assente né nella biografia di Giovanni Corvino (1387-1457), voivoda di Transilvania e reggente del trono ungherese, né in quella di suo figlio Mattia, re d’Ungheria dal 1458 al 1490. La leggenda di Giovanni Corvino e il corvo (24), scrive Vasile Lovinescu, espone un “mito alchemico evidente, del quale ogni lettore un po’ avvertito decifrerà facilmente i simboli” (25). Interessi alchemici, d’altronde, sono stati attribuiti allo stesso Mattia Corvino, il quale, stando a un manoscritto italiano seicentesco, “faceva oro perfettissimo” (26) trasmutando i metalli mediante l’arte di Ermete.
Ma la fama leggendaria dello stesso Mattia Corvino impallidisce al confronto di quella di cui gode, nell’immaginario collettivo odierno, Vlad Tepes (l’Impalatore), alias Dracula, che fu principe di Valacchia dal 1456 al 1462.
È vero che Dracula trascorse una parte della sua vita in Transilvania: nacque nella città sassone di Schässburg (Segesvár per gli Ungheresi, Sighisoara per i Romeni), risiedette diversi anni a Hermannstadt (ungh. Nagyszeben, rom. Sibiu) e impalò molti dei suoi nemici sulle colline di Kronstadt (ungh. Brassó, rom. Brasov). Ma a legare in maniera indissolubile e definitiva il nome di Dracula alla Transilvania fu Bram Stoker, che fece di questa regione la patria dei vampiri.
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Mircea Tamas ritiene che l’immagine tenebrosa e sinistra della Transilvania costituisca il risultato di una contraffazione diffamatoria, operata da scrittori vicini all’occultismo e al teosofismo o comunque permeati di influenze neospiritualiste. Alle personalità citate da Tamas, che sottopone l’opera di questi autori ad un attento esame ermeneutico, se ne potrebbero aggiungere altre, ben più inquietanti di Verne e dello stesso Stoker.
Per esempio l’attore Béla Blasko, alias Béla Lugosi, il quale, dopo aver passato la vita a interpretare il personaggio del vampiro Dracula nel teatro e nel cinema e a svolgere attività antifasciste nella vita politica americana, morì “pronunciando le parole che suggellano la sua intera esistenza: ‘Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale’” (27).
O il germanista e mitologo Furio Jesi, il quale presenta i vampiri come il “popolo eletto” (28) che, al grido di “Dracula lo vuole!”, dalla Transilvania e dalla Bucovina dilaga su tutta la terra, instaurandovi il suo regnum. Il racconto di Jesi costituisce un esemplare documento letterario di quella “spiritualità a rovescio” che contrassegna la fenomenologia della guénoniana “controiniziazione”: la storia che Jesi racconta nell’Ultima notte, facendo proprio il punto di vista dei vampiri, è infatti una vera e propria parodia della spiritualità, una contraffazione grottesca che si spinge fino a sfigurare l’immagine stessa del divino e manifesta la consapevolezza e l’intenzionalità dell’autore. Tra i passi più eloquenti a tale proposito possiamo citare quello dell’udienza concessa dal buon Dio agli ambasciatori dei vampiri: a parte la parodia caricaturale del Paradiso, abbiamo qui la scena di un’investitura divina dei vampiri, i quali diventano… i luogotenenti di Dio sulla terra!
Se queste sono contraffazioni ispirate dallo spirito di menzogna, che cosa fu in realtà la Transilvania? Sviluppando e approfondendo la lezione di Vasile Lovinescu, che indicò nel territorio dacico una stazione “cruciale” della migrazione iperborea, Mircea Tamas ritrova nella Transilvania i segni della presenza di un centro spirituale, una sorta di proiezione secondaria del regno di Agarttha.
Note
1. G. Gromo, Compendio di tutto il regno posseduto dal Re Giovanni Transilvano e di tutte le cose notabili di esso regno, in Apulum, Alba Iulia 1945, p. 30.
2. A. Possevino, Transilvania, II, 1, in Le relazioni tra l’Italia e la Transilvania nel secolo XVI, Roma 1931, p. 80.
3. L. Petzoldt, Postfazione a Fiabe ungheresi, Milano 1996, p. 194.
4. A.K. Coomaraswamy, La sposa laida, in Il grande brivido, Milano 1987, p. 315.
5. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis Khan, Roma 1975, p. 7.
6. Geticus (pseud. di Vasile Lovinescu), La Dacia iperborea, Parma 1984, p. 75.
7. R. Guénon, Le Saint Graal, “Le Voile d’Isis”, n. 170, 1934, p. 48.
8. Ci si consenta di rinviare il lettore alle nostre raccolte di fiabe transilvane (romene, ungheresi e sassoni): Miti, fiabe e leggende della Transilvania, Newton & Compton, Roma 1996 e Storie e leggende della Transilvania, Oscar Mondadori, Milano 1997.
9. Per il simbolismo dell’eroe nel canestro, cfr. Michel Vâlsan, Il cofano di Eraclio, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1985.
10. Per quanto concerne il simbolismo custodito dalla favolistica ungherese, ci sia consentito di citare anche un nostro studio: L’asino e le reliquie, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986.
11. A. Steiner, Sciamanesimo e folclore. Elementi sciamanici nelle favole ungheresi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1980, p. 29.
12. C. Mutti, Storie e leggende della Transilvania, cit., pp. 89-92.
13. C. Mutti, Storie e leggende della Transilvania, cit., pp. 148-165.
14. M. Eliade, “Sciamanismo” presso i Romeni?, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Roma 1975, pp. 169-179.
15. Nella rassegna degli animali fantastici del folclore romeno fatta da Constantin Prut in Fantasticul în arta populara româneasca (Il fantastico nell’arte popolare romena), Bucarest 1972, pp. 22-35, il cavallo volante è del tutto assente. Tre rappresentazioni di cavalli alati (due icone transilvane e un rilievo sulla chiesa di Coltea) sono invece riprodotte nell’appendice iconografica della stessa pubblicazione.
16. C. Mutti, Storie e leggende della Transilvania, cit., 219-225.
17. C.G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1972, pp. 56-57.
18. Simo de Kéza, Chronicon Hungaricum, 1.
19. C. Mutti, Miti, fiabe e leggende della Transilvania, cit., p. 17.
20. C. Mutti, Miti, fiabe e leggende della Transilvania, pp. 18-19.
21. G. Dumézil, Storie degli Sciti, Rizzoli, Milano 1980, pp. 80-81.
22. V. Lovinescu, Rex absconditus, Aragno, Torino 1999.
23. C. Mutti, Miti, fiabe e leggende della Transilvania, cit., pp. 24-25.
24. C. Mutti, Miti, fiabe e leggende della Transilvania, cit., p. 47.
25. Geticus, La Dacia iperborea, cit., p. 63.
26. L. Karl, Notice sur une recette alchimique de l’or attribuée au Roi Mathias Corvin, “Archeion”, 11, 1929, pp. 206-209.
27. Edgardo Franzosini, Béla Lugosi, Adelphi, Milano 1998, p. 120.
28. F. Jesi, L’ultima notte, Marietti, Genova 1987. È lo stesso Furio Jesi, nel saggio L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo, Morcelliana, Brescia 1993, a identificare i vampiri con gli ebrei. Nella sua Postfazione a questo saggio di Jesi, David Bidussa scrive: “Ebrei e vampiri risultano nel testo de L’accusa del sangue reciprocamente omologabili (…) la raffigurazione vampirica si accosta, per alcuni tratti tutt’altro che secondari, a quella dell’ebreo” (ibidem, pp. 116-117).
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