L’aristocratico Julius Evola nutrì fin da giovane idee politiche reazionarie; partecipe della grande guerra, ammirava tuttavia gli imperi centrali di Austria e Germania. Leggendo le sue opere, mi pare si possano individuare quattro tipologie di uomini, quanto – esclusivamente – al loro modo di comportarsi (prescindendo dal considerare i modi in cui, tali tipi d’uomini, potrebbero pensarla): un uomo forte, che è colui che tratta il mondo come una rappresentazione, e gli uomini deboli, tripartiti in ciechi egoisti, uomini che hanno un’etica (nel senso occidentale-moderno del termine), guerrieri; questi ultimi potrebbero anche venire definiti come uomini d’onore, a patto di non considerare l’onore come un disinteressato pathos. Evola (come egli stesso sostiene nei suoi scritti), apparterrebbe a quest’ultima categoria umana. A voler rintracciare tali modi di comportarsi (o quantomeno l’ideologia ad essi connessa), all’interno della storia occidentale, è soprattutto l’età feudale (più, a mio parere, del precedente mondo romano), ad essere legata all’etica guerriera. Il collante delle società feudali è la pratica della fedeltà (l’esser degni di fiducia); chi tradisce i patti perde l’onore. Onore e fedeltà sono dunque i valori del guerriero (da intendersi anche in senso lato; un imprenditore senza la smodata avidità, lo faccio rientrare in tale categoria. L’etica guerriera implica, ad esempio, che non si commettano crimini di guerra). In occidente l’etica, così come al giorno d’oggi i più ne hanno concezione, si afferma in età moderna, e l’etica moderna ha carattere esplicitamente utilitarista. Vi è infine il cieco egoismo, non avente carattere etico o morale che dir si voglia (al di là del piano ideologico, fino ad oggi tale umanità ha prevalso nelle società).
Ora, stando alla prospettiva evoliana, l’etica in genere ha una matrice esclusivamente egoistica. L’infondato ottimismo del cieco egoista, lo induce a non attuare un’etica. Chi invece ha una più adeguata visione dell’effettuale, sarà portato ad avere una morale. Il guerriero è a metà tra l’individualista e l’uomo etico; meno oculato di quest’ultimo, non è disonorevole al pari dell’individualista. Ora, le tre tipologie umane si equivalgono quanto a valore (per il loro comune, identico, egoismo): l’oculatezza dell’etica moderna, che è intelligenza etica, manca in parte al guerriero, e del tutto all’egoista. Se si differenziano effettivamente per intelligenza, l’intelligenza non è poi così nobile, in quanto trae esclusivamente origine dall’egoismo. Fra l’altro, non è detto che le due restanti categorie umane siano più stupide – sul piano ora teoretico – della terza; un cieco egoista può soddisfare un suo bisogno ricorrendo ad un uso brillante della sua intelligenza.
Evola sostiene tuttavia che il comportamento umano sia per lo più soggetto alla contingenza (l’agire dell’uomo forte vi aderisce sempre). Ora, in base alla logica di un avveduto egoismo, in quanto l’uomo vi soggiacerebbe costantemente, potrebbe, ad esempio, verificarsi ciò: pensando che non trovando lavoro, un domani patirò certamente la fame, sono costretto ad andare in cerca di un lavoro (per quel che riguarda il cieco egoista, in base alla suddetta logica, se è consapevole che qualcosa di negativo gli capiterà sicuramente in futuro, agirà necessariamente in modo tale da evitare che quel qualcosa si verifichi; laddove invece l’accadere di un fatto negativo è solo probabile, non agirà in modo da evitarlo, poiché ottimista). In base al contingentismo evoliano, l’uomo agisce invece dissennatamente (anche quando ciò non sembra): ad esempio, fuma, sa che il fumo potrebbe provocargli un tumore ai polmoni, ma non gliene importa. L’uomo in generale diviene (più o meno) avveduto, solo e soltanto quando prova dolore, o quando si trova di fronte ad un pericolo lesivo o mortale incombente; oppure (è il caso dell’uomo etico e del guerriero), quando si manifesta in lui una pulsione aggressiva che potrebbe dar luogo ad un atto infame.
Per quel che invece riguarda più il piano mentale che quello comportamentale, Evola (nella fattispecie l’Evola filosofo), individua quattro tipi di concezioni del mondo: empirismo, umanismo, mentalità moderna, mentalità post-moderna (o oltre-umana). L’Evola filosofo è convinto che l’uomo, in ogni parte del mondo e in ogni tempo, abbia una mentalità filosofica, totalizzante. Se accettiamo tale presupposto, e se accettiamo il presupposto della massima impotenza dell’uomo originario (perlomeno rispetto ad un’etica umanistica, e anche moderna, non solo pensate, ma anche attuate, e rispetto alla massima potenza dell’oltre-uomo), possiamo (perlomeno in parte) condividere il susseguirsi delle epoche della sua Fenomenologia dell’individuo assoluto. La metafisica empirista non potrà che presentare tali caratteri: riterrà che al mondo non si diano regole. Inoltre, tale concezione non sarebbe del tutto filosofica, se non determinasse il carattere della totalità degli enti; tale carattere sarebbe rappresentativo. Tuttavia gli empiristi originari, cadrebbero in contraddizione nel considerare la rappresentazione come un fatto. Gli umanisti che seguono, concepirebbero il mondo come sregolato (appartengono alla prima delle tre epoche della fenomenologia evoliana), ma fattuale. I moderni sarebbero dei soggettivisti, degli idealisti, che credono in un mondo regolato (in ciò illudendosi, per l’Evola filosofo). Poi, i moderni, si disilluderebbero (anche circa la loro felicità), tornando ad essere degli empiristi (ma con delle marce in più: hanno sviluppato una scienza post-moderna probabilistica, e hanno sviluppato un’etica – ugualmente fondata sulla probabilità – che, perlomeno in una certa misura, gli consente di tenere il mondo sotto controllo). Ora, non so se tale ultimo transito (dalla modernità all’empirismo), sia logicamente necessario. Sono certo che l’umanismo debba necessariamente seguire la modernità (mi limito a tale accenno), e non il contrario (come Evola sostiene).
Sono convinto che tale tragitto (ammesso che sia indiscutibile), non sarebbe più obbligato (per giungere ad essere oltre-umano) se, invece di venire riferito all’uomo moderno etico, venisse riferito all’individualista, al guerriero, o all’uomo forte. Con ciò voglio asserire che Evola, nelle sue opere filosofiche (perlomeno in quelle principali – la Teoria e la Fenomenologia dell’individuo assoluto), ha voluto parlare, in particolare, dell’uomo dall’etica moderna. È pur vero che la sua filosofia – se si prescinde dall’attenzione che rivolge, dunque, in qualche modo, privilegiandolo, al tipo umano anzidetto – vale per ogni tipologia umana (in quanto è una filosofia che afferma l’intero esistente), nel senso che le giustifica tutte. Le sue opere filosofiche non sono poi politiche; tuttavia, oltre ad essere epistemologiche, sono anche etiche. Ma, leggendole, si possono trarre delle considerazioni di carattere politico. Capitalismo, socialismo, regimi di carattere conservatore e di carattere reazionario, non contrastano con i principi delle suddette opere. È proprio per questo che Imperialismo pagano (il primo scritto politico di Evola), come afferma il suo autore, sarebbe legato (perlomeno, dunque, in una certa misura) alle sue opere filosofiche. Ma l’Evola filosofo – ipotizzo – credo abbia voluto soprattutto calarsi nello stesso terreno degli idealisti (dalla mentalità illuministica – come afferma lo stesso Evola), indicando loro (attraverso delle critiche) il tragitto che avrebbero dovuto seguire per realizzare effettivamente le loro aspirazioni. Per questo le opere filosofiche evoliane (perlomeno le principali), sono soprattutto post-moderniste, nel senso di post-illuministiche.
Quando Evola elaborerà il concetto di Tradizione, non farà altro che considerare la condizione più originaria dell’uomo come non più impotente. In più, abbandonerà del tutto la filosofia (nella fattispecie, dunque, quella nichilistica). Non sarà più convinto che l’uomo non possa prescindere dall’elaborare un’ontologia, una metafisica, o una filosofia che dir si voglia (tale convinzione – mettiamo che sia fondata – si accorderebbe anche con l’esistenza di quei filosofi che sospendono il giudizio su problemi di natura filosofica; il loro conato è pur sempre rivolto alla totalità).
Certamente, non solo l’occidente ha sviluppato concezioni filosofiche; ma in occidente – più che in ogni altra parte del mondo – si è data molta importanza alla filosofia, lungo la sua intera storia. L’Evola filosofo, che ha di mira in particolare la storia del pensiero occidentale, pare aver trovato dei riscontri, relativamente alla sua concezione fenomenologica. La filosofia occidentale sorge in effetti con il pensiero presocratico: credo abbia ragione nel considerarlo come (per lo più) empiristico. I milesi, ad esempio, considerano quale archè (quale principio metafisico), il nulla, la rappresentazione (che è una materia prima priva di forma): l’acqua di Talete, l’àpeiron (l’infinito) di Anassimandro, l’aria di Anassimene, sono simboli (ad esser precisi l’infinito non lo è), indicativi della materia prima (l’infinità di quest’ultima la rende qualcosa di rappresentativo) cosmica. Non è un caso che tali simboli appartengano anche ad alchimia ed ermetismo. Solo, che presso tali presocratici, simboleggiano una tragica concezione del mondo. Fra l’altro, anche la tradizione ermetico-alchemica ha carattere filosofico (è nichilismo). Ermetisti e alchimisti credono nell’esistenza di un nichilismo originario non magico, ma in realtà tale momento iniziale (la Tradizione), ha carattere agnostico (riprenderemo più avanti – approfondendolo – tale discorso). Dalle esperienze della via secca e della via umida (ed estatica), alchimisti ed ermetisti hanno tratto troppo precipitosamente il nichilismo. È forse per via di una mentalità con pregiudizi filosofici che – in via secca – si è indotti a credere nell’inesistenza delle cose; in filosofia il valore coincide con l’essere. Oltretutto, anche ammesso che non si diano fatti, non è detto che non si diano delle idealità (che danno forma all’esperienza), o anche una cosa in sé (Dio?). L’estasi – tecnicamente – non ci avverte (intuitivamente) del tutto dell’infinità delle cose (ma solo di alcune di esse), ovvero della loro inesistenza, e – anche in tal caso – resta il problema (anzidetto) legato alla forma e alla cosa in sé. L’esperienza estatica induce forse a farsi una concezione metafisica delle cose; in via secca si giunge analogamente al nichilismo, anche sulla base di probabili pregiudizi filosofici (per quel che riguarda l’inesistenza dei fatti). Possiamo considerare la mitologia come qualcosa di (almeno parzialmente) filosofico. Sulla base della suddetta esperienza estatica, si sarebbero formati dei miti (cosmogonie ecc.). Ora, non solo alchimia ed ermetismo, ma anche alcune mitologie, avrebbero carattere magico. Se infatti esiste una Tradizione originaria e la possibilità del suo adombramento – possibilità attuatasi precocemente sul piano storico – allora la magia esisterebbe sin dai tempi preistorici (già caratterizzati da espressioni culturali).
Tornando alla storia del pensiero occidentale, il suo svolgimento pare invece contraddire quanto Evola ha sostenuto circa le relazioni tra modernità e umanismo; Socrate è forse pensatore utilitarista (moderno): Platone, e poi Aristotele, sarebbero dei realisti (il geocentrismo propugnato da entrambi, sarebbe un forte argomento a favore di tale ipotesi). Con Aristotele siamo praticamente già in età ellenistica (la si fa convenzionalmente iniziare con la morte di Alessandro Magno); Platone la anticiperebbe. La lunga età ellenistica ha espresso una cultura prevalentemente umanista (l’ellenismo continuerà forse ad esercitare influenze sull’intero medioevo; ad esempio, il concetto feudale di onore è forse un umanistico sentimento). Dopo il medioevo (e il seguente umanesimo), si assisterebbe (a mio parere) a un graduale processo di rimodernizzazione della cultura.
L’Evola filosofo ha torto quando sostiene che la modernità è filosofica, e – nella fattispecie – idealistica (perlomeno in parte – si pensi a Kant): Aristotele, ad esempio, con le sue induzioni non dedotte relativamente all’esistenza delle categorie, lo smentirebbe. Evola ha tuttavia, a mio parere, il grande merito di aver individuato ogni possibile nozione culturale; la filosofia – e, forse, anche le religioni – non possono che esprimere tali concetti (i quali, mescolandosi, danno luogo alle diversificazioni culturali – ad esempio, tra le religioni; per il resto, queste ultime, si diversificano sulla mera base delle – più o meno – differenti denominazioni e raffigurazioni).
L’elaborazione della nozione di Tradizione implica anche un passaggio dall’ateismo (nichilismo), all’agnosticismo. Si aspira alla chiarificazione sulla totalità degli enti (in essa – sulla base di una certa prospettiva filosofica – vi si può far rientrare anche Dio), non solo per motivi esclusivamente pragmatici (anche nel caso del soggettivismo), ma anche per motivi di orientamento esistenziale. Ma l’inquietudine esistenziale è un mentire a se stessi (anche il mago – probabilmente – è mosso da tale stato emotivo). Chi incarna la Tradizione, sa intuitivamente di essere libero (non è vincolato a nessuna norma etica), ed è noncurante della natura della totalità (non si interroga su di essa, per poter così seguire un orientamento). Non si pone, dunque, neanche dei (quindi non del tutto) pragmatici interrogativi di carattere epistemologico. Chi, storicamente, ha manifestato tale indole, è, ad esempio, il popolo germanico. Ancora ai tempi di Cesare, i germani mantengono inalterata – o quasi – tale loro purezza; non praticano riti (o vi si dedicano assai poco), praticamente non hanno senso religioso (hanno miti elementari), non hanno re (uno Stato, quale – magari inefficace – generatore di equilibrio sociale, perlomeno tra le aristocrazie). La povertà civile-culturale è segno di una società composta da uomini forti.
Il mondo romano è, a mio parere, particolare espressione della modernità. I romani delle origini hanno dei monarchi (uno Stato). Hanno sviluppato una concezione epistemologica: i loro dei, originariamente, sono – più propriamente – dei numi, ovvero delle forze naturali: la regolarità della natura è il presupposto della costante efficacia del rito (magico, e per nulla religioso, anche se – ovviamente – inefficace: la magia è una scienza superstiziosa). Hanno dunque una concezione metafisica, perlomeno parziale (tali numi hanno o non hanno un’esistenza in sé?). Il mondo romano, con il trascorrere del tempo, dopo aver ricevuto delle influenze greco-etrusche, e poi greco-classiche, tenderà sempre più ad ellenizzarsi.
Se dunque la concezione dell’Evola filosofo è nichilista e oltre-umana, la nozione di Tradizione modificherebbe in tal senso l’illuminismo cui le sue opere sarebbero interessate. Se la nozione di oltre-uomo (attinta da Nietzsche) perde di senso, non lo perde forse quella di post-modernità (la quale, riferita alla filosofia occidentale di età moderna, prenderebbe il nome, più specifico, di post-illuminismo. Bisogna tuttavia svolgere tre considerazioni; se l’Evola filosofo crede che la filosofia abbia condizionato la nascita della scienza moderna – ciò non sarebbe del tutto esatto; è piuttosto la più indeterminata logica greca – da cui deriva fra l’altro la matematica dimostrativa – e quest’ultima, ad averne condizionato la nascita – la filosofia è giustificatrice della scienza. Il termine post-illuminismo – rispetto all’espressione post-idealismo – essendo forse meno metafisicamente caratterizzato, è più congeniale ad esprimere un post-modernismo occidentale legato al concetto di Tradizione. Infine, quanto a tale concezione, si potrebbe parlare di post-illuminismo, se non altro per il fatto che un’etica flessibile – ne parleremo – congiunta ad una scienza, la si ha – storicamente per la prima volta – in età illuministica). Si tratterebbe di tornare (acquisito un abito etico e una scienza), alla purezza degli originari mondi della Tradizione (Tradizione che si è, dunque, conservata più a lungo inalterata – o quasi – presso alcuni popoli indoeuropei). L’uomo debole post-moderno, di fronte ad una situazione problematica, utilizzerà una scienza di tipo probabilistico, ma non perché abbia sviluppato una epistemologia contingentista, bensì poiché non sa nulla circa la natura del mondo (che potrebbe essere regolare). E, anche nell’anzidetta circostanza, non è indotto a svilupparla; quanto potrebbe remotamente verificarsi, non inquieta (in fondo) nessuno.
Prima di proseguire, vorrei stabilire tale importante distinzione concettuale: l’Evola filosofo distingue tra nichilismo e religione; il primo si lega alla contingenza, la seconda alla necessità (aggiungerei, dialettica, causale, praticamente causale). Escluso il nichilismo contingentista, ogni altra filosofia (forse) non sfugge alla necessità; ed è – proprio per questo – religiosa. Anche, dunque, il pensiero moderno. E così, ad esempio, Schopenhauer ritiene che l’ascesi possa essere raggiunta unicamente sulla base della conoscenza del dolore (possibile solo e soltanto sulla base del più complesso sistema nervoso in natura, quello umano). Non prende coscienza del dolore chi, nell’effimero piacere, si illude (sempre smentito dal ritorno del dolore), che durerà.
L’Evola filosofo è già tradizionalista (nel senso ora più comprensibile del termine), pur non avendo ancora sviluppato la nozione di Tradizione. La mentalità moderna è scientifica, ovvero amorale – nel senso di non religiosa (sulla base di ciò che si è detto a proposito della religione); o, perlomeno, assai tendente all’amoralità (una piena amoralità – mentale e comportamentale – potrebbe caratterizzare unicamente l’uomo forte). Anche il dare valore solo a se stessi (sia pure non in ogni circostanza) è – in un certo senso – morale. Ora, la scientificità non può che essere dissacrante. Prendiamo l’uomo moderno-etico occidentale: il più autentico spirito illuminista, non può che essere elasticamente, flessibilmente, pragmatico (o utilitarista, che dir si voglia); e così, ad esempio, Hegel non è autenticamente illuminista: il dispotismo illuminato da egli sostenuto, è a metà tra tradizione e modernità: la morale ad esso legata è esplicitamente utilitarista, ma coincidente con le tradizionali morali umaniste (sulla base, forse, di forzature argomentative). Quando ci si accorge che l’etica ha base prettamente egoistica, la (maggiore) religiosità della morale umanista tradizionale non può che tendere a venir meno. Il sentimento, che è alla base di quest’ultima, essendo frutto di un ragionamento affrettato, tende a dar luogo ad una morale – per intenderci – conservatrice. Se invece, a mente più lucida, prendo atto che la morale è il mio egoismo a generarla, ragionando più cautamente circa ciò che mi è, o non mi è, di danno, non posso che giungere ad eliminare alcuni aspetti conservatori del tradizionale umanismo: viene così a darsi un’etica più permissiva rispetto a quest’ultima (ciò che l’umanista giudica – forse in modo ipocrita – essere reale, non lo è per il più puro illuminista). Ecco quale tipo di società tradizionale (nel senso della suddetta seconda accezione del termine), è propugnata da Evola (tale veduta politica è espressa nella Rivolta contro il mondo moderno; ciò che viene sostenuto in Imperialismo pagano, non vi coinciderebbe del tutto). Una tale società ha una morale diversificata: alla sua base vige la morale più propriamente umanista (la morale, ad esempio, cattolica); salendo di livello gerarchico, la morale muta; e così, ad esempio, la morale delle aristocrazie guerriere, viene a fondarsi sui concetti di onore e fedeltà. Per quel che riguarda l’Evola uomo, credo si sarebbe pienamente ritrovato nell’etica Zen (propria delle aristocrazie guerriere nipponiche); la sua peculiarità (leggendo ciò che Evola dice di essa), credo stia infatti nel non avere alcun carattere sentimentale. Ora, secondo Evola, riferire, ad esempio, ad una persona religiosa (avente una morale conservatrice), della superstiziosità (in parte probabile) delle sue vedute, la turberebbe. Non potrebbe farsi ragione, ad esempio, dell’inesistenza dell’amorevole disinteresse; potrebbe poi, ad esempio, credere nella divina provvidenza – concezione che verrebbe quantomeno messa in discussione (credere in quest’ultima è una probabile illusione; ci si illude di ciò poiché – erroneamente – riteniamo che tale esistenza ci sia utile, se non indispensabile, e non solo a noi, ma anche agli altri, a cui teniamo amorevolmente. Ragionando a mente lucida, ci accorgeremmo che l’unica cosa che ci serve è il probabilismo). Evola distingue tra forti e deboli – ma ora forza sta per lucidità (ciò, sono sicuro emerga anche nella sua Fenomenologia – ma, come ora dirò meglio, contraddice i presupposti dell’opera). Ad essere forte è unicamente colui che (praticamente) prende il mondo per una rappresentazione; i restanti uomini sono tutti deboli allo stesso modo; ovvero, tutti, allo stesso modo, tengono alla propria pelle. Tutti costoro (magari in seguito a ripetute esperienze negative), tendono a concepire un’etica. Possono poi non obbedirvi, o obbedirvi in parte (per via dunque di una scarsa oculatezza). Differenze psichiche di forza, non si danno. Tutti, in fondo, intuiscono la propria libertà (e ciò rende sereni): chi è religioso lo è, non perché non riesce a sopportare la sapienza Tradizionale, ma perché tende a fingere. Le stesse patologie psichiche meno gravi, sono frutto di finzione. La visione lucida circa la propria libertà, è immediata, spontanea (non si lega al saper ben ragionare). Insomma, anche chi, ad esempio, si illude, lo fa per una pura tendenza alla finzione (mi illudo della causalità – so, in fondo, che non mi è indispensabile credervi, eppure faccio finta che mi sia indispensabile).
Ora, quando si tratta di operare sulla base di una situazione problematica che si sta vivendo, si tratta di pensare a come superarla: qui ci si può fare una concezione inadeguata della situazione effettiva. Scoppia una sommossa di servi della gleba: la colpa è del signorotto che servono, non del loro buon re (il quale non è a conoscenza della loro miseria). Invece di scioperare, digiuno: la mia salute sta a cuore del mio datore di lavoro. Mi faccio un’idea non effettiva di qualcuno; faccio delle previsioni improbabili (ciò non contrasta con la coscienza della Tradizione). Ora, dalle concezioni evoliane (dalla sua filosofia post-illuminista tale conseguenza è coscientemente esplicita), segue necessariamente l’applicazione del probabilismo: sul piano delle azioni umane, abbiamo inoltre la certezza della loro contingenza (tali azioni possono anche, in alcuni casi, essere necessarie). Inoltre – sempre stando ai presupposti delle sue concezioni – per Evola, dal dolore, non può che seguire l’azione (non la preghiera, che è praticamente un non agire – la probabilità che esista un Dio il quale, ascoltando le nostre preghiere – per così dire – giunga in nostro soccorso, è pari alla probabilità che un miracolo si verifichi) – magari un disperato suicidio. Ora, la necessità dell’azione e lo scientifico tener conto delle più probabili previsioni, sul piano politico, non possono che dar luogo ad una prassi democratizzante (in alcuni casi, potrebbero anche dar luogo ad una rivoluzione). La pura dialettica propugnata da Marx (pensatore comunque geniale), deforma, altera, l’effettuale; le vedute evoliane hanno maggiore serietà.
Il tradizionalismo evoliano, si fonda sulla giusta idea che capitalismo e socialismo (che possono, fra l’altro, mescolarsi, dando luogo a forme di governo più o meno social-democratiche), tendano entrambi allo sfaldamento culturale, reputando – però inadeguatamente – tale sfaldamento in modo negativo. Che un globale (o internazionale), unico, elastico pragmatismo (sarebbe meglio chiamarlo operazionismo – non caratterizzerò quest’ultimo), vada soppiantando, ad esempio, i differenti culti religiosi – ovvero la religione stessa – non è, a mio parere, qualcosa di cui avere timore. Inoltre, ad esempio, i tecnocratici Stati Uniti, finanziano le espressioni culturali classiche o tradizionali (umaniste), e tollerano le religioni (persino nei paesi ex-sovietici – perlomeno entro certi limiti – esse venivano tollerate). Ma c’è di più; nelle società attuali è assai diffusa le credenza nei sentimenti. Non mi pare che, nelle società attuali, tali tendenze vengano combattute da un fanatico laicismo. Ora, è proprio dell’Individuo Assoluto evoliano, tollerare – anzi affermare, in certo qual modo, appropriarsene – ogni modo d’essere umano (mentale e, in alcuni casi, persino comportamentale) – giustificando (non dunque criticando) l’esistente. Resta il fatto che, le società capitalistiche (appartengono agli individualisti), sono, al contempo, eccessivamente, spregiudicatamente, permissive, tanto da provocare dei danni sociali. Uno stato che si allinea ai principi dell’etica moderna – sì flessibile – non darebbe luogo agli anzidetti eccessi (ma solo ad atteggiamenti utili, e ad atteggiamenti non nocivi).
Il tradizionalismo politico evoliano, in opere come Gli uomini e le rovine, o nell’opuscolo Orientamenti (di contenuto analogo a quello dell’anzidetta opera), viene così chiarito: Evola è interclassista, e crede (idealizzandole) che le società tradizionali abbiano realizzato la libera, pacifica (non conflittuale), cooperazione tra le classi. Che tali situazioni possano venire a darsi, non è impossibile: l’atteggiamento etico in generale è qualcosa che l’esperienza non smentisce (tale atteggiamento, inoltre, si accorda con la sua totale derivazione empirica – non dovendo essere per forza frutto di un’inesistente Soggetto etico trascendentale). Evola – credo – aspiri ad un ricostituirsi delle società tradizionali, innanzitutto su basi educative: l’educazione deve formare uomini che abbiano il senso dell’onore, oppure persone non ipocritamente (per quanto ciò gli sia possibile) religiose. Ma ciò, quanto meno, richiederebbe un lungo processo, ed eventuali, imminenti, situazioni problematiche, non potrebbero che spingere immediatamente all’azione (conflittuale). Inoltre Evola – che umanamente detesta il tradimento – dovrebbe pur riconoscere che ad avere un’indole perfida, non è certo l’uomo etico, il quale non solo non può averla, ma – addirittura – sottopone se stesso ad un numero maggiore di vincoli rispetto al tipo del guerriero (essendo infatti, rispetto a quest’ultimo, di indole pacifista e non-violenta). Chi non rispetta gli accordi è il cieco egoista – che in un ipotetico sistema massimamente liberista e libertario, sarebbe del tutto a piede libero. Infine, lungo l’intera storia dell’umanità, e fino ai nostri giorni, l’individualista ha prevalso numericamente (o, perlomeno, non è stato, nella maggioranza dei casi, adeguatamente contrastato). Onore e fedeltà quali collanti sociali, si sono sempre dimostrati inefficaci, avendo sempre dato luogo a realtà politiche di effimera durata (in società conservatrici, o anche reazionarie, sono tutt’al’più esistiti solo pochi uomini onorevoli).
aryano81
Ho la sensazione che più se ne parla di Evola e peggio è , visto che ad occuparsene sono sempre i cosiddetti accademici che Lui il Barone, tanto disprezzava perchè residui di una cultura borghese e quindi degenerata .Ogni riferimento è casuale…..
Daudeferd
Il grandissimo, immenso, Julius Evola, seppe levare un peana apollineo, volto all’Iperuranio, nell’epoca in cui si cercava di rinascere tra le ceneri all’ascolto del ditirambo dionisiaco della Scuola tedesca. Mai ingegno fu tanto acuto, mai lezione fu così tanto necessaria. L’Esistenzialismo, che ci dà forma nel Chaos primigenio, che ci determina e ci lancia nel Wyrd, necessita l’autodeterminazione, l’autoaffermazione dell’Idealismo ….. assoluto, allorquando l’Aryo spirto porta a suo compimento la sua stessa essenza, nell’akmé della sua verticalità. Il buon Nietzsche ed il buon Wagner risvegliarono in noi Europei questa essenza (l’Esistenzialismo, il Dionisismo), ma fu Julius Evola a porsi come grande guida dello spirito (l’Idealismo, l’Apollineo).
Questo fu Julius Evola, non quanto viene trito e ritrito, molto spesso e a vanvera.
Daudeferd