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La nave delle donne maledette

2022, http://www.endasravenna.it/wp/pagine-di-cinema/cinema-proibito-donne-a-bordo-cupi-presagi-verismo-e-voyeurismo/

A rediscovered Italian movie (1953), which is both a WIP (Women In Prison) example, and an unexpected feminist burst. A couple of times after, the story (from a French novel of Léon Gozlan), has come to the screen again, always as Italian production, with the story changed to a different sensitivity about women in modern society. With "classic" topics about women's attitudes, as Hollywood and the movie industries dictate.

Cinema proibito: donne a bordo, cupi presagi, verismo e voyeurismo A proposito del film: La nave delle donne maledette (regia di Raffaello Matarazzo, 1953; dal romanzo Histoire de cent trente femmes, Léon Gozlan, 1881). 1 Il genere WIP (Women In Prison), da tempo si è ritagliato uno spazio nella storia del cinema, con l’intento – apparente – di narrare storie di vita ordinaria, più o meno contemporanee o autenticamente storiche, con un tocco di pseudo-psicologia del femminile, ma soprattutto per cogliere l’opportunità di mostrare un mucchio di belle ragazze che, condannate, subiscono ogni genere di tortura e affronto, ed eventualmente si vendicano in maniera raccapricciante dei loro aguzzini. In un tripudio di grida, seni nudi, sguardi fiammeggianti e pose plastiche. Una scusa per esporre gradevoli nudità, aggiungere qualche corpo a corpo femminile, passando attraverso più o meno leggere perversioni di salvataggio di belle nei guai, abbondantemente e fantasiosamente torturate, di giuste punizioni per le cattive – magari anche per i cattivi - di dolore per le sfortunate (cioè prive di un uomo che le difenda come suo possesso in sostanza), nello spazio alienante e senza via di fuga per le belle condannate di una prigione. Immagine da uno dei film della serie Female Prisoner Scorpion. WIP, un genere cinematografico che nasce per caso Oggi preso in considerazione a tutti gli effetti, tecnicamente parlando, dai cinefili, il Women In Prison lo si potrebbe definire un sottogenere del voyeurismo più semplice e ingenuo, paludato spesso di lecite istanze sociali: giustizia negata, diritti femminili negati, e via dicendo. Istanze che saranno sempre più conclamate quando il genere raggiungerà la massima diffusione, negli anni ’60 e ’70 del XX secolo, consolidando tutta la serie ormai fissata degli stilemi caratteristici: l’innocente condannata ingiustamente, la spia, la vigliacca, la coraggiosa sacrificata, il tipo di donna tosta che si fa rispettare anche tra le sbarre, la direttrice sistematicamente sadica. I pochi uomini ammessi approfittano senza freno dell’opportunità, dai secondini che violentano, torturano, uccidono, alle figure “buone” di medici e religiosi, che tuttavia cadono facilmente in tentazione davanti a tanto ben di Dio a portata di mano, e di cui nessuno chiederà conto. Col tempo si aggiungeranno le scazzottate nel fango, il pozzo coi topi, e altre amenità per la gioia di un pubblico affezionato. Tradizionalmente il primo film WIP è L’uomo che voglio (Hold Your Man, Sam Wood, 1933), pellicola uscita prima del codice di censura Hays, che vede una Jane Harlow interpretare una bella finita in prigione al posto dell’uomo che ha aiutato, interpretato da un sempre indomabile Clark Gable; ma non vi compaiono le perversità successivamente tipiche del genere. Nello stesso anno esce Recluse (Ladies They Talk About, Howard Bretherton e William Keighley, 1933), con Barbara Stanwick nel ruolo della protagonista in una trasposizione cinematografica di una storia reale. La vicenda fu quella di due attori degli anni ’20 che vennero alle mani per gelosia. Uno temendo che l’altro gli insidiasse la moglie, una quotata sceneggiatrice. Morto in un incidente poco chiaro il marito, l’altro venne condannato, uscendo però di prigione dopo un paio d’anni. La stessa protagonista della storia, Dorothy Mackaye, finì subito dopo in galera per la comparsa di 2 lettere compromettenti tra lei e l’amico, presunto assassino del marito. Uscita dopo 10 mesi pure lei, e sposatisi i due, la sceneggiatrice sarebbe tornata a lavorare, e con l’esperienza carceraria avrebbe scritto un lavoro teatrale dal titolo Women in Prison, il quale avrebbe avuto un buon successo. La storia sarebbe finita al cinema, proprio nella pellicola interpretata dalla Stanwyck, qui nel ruolo di una spregiudicata rapinatrice, la quale usa le proprie grazie per avere accesso alle banche, e aprire la via ai complici. Scoperta e arrestata in tempo di elezioni, si trova contro l’opinione pubblica montata da un predicatore in cerca di condanne esemplari. Senonché, il religioso è un suo ex amante, il quale non cambierà atteggiamento neppure per un istante, e continuerà ad additarla al pubblico disprezzo. In prigione la donna si rivelerà una dura, e le compagne costituiranno il campionario tipo del genere: la timida, la buona, l’innocente vessata, e così via. Una volta liberata, la protagonista avrà per un momento l’idea di uccidere il suo ipocrita ex, ora protetto dalla tonaca, ma desisterà. In questo film il carcere apparirà piuttosto come un dignitoso orfanotrofio, con le belle sempre fresche di parrucchiera, e i grembiuli indossati con una certa civetteria. Bisogna arrivare agli anni ’50 del XX secolo perché il genere torni a galla con qualche durezza in più. L’esempio tipo che apre la via alla diffusione del filone è La rivolta delle recluse (Women’s Prison, Lewis Seiler, 1955), dove i cliché vengono fuori tutti. L’innocente maltrattata e impazzita, col dottore innamorato di lei, la direttrice crudele (Ida Lupino), che si sfogherà a maltrattare una detenuta il cui compagno è a sua volta in prigione. L’uomo troverà il modo di piombare nel carcere femminile (sic), e cercar di uccidere la direttrice per vendicare la compagna, durante una rivolta delle detenute vessate dai soprusi. Tutto finirà bene, con la direttrice riconosciuta pazza e dirottata verso una clinica psichiatrica, per la tranquillità d’animo di tutti quelli che hanno fiducia nelle istituzioni. Tra le altre pellicole del genere, si può citare un esempio che crea un sottogenere a sua volta: Le donne della palude (Swamp Women, Roger Corman, 1956, immagini qui sopra), dove una tranquilla giovane coppia va a vedere il carnevale di New Orleans, e approfitta della gita per andare a un’escursione in barca nelle famose paludi del Mississippi. Mal ne incoglie loro. Dal carcere femminile locale sono evase tre detenute pronte a tutto che prendono in ostaggio la coppia. Fresche di parrucchiera e sarta ad ogni scena, con liti feroci e scazzottate nel fango, sempre in punta di forchetta, si cimentano tra loro per conquistare l’uomo della coppia (sic). Coccodrilli, serpenti, short attillatissimi e vertiginosi per la gioia delle zanzare che per una volta però non si mostrano, camicette sempre stirate e fresche di bucato, fanno da contorno all’eroe suo malgrado della vicenda, il quale riuscirà – non si capisce come essendo sempre legato – ad allertare e far arrivare i soccorsi. Nonostante la trama esile, la storia sarà oggetto di rifacimento con Sharkansas Women’s Prison Massacre (Jim Wynorski, 2015), con l’aggiunta al bestiario di squali di terra nientemeno. Gli orrori del liceo femminile (titolo internazionale: The House That Screamed; titolo originale: La residencia, Narciso Ibáñez Serrador, 1969), è un’ulteriore variante tra il piccante e il genere horror, in cui si distingue una Lilly Palmer come durissima direttrice di un collegio femminile per ragazze che hanno avuto problemi con la legge, la quale distribuisce castighi terribili, mantiene una 3 disciplina degradante e assoluta, ma le cui regole vengono aggirate dalle ragazze, con compiaciuta lascivia. Infatti queste si permettono di nascosto, con la scusa di aiutare in cucina e nelle stalle, amplessi programmati con garzoni di passaggio, mentre tutte provano simpatia per il povero figlio della direttrice stessa. Il ragazzo, isolato isolato accuratamente dalla madre, dalle poco di buono del collegio, in realtà le aiuta come può; solo che ogni tanto qualcuna scompare. Si pensa a fughe, ma l’impressione non è delle migliori, perché qualcuna delle scomparse non aveva manifestato l’intenzione di fuggire. In un crescendo angosciante di torture e misteri, alla fine si scoprirà che il ragazzo, emulo di Norman Bates, ha aiutato le ragazze in fuga, ma lo ha fatto per ucciderle in tutta tranquillità, e costruire con i pezzi “migliori” di ciascuna, una donna perfetta in soffitta, che possa piacere alla madre. In Italia il genere avrà una perla con, come protagonista Laura Gemser, la famosa Emanuelle, la quale, con lo stesso regista che l’ha lanciata, Palambrogio Molteni (sotto lo pseudonimo di Vincent Dawn), la mantiene come protagonista in Violenza in un carcere femminile (1983). Questa volta l’attrice interpreta una giornalista che si fa arrestare per scoprire cosa accada veramente in un certo carcere femminile. Per cui vi è una successione, senza troppo senso letterario, di scene di violenza gratuita scollegate. Dalla direttrice che prende a manganellate le lesbiche per divertirsi, alla nostra Emanuelle (il nome resta), condannata ad essere divorata dai topi; dalle secondine che si danno da fare con giochetti perversi sulle detenute frustrate, al medico che aiuta la stessa Emanuelle, anche lui nello stesso carcere (sic). L’evoluzione della perversione L’apice del genere è raggiunto tuttavia dai sei episodi giapponesi noti sotto vari nomi, ma raccolti in generale come La donna scorpione, e che sono, con i titoli internazionali: Female Prisoner 701: Scorpion (Shunya Itō, 1972); Female Convict Scorpion: Jail House 41 (Shunya Itō, 1972); Female Convict Scorpion: Beast Stable (Shunya Itō, 1973); Female Prisoner Scorpion 701: Grudge Song (Yasuharu Hasebe); Evil Dead Trap. New Female Prisoner Scorpion # 701 (Yutaka Kohira, 1976); New Female Prisoner Scorpion #701: Special Cellblock X (Yutaka Kohira, 1976). I primi quattro episodi, tratti da un romanzo a fumetti per adulti, vennero interpretati dalla bravissima Meiko Kaji. Nel Primo episodio, la ragazza, infiltrata nel mondo della droga per conto del fidanzato poliziotto, scoperta, stuprata, finirà in galera poiché lui in realtà l’ha usata per accedere alla mafia e crearsi una carriera di potere. In carcere, la ragazza saprà di essere condannata a morire per non diventare mai una prova contro di lui. Dopo infiniti stupri e torture per lei e le altre del carcere speciale in cui è 4 rinchiusa, riesce a fuggire e darà un appuntamento a lui, dove si presenterà armata, bellissima, mortifera, algida – ma solo all’apparenza - freddandolo. Il secondo episodio vede la nostra Matsushima, ormai Sasori per tutti (Scorpione), arrestata per l’omicidio, finire in un carcere anche peggiore del primo, in cui la violenza praticata è folle e delirante. La ragazza riuscirà a far fuori qualche guardia cattiva, a guidare una fuga che sconfina nel cliché delle galeotte della palude. Dapprima stuprate da turisti di passaggio, le fuggiasche si faranno giustizia sugli stessi rubando l’autobus, lottando fra loro per futili rivalità (si tratta di donne, e il cinema non permette troppi lampi di genio), finché la protagonista, condannata a morte nel timore che possa parlare (con chi in quell’ambiente?!), anche questa volta riuscirà a defilarsi, compiendo prima una strage, e massacrando il capo delle guardie colpevole di ogni nefandezza nel carcere. Nel terzo episodio vediamo Matsushima/Sasori accompagnata da un agente, a cui è legata con le manette, al successivo carcere. Riesce a strattonarlo mentre salgono su un treno e le porte si bloccano, tanto che l’uomo, rimasto incastrato tra le portiere chiuse, viene dilaniato dal veicolo in corsa e lei va in giro con le manette a cui è ancora attaccato il braccio dell’agente. Di nuovo le toccheranno peripezie crudeli per liberarsi di manette e macabra appendice, e avrà l’aiuto di un barbone mentalmente limitato, ma anche qui le cose precipiteranno per approfittare di nuovo della bella Sasori, ed esibirla in torture e violenze. Nel quarto episodio, Matsushima tradita, arrestata e condannata a morte dopo intermezzi di violenza e stupro a non finire, riesce all’ultimo a scambiare il posto con l’agente che l’ha tradita e vessata, dopo averlo tramortito, così da farlo impiccare al suo posto. Negli ultimi due episodi l’attrice protagonista declinò la possibilità di far parte di un cliché effettivamente un po’ eccessivo, e venne sostituita nel quinto da un’altra, altrettanto brava, Yōko Natsuki. Il personaggio, sorella della protagonista, infermiera, assiste per caso all’omicidio di un politico che stava per rivelare elementi di corruzione del governo. Va da sé che è lei a finire in galera per la scoperta, subendo le stesse violenze della sorella in precedenza. La trama è simile anche nell’ultimo episodio, interpretato da Yumi Takigawa, in cui la donna finisce in galera per un omicidio che non ha commesso, in un carcere in cui succede di tutto; ovviamente, perversamente. 5 Immagini dalla serie La donna scorpione, tra vessazioni e giuste vendette, sempre, rigorosamente affascinante. L’eccezionalità italiana. La nave delle donne maledette Regia di Raffaello Matarazzo, 1953, dal romanzo Histoire de cent trente femmes, Léon Gozlan, 1881. Musiche di Nino Rota; produzione di Alfredo De Laurentiis, sceneggiatura di Raffaello Matarazzo, Ennio De Concini, Aldo De Benedetti. In una situazione iniziale tipica del romanzo d’appendice, vediamo il nobile spagnolo Pietro Silveris (Gualtiero Tumiati), in un sontuoso salotto, concordare col segretario la lista degli invitati per il prossimo matrimonio della figlia Isabella (Tania Weber). Contemporaneamente, l’intrigante Anita, la governante (Olga Solbelli), insieme alla splendida e frivola Isabella Silveris, è alle prese con le sarte per preparare l’abito da sposa, per il quale impiegano come manichino la cuginetta Consuelo Silveris (May Britt), un’orfana cresciuta presso la famiglia. La comparsa dell’attempato promesso sposo, con un gioiello in regalo, crea un leggero scompiglio, ma Isabella non se ne cura. Il matrimonio le va bene per salvare il patrimonio del padre; inoltre, la ragazza, appare di carattere piuttosto disinibito, al contrario della timida cugina. Alla festa per l’annuncio del matrimonio, Isabella si presenta smagliante e amena con tutti. Consuelo, che indossa un suo vecchio abito più dimesso, la ammira in silenzio. Compare tuttavia uno sconosciuto che non si lascia fermare da nessuno, e chiede alla sposa di condividere un brindisi con acqua. Le dirà poi che si tratta dell’acqua del pozzo del convento vicino, e Isabella sviene. Ben presto l’uomo, che rivela essere un ufficiale di polizia (Giorgio Capecchi), davanti ai familiari riuniti in privato, dirà che è venuto ad arrestare Isabella per infanticidio, poiché qualcuno l’ha vista gettare un neonato proprio in quel pozzo. Anita accusa il vecchio Silveris di non essere mai stato 6 presente, e tra un’ipotesi disastrosa e l’altra, mette in piedi un piano: costringerà Consuelo ad autoaccusarsi al posto della cugina, promettendole che nulla le accadrà. I Silveris, dal potere, all’incidente causato da una figlia “promettente”. La ragazza, per la riconoscenza che deve alla famiglia, sarà costretta ad accettare. Pietro Silveris si incarica di trovare un avvocato a buon mercato, che si limiti a invocare clemenza, e trova Paolo Da Silva (Ettore Manni), che disgustato dalla corruzione della giustizia, sopravvive giocando d’azzardo. Il giovane avvocato accetta, ma durante il processo, in cui non viene risparmiata alcuna 7 forma di denigrazione alla povera Consuelo, silenziosa, in gramaglie, Da Silva comprende che la ragazza è vittima di una macchinazione. Ne è definitivamente convinto al momento in cui la ragazza viene condannata a dieci anni di lavori forzati alle colonie, per il pianto e le sue ormai inutili proteste d’innocenza. Da Silva, costernato per essere stato usato in un’ingiustizia simile, non accetta neppure il pagamento del vecchio Silveris. L’avvocato e la vittima. La fantasiosa ricchezza di intrighi e problemi della trama, tipica dei film di Matarazzo, è al suo meglio. Il regista aveva al proprio attivo numerosi film dal successo clamoroso di pubblico, ma sistematicamente stroncati dalla critica, la quale non aveva voluto vedere l’aderenza alla realtà di 8 tanti drammoni solo apparentemente incredibili1. Ma credibili erano per le classi sociali che andavano al cinema come unico divertimento, e che venivano da un’Italia inguaribilmente medievaleggiante, ancor più strapazzata dall’analfabetismo e da due guerre disastrose recenti. Una nazione in buona parte con un senso del sé e del lecito decisamente ingabbiato in pregiudizi morbosi che la politica postbellica non voleva ammettere e neppure accettare come ancora presenti. Infatti il film, oggi recuperato alla meglio, con solo pallidi cenni del colore originale (fu il primo film a colori del regista, sembra), venne vietato a suo tempo, e ridotto da tagli pesanti della censura, con l’aggiunta della scena del processo finale in cui lo zio confessa tutto, e l’avvocato è finalmente libero di difendere Consuelo; scena che nelle copie straniere non compare 2. Inoltre, la versione italiana fu tutta in bianco e nero. Il film ci presenta, subito dopo l’esito del processo, le condannate tutte vestite di tela grezza – ma scollate ad arte - condotte su una carretta tra la folla, con quelle che scambiano gli ultimi disperati saluti con chi si lasciano forzatamente alle spalle, o insulti con la folla che le dileggia, composta tra l’altro soprattutto di poveracci, che da un momento all’altro potrebbero fare la stessa fine. Consuelo, coi segni del pianto sul viso, intravvede tra la gente Da Silva, la cui pietà sincera al processo l’ha toccata, così come lui si è letteralmente innamorato di lei. Lei gli grida disperata di salvarla, lui glielo promette a tutti i costi. Le condannate finiranno senza troppe cerimonie nella stiva della Esperanza, in una squallida prigione già approntata. Il veliero è comandato dal capitano Fernandez (Luigi Tosi), terribile e opportunista; ma sulla stessa nave viaggerà anche Isabella col marito Manuel De Haviland (Romolo Costa), diretti alle piantagioni di lui in America. Il capitano dopo il rincrescimento per il carico spregevole che deve trasportare, non esita a fare il galante con la bella ospite a bordo, la quale non disdegna le avance dell’uomo, e chiede anche di poter vedere le galeotte, per sincerarsi che davvero Raffaello Matarazzo (1909 – 1966), ha legato il proprio nome a una serie di film drammatici, dalle storie intricate e piene di crudeltà ambientate in un mondo di ricchi e potenti, animati da un costante disprezzo aggressivo nei confronti delle classi lavoratrici di cui si servono, salvo l’improvvido innamoramento di qualche potente, per qualche Cenerentola. Furono film che gli decretarono un plateale successo di pubblico. La coppia protagonista di ogni storia, normalmente appunto composta da due elementi provenienti ciascuno da uno di questi mondi che non si parlano per partito preso, finiscono per attraversare vite disperate e senza speranza, bersagliate da ogni ostacolo posibile, messo in moto dai potenti. Si trattò di film come Catene (1949), Tormento (1950), I figli di nessuno (1950), solo per citarne alcuni tra i più famosi, interpretati con gran successo di pubblico soprattutto dalla coppia Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Trame in cui di solito il personaggio femminile veniva penalizzato a causa di terribili equivoci, e soffriva pesantemente fino alla fine della storia, dove, talvolta tardivamente, si arrivava a comprendere la sua innocenza e moralità. Il regista fu sempre oggetto di critiche taglienti per queste vicende, considerate di pura fantasia, mentre egli riconosceva la volontà, da parte dello spettatore comune, che di disgrazie ne attraversava tante da generazioni, di vedere come, attraverso le avversità, si poteva comunque, con l’onestà e la mitezza, arrivare a una conclusione accettabile dei fatti, se non felice. (Cfr. L’ITALIA DEL CINEMA Il Blog di Domenico Palattella, Le coppie storiche del cinema italiano, 13 febbraio 2022). 2 Cfr. Cine Lapsus, Marco Romagna, La nave delle donne maledette, 20 novembre 2016, in rete. 1 9 Consuelo sia tra loro. Il marito poi, le farà promettere, per decenza, di non dire nulla a nessuno di quella disgraziata parente scomoda, caduta tanto in basso. Dall’alto a sinistra, la cantante Flo Sandon’s che impersona una delle prigioniere, le condannate, Isabella con il comandante, e con la cugina Consuelo. Quindi le condannate ci vengono presentate mentre una di loro canta Malasierra (Flo Sandon’s), e le altre alternano liti, confessioni, dispetti, e solo la più aggressiva, Rosario (Kerima), è mossa a pietà per la povera Consuelo febbricitante. La carrellata di presentazione delle tipologie ormai note delle carcerate, come piccolo universo sempre uguale, non differisce da quella che dà l’avvio ad altri film WIP. Da questo punto in poi, alle scene di quanto si trama nella parte alta della nave, si alternano quelle che mostrano il campionario tipico del genere, con le bravate e le esternazioni disperate di chi non ha più nulla da perdere; con quelle che si arrendono e crollano, quelle che 10 lanciano espressioni velenose nei confronti del mondo intero. Ma non si può fare a meno di notare le scollature, decisamente non castigate, e le figure ben sagomate sotto le vesti, che non lasciano nulla all’immaginazione, opera di sartoria ben lungi dalle tuniche delle condannate storiche, per non parlare delle fluenti chiome messe in evidenza da acconciature finto-discinte. Sulla stessa nave si è nascosto Da Silva come clandestino, ma verrà individuato dal cambusiere, Michele McLawrence (Eduardo Ciannelli), in realtà un prete che ha gettato la tonaca alle ortiche, Padre Alfonso, a suo tempo maestro proprio di Da Silva. Padre Alfonso sembra quasi un abate Faria in trasferta, poiché aiuterà di buon grado l’avvocato per cercar di vedere Consuelo, caduta malata e rinchiusa da sola in un pertugio che funge da infermeria, dove la cugina stessa cercherà di farle visita. Quando le donne chiederanno un trattamento più umano a seguito di un tafferuglio tra loro, il capitano le farà inondare di secchiate d’acqua fredda, e intanto, intuita la vera natura di Isabella, farà in modo di poter approfittare di lei, che non si sottrae. Due giocatori con un mazzo di menzogne che sanno buttare sul tavolo giocandole ad arte. Alla situazione pietosa nella stiva, si è aggiunta la febbre di Consuelo, che ignorata e derisa, è stata invece aiutata da Rosario, accusata a sua volta di essere solo una ladra. E sì, ammetterà lei, alzandosi in piedi in tutta la sua statura umana, ha rubato. E lo ha fatto per mantenere i propri figli. Personaggio non presente con questo nome e queste caratteristiche nel romanzo originale, la donna rappresenta uno degli elementi cardine dei film di Matarazzo, ovvero la sedotta e abbandonata che ha sbagliato per il sacro amore dei figli. Ma le accuse continuano a rimbalzare in quella grande cella buia e sordida, insieme a parole di disperazione, e a cazzotti. Perciò quando il primo ufficiale avvertirà il capitano, questi ordinerà il barbaro metodo delle secchiate d’acqua sule donne, la cui salute è già al limite. Quando poi i marinai, consci della crudeltà della loro azione – in fondo, sono poveracci anche loro che da un momento all’altro potrebbero precipitare nell’abisso per un nonnulla – chiederanno di potersi fermare, il comandante impietoso ordinerà perentoriamente di continuare, e gli uomini, a malincuore, lo faranno. Cessata in qualche modo la tortura, Consuelo, sfinita e febbricitante, viene ricoverata in un lettuccio di fortuna in uno sgabuzzino, ed è lì che padre Alfonso accompagna Paolo passando attraverso i meandri dei ponti inferiori, ma i due saranno all’ultimo costretti a fermarsi: Isabella è già arrivata presso Consuelo, e le chiede di continuare a tacere, così quando arriveranno in America, la farà liberare dal potente marito, per la salvezza di entrambe. Da Silva non regge la scena e interviene furente, facendosi scoprire, così che verrà trascinato davanti al capitano insieme a Isabella. Fernandez capisce in fretta la verità della faccenda, e ne approfitta per ricattare Isabella. Ella, in cambio dei suoi favori, chiede che Da Silva venga frustato come malvivente, e dopo una notte trascorsa col comandante, chiederà lo stesso trattamento per Consuelo. A quel punto però, la verità è nota a tutti. Le donne si ribellano, e riescono ad agguantare il carceriere attraverso le grate. Con le chiavi aprono i cancelli, e salgono sul ponte per ribellarsi, nonostante i primi spari dei soldati, incuranti delle perdite. Che altro avrebbero da perdere comunque al punto a cui sono arrivate? Le prigioniere sobillano i marinai che devono sparare loro addosso già a malincuore, e riescono a farli passare dalla loro parte promettendosi a loro. La lascivia dell’opportunista Isabella e del crudele comandante ora si rispecchiano in quella delle prigioniere, che tuttavia sanno bene quanto sia effimera la gioia nella vita. Il loro offrirsi ai marinai, non 11 cancella la coscienza della disperazione con cui lo fanno, e neppure quella con cui gli uomini accettano. Per loro è ammutinamento, ovvero sicura condanna a morte. Nel furore delle colluttazioni passano sguardi incandescenti che portano a lunghi baci proibiti quanto appassionati, a mani bramose, a seni offerti come voto alla vittoria. Le riprese indugiano su pelli eburnee, labbra rosse, sulle generose carezze ai marinai che si sono arresi al momento, consci che il loro destino non è diverso da quello delle prigioniere ribelli in cerca di un’umanità più giusta. E’ un abbandono che vale una vita intera. “Venite con noi!”, “Gettate le armi!”. Come resistere alla fierezza esibita come di statue classiche, seminude, di chi si butta davanti ai fucili eroicamente inerme piuttosto che continuare a vivere nella disperazione. “Questo è un delitto!” mormorano i marinai, ed esitano. Le altre, come sirene, continuano: “La nave è nostra! Abbiamo rum e cognac! Venite con noi!”. La nave ora è in balia di qualcosa di più potente di un incantesimo. Mentre Da Silva trae in salvo Consuelo, carezze, baci, vesti che scivolano ad arte su figure sempre più riecheggianti marmi classici portano la nave verso un vero nuovo mondo. Danze, le immancabili danze di tutti i film d’avventura storici di qua e di là dall’oceano, sono qui un capolavoro di erotismo. Baci roventi, baci saffici appassionati, risa sguaiate, accompagnano altre inquadrature degne di tele rubensiane o botticelliane. Degne dell’art nouveau, appena dietro l’angolo di qualche anno, costellata di fanciulle altrettanto discinte perfettamente amalgamante nella natura sognata, creature dalle movenze eleganti nel paesaggio immaginato, che sorreggono lampade o occhieggiano da tabacchiere, da scatole di cioccolatini. Nel turbine di passioni sfrenate non può mancare la vendetta. Isabella, rea tra l’altro di non aver soccorso il marito malato durante l’ammutinamento, viene malmenata, trascinata nella stiva dove languivano le prigioniere. Consuelo viene spronata a frustrarla, ma la fanciulla, inorridita, rifiuta. Ha già visto troppo male, e Isabella vi è precipitata dentro al pari di lei. Lei non infierirà su nessuno, e piangendo implora tutte di abbandonare la violenza. L’avvocato la porta via, la sorregge, mentre il resto delle donne e dei marinai saccheggia la cambusa. Il capitano, a sua volta trascinato alla 12 prigione, terrorizzato non esita invece a frustare Isabella. E’ lei, nella sua ottica egoista, la causa di tutto, ed ella riesce a dire prima di crollare, che ha pagato la complicità di lui col proprio corpo. Ma qualcuna delle donne lo pugnalerà per la cieca crudeltà che ancora lo muove, senza lasciarsi ingannare dal suo finto sdegno. Se Consuelo e Da Silva cercheranno inutilmente di salvare Isabella morente, il resto dei fantasmi deliranti che ora popola la nave, continua a bere e a darsi a danze sguaiate. Per un momento tutti, consci dell’abisso in cui sono precipitate le loro vite, vogliono affondare nel piacere immediato, proibito, ma ora a portata di mano. Gesti erotici di ubriachi ormai senza più alcun ritegno, si dilettano di gratificanti danze lascive, come solo le sanno interpretare uomini di colore. C’è solo la voglia di impazzire e dimenticare tutto. Da Silva e Consuelo, soli e ignorati, si dichiarano il loro casto amore lasciandosi andare – ma ben in posa come in un quadro - a un bacio e a un abbraccio romantici. Tuttavia la giustizia divina è in agguato. Il cambusiere e l’avvocato si rendono conto dell’arrivo di una tempesta. Cercheranno inutilmente di convincere gli uomini a riprendere il governo della nave, ma nessuno ormai si preoccupa più di vivere o morire. Il cambusiere/padre Alfonso, convince Paolo e Consuelo a mettere in mare l’unica scialuppa per fuggire. Rosario a sua volta li aiuta: “Salvatevi! Voi non siete come noi!”. Nel disastro generale, qualcosa ha preso fuoco nella santabarbara. Padre Alfonso scende nella stiva e invita tutti a pregare, così che tutti gli si fanno attorno ubbidienti e commossi; tutti si inginocchiano come rapiti, come i cristiani nel circo, fino all’inevitabile esplosione. Nella versione italiana della pellicola, castigata anche dal bianco e nero, è stata aggiunta una scena finale: Da Silva, a un nuovo processo in cui il vecchio Silveris, affranto, ha raccontato tutta la verità, riporterà quanto accaduto a 13 bordo, e scagionerà Consuelo, con l’inevitabile abbraccio romantico alla fine, quando la corte la assolve. Dall’alto a sinistra, l’incontro fra Da Silva e Padre Alfonso; la reazione pietosaa di Consuelo alle disgrazie della cugina, Paolo e Consuelo terrorizzati davanti alla situazione di violenza che si è creata a bordo. Romanzo d’appendice e critica Il film è molto diverso dal romanzo originale, che pone la vicenda, in maniera più cruda, su una nave inglese, dove sono i marinai i primi ad ammutinarsi, contando di spartirsi, oltre alle provviste di bordo, anche le donne, le condannate destinate alle colonie australiane. Infine, dopo che gli ammutinati si sono scontrati col comandante, la moglie infedele di lui e qualche ufficiale, tutti decisi a morire piuttosto che scendere a patti con la plebaglia dei rivoltosi, la nave alla deriva ne incrocerà un’altra da guerra che la affonderà. Gli ammutinati impiccati, le donne portate comunque alle colonie, e la fanciulla innocente (di cui non si vengono mai a sapere i precedenti, né il motivo dell’arresto), e l’avvocato clandestino innamorato di lei, saranno graziati alle colonie per non aver commesso reati, e vivranno laggiù felicemente. E’ interessante nella versione cinematografica di Matarazzo il puntare sulla leggerezza autodistruttiva delle donne, mettendo l’equipaggio in secondo piano, e con il “giusto” destino finale della morte che arriva dal cielo tramite l’uragano. Un messaggio negativo che ricorda come vanno sempre le cose alle spettatrici in primo luogo3. 3 La fine di tutti quelli che sono a bordo della nave, può apparire anche come una forma pietosa di conclusione a cui tutti arrivano ebbri ed ignari, e quindi senza dolore in sostanza. Questo perché il destino di condannate e di ammutinati sarebbe comunque il medesimo e senza appello se anche si affidassero alla giustizia o alla pietà umana. Cfr. Cine Lapsus, Marco Romagna, La nave delle donne maledette, 20 novembre 2016, in rete. Da notare le promesse allettanti per gli spettatori, con le scritte che costellavano i manifesti americani e inglesi del film: “Avventura ed esaltazione che ricorderete a lungo”, “La furia di 100 donne affamate d’amore”, “Imprigionate per i peccati del passato… La loro fuga per la libertà coronata da un’orgia di libidine e vendetta!”, “Furia scatenata e vendetta!”, “Una storia tanto provocante, 14 Resta da vedere tuttavia, la carica di analisi sociale che il regista volle vedere in questa storia, la quale, già in forma di romanzo era stata considerata prudentemente un’opera minore di un autore pure famosissimo e letto in Francia. Questa sua opera però, è sempre stata di difficile reperimento, quasi che, sia la censura che l’editoria, abbiano provato un’attitudine incerta nei suoi confronti, un senso di fastidio. La cosa appare evidente, pur con le fondamentali modifiche alla storia, anche nella versione cinematografica. Interessante la scelta di alcune attrici protagoniste della vicenda, a partire dalla cantante Flo Sandon’s, all’epoca già celebre sia in Italia che all’estero, la quale, con la voce capace di toni profondi e sentiti, canta una ballata malinconica, quasi fosse uno spiritual, impersonando una prigioniera tra le altre, per introdurre lo spettatore alla condizione disperata delle condannate a bordo della nave. Ricorda in questo i canti degli schiavi. Il potente personaggio di Rosario, (Karima), è presente nel romanzo con un’altra storia e un altro nome, Proserpina, anche più violenta e disinibita del personaggio del film (Nel film, Rosario ha ucciso per trovare cibo per i propri figli, nel romanzo, Proserpina ha ucciso per arrivare a un uomo di cui è innamorata). L’attrice, giunta alla carriera cinematografica per caso, aveva interpretato un paio di anni prima il potente personaggio di Aissa in L’avventuriero della Malesia (An Outcast of the Islands, Carol Reed, 1951, tratto dall’omonimo romanzo di Joseph Conrad del 1896), ottenendo immediatamente un successo mondiale come elemento esotico, dalla recitazione più che convincente4. Avrebbe interpretato pochi altri film, e sarebbe stata una modella ricercata. In ogni caso fu capace di impersonare donne dal potente fascino orientale, se non per nascita (come la Rosario di questo film), soprattutto per quella Aissa, figlia di pirati e pirata ella stessa, per la cui intensità è ancora ricordata. Nello stesso anno di La nave delle donne maledette, uscì anche Jolanda la figlia del Corsaro Nero (Mario Soldati, 1953, dall’omonimo romanzo di Emilio Salgari, 1905)5, che ebbe come protagonista May Britt, una casuale scoperta di Carlo Ponti e Mario Soldati in Svezia, alla ricerca di un’attrice dall’aspetto nordico e sufficientemente brillante per interpretare la giovane pirata del film salgariano. In questo si muove abbastanza a proprio agio, capacità che sembra spegnersi ne La nave delle donne maledette, dove appare come una mielosa santerellina votata al martirio fin da prima dell’inizio delle sue traversie. In ogni caso, è probabile che la fama delle due come personaggi già noti abbia influito nella loro scelta, perché, con interpretazioni discutibili o meno, lasciano tutte un segno nella memoria dello spettatore, a testimonianza che il soggetto e l’abbinamento con i volti già noti, contribuirono certo a creare il successo che, pur ostacolato e sotterraneo, ha accompagnato questo film inusuale, sia per il regista che per la cinematografia non solo italiana. che si credeva impossibile da filmare!”, “Lo schermo esplode violentemente con le emozioni inarrestabili di desideri soppressi!”. 4 Cfr. Spinelli, Orientwood, pp. 538-44. 5 Cfr. Corinne D’Angelo in Eroi di carta sul grande schermo, Macerata, Edizioni Simple, 2011. Tra l’altro, la nave usata per il film di Salgari, fu la stessa impiegata per La nave delle donne maledette. 15 Numerose sono le analisi a cui il film ha dato origine; molte pesantemente contro l’opera, soprattutto ai tempi in cui uscì, mentre oggi sono molto più inclini a cogliervi un certo femminismo, e la capacità di suscitare riflessioni. Le donne condannate dalla società, costrette a prendere qualunque opportunità per sopravvivere, anche le soluzioni che le fanno precipitare sempre più in basso senza speranza, sono una caratteristica del cinema di Matarazzo. Nella serie che ormai si può definire cult, con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, è già evidente. Sono sempre le donne che pagano per prime, in questo genere di film – ma un poco in tutto il cinema in generale - anche se non hanno colpe6. Il biasimo, anche nella realtà, di chi sta su gradini sociali più alti, e che può esprimersi con forza moraleggiante per le classi inferiori prive di ogni forma di cultura, è più che sufficiente a farle precipitare in un baratro senza uscita. Così accade ne La nave delle donne maledette, dove le protagoniste, conscie della situazione a cui non cercano inutilmente di opporsi, sanno alzare il capo e diventare esseri umani capaci di andare ben più che oltre i limiti di chi le disprezza e le umilia. Come la Rosario che aiuta Consuelo, e che si ricorda con solido orgoglio di essere caduta tanto in basso per aver rubato, solo per salvare i propri figli, dettaglio che la scagiona del tutto agli occhi della gente comune. Oggi il Mereghetti dà quattro stelle al film e il Morandi tre. Resta da sottolineare che si tratta di un classico del cinema popolare. Popolare per Matarazzo era ciò che scientemente veniva offerto al pubblico attraverso un cinema e una letteratura d’appendice in cui la massa sapeva scegliere da sola i testi che parlavano nella sua lingua, al di là delle tanto sbandierate letteratura e arte cinematografica del verismo intransigente. Un verismo che tuttavia, è sempre stato costituito da luoghi comuni a sua volta, non diversamente da quello della letteratura e del cinema d’evasione. Nella rubrica radiofonica Il cinema insolito7, dedicata a questa pellicola, Goffredo Fofi parla di bellezza e bizzarria, di un’anarchia liberatoria, di un’utopia realizzata, quando uomini e donne si scatenano. Le donne in questo film affrontano gli uomini disarmate; accettano il rischio di morire, mentre sono gli uomini a gridare che l’inferno si è scatenato. Fofi ricorda in questa analisi che Matarazzo credeva in storie umane che piacessero alle masse, e rendessero giustizia ai sentimenti, con quella Consuelo che reagisce ad ogni rovescio con angelica bontà. Perché la ragazza povera, è umile e casta; è aliena a ogni crudeltà come il buon selvaggio, e non può essere altrimenti. Tra l’altro, i tre protagonisti di questo film, May Britt, Kerima e Ettore Manni, avevano girato contemporaneamente La lupa, di Alberto Lattuada (1953). Una storia che portava ciascuno a muoversi in ruoli simili a quelli del film di Matarazzo. Fa Una condizione che dal sociale si riflette come chiaro monito nella cinematografia. Cfr. Basinger Jeanine, A Woman’s View. How Hollywood Spoke to Women 1930 – 1960, New York, Alfred A. Knopf, 1993. 7 Rai 3, 5 aprile 2020. 6 16 sorridere oggi ricordare che La nave delle donne maledette venne definita da qualche critico del tempo “la Potiomkin della DC”, così come una specie di manifesto dell’ideologia conservatrice e punitrice del socialismo. [Ma sui motivi che spinsero i critici degli anni Quaranta e Cinquanta a sminuire il valore artistico di Matarazzo, considerato addirittura “nocivo” da Umberto Barbaro sulle pagine de L’Unità, si potrebbero scrivere interi volumi. Si entra nel campo del momento, dell’opportunità politica, dell’interpretazione dogmatica dell’arte, dell’ideologia come pre-letteratura di ciò che avviene attorno a sé e al proprio mondo… … La visione a colori permette di dare ancora maggior sfogo a un formalismo deflagrante, che respira una vitalità immensa. Le donne che, dopo le frustate ricevute dalla derelitta Consuelo per colpa dell’infida Isabella – Il femminile trova ne La nave delle donne maledette tre diverse rappresentazioni: la donna che mira solo al potere, la donna che difende l’onore al di là di ogni profitto personale e la donna che ricerca la propria espressione al di fuori delle logiche maschili – decidono di prendere il possesso della nave che le sta portando ai lavori forzati, hanno dentro di loro una furia magari sadica e omicida, ma per la quale Matarazzo parteggia senza alcun indugio. I loro baccanali sono sì la rappresentazione dell’incapacità della rivoluzione di ripristinare davvero un “ordine nuovo”, ma vivono sullo schermo di una sensualità debordante, che attira e di fronte alla quale non si può far altro che sposarne la causa, come i marinai che si ammutinano. Non si ammutinano solo perché le donne promettono loro sesso, amore, rapporto, ma perché quelle donne parlano la loro stessa lingua. Una lingua fatta di umiliazioni, una lingua che è sempre stata ridotta al silenzio. Peggio, all’obbedienza. E allora gli uomini scelgono la parte, anche consci di andare incontro al disastro. Scelgono la parte che a loro pertiene, contro quel potere costituito che li ha sempre guardati dall’alto in basso, e non ha vergogna a frustare, condannare, vilipendere chi non ha difese.]8 In sostanza ci troviamo davanti a un film considerato eccessivo per erotismo, sadismo, claustrofobia, barocchismo figurativo9. Esso sarebbe stato rivalutato dopo il Sessantotto da critici parigini del circolo Positif, che l’hanno letto in chiave libertaria ed eversiva: in tale ottica il sesso 8 9 Raffaele Meale, pubblicato il 20 novembre 2016 in rete su Quinlan. Morandini, alla recensione del film. 17 usato come merce di scambio è il veicolo verso la rivolta e la libertà. E in effetti, una storia cinematografica in cui sono le donne a prendere l’iniziativa, è fuori luogo per la morale filmica, soprattutto quando si vuole riportare le donne a casa, alla fine di una guerra devastante. Per strada in Italia ci sono ancora i segni di quella guerra che, nata dall’imposizione di conquiste ancora di tipo coloniale - ovvero guerre per portare la civiltà (!), o creare lo stato perfetto (!), nell’intento sbandierato - ha rivoluzionato tutto della società. Quel che la gente ancora non ha ben chiaro, è che è cambiata per sempre la percezione del ruolo femminile nel sociale10. Se alla fine del primo conflitto mondiale le donne dovettero rientrare nei ranghi (niente più lavoro, niente più denaro, e quindi nessuna forma di autonomia, nel senso di potere), dopo una seconda guerra che portava ipocrisia sulle canne dei fucili, qualcuno forse si chiedeva perché tornare a una situazione di conquista della civiltà dello “uomo”, che genera gli stessi errori e le stesse oppressioni di sempre. Tuttavia, da quanto raccolto nelle interviste a Matarazzo a suo tempo, già citate, questo film non voleva essere una bandiera dei tempi. Il romanzo a cui è ispirato non lo è. Il regista parla al pubblico in questa storia attraverso melodrammi, tanti, che si susseguono tanto in fretta da apparire più vicino alla parabola biblica, che alla realtà. La scena finale, con gli ammutinati e le galeotte ormai consci della fine, che si inginocchiano attorno a un rinnovato padre Alfonso per pregare, è degna di un romanzo medievale. Ancor più la bella Rosario, che dopo aver aiutato Consuelo e Paolo a fuggire, si inginocchia accanto al prete autoreintegratosi nella fede come una maddalena pentita, da lui benevolmente benedetta, sa di santo eroismo da romanzo edificante per i poveri. E sono tutti poveri quelli che salteranno in aria con la nave, cosa che finisce per rimettere il film nel solco della morale cinematografica. L’innocente che si è sacrificata riesce a fuggire, e verrà assolta come merita. Tutte le altre se ne vanno nell’esplosione che sa da ascesa al cielo. Se ne vanno tuttavia consce di aver vissuto meglio che potevano nei binari stretti che la vita aveva fornito loro, all’interno della società. Vite sbagliate, vite da rifare sotto la benedizione di un destino spiegato dalla fede. [Matarazzo, guardato con malcelato disprezzo per la sua volontà di muoversi nel torbido dolore degli affetti, sradicando in superficie una lettura della società, è stato un maestro del melodramma, non solo italiano. Ha sposato desideri e bisogni di una classa che si muoveva tra il proletariato e la media borghesia per raffigurare rapporti impossibili, delusioni, tradimenti, sensi di colpa; tutti elementi che tornano con forza anche ne La nave delle donne maledette. A distanza di più di sessant’anni appare quasi miracoloso che il film, nonostante evidenti tagli della censura e un divieto ai minori di 16 anni, che all’epoca era la massima punizione riservabile a un’opera cinematografica, abbia potuto raggiungere il pubblico, che ovviamente gli tributò il solito successo… Non si fa in questo caso solo riferimento ai seni nudi, al sadomasochismo di alcune sequenze, alla sensualità evidente che trasuda la ribellione al femminile, alla messa in scena della donna che, seppur peccatrice (la duplice chiave di lettura democristiana e socialista potrà apparire semplicistica, ma non è per niente creata sul nulla), ha il diritto, anzi il dovere di prendersi le libertà che la società non le concede. La nave delle donne maledette è un film nettamente in anticipo sui tempi… e anche se la regia può apparire a prima vista statica, questa sta lì a testimoniare un furore del racconto che porta alle estreme 10 Per questo argomento, partendo dal successo sorprendente di Rodolfo Valentino e del romanzo (censurato), de The Sheik, da cui il film Lo sceicco (George Melford, 1921), cfr. Spinelli, Orientwood, pp. 200-220, e relative note e bibliografia. 18 conseguenze il discorso sulla colpa, sulla redenzione e sulla liberazione, in ogni concezione possibile e immaginabile… Le donne non sono maledette per decisione divina, lo sono solo e soltanto per abitudine dell’uomo al potere, alla sopraffazione, alla difesa di sé attraverso la messa al bando o alla gogna del femminile, ridotto a puro esercizio del piacere, e alla riproduzione della famiglia – il matrimonio d’interesse sarà pure il pensiero dominante di Isabella, ma è stato raggiunto solo ed esclusivamente per permettere al padre della ragazza di ripianare i suoi debiti…]11 Cherchez la femme La storia della nave, con le condannate alla schiavitù (di ogni tipo), spedite alle colonie, viene ripresa con piglio più disinvolto in: L’ammutinamento (Silvio Amadio, 1961), e tornando, con l’ambientazione, nel mondo britannico, pur senza far cenno al romanzo originale, probabilmente scomparso da ogni catalogo ormai a quel tempo. Una didascalia iniziale ci dice che ci troviamo nella prigione di Newgate nel 1675. Le donne imprigionate, molte di malaffare, più un contorno di ladruncole e poverette, stanno discutendo a proposito del fatto che fuori ci sono medici e ufficiali che intendono scegliere 30 di loro per un mercante che le esporterà alle Americhe. Fra queste, le compagne di sventura aiuteranno, camuffandola bene con gli abiti, una giovanissima incinta, e si infiltrerà tra loro anche una strana ladruncola, Polly (Anna Maria Pierangeli). Sulla nave che dovrà trasportare loro, più un carico di prigionieri, tra tagliagole e perseguitati politici, il comandante è insoddisfatto: aborre quel carico di rifiuti umani, e dispensa ordini con durezza estrema. Tra i passeggeri nel ponte superiore si trova anche una coppia altolocata, Lord Arthur Galveston (Mirko Ellis), accompagnato dalla bella moglie (Franca Parisi), e una coppia di fratelli orfani che vanno a cercar fortuna presso i parenti nel Nuovo Mondo: Anna (Michèle Girardon), e il giovanissimo Richard (Franco Capucci). Ben presto scopriamo che Polly si è fatta imbarcare per liberare il suo uomo, il quale è parte del carico maschile della nave, Jimmy (Renato Speziali), il suo vecchio protettore, di cui lei è innamorata. Con la scusa di aiutare la giovane in attesa di un bimbo, Polly, sostenuta dalle più baldanzose, organizza un’uscita sul ponte per prendere aria, sotto gli occhi scandalizzati dei Galveston e quelli tristi dei due fratelli emigranti. Nonostante il comandante ricacci subito perentoriamente tutti dabbasso, Polly continua a darsi da fare, seducendo guardie, studiando l’interno della nave, mentre i passeggeri chiedono al comandante di mostrare loro anche il resto dei prigionieri. Tra questi il dottor Robert Bradley (Edmund Purdom), che è stato condannato per aver salvato la vita a un ribelle – alla 11 Raffaele Meale, pubblicato il 20 novembre 2016 in rete su Quinlan. 19 maniera dell’indimenticabile dottor Blood (Capitan Blood, Michael Curtiz, 1935) – e che orgogliosamente rifiuta i gesti pietosi di Anna, subendo una pubblica fustigazione per insubordinazione. Nonostante questo, il comandante stesso si servirà del suo aiuto, avendo problemi di salute. La situazione precipita quando, durante una sera in cui il comandante cena con tutti gli ospiti, con l’aiuto di Polly uomini e donne riescono a impadronirsi delle armi e a ribellarsi. Mentre la ragazza incinta partorisce nel parapiglia, gli uomini si rifanno sul carceriere che li ha vessati fin lì sadicamente. La lotta comporta perdite pesanti da entrambe le parti, ma alla fine i rivoltosi si impadroniscono della nave, tenendo il capitano e gli ospiti prigionieri. Tuttavia le due nobildonne fanno gola a tutti, in particolare al feroce pirata Calico Jack (sic), (Armand Mestral), che riuscirà a violentare Lady Galveston, la quale si suiciderà subito dopo. Ma la sorpresa non ferisce solo Calico Jack. Jimmy si rivela un opportunista a cui nulla importa di Polly, e anzi si incapriccia di Anna, difesa dal dottore, poiché tra i due sta nascendo un tenero sentimento. Il dottor Bradley diviene presto inviso anche ai ribelli per la sua onestà, e per salvare Anna dovrà fare a pugni con Jimmy. A nulla serve il suo richiamare gli uomini all’ordine affinché la nave venga guidata sulla giusta rotta verso la Tortuga. Cosa di cui tutti sono incapaci. Mentre Richard viene trasformato in un mozzo condannato a lavori pesanti e a pesanti torture, e le storie di gelosie e ripicche serpeggiano tra tutti gli ammutinati, scoppia una violenta tempesta. Polly, piena di risentimento, si lascia intanto andare a fare la madrina della piccola appena nata, mentre Jimmy, che con la tempesta ha constatato che le provviste a bordo sono ormai avariate, programma di buttare le donne a mare, e inizia subito con la giovane madre. Toccherà al dottore convincere il capitano a riprendere il comando e la guida del vascello, tra sospetti e torture, e ben presto la banda dei rivoltosi si divide in due: chi vuol proseguire a caso con Calico Jack, e chi invece vuol salvarsi la vita. Le sparatorie finiscono per decimare i gruppi, e Calico Jack tenta di far saltare in aria la nave, puntualmente fermato e ammazzato dal dottore che spegne pure l’incendio, mentre una nave della marina è in vista. Il partito del dottore pensa di sparare una cannonata per attirare l’attenzione della nave, nonostante venga ostacolato dal gruppo avverso. Sarà Polly a riuscire a far partire il colpo, e quando gli ufficiali inglesi saliranno a bordo, il capitano memore del comportamento dei ribelli politici e delle donne, indica tutti come passeggeri, che si sono difesi al meglio da un ammutinamento messo in piedi dai galeotti morti. Così, mentre Anna e il dottore coroneranno il loro sogno d’amore, Polly, con la bimba in braccio a cui si è già affezionata, scoprirà di aver attirato l’attenzione di un altro bel prigioniero politico, amico del dottore. E’ trascorso quasi un decennio dalla realizzazione di Matarazzo, e la società è cambiata. Se ne La nave delle donne maledette i dialoghi vertevano sulla morale puritana e spesso sdolcinata di fine XIX secolo, qui ci sono già i prodromi di una società che si sveglia, e in cui le aspirazioni cominciano ad essere più universalistiche. Le donne sono ardite e ragionatrici, sicure di sé, ciascuna a modo suo, e pronte ciascuna a conquistarsi il mondo a qualunque costo secondo i propri mezzi ed aspirazioni. I loro dialoghi in carcere sono ancora attuali, e tutt’altro che banali. L’unica veramente innamorata persa è la povera Polly, che pure ha battuto le strade per l’uomo da cui credeva di essere amata, fino a farsi imbarcare come condannata, e arrivare a organizzare l’ammutinamento. Ma anche a sposare la causa libertaria e sensata dei ribelli politici. I dialoghi di onestà ed etica tra il dottore e l’orfana (il cui padre è stato ucciso proprio dai ribelli che avevano chiesto aiuto al medico), sono numerosi, per quanto non superino mai la banalità. I cattivi sono privi di ogni freno, il comandante ha la logica ferrea e l’etica dell’uomo oberato da responsabilità lavorative, e nonostante tutto – bravi attori e ricca trama – la storia non decolla. Non ci sono scene di nudo esteticamente attraenti qui, ma resta la violenza che viene portata a sgradevoli estremi. Come a voler modernizzare una trama sviluppata per il voyeurismo, aggiungendovi discorsi più elevati, e avvicinandosi al realismo attraverso la violenza, che di certo a bordo delle navi, ai tempi della vela, era pane quotidiano, e qui vi si calca la mano fino alla sgradevolezza. 20 21 22 Contemporaneamente la storia sembra aver solleticato produzioni e regie altre, poiché nello stesso periodo escono ulteriori storie dalla trama simile nelle linee generali. Questo accade parzialmente in Il giustiziere dei mari (Domenico Paolella, 1961)12, e, utilizzando buona parte dello stesso cast, luoghi e navi, soprattutto in Le prigioniere dell’isola del diavolo (Domenico Paolella, 1962). Dopo la didascalia iniziale, la quale ci avverte che nel XVII secolo l’isola del Diavolo, alla Caienna, fu destinata ad essere una prigione femminile, segue una carrellata verso una nave a vela. Sul ponte è alloggiata una grossa gabbia di legno, e dalle grate superiori spuntano mani femminili che si muovono come agonizzanti. Vediamo poi quelle prigioniere, debilitate, senza più volontà, che si raccontano. Martine (Michèle Mercier), è stata l’ultima della sua famiglia arrestata per motivi politici, e spera di ritrovare la sorella all’isola dove l’aspettano dieci anni di lavori forzati. Le altre donne, più povere e in buona parte arrestate per delitti comuni, parlano invece invelenite contro il loro destino. Già a questo punto sono riconoscibili molti volti presenti anche nel precedente succitato film di Paolella. All’isola, il tenente Lefèbre (Paul Müller), che comanda la piazza, non lascia avvicinare la nave con le nuove deportate. Ha un comando provvisorio, si sta accaparrando in realtà l’oro raccolto dalle condannate, e nutre la speranza di veder arrivare con la nave una sospirata promozione, che lo renderebbe un piccolo despota, di fatto, sull’isola, e in grado di andarsene a piacimento. Finalmente a bordo del veliero, se il comandante Duval (Carlo Hintermann), ha cercato di rincuorare le condannate 12 In questa storia un perfido comandante militare (Roldano Lupi), saccheggia le colonie costiere in cui i deportati sono costretti a pescare ostriche perlifere nonostante gli squali. Il figlio del capo di uno dei villaggi (Richard Harrison), arruolatosi in marina nel tentativo di raggiungere posizioni e condizioni atte a poter liberare la famiglia, messosi contro il comandante, verrà condannato a morte, ma con l’aiuto di pirati attraverso rocambolesche avventure, alla fine giustizia sarà fatta. In questa storia le donne “perdute” sono quelle della colonia, costrette a pescare in succinti abiti drappeggiati alla maniera di quelli antichi usati nei contemporanei peplum. Cui si può aggiungere la mulatta che il comandante militare tiene segregata per il proprio piacere (Marisa Belli), e la figlia del capo dei pirati (Michèle Mercier), molto attiva, ma ingenua quanto basta per convolare al lieto fine col protagonista. 23 esortandole alla sopportazione, il tenente, quando sale, tra ciniche parole e atteggiamenti crudeli invece fa capire che non c’è alcuna speranza in quel luogo. La prima cosa che le deportate vedono, scendendo a terra, è una condannata, la scandinava biondissima Rosy (Margaret Rose Keil), denudata e frustata, legata a un albero rinsecchito, svenuta. Ben presto, se Martine ritrova la sorella Michelle, che ora si fa chiamare Jeannette (Federica Ranchi), perché fingendosi una prostituta usufruisce di una pena più breve, le altre scoperte sull’isola sono agghiaccianti. Lefèvre, insieme ad altri ufficiali, e con la complicità di un subalterno, Dubois (Tullio Altamura), organizza orge, concedendo alle prigioniere che accettano di partecipare, un giorno libero dal lavoro. Altrimenti alla sera le galeotte vengono tutte incatenate nel capannone in cui sono rinchiuse, e al mattino, appena giorno, c’è da setacciare i fanghi di una palude infestata di coccodrilli, per raccogliere l’oro. I coccodrilli poi, non esitano ad azzannare chi si immerge, facendo prede tra le poverette, incuranti degli spari dei soldati. Martine è disperata scoprendo come funziona quell’inferno, ma la sorella le promette di portarla in un luogo appartate per spiegarle che da tempo stanno tutte organizzando una fuga. Le due riusciranno a dileguarsi creando scompiglio con un falso allarme per i coccodrilli, e in abiti succinti alla maniera del peplum, per la gioia degli spettatori più addentro al voyeurismo, Jannette/Michelle spiega alla sorella il piano mentre giacciono stremate e in posa, sulla riva deserta, protetta da una scogliera, in pieno sole. Jeannette, approfitterà del debole che Lefèvre ha per lei, e accetterà una notte con lui. Sa che se riesce a farlo addormentare, può raggiungere dalla sua stanza il magazzino dell’oro, prenderne un paio di sacchi per la fuga, poiché alla scogliera segreta da tempo le galeotte hanno nascosto una barca. Tuttavia qualcuna di loro fa la spia, e Jeannette, dopo la notte fatidica, sarà uccisa senza pietà. Le altre fuggiasche, verranno legate allo scheletro di uno scafo naufragato sulla spiaggia e lasciate lì a morire. Tra loro Martine, che dopo la morte della sorella prega di trovare il modo per vendicarsi. Ad esaudire la preghiera, una nave arriva. C’è un nuovo capitano, Henry Vallière (Guy Madison), che scende a terra per prendere il posto di Lefèvre, bacchettandolo ripetutamente per la crudeltà verso le prigioniere, e imponendo trattamenti più umani. Il nuovo capitano, che da subito ha adocchiato Martine, la salverà dall’attacco di un coccodrillo, e la scintilla tra i due inevitabilmente si accende. Verrà soccorso sulla riva anche un ragazzo di colore, Michael (Fernando Piazza), un pescatore che si è perduto, e la biondissima Rosy, che aveva subito la pubblica fustigazione, ben esposta all’arrivo delle ultime condannate, ripresasi egregiamente, provvederà a lui, tanto che anche qui scoccherà la scintilla amorosa. Con un Lefèvre sempre più adirato, Vallière proibisce l’uso della frusta, della tortura, e delle orge forzate. Vista la nuova situazione, Martine denuncia pubblicamente Lefèvre per l’uccisione a tradimento della sorella. Vallière sta dalla sua parte, e viene così a sapere dove è conservato l’oro. Così che, quando le truppe vengono spedite all’altro capo dell’isola per una ricognizione in vista di nuove fortificazioni da costruire, una nave pirata arriva cannoneggiando la piccola fortezza (in realtà una torre di guardia antica sulla costa marchigiana). Il comandante dei pirati (Roldano Lupi), scende quindi a terra, come d’accordo con Vallière, che ora scopriremo essere un rivoluzionario francese, fattosi pirata in cerca di oro per la causa, e Michael il pescatore, altri non è che un suo luogotenente partito in avanguardia. I soldati però non sono lontani, per cui, con il rumore dei cannoni rientrano in fretta e furia, scoprendo tutto, e dando avvio a scontri, sparatorie, catture di ostaggi, finte fughe, ricatti, e tutto quanto sia utile a movimentare – gradevolmente, occorre dire – l’ultima parte del film. Martine e Henry, dopo qualche equivoco, e tra catture, prigioni e condanne, si dichiarano eterno amore. Lefèvre, che ha di nuovo in mano la situazione, si porta a cena coi suoi una delle condannate, Melina (Marisa Belli), malata, che egli si diverte a dileggiare, nonostante sia stata lei ogni volta a mandare a monte le fughe, facendo la spia. La donna però, pentita, questa volta decide altrimenti. Mentre tutta la popolazione dell’isola viene riunita per l’impiccagione di Henry e di Michael, Melina fa saltare il deposito delle polveri, così che le donne potranno impossessarsi delle armi, mentre anche la nave pirata fa ritorno, e per la guarnigione dei corrotti non c’è più scampo. I pirati, al momento di partire, superando le precedenti reticenze, imbarcheranno anche le donne, con 24 Michael e Rosy felicemente insieme, e una volta a bordo, Henry e Martine potranno baciarsi sullo sfondo azzurro del cielo sul mare, per mettere la parola fine romanticamente alla vicenda. 25 Trame che partono da una medesima storia, quelle degli anni Sessanta del XX secolo, a proposito delle navi cariche di condannate per le colonie. Con anche qualche bella gamba, generosissime scollature, e qualche centimetro in più di pelle esposto ad arte. Del resto il peplum, già in voga da 26 alcuni anni, ha abituato gli italiani a bei culturisti e a vesti succinte da atlete classiche 13. Sono anche anni di benessere in crescita, in cui esplode la moda delle ferie al mare, e l’abbigliamento da spiaggia si è modernizzato, ovvero ridotto, in fretta. Tuttavia, se i personaggi femminili appaiono più scapigliati in un certo senso, e più disinibiti, sono anche portatori di una maggiore coscienza di sé, e sono più partecipi nel sociale, così come già accade nella realtà. Si veda il piano di Polly ne L’ammutinamento, che intrepida, riesce a farsi deportare sulla nave in cui libererà i prigionieri. Inoltre, una volta chiaro che l’uomo per cui ha rischiato tutto l’ha soltanto usata, Polly saprà fare altrimenti, ingoiandosi le lacrime e partecipando attivamente alla lotta. Un po’ come la Jeannette/Michelle, de Le prigioniere dell’isola del diavolo. Resta molto poco del melodramma in cui affondavano, consapevoli, le donne del film di Matarazzo, e conscie di non aver voce in capitolo in alcuna scelta, se non appellarsi alla pietà o al capriccio degli uomini. La relazione amorosa viene ormai vissuta in prima persona. Non è più qualcosa – l’unica cosa – in cui gettarsi o lasciarsi cadere anima e corpo, al pari di personaggi di una tragedia antica. Tanto che, se i nudi ne La nave delle donne maledette, si notavano, essendo una novità nel cinema, non si poteva fare a meno di paragonarli a quelli espressivi dell’arte antica, senza tirare in ballo la pornografia. La storia con la nave delle deportate è diventata, solo dieci anni dopo, un esempio di come cambia il sentimento, e di come si modifichi la sua espressione. Si perde il romanticismo in favore di una maggiore immediatezza. I film di Matarazzo non avranno più fortuna proprio quando ci si avvicina agli anni ’60. La gente per cui egli faceva cinema non c’è più. E’ vero, si leggono ancora i fotoromanzi e i fumetti14. Diabolik ed Eva Kant nascono proprio nel 1962, ad opera di due donne per giunta, e Satanik vedrà la luce nel 1964, ben sgambata e scamiciata, quanto vendicativa. Si è arrivati quindi a una stagione in cui i personaggi femminili, protagonisti o meno, cominciano a farsi sentire, e ad agire in maniera tutt’altro che scontata. Sono personaggi capaci di lottare, di ponderare se un amore vale la pena o meno. Non sono più creature deboli, la cui unica opportunità, a mali estremi, è quella di morire eroicamente, per un amore tutto sommato universale, in cui hanno una particina anche loro stesse. Anna Spinelli BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA Atkinson Barry, Heroes Never Die! The Italian Peplum Phenomenon 1950 – 1967, Midnight Marquee Press Inc., Baltimora, Maryland, USA 2018. Basinger Jeanine, A Woman’s View. How Hollywood Spoke to Women 1930 – 1960, New York, Alfred A. Knopf, 1993. Basinger Jeanine, American Cinema. One Hundred Years of Filmmaking, New York, Rizzoli, 1994. Schilling Mark, No Borders No Limits. Nikkatsu Action Cinema, Godalming (GB), Fab Press Ltd, 2008. Spinelli Anna, Orientwood, Ravenna, Fernandel, 2019. Wikipedia; IMDB; Il Zinefilo – Lucius Etruscus. Viaggi nel cinema di zerie Z; Il Morandini; Mattia Ravaioli in Nocturno.it; Marco Romagna su Cine lapsus; Cinematografo; Ado Kyrou, Amour – Erotisme & cinéma, Losfeld, Paris, 1967; Film TV; Quinlan (Raffaele Meale); Long Take; Cinema gay; Die Nacht der Lebenden; Italo Cinema; Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiv a cura di Massimiliano Schiavoni; Remember it for later; Anna Maria Pierangeli.com. 13 14 Cfr. Spinelli, Orientwood, al capitolo “Gli epigoni di Ercole e l’escapismo”, pp. 266-270. Cfr. Spinelli, Orientwood, al capitolo “Il fumetto italiano, il fotoromanzo e la voglia di avventura”, pp. 152-56. 27 28 29