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La Scultura Del Rinascimento Nella Sicilia Nord-Orientale

2013

che cingono Messina alle spalle, assieme alle Madonie, nel palermitano, e ai Nebrodi, costituiscono l'Appennino Siculo. 2 Estendendosi per una lunghezza di circa settanta km, i Monti Nebrodi si affacciano sul Tirreno, e il territorio che li circonda costituisce la più grande area protetta della Sicilia. I comuni situati entro i confini del Parco Regionale dei Nebrodi sono ventiquattro, tra i quali prevalgono nettamente quelli compresi nella provincia di Messina (diciannove). I restanti cinque sono divisi tra le province di Catania (cui ne spettano tre) ed Enna (due). 20 Già H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 28-29, dirottava questa Madonna su Gabriele di Battista, sebbene limitando l'intervento dell'artista lombardo alla Natività scolpita nello scannello, e al bambino avvinghiato alle gambe della Vergine. 21 L'atto notarile è stato pubblicato da F. MELI, Costruttori e lapicidi del Lario e del Ceresio nella seconda metà del Quattrocento in Palermo. Indagine critica del loro apporto nel periodo di trapasso, dal tardo-gotico aragonese-catalano al graduale inserimento del nuovo gusto d'arte rinascimentale nazionale, in Arte e artisti dei laghi lombardi, I, Architetti e scultori del Quattrocento, a cura di E. ARSLAN, Tipografia editrice Antonio Noseda, Como 1959, pp. 238-239. 22 All'interno della cappella, e nello specifico entro il piccolo vano posto al di là del Portale di Antonello Freri, si custodiscono l'arca ed il prezioso busto argenteo a grandezza naturale. Quest'ultimo fu realizzato nel 1376 dall'orafo senese, di stanza ad Avignone, Giovanni di Bartolo in argento sbalzato e con smalti traslucidi.

View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk brought to you by CORE provided by Università degli Studi di Napoli Federico Il Open Archive UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI SCUOLA DI DOTTORATO IN SCIENZE ARCHEOLOGICHE E STORICO-ARTISTICHE INDIRIZZO DISCIPLINE STORICO-ARTISTICHE DELL’ITALIA MERIDIONALE XXV CICLO TESI DI DOTTORATO LA SCULTURA DEL RINASCIMENTO NELLA SICILIA NORD-ORIENTALE TUTOR: PROF. FRANCESCO CAGLIOTI COORDINATORE: PROF. CARLO GASPARRI CANDIDATA: DOTT.SSA PAOLA CONIGLIO 1 ANNO ACCADEMICO 2012-13 INDICE PREFAZIONE Stato degli studi, temi e obiettivi della ricerca Fonti e metodo della ricerca 7 INTRODUZIONE 13 Il panorama artistico a Messina tra l’arrivo di Antonello Gagini e la morte di Rinaldo Bonanno (1498 circa-1590) CAPITOLO I 21 La forza paradigmatica delle “opere nuove” di Domenico Gagini I.1 L’arrivo di Domenico Gagini in Sicilia e il contesto figurativo nella Palermo degli anni settanta del Quattrocento I.1.1 “Intorno” a Domenico Gagini: sculture monumentali dai Nebrodi I.1.2 Un’ipotesi per l’autore dell’Incoronazione di Sant’Agata nella Cattedrale di Catania I.2 Per una rilettura dell’opera di Gabriele di Battista: i gruppi delle Annunciazioni di Ucria e Buscemi e la Santa Caterina d’Alessandria di Taormina I.3 Una postilla al carrarese Andrea Mancino e un’aggiunta al catalogo di Antonio Vanello I.4 Qualche (ri)considerazione sull’opera di Giorgio da Milano I.5 Una nuova proposta per le Annunciazioni di Modica e Tortorici I.6 Appendice documentaria I.7 Tavole CAPITOLO II 48 Antonello Gagini e figli: aggiunte ai rispettivi cataloghi II.1 Aggiunte al catalogo di Antonello Gagini: i Santi Pietro e Paolo di Trapani, i tabernacoli di Novara di Sicilia e della Magione di Palermo. L’Annunciazione del Museo di Castell’Ursino a Catania II.2 Alcune novità su Giovandomenico Gagini: le Madonne di Polizzi Generosa e di Gioiosa Marea II.3 Antonino Gagini a Siracusa e a Tortorici II.4 Da Antonello a Giacomo Gagini: una nuova proposta e qualche revisione al catalogo del Kruft II.5 Due aggiunte al corpus di Vincenzo Gagini: la Madonna col Bambino della Magione di Palermo e la Santa di Rochester II.6 Tavole 2 CAPITOLO III 69 L’attività di Antonello Freri dalla fine del Quattrocento alla “società” con Giovambattista Mazzolo III.1 Antonello Freri e la Cappella di Sant’Agata nella Cattedrale di Catania: nuove proposte d’analisi dei manufatti e d’indagine stilistica III.1.1 La respinta Incoronazione di Sant’Agata e la sua (s)fortuna critica III.2 Antonello Freri e Giovambattista Mazzolo “socii”: due maestri a confronto nella Messina di primo Cinquecento III.2.1 L’“ipoteca” del 1512 e la Madonna mazzoliana di Castell’Umberto III.2.2 Breve digressione sul tabernacolo e sull’altare eucaristico nel Cinquecento. Forme e usi III.2.3 Aggiunte al Freri e al Mazzolo: gli altari eucaristici di Taormina e di Pezzolo III.2.4 Per una migliore comprensione dei rapporti tra il Freri e il Mazzolo nei primi decenni del Cinquecento: un profondo vincolo di stile più che un semplice passaggio di consegne III.2.5 Giovambattista Mazzolo e le repliche “maianesche” da Antonello Gagini: l’inedita Santa Caterina d’Alessandria di Montalbano Elicona III.3 Schede III.4 Tavole CAPITOLO IV 132 Altri due carraresi a Messina: Giovandomenico Mazzolo e Domenico Vanello IV.1 La lunga carriera di Giovandomenico Mazzolo, dal classicismo del padre Giovambattista all’aggiornamento sugli esempi manieristi IV.1.1 Novità sul catalogo di Giovandomenico: le Madonne di Pezzolo e Frazzanò e il San Sebastiano di Alì Superiore IV.2 Spigolature critiche su Polidoro da Caravaggio e i portali laterali del Duomo di Messina IV.2.1 Domenico Vanello da Torano: dall’attività carrarese con Bartolomé Ordoñez al definitivo trasferimento nella città peloritana IV.2.2 Un inizio per Domenico Vanello: la Madonna col Bambino di Castanea delle Furìe IV.3 Schede IV.4 Tavole CAPITOLO V 170 L’attività messinese di Giovann’Angelo Montorsoli e della sua bottega V.1 L’arrivo di Giovann’Angelo Montorsoli a Messina e l’Apostolato del Duomo V.1.1 Una conferma al corpus di Montorsoli: la Sant’Agata di Taormina e la sua fortuna, da Martino Montanini a Giuseppe Bottone. La Testa di satiro del Museo Lázaro Galdiano di Madrid 3 V.2 Per Giuseppe Bottone, modesto epigono montaniniano V.2.1 Custodie eucaristiche bottoniane (Drosi, San Nicolò, Santa Maria di Basicò, Ospedale Piemonte) V.3 Un inizio per Domenico Calamecca, all’ombra di Giovann’Angelo Montorsoli. La Madonna col Bambino della chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore V.3.1 L’Adorazione dei Magi di Seminara: una nuova proposta attributiva V.3.2 Frammenti calabri da Seminara e da Galatro. Gli inediti tabernacoli eucaristici di Galati Mamertino e di Santo Stefano Medio V.4 Schede V.5 Appendice documentaria V.6 Tavole CAPITOLO VI 257 L’attività di Rinaldo Bonanno dalle novità della Maniera moderna al ritorno alla tradizione gaginiana VI.1 La figura “eccentrica” di Rinaldo Bonanno nello scenario artistico messinese della seconda metà del Cinquecento VI.1.1 Il supposto viaggio in Toscana ed il michelangiolismo delle prime prove VI.2 L’avvio del legame con Andrea Calamecca. Una proposta (e tanti problemi) per i perduti (?) Sepolcri La Rocca VI.2.1 La comparsa di molteplici e variegati modelli: Bartolomeo Ammannati, Andrea Calamecca, Giovann’Angelo Montorsoli, Antonello Gagini VI.3 Da Messina alla Toscana: l’esperienza carrarese del primo scultore siciliano all’“estero” VI.3.1 Il rimpatrio e la nuova (breve) ondata manieristica. Una nuova lettura critica delle statue di Taurianova e di Bova VI.3.2 Il ritorno al passato. Il rapporto tra Rinaldo Bonanno e Antonello Gagini VI.4 Schede VI.5 Appendice documentaria VI.6 Tavole BIBLIOGRAFIA 322 4 “ Tut to sommato, non avevamo vist o nient ’alt ro che i vani sforzi degli uomini per resist ere cont ro le violenze della natura, cont ro la perfidia maligna del t empo, cont ro il furore delle loro st esse discordie ed ost ilità. Cart aginesi, Greci, Romani e non so quant e alt re razze dopo di loro hanno cost ruito e hanno dist rut t o. Selinunt e è met odicament e devast ata; per rovesciare i t empli di Girgent i non sono bast ati due millenni; sono bastat e poche ore, per non dir pochi ist ant i, per dist ruggere Cat ania e M essina. Tali le riflessioni, verament e afflit t e dal mal di mare, d’un pover’uomo sballot tat o t ra i flut ti della vit a; alle quali però non ho lasciat o prendere il sopravvento” (J.W. Goet he, Viaggio in It alia, 1786-1788, Sansoni Edit ore, Firenze 1959, p. 321) 5 6 PREFAZIONE Stato degli studi, temi e obiettivi della ricerca Questo lavoro si propone di fornire un contributo alla conoscenza della produzione scultorea in marmo di epoca rinascimentale nella Sicilia nord-orientale, con particolare riguardo al territorio ricadente nella provincia di Messina. Dall’area urbana, tragicamente segnata dai rovinosi sismi del 1783 e del 1908 e dai disastrosi bombardamenti alleati del 1943, e in seguito ancora mortificata dall’incuria e dall’indifferenza umane, la ricerca si è estesa in primis agli immediati dintorni peloritani,1 già in antico segmentatisi nei numerosi insediamenti noti con il nome di “casali”, per poi interessare la zona del Parco dei Nebrodi,2 e, ad est, le cittadine site lungo la fascia costiera prossime al confine con la provincia catanese. Al fine di assicurare un panorama il più esaustivo possibile, si è scelto di prendere in esame manufatti databili tra la fine del Quattrocento e gli ultimi anni del Cinquecento: si è pertanto proceduto all’analisi delle officine del marmo sorte entro tale periodo, mantenendo il territorio messinese quale punto di partenza e nel contempo attuando, di volta in volta, una comparazione con il coevo scenario artistico del resto dell’isola. L’esame dei linguaggi di questi lapicidi ha permesso di individuare alcuni tratti comuni nel gusto dei committenti e una linea di sviluppo nelle testimonianze figurative pervenute. Le principali città i cui contesti storici e figurativi si è deciso di esaminare, al fine di istituire dei confronti diretti con l’ambiente peloritano, sono Palermo e Catania. Dalle laboriose botteghe impiantate nella prima, Messina e il suo più limitrofo distretto si sono lungamente e proficuamente approvvigionati, specie negli ultimi decenni del XV secolo; al contrario, considerevoli quantità di materiali lapidei furono recapitati dal più vivace centro peloritano nella città etnea, ancora fino agli anni settanta del Cinquecento. La singolare, e per certi aspetti unica, prossimità storica, sociale ed economica di Messina alla Calabria, ed in particolare all’attuale provincia reggina, ha reso inevitabile, al fine di rendere il più possibile organica l’indagine che qui ci si è proposti, anche la perlustrazione di questo territorio. Legata ab immemorabili alle vicende della città dello Stretto, l’antica “Calabria Ulteriore” conserva ancora oggi, a dispetto dei ripetuti eventi tellurici abbattutisi nel 1 I Monti Peloritani, che cingono Messina alle spalle, assieme alle Madonie, nel palermitano, e ai Nebrodi, costituiscono l’Appennino Siculo. 2 Estendendosi per una lunghezza di circa settanta km, i Monti Nebrodi si affacciano sul Tirreno, e il territorio che li circonda costituisce la più grande area protetta della Sicilia. I comuni situati entro i confini del Parco Regionale dei Nebrodi sono ventiquattro, tra i quali prevalgono nettamente quelli compresi nella provincia di Messina (diciannove). I restanti cinque sono divisi tra le province di Catania (cui ne spettano tre) ed Enna (due). 7 corso dei secoli, e nonostante gli effetti, forse più dannosi, della negligenza e della miopia umane, uno straordinario corpus figurativo marmoreo intimamente connesso alle dinamiche del mercato e della committenza messinese. Com’è emerso grazie anche agli studi degli ultimi anni, nel contesto della cultura figurativa dell’Età Moderna, la riconosciuta peculiarità di questa regione geografica è quella di aver trovato nelle prolifiche officine peloritane la risposta ad una storica, e cronica, mancanza di risorse endogene. La scelta di esordire con il trasferimento a Palermo di Domenico Gagini, giunto sull’isola dalla Napoli rimasta orfana, nel 1458, di Alfonso il Magnanimo, è sembrata necessaria sia da un punto di vista metodologico, poiché al caposcuola lombardo si deve l’importazione delle novità tematiche e tipologiche espresse dalla lingua rinascimentale; sia per più corsive ragioni di persistenza di testimonianze materiali, che sono state qui individuate ed esaminate, attribuibili al suo ambito e, in un caso particolarmente significativo, ad un suo stretto collaboratore. L’estremo limite cinquecentesco, invece, rappresentato dalla morte di Rinaldo Bonanno, intende focalizzare l’attenzione, ancor più di quanto si sia fatto finora, sul carattere “straordinario” di questa eccezionale personalità di scultore autoctono, che con acume e apertura non comuni ha tentato, riuscendoci solo in parte, di elevarsi rispetto alla folta ma più modesta serie di scalpellini locali. Il criterio monografico adottato per Rinaldo Bonanno ha ceduto il passo, nella restante parte del lavoro, a quello più propriamente cronologico, che prevede la trattazione dei singoli profili di artisti attivi a Messina nel corso del XVI secolo. Ciò nondimeno, si è deciso di procedere all’esame delle varie personalità usando la “lente” della comparazione, e operando, laddove è stato possibile, un più serrato e cogente tentativo di confronto tra i percorsi, talora speculari, dei diversi scultori. Ciò ha consentito di rilevare legami professionali e culturali sinora non emersi in tutta la loro evidenza, come nei casi di Antonello Freri e Giovambattista Mazzolo, i quali dovettero, per un certo periodo, condividere imprese e assistenti; o, ancora, com’è accaduto – entro l’officina di Giovann’Angelo Montorsoli – a Domenico Calamecca e Martino Montanini, la cui analisi comparata dei modi espressivi ha permesso di svelare una collaborazione sino a questo momento ignorata. Nel fare, molto brevemente, il bilancio della situazione bibliografica generale, è opportuno sottolineare in primis la scarsa propensione degli studi ad effettuare analisi comparative funzionali a delineare un più ampio ed organico quadro nel quale ricollocare le personalità dei numerosi maestri di pietra attivi in questa specifica area della Sicilia. Stupisce anzi, guadagnando così un meritorio plauso tra le ultime voci bibliografiche, che un approccio di questo tipo sia stato tentato da Monica de Marco, la quale ha trattato le vicende della scultura rinascimentale in Calabria, e specialmente nell’area reggina, di accertata provenienza messinese.3 3 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010. 8 La studiosa, infatti, pur ragionando esclusivamente su materiali d’importazione, ma supportata da una buona conoscenza del territorio d’origine dei marmi, è sensibilmente avanzata sul campo dell’esame comparato dei singoli artefici. Ad Alessandra Migliorato si deve, invece, il più recente studio sull’argomento (2011), centrato sull’area orientale della Sicilia e sulla Calabria: nel volume, che raccoglie la gran messe di articoli precedentemente pubblicati dalla studiosa, il fil rouge della trattazione segue l’esigenza di collocare alcune nuove attribuzioni.4 Un denso contributo di Francesco Caglioti (2003),5 nel quale per la prima volta si mettevano in risalto le tangenze esistenti tra i linguaggi di Antonello Freri e Giovambattista Mazzolo, spianava la strada ad una più profonda comprensione dei rapporti intercorsi tra questi due maestri, mentre, appena qualche tempo prima, lo stesso studioso avanzava la proposta di un apprendistato di Antonello Gagini a Firenze presso Benedetto da Maiano. A tale inedita chiave di lettura del periodo formativo del Gagini junior, il Caglioti è pervenuto grazie all’osservazione, da un lato, delle opere di statuaria licenziate da questo artefice per le committenze sicule e calabre; dall’altro, grazie alla ricostruzione delle vicende che portarono Marino Correale, maggiordomo della regina Giovanna d’Aragona, a chiedere al Maiano l’esecuzione di una pala marmorea (1491-92) per il proprio feudo di Terranova, in Calabria Ultra.6 Come ha ampiamente dimostrato lo studioso, la novità e la qualità, altissima, delle figure componenti l’ancona furono talmente dirompenti nell’attardato e asfittico panorama figurativo di quest’estrema porzione di territorio meridionale da innescare nella committenza un immediato e duraturo processo di emulazione dei modelli di Benedetto. E tale fu la naturalezza e la facilità con cui Antonello riuscì a riproporre, introiettandoli profondamente, quei prototipi, che l’ipotesi, suggerita dal Caglioti, di un periodo di pratica presso l’officina maianesca sembra verosimile e insieme allettante.7 Nell’ambito della medesima iniziativa editoriale, a Lucia Lojacono spettava l’aver offerto una prima ricostruzione, grazie anche alla raccolta dei cospicui materiali documentari editi ed inediti, del complesso quadro della produzione lapidea in Calabria nel pieno Cinquecento.8 Relativamente invece alla Sicilia, che si è giovata di una maggiore attenzione da parte della storiografia rispetto alla 4 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011. 5 F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60. 6 F. CAGLIOTI, G. GENTILINI, Il quinto centenario di Benedetto da Maiano e alcuni marmi dell’artista in Calabria, in «Bulletin de l’Association des Historiens de l’Art Italien», 3, 1996-97, pp. 1-4. 7 F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, pp. 979-1042. 8 L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, ivi, pp. 1043-1092. 9 vicina regione calabrese, tra i numerosi contributi vale la pena menzionare i due volumi su Giovann’Angelo Montorsoli pubblicati da Sheila Ffolliott (1984) e da Brigit Laschke (1993)9: il primo, rivolto all’analisi comparativa delle due differenti tipologie di fontane monumentali progettate e compiute dall’artista toscano per l’arredo delle due principali piazze cittadine; il secondo, con impianto monografico, che punta alla ricostruzione dell’intera attività del frate-scultore. Ad un altro studioso straniero, il tedesco Hanno-Walter Kruft, si devono anche le prime (ed uniche fino ad ora) monografie rispettivamente su Domenico Gagini e la sua bottega (1972) e su Antonello e i figli (1980).10 Sebbene, alla luce del progresso delle conoscenze, molteplici ed inevitabili siano stati, e continuino ad essere, gli aggiornamenti delle due fatiche editoriali del Kruft, ciò nondimeno esse costituiscono ancora oggi un imprescindibile punto di partenza per chiunque decida d’ottenere non solo una più sistematica conoscenza dei due autori, ma anche una più ampia panoramica sui loro più prossimi collaboratori. Il merito principale da rendere al Kruft è comunque quello di aver corredato i due volumi di un apparato fotografico in larga parte inedito, e sino a quel momento considerato assolutamente accessorio dalla storiografia artistica contemporanea e precedente, e poi ancora da quella successiva. La scarsa documentazione fotografica è infatti il trait d’union di buona parte della bibliografia che si è finora occupata di tali argomenti, e alla quale questo studio ha tentato di ovviare, almeno in relazione all’area di competenza della ricerca. Un secondo elemento che contraddistingue la storia degli studi sulla scultura del Rinascimento in Sicilia è rappresentato dal mancato dialogo con le voci nazionali e internazionali; la lunga sequela di studiosi di storia patria, storici e appassionati d’arte, autori di innumerevoli contributi la cui distribuzione spesso non ha valicato gli stretti confini siculi, è rimasta in parte isolata in un provincialismo asettico privo del benefico confronto con il coevo dibattito storicocritico. A fronte dell’interesse accordato dalla storiografia, già a partire dalla fine del XIX secolo, alle personalità maggiori, rappresentate dai Gagini, dai due Mazzolo e dal Montorsoli,11 relativamente esigui sono i contributi tesi alla comprensione del vivace contesto culturale palermitano della seconda metà del Quattrocento. La 9 S. FFOLLIOTT, Fra Giovanni Angelo Montorsoli’s fountains at Messina: a problem in sixteenth century civic sculpture and city planning, Phil. Diss., Philadelphia/Pa., Univ. of Pennsylvania, 1979; B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli: ein Florentiner Bildhauer des 16. Jahrhunderts, Gebr. Mann, Berlin 1993. 10 H.-W. KRUFT, Domenico Gagini und seine Werkstatt, Bruckmann, München 1972; IDEM, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980. 11 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84. A tale “monumentale” opera editoriale, preziosa anche per la considerevole messe documentaria che lo studioso palermitano rintracciò negli archivi di Palermo e di Messina, si aggiungono i numerosi contributi degli eruditi peloritani Gaetano La Corte Cailler e Domenico Puzzolo Sigillo. 10 città che, allo scadere del sesto decennio del secolo, accolse Domenico Gagini, viveva una stagione di fermento artistico che l’arrivo del ticinese contribuì ad arricchire ulteriormente. I toscani Andrea e Giuliano Mancino e Antonio Vanello, e i lombardi Gabriele di Battista e Giorgio da Milano sono solo alcuni dei maestri (quelli di cui rimane qualche traccia documentaria) che, provenienti dalle terre d’origine dei marmi, costituirono delle folte “colonie” straniere sul suolo palermitano. Alcuni di essi beneficiarono dello stimolante scambio con il più virtuoso e aggiornato Domenico; altri, al contrario, rimasero totalmente impermeabili alle novità da questi introdotte: manca ad oggi un’analisi sistematica ed unitaria che restituisca il dovuto rilievo a tale singolare congiuntura storicoartistica. Sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso ci ha provato Maria Accascina, agendo sul doppio filo della correlazione tra l’opera e il documento e dell’attribuzione di nuove sculture sulla base di quelle accertate.12 L’apprezzamento del tentativo, per l’epoca pionieristico, attuato dalla studiosa s’indebolisce inesorabilmente per l’amara constatazione di una quasi immutata situazione bibliografica dal 1959 ad oggi. Il primo capitolo di questo lavoro, che non ha affatto la pretesa di esaurire, nelle sue poche pagine, l’analisi di un così fecondo e composito scenario figurativo, nel proporre delle “spigolature” critiche su quegli artisti, vuole semmai porsi come l’esordio di un’indagine che necessita in primis di un’adeguata perlustrazione dell’area occidentale dell’isola. Fonti e metodo della ricerca Le fonti utilizzate sono costituite in larga parte dal materiale documentario rintracciato e pubblicato dagli eruditi e dagli studiosi di storia patria allo scadere dell’Ottocento, che proficuamente frequentarono l’allora archivio provinciale di Messina, prima che una buona parte dei fondi e dei volumi notarili in esso custoditi perisse sotto la devastazione dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Sono risultati molto utili i cospicui materiali documentari trascritti rispettivamente da Gioacchino di Marzo e da Domenico Puzzolo Sigillo e Gaetano La Corte Cailler, sulla cui infaticabile e meritoria attività di spoglio presso gli Archivi di Stato di Palermo e di Messina si fonda ancora oggi qualsiasi ricostruzione delle vicende relative ad opere di statuaria del Rinascimento in Sicilia. Altre verifiche sono state effettuate presso gli archivi vescovili e capitolari delle singole diocesi siciliane, gli archivi statali delle città di Messina, Catania, Palermo, Carrara e l’archivio diocesano di Mileto (VV). Informazioni preziose sono giunte anche dalle fonti 12 M. ACCASCINA, Di Giuliano Mancino e di altri carraresi a Palermo, in «Bollettino d’arte», s. IV, 44, 1959, pp. 324-336; EADEM, Sculptores habitatores Panormi, in «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», 8, 1959, pp. 269-313. 11 erudite cinque-seicentesche e dalle compilazioni degli storici locali. La disamina della bibliografia critica generale sugli argomenti considerati e dei contributi specifici sui singoli casi in esame ha costituito, com’è ovvio, un imprescindibile punto di partenza ed un continuo termine di confronto. Selezionata l’area geografica d’interesse, per ciascuno dei siti considerati il lavoro di ricerca è partito da una dettagliata campagna di fotografie e di misurazioni, cui è seguita l’inventariazione e la catalogazione del materiale superstite. Questa fase del lavoro è stata accompagnata dalla consultazione degli archivi fotografici e dei cataloghi di schedatura delle soprintendenze e delle diocesi interessate, le cui indicazioni sono state puntualmente riverificate sull’esame diretto dei manufatti. In qualche caso è stato possibile reperire materiali inediti non ancora catalogati. Gli archivi fotografici delle soprintendenze di Messina, Palermo, Catania e Siracusa, nonché le fototeche del Museo Regionale di Messina, del Museo Civico di Castell’Ursino a Catania e del Kunsthistorisches Institut di Firenze hanno inoltre rappresentato un prezioso, ed ulteriore, strumento di ricognizione, ed hanno fornito interessanti testimonianze di numerosi materiali ancora esistenti prima del sisma del 1908. 12 INTRODUZIONE Il panorama artistico a Messina tra l’arrivo di Antonello Gagini e la morte di Rinaldo Bonanno (1498 circa-1590). La cultura artistica del Cinquecento a Messina si contraddistinse per una molteplicità di caratteri che contribuirono a generare un contesto particolarmente vivace, aperto ai numerosi e talora decisivi apporti esterni che schiusero le porte alle novità peninsulari necessarie ad inserire la città dello Stretto entro il coevo, e più moderno, linguaggio figurativo espresso sulla terraferma. Le basi di questo dinamico clima culturale che raggiunse l’apice nel XVI secolo si posero almeno due secoli prima, quando, malgrado le frequenti lotte dinastiche tra Angioini e Aragonesi, la città assurse ad un ruolo di grande rilievo nelle attività commerciali ed economiche in genere. Il suo porto divenne, assieme a quello di Napoli, uno fra i più importanti del Mediterraneo, crocevia di intensi scambi con molti altri centri della Penisola e dell’intera area mediterranea. I mercanti stranieri che trafficavano con il centro peloritano iniziarono a stanziarvisi, dando vita ad un caratteristico milieu culturale, e portando i rappresentanti delle varie “nazioni” a ricreare nella città “forestiera” (talora attorno al complesso religioso d’identificazione eretto contestualmente) un pezzo della propria terra d’origine.13 Se il Quattrocento artistico fu, per ovvie ragioni, dominato da Antonello da Messina, la cui grandiosa figura può a tutti gli effetti qualificarsi come quella di un outsider di levatura straordinaria, lo stesso non può dirsi per il XVI secolo, quando una serie di illustri trasferimenti variegò notevolmente il panorama figurativo, il quale, non identificandosi più in un’unica personalità, ne uscì proficuamente complicato. Nel 1513 rientrò in città, dopo un viaggio di studio nella Serenissima, dove acquisì i principi della lezione coloristica veneta, il raffaellesco Girolamo Alibrandi, seguito dal lombardo Cesare da Sesto (1514), quest’ultimo pure edotto del linguaggio raffaellesco ulteriormente arricchito dalla formazione leonardesca condotta nella terra d’origine. Intanto, intorno al 1508, si era definitivamente trasferito a Palermo Antonello Gagini, di stanza a Messina per poco meno di dieci anni dopo il decisivo periodo di apprendistato presso la bottega del fiorentino Benedetto da Maiano.14 Il Gagini 13 E. PISPISA, Messina nel Trecento: politica, economia, società, con una prefazione di S. TRAMONTANA, Intilla, Messina 1980. 14 Per la formazione di Antonello Gagini a Firenze al fianco di Benedetto da Maiano cfr. F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2007, pp. 990-1006. 13 junior, presto supportato da una folta schiera di allievi (fra cui, in primis, i cinque figli) dettò le sorti della produzione scultorea isolana, guadagnandosi giustamente la fama del più operoso maestro attivo sino a quel momento in Sicilia. I lavori licenziati dalla sua bottega furono richiestissimi ancora sino agli avanzati anni settanta del secolo, con una ragguardevole produzione rivolta anche alla vicina Calabria. Il dato negativo, risultante ad una lucida e obiettiva analisi delle vicende artistiche legate ad Antonello ed ai suoi epigoni, è l’evidente sclerotizzazione che questi ultimi operarono dei modelli del maestro, dando vita ad una quantità innumerevole di manufatti, spesso contraddistinti da un modesto livello qualitativo, e che pertanto si connotano come stanche e retrive riproposizioni di prototipi concepiti dal caposcuola nelle fasi iniziali della propria attività.15 Volendo individuare un’attenuante all’attività fin troppo derivativa di questi lapicidi, non va dimenticato il ruolo significativo di una committenza di per sé conservatrice, che spesso vincolava gli artefici a modelli antichi da cui desumere spunti o da cui trarre vere e proprie repliche.16 15 Ciò si è verificato anche perché, malgrado tutto, la Sicilia si connota come una terra di “periferia”, di certo illustre, ma pur sempre ai margini degli sviluppi e dei continui aggiornamenti dettati dalle altre aree della Penisola. A tal riguardo è interessante notare quanto osservato in merito ai rapporti centro/periferia da Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg: «Tre sono i fenomeni che, più di altri, configurano un processo di periferizzazione che relega molte regioni italiane in una condizione di subalternità culturale destinata a prolungarsi nel corso dei secoli: la costituzione di dinastie locali con il conseguente perpetuarsi, attraverso l’uso di cartoni e disegni, di certi schemi; lo stabilirsi in periferia di artisti di lontana provenienza che non si erano imposti né nei rispettivi paesi d’origine né nei centri artistici più importanti; il rifluire in periferia di artisti già celebri messi in crisi dai mutamenti stilistici in atto…un fenomeno caratteristico è appunto il costituirsi di dinastie locali, particolarmente avvertibile a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Il meccanismo sembra più o meno questo. All’inizio c’è la costituzione di una bottega familiare in cui lavorano padre e figli. I prodotti di questa bottega sono dapprima abbastanza aggiornati, e si appoggiano a formule e schemi recenti che conoscono un grande successo. Il capo della bottega può avere un’esperienza abbastanza larga dovuta a viaggi, a una formazione fuori del paese o all’alunnato presso un pittore forestiero attivo nel luogo. In seguito, l’utilizzazione dei cartoni e del repertorio formale del capomastro diviene il consueto modus operandi della bottega, secondo una procedura che poteva assicurare la sopravvivenza di certi schemi addirittura per generazioni. Via via che passa il tempo cresce lo iato tra la ripetizione di modi e formule, divenuti ormai arcaici, e la produzione dei grandi centri. Queste dinastie erano impiegate da singoli committenti per dipinti votivi, da confraternite o anche da comunità paesane» (cfr. E. CASTELNUOVO, C. GINZBURG, Centro e periferia, in Storia dell’arte italiana. Parte prima, Materiali e problemi, II, L’artista e il pubblico, Giulio Einaudi Editore, Torino 1979, pp. 34-37). 16 D’altronde, le ragioni storico-sociali, prima che strettamente artistiche, di questa sorta di “ritardo” in cui versava la cultura figurativa non solo in Sicilia ma in tutto il Meridione d’Italia sono state ottimamente individuate da Giovanni Previtali nel «minor peso relativo della vita cittadina e dei ceti ad essa particolarmente legati, con una conseguente persistenza di vita economica e feudale “medioevali” che si riflettono nelle forme del lavoro e della vita associata (botteghe, corporazioni, confraternite) e nella struttura e nelle preferenze della committenza e nei suoi gusti tendenzialmente conservatori. A questo si aggiunge la particolare condizione politica del Vicereame che si traduce in una condizione culturale che si potrebbe definire di “doppia periferia”. In quanto Napoli e, dietro a lei, un po’ tutto il mezzogiorno, si trova stretta tra l’egemonia culturale spagnola e quella culturale tosco-romana… all’economia “feudale” e alle sue conseguenze si devono le sopravvivenze di tecniche, forme e iconografie tradizionali (polittici, fondi oro), la grande diffusione, in opere di largo respiro, della pratica del subappalto e della collaborazione, la 14 Ciò non ha soltanto impedito che, nell’ambito medesimo della bottega, si verificasse una sorta di ricambio delle formule, tipologiche e iconografiche nonché stilistiche, ma ha anche condizionato nelle maniere più diverse altre pur rispettabili personalità che non sono riuscite ad emanciparsi dall’ingombrante presenza gaginiana. È questo, ad esempio, il caso dello scultore carrarese Giovambattista Mazzolo, il quale, attestato a Messina almeno a partire dal 1512, detenne il primato della scultura monumentale nella città peloritana fino alla metà del secolo, determinando una situazione di “monopolio” speculare a quanto accadeva negli stessi anni a Palermo ad opera di Antonello Gagini. Almeno in questa prima fase, comunque, il giovane ed inesperto Mazzolo dovette trovare più di un semplice socio nella compravendita di marmi in Antonello Freri, scalpellino di documentata origine peloritana più anziano del carrarese di almeno una generazione, e ancora attivo fino allo scadere del secondo decennio del secolo. Il collegamento tra un documento edito da Gioacchino di Marzo agli inizi del Novecento17 ed una Madonna col Bambino (1512) inedita rintracciata da chi scrive a Castell’Umberto e restituita a Giovambattista, nonché un più compiuto esame delle imprese mazzoliane di gioventù (Sepolcri Bellorado, Balsamo, Branciforte) hanno avuto come esito inaspettato l’accertamento di un radicato vincolo stilistico esistente tra i due maestri negli anni dieci del Cinquecento. Se la prima, e più lampante conseguenza della stretta contiguità tra il Mazzolo ed il Freri è stata la proposta di una collaborazione tra i due almeno in relazione alle Tombe Bellorado (1513 circa) e Balsamo (1515 circa), la seconda riflessione riguarda il solo Antonello Freri; e, nello specifico, la straordinaria capacità di questo modesto artefice di innovare i propri modi espressivi, che dal carattere marcatamente tardogotico riscontrabile nelle opere destinate alla Cappella di Sant’Agata nella cattedrale etnea, si aprirono, se pur fuori tempo massimo, al moderno linguaggio della Rinascenza. In tale quadro, risulta ancor più imbarazzante la schiacciante sudditanza di Giovambattista alle invenzioni gaginiane (specie per quanto concerne le numerose Madonne col Bambino a grandezza naturale, che costituiscono la parte più ampia della produzione di questo maestro),18 se si pensa che la sua terra d’origine era la Toscana, da cui egli si era allontanato forse a causa di una spietata concorrenza che non era riuscito a fronteggiare. Certo è che il sostrato culturale toscano, di cui egli dovette pur nutrirsi, almeno per apprendere i rudimenti dell’arte scultorea, ben ripetizione di modelli, iconografici e figurali, anche a distanza di tempo” (Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, catalogo della mostra, a cura di G. PREVITALI, Centro Di, Firenze 1986, p. 9). 17 G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27. 18 Anche per le numerose derivazioni del Mazzolo dal prototipo maianesco, filtrato però dagli esempi di Antonello Gagini, cfr. F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 1004-1005. 15 presto si offuscò fino ad eclissarsi definitivamente dietro alla dominante sovrastruttura isolana codificata dal Gagini. Nel frattempo, dopo una permanenza a Napoli, dove si era rifugiato l’indomani del Sacco di Roma, giunse Polidoro da Caravaggio (1528), latore del linguaggio manieristico di prima mano, appreso nel cantiere raffaellesco delle Logge Vaticane, fucina di idee, forme e modelli tipici di quello stile poi esportato nelle altre regioni italiane. Nei quindici anni di attività siciliana, il maestro lombardo fu non solo autore di un cospicuo numero di dipinti, segno di un giro di committenza piuttosto importante il cui gusto egli dovette incontrare sin da subito; ma trasse anche una notevole quantità di disegni, il cui influsso, almeno per quanto riguarda l’arte scultorea, merita ancora di essere opportunamente precisato. L’occasione, persa sul nascere dal Mazzolo, di imprimere un incisivo segno nella storia dell’arte lapidea messinese, fu invece colta da Giovann’Angelo Montorsoli, la cui attività nella città dello Stretto ebbe inizio e si concluse con l’erezione di due fontane pubbliche dalla forte valenza politica, rispettivamente quella di Orione, mitico fondatore di Zancle (antico nome della cittadina), e quella dedicata a Nettuno. Durante i ben dieci anni di permanenza, il frate servita, oltre che per il Senato cittadino e per l’Opera del Duomo (che lo nominò capomastro scultore della fabbrica), operò per una committenza privata d’eccellenza, costituita da alcuni degli esponenti più in vista della nobiltà, non soltanto messinese.19 Nel portarsi al di là dello Stretto, il Montorsoli fu affiancato dall’allievo Martino Montanini (già con lui a Genova), il cui operato, pur avendo destato l’attenzione della storiografia, manca ancora di una disamina organica ed esaustiva che ne enuclei il profilo e un’attività indipendente da quella del maestro. Entro l’officina montorsoliana gravitarono altresì degli scultori le cui fisionomie sono in alcuni casi ancora da individuare, in altri da inquadrare meglio, e i cui cataloghi devono, con tutta probabilità, considerarsi molto più cospicui di quanto sinora emerso. Fra questi, merita una singolare attenzione Domenico Calamecca, fratello maggiore del più noto Andrea, entrambi rappresentanti di un’ennesima famiglia di scalpellini carraresi emigrati sull’isola strettamente legata, proprio in virtù del commercio dei marmi, alle storiche regioni d’origine del materiale lapideo (in primis la Toscana e la Lombardia). L’attività di Domenico, pur in qualche caso suffragata da testimonianze documentarie, soltanto di recente è stata riscattata dall’oblio, grazie al prezioso 19 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, pp. 617-618, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it., p. 620: «Furono amici di fra Giovann’Agnolo, mentre stette in Messina, il detto signor don Filippo Laroca e don Francesco della medesima famiglia, messer Bardo Corsi, Giovan Francesco Scali e messer Lorenzo Borghini, tutti tre gentiluomini fiorentini allora in Messina; Serafino da Fermo et il signor Gran Mastro di Rodi che più volte fece opera di tirarlo a Malta…». 16 ancoraggio di un rogito ad un’opera superstite.20 Ciò ha consentito, nell’ambito di questa ricerca, di rimpinguarne il fin troppo esiguo catalogo: l’attribuzione a questo artista della bella Madonna col Bambino tuttora custodita nella chiesa messinese di Santa Maria di Gesù Superiore e la sua inedita partecipazione, qui ipotizzata per la prima volta, all’Adorazione dei Magi di Seminara vogliono porsi come l’avvio di un esame del profilo calamecchiano che tenga conto, più di quanto si sia fatto finora, del forte debito che Domenico contrasse con il Montorsoli e con Martino Montanini. Se il primo fu per lui un inevitabile sprone all’assunzione di nuove tipologie figurative, col secondo egli dovette verosimilmente collaborare nel corso degli anni cinquanta, dando vita ad un sodalizio che potrebbe aver avuto uno dei suoi esiti più alti proprio nella pala seminarese. Nel più ampio raggio dei rapporti con l’entourage montaniniano deve invece collocarsi il locale scalpellino Giuseppe Bottone, la cui prolificità, sinora emersa specie in terra calabra, sembra inversamente proporzionale alla qualità tecnica da lui esibita. Il carattere seriale che contraddistingue la lunga sequela di immagini mariane licenziate da Giuseppe e dalla sua officina tra il settimo e l’ottavo decennio del Cinquecento, lungi dall’essere un episodio sporadico, getta ancor più luce su ciò che deve a tutti gli effetti essere considerata la più preminente peculiarità della maggior parte della produzione lapidea isolana rinascimentale: la riproposizione, talora in serie, di modelli di successo che, anche a distanza di molti anni dalla creazione del prototipo, si ripetono vuoi per l’intervento diretto della committenza, vuoi per l’incapacità dei vari artefici di rinnovarsi, emancipandosi dal vincolo di un pur fortunato schema altrui. Nel caso specifico, la scultura, ricondotta da Monica de Marco al Montanini, raffigurante la Madonna del Soccorso e conservata a Castanea (ME) in una casa privata, deve aver svolto quel ruolo “archetipico” da cui il Bottone derivò la propria sfilza di statue mariane, scarsamente originali, e maldestramente lavorate, e pur tuttavia destinate ad innalzarsi su numerosi altari siciliani e calabresi. A tale riguardo, è interessante rilevare che i più cospicui bacini di commesse artistiche nelle due regioni erano essenzialmente tre: le confraternite locali, istituzioni laiche per le quali la richiesta di un’opera d’arte comportava, entro i limitati confini della comunità d’appartenenza, un incremento in termini di popolarità; gli ordini religiosi, per i quali le immagini sacre erano imprescindibili oggetti di culto sui quali si concentrava la devozione dei fedeli; infine, gli esponenti delle aristocrazie locali, che, nel sobbarcarsi all’onere di una commessa artistica, ostentavano la propria posizione sociale privilegiata al fine di ottenere un consolidamento del proprio ruolo e del proprio prestigio all’interno del tessuto cittadino. A questi tre grandi “promotori” artistici deve aggiungersi, per quanto 20 N. ARICÒ, scheda del Monumento funebre di Antonio La Rocca, in Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, pp. 58-60. 17 riguarda nella fattispecie Messina, il determinante impegno assunto, in questo senso, dalle istituzioni pubbliche (in primis il Senato, i Giurati, l’Opera della Maramma del Duomo), le cui energie, specie nei primi decenni del XVI secolo, erano tese a rinnovare la facies, anche urbanistica e architettonica, della città peloritana.21 Dovendosi però ritenere la Sicilia, e dunque anche Messina, come aree periferiche rispetto ai grandi centri peninsulari dove la circolazione delle idee e la ricezione delle novità, anche in campo artistico, trovavano un vivace riscontro in una società dinamica, ne consegue che la stessa committenza tendesse a radicarsi su scelte e gusti anch’essi conservatori, in molti casi frutto di un puro e semplice spirito emulativo. Divergono da tali considerazioni sull’uso ripetuto di schemi e modelli altrui Giovandomenico Mazzolo e Domenico Vanello, entrambi attivi dagli anni trenta del secolo, ma caratterizzati da percorsi ed esiti formali ben distinti. Il primo, pur muovendo i primi passi nel campo dell’arte scultorea al fianco del padre Giovambattista, entro la cui bottega fu operoso già dall’inizio del quarto decennio, riuscì presto ad emanciparsi dalle stanche formule dell’attardato genitore, avendo recepito la sterzata in senso manieristico offerta dal Montorsoli. Al catalogo di Giovandomenico, sul cui profilo negli ultimi anni si è focalizzata l’attenzione degli studi,22 si propone qui l’aggiunta di due statue a grandezza naturale, una Madonna 21 A questo proposito, si rammenti che la commissione di opere monumentali quali le due Fontane, di Orione e di Nettuno, deve inquadrarsi entro il più ampio programma, portato avanti dal Senato cittadino e dai «Provisori delle Acque delli Cammari», di realizzazione di grandi opere pubbliche volte al miglioramento delle condizioni di vita e di salute della popolazione tutta. La Fontana di Orione, infatti, punto di raccolta delle acque del torrente Camaro finalmente incanalate entro un acquedotto capace di rifornire l’intera cittadinanza, non era altro che il “manifesto” di tale grossa operazione condotta a favore della popolazione; ma diventava anche uno strumento di promozione della figura del viceré (munendosi pertanto di una forte valenza politica), in virtù della sua posizione strategica che, visivamente, attraverso un’ardita prospettiva ottica, la collegava al Palazzo Reale (il viceré si pone pertanto come erede diretto di Orione, il mitico cacciatore cui è riconosciuto il ruolo di fondatore di Messina). La Fontana di Nettuno era invece collocata in origine di fronte al porto, molto vicina al Palazzo Reale (già Vasari, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 619, in effetti la ricordava «in sulla marina, dove è la dogana»), e prevedeva la figura del dio rivolta verso la città, di cui la stessa divinità si ergeva a protettrice contro i terribili mostri Scilla e Cariddi che secondo la mitologia infestavano le acque dello Stretto (e che non a caso si dimenano ai piedi di Nettuno per tentare di divincolarsi dalle catene con cui il dio li ha resi innocui). Anche in questo caso la fonte si pone quale veicolo di propaganda del buon governo spagnolo, stavolta però legandosi direttamente all’imperatore Carlo V, ricordato da un’iscrizione posta sul bordo della fontana, e la cui persona simbolicamente si cela dietro al dio del mare. Da quando (1934), a seguito delle vicende del sisma del 1908, la fonte occupa il sito attuale (sempre di fronte al mare, ma di fronte alla Pretura), con la figura del dio rivolta verso il mare, l’opera è stata ovviamente privata della sua determinante funzione di trasmissione di questo messaggio politico. Ultimamente è tornata sul significato politico della Fontana di Nettuno B. LASCHKE, La Fontana di Nettuno a Messina: un modello per l’allegorismo politico monumentale nel Cinquecento, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 99-108. 22 A. MIGLIORATO, Aggiunte al manierismo messinese in Calabria, in «Daidalos. Periodico trimestrale dei beni e delle attività culturali della Calabria», II/1, 2002, pp. 23-24; L. LOJACONO, Per la scultura in Calabria nel XVI secolo: Giambattista e Giandomenico Mazzolo, in «Rivista storica calabrese», XXII, 2001/2002, 1/2, pp. 85-96; A. MIGLIORATO, Giandomenico Mazzolo: 18 del Soccorso albergata a Pezzolo, nei dintorni di Messina, ed un’Annunciata conservata a Frazzanò. Degno di nota risulta lo slittamento da Rinaldo Bonanno al Mazzolo junior del noto San Sebastiano di Raccuia, marmo che gli studiosi, dagli anni sessanta ai giorni nostri,23 hanno ricondotto allo scultore più “eccentrico” rispetto al contesto siciliano del XVI secolo, verosimilmente spinti dalla nobiltà dell’intaglio e dal carattere di opera “fuori contesto”. Una dettagliata (e a tutti gli effetti inedita) campagna fotografica effettuata a Catania in Cattedrale ha consentito d’individuare tra i personaggi scolpiti da Giovandomenico nelle formelle del Portale del Crocifisso (1561-67) numerosi ed espliciti riferimenti al Santo raccuiese. Benché il Mazzolo junior avesse già in precedenza dato ampia prova di un pieno inserimento nell’alveo della cultura manieristica, con il San Sebastiano, contraddistinto da un senso plastico stemperato da un forte verismo luministico a tratti confinante nel patetico, e degno d’un Silvio Cosini, egli palesa un diretto legame con i coevi esiti della scultura toscana. D’altronde, per un maestro, figlio di un lapicida carrarese, spesso in viaggio tra la Sicilia e la Toscana per l’acquisto e la scelta dei marmi e di nuovi collaboratori, l’aggiornamento di prima mano sulle novità della Maniera dovette essere, più che logico, scontato. All’altro carrarese, Domenico Vanello, attivo nell’officina di Bartolomé Ordoñez intorno al 1519-20, una postilla documentaria, valutata qui per la prima volta, ha permesso di ascrivere una Madonna col Bambino, ospitata a Castanea delle Furie, che, sebbene nota alla bibliografia, era rimasta sinora priva d’autore. Unitamente alla custodia eucaristica, anch’essa realizzata per Castanea, e ascritta al Vanello da Monica de Marco, l’immagine mariana qui presentata potrebbe rappresentare un inizio d’approfondimento della figura di questo artefice, il cui ruolo dovette essere ben più rilevante di quanto sinora sostenuto. L’incarico di capomastro scultore del Duomo, ricoperto da Domenico ininterrottamente dal 1535 al 1549, è certamente un segnale del credito riconosciutogli dalla committenza in un periodo storico, quello appunto del quarto-quinto decennio del secolo, artisticamente dominato da Polidoro da Caravaggio. Non è un caso che una parte del capitolo riservato al Vanello miri, da un lato, al consolidamento, mediante confronti diretti con architetture antiche, dell’ipotesi polidoresca del progetto delle due porte laterali della Cattedrale, e provi, dall’altro, a persuadere circa l’intervento personale di Domenico nell’esecuzione materiale della pregevole decorazione scultorea della coppia di portali. Alla luce di tali ipotesi per un percorso, in Miscellanea di studi e ricerche, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 12, 2002, pp. 9-23; F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 997-1042; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento cit., pp. 1043-1092. 23 Mi limito qui a riportare il primo e l’ultimo contributo, in ordine cronologico, nei quali si è sostenuta la tesi della responsabilità bonanniana del San Sebastiano: M. ACCASCINA, Tre inediti di Rinaldo Bonanno, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», XLVIII-XLIX, 1965, pp. 7983; A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., pp. 344-345. 19 considerazioni, risulterebbe rinvigorito il rapporto di collaborazione tra i due artisti, già testimoniato dalle fonti relativamente ai grandiosi apparati effimeri eretti nel 1535 in occasione dell’ingresso trionfale a Messina dell’imperatore Carlo V reduce dalla presa di Tunisi. Nel novero degli scultori per così dire “autoctoni” operanti nella città dello Stretto in epoca rinascimentale, si erge, assumendo il ruolo di assoluto protagonista dell’arte del marmo nella seconda metà del Cinquecento, il raccuiese Rinaldo Bonanno. Al di là dell’aggiunta al corpus bonanniano di due nuove opere, ciò che è emerso dall’analisi del profilo di questo artista e dalla ricostruzione della sua attività condotte nel presente lavoro è il precoce contatto, divenuto nel tempo proficuo e costante terreno di confronto, con Michelangelo e con alcuni moderni rappresentanti della scultura toscana coeva. I prelievi, talora espliciti, da note imprese buonarrotiane o da lavori di Bartolomeo Ammannati e di Andrea Calamecca, individuati in certi marmi della giovinezza di Rinaldo, così come in quelli più tardi, inducono a pensare ad un continuo e originale dialogo che egli seppe instaurare e mantenere con i più aggiornati sviluppi dell’arte peninsulare. 20 CAPITOLO I La forza paradigmatica delle “opere nuove” di Domenico Gagini 21 I.1 L’arrivo di Domenico Gagini in Sicilia e il contesto figurativo nella Palermo degli anni settanta del Quattrocento. La morte di Alfonso I d’Aragona, occorsa nel giugno del 1458, comportò un’improvvisa battuta d’arresto del ricco programma mecenatesco avviato dal re qualche tempo dopo il suo insediamento in città e concretizzatosi specialmente nell’opera di ricostruzione di Castel Nuovo. La difesa e la stabilità del Regno furono le priorità di Ferrante, successore del Magnanimo, che abdicò pertanto al ruolo, così largamente esercitato dal padre, di generoso committente capace di accogliere presso la propria corte numerosi artisti e intellettuali d’ogni sorta. Tra le conseguenze della mancata iniziativa in campo artistico, almeno nei primi anni, da parte del figlio di Alfonso, vi fu anche la diaspora dei tanti maestri del marmo che avevano contribuito alla decorazione del celebre Arco Trionfale, simbolo indiscusso del mecenatismo alfonsino nonché principale testimonianza del rinnovamento della cultura figurativa nel Meridione d’Italia alla metà del XV secolo.1 Fu così che uno di quegli scultori impegnati nell’impresa dell’Arco, il ticinese Domenico di Pietro Gagini, si risolse a trasferirsi nella Sicilia appena passata sotto il controllo di Giovanni II d’Aragona.2 A Palermo egli impiantò un’officina in poco tempo divenuta il maggior centro di diffusione delle novità rinascimentali a sud di Napoli, frequentata da numerosi 1 Per un’idea generale sul quadro storico-politico di questi anni, si vedano: A. BOSCOLO, La politica italiana di Ferdinando I d’Aragona, Università di Cagliari, Cagliari 1954; E. PONTIERI, Alfonso V d’Aragona nel quadro della politica italiana del suo tempo, Universidad de Barcelona, Barcelona 1960; IDEM, Per la storia del regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli: studi e ricerche, A. Morano ed. tip., Napoli [s.d.], ed. riv. e accr., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1969; G. D’AGOSTINO, Il Mezzogiorno Aragonese, in Storia di Napoli, Società Editrice Storia di Napoli, Cava de’ Tirreni 1974, IV/1, pp. 233-313; La Corona d’Aragona e il Mediterraneo: aspetti e problemi comuni da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico (1416-1516), IX Congresso di storia della Corona d’Aragona, Napoli, 11-15 aprile 1973, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli 1978; N. DE BLASI, Gli aragonesi a Napoli. Letteratura italiana. Storia e geografia, [s.e.], Torino 1988; La Corona d’Aragona in Italia (secc. XIII-XVIII), atti del XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona, Sassari-Alghero, 19-24 maggio 1990, Delfino, Sassari 1993-97. 2 Il soggiorno napoletano di Domenico Gagini aveva avuto luogo dopo le sue proficue permanenze a Firenze (almeno 1442-43) e a Genova (1446-56 circa). Resta ancora da stabilire quale possa essere stato l’effettivo ruolo di Pietro Speciale, signore di Calatafimi e di Marsala, svolto nell’eventuale scelta di Domenico a favore della Sicilia. Non dovette infatti essere un caso che, già a partire dal 1463 (quando lo Speciale gli commissionò l’esecuzione del Sepolcro del figlio Antonio, da erigere nella tribuna della chiesa di San Francesco d’Assisi, poi terminato nel 1473), tra i due si fosse instaurato un rapporto destinato a durare nel tempo, e grazie al quale la bottega del ticinese ottenne altre importanti commesse, direttamente o indirettamente appoggiate dal placet di Pietro. Fra tutte, si considerino il Sepolcro di Blasco II Barresi custodito a Militello in Val di Catania nella chiesa di Santa Maria della Stella (già in Santa Maria La Vetere), commissionato dalla sorella dello Speciale, vedova del Barresi; e l’impegnativa decorazione della Cappella di Santa Cristina nella Cattedrale di Palermo (per l’ipotesi, avanzata da Gioacchino di Marzo, circa la fondazione di questa cappella da parte di Pietro Speciale, cfr. P. Ranzano, De auctore, primordis et progressu felicis urbis Panormi (1470), pubblicato in G. Di Marzo, Delle origini e vicende di Palermo, di Pietro Ransano, e dell’entrata di re Alfonso in Napoli, Stamp. di G. Lorsnaider, Palermo 1864, pp. 51, 83). 22 scalpellini locali ma anche da tanti “forestieri” nel frattempo giunti sull’isola specie dalla Lombardia e dalla Toscana. Il catalogo siculo del Gagini senior, sebbene di certo non esiguo, lascia però parzialmente scontento chi si sarebbe aspettato una gran messe di opere di statuaria dalla pur così lunga permanenza di Domenico a Palermo (dove morì nel 1492). Ciò nondimeno, risarcisce l’animo (e la vista) dello studioso appassionato di tali argomenti la verifica della nobilissima arte espressa dal maestro in quelle che con sicurezza possono annoverarsi tra le sue creazioni autografe. Se a questo, poi, si aggiunge che si tratta di manufatti “moderni”, cui spetta il merito di aver contribuito a spezzare lo spesso cordone che teneva ancora avvinghiata la produzione delle botteghe marmoree isolane all’oramai sfiorito e tardivo linguaggio gotico, si comprenderà meglio la posizione affatto preminente assunta da questo significativo rappresentante del Rinascimento in un territorio, com’era quello siciliano, da ritenersi in definitiva periferico rispetto ad altre aree del Paese che, per la loro stessa centralità geografica e solidità politica, guidavano già da tempo le sorti dello sviluppo artistico nella Penisola.3 Ragguardevole fu la quantità di forze e d’ingegni che il Gagini seppe raccogliere e coordinare ai fini di ottemperare alla sempre più crescente richiesta di una committenza, sia laica che religiosa, tesa alla determinazione del proprio status sociale attraverso l’esibizione di talora grandiose testimonianze lapidee. A tal proposito, già in passato è stata sottolineata l’importanza rivestita dal Privilegium pro marmorariis et fabricatoribus,4 pubblicato per la prima volta dall’erudito palermitano Gioacchino di Marzo.5 In questo documento, risalente al 1487, attraverso il quale la corporazione degli scultori e architetti stabiliva alcune norme atte a regolare l’attività dei numerosi artisti stranieri operosi a Palermo, ricorrono, assieme ad altri, alcuni dei personaggi che collaborarono in varia misura col ticinese, e di cui rimane traccia grazie ai numerosi rogiti rintracciati e trascritti dallo stesso Di Marzo. A guidare l’elenco dei “marmorari” è posto, non casualmente, proprio Domenico Gagini, immediatamente seguito dai lombardi Pietro da Bonate e Gabriele di Battista, menzionati rispettivamente al secondo e al terzo posto. Ad essi si aggiungono Antonio Prone, Giorgio da Milano, Andrea de Curso, Giacomo 3 Al sostrato culturale della terra d’origine, teso al decorativismo tipicamente lombardo, Domenico aggiunse l’apprendistato presso la bottega di Filippo Brunelleschi, collaborando, tra il 1442 ed il 1443, al programma mediceo di rinnovamento della basilica di San Lorenzo. Nel suo linguaggio confluirono dunque motivi figurativi prettamente toscani, prelevati dai principali esponenti del Rinascimento, in cui, oltre all’insigne architetto, non poté mancare Donatello. Per un’ampia disamina dello stile del Gagini senior alla luce della vicinanza, personale e professionale, con il Brunelleschi, si veda F. CAGLIOTI, Sull’esordio brunelleschiano di Domenico Gagini, nell’Omaggio a Fiorella Sricchia Santoro. Volume I (= “Prospettiva”, 91-92, luglio-ottobre 1998), pp. 70-90. 4 M. ACCASCINA, Sculptores habitatores Panormi, in «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», 1959, 8, pp. 269-313. 5 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84, II, pp. 4-6, doc. IV. 23 Sirignano, Antonio Verri, Stefano Cassino e Antonio Vanello.6 Ancora, sempre emergenti dalle carte d’archivio recuperate dal Di Marzo, troviamo il lombardo Andrea Mancino, che nel 1491 risulta “socio” del Gagini, Domenico Pellegrino e Giacomo di Benedetto, aiuti di Gabriele di Battista, e infine i toscani Giuliano Mancino, Bartolomeo Berrettaro e Francesco del Mastro. La modalità di lavoro, abituale e condivisa dai più, era quella di consociarsi, creando talora delle vere e proprie imprese, più o meno grandi, il cui obiettivo era la tempestiva consegna delle commesse provenienti da ogni luogo dell’isola. Fu così che, oltre al già citato Andrea Mancino,7 il quale operò anche con il primogenito di Domenico, Giovannello,8 anche Giorgio da Milano risultò al fianco del Gagini senior in varie imprese.9 Antonio Prone fu, assieme al Pellegrino e al Di Benedetto, collaboratore di Gabriele di Battista,10 mentre il genero di quest’ultimo, 6 Mentre dei primi due, nonché di Antonio Vanello, rimane qualche attestazione documentaria ricollegabile a marmi tuttora esistenti, su Andrea de Curso, Giacomo Sirignano, Antonio Verri e Stefano Cassino non è emersa alcuna carta d’archivio utile a fornirci qualche informazione aggiuntiva. Pertanto, allo stato attuale degli studi, i profili e le attività di ciascuno di questi maestri risultano di fatto ignoti, dal momento che ad essi non si può associare alcuna certa testimonianza figurativa. 7 Dovette essere questo il momento di maggiore avvicinamento, professionale e stilistico, dello scultore al Gagini: il 23 novembre 1491 Andrea è definito “socio” di Domenico in un rogito relativo alla commissione di una Madonna di Loreto destinata alla chiesa di San Francesco di Marsala. Dalla tarda cronologia (di lì a poco il ticinese sarebbe deceduto), e dalla lettura dello strumento notarile, nel quale egli s’impegnava ad eseguire la Vergine «… pro parte magistri Andree de Mancino», si evince che essa fu compiuta dal Mancino. D’altronde, benché la derivazione tipologica da esemplari gaginiani sia evidente, ed invero a dispetto di essa, la modesta qualità dell’intaglio comprova l’intervento di Andrea (H.-W. KRUFT, Domenico Gagini und seine Werkstatt, Bruckmann, München 1972, figg. 97-98, p. 243, doc. XLVII). Documentato sino al 1499 (G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, pp. 51-52 e nota 1), egli è nominato da Giovannello Gagini procuratore al fine di riscuotere i vari crediti accumulati dal padre Domenico per vari lavori compiuti in numerose località siciliane: da ciò si deduce che i Gagini dovettero avere una certa dimestichezza con il Mancino, col quale avevano evidentemente instaurato un rapporto fiduciario. La collaborazione d’altronde continuò anche dopo la morte di Domenico, poiché giusto al 1492 risale un contratto che ricorda come egli, assieme a Giovannello, fu incaricato di realizzare il Monumento funebre di Gaspare Marino nella Cattedrale di Agrigento. Ancor prima, però, e precisamente intorno al 1488, egli aveva stretto un sodalizio con Gabriele di Battista, col quale aveva atteso alla fornitura di colonne per il chiostro del convento palermitano di San Francesco d’Assisi, nonché a opere varie nei Palazzi Abatellis e Aiutamicristo e nella chiesa di San Nicolò a Nicosia (ibidem, I, p. 50, II, doc. VIII p. 47). 8 Giovannello Gagini nacque tra il 1469 ed il 1470 dalla prima moglie di Domenico, Soprana, e l’ultima traccia documentaria che lo riguarda risale al 1492. Ad eccezione della Tomba de Marinis ad Agrigento, non vi è altro lavoro che gli si possa attribuire con certezza, malgrado i tentativi compiuti da MARIA ACCASCINA di ampliarne il catalogo (Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 298-305). 9 Attestato a Messina dal 1470, nel 1484 risultava presente a Palermo, dove attese a una parte della decorazione della Cappella di Santa Cristina all’interno della Cattedrale cittadina. Fu proprio per le inadempienze relative alla sua partecipazione a quest’impresa che Domenico Gagini ne sollecitò il rientro forzato da Cefalù. Molto attivo nella zona delle Madonie (dovette impiantare la bottega a Termini Imerese, visto che in alcuni documenti è definito “civis Thermarum”), la sua attività è nota sino al 1503. 10 Fratello dell’architetto comasco Cristoforo, la sua presenza è accertata sull’isola già dal 1472. Per un tentativo di ricostruzione dell’attività di questo scultore si veda H.-W. KRUFT, Gabriele di 24 vale a dire Giuliano Mancino, divise il lavoro per qualche tempo con Bartolomeo Berrettaro, a sua volta confluito, in un secondo momento, in una società con Francesco del Mastro.11 A questi devono aggiungersi poi i numerosi maestri che, in qualità di aiuti, collaboratori, consoci dovettero transitare per l’officina gaginiana, anche per brevi periodi, recependone stilemi e modelli figurativi, e che rimangono per noi ancora anonimi, a causa della mancanza di dati documentari. A qualcuno tra questi è possibile ricondurre un gruppo di statue albergate in alcuni piccoli centri facenti parte del territorio dei Nebrodi,12 ricco di numerose opere scultoree provenienti in prevalenza dalle botteghe insediate a Palermo. I.1.1 “Intorno” a Domenico Gagini: sculture monumentali dai Nebrodi. Il sostrato culturale di marca gaginiana accomuna una coppia di Madonne custodite a San Marco d’Alunzio e altri tre manufatti mariani ancora oggi visibili a Ficarra, Ucria e Castell’Umberto. In due casi (Castell’Umberto e l’Annunciata di San Marco d’Alunzio) si tratta di opere ancora inedite; le altre, pur segnalate in passato da qualche più attenta voce bibliografica, meritano invece di essere annoverate in questa rassegna perché ritenute da chi scrive prodotti di qualche buona officina palesemente aggiornata sugli esiti raggiunti da Domenico nel nono decennio del Quattrocento. La Vergine Annunciata e la Madonna della Presentazione (figg. 1, 4), collocate rispettivamente nelle Chiese Matrici di Ficarra13 e di Ucria,14 sono quelle più facilmente accostabili, malgrado la differente iconografia: simili delicatezze nei volti, contraddistinti da lineamenti dolci e regolari, e dai colli allungati; analoghe smilze silhouettes, ricoperte da mantelli i cui panneggi cingono teneramente le carni; identico ricadere delle pieghe delle vesti, Battista, alias da Como: problemi sull’identità e le opere di uno scultore del Rinascimento in Sicilia, in «Antichità viva», XV, 1976, 6, pp. 18-38. Morì nel marzo 1505. 11 Su questi tre artisti, più giovani di almeno una generazione rispetto a quelli ricordati finora, si veda il breve contributo di A. MIGLIORATO (Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 112-131, con bibliografia precedente). 12 L’unico studioso sinora occupatosi, con una certa sistematicità, della gran messe di opere di statuaria presenti in questo territorio è stato il tedesco Hanno-Walter Kruft, che nel 1972 e nel 1980 ha pubblicato due volumi monografici rispettivamente su Domenico e su Antonello Gagini. Benché necessitino di inevitabili aggiornamenti e del riordino di una parte dei materiali (specie quella relativa al Gagini junior), i due testi sono ancora oggi particolarmente meritevoli di attenzione da parte degli studiosi di scultura siciliana del Rinascimento, se non altro perché hanno il pregio di essere corredati di un buon repertorio fotografico. 13 La scultura è stata pubblicata da N. LO CASTRO, Ave, piena di grazia. L’iconografia dell’Annunciazione nella scultura del Rinascimento in Sicilia, Arti Grafiche Zuccarello, Sant’Agata Militello (ME) 2008, pp. 47-48. 14 A. BARRICELLI, Scultura devozionale e monastica inedita o poco nota dei Nebrodi, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Messina», 15, 1991, pp. 23-46, p. 2, con un’attribuzione a Gabriele di Battista, qui non condivisa. 25 che in basso al centro si appoggiano morbide sullo scannello; infine, stessa scelta della scena raffigurata nella base (Natività) e dei soggetti nelle due facce laterali (testine di cherubini). Eppure, nonostante questa comune “aria di famiglia” che li caratterizza, i due marmi non possono, a ragion veduta, ascriversi all’operato di uno stesso scultore. Sembra piuttosto che si tratti di due diverse reinterpretazioni, eseguite da maestri molto vicini tra di loro, di un unico archetipo frutto dell’invenzione del Gagini senior. A San Mauro Castelverde (Santa Maria dei Franchi, PA) e nella chiesa palermitana di San Francesco d’Assisi si conservano due Madonne del Soccorso realizzate dal ticinese, e dalle quali queste due sculture mutuano (oltre allo scannello con la Nascita di Gesù) l’assetto compositivo e l’impostazione generale (figg. 2-3).15 Certo, nel passaggio dal prototipo alle due ancora anonime derivazioni, qualcosa si perde in termini di naturalezza e raffinatezza; ma la tangenza rispetto ai modi espressivi di Domenico è lampante, tanto quanto emerge chiaramente la difformità di linguaggio tra i due distinti autori, ad ulteriore dimostrazione della varietà di declinazioni assunta dallo stile gaginiano in Sicilia. La Vergine di Ucria, almeno per tipologia, si apparenta altresì all’analoga figura albergata all’interno della chiesa palermitana di San Giuseppe dei Teatini, che Hanno-Walter Kruft nel 1972 ascrisse alla bottega di Domenico (fig. 5).16 A Termini Imerese, in provincia di Palermo, si trova poi una terza immagine mariana, che le carte d’archivio ancorano al già citato Giorgio da Milano (Santa Maria di Gesù, 1484, fig. 41), della quale una quarta, ed ultima, Madonna, custodita a Taormina in Cattedrale, replica l’impianto e lo schema compositivo (figg. 28). Siamo dunque di fronte ad un piccolo gruppo costituito da quattro statue molto vicine tra di loro, e rispetto alle quali è emerso, fino a questo momento, il nome di un solo artefice. Il manufatto taorminese sembra essere il più affine a quello eseguito da Giorgio da Milano,17 benché esso si caratterizzi anche per alcuni stilemi tipici di Gabriele di Battista. Non casualmente, infatti, Kruft ne propose l’attribuzione al lombardo, non senza ravvisarne, nel contempo, qualche tratto distintivo dello stile di Andrea 15 A loro volta queste due statue, assieme ad una terza, raffigurante una Vergine col Bambino custodita a Erice (TP, Duomo), furono a ragione reputate dal Kruft (Die Madonna von Trapani und ihre Kopien: Studien zur Madonnen-Typologie und zum Begriff der Kopie in der sizilianischen Skulptur des Quattrocento, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XIV, 1969/70 (1970), pp. 297-322 [310-313]) repliche della celebre Madonna di Trapani, spedita a Palermo (chiesa dell’Annunziata) dall’officina di Nino Pisano negli anni settanta del Trecento. Lungi però dal pensare che si tratti di pure e semplici riproposizioni di quell’antico esemplare, è da ritenere piuttosto che la continuità con cui Domenico scolpì immagini mariane aventi come prototipo il marmo toscano sia da addebitare alle richieste di una committenza affezionata a quel così fortunato modello. 16 H.-W. KRUFT, Domenico Gagini cit., p. 251. 17 Per un primo tentativo di ricostruzione del profilo di questo maestro, al quale possiamo associare un piccolo gruppo di lavori documentati, si veda M. ACCASCINA, Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 283-292. 26 Mancino.18 Nebulosi appaiono invece i profili degli autori delle sculture di Ucria e di Palermo (entrambe più sostenute qualitativamente), da ricercarsi tra gli stretti collaboratori di Domenico. Identico discorso può farsi per la frammentaria Annunciata di San Marco d’Alunzio, custodita nella chiesetta omonima e priva di capo e mani, andati distrutti in epoca imprecisata e maldestramente rifatti in gesso (fig. 6).19 A giudicare da quel che rimane dell’opera, dovette trattarsi di una delle più nobili creazioni licenziate da qualche stretto sodale del ticinese, capace anche di dar vita alla bella invenzione della città scolpita nella base. Scannelli del genere, dove ricorrono raffigurazioni più complesse e ricche di personaggi, non sono rari tra i tanti concepiti dall’officina gaginiana: basti pensare all’autografo San Giuliano di Salemi o alla Madonna, compiuta da qualche aiuto, collocata nella chiesa di Santa Maria del Monte a Caltagirone (fig. 7). Strano, invece, che non si riesca a reperire, nel corpus del maestro, un modello che abbia potuto fungere da prototipo per il marmo di cui qui si discute: il panneggio del mantello della Vergine, che si dischiude al centro lasciando emergere la veste sottostante, le cui pieghe si adagiano morbidamente sull’apice dello scannello, è uno stilema molto caratterizzato, che sinora ha trovato riscontro soltanto in un altro caso. Si tratta dell’inedita figura conservata nella Matrice di Castell’Umberto (fig. 8), che condivide con quella di San Marco d’Alunzio la non comune attenzione alla resa dei dettagli e la raffinatezza dell’intaglio. In alcuni specifici particolari, che si ripetono in entrambe le Madonne, sembrano potersi riconoscere delle vere e proprie cifre espressive dell’ancora anonimo autore. Si osservi, ad esempio, il solco, poco profondo, tracciato tra i fini capelli che si svolgono in larghe ciocche sul petto; e quella sorta di sigla stilistica, costituita dalle due spesse piegature centrali delle vesti, che poco più sopra della caviglia si flettono (come se vi fosse un improvviso ostacolo alla loro naturale caduta sulla linea retta), generando ciascuna un movimento a serpentina che prosegue fino alla base della statua. Potrebbe ipotizzarsi, se non l’identità dell’artefice, quanto meno la provenienza dalla medesima bottega. Un’ipotesi d’attribuzione può al contrario essere avanzata, se pur cautamente, per la Madonna del Soccorso ospitata entro un’ampia nicchia nella chiesa di Santa 18 H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 18-38 [28], fig. 29. Tale mescolanza di schemi e motivi figurativi, che in taluni casi sfocia in una vera e propria sovrapposizione, costituisce indubbiamente la peculiarità della produzione marmorea siciliana della fine del Quattrocento. Domenico Gagini è la figura di rilievo, cui è spettato il merito di aver aggiornato, decretandone definitivamente la fine, gli antichi modelli tardogotici. Ma quelli che, con un termine certamente improprio ma efficace, potremmo definire i suoi “seguaci”, si limitarono semplicemente a replicarne le idee, senza riuscire ad emanciparsi mai realmente dagli stilemi del ticinese. Perciò (oltre naturalmente al fatto che gli scultori erano soliti lavorare in coppia) risulta ancora oggi problematico assegnare una buona parte di queste statue ad un solo artefice. 19 Non sappiamo né quale fu la causa di tali gravi perdite né in quale epoca si provvide a fornire la statua di questi rozzi “pezzi di ricambio”. A differenza del capo e della mano sinistra, realizzati appunto in gesso, la mano destra è invece lignea. 27 Maria dell’Aiuto, ancora a San Marco d’Alunzio. Anche per quest’opera, l’archetipo che lo scultore dovette prendere in considerazione è gaginiano, e deve identificarsi con alcuni tra i più riusciti marmi, di tale soggetto, eseguiti da Domenico. Mi riferisco alle già citate figure di San Mauro Castelverde e di San Francesco d’Assisi a Palermo (figg. 2-3), delle quali questa riprende l’iconografia nella sua totalità, incluso lo scannello con la Nascita di Cristo. Alcuni elementi rievocano l’acquasantiera un tempo collocata a Trapani nella chiesa dell’Annunziata (Cappella dei Marinai), secondo alcuni compiuta da Gabriele di Battista negli anni ottanta del Quattrocento (figg. 16-17).20 I due putti reggicartiglio scolpiti nel registro superiore del manufatto trapanese sono gemelli dei due Bambini di San Marco d’Alunzio (figg. 14-15, 18), mentre la rigidità e l’estrema schematicità dei drappeggi della Vergine palesano chiare affinità con il gruppo della Visitazione custodito ad Erice, che un rogito risalente al 1497 assegna all’artista lombardo (figg. 13, 22).21 I.1.2 Un’ipotesi per l’autore dell’Incoronazione di Sant’Agata nella Cattedrale di Catania. A dispetto della notevole rilevanza che essa riveste, sia dal punto di vista artistico sia da quello liturgico (e più genericamente devozionale),22 la Cappella di Sant’Agata, assieme alla sua ricca decorazione scultorea, aspetta ancora un’adeguata attenzione da parte degli studi specialistici. Anzi, ci si potrebbe azzardare a sostenere che, pur trattando quasi ogni settore e ogni secolo della produzione figurativa in Sicilia, l’accelerazione bibliografica degli ultimi anni abbia, in modo sconcertante, dimenticato questa straordinaria testimonianza dell’arte rinascimentale, tra le più preminenti non solo di Catania, ma dell’intera isola. Gli autori più antichi, che se ne sono occupati dall’inizio del secolo scorso, hanno soprattutto insistito sulla descrizione del suo abbagliante apparato ornamentale, 20 Già H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 28-29, dirottava questa Madonna su Gabriele di Battista, sebbene limitando l’intervento dell’artista lombardo alla Natività scolpita nello scannello, e al bambino avvinghiato alle gambe della Vergine. 21 L’atto notarile è stato pubblicato da F. MELI, Costruttori e lapicidi del Lario e del Ceresio nella seconda metà del Quattrocento in Palermo. Indagine critica del loro apporto nel periodo di trapasso, dal tardo-gotico aragonese-catalano al graduale inserimento del nuovo gusto d’arte rinascimentale nazionale, in Arte e artisti dei laghi lombardi, I, Architetti e scultori del Quattrocento, a cura di E. ARSLAN, Tipografia editrice Antonio Noseda, Como 1959, pp. 238-239. 22 All’interno della cappella, e nello specifico entro il piccolo vano posto al di là del Portale di Antonello Freri, si custodiscono l’arca ed il prezioso busto argenteo a grandezza naturale. Quest’ultimo fu realizzato nel 1376 dall’orafo senese, di stanza ad Avignone, Giovanni di Bartolo in argento sbalzato e con smalti traslucidi. 28 traboccante d’oro e di marmi.23 Quelli più recenti, nel tentativo di tracciare il profilo del maestro coinvolto nell’esecuzione dei tre complessi monumentali ivi albergati, hanno rilevato le chiare discordanze formali esistenti tra il Portale d’accesso al sacello della Santa e il Sepolcro del viceré Ferdinando d’Acuña da un lato e il retablo con al centro l’Incoronazione di Sant’Agata dall’altro (fig. 55).24 Manca però ad oggi una completa e organica analisi stilistica della cappella,25 e specialmente continua a rimanere nebulosa la personalità dell’autore dell’Incoronazione, che s’innalza sull’altare di questo santuario aperto alla sinistra della tribuna della Cattedrale etnea. La coppia di monumenti che affianca la pala è invece ampiamente nota, anche perché, grazie all’iscrizione campeggiante su uno di essi, ne conosciamo l’artefice. Si tratta dello scultore messinese Antonello Freri, incaricato sullo scadere del 1494 della realizzazione del Portale e della Tomba del Viceré, collocati rispettivamente a sinistra e a destra dell’ingresso alla cappella. Allo stesso maestro il Capitolo dei Canonici e i Giurati cittadini affidarono, a giusto un anno di distanza dall’inizio dei lavori al Portale e al Sepolcro, la messa in opera della pala d’altare, così come è attestato da uno strumento notarile prodigo di particolari d’ogni sorta. Nel settembre del 1495 all’artista si chiedeva di «costruere, edificare et sculpire bene et peroptime… de lapidibus marmoreis et terre Tauromenei altarem, conam et guardapurviri, historia di la Passioni et Translacioni di la signura Sancta Agathi»; a ciò si aggiungevano i Santi Pietro e Paolo (a grandezza naturale) e gli angeli a bassorilievo con i simboli della Passione, il tutto secondo un disegno di “parchimida” (pergamena) approntato e fornito al Freri dal Capitolo e dai Giurati.26 Quando però, dopo poco meno di due anni, egli spedì a Catania la cona centrale, scolpita appunto con l’Incoronazione della Santa vergine e martire 23 C. SCIUTO PATTI, I monumenti di Sant’Agata esistenti in Catania: note storico-archeologiche, Tip. Roma di R. Bonsignore, Catania 1892, pp. 195-198; F. PATERNÒ CASTELLO, Il mausoleo del viceré don Fernardo de Acuna in Catania, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», IV, 1, 1907, pp. 125-134; G. ARDIZZONI, Sulla costruzione dell’ancona nella cappella di S. Agata nella cattedrale di Catania ritenuta sinora d’ignota origine, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», XV, 1918, pp. 224-238; V. CASAGRANDI, La fondazione della monumentale cappella di S. Agata, auspice Donna Maria d’Avila vedova del Viceré Ferdinando d’Acuna e per opera dello scultore messinese Antonio de Freri (da documenti coevi), in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1927-28, pp. 359-389; G. BASILE, Le opere di Antonio de Freri nella cappella di S. Agata nella cattedrale di Catania, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», VIII, 1, 1932, pp. 95-121. 24 F. CAGLIOTI (Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60 [53]); M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 42-44. Per le immagini del Portale e della Tomba D’Acuña, cfr. qui il Capitolo III, figg. 1, 5. 25 Per una nuova ipotesi di lettura dei due complessi marmorei che si ergono ai lati della cappella, cfr. qui il Capitolo III. 26 Il tutto doveva essere consegnato entro tre anni dalla stipula del contratto. Il rogito è stato pubblicato da G. ARDIZZONI, Sulla costruzione dell’ancona cit., pp. 224-238 [232-236]. Cfr. Appendice documentaria n. 1. 29 catanese, essa fu seguita da una missiva con la quale i committenti rifiutavano «la petra ni mandastivo per cona»,27 facendo capire che la fiducia da loro accordata ad Antonello era definitivamente venuta a mancare. Dunque, il retablo tuttora svettante all’interno della cappella non ha nulla a che vedere con il maestro peloritano, prontamente licenziato dopo l’invio del rilievo. D’altronde, come di già accennato, le discrasie che quest’ultima presenta con le opere freriane documentate erano state evidenziate già da tempo.28 La situazione si complica ulteriormente a causa di un dettaglio di non secondaria importanza riguardante il destinatario della lettera di cui sopra: invece che ad Antonello, i committenti si rivolsero ad un tale “Giovanni de Buctone”, sul quale nient’altro conosciamo, se non che, condividendo il medesimo cognome del Freri, dovette trattarsi di un suo prossimo parente.29 Riflettendo poi sul fatto che con tale appellativo (Freri o “Bottone” che dir si voglia) s’identificava a Messina una ben nota famiglia di scalpellini locali, potremmo anche ipotizzare che il Giovanni cui si fa riferimento nel documento citato fosse egli stesso un maestro del marmo, e che in quegli anni lavorasse con Antonello. Solo a questo, infatti, potrebbe addursi il suo coinvolgimento nella vicenda. Alcuni indizi porterebbero altresì ad avanzare, molto cautamente, una più ardita ipotesi, vale a dire che in Giovanni Bottone possa identificarsi proprio lo scultore cui il Capitolo e i Giurati si affidarono per veder finalmente completata la decorazione della cappella. Infatti, se si osserva con attenzione il Monumento funerario del Viceré, si nota che, al di là della diffusa omogeneità stilistica che ne caratterizza l’aspetto, le testine di cherubini scolpite nelle facce laterali dei plinti che sostengono i leoni stilofori evocano molto da vicino le analoghe sculture presenti nell’Incoronazione (figg. 65-67). Sembra dunque che uno stesso artista, a poca distanza di tempo, abbia atteso, verosimilmente in veste di collaboratore, alla Tomba del D’Acuña, e, con un intervento di più larga entità, alla pala d’altare. Per di più, se nell’autore dell’ancona si riconoscesse veramente Giovanni, meglio si 27 «Certamenti reputamo, a lu adventu di la petra ni mandastivo per cona, tiniri quista cità per Rayalbuto et lo Zirillo ne altro sindi po confidari ki essendo mastro tali più tosto laviti facto ad nostro vilipendio ki altrimenti la fazati fari, però cridimo ki tucto sirrà ad vestro danno. Tali petra rustica et senza forma per vui la lassamo et cridimo areto vi la mandari quillo ki in quisto haviriti avanzato lo tempu vi la dimostra quista cità non si merita cussì disonorata da vui ki siti statu ben tractatu…» (cfr. G. BASILE, Le opere di Antonio de Freri cit., pp. 95-121 [105]). 28 Il Basile (ibidem, pp. 110 e segg.) non solo era pienamente consapevole della alterità formale del retablo rispetto al Portale e al Monumento D’Acuña, ma, al pari di chi scrive, credeva che l’autore dell’Incoronazione, di diversa e più alta statura al confronto col Freri, fosse altresì diverso da quello che eseguì i Santi Pietro e Paolo nelle nicchie laterali e i quattro Evangelisti al di sopra di essi. 29 I Freri, o Fleri, sono ricordati nelle carte d’archivio anche come “Bottone” o “Buctunis” (cfr. ibidem, p. 95), sulla scorta di notizie emerse da alcuni strumenti rintracciati dall’erudito messinese Gaetano La Corte Cailler, che menziona i seguenti esponenti della medesima famiglia: Girolamo Buctuni mazonus, nobilis civitatis Messane, nel 1469; Ettore Buctono nel 1470; Martino o Marano, Tommaso, Luciano; Pietro Freri de civitate Messane, forse figlio di Antonio, nel 1496; Giovanni de Buctuno nel 1497; Filippo Buctoni o Bittoni mazonus nel 1555; Giuseppe Bottone nel 1561; Domenico Buctono nel 1556. 30 spiegherebbe la stretta dipendenza iconografica esistente tra l’Incoronazione ancor oggi ospitata nella cappella e un bassorilievo d’identico soggetto che Stefano Bottari nel 1965 vedeva nell’ex collegio gesuita di Catania e che attualmente è custodito nel Museo Civico di Castell’Ursino (fig. 56). Questo manufatto, nel quale si propone qui d’identificare appunto la prima versione dell’ancona eseguita da Antonello Freri, e da questi spedita nella città etnea nel 1497 e rifiutata dalla committenza, dovette costituire in effetti l’archetipo di quello conservato in Cattedrale.30 Ciò indurrebbe a pensare che soltanto uno stretto collaboratore, che ben conosceva quel modello, avrebbe potuto tenerne conto in maniera così vincolante nello scolpire il marmo nella sua ultima, e definitiva, redazione (figg. 55-56). E dunque, chi poté sostituire Antonello Freri meglio del consanguineo, e (forse) aiuto, Giovanni, ragionevolmente chiamato perché di già nel novero degli scalpellini affermati e attivi nell’area orientale dell’isola sullo scorcio del XV secolo?31 Non bisogna dimenticare che in questi anni, precedenti l’arrivo di Antonello Gagini, l’unica officina del marmo insediata a Messina di cui sia rimasta qualche traccia documentaria, e che godeva di una certa notorietà anche al di fuori degli stretti confini peloritani, sembra essere stata proprio quella freriana. Potrebbe dunque essere verosimile che, in mancanza di concorrenza (ma anche perché gli stessi committenti avrebbero reputato meno faticoso incaricare qualcuno già noto piuttosto che uno sconosciuto), proprio Giovanni abbia preso il posto di Antonello. Sebbene l’Incoronazione si presti a poche variazioni sul tema, essendo un soggetto che, sul finire del Quattrocento, aveva oramai ricevuto una sorta di “normalizzazione” iconografica, non va tuttavia sottolineata l’uniformità tipologica manifesta tra i due manufatti catanesi, identici fin nei minimi dettagli, tra cui, ad esempio, gli archi acuti concentrici scolpiti nello sfondo della scena, o la presenza dei cherubini sul bordo della tavola marmorea. Appare effettivamente singolare che un nuovo artefice, chiamato dai committenti dopo il rifiuto dell’opera freriana, e che con il Freri non ebbe alcuna relazione, poté ricordarsi della sfortunata creazione del licenziato maestro a tal punto da rievocarne ogni minuto particolare nella propria, definitiva, versione. Ecco perché in questa sede si preferisce avanzare l’ipotesi che l’autore di questa sia stato Giovanni Bottone, il quale poté 30 L’opera fu pubblicata per la prima, ed unica volta, da S. BOTTARI, Note sull’opera di Antonello Freri, in Arte e artisti dei laghi lombardi, I, Architetti e scultori del Quattrocento, pubblicazione curata da E. ARSLAN, Tipografia editrice Antonio Noseda, Como 1959, p. 82, tav. XX, fig. 50. 31 A tale proposito, è forse utile rammentare che, in questa precisa congiuntura storica, nell’ambito della produzione scultorea, la situazione siciliana vedeva Palermo rimasta da poco orfana di Domenico Gagini, vale a dire del principale artista che, negli ultimi trent’anni, aveva accentrato attorno alla propria officina i migliori talenti, non solo locali, ma anche giunti specialmente dalla Lombardia e dalla Toscana in cerca di commesse. A Messina, invece, le sorti dell’arte della pietra aspettavano, per risollevarsi, la comparsa di un maestro che prendesse le redini di un oramai troppo attardato panorama figurativo, rinnovandone modelli e tipologie. Tale ruolo fu assolto egregiamente da Antonello Gagini, figlio di Domenico, la cui presenza in città è attestata dal 1498 al 1508 circa. 31 forse aver visto Antonello alle prese con l’Incoronazione. D’altro canto, la connessione tipologica tra i due manufatti è tanto palese quanto sconcerta la difformità stilistica che li contraddistingue: alla linearità ed essenzialità dei compatti volumi del marmo freriano corrisponde la raffinatezza e l’eleganza del tratto distintivo dell’artefice della cona oggi in cappella; alla sommarietà di taglio del primo si oppone la ricercatezza e la nobiltà d’incisione del secondo. Lo scarto tra le due sculture deve dunque spiegarsi come il passaggio ad uno stile intrinsecamente diverso. Se, infatti, come si è già notato per il Portale e per la Tomba del Viceré,32 Antonello in questi anni era rimasto ancorato ad un linguaggio anacronisticamente tardogotico, non a giorno dunque dei bagliori rinascimentali che oramai da tempo illuminavano numerose località della Penisola, il consanguineo Giovanni palesa, al contrario, di aver recepito e meditato su tali novità, che in Sicilia erano state importate per la prima volta da Domenico Gagini.33 Non è un caso che un valido termine di confronto per la pala etnea sia stato rintracciato da chi scrive proprio tra le tante opere che nel 1972 HannoWalter Kruft inserì nel catalogo del Gagini senior. Si tratta della Madonna del Soccorso ospitata nella Chiesa Madre di Corleone (PA, figg. 57, 60), che il Kruft assegnò più genericamente all’operato della bottega di Domenico, sulla base delle analogie con la documentata statua mariana custodita a San Mauro Castelverde (PA, Santa Maria dei Franchi, 1480 circa, fig. 2).34 I modi dolci e gentili dell’Incoronazione che si erge nella Cappella di Sant’Agata si apparentano strettamente a quelli della scultura corleonese, tanto da condividerne anche i dettagli più minuti, tra cui i volti, dagli occhi a mandorla, i nasi stretti e appuntiti e le bocche strette; i capelli, che scendono sulle spalle con piccoli e regolari solchi; le mani, dalle dita lunghe e affusolate; i panneggi, che morbidamente segnano i profili dei corpi (figg. 57-62); infine, le testine tonde e paffute dei cherubini, le quali evocano il bambino che cerca protezione ancorandosi alla veste della Madonna di Corleone, ma anche le analoghe figure presenti nella Tomba del Viceré (figg. 6467). La vicinanza dell’autore della pala catanese a Domenico Gagini non è un argomento a sfavore della proposta d’identificazione di quel maestro con il Giovanni Bottone di cui qui si discute. È ben noto che Domenico morì intorno al 1492 a Palermo, e dunque è verosimile che i suoi allievi, o più in generale gli scultori che si erano trovati a lavorare con lui, una volta venuto a mancare il capobottega si fossero organizzati ciascuno autonomamente.35 E se tra i discepoli 32 Cfr. qui il Capitolo III. Domenico Gagini, che era cresciuto con Filippo Brunelleschi a Firenze, e che di questo apprendistato presso il celebre fiorentino portò i frutti anche in Sicilia, si trasferì definitivamente a Palermo alla fine del sesto decennio del Quattrocento. Per la ricostruzione del periodo giovanile del Gagini senior cfr. F. CAGLIOTI, Sull’esordio brunelleschiano di Domenico Gagini cit., pp. 70-90. 34 H.-W. KRUFT, Domenico Gagini cit., figg. 86-87, 179-182, pp. 239 (cat. 14), 256 (cat. 82). 35 Qualcuno si unì in società con altri, costituendo vere e proprie officine largamente operose. Il carrarese Andrea Mancino, ad esempio, era socio di Domenico Gagini dal 1491, e collaborò anche 33 32 gaginiani vi fosse stato anche Giovanni, sarebbe credibile che questi, originario di Messina e appartenente ad una famiglia di scalpellini peloritana, sia rientrato in patria, dove sapeva bene di poter contare sulla bottega di Antonello nel non facile cambio di città e di committenza. Tutto deve comunque essere accolto col beneficio del dubbio, ad eccezione della straordinaria prossimità dell’artefice della statua corleonese e dell’Incoronazione (sia o non sia il Bottone) al linguaggio di Domenico Gagini tra il penultimo e l’ultimo decennio del XV secolo. I.2 Per una rilettura dell’opera di Gabriele di Battista: i gruppi delle Annunciazioni di Ucria e Buscemi e la Santa Caterina d’Alessandria di Taormina. Il profilo di Gabriele di Battista, attivo a Palermo per poco più di un ventennio (è documentato dal 1480 al 1503), e ricordato dal Privilegium pro marmorariis et fabricatoribus al terzo posto, dopo Domenico Gagini e Pietro da Bonate, appare ancora particolarmente sfumato, talora confuso tra i tanti maestri operosi nel medesimo torno di tempo. Ad oggi, l’indagine più articolata e coerente dell’attività dello scultore lombardo è quella condotta nel 1976 dal Kruft, che ci ha dunque lasciato un primo tentativo di ricostruzione del suo corpus, partendo innanzitutto dalle opere documentate.36 Così, oltre a quello che deve reputarsi il più antico lavoro di Gabriele eseguito in terra sicula,37 vale a dire l’acquasantiera di Santa Lucia del Mela (Chiesa Matrice), e alla già nota Visitazione custodita ad Erice nella chiesa di San Giovanni Battista (1497, figg. 13, 22), gli sono stati opportunamente restituiti una seconda, e bella pila dell’acqua santa oggi nel Museo Pepoli di Trapani (già all’Annunziata, Cappella dei Marinai, figg. 15-17), nonché i pannelli dell’arco della Cappella di Santa Cristina per il Duomo di Palermo (attualmente nel locale Museo Diocesano).38 con Giovannello, il primo figlio del Gagini senior morto prematuramente (cfr. H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 18-38). 36 H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 18-38. Prima di Kruft, se ne erano occupati M. ACCASCINA, Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 294-298, e F. MELI, Costruttori e lapicidi cit., pp. 212-215. 37 Dell’attività di Gabriele in patria, come di quella della gran parte dei marmorari “forestieri” operosi in questo periodo in Sicilia, non rimane alcuna traccia. 38 L’atto notarile relativo all’acquasantiera trapanese (cfr. F. MELI, Matteo Carnilivari e l’architettura del Quattro e Cinquecento in Palermo (da documenti inediti), Palombi, Roma 1958, p. 273-274, doc. n. 94) cita anche un certo Antonio Pruni (o Prone), col quale Gabriele avrebbe dovuto dividere il lavoro. Il marmo è datato 1486, ma al 1491 risale una seconda carta d’archivio, dalla quale risulta che il Prone non aveva ottemperato all’impegno preso, e che dunque fu sostituito dal Di Battista, cui spettò il saldo del pagamento pattuito. La vicenda è stata ricostruita da H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 18-38 [21], il quale ha assegnato ad Antonio Prone soltanto l’angelo che svetta sulla cupola dell’acquasantiera e le testine di cherubini ai lati del registro inferiore, dov’è raffigurata la nave simbolo dei committenti dell’opera. Per l’incarico dell’arco della 33 Almeno per ciò che concerne le sculture compiute in autonomia, senza cioè la collaborazione di un collega: scorrendone infatti il catalogo, si nota come una buona parte delle imprese nelle quali egli si trovò coinvolto fu in definitiva realizzata con il concorso di altri scalpellini, dei quali non è ancora sufficientemente chiaro il ruolo. Al 1490, ad esempio, risale una Madonna col Bambino (Marsala, Cattedrale, già Santa Maria delle Grotta), commissionata a Gabriele e ad un non meglio conosciuto Jacopo di Benedetto;39 nel 1499 e nel 1503, col contributo di Domenico Pellegrino, Gabriele dovette invece consegnare altre due immagini mariane, da inviare rispettivamente a Mirto (Santa Maria della Catena, fig. 19) e a Siracusa (Santa Maria di Gesù).40 A ben vedere, se si escludono le acquasantiere e i rilievi con le Storie di Santa Cristina, le uniche opere monumentali superstiti che con sicurezza possano ricondursi all’intervento del solo Di Battista devono identificarsi nelle due figure della Vergine e della Santa Elisabetta di Erice, attraverso le quali leggiamo il punto di stile raggiunto dal maestro sullo scadere del XV secolo. Si tratta di marmi dalle forme estremamente lineari, quasi essenziali nell’esasperata assialità e nell’accentuata durezza dei lineamenti e dei gesti: a riprova di ciò, basti osservarne le mani, che, nel loro fendere l’aria come due lame affilate, risultano sostanzialmente prive di alcuna connessione con i corpi cui pure appartengono. Analoghi modi espressivi si ritrovano in una Santa Caterina d’Alessandria collocata su un alto basamento all’interno della chiesetta omonima a Taormina, e datata sul bordo superiore dello scannello 1493 (figg. 21, 24, 35). Il capo, dall’ovale visibilmente allungato, il naso fino e dritto, il mento sporgente e i capelli tracciati in grosse ciocche che si arrestano giusto al di sotto del collo; la mano destra che sembra paralizzata in una sorta di algida saldezza (la sinistra si piega leggermente nell’atto di reggere il libro); i panneggi, che si sviluppano in pieghe indurite e inamidate, e culminanti alla base con linee appuntite; infine, le figure, nel loro generale impianto compositivo, assicurate fermamente ad una posa rigida che non lascia trasparire alcun accenno di moto, rimandano proprio alla Visitazione, di qualche anno successiva alla Santa taorminese. A quest’ultima, nonché alla Visitazione di Erice, si accomunano altresì due gruppi con le Annunciazioni, costituiti entrambi dalla Vergine Annunciata e dall’Arcangelo Gabriele a grandezza naturale. Essi si conservano ad Ucria (chiesa dell’Annunziata, fig. 23) e a Buscemi (SR, Carmine, figg. 25-26), ed esibiscono tutti i tratti distintivi dello stile del Di cappella dedicata a Santa Cristina nel Duomo di Palermo (rogiti dal 1499 al 1501), cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 217, nota 2. 39 Spetta al Kruft (Gabriele di Battista, alias da Como cit., pp. 20-21) il merito di aver riconosciuto in questa statua quella commissionata ai due maestri nel 1490. In precedenza, Maria Accascina (Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 295-296) propendeva per l’identificazione con una Vergine col Bambino da sempre esistente nella Cattedrale di Marsala, e che palesa riferimenti alla bottega di Domenico molto più espliciti di quelli del marmo un tempo nella chiesa di Santa Maria della Grotta. 40 F. MELI, Costruttori e lapicidi cit., pp. 212-215. 34 Battista poco sopra enucleati, che indurrebbero a datare le quattro statue approssimativamente tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento.41 Nel concludere questa breve indagine sull’attività dello scultore lombardo, occorre accennare infine ad una Madonna col Bambino (Madonna della Catena), collocata nella chiesa del Santissimo Salvatore di Sant’Angelo di Brolo (ME), la quale appare una sorta di “brutta copia” della statua, d’identico soggetto, compiuta da Gabriele e da Giandomenico Pellegrino per la Matrice di Mirto (ME, figg. 19-20).42 I.3 Una postilla al carrarese Andrea Mancino e un’aggiunta al catalogo di Antonio Vanello. Dalla ultimi anni ottanta del secolo, Gabriele di Battista risultava in società con Andrea Mancino, che, al pari del più giovane collega Giuliano, dovette essere originario di Carrara, e che, tra i marmorari sinora ricordati, è quello la cui attività è la meno documentata. Stando alle carte d’archivio rinvenute da Gioacchino di Marzo, egli sarebbe stato attivo a Palermo per soli otto anni (1488-1495), ma dobbiamo di certo supporre che tali limiti cronologici possano estendersi, sia prima che dopo.43 D’altronde, se solo si considera che anch’egli è menzionato nell’elenco degli scalpellini che nel 1487 ottennero il privilegio concesso dalla Universitas urbis Panormi, ci s’immagina che egli dovette sbarcare in città dalla Lunigiana ben prima di quell’anno. Benché nel 1959 Maria Accascina, in un tentativo di ricostruzione della personalità di questo maestro, abbia ricondotto al suo operato un numero piuttosto cospicuo di lavori, ciò nondimeno la natura assai eterogenea dei materiali pubblicati dalla studiosa induce a pensare che siamo ancora lontani dall’aver individuato un coerente e verosimile profilo dell’artista toscano.44 41 Una prima, minuta riproduzione fotografica del gruppo di Ucria è contenuta nel testo, dedicato appunto al tema dell’Annunciazione, di N. LO CASTRO, Ave, piena di grazia. L’iconografia dell’Annunciazione nella scultura del Rinascimento in Sicilia, Arti Grafiche Zuccarello, Sant’Agata Militello (ME) 2008, p. 47, nel quale si propone che le sculture siano ascritte a Giuliano Mancino, e che si datino al 1513, epoca cui risalirebbe, secondo quanto riportato da VITO AMICO (Dizionario topografico della Sicilia, tradotto e annotato da G. DI MARZO, 2 voll., Tipografia di Pietro Morvillo, Salvatore di Marzo Editore, Palermo 1858-1859, I, p. 145), l’erezione della chiesa ad opera dei frati minori. Ma lo stile dell’artista toscano, che appartenne alla seconda generazione di marmorari “stranieri” operanti nella Palermo dei primi anni del XVI secolo, diverge sensibilmente da quello dell’autore delle statue di Ucria. 42 Quest’opera, unitamente alla Santa Caterina di Taormina, è inedita. Le Annunciazioni di Ucria e di Buscemi, invece, sono state pubblicate (la prima con un’attribuzione a Giuliano Mancino che qui non si condivide, la seconda con un riferimento dubitativo a Gabriele di Battista) da N. LO CASTRO, Ave, piena di grazia cit., pp. 45 e 47. 43 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, pp. 49-53, II, pp. 2-6, 9-12. 44 M. ACCASCINA, Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 297-307. Oltre alle opere qui menzionate, la studiosa assegnava al Mancino i Portali della chiesa di Santa Maria la Porta a 35 Mi limito in questa sede ad osservare che, tra le sue imprese documentate (una Vergine col Bambino destinata a Carini, due statue a grandezza naturale raffiguranti la Natività per Termini Imerese, ed un altare eucaristico collocato nel Duomo di Nicosia, fig. 31), a ragione ritenute dalla studiosa imprescindibile punto di partenza per l’analisi del linguaggio del Mancino, è stata inspiegabilmente ignorata la Madonna eseguita per la chiesa di San Francesco a Marsala, e tuttora in loco (fig. 27). L’esistenza di questa scultura, a mio avviso, merita un’attenzione specifica, perché nello strumento notarile, datato 23 novembre 1491, col quale un certo Bernardo Barbaro «de terra Marsalie» chiedeva al Mancino di «facere et costruere unam statuam, seu figuram marmoream, sub vocabulo Beate Marie Virginis de Loritu, ad opus cappelle domini magnifici don Bernardi Barbaro intus conventum Sancti Francisci, terre Marsalie predicte», si nominava Domenico Gagini quale garante primo e autorevole dell’impegno assunto dal carrarese.45 Ciò contribuisce a rafforzare l’idea che quest’ultimo abbia collaborato col Gagini per un certo periodo di tempo, magari operando all’interno della sua officina, e che dunque abbia recepito alcuni dei modi espressivi del lombardo. D’altronde, la stessa figura di Marsala, che da quanto si evince dal rogito fu compiuta dal solo Andrea,46 sebbene si allontani dalle migliori prove di Domenico in termini di raffinatezza e grazia dell’intaglio, al contrario vi si approssima per la tipologia: essa, infatti, replica le belle immagini mariane (sul tipo della Madonna lactans) che il Gagini senior eseguì per il Duomo di Mazara del Vallo e per la chiesa di San Domenico a Siracusa (oggi Galleria Nazionale di Palazzo Bellomo).47 È ben noto, altresì, che il Mancino, intorno al 1488, avesse stretto un sodalizio con Gabriele di Battista, impegnandosi assieme al lombardo a consegnare alcune colonne destinate ad importanti, costruende fabbriche palermitane.48 Potrebbe dunque attribuirsi alla consuetudine con il Di Battista la natura tutt’altro che uniforme della già citata Vergine della Presentazione della Cattedrale di Taormina, Geraci Siculo, della Cappella dei Genovesi in San Francesco a Palermo e della Chiesa Madre di Mistretta, nonché l’altare eucaristico eretto nella Chiesa Matrice di Collesano, tutte imprese a suo parere compiute con il contributo di Giovannello Gagini; autonomamente, invece, secondo la Accascina, Mancino avrebbe eseguito il Monumento funebre di Elisabetta Amodei (Palermo, San Francesco) ed una Santa Caterina d’Alessandria che la studiosa segnala (senza pubblicare alcuna fotografia) a “Castanea”, e che in questa sede si ritiene debba identificarsi con la statua esistente a Castell’Umberto (antica Castanea di Naso), i cui caratteri stilistici divergono però sensibilmente da quelli che possono rintracciarsi nei marmi dell’artista toscano. 45 F. MELI, Attività artistica di Domenico Gagini in Palermo, in Arte e artisti dei laghi lombardi, I, Architetti e scultori del Quattrocento, a cura di E. ARSLAN, Tipografia editrice Antonio Noseda, Como 1959, pp. 262-264; H.-W. KRUFT, Domenico Gagini cit., p. 272 doc. n. XLVII. 46 Già il Kruft (ibidem, p. 243) era convinto che Domenico Gagini non avesse partecipato concretamente alla realizzazione del marmo. 47 Opere del genere ripropongono, a loro volta, altre immagini mariane di mano del Gagini senior, quali la Vergine col Bambino custodita nel Duomo di Erice (anni settanta del Quattrocento), la Madonna del Soccorso di San Mauro Castelverde (Santa Maria dei Franchi), o ancora la Madonna del Cardillo, oggi a Siracusa nel Museo di Palazzo Bellomo ma proveniente dalla locale chiesa di San Domenico. 48 Cfr. supra, nota 7. 36 a suo tempo ricondotta dal Kruft alla collaborazione tra i due colleghi. In effetti, in questo marmo, se la durezza e la rigidità dei drappeggi rievocano fortemente la maniera di Gabriele al tempo della Visitazione di Erice, la dolce espressione del volto e la gracile esilità dei lineamenti rimandano, al contrario, alla documentata Madonna di Marsala.49 Un ulteriore elemento utile ad avvalorare una certa dimestichezza tra i due maestri, forse giunti a condividere la bottega negli anni novanta del secolo, potrebbe reputarsi l’esistenza di alcuni scannelli nei quali è manifesta la riproposizione, sia tipologica che stilistica, di stilemi comuni a quelli esibiti nella base della già citata Santa Caterina di Taormina. Si tratta dei plinti che sostengono le figure di un San Michele (Calatafimi, chiesa omonima, 1499, fig. 29) e di due Sante Caterine, collocate rispettivamente nel monastero di San Martino delle Scale (PA, fig. 30) e a Mistretta (ME, chiesa omonima, 1498, fig. 32), di già ascritte ad Andrea da Maria Accascina.50 Se tale proposta attributiva fosse corretta,51 allora l’affinità tra gli scannelli di queste sculture manciniane e quello della Santa taorminese (figg. 33-35) farebbe pensare, almeno in relazione alle figure su di essi scolpite, all’intervento di un comune collaboratore. Tra questi, degno di nota deve reputarsi un altro carrarese, Antonio Vanello, la cui presenza in Sicilia è attestata già dal 1475, e che è anch’egli menzionato nel Privilegium. Al 1500 risale la commissione di una statua della Vergine che i due scultori avrebbero dovuto destinare al Duomo di Caccamo (PA, fig. 38), la quale palesa evidenti comunanze con le opere note di Andrea Mancino, tra cui la propensione a stirare le vesti in spesse e dure pieghe che scendono in linea retta 49 In relazione alla statua taorminese, potrebbe risultare ulteriormente probante il confronto con la Santa Caterina (sempre a Taormina, figg. 21, 24) e con l’Annunciata del gruppo di Ucria (fig. 23), qui attribuiti a Gabriele. Un’aggiunta al catalogo di questo maestro è stata proposta da R. NALDI, Una proposta per Gabriele di Battista da Como, in Interventi sulla “questione meridionale”, a cura di F. ABBATE, Donzelli, Roma 2005, pp. 77-80: si tratta di una Madonna col Bambino in collezione privata che lo studioso confronta con la Vergine che affianca la Santa Elisabetta nel già citato gruppo con la Visitazione custodito ad Erice (figg. 13, 22). Per quanto una certa affinità tra le due sculture esista, non credo che essa sia sufficiente a dimostrare l’identità del loro autore, che nell’opera pubblicata dallo studioso sembra procedere per piani e linee molto più addolciti e aggraziati di quanto non possa vedersi nelle prove sinora menzionate del lombardo. Registrando anch’egli una vistosa divergenza con i modi espressivi tipici del Di Battista, il Naldi tende a spiegare tale cambio di registro con la sua vicinanza, anche fisica, ad Antonello Gagini sul finire del secolo. Ma mi sembra un’ipotesi un po’ azzardata. Le ultime notizie relative a Gabriele datano al 1503 (egli risulta attivo dal 1480), e Antonello dovette rientrare nell’isola, dopo un periodo di apprendistato presso la bottega di Benedetto da Maiano, intorno al 1498. I tempi per un’eventuale ricezione, anche superficiale, da parte del Di Battista del linguaggio del Gagini junior sono piuttosto stretti. Ciò non toglie che l’ambito d’appartenenza del marmo in questione debba riconoscersi in quello del lombardo. 50 M. ACCASCINA, Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 305-306. 51 A tale riguardo si osservi il raffronto tra queste figure e la Madonna parte del Presepio commissionato al Mancino nel 1494 per la chiesa dell’Annunciata di Termini Imerese (fig. 31). Tra le tre aggiunte al corpus del carrarese suggerite dalla studiosa, il San Michele mi sembra quella più debole: il suo impianto compositivo è talmente esile e malfermo da far supporre il contributo di un più modesto aiuto di bottega. 37 giù sino ai piedi (figg. 30-31).52 Altre due sculture a grandezza naturale possono ascriversi all’operato del solo Vanello,53 e si tratta delle immagini mariane custodite a Petralia Soprana nei pressi di Palermo (Santa Maria di Loreto, fig. 39) e nella Cattedrale di Patti (ME, fig. 37). Sono entrambe firmate: la prima è ospitata all’interno di una nicchia ricavata al centro di un imponente retablo decorato con Storie della Vita di Gesù, visibilmente più tarde e perciò ricondotte a Giandomenico Gagini;54 la seconda, invece, reca nello scannello, oltre alla firma dell’artefice, la data (1505).55 Ebbene, all’interno della Chiesa Madre di Caltavuturo si conserva un’inedita Madonna col Bambino che può agilmente accostarsi a questi ultimi due marmi (fig. 36): analoghe soluzioni si riscontrano nel trattamento dei panneggi, che per un verso segnano le linee del corpo, e che per l’altro si sviluppano in pieghe zigzagate a doppia falda molto aderenti tra di loro; nei volti, tondeggianti, dalle bocche piccole e serrate e dai capelli con grosse ciocche che si arrestano sul collo; infine, nelle figure dei Bambini, paffuti, dai lineamenti particolarmente pronunciati, e dal ciuffetto di capelli che sporge in avanti al centro della fronte. I.4 Qualche (ri)considerazione sull’opera di Giorgio da Milano. Di Giorgio da Milano e della sua attività prevalentemente rivolta ai comuni delle Madonie si è già accennato.56 Fu forse a causa di una controversia scoppiata con Domenico Gagini che il maestro, prima girovagando tra Cefalù e Termini Imerese, scelse infine di rifugiarsi nelle Madonie, costellate di piccoli ma ricchi borghi prodighi di commesse. A Termini egli lasciò due lavori documentati, vale a dire la già menzionata Madonna col Bambino in Santa Maria di Gesù (fig. 41), ed una Vergine del Soccorso, oggi nel Duomo, identificata con quella commissionatagli 52 H.-W. KRUFT, Gabriele di Battista, alias da Como cit., p. 28. Purtroppo non è facile appurare quanto e in cosa debba addebitarsi all’intervento del Vanello. Se si confronta questa statua con le due, di identico soggetto, che con certezza possiamo attribuire a questo maestro (fig. 37), risaltano le differenze piuttosto che le comunanze, il che ci fa pensare che il marmo di Caccamo sia una creazione autonoma del Mancino. 53 Alle opere menzionate nel testo si aggiungono un altare eucaristico compiuto assieme ad Andrea Mancino e ancora oggi collocato nel Duomo di Nicosia (EN) e il Portale della chiesa di San Giovanni di Baida a Palermo (1506). 54 E. MAUCERI, Nuovi documenti intorno a Domenico Gagini e ad altri scultori del tempo, in «Rassegna bibliografica dell’arte italiana», VI, 1903, pp. 8-9; G. MACALUSO, Petralia Soprana. Guida alla storia e all’arte, Comune di Petralia 1986, pp. 21-23. DANTE BERNINI (Il retablo di Petralia Sottana, in «Kalòs», 6, 1994, pp. 4-11 [10-11]) non si è accorto che la Madonna non è pertinente all’ancona marmorea. 55 HOC OPUS FECIT M ANT.NI VANELLI PA[N]O[R]MI 1505 (cfr. R. MAGISTRI, V. PORRAZZO, La Cattedrale di Patti, Edizioni del Santuario, Tindari 1990, pp. 64-65). 56 Cfr. supra, nota 9. 38 per la chiesa di San Domenico (fig. 40).57 A Castelbuono (PA, Chiesa Madre) e a Polizzi Generosa (PA, confraternita del Corpus Domini, 1496), invece, il lombardo eresse due grandiosi altari eucaristici a parete, ai quali Maria Accascina accostò quelli custoditi nelle matrici di Collesano (PA, 1488), Isnello (PA, 1489, fig. 42) e Cammarata (1490).58 Di fronte ad opere del genere, alla cui esecuzione dovette partecipare più di un artefice, è particolarmente arduo determinare in maniera netta e definitiva i singoli interventi.59 La stessa Accascina, individuando alcune discordanze stilistiche all’interno del retablo di Collesano, parlava di una collaborazione tra «almeno tre scultori diversi», che ella riconosceva in Domenico e Giovannello Gagini, oltre che naturalmente nello stesso Giorgio da Milano. Non potendo in questa sede pretendere di chiarire la molteplicità di scambi tra le varie maestranze operose per quest’area della Sicilia negli ultimi due decenni del Quattrocento, mi limito ad osservare che nella Chiesa Madre di Ucria si conserva un’inedita edicola eucaristica molto simile a quella conservata ad Isnello (fig. 43). Sebbene ne condividano la tipologia,60 questi due ultimi marmi si caratterizzano per stilemi differenti da quelli esibiti dalle custodie che la Accascina ha dirottato verso l’officina del Da Milano. Se si prende in considerazione la documentata pala di Castelbuono, appare evidente che ci troviamo di fronte a due distinti autori, forse 57 I. DE MICHELE, Due statue del sec. XV in S. Maria di Gesù, in «Nuove effemeridi siciliane», 1870, pp. 135-136; G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 59. 58 M. ACCASCINA, Sculptores habitatores Panormi cit., pp. 288-289. 59 Si tratta di opere monumentali, specie quelle di Castelbuono, Polizzi Generosa e Collesano, che occupano la parete di fondo dell’abside dell’edificio di culto, e che (come nel caso di Polizzi) misurano cinque metri d’altezza e quasi quattro di larghezza. È opportuno ricordare che questa specifica tipologia di altare eucaristico, che assume le fattezze, oltre che le dimensioni, di una sorta di polittico marmoreo, fu importata in Sicilia dal solito Domenico Gagini, e testimonia la molteplicità degli influssi (tra Lombardia, Liguria e Toscana) introiettati da questo scultore girovago. Sfortunatamente non è pervenuta alcuna pala eucaristica siciliana autografa del Gagini senior, ma a Portovenere (SP), nella chiesa di San Lorenzo, si custodisce una graziosa ancona racchiudente al centro l’immagine miracolosa di Santa Maria Bianca, giustamente restituita al lombardo da CATERINA RAPETTI (Storie di marmo. Sculture del Rinascimento tra Liguria e Toscana, Electa, Milano 1998, pp. 31, 105-109; si veda anche C. DI FABIO, Domenico Gagini da Bissone a Firenze e a Genova con una postilla per suo nipote Elia, in Genova e l’Europa continentale: opere, artisti, committenti, collezionisti. Austria, Germania, Svizzera, a cura di P. BOCCARDO e C. DI FABIO, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2004, pp. 48-71 [54-55]). Malgrado che non si tratti propriamente di un’edicola delle Sacre Specie, credo tuttavia che non vi siano ostacoli a sostenere che i vari retabli qui menzionati derivino, per forme, motivi e repertorio figurativo, proprio da opere come quella di Portovenere, che Domenico dovette eseguire durante la sua decennale permanenza a Genova (1446-56). 60 La struttura di base è costituita da un registro inferiore con tabernacolo sormontato da baldacchino entro colonnine tortili affiancate da angeli reggicortina, e trabeazione, decorata con testine di cherubini, che regge una lunetta variamente scolpita ai cui lati svettano alti candelabri. A Castelbuono, Polizzi e Collesano, però, il livello superiore, piuttosto che terminare con la sola lunetta svettante sulla trabeazione, si complica per l’inserimento di un pannello mediano, raffigurante la Crocifissione. Inoltre, ai lati del repositorio delle Sacre Specie, a differenza che nelle edicolette di Isnello e di Ucria, qui si aggiungono altri rilievi (tre per lato), che recano scolpite figure di Santi o Scene della Vita di Cristo. 39 accomunati solo dalla collaborazione all’interno della medesima bottega: si osservino, ad esempio, nelle sculture di Isnello e di Ucria, la disinvoltura con cui gli spigliati e aggraziati angioletti sostengono i drappi, a fronte della goffa rigidezza delle analoghe figure di Castelbuono, bloccate in una posa affettata (fig. 42). Sembra che, al di là dell’intervento di un maestro diverso, in quest’ultima opera si ravvisi anche una flessione stilistica verosimilmente dovuta alla larga partecipazione degli aiuti. A questo proposito, non è un caso che Hanno-Walter Kruft, pur conoscendo il contributo della Accascina, abbia pubblicato l’altare di Isnello come lavoro licenziato dall’entourage di Domenico Gagini, proprio in virtù della nobiltà dell’intaglio che in esso si può riscontrare.61 La vicenda è particolarmente spinosa, ed il punto di svolta sarebbe capire quale sia il più autentico e “genuino” Giorgio da Milano. Come sopra accennato, le due Madonne di Termini Imerese sono entrambe a lui riconducibili grazie alle rispettive carte d’archivio; eppure, la discrasia tra i rispettivi modi espressivi credo risalti facilmente (figg. 40-41). La si può spiegare ipotizzando l’esistenza di una variegata e nutrita officina, con collaboratori non solo operosi, ma anche particolarmente autonomi, cui il capomastro non dovette negare commesse di una certa rilevanza. Personalmente, sono portata a pensare che la Vergine della chiesa del Gesù sia quella in cui più schiettamente si palesa il linguaggio di Giorgio, perché ravvedo simili caratteri in un’Annunciazione, custodita a Cefalù, e commissionata all’artista lombardo entro il 1485 (figg. 41, 47).62 In quest’ultima opera, la Madonna si accosta al marmo di Santa Maria di Gesù per la medesima smilza silhouette, per l’ovale del volto, dai lineamenti dolci ma decisi, per l’analogo sviluppo dei panneggi, con al centro pieghe larghe e morbide, sul lato più piccole e un po’ dure, quasi inamidate. A guardar bene, in cima all’edicola di Isnello, su due alti plinti s’innalzano un’Annunciata ed un Arcangelo Gabriele, che palesano stringenti affinità con il gruppo, di identico soggetto, a Cefalù. In via del tutto ipotetica, e se la lettura qui proposta delle opere si rivelasse corretta, potrebbe dunque proporsi l’attribuzione al Da Milano dei tabernacoli di Castelbuono, Isnello e Ucria, benché con differenti gradi di autografia, a tutto vantaggio degli ultimi due. 61 H.-W. KRUFT, Domenico Gagini cit., p. 242, figg. 244-247. L’ascrizione dell’Annunciazione a Giorgio da Milano, già proposta da C. VALENZIANO (La basilica ruggeriana di Cefalù nei documenti d’archivio e nelle epigrafi, in La Cattedrale di Cefalù. Materiali per la conoscenza storica e il restauro, Palermo 1972), è stata successivamente consolidata da G. ROCCO (Giorgio da Milano e l’Annunciazione della Cattedrale di Cefalù, in «Paleokastro», IV, 16, luglio 2005, pp. 5-8), il quale ha rintracciato un rogito del 1485 col quale si affidava al lombardo l’incarico di rimaneggiare le ali dell’angelo e di provvedere ad una migliore sistemazione della zona dell’altare maggiore. Quest’ultimo, nel quale deve riconoscersi una vera e propria pala eucaristica, doveva essere dotato di pilastri marmorei su cui l’Angelo e la Vergine avrebbero dovuto innalzarsi (proprio come nell’edicola di Isnello). 62 40 I.5 Una nuova proposta per le Annunciazioni di Modica e Tortorici. Questa breve rassegna di lavori licenziati dalle botteghe palermitane, alcuni inediti, altri poco conosciuti, altri ancora ben noti alla storiografia artistica, si conclude con una coppia di Annunciazioni, conservate a Modica (RG, Carmine, figg. 48, 50) e a Tortorici (ME, Badia, figg. 49, 51).63 Esse, costituite dalla Vergine Annunciata e dall’Arcangelo Gabriele, dovrebbero collocarsi cronologicamente nel terzo decennio del Cinquecento: non a caso il Kruft le inserì entrambi nella sua monografia su Antonello Gagini, proponendone un’attribuzione all’officina di questi.64 Eppure, a ben vedere, le opere di Modica e di Tortorici esibiscono caratteri stilistici diversi da quelli tipici del Gagini junior, quali emergono, ad esempio, nei marmi, di identico soggetto, conservati a Castroreale (Sant’Agata, 1519) e ad Erice (Municipio, 1525).65 L’intaglio di Antonello, anche volendo considerare le sole statue di Castroreale (nelle quali, rispetto a quello di Erice, si registra un’evidente flessione qualitativa), è più raffinato e sinuoso, i drappeggi si svolgono più morbidamente e con un’ampiezza di movimento che palesa l’appartenenza dell’artefice ad una nuova fase della cultura figurativa, quella del Rinascimento maturo. Al contrario, le Annunciazioni di Modica e di Tortorici, oltre a rivelare modi espressivi diversi, con i volti perfettamente tondeggianti, e i panneggi dalle pieghe un po’ taglienti e fascianti, si contraddistinguono per un’aria ancora tardoquattrocentesca. Sembra che l’autore dei due gruppi scultorei debba ricercarsi tra i tanti maestri, ancora una volta attivi a Palermo, i quali, sebbene operassero nel Cinquecento inoltrato, rimasero chiusi (per limiti d’età, per vincoli di 63 La Badia è l’edificio di culto intitolato appunto a Santa Maria Annunziata: al suo interno, che si presenta in pessime condizioni, si trovano un gruppo dell’Annunciazione completo, costituito da una Vergine Annunciata e da un Arcangelo (entro una nicchia ad un’altezza di circa tre metri da terra), ed una seconda, solitaria, Annunciata, che corrisponde a quella qui ricondotta all’ambito di Giuliano Mancino. L’altra Madonna è un tipico prodotto della bottega di Antonello Gagini, sul tipo di quelle custodite a Longi e a Caprileone (cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, pp. 370, 378, figg. 318, 414). Sulla base del confronto con queste ultime due sculture, la Vergine albergata nella nicchia può datarsi agli anni trenta. È a questa immagine che, in epoca imprecisata, si abbinò l’Angelo in origine a pendant con la più antica Annunciata ospitata in chiesa (fig. 51). Che le due figure di cui qui si discute siano state concepite insieme, lo dimostra, al di là della pertinenza stilistica, la comunanza tra gli scannelli, entrambi caratterizzati da un orlo dentato che ne cinge per intero il bordo superiore. Non a caso, il marmo gaginiano è retto da un plinto affatto diverso, più largo e istoriato. Non sappiamo perché, a distanza di pochi anni, si fecero eseguire ben due simulacri dell’Annunciazione destinati alla medesima chiesa; forse, vista la fama raggiunta da Antonello, non si volle rinunciare ad arricchire la Badia con la presenza di una sua creazione, specie se si considera che sculture di identico soggetto raggiungevano, in quello stesso torno di anni, paesi vicini (e concorrenti) a Tortorici, quali appunto Longi e Caprileone. Per le statue qui attribuite all’ambito del Mancino, cfr. S. FRANCHINA, Tortorici. Le chiese, le contese, le opere pie. Storia e Arte, Di Nicolò, Messina 2006, p. 18. 64 Il gruppo di Modica era stato ascritto ad Antonello già da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, pp. 385-386; H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 381-382, fig. 408. Per quello di Tortorici, cfr. ibidem, p. 420, fig. 317. 65 Ibidem, pp. 372, 376, figg. 306-308, 376, 378. 41 committenza) alla ricezione delle novità, pur giunte sull’isola, della Maniera moderna. Tra questi, si colloca il carrarese Giuliano Mancino, la cui attività coprì i primi due decenni del XVI secolo, e che fu genero di Gabriele di Battista, nella cui avviata bottega dovette inizialmente inserirsi. Il successo ottenuto dal Mancino fu tale che, a partire dal 1501, egli decise di consociarsi col collega Bartolomeo Berrettaro, al fine precipuo di soddisfare le sempre più numerose commesse. Da quel momento, la produzione di Giuliano, di già impostata sulla riproposizione degli ormai attardati modelli di Domenico Gagini, iniziò a sclerotizzarsi, scadendo nella serialità. Tra i lavori documentati di questo prolifico maestro, troviamo due Madonne conservate nelle Chiese Matrici di Sciacca (AG, 1503, fig. 53),66 e di Polizzi Generosa (1508, fig. 54),67 ed un retablo collocato ad Enna nella chiesa di San Tommaso (1515).68 Nel 1959 Maria Accascina propose di aggiungere al catalogo dello scultore altre due immagini mariane, custodite a Sciacca sempre nel Duomo, nonché l’Annunciata e l’Angelo Annunciante ospitati a Caltavuturo nella Chiesa Madre (PA, fig. 52).69 Le ampie falcature che attraversano i corpi di tutte queste figure, i cui impianti si ripetono sempre uguali, rievocano proprio quelle che caratterizzano i gruppi statuari di Modica e Tortorici, benché in quest’ultimi si noti, specie nei volti, un tratto più aggraziato e addolcito. Dunque, sebbene non possano reputarsi autografe di Giuliano, le quattro sculture qui presentate dovettero nascere nel suo entourage, per mano di un collaboratore che verosimilmente tenne presente qualche modello del maestro.70 66 Quest’opera fu eseguita con la collaborazione del Berrettaro (G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 106, II, doc. XIX). 67 Ibidem, I, p. 111. 68 Ibidem, p. 128 nota 1. Si tratta di un’attribuzione su base documentaria indiretta, già avanzata dall’erudito palermitano: il 3 aprile 1518 Giuliano nominò un procuratore al fine di riscuotere alcune somme che gli spettavano per dei lavori non precisati compiuti a Castrogiovanni (vale a dire Enna) e a Chiaramonte Gulfi. Mi sembra comunque che l’analisi stilistica conforti ampiamente la proposta attributiva del Di Marzo. 69 M. ACCASCINA, Di Giuliano Mancino e di altri carraresi a Palermo, in «Bollettino d’arte», 44, 1959, pp. 324-336 [329]. Un’Annunciazione gemella di questa di Caltavuturo si trovava in origine nella chiesa omonima di Collesano (oggi chiesa del Carmine). Essa fu commissionata dagli Schimmenti, nobile famiglia locale, che la collocarono nella propria cappella gentilizia, dedicata giustappunto all’Annunciazione (cfr. R. TERMOTTO, Monachesimo a Collesano. I Domenicani, in Collesano per gli emigrati. Norme e disposizioni a favore degli emigrati, con appendice storicoculturale, Stampa Comune di Collesano, Collesano 1991, p. 145; N. LO CASTRO, Ave, piena di grazia cit., pp. 48-49). 70 Nel Duomo di Polizzi Generosa si conservano alcune statue raffiguranti la Vergine col Bambino (a metà figura), una coppia di Angeli adoranti e due figure, forse due Virtù Teologali, attribuite alla società Mancino-Berrettaro (cfr. F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 106, fig. 141). Le vesti degli Angeli esibiscono drappeggi analoghi a quelli “manciniani” di Caltavuturo, Modica e Tortorici. La modestia tecnica dell’autore dei gruppi di Modica e Tortorici si registra anche in quel dettaglio, non di poco conto, dell’ala dell’Arcangelo, che lo scultore non rifinisce, lasciandola unita alla schiena, con la quale viene a formare un unico pezzo (figg. 48-49). 42 I.6 Appendice documentaria. Catania, Archivio Comunale, Atti dei giurati, anno 1495-96, vol. 37, cc. 200-205. Edizione: G. ARDIZZONI, Sulla costruzione dell’ancona nella cappella di S. Agata nella cattedrale di Catania ritenuta sinora d’ignota origine, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», 1918, pp. 232-238. 1. Catania, 25 settembre 1495. Magister Antonius de Freri, alias de Buctono, magister marmorarius, civis nobilis civitatis Messane, presens constitutus existens, se sollemniter obligavit et obligat in forma Curie infrascriptis reverendo capitulo Majoris Cathaniensis Ecclesie ac etiam magnificis iuratis dicte civitatis et magnificis nobilibus et honorabilibus deputatis infrascriptis in opera cone costruenda marmorea in cappella seu tribona majoris cathaniensis ipsius ecclesie, in custodia beatissime Agathe Virginis, videlicet: fratri Andree de Paternione, decano, fratri Petro de Intriglolo, cantori, magnifico Benedicto de Asmari, thesaurario, fratri Jacupo de Oriolis et fratri Matheo de Iuvini. Nec non magnificis dominis Albaro de Paternione, Ioanne Baptista de Richulis, Ieronimo Iuvenis, Ioan Matheo de Cutellis, Maciocta de Anichito et Ioanne de la Marchisana, iuratis; et magnificis Henrigo de Campixano, nobili Simoni de Tabuso, Ioanne de Savuca, magisteri Andrea de Mauro et Nicolao di Nofrio, deputatis, presentibus, nominibus quibus supra; construere, edificare et sculpire bene et peroptime, secundum formam capitulorum obligacionum infrascriptorum, de lapidibus marmoreis et terre Tauromenei altarem, conam et guardapurviri pro ut in dictis capitulis lacius exarantur, cum illis obligacionibus, pactis, legibus, clausulis, solucionibus temporibus, qualitatibus, condicionibus et preheminenciis et consignacionibus in hac clarissima civitate et cum obligacionibus amborum parcium nominibus super dictis pro ut in dictis capitulis continetur, et aliis obligacionibus et renunciacionibus debitis et consuetis a iure permissis ut infra: capituli di lu accordiu di lu altaru, cona, guardapurviri, historia di la Passioni et Translacioni di la signura Sancta Agathi, di farisi di marmura per magistru Antonio di Freri, chiamato di Buctuni, di la nobili cità di Missina, infra la clarissima chitati di Cathania, et per ipsa li magnifici iurati et lu reverendu Capitulo et per ipsu li reverendi monachi predicti, suli infrascripti. In primis, sia dicta opira di fari di boni et perfectissimi marmori di optima pirrera, blanchi, chi di peczu in peczu siano aceptati et approbati per quattru experti, videlicet: di lu reverendu fratri Jacopu di Riolu et di lu magnificu Joanbartholu Richuli et di lu magnificu Henrigu Campixanu et di mastro Vinchenzu archifer, arginteri, tanto di la bontati di la marmora comu di lu posintamentu, scultura et 43 gesti et gracia di figuri, cum debita proporcioni; et quandu oy in tuctu oy in parti non actalintassi a li predicti quattru, li poczanu refutari et lu maistru divi rifari a soi dispisi; ancora diviri adjungiri oy diminuiri a li disigni in cosa nicissaria et congrua alu judiciu dili dicti quattru, non obstanti li designi di parchimida, du modu chi duvendu adjungiri cosa sia ultra et più di lu designo predicto, non sia cosa di non tanto interesso alo dicto mastro. Item, facta et complita dicta opera infra anni tri, si divi judicari et extimari, poychi serrà assectata per li infrascripti et reverendi decanu, chanturi et thesaureri, fratri Jacupu di Riolu et fratri Matheu Iuvini, li magnifici misser Alvaro di Paternò, Ioanbaptista lu Richuli et Henrigu Campixanu, et li nobili Muni Tabuso et Ioanni di Savuca, mastru Nicola di Nofriu et mastru Andria di Mauro, electi deputati in questa opera cum consiglu di due arginteri, dui mastri marmurari et dui picturi. Si dicta opera per li supradicti serrà preczata mancu di trichentu unci, non sia obligata la universitari et capitulu ad suppliri ala predicta summa, ma di a minuiri di li unci trichentu tuctu quillu et quantu serrà mancu preczata et si più fussi preczata di trichentu unci, tuctu quillu plui la predicta universitari et capitulu non sia tenuta di pagari, immo ipsu mastru Antonio hora per tandu lu lassa per l’anima sua et duna a la signura Sancta Agathi, di pagari lo dicto preczo hoc modo: in festo natalino, in festo Pasche proxime venture, uncii XXXX, et in festo Pasche uncii XXV ad complimentum quarte partis dicte summe et sic successive quolibet anno usque ad summam predictam reservatis uncias L inferius expressatis per modum ut infra. Item, per mustra dila dicta opera digia fari lu predictu mastru Antonio una Coronacioni comu divi esseri in la cona di lu altaru, per lu tabernaculu chi est intra la logia di la predicta clarissima chitati di Cathania, di marmora fina et di quillo relevu, et una porta per la banca di li magnifici iurati, et intriducirisi in lu predictu preczu, dummodo dicta Coronacioni si trova esseri expedita et posata innanti la festa di dicta signura Sancta Agathi di lu misi di frivaru primo da veniri. Item, la predicta opera serrà la infrascripta, cum pacti et condicioni supra et infrascripti: unu altaru chi la marmura di supra sia longa octu palmi et altu di lu pavimentu sei palmi, videlicet: quattru palmi lu altaru et dui scaluni di un palmu l’unu alto, lu primu di marmora et lu secundu di petra porfidigna di quilla di Tavormina, et tuctu lu pavimentu una canna et menczu palmu longu, et tri palmi largu, et sucta l’autaru et di l’una et l’altra parti et innanti di l’altaru palmu unu et menczu di largu in quatru sia in silucatu di li predicti petri et marmuri, la quali marmora di autaru digia posari supra sei colonni di marmora cum soi capitelli beni lavorati, declarandu chi la marmura di supra di largicza pocza esseri dai peczi dummodo chi quillu di avanti sia di tri palmi largu et di longicza ut supra, et sia incornichata et abonata et lavurata ut decet. 44 Item, di farichi una cona et guardapurviri secundu in lu designu di parchimida signatu per manu dili supradicti electi a quista opera. Item, chi la cona sia larga octu palmi et menczu et auta canni dui in lu infrascriptu modu, videlicet. Item, lu basamentu di lu pellicanu dui palmi chi per lu primu principiu seu scannellu. Item, quillu di lu Corpus Domini, palmi dui secundu lu desinnu predictu. Item, la cona palmi dechi. Item, la cornichi di la predicta cona sia dui palmi cum li armi di lo signuri (Re) in menczo et ad omni extremo li armi di la universitari, zoè lu leofanti. Item, Sanctu Petru et Sanctu Paulu di chincu palmi l’unu et di lu relevu di quilli figuri chi su in lu monumentu di re Fridericu cum la debita proporcioni chi secundu la longicza sia la grossieza di lu corpu. Item, li angili cum li misteri di la Passioni sianu di lu relevu di quilli figuri di lu molumentu di lu patriarcha appressu la cappella di sanctu Josep. Item, Xristu et nostra Donna sianu di lu predictu relevu et la signura Sancta Agathi et Sanctu Binidictu di lu relevu di lu molumentu di re Fridericu. Item, la Passioni di la signura Sancta Agathi et Traslacioni si obliga farili di lu modu chi su dipinti in tavula circum circa la tribona, et li figuri chi veninu davanti di lu relevu chi su in lu molumentu di re Fridericu, et quilli di la parti darreri di li predicti figuri secundu la convenienza di li loki et chi quatri XII di la predicta Passioni et Traslacioni di la signura Sancta Agathi di eguali proporcioni et grandicza di li grandi. Item, lu posamentu di la Passioni et Traslacioni sia supra sei leofanti russi di la petra seu marmora di Tauromina cum li scagliuni di marmora blanca principiannu di terra ad minu di dui palmi l’unu. Item, chi li baxamenti chi veninu supra li predicti leofanti, di una parti et l’altra sianu lavorati secundu lu designu in parchimida notatu per manu dili supradicti reverendi et magnifici. Item, li culunnelli in menczu li istorii sianu secundu in lu predictu designu et lu finimentu sia di bella sagliuta comu un guardapurvirectu chi nexa di lu muru di la tribona dui palmi in fora in tanto chi nexa fora di la fachi di marmora et colonelli ab minus un palmu. Item, chi la guardapulviri di lu autaru digia superehari di ogni parti lu autaru un palmu si est sencza colonni, et si est cum colonni, dui; ad electioni di li supradicti si chi divi esseri oi si chi vorranno colonni, et chi ad electioni loru sia quilla istoria volinu in la frunti di lu guardapulviri. Item, chi la predicta cona, Passioni et Traslacioni, autaru et guardapulviri lu predictu mastru Antonio digia dari assectatu et bonu ln la capella et tribona pichula di la signura Sancta Agathi. Item, chi la largicza et auticza di guardapulviri, forma proporcioni et grandicza et relevu di lu Domini Patri, et Annunciata cum l’Angilu, serrannu secundu declarirannu li supradicti electi a quista opera in lu tempu chi serrà assectatu lu autaru et cona, oi veru chi si li predicti magnifici et reverendi electi a quista opera volissiru in quillu tempu per locu di lu Domini Patri la signura Sancta Agathi assectata cum lu conti et re Rugeri secundu la forma chi est depinta arretu lu autaru omnia cum lu so tabernacolo chi sia ad elecioni dili supradicti 45 magnifici et reverendi, et quandu fussi electu chi si fachissi Sancta Agathi supra lu tabernaculo chi sia unu Cruchifissu proporcionatu. Item, chi tucti li figuri predicti digiano essiri allixiati et allustrati. Item, chi alli XV di augustu proximo di veniri digia essiri assectatu et bonu lu altaru predictu et cona. Item, la Passioni di la signura Sancta Agatha serrà assectata et bona ali XV di augustu XV indicioni. Item, chi la Translacioni di la signura Sancta Agathi et guardapurviri di lu altaru serrà assectata ali XV di augusto di la prima indicioni prima proxima da veniri. Item, chi de premissis omnibus adimplendis digia dari idonea plegeria approbata per la banca dili magnifici iurati di la nobili chitati di Missina di unci sectantachincu et de reformarila di terzu in terzu maxime in casu mortis, quod absit, di a supliri et restituiri li dinari havuti cum dapnis, interessi et maxime viaticis, et quod possit destinari commissarium tam continuum quam ad tempus, et sic ecc., et quod semper casu solucionis debat prius prestare ut supra, et quod in ultima solucionem ipsi reverendi et magnifici possint et retinere penes eos uncias L solvendas finita et assectata ac etiam axtimata dicta opera et secundum extimacionem et per modum ut supra. Eodem. Id magister Antonius Buctuni, presens, sponte, confessus extitit habuisse et recepisse per causa predicta a magnifico domino Alvaro de Paternione et per eius manus uncias undecim computata unciam unam habita per manus Pauli lu catanisi. Renunciando, ecc. Eodem. Supradictus magister Antonius di Buctone, sponte, confessus extitit habuisse et recepisse a magnifico Henrico de Campixano magistro notario li designi super dicti operis in dui peczi di parchimida restituendi per eum eumdem magistro notario hinc ad mensem aliter non possit petere solucionis si prius consignatis dictis designis. VIII FEBBRUARII XIV INDICIONIS 1495 (1496) Magister Antonius Buctuni, presens, confessus extitit habuisse et recepisse a magnifico domino Albaro de Paternione, presente, alias uncias sexdecem, tarenos decem et octo et granos duos cum dimidio, pecunia, et hoc modo: per bancam nobili Barthuli Surancza uncias tres decem, tarenos XXVIII et granos X; et restans ad complimentum per manus venerabilis domini Ioannis Curumella et dicti magnifici domini Albari. Renuncians hinc inde interessis forte incursis. 46 XV MARCII XIIII INDICIONIS 1495 (1496) Petrus Freri, de civitate Messane, ad hec interveniens tamquam procuratos magistri Antonii Buctuni ut constitit per acta notarii Pauli Lissandrano die VIIII februarii eiusdem indicionis, presens, sponte, confessus extitit habuisse et recepisse a magnifico domino Albaro de Paternione per bancam nobili Bartholi Surancza alias uncias decem, tarenos septem et granos decem pecunia numerata et per causa predicta et ab eodem domino Alvaro tamquam depositario pecunia rum supradicte cone costruende, confessus extitit habuisse pecunias predictas. Renunciando, ecc. VIII MAJ XIIII INDICIONIS Prefatus magister Antonius Freri alias Buctuni, presens personaliter, habuit et recepit a dicto magnifico domino Alvaro, depositario absente, et pro eo me, notario bance, et fratre Matheo Iuvini, uncias septem, tarenos duos et parvulos septem in pichulis auro et argento per causa predicta. QUARTO IUNII XIIII INDICIONIS Magister Georgius Coxa, tamquam procurator dicti magistri Antonii Freri, dixit ipsam procuracionem constat tenore publici contracti procuracionis celebrati Messane manu notarii Barhuli de Guidone, die XXVII maj XIII indicionis instante, confessus extitit habuisse et recepisse a dicto magnifico domino Alvaro de Paternione, depositario, ecc., presente, uncias quindicim per manuss eu bancam nobili Barthuli Surancza per causa construcionis dicte cone. Renunciando, ecc. XVIIII AUGUSTI XIIII INDICTIONIS Prefatus Antonius, presens, sponte, confessus extitit habuisse et recepisse a magnifico domino Alvaro, presente, uncias tres et tarenos decem et octo per manus nobilis Barthuli Surancza et per causa predicta. 47 CAPITOLO II Antonello Gagini e figli: aggiunte ai rispettivi cataloghi 48 II.1 Aggiunte al catalogo di Antonello Gagini: i Santi Pietro e Paolo di Trapani, i tabernacoli di Novara di Sicilia e della Magione di Palermo. L’Annunciazione del Museo di Castell’Ursino a Catania. Dopo un decennale soggiorno a Messina, da datarsi verosimilmente a partire dal 1498, Antonello Gagini si trasferì definitivamente a Palermo. Ciò dovette accadere intorno al 1508, dal momento che, tra le numerose carte d’archivio riguardanti la vita e l’attività del maestro, la prima che ne documenti la permanenza palermitana risale al 24 aprile 1509.1 Come proposto da Francesco Caglioti, la scelta dello scultore di impiantare la propria officina nella città dello Stretto, e non a Palermo, laddove il padre Domenico aveva gettato le basi della fortuna della nota famiglia di scalpellini d’origine lombarda, deve individuarsi nel rientro, da parte di Antonello, da un viaggio d’aggiornamento peninsulare.2 Tornando dunque dalla Toscana, e nello specifico da Firenze, dove il Gagini junior dovette recarsi verosimilmente su consiglio paterno (sostando qualche tempo presso la bottega di Benedetto da Maiano), egli optò per la vivace cittadina peloritana.3 Quest’ultima, infatti, a differenza di Palermo, nella quale era attiva una numerosa colonia di lapicidi locali, ma anche toscani e lombardi, allo scadere del XV secolo,4 pur non essendo ancora assurta al ruolo di protagonista delle vicende scultoree isolane, si presentava comunque dotata di un’economia dinamica e di una committenza, laica e religiosa, propensa alla determinazione del proprio prestigio attraverso la commissione di opere d’arte.5 D’altronde, è molto plausibile che Antonello sia stato attratto anche dalla possibilità, che egli dovette considerare verosimile, di occupare un posto di prim’ordine nel contesto artistico cittadino. L’unico artefice, attivo in questi anni in città, e di cui rimanga una quantità piuttosto cospicua di testimonianze figurative, era l’attardato Antonello Freri, il quale fondò la propria fortuna, diffusa anche al di là degli stretti confini messinesi, grazie alla quasi totale assenza di concorrenza.6 1 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, pp. 455456 doc. XXXV. 2 F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, pp. 977-1042 [990-1004]. 3 Ibidem, pp. 1000-1002. 4 Ricordo qui soltanto i maggiori: Gabriele di Battista, Giorgio da Milano, Andrea e Giuliano Mancino, Antonio Vanello. Per questi artisti, tutti gravitanti nell’orbita di Domenico Gagini, cfr. qui il Capitolo I. 5 Vedi supra, Introduzione. 6 A tal riguardo, si riporta qui di seguito un brano di G. DI MARZO (I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84, I, p 171): «Colà [a Messina] egli rinvenne un campo molto opportuno a che la rinomanza dell’artistico suo valore si fosse ovunque diffusa, senza che per nulla l’invidia degli emuli gli avesse attraversato il glorioso avvenire, mentre ivi, durando vivo e sempre più promuovendosi il miglior gusto dell’arte nella pittura, in cui erano sì feconde le tradizioni e la scuola del famoso 49 Se, dunque, nel 1508 il Gagini junior optò per il ritorno nella città d’origine, dobbiamo immaginare che egli fu spinto da valide ragioni d’ambito professionale: soltanto un anno prima, infatti, proprio da Palermo era giunta una delle più impegnative e prestigiose commesse che un giovane talentuoso come lui avrebbe potuto ottenere nell’arco della propria carriera. Si trattava di dotare l’abside della Cattedrale cittadina di un maestoso retablo marmoreo che prevedeva l’allocazione, entro nicchie, di ben quarantacinque statue a grandezza naturale raffiguranti, oltre al Dio Padre Benedicente, il Cristo Risorto e la Vergine Assunta, gli Apostoli, i Padri della Chiesa e altri Santi.7 L’idea di seguire personalmente il progetto e l’esecuzione della grande opera dovette, con molta probabilità, portare Antonello a Palermo, con l’intento di soddisfare la richiesta di Giovanni Paternò, arcivescovo della città, e committente dell’impresa. Com’è facile prevedere, i figli e i numerosi aiuti concorsero alla realizzazione della decorazione scultorea della tribuna, che né Antonello né l’arcivescovo riuscirono a veder completata: i lavori si conclusero, infatti, soltanto nel 1574, con gli ultimi interventi ad opera di Vincenzo, l’ultimo dei discendenti diretti del maestro siciliano.8 Stando all’opinione di Hanno-Walter Kruft, spetterebbero al contributo personale del capobottega il Cristo Risorto, l’Assunta, i Principi degli Apostoli, e i Santi Filippo, Giacomo Maggiore e Giacomo Minore. Sebbene, com’è noto, oggi la tribuna non esista più, e le sculture siano allocate lungo la navata centrale dell’edificio di culto, erette su mensole fissate alle pareti, esse non soltanto Antonello da Messina, non avvenne invece che nella scultura fossero artefici di alto merito e nome». Per una rilettura dell’attività di Antonello Freri, cfr. qui il Capitolo III. 7 La struttura, una volta conclusa, doveva misurare, in altezza, tra i sedici e i ventidue metri, e doveva ricoprire l’abside della fabbrica per una larghezza di circa ventinove metri. Essa era ripartita in due registri, ognuno dei quali era costituito da nicchie che albergavano al loro interno le monumentali sculture; alla morte di Antonello, poteva ritenersi completato soltanto il primo livello, recante i dodici Apostoli accompagnati in alto da mezze figure di angeli reggenti una corona, e in basso da formelle decorate con scene della vita dei rispettivi Santi. Il secondo livello era invece scandito da due file di nicchie ospitanti rispettivamente, in basso e in alto, quattordici e dodici figure (tra cui Sante Martiri, gli Evangelisti, i Dottori della Chiesa, i Santi fondatori di ordini religiosi). Negli scomparti centrali, all’interno del registro inferiore doveva trovarsi l’Assunta (cui il Duomo di Palermo era dedicato), e in quello centrale la Resurrezione di Cristo attorniato da tre soldati. Alla sommità, la tribuna era conclusa dalla figura del Dio Padre, da Antonello progettata in marmo e mosaico, ma eseguita in stucco soltanto nei primi anni settanta del secolo da Vincenzo Gagini. Per quest’opera, mi limito a menzionare qui i volumi del Di Marzo (I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 215-252), per la mole di documenti rintracciati nell’Archivio di Stato di Palermo e pubblicati; la monografia di H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 24-33 (con i relativi rimandi alle opere riprodotte, alcune per la prima volta, e ai rispettivi rogiti); e infine, al contributo di I. MANCINO, Antonello Gagini fra Sicilia e Malta. Il restauro delle statue della Cattedrale di Palermo, Fondazione Culturale "Salvatore Sciascia", Caltanissetta 2007, pp. 20 e segg., nel quale la studiosa ha fatto confluire i risultati del restauro condotto sulle statue. 8 Non solo i figli (Giovandomenico, Antonino, Giacomo, Fazio, Vincenzo) collaborarono fattivamente alla realizzazione dell’impresa, ma anche altri maestri a loro coevi attivi in città, tra cui i toscani Giuliano Mancino e Bartolomeo e Antonino Berrettaro (solo per citare i più noti, almeno tra i maestri di pietra), nonché pittori, stuccatori e doratori (cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 215-252). 50 continuano a costituire dei punti fermi nel catalogo gaginiano;9 ma offrono anche utili termini di paragone per altri lavori che in questa sede s’intende ascrivere allo scultore. La controfacciata della chiesa di San Pietro di Trapani ospita due figure marmoree dei Santi Pietro e Paolo che mostrano numerose affinità formali con le immagini, di analogo soggetto, eseguite da Antonello per la maggiore chiesa palermitana (figg. 1, 3).10 L’impianto e la composizione dei due marmi si accostano facilmente alle figure palermitane, e i drappeggi si sviluppano secondo linee e andamenti che dichiarano espressamente l’invenzione gaginiana, e che non a caso si ritrovano in molti altri manufatti licenziati dalla medesima officina. Al San Paolo (fig. 8) deve però riconoscersi una maggiore tenuta stilistica, unitamente ad una più morbida resa nei panneggi e ad un’espressività decisa ma nel contempo pacata che costituisce una delle peculiarità dello stile di Antonello, e che rimanda, ad esempio, al Sant’Agostino destinato sempre alla Tribuna (fig. 4). Al contrario, nel San Pietro dovette ampiamente intervenire un collaboratore, perché la statua appare, nel complesso, un po’ raggelata, bloccata da una parte in forme stringate e abbreviate, dall’altra in un’espressione fin troppo marcata e accentuata che non corrisponde ai modi del capobottega.11 In questo senso, dunque, il raffronto con i Santi Pietro e Andrea di Palermo (fig. 2) gioca a sfavore, e non di poco, della scultura trapanese, ulteriormente avvilita dal brutto e incongruo rifacimento della 9 La tribuna fu demolita nel 1797, in occasione dei lavori di generale e sistematico restauro della Cattedrale affidati all’architetto toscano Ferdinando Fuga. In realtà, l’idea del Fuga era quella di preservare intatto il maestoso retablo, ma dal 1767, epoca della redazione del progetto, al 1781, anno in cui si aprì il cantiere, i lavori stentarono a partire. Lo smontaggio e la distruzione della struttura originale furono perciò il risultato del successivo intervento degli esecutori materiali della ristrutturazione, l’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia e l’ingegnere camerale Salvatore Attinelli. Una nuova tribuna, meno ingombrante di quella gaginiana, fu costruita in quell’occasione, e alcune delle statue vi furono collocate. Quelle che, per motivi di spazio, non entrarono, furono poste sulla merlatura esterna della Cattedrale, subendo in questo modo i danni dell’esposizione agli agenti atmosferici. Soltanto nel 1952 si decise di ricoverare i marmi all’interno (sulle mensole, appunto, addossate ai pilastri della navata centrale), ma lo stato di conservazione di molte di esse era ormai compromesso. Oggi le sculture e i pezzi decorativi superstiti sono divisi tra la Cattedrale (la gran parte) e il Museo Diocesano. Per le travagliate vicende relative allo smontaggio della tribuna, cfr. N. BASILE, La Cattedrale di Palermo: l’opera di Ferdinando Fuga e la verità sulla distruzione della tribuna di Antonello Gagini, R. Bemporad editori, Firenze 1926; P. AMICO, Antonello Gagini e la tribuna della cattedrale di Palermo, in «Storia architettura», IX, 1-2, 1986, pp. 77-88. 10 Le due statue erano note già a G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 124, che le attribuì al maestro carrarese Giuliano Mancino. Cfr. anche F. MONDELLO, La chiesa di S. Pietro in Trapani e i suoi arcipreti. Memorie storico-biografiche (ms. 218 della Biblioteca Fardelliana di Trapani), con saggio introduttivo e trascrizione di M. VITELLA, DG editore, Trapani 2008, pp. 14, 17. Per le riproduzioni fotografiche dell’intero ciclo di statue licenziate dall’officina gaginiane per la Cattedrale palermitana, cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., figg. 60-169. 11 Si potrebbe pensare ad un intervento di Antonino, il quale, d’altra parte, aiutò maggiormente il padre nell’esecuzione dei Santi palermitani: non è forse un caso, allora, che tra le figure ragionevolmente ricondotte dal Kruft al secondogenito di Antonello ve ne sia qualcuna (Antonio Abate e Cristoforo, ad esempio), che palesa numerose convergenze con il San Pietro trapanese. 51 spalla e del braccio destro che li deforma per intero (fig. 6).12 Relativamente ad una plausibile datazione dei Principi degli Apostoli qui presentati, tenderei a proporre gli anni trenta del secolo,13 epoca in cui il personale contributo del Gagini junior all’impresa della Tribuna dovette essersi esaurito, sovrastato da altre, e sempre più numerose commesse.14 Tra i tanti prodotti dell’officina gaginiana, un ruolo eminente, sia per la quantità che per la qualità, è svolto dai tabernacoli eucaristici a parete, che in molti casi assunsero le ridotte dimensioni che si devono ad una semplice edicola, ma che talora furono concepiti per occupare una parte anche considerevole dell’abside o della Cappella del Santissimo Sacramento, diventando delle vere e proprie pale d’altare includenti il repositorio delle Sacre Specie. Nella Chiesa Madre di Novara di Sicilia, in provincia di Messina,15 si conserva una smembrata custodia che doveva originariamente rappresentare una sorta di via di mezzo tra le due tipologie poco sopra descritte. Essa è costituita da quattro frammenti raffiguranti la Vergine Annunciata e l’Angelo Annunciante (figg. 7, 9), da una lunetta con la colomba dello Spirito Santo attorniato da testine di cherubini (fig. 5) e dalla lastra centrale decorata con un tempietto contenente il Santissimo, su cui vegliano due figure stanti di angeli adoranti (fig. 10).16 12 La zona interessata dall’intervento in stucco è quella della spalla e di una porzione del mantello, nonché di una metà dell’avambraccio; la mano è originale. Per le sculture destinate all’abside palermitana, si rimanda qui a H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 24-33, 386-403 doc. LXXXI. 13 Tra i Principi degli Apostoli di Palermo corre una differenza cronologica di una quindicina d’anni: infatti, mentre il San Pietro fu tra i primi ad essere compiuto (entro il 1510-11), il San Paolo fa parte della serie licenziata entro il 1527 (cfr. ibidem, pp. 400-402; I. MANCINO, Antonello Gagini fra Sicilia e Malta cit., pp. 23, 54-55 doc. 12). Assieme a Pietro, dovettero essere consegnate anche le figure di Giovanni Evangelista, Giacomo Minore e Maggiore, Tommaso e Andrea. 14 Un’altra coppia di Principi degli Apostoli è stata di recente ricondotta all’operato di Antonello da M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 174-177, figg. 62-65, 68-69. Si tratta delle sculture (purtroppo malconce) custodite a Seminara nella chiesa della Madonna dei Poveri, per le quali era stato da più parti caldeggiato il nome del maestro siciliano Rinaldo Bonanno, attivo dal settimo decennio del Cinquecento. Il San Paolo calabro condivide con l’omonimo di Trapani il modello, che s’individua facilmente nella figura ideata dal Gagini per la Tribuna; lo schema del San Pietro, invece, diverge da quello della statua palermitana (e di riflesso anche da quella qui presentata). 15 I frammenti sono allocati nella Cappella del Santissimo Sacramento, alla destra dell’altare maggiore della fabbrica religiosa. Non vi è alcuna notizia sull’epoca dello smembramento, ma sappiamo che l’edificio subì alcuni danni a seguito dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale, e che si procedette ad un restauro-riammodernamento degli arredi nell’immediato dopoguerra (1948). Si può dunque, in via del tutto ipotetica, legare a questi anni lo smontaggio del tabernacolo, anche se non può escludersi che esso dati ad un’epoca ben precedente. 16 Alle lunette abitate dall’Annunciata e dall’Angelo si addossano, sul lato esterno, due piccoli plinti parallelepipedi con un decoro a rosetta su cui s’imposta un altro elemento ornato con una foglia d’acanto stilizzata (figg. 7, 9). Come dimostra la restante coppia di elementi identici che affianca la lunetta centrale, essi occupano le loro sedi originarie, fungendo da raccordo tra i tre fastigi lunettati. I quattro apici (quelli, per intenderci, scolpiti con le foglie d’acanto) sono tutti compromessi da un pessimo stato di conservazione, tant’è che le loro rispettive parti terminali sono sbreccate. Al di sopra delle figure dell’Annunciazione, inoltre, son ancora evidenti le tracce di quelli che, a tutti gli effetti, dovettero essere due palmette, analoghe all’unica superstite svettante sulla lunetta centrale. 52 Nel corpus di Antonello non sono pochi gli esemplari coi quali questo tabernacolo potrebbe dialogare, trovando anche, in qualche caso, nessi molto stringenti, sia sul piano della tipologia che su quello dello stile. Ne rispettano finanche le dimensioni, ad esempio, i manufatti conservati a Naso (ME, Duomo, anni venti, fig. 12),17 a Tusa (Chiesa Madre, 1525) e a Randazzo (CT, San Nicolò, fine anni trenta);18 ma, in forme monumentali, anche le pale eucaristiche di Mazara del Vallo (TP, Duomo, 1532) e di Ficarra (ME, Chiesa Madre, 1536, figg. 15-16)19 offrono, a mio avviso, validi termini di confronto con l’inedita edicola novarese. Quest’ultima, però, rispetto alle altre, presenta un equilibrio d’impianto, una raffinatezza d’intaglio ed una morbidezza nella resa delle vesti e dei volti dei personaggi che sembrerebbero da un lato condurre direttamente alla responsabilità del capobottega,20 e dall’altro ad una cronologia piuttosto alta. Anche la presenza del grazioso tempietto, che diviene il fulcro visivo della rappresentazione, costituisce un elemento a favore di una precoce datazione dell’opera di Novara, dal momento che, finora, è nota soltanto un’unica custodia gaginiana in cui compaia questo prezioso dettaglio architettonico. Mi riferisco al marmo di pregevole fattura custodito nel Museo Regionale di Messina (fig. 11), dove esso è pervenuto nei primi anni del Novecento dalla chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo”, vale a dire dalla cripta dell’antica Cattedrale normanna, interessata nel 1638 da radicali restauri che la trasformarono in una vera e propria chiesa dedicata alla Vergine. La scultura è nota da quando Gioacchino di Marzo ne segnalò, pochi anni prima che i suoi due volumi sui Gagini venissero dati alle stampe, il ritrovamento «sotterra, scavando non so per qual causa vicino al Duomo di Messina», e, ritenendola «un importante avanzo di un’altra custodia o ciborio in marmo bianco», aggiunse che essa «venne incastrata in una parete interna del sotterraneo del Duomo stesso». L’erudito, 17 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 422-423. Ibidem, pp. 477-478 doc. XCI, 520-521, doc. CLXXXII: pur commissionata nel dicembre 1523, ancora nel novembre del 1535 la custodia di Randazzo non era stata consegnata, se a quella data risale un rogito nel quale i committenti ricordavano ad Antonello, che aveva di già riscosso una parte del compenso, l’obbligo assunto dodici anni prima. Com’è noto, il maestro morì dopo pochi mesi. Quest’opera (anch’essa smembrata) per tipologia si avvicina molto a quella qui presentata, poiché anch’essa prevedeva l’Annunciazione albergata entro due elementi (in questo caso due tondi) posti ai lati della lunetta centrale, qui raffigurante la Pietà. 19 Per queste due edicole, cfr. ibidem, rispettivamente alle pp. 374, 379, 377. Sulla scia di queste due, e come valido esempio di fortuna della tipologia, si ricorda qui almeno la coppia di pale eucaristiche allogate a Ciminna (PA, Chiesa Madre) e a Patti (ME, San Michele), coppia compiuta dal secondogenito di Antonello, Antonino, entrambe allo scadere degli anni trenta del secolo. Per il marmo di Ciminna, cfr. ibidem, pp. 429, 527, e G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, pp. 209-210, II, doc. CLIX; per quello di Patti, vedi Itinerari gaginiani, a cura di R. PRINCIOTTA e N. LO CASTRO, Grafo-Editor, Messina 1988, p. 23, 69. 20 Al di là dell’esemplare di Randazzo, interamente realizzato dalla bottega, anche negli altri tabernacoli è evidente la partecipazione degli aiuti, in una percentuale che varia a seconda dei casi. Il marmo di Tusa, ad esempio, almeno nelle figure degli angeli adoranti, è vicino ai modi espressivi peculiari di Antonello. 18 53 secondo cui il manufatto doveva essere restituito al Gagini junior, ipotizzò che esso fosse stato da questi eseguito per la Cappella del Santissimo Sacramento eretta all’interno del Duomo, dalla quale esso sarebbe stato «rimosso e vandalicamente buttato fra le macerie quando, nel secolo XVII, fu ivi dato luogo alle barocche decorazioni di marmi a vari colori nella cappella ed altare del Sacramento».21 Anche Hanno-Walter Kruft nel 1980 assegnò il tabernacolo ad Antonello, istituendo dei buoni confronti con l’altare eucaristico eseguito per la chiesa di Santa Maria Maggiore a Nicosia (EN, 1512), e notandovi una «forte componente stilistica lombarda acquisita attraverso l’opera di suo padre».22 Ebbene, mi sembra che l’edicoletta peloritana possa a ragion veduta ritenersi l’autorevole prototipo di quella conservata a Novara, la quale non dovrebbe distanziarsi molto cronologicamente dal suo modello. Infatti, malgrado che essa esibisca una chiara flessione stilistica rispetto al sublime intaglio dell’esemplare oggi al Museo (risalente giustappunto all’epoca del soggiorno messinese dell’artista), le comunanze formali sono notevoli, pur nell’ambito di una decisa semplificazione, di composizione e di forme, presente nell’opera di cui qui si discute. Questa specifica tipologia di custodia eucaristica, frutto dell’invenzione di Antonello, si diffuse ampiamente nei decenni successivi, anche a seguito di riproposizioni, più o meno puntuali, realizzate da altri maestri, in alcuni casi anche a notevole distanza dall’archetipo.23 Il sopra citato retablo eucaristico di Ficarra, datato nello zoccolo 1536 (fig. 15), offre l’opportunità di riflettere su un marmo analogo, ma di più ridotte dimensioni (fig. 13), collocato nella chiesa della Santissima Trinità di Palermo (“La Magione”).24 Si tratta di un ciborio decorato con angeli genuflessi e veglianti il repositorio delle Sacre Specie sormontato da quattro testine di cherubini: in alto è scolpito un soffitto cassettonato con rosoncini inquadrati in prospettiva. Sul bordo 21 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 195. Anche l’erudito messinese Gaetano La Corte Cailler, allo scadere del secolo XIX menzionava la scultura là dove la ricordava il Di Marzo, vale a dire nella chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo”: cfr. Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, p. 222. Questa notevole impresa editoriale, il cui progetto era stato partorito nella Messina di fine Ottocento dalla volontà di più studiosi e appassionati di storia patria, fra cui il La Corte costituì una delle punte d’eccellenza, era quasi pronta quando, con il terremoto, per forza di cose si dovette rimandarne la pubblicazione. Ciò comunque permise ai redattori dell’opera di testimoniare lo stato in cui edifici e testimonianze figurative si trovavano l’indomani del sisma. Si deve immaginare che l’edicola non rimase per molto tempo in Santa Maria “sotto il Duomo”, se già nel 1902 lo stesso La Corte Cailler poteva affermare: «il ciborio di Santa Maria sotto il Duomo è pronto per essere trasferito al Museo» (G. LA CORTE CAILLER, Il mio diario. 1893-1903, a cura di G. MOLONIA, Edizioni GBM, Messina 1998, p. 305, 21 ottobre 1902). 22 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 380-81, 384-385. 23 Mi riferisco al tabernacolo licenziato dalla bottega di Giovambattista Mazzolo nel 1554 e destinato alla Chiesa Madre di Santo Stefano di Briga (ME). Per questa e per altre custodie che esibiscono palesi prelievi dal marmo gaginiano del museo messinese, cfr. qui il Capitolo III. 24 Nonostante che il ciborio sia custodito in una delle più note fabbriche religiose della città, esso non ha finora ricevuto la giusta attenzione da parte degli studi di settore. 54 inferiore, che reca incisa l’iscrizione, frammentaria, con la data 1528,25 s’imposta un fregio che circonda l’opera per il suo intero perimetro, ornato con graziosi motivi vegetali. Tra i lavori gaginiani pubblicati dal Kruft, compare anche un tabernacolo “gemello” di questo palermitano, e ancora oggi sito nella Cappella del Santissimo Sacramento di Mirto (ME, Santa Maria di Gesù, 1540, fig. 14), la cui cronologia, anche qui, ci è nota grazie all’iscrizione presente nello zoccolo.26 Un rogito del 28 marzo 1530 ci informa inoltre che il «presbitero Petro de Girulli de terra Mirti» chiedeva ad Antonello Gagini «ad faciendum, sculpendum et laborandum quandam conam seu tabernaculum marmoreum, relevatum et sculpitum plus medii relevi». Le due sculture, tipologicamente, sono in tutto simili, benché quella custodita nella Magione si ponga, a mio avviso, su un livello superiore rispetto all’altra, palesando pertanto l’intervento diretto del capobottega, o quantomeno una sua diretta e costante supervisione nel corso dell’esecuzione. La custodia di Mirto, al contrario, esibisce modi espressivi che non si possono identificare come tipicamente “antonelliani”: i volti degli angeli e dei cherubini divergono da quelli normalmente assegnati al Gagini junior, le linee dei cassettoncini del soffitto sono semplificate, e prevale nell’intera opera (ad eccezione che nel fregio esterno) una generale sinteticità di forme che si distacca dal grafismo raffinato e di precisione mostrato nel manufatto palermitano. Le analogie compaiono, invece, nella decorazione delle lesene, che continua poi nell’arco sommitale, e non soltanto per la replica dei motivi, molto simili tra di loro (sebbene non identici), quanto piuttosto per il ductus scultoreo, che sembrerebbe equivalersi. Ciò potrebbe far pensare che nell’edicola di Mirto sia intervenuto più di un artefice: un primo, diciamo così, “di figura”, cui sarebbe spettata la porzione centrale con gli angeli, i cherubini e il soffitto in prospettiva, ed un secondo, autore soltanto del fregio decorativo. Tale discontinuità di risultati non si riscontra nel tabernacolo “gemello” di Palermo, in cui, al contrario, sembra prevalere una certa 25 Ecco il testo dell’iscrizione, ampiamente decurtato nella parte destra: […] MEAM CARNEM ET BIBIT MEUM SANGUINEM […] M SIBI MANDVCAT ET BIBIT M.D.XXVIII. 26 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 381, 501 doc. CXXXVI, con un’attribuzione alla bottega di Antonello. Così recita l’iscrizione: QVI MANDVCAT HVNC PANEM VIVET IN ETERNVM MDXXXX. L’ultima “X”, pur incisa, è meno visibile rispetto alle altre tre, poiché ha perso la coloritura nera con cui l’iscrizione è stata interamente ripassata. Come si evince facilmente dalla lettura dell’atto notarile (vedi nota 27), il manufatto commissionato ad Antonello nel 1530 doveva misurare 7 palmi d’altezza, equivalenti a 181 cm, e 3½ di larghezza, pari a 90 cm. Si tratta di dimensioni che non coincidono con quelle del ciborio tuttora esistente a Mirto, le cui misure sono 145x82. È verosimile immaginare che, a dispetto dell’impegno assunto da Antonello in persona, egli abbia tardato l’esecuzione, fin quando l’incarico fu affidato, evidentemente in un’epoca in cui il maestro era di già spirato, ad uno dei suoi figli o a qualche collaboratore. Nel documento si fa inoltre riferimento ad un altro tabernacolo, indicato dal committente come modello, inviato da Antonello a Tortorici nella chiesa di San Nicolò (ME). Anche di quest’opera possediamo il relativo strumento d’archivio, risalente al 28 novembre 1527 (cfr. ibidem, pp. 496-497 doc. CXXIII). Nonostante i sopralluoghi da me effettuati nel borgo montano ricadente nel territorio del Parco dei Nebrodi, di questo marmo non ho trovato alcuna traccia. 55 omogeneità formale, la quale contribuisce ad apparentare stilisticamente questo ciborio a quello di Ficarra (figg. 13, 15). Chiude la rassegna di aggiunte al corpus di Antonello e della sua officina una piccola Annunciazione, originariamente parte di un più grande complesso scultoreo di cui essa dovette rappresentare il fastigio, custodita nei depositi del Museo Civico di Castell’Ursino a Catania.27 Si tratta di due elementi marmorei raffiguranti appunto la Vergine Annunciata e l’Angelo Annunciante (figg. 17, 19), forse rivolti verso una colomba dello Spirito Santo (della quale rimane qualche traccia nella lastra contenente la Madonna).28 Il contesto d’appartenenza poté essere un tabernacolo eucaristico o una pala d’altare, dei quali i due pezzi dovettero occupare gli sguinci immediatamente al di sopra dell’arco, decorato con stilizzati motivi vegetali, sul tipo dell’altare di Santa Cita a Palermo (1504-17).29 Provenienti dalla Collezione Biscari, ed entrati nel museo catanese tra il 1927 ed il 1930,30 i due frammenti sono assimilabili ad analoghe raffigurazioni licenziate dall’officina dello scultore siciliano: l’Angelo, ad esempio, si accosta alle già citate figure, di identico soggetto, scolpite nelle custodie di Ficarra e della Magione (figg. 13, 15, 18), mentre la Vergine si apparenta alla scultura a grandezza naturale eseguita dal Gagini junior per la chiesa di San Domenico nella stessa città etnea (anni venti del Cinquecento)31. L’archetipo per immagini di questo tipo dovette comunque essere la monumentale Annunciazione compiuta dal capobottega e da questi inviata ad Erice (TP, 1525, fig. 20),32 nella quale l’immagine mariana è 27 Inv. 6414-6415. Essi misurano 34x39 (Angelo) e 40x31 (Madonna). I due pezzi erratici sono in effetti collocati non in un vero e proprio deposito, ma in un ambiente interno della struttura museale, non aperto al pubblico, e ospitante altri manufatti marmorei di varia epoca e di differenti dimensioni. Nello specifico, l’Annunciazione è adagiata a terra, in attesa di essere esposta, assieme alle altre sculture ivi collocate. 28 Potrebbe anche trattarsi della testina di un cherubino, della quale si riconoscerebbe solamente un lacerto dell’ala. Su entrambe le figure sono ancora ben visibili le tracce dell’originaria coloritura. 29 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 408, 447-449 docc. XXI-XXII. 30 Ignazio Paternò Castello, V principe di Biscari (1719-1786), fu uno dei più celebri e appassionati collezionisti d’arte, antica e moderna, della città etnea, e la sua collezione, raccolta a partire dalla metà del Settecento, risultava aperta al pubblico già dal 1758. I numerosi oggetti, naturalia e mirabilia, erano esposti nel grandioso palazzo alla Marina che il padre Vincenzo aveva provveduto a restaurare l’indomani del disastroso sisma del 1693. È alla sua lungimiranza che si deve la costituzione del primo vero Museo “publicae utilitati / patriae decori / studiosorum commodo”, inaugurato nel 1758 in un'ala del palazzo appositamente allestita ed aperta al pubblico e agli studiosi. Egli fu anche promotore di una serie di importanti scavi nell'area urbana di Catania: nel teatro mise in luce parte delle strutture ed alcune sculture, nel presunto foro della città romana trovò il torso colossale di imperatore allora ritenuto di Giove; nella zona di Piazza Duomo sotto la Cattedrale rinvenne l'importante complesso termale con la ricca decorazione musiva; nella zona di Piazza Dante scoprì un edificio termale ed un ninfeo. Dopo la morte del principe le collezioni subirono alterne vicende, e furti e vendite sottobanco impoverirono la raccolta. In seguito alle annose controversie sorte tra eredi e amministrazione comunale, fu il governo Mussolini a riscattare nel 1926 gran parte della collezione: il resto fu poi donato spontaneamente dalla famiglia al Comune di Catania tra il 1927 ed il 1930 (cfr. G. LIBERTINI, Il Museo Biscari, Bestetti e Tumminelli, Milano 1930, pp. 9-28). 31 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., p. 373. 32 Ibidem, p. 376-377. 56 avvolta da un morbido e fluente mantello, il cui andamento, con le dovute e opportune differenze di dimensioni e di nobiltà dell’intaglio (che nell’opera di Erice raggiunge altissime vette), è riproposto nella piccola Annunciata di Castell’Ursino. II.2 Alcune novità su Giovandomenico Gagini: le Madonne di Polizzi Generosa e di Gioiosa Marea. Le testimonianze figurative superstiti che con una certa verosimiglianza possono ricondursi al primo dei cinque figli di Antonello non sono molte, a dispetto della lunga carriera che vide Giovandomenico attivo, al fianco dell’augusto genitore, già dal 1530.33 Allo stato attuale degli studi, il catalogo di questo maestro del marmo si attesta su una decina di imprese, suddivise tra piccoli lavori d’intaglio (quali, ad esempio, alcuni capitelli e altri ornamenti di colonna tuttora esistenti nel Duomo di Enna)34 e opere monumentali, tra cui spicca la coppia di ancone compiute per i borghi di Petralia Sottana e Petralia Soprana (PA) rispettivamente nella Badia e nella chiesa di Santa Maria di Loreto (fig. 23).35 L’unica scultura a grandezza naturale firmata da Giovandomenico è rappresentata dalla Madonna della Grazia custodita a Mazara del Vallo (TP, fig. 21) nella chiesa di San Michele Arcangelo, e dotata di scannello recante, oltre alla firma dell’autore, la data 1542.36 Si tratta di una figura dall’impianto e dalla 33 Da un rogito che nell’ottobre del 1525 menziona Giovandomenico «…major etatis annorum viginti duorum vel circa» deduciamo che egli dovette nascere intorno al 1503 (a Messina) dalla prima moglie di Antonello, Caterina di Blasco. La prima attestazione documentaria che lo riguardi risale al 22 ottobre 1530, quando egli s’impegnava assieme al padre nel completamento della decorazione scultorea della Cappella del Sacramento nel Duomo di Marsala, lasciata incompiuta dallo scultore toscano Bartolomeo Berrettaro. Stando ad una notizia riportata da A. RAGONA, Brevi note sulla tarda attività dello scultore palermitano Giandomenico Gagini primogenito di Antonello, in «Archivio storico siciliano», 28, 2002 (2004), pp. 119-123 [122], sembrerebbe che egli fosse ancora in vita nel 1569, epoca in cui dovette compiere il portale della Casa Giuratoria di Caltagirone. Delle rate di pagamento all’artista di tale commessa sarebbe traccia, secondo lo studioso, nei Discarichi custoditi nell’Archivio di Stato di Catania. 34 Citati già da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 450-451, essi risalgono al 1560 circa (una delle colonne è firmata dallo scultore, oltre che datata). Alcune riprese fotografiche si trovano in H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 425, figg. 432-437. 35 Un atto notarile risalente al febbraio 1543, col quale si stipulava l’esecuzione, da parte di Giovandomenico, di una pala da destinare alla Chiesa Madre di Polizzi Generosa (oggi non più esistente), menziona espressamente la «cona di la abbatia di Petralia la Sultana», alla quale l’artista si sarebbe dovuto riferire nel compiere l’impresa di Polizzi. Sulla scorta di tale notizia, il Kruft assegnò dunque quest’ultima opera al primogenito di Antonello. L’intervento del medesimo autore fu riconosciuto dallo studioso anche nel retablo di Petralia Soprana sulla base delle affinità che esso palesa con quello di Petralia di “Sotto” (cfr. ibidem, pp. 58-59, 426, 525 docc. XI-XIII). 36 Così recita l’iscrizione incisa nello scannello: RDA D.S. CATHERINA DE GVGLIELMO ABBATISSA CONCEPTIO BEATAE MARIAE VIRGINIS HOC OPVS ME FECIT M. DOMINICO DE GAGINI PANORMITANO M542. Nello stesso complesso benedettino di San Michele è allogata la statua del titolare, che il Kruft assegna pure a Giovandomenico. Rispetto alla Vergine, quest’opera 57 composizione molto semplici, che palesano, com’è ovvio, una forte dipendenza dalle analoghe creazioni incise dallo scalpello paterno: la generale rigidità della Madre, evidente anche nell’estrema durezza dei panneggi (si noti in particolare la spessa piega che si origina dal ginocchio destro avanzante e che ricade in basso fino ai piedi), è solo lievemente spezzata dall’accenno di moto del Figlio, sgambettante e con la mano destra alzata in segno di benedizione. Nell’attribuire la pala svettante sull’altare maggiore di Santa Maria di Loreto di Petralia Soprana, Hanno-Walter Kruft non mancò di sottolineare le affinità riscontrate appunto tra la Vergine scolpita nei pannelli decorati con Scene della Vita di Cristo (fig. 23) e l’immagine di Mazara (fig. 21). Il confronto con quest’ultima consentì allo studioso tedesco di restituire al medesimo artista anche una seconda Vergine col Bambino, albergata a Polizzi Generosa nella chiesa di San Girolamo (PA, 1557, figg. 22, 24, 26-27):37 in essa si ripropongono gli stilemi di già evidenziati nell’analogo marmo di Mazara, sebbene essi siano espressi con una maggiore ampiezza di volumi e morbidezza nei drappeggi. L’analisi di questi due manufatti m’induce a ricondurre a Giovandomenico un’altra statua mariana, conservata a Gioiosa Marea (ME, anni cinquanta, figg. 25, 28).38 Essa rimanda puntualmente alla Madonna di Mazara, della quale replica impostazione e dettagli di figurazione, anche i più minuti: i Bambini si caratterizzano per i visi paffuti, le coscette grassocce; la Vergine, come quella di Polizzi (figg. 24-25), si contraddistingue per il naso lungo e dritto, il mento pronunciato, gli occhi grandi solcati da occhiaie (come nell’opera di Mazara), ed è avvolta da un ampio mantello che, sulla destra, esibisce due ben distinti motivi figurativi, vale a dire la già citata piega generata dal ginocchio sporgente e la spropositatamente larga ansa creata attorno al polso destro; sulla sinistra, invece, taglia trasversalmente la figura per tutta la sua ampiezza, lasciando intravvedere la veste sottostante, che termina con delle spesse scanalature profondamente incise. palesa però una notevole flessione stilistica, la quale ne rende meno plausibile l’ascrizione al maestro in persona (cfr. ibidem, p. 425, fig. 448). 37 Ibidem, p. 427. Lo studioso riportò anche il testo dell’iscrizione scolpita nella base: HOC OPVS FIERI FECIT D.NA JOANNA DE BAGIO ANNO D.NI MCCCCCXXXXXVII. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 516, aveva assegnato la scultura a Giacomo Gagini. Negli anni in cui il Kruft la fotografò (riccamente dipinta, figg. 24, 27), la statua era ancora collocata nella sua sede originaria, vale a dire l’Oratorio del Rosario attiguo alla chiesa domenicana di Santo Spirito, dal quale fu trasferita in anni recenti. In occasione del ricovero a San Girolamo, l’opera ha subìto un restauro che ha eliminato le tracce pittoriche esistenti sulla superficie marmorea. 38 Una piccola riproduzione fotografica di questa statua si trova in Itinerari gaginiani, a cura di R. PRINCIOTTA e N. LO CASTRO, Grafo-Editor, Messina 1988, p. 36, dove si sostiene anche che essa proverrebbe dalla chiesa della Catena sita nell’antico abitato di Gioiosa Guardia. Il naso del Bambino, spuntatosi in epoca imprecisata, è frutto di un recente restauro. 58 II.3 Antonino Gagini a Siracusa e a Tortorici. Tra le migliori prove eseguite da Antonello Gagini durante la sua lunga e prolifica attività si collocano le statue raffiguranti Sante Vergini e Martiri che, dal primo decennio del secolo in poi, s’installarono su molti altari a loro dedicati di altrettante località siciliane. Autografi del capobottega devono a tutti gli effetti reputarsi le Sante Maria Maddalena di Buccheri (SR, 1507-08, fig. 29), Oliva e Maria Maddalena di Alcamo (TP, rispettivamente 1511 e 1520), Margherita (Cleveland, Museum of Art, 1525) e Lucia (Siracusa, Duomo, 1527, fig. 30), capolavori d’armonia compositiva, morbidezza e raffinatezza d’intaglio e intensità espressiva.39 Quando, nel 1527, fu portato a termine l’ultimo di questi splendidi “prototipi”, Antonino, secondogenito dell’artista siciliano, iniziava a muovere i primi passi all’interno dell’officina paterna.40 Risale al 1531 la prima traccia documentaria a lui relativa (assieme al fratello maggiore Giovandomenico), che si sostanziò già in un incarico di responsabilità: si trattava, infatti, di compiere la decorazione scultorea della Cappella della Santissima Annunziata nell’omonima chiesa di Trapani.41 Dopo soli due anni, il padre spedì il giovane rampollo (che doveva da poco aver raggiunto la maggiore età) a Carrara, al fine di scegliere i marmi destinati alla Tribuna della Cattedrale di Palermo, allora in opera, e senza i 39 Vedi H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., rispettivamente pp. 369, 366-367, 375, 418-419. Sulla derivazione di queste opere dai meravigliosi marmi che sul 1491-92 Benedetto da Maiano spedì a Terranova (RC), nonché sull’ipotesi di un più che probabile apprendistato di Antonello presso l’officina del maestro toscano, cfr. F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 979-1042 [990-1006]. La Santa Caterina d’Alessandria di Benedetto, cui queste figure antonelliane si rifanno più o meno esplicitamente, faceva parte in origine di un retablo marmoreo che prevedeva altre due statue, raffiguranti una Madonna col Bambino ed un San Sebastiano. La vicenda della commissione di questa pala d’altare a Benedetto da Maiano è stata per la prima volta ricostruita da F. CAGLIOTI, G. GENTILINI, Il quinto centenario di Benedetto da Maiano e alcuni marmi dell’artista in Calabria, nel “Bulletin de l’Association des Historiens de l’Art Italien”, 3, 1996-97, pp. 1-4. Oggi l’immagine mariana (nota come Madonna della Neve), la Santa Caterina ed il bassorilievo con il tetramorfo, anch’esso parte dell’ancona che Marino Correale aveva commissionato al Maiano, sono custoditi nella parrocchiale di Santa Maria Assunta e Sant’Elia a Terranova Sappo Minulio (RC), il nuovo borgo che sostituì l’antica Terranova, annientata dal terremoto del 1783. Il San Sebastiano, invece, già allogato nella Casa dei Padri Missionari dell’Evangelizzazione, è oggi nel Museo Diocesano di Oppido Mamertina. Tutti questi pezzi provengono dalla distrutta chiesa del monastero di Santa Caterina d’Alessandria. La Santa Caterina e il San Sebastiano sono stati di recente restaurati dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze: F. CAGLIOTI (con J. HOYTE e L. SPERANZA), Benedetto da Maiano in Calabria. Il restauro della Santa Caterina d’Alessandria e del San Sebastiano di Terranova Sappo Minùlio, in “OPD restauro”, XVII, 2005, pp. 27-46. 40 Se, come poco oltre si dirà, nel 1531 egli ricevette il primo incarico, dobbiamo immaginare che a quella data egli fosse maggiorenne: la sua data di nascita deve dunque collocarsi intorno al 151314. Un ulteriore dato aggiuntivo può essere quello che emerge da una carta d’archivio del 1536 rintracciata e pubblicata da G. Di MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 427: in essa Antonino viene definito “tutor” e “curator” dei fratelli minori (Giacomo, Fazio, Vincenzo). Cfr. anche H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 60, 526 doc. VIII. 41 Ibidem, pp. 505-506 doc. CXLVIII. 59 quali «magister Antonius ipse non possit operare nisi usque quo venient dicte carrate L.ta marmorum dicte ecclesie».42 La considerazione che le carriere dei due fratelli iniziarono quasi contemporaneamente (Giovandomenico compare per la prima volta nelle carte d’archivio nel 1530, vale a dire appena un anno prima di Antonino, ma era più anziano di una decina d’anni almeno)43 c’induce a credere che nel secondo figlio Antonello dovette riporre maggiori aspettative. Se così non fosse stato, non si spiegherebbe il motivo per cui egli non affidò al primogenito il così delicato compito di supervisionare la scelta e l’imbarco dei marmi riservati alla più prestigiosa tra le commesse ricevute dalla bottega gaginiana. D’altronde, a questa stessa impresa collaborò largamente proprio Antonino, con l’ulteriore partecipazione del fratello minore Giacomo: un rogito datato 18 maggio 1539 ci conferma, infatti, che i due scultori a quelle date avevano consegnato i Santi Stefano e Sebastiano, Benedetto e Damiano (compiuti da Giacomo) e, in due tranches, i Santi Cristoforo e Lorenzo (ad opera di Antonino, entro il 1536), Cosma, Francesco d’Assisi, Antonio Abate, Domenico, Ninfa, Cristina, Maddalena, Caterina, Lucia, Oliva, Agnese e Agata (sempre eseguiti da Antonino, entro il 1539).44 Pur dovendo precisare che non tutte queste sculture poterono essere realizzate da Antonino per intero, ma che dovettero quasi certamente intervenire degli aiuti, ciò nondimeno ritengo valido basarmi su queste statue per avanzare in questa sede l’attribuzione al medesimo autore di una coppia di Sante Martiri custodite a Siracusa. Mi riferisco alle Sante Lucia e Margherita (figg. 31, 35) erette su basi novecentesche ai lati dell’altare maggiore della chiesetta di San Pietro al Carmine, sita nell’antico quartiere della Graziella.45 Le due figure rievocano direttamente quelle commissionati ad Antonino per l’abside palermitana: guardando a quest’impresa, buoni raffronti possono essere istituiti, ad esempio, con le Sante Lucia e Cristina (figg. 32, 36). Lo scultore dichiara apertamente di rifarsi a queste ultime, visto che l’impostazione delle immagini siracusane, la gestualità e lo svolgimento dei panneggi replicano puntualmente quelli palermitani (figg. 31-32, 35-36). Spostandoci da Palermo alla provincia di Messina, un ulteriore termine di paragone può essere individuato nella Santa Caterina d’Alessandria, datata nello scannello 1550, che Hanno-Walter Kruft attribuì nel 1980 al secondogenito di 42 Ibidem, pp. 60, 510 doc. CLVII. Cfr. supra, nota 33. 44 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 402, 526-527 docc. IV, VII, XVI. 45 L’edificio di culto dovette essere fondato nel XIV secolo: il primo registro di battesimi tuttora conservato in chiesa risale al 1367. Ristrutturata a seguito dei danni arrecati dal sisma del 1693, la fabbrica fu presto riconsacrata e aperta ai fedeli. Nel 1926 l’arcivescovo Giacomo Carabelli (19261933) trasferì la titolarità della parrocchia nella vicina chiesa della Madonna del Carmine, e così essa fu, da quel momento in poi, denominata “S. Pietro al Carmine”. 43 60 Antonello (Galati Mamertino, fig. 39).46 Specie la Santa Lucia vi si accosta agilmente, per la veste che all’altezza del petto s’increspa in fitte plissettature, e che aderisce al ginocchio destro, dando vita a quella caratteristica piega dura e spessa ricadente sui piedi; per il volto allungato e dall’ampia arcata sopracciliare; nonché per i capelli dalle larghe e nodose ciocche visibilmente lavorate col trapano (figg. 33, 43). Del marmo di Galati Mamertino le due statue potrebbero condividere anche la cronologia, attestandosi dunque nella fase centrale dell’attività di Antonino. Risulta interessante, e nel contempo sorprendente, come, ad una distanza di venti e più anni, gli schemi adottati entro l’officina siano ancora quelli elaborati dal capobottega nei primi decenni del secolo. La Santa Margherita, ad esempio, si rifà alla Maddalena e alla Santa Lucia sopra citate, accennando a quell’ampiezza di volumi che contraddistingue i due archetipi antonelliani, pur senza riuscirci (figg. 29-30, 35, 37); la Santa Lucia, invece, potrebbe classificarsi come una sorta di ibrido tra i vari prototipi paterni, sebbene si apparenti maggiormente alla Maddalena di Buccheri (figg. 29-31), con esiti a dir poco deludenti. Ciò conferma, ancora una volta, che la peculiarità dell’arte scultorea nella Sicilia del Cinquecento fu indiscutibilmente la ripetizione, talora seriale, di modelli di grande successo. Il gusto attardato della committenza da un lato, l’incapacità di rinnovamento degli artisti dall’altro furono la causa della sclerotizzazione della produzione marmorea durante l’intero periodo. Respira una comune “aura” antoniniana anche l’inedita Madonna del Soccorso (fig. 40) ricoverata nella chiesetta di Santa Chiara (comunemente detta la “Badia”) a Tortorici, forse proveniente da un altro edificio di culto della bella cittadina abbarbicata sui Nebrodi.47 In epoca imprecisata, essa è stata coperta da una spessa ridipintura che impedisce di leggere i sottili grafismi che ne caratterizzano, ad esempio, le chiome, e che sono ben evidenti, al contrario, nelle figure di Galati Mamertino e in quelle siracusane. Eppure, se si osserva il panneggio, dalla veste plissettata e rimboccata sul petto per via del cinturino che la stringe all’altezza della vita, e che ritorna identica nella Santa Margherita di Siracusa e (pur senza l’opzione della cinta) nella Caterina di Galati (figg. 35, 39, 45-46); e ancora, se si bada alle stringenti affinità esistenti tra i volti di queste ultime immagini e quello della Vergine di Tortorici, non si potrà obiettare all’ipotesi della presenza di stilemi molto simili a quelli tipici del secondogenito di Antonello (figg. 33, 36, 43-44). Ciò non esclude ovviamente, per il manufatto tortoriciano, la possibilità di un contributo di un collaboratore, forse autore anche dei bei personaggi scolpiti nello scannello, i cui modi espressivi compaiono, non a caso, nella base di Galati Mamertino. Questa coppia di plinti, infatti, lungi dall’essere stata scolpita in maniera 46 Ibidem, p. 431. L’unica navata della chiesa ormai sconsacrata e in stato di abbandono è diventata punto di raccolta e di ricovero di molti marmi provenienti da alcune fabbriche religiose del borgo: cfr. S. FRANCHINA ANZALONE, Tortorici: le chiese, le contese, le opere pie. Storia e arte, Di Nicolò, Messina 2006, pp. 45-47. 47 61 grossolana e approssimativa, come talora accade in oggetti simili, si contraddistingue per la finezza dell’intaglio e per una certa eleganza esibita dalle figurine allungate che ne popolano le superfici, e che indossano drappeggi dalle insolite linee taglienti ed affilate (figg. 41-42).48 II.4 Da Antonello a Giacomo Gagini: una nuova proposta e qualche revisione al catalogo del Kruft. Quando, nel 1536, Antonello morì, il terzogenito Giacomo doveva aver da poco superato la maggiore età, e aveva già avuto modo di esprimere la propria virtù tecnica almeno in un paio di lavori compiuti in autonomia.49 Mi riferisco al Santo Stefano monumentale destinato alla decorazione della tribuna della Cattedrale di Palermo concepita anni prima dal padre, e alle mezze figure rappresentanti la Madonna delle Grazie (fig. 54) e i Santi Francesco e Oliva scolpite sul portale della chiesa di San Francesco (PA).50 Al maggio 1542 risaliva l’impegnativo retablo per la Chiesa Matrice di Sinagra (ME), che prevedeva, su uno zoccolo con la teoria di Apostoli, la disposizione, entro profonde nicchie, della Vergine col Bambino (fig. 47) fiancheggiata dai Santi Giorgio e Giovanni Evangelista, e un fastigio con la Resurrezione di Cristo al centro, sormontata dal Dio Padre Benedicente, e ai lati l’Annunciazione. Quest’impresa testimonia la stretta derivazione, per struttura compositiva e per tipologia, dagli analoghi esempi antonelliani, quali, ad esempio, l’altare nella Cappella di Santa Cita a Palermo 48 Simili motivi figurativi si trovano nella base su cui in origine si ergeva la Sant’Elena che Fazio Gagini, quarto figlio di Antonello, compì per la Cattedrale di Palermo intorno al 1543. Rimandano ai plinti di Galati e di Tortorici anche le figure longilinee scolpite dai fratelli Fazio e Vincenzo nei pannelli decorativi dell’Arco della Cappella di Santa Cristina nel Duomo di Palermo (1557-1565): si osservino, in particolare, i personaggi negli scomparti con Cristo davanti a Caifa, l’Ecce Homo e la Flagellazione di Cristo (cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., figg. 512, 513, 516), “gemelli” di quelli che decorano la scena della Santa Caterina davanti al giudice nell’opera di Galati. 49 Egli fu battezzato nel dicembre del 1517. Nel 1536, assieme al fratello maggiore Antonino, Giacomo viene citato in un rogito relativo all’Annunciata che Antonello due anni prima aveva promesso di eseguire per Longi (ME), e che ancora a quella data non era stata compiuta. Sempre nel 1536, il terzogenito di Antonello s’impegnava a portare a compimento due statue, raffiguranti la Madonna della Consolazione e San Benedetto, precedentemente commissionate al padre dalla confraternita di San Benedetto di Caltabellotta (AG). Per queste due opere, cfr. ibidem, pp. 378, 522 doc. CLXXXV; pp. 369-370, 517-518 doc. CLXXIV, 532-533. Nella Vergine Annunciata di Longi mi sembra debba riconoscersi l’intervento di Antonino, mentre la coppia di marmi di Caltabellotta, ancora oggi custoditi nella chiesa del Carmine, si contraddistingue per una nobiltà dell’intaglio (specie la Madonna) che farebbe pensare ad un diretto coinvolgimento di Antonello, il quale avrebbe pertanto scolpito le due figure quasi interamente, lasciandone qualche aggiusto e la rifinitura a Giacomo. A quest’ultimo può forse ricondursi lo scannello, recante nella faccia centrale la Natività, con i personaggi non a caso molto simili a quelli che compaiono nella base della Madonna di Gioiosa Marea, che qui gli si attribuisce. 50 Per le sculture poste sul Portale di San Francesco, cfr. ibidem, p. 434. 62 (1504-17),51 la pala, compiuta dalla bottega, custodita a San Salvatore di Fitalia (ME, 1527-28), o ancora il retablo eucaristico della Chiesa Madre di Roccella Valdemone (ME, 1526-28).52 In questa fase, da datare entro il quarto decennio del secolo, lo stile di Giacomo rievoca da vicino quello paterno, del quale tende a replicare specialmente le dolcezze espressive e la morbidezza dei panneggi, com’è evidente nelle sculture femminili a lui attribuibili con certezza. La piccola immagine mariana che si staglia al centro del citato portale di San Francesco nonché la statua, di identico soggetto, ospitata nell’ancona di Sinagra, richiamano simili modelli autografi di Antonello non soltanto per la tipologia, ma anche per gli aspetti formali. Penso, ad esempio, ai meravigliosi manufatti eseguiti dal capobottega per Nicotera (RC, 1498-99), Seminara (RC, 1508 circa, San Marco), Vibo Valentia (Cattedrale, 1525-30) e Siracusa (Duomo, 1526-35).53 Il tipo della Madonna lactans, espresso dalle opere di Vibo Valentia e di Siracusa, viene rispettato puntualmente nella mezza figura di San Francesco (fig. 54), sul cui petto, ai lati del seno scoperto, il Bambino appoggia dolcemente le manine. In quest’ultima, però, Giacomo tenta di rendere, prelevandolo direttamente dalle creazioni paterne, anche l’accentuato pittoricismo che contraddistingue i volti, dai tratti gentili ma sottilmente grafici, che si ritrovano anche in un’altra Vergine assegnata da Hanno-Walter Kruft ad Antonello col contributo della bottega, e che si conserva nel Palazzo Arcivescovile di Monreale.54 Il saldo ed equilibrato impianto del marmo di Sinagra, con la pacata stesura dei volumi e il morbido e armonico girare dei panneggi, rimanda invece direttamente alla coppia antonelliana Nicotera-Seminara realizzata dal maestro entro il soggiorno messinese, benché dallo stesso replicata in altre occasioni per altrettante destinazioni.55 Caratteristiche molto simili a quelle fin qui individuate, da considerare pertanto tipiche dei modi espressivi di Giacomo, sono riscontrabili in un gruppo piuttosto omogeneo di statue mariane custodite a Galati Mamertino (ME, fig. 48), Salemi (TP, fig. 50)56 e Gioiosa Marea (ME, fig. 49).57 Il Kruft pubblicò le prime due 51 Ibidem, pp. 408, 447-449 docc. XXI-XXII. Ibidem, pp. 413-414. 53 Per tutti questi marmi, cfr. ibidem, pp. 385-386, 416-417, 423-424, 418. 54 Ibidem, p. 382. Molto opportunamente lo studioso tedesco sottolineò le tangenze formali esistenti tra la Madonna monrealese e la statua, di identico soggetto, compiuta da Andrea Sansovino per la Cappella di San Giovanni Battista nella Cattedrale di Genova (1502-03). Tale rapporto stilistico, di per sé validissimo, si consolida ulteriormente ora che, grazie alla lettura critica di Francesco Caglioti, è stato ampiamente chiarificato il periodo di formazione di Antonello presso la bottega fiorentina di Benedetto da Maiano (F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 1000-1002). Manca ancora un’analoga analisi del percorso formativo di Andrea Sansovino, anch’egli avviato all’arte del marmo nell’officina maianesca (sebbene in anni precedenti a quelli del Gagini). 55 Si annoverano qui gli esemplari di Mesoraca (KR, Santa Maria della Grazia, 1504), Amantea (CS, San Bernardino, 1505), Morano Calabro (CS, Collegiata della Maddalena, 1505), Caltagirone (CT, Santa Maria di Gesù, 1505 circa). 56 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 377, 414-415. 52 63 immagini nel volume monografico su Antonello, con la generica attribuzione alla bottega di questi: se in quella di Galati si avverte una chiara flessione stilistica da addebitarsi verosimilmente all’intervento di un collaboratore, nell’opera di Salemi mi sembra di scorgere con chiarezza i tratti formali del terzogenito di Antonello. Gli elementi che accomunano questi marmi a quelli di San Francesco e di Sinagra (figg. 47, 51-52, 53-55), vale a dire l’ingentilimento espressivo e la morbidezza nella resa delle vesti, sono altresì espressione di una contiguità con la Madonna delle Grazie di Gioiosa Marea, che replica puntualmente lo schema di Sinagra. Minuti ma determinanti dettagli di confronto “morelliano” accostano altresì le testine di cherubini scolpite nello scannello di Gioiosa alle figure gemelle di Salemi, delle quali esse riprendono anche il grafismo nella sottolineatura delle ali e delle ciocche (figg. 56-57).58 II.5 Due aggiunte al corpus di Vincenzo Gagini: la Madonna col Bambino della Magione di Palermo e la Santa di Rochester. Ultimo tra i figli di Antonello, Vincenzo fu l’unico tra i fratelli a non aver potuto giovarsi direttamente della lezione paterna.59 Egli dovette perciò essere avviato all’arte dell’intaglio scultoreo dai fratelli maggiori Giacomo e Fazio, anch’essi nati dall’unione di Antonello con la seconda moglie Antonina di Valena: con il secondo, anzi, più grande di sette anni, Vincenzo è documentato all’opera in più di un’impresa già a partire dal 1545.60 Benché appartenente ad un’altra generazione, e inserito ormai a pieno titolo in un diverso contesto figurativo, che aveva sostituito il classiscimo rinascimentale con il più inquieto linguaggio manieristico, lo scultore non palesò un’aperta adesione al nuovo sentire, se non in qualche lavoro dallo spiccato carattere decorativo. È questo, ad esempio, il caso della bella cornice marmorea che cinge il balcone angolare del Palazzo Arcivescovile di Palermo, progettata ed eseguita nel 1579.61 La terminazione a timpano spezzato dotato di 57 L’opera è stata segnalata, con un accostamento allo stile di Giacomo, in Itinerari gaginiani cit., p. 33. 58 Malgrado che nell’opera di Gioiosa Marea tale insistenza dello scultore nella definizione minuziosa dei capelli e delle ali si apprezzi di meno a causa di una spessa ridipintura che appiattisce il rilievo. 59 Vincenzo nacque nel 1527, e il padre morì quando egli aveva solo nove anni. 60 Al 1545 risale la partecipazione di Vincenzo all’esecuzione del portico del Duomo di Monreale, mentre tra il 1563 ed il 1567, sempre assieme a Fazio, egli eresse il portico settentrionale della Cattedrale palermitana (G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 558 nota 2). 61 G. BELLAFIORE, Palermo. Guida della città e dei dintorni, Punto Grafica, Palermo 1995, p. 33. Similare, per tipologia e scelte decorative, è un portale d’accesso alla cappella che un tale Alfonso Caruso stava facendo erigere, in quegli stessi anni, all’interno della chiesa palermitana di Sant’Agostino. Del portale, di cui non rimane alcuna traccia, nel 1994 è stato pubblicato il disegno, rintracciato da Benedetta Fasone nell’Archivio di Stato di Palermo (B. FASONE, Nuove acquisizioni 64 volute terminali, i due pesanti cespi di frutta appesi ai lati del timpano stesso e le lesene scavate da tre profonde scanalature e culminanti nelle insolite corone di frutti divergono chiaramente dai consueti canoni della rappresentazione architettonica sinora espressi dalla bottega gaginiana, e da Vincenzo stesso adoperati e rispettati nella realizzazione dei due portali di accesso alla Cappella del Tesoro della Cattedrale palermitana (1568-70).62 In un’altra occasione ancora il Gagini junior si presentò libero dagli schemi del genitore: si tratta delle formelle che decorano l’arco di accesso alla Cappella del Crocifisso, sempre nella maggiore chiesa di Palermo (1557-65), ma la documentata partecipazione del fratello Fazio all’impresa non consente di individuare con precisione le rispettive spettanze dei due artisti.63 Se dunque una sorta di emancipazione dai vincolanti modelli paterni era stata espressa da Vincenzo in qualche lavoro di formato ridotto, quali appunto i bassorilievi della cappella palermitana, o qualche altro lavoro dalla natura prettamente ornativa, come il citato balcone dell’Arcivescovado, lo stesso non può dirsi per le sculture monumentali che egli licenziò nell’arco della carriera. Basti guardare la documentata Vergine Assunta custodita a Naso nella Chiesa Madre (ME, 1549, fig. 58), che replica palesemente il fortunato modello spedito anni prima dal genitore a Monteleone (attuale Vibo Valentia, 1524-34).64 In quest’ultimo caso, Antonello aveva concepito la figura orante e col viso rivolto verso l’alto, issata al cielo da due coppie di angeli, l’una inginocchiata ai suoi piedi, l’altra raffigurata in volo mentre ne sostiene gli arti superiori. Ebbene, benché la statua calabra sia una Maddalena, Vincenzo dichiarò apertamente la dipendenza della sua Assunta da quella del padre, anche in alcuni minuti dettagli, quali, ad esempio, le chiome dei capelli, a spesse ciocche ricadenti sul petto. Allo stesso modo, nell’eseguire i Santi Giacomo, Filippo e Vito per la confraternita di San Giacomo a Trapani (1553, Museo Regionale Pepoli, figg. 60, 62), l’artista dovette avere ben a mente i prototipi antonelliani, tra cui vale la pena ricordare almeno il San Giacomo compiuto poco più di trent’anni prima sempre per la congrega del santo di Compostela (Museo Regionale Pepoli). Nel solco della documentarie sull’attività artistica siciliana tra il XVI e il XVIII secolo, in «BCA Sicilia», n.s., III/IV, 1993/94, pp. 82-87, e EADEM, L’arco di Vincenzo Gagini per il convento di S. Agostino in Palermo, in «Retablo», 1, 1999, 7, pp. 1-2). Per una breve analisi stilistica del portale, cfr. anche E. GAROFALO, Un disegno di Vincenzo Gagini per la cappella Caruso nel convento di S. Agostino a Palermo, in «Lexicon. Storia e architettura di Sicilia, dal tardogotico al rinascimento», 5/6, 2008, pp. 126-128. 62 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 439-440. 63 L’incarico era stato affidato a Fazio, ma il coinvolgimento di Vincenzo è certo (G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 556-557; H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 67-70, 436-438, figg. 508-522). Lo stesso Kruft (ibidem, p. 438) riconobbe, in alcune delle formelle (nello specifico quelle raffiguranti l’Ecce Homo e l’Andata al Calvario), i debiti contratti dai due artisti nei confronti di illustri modelli quali le incisioni di Dürer facenti parte della serie della Piccola Passione e lo Spasimo di Sicilia di Raffaello, all’epoca collocato nella chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo. 64 Ibidem, pp. 423-424. 65 riproposizione degli archetipi paterni credo possa inserirsi anche una Santa, non identificata a causa della mancanza di specifici attributi, che Hanno-Walter Kruft pubblicò nel 1980 con un’attribuzione al capobottega e al secondogenito Antonino e che oggi è conservata a Rochester (Memorial Art Gallery, fig. 59).65 Sebbene non manchino, come proposto dallo studioso tedesco, alcuni legami con i modi espressivi di Antonino (che, come abbiamo visto sopra, si è cimentato più di una volta nella rappresentazione di sante martiri a grandezza naturale), il confronto tra la Santa statunitense e l’Assunta di Naso mi sembra rivelatore di un comune trattamento delle superifici marmoree, tendenti al pittoricismo, nonché di un similare sviluppo delle linee compositive dei drappeggi, caratterizzate dalle numerose e taglienti falcature del mantello. Inoltre, osservando i volti delle due figure (figg. 61-62), si noteranno le ampie arcate sopracciliari, nettamente delineate, che accolgono gli occhi piccoli, le bocche strette, i nasi sottili e un po’ allungati. Infine, identica è la resa dei capelli, appiattiti sulla fronte e perfettamente divisi in due lunghe chiome dalle ciocche a spirale profondamente solcate e distinte tra di loro dallo scavo del trapano. Tra le commesse di Naso e di Trapani si colloca una Santa Caterina d’Alessandria commissionata a Vincenzo nel 1550 e ancora oggi custodita nella chiesetta omonima di Barcellona Pozzo di Gotto (ME, figg. 65, 67).66 Dallo strumento notarile si evince che allo scultore fu chiesto di replicare la statua, di identico soggetto, dal padre eseguita per la chiesa di San Domenico a Palermo (1527).67 In questo caso, in cui la derivazione dal modello di Antonello era un’espressa richiesta della committenza, Vincenzo fornì una personale reinterpretazione del suo modello. Benché, infatti, l’impianto compositivo, il 65 Per il marmo di Naso, cfr. A. BILARDO, Scultura, pittura, arti decorative a Naso dal XV al XIX secolo, Edizione Pro Loco Città di Naso, Arti graf. Zuccarello, Sant’Agata Militello 1990; per la Maddalena di Vibo, vedi H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., p. 414. 66 L’atto è stato rintracciato e pubblicato da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 566; II, pp. 297-298 doc. CCXXXVI. La Santa di Barcellona è stata identificata da Domenico Puzzolo Sigillo nella statua commissionata nel 1550 a Vincenzo Gagini da un procuratore della confraternita di Santa Caterina di Milazzo, e poi consegnata nel 1552. Il Puzzolo Sigillo aggiunse altresì un dettaglio importante alla propria ricostruzione: la chiesa ospitante il marmo, oggi in località "Nasari" nel comune di Barcellona, in passato ricadeva nel territorio di Milazzo. La precisazione del Puzzolo era necessaria, perché lo studioso in tal modo fugava ogni dubbio circa l'attribuzione a Giuseppe Bottone di una seconda Santa Caterina conservata in un piccolo edificio di culto, anch'esso dedicato alla Santa, esistente a Milazzo. Infatti, un atto notarile del 1560, rintracciato dallo stesso Puzzolo Sigillo, restituiva con certezza questa statua al Bottone: grazie a quest’ultimo documento, e alla conseguente ricostruzione dell'intera vicenda proposta dallo studioso messinese, cadeva definitivamente l'ipotesi di Stefano Bottari (Di Martino Montanini scultore del secolo XVI, in «Arte Cristiana», 6, 1930, pp. 162-172) di collegamento tra il rogito del 1550 e la Santa di Milazzo (secondo lui da riferire a Vincenzo Gagini). Nonostante ciò, ancora Kruft (Antonello Gagini cit., p. 439, figg. 524-525) e Negri Arnoldi (Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, pp. 291-292, fig. 302) ribadirono l'ascrizione al Gagini dell'opera bottoniana di Milazzo, fin quando, nel 2003, Caterina di Giacomo ha riesaminato l'intera vicenda chiarendo il tutto alla luce della giusta intuizione del Puzzolo. Per ulteriori dettagli sulla statua di Milazzo, opera di Giuseppe Bottone, cfr. qui il Capitolo V, scheda n. 4. 67 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 404-405, 495 doc. CXIX. 66 panneggio e la tipologia del viso, tondo e dalla capigliatura raccolta dietro la nuca e ricadente sulla spalla destra, corrispondano a quelli espressi nella scultura di Palermo, il Gagini junior sembra qui esibire uno stile più personale e di certo più autonomo dal classico equilibrio paterno. A dispetto delle ampie pieghe del drappeggio, simili a quelle dell’esemplare antonelliano, la Santa di Barcellona si contraddistingue per caratteri fisionomici più marcati, gli occhi sembrano quasi incavati dentro le profonde arcate sopracciliari, le narici si allargano, e compaiono due fossette sotto il naso e al di sotto della bocca, che si presentano più carnose. Insomma, una maggiore espressività caratterizza il marmo di Vincenzo. Stringenti analogie con la Santa Caterina di Barcellona palesa anche una bella Madonna col Bambino collocata nella chiesa della Magione a Palermo (fig. 64), che proporrei di restituire all’attività di Vincenzo sugli anni cinquanta. L’opera, ospitata in una delle più antiche fabbriche religiose della città, è stata pubblicata qualche anno fa da Francesco Negri Arnoldi come lavoro di collaborazione tra Antonello e il figlio Giacomo. Essa mostra invece, a mio avviso, numerosi elementi comuni allo stile del terzogenito di Antonello, analoghi a quelli di già evidenziati nella Santa barcellonese.68 In particolare, spinge a sostenere la tesi dell’autografia “vincenziana” la compresenza, nella scultura, di un equilibrio e di una compostezza derivati dagli esempi del Gagini senior (evidenti specie nelle panneggiature), nettamente contrapposti alla marcata caratterizzazione del volto. Anche nella Vergine di Palermo, infatti, risaltano i lineamenti decisi, con gli occhi piccoli e le palpebre leggermente abbassate, e le due fossette tra il naso e il mento, un po’ sporgente. Il Negri Arnoldi, che ha avuto il merito di puntare finalmente l’attenzione sulla statua, letteralmente dimenticata dagli studi, pensava di riconoscere nel Bambino, «dormiente, ma con gli occhi aperti», o ancora nelle sue «mani rattrappite, con le dita uncinate, anziché mirabilmente articolate, come nelle figure di Antonello», l’intervento di Giacomo, che portò a compimento alcuni dei lavori intrapresi dal genitore e da questi non terminati a causa della morte (1536). L’esame dello stile di Giacomo, secondo quanto si evince dalle opere accertate, non sembra tuttavia risolutivo al fine di ricondurre la Madonna palermitana all’attività di questo scultore: come si è evidenziato nel paragrafo precedente, i modi espressivi del primogenito di Antonello e Antonina di Valena spiccano per una grazia ed una gentilezza aliene al linguaggio di Vincenzo. Un ulteriore termine di confronto utile ad avvalorare l’ascrizione del manufatto della Magione al Gagini junior può trovarsi negli angeli che sorreggono il volo della già citata Assunta di Naso (figg. 66, 68), i quali condividono i medesimi tratti fisionomici del marmo di Palermo. Elemento “estraneo”, da un punto di vista formale, al ductus di Vincenzo, che in questa rapida carrellata si è tentato di delineare, è rappresentato da una 68 F. NEGRI ARNOLDI, Su quattro marmi siciliani del Cinquecento, in «Kronos», 13, 2009, I, Scritti in onore di Francesco Abbate, pp. 91-94 [91]. 67 seconda immagine mariana, firmata dall’artista nello scannello e datata 1566 (Burgio, AG, Chiesa Madre). Questo marmo mostra una flessione stilistica tale da indurre a credere che, pur commissionato al Gagini junior, esso sia stato da questi affidato ad un poco abile collaboratore. La firma sarebbe stata dunque apposta dal maestro quale ulteriore e tangibile prova, agli occhi dei committenti, dell’intervento del capobottega, il quale dovette però, evidentemente, fornirne soltanto lo schema. 68 CAPITOLO III L’attività di Antonello Freri dalla fine del Quattrocento alla “società” con Giovambattista Mazzolo 69 III.1 Antonello Freri e la Cappella di Sant’Agata nella Cattedrale di Catania: nuove proposte d’analisi dei manufatti e d’indagine stilistica. Le sorti figurative di quella che è da considerare a tutti gli effetti la cappella più importante non solo della maggiore chiesa catanese ma anche, verosimilmente, dell’intera città etnea, sono state affidate in toto alla responsabilità di Antonello Freri, mediocre maestro del marmo attivo a Messina dal 1479.1 Stando infatti alla firma apposta al lato sinistro della trabeazione del portale d’accesso al sacello (fig. 2), che custodisce, entro un prezioso reliquiario d’argento, le spoglie della vergine Agata,2 nonché alla documentazione archivistica rintracciata nella prima metà del XX secolo da alcuni eruditi locali,3 si desume che l’autore dell’apparato scultoreo del grandioso ambiente liturgico debba identificarsi proprio nell’artista messinese. Una diffusa omogeneità stilistica e formale pervade infatti l’intera cappella, caratterizzandola visibilmente all’interno della Cattedrale: il Portale (a sinistra, fig. 1), il Monumento funebre del viceré Ferdinando d’Acuña (a destra, fig. 5) e l’altare con l’Incoronazione di Sant’Agata (sulla parete di fondo, fig. 6), oltre che per lo scintillio dell’oro che li ricopre copiosamente, sono accomunati da una simile matrice stilistica, di forte impronta tardo-quattrocentesca. Pur tuttavia, ad uno sguardo più attento, singolari e non esigue discordanze di stile emergono tra i tre complessi marmorei eretti all’interno del vano collocato alla 1 Risale al febbraio del 1479 la prima attestazione documentaria relativa a questo maestro, il quale in quella data s’impegnava con un tale Giacomo Micari a scolpire un tabernacolo eucaristico, per un compenso di dodici ducati, da collocare nella chiesa messinese di San Nicolò. La destinazione del marmo, non specificata nel rogito del 1479, si deduce da un atto successivo, risalente al 1499, nel quale il nobile Tommaso de Lignamine chiedeva ad Antonello di rinnovare l’arredo scultoreo della tribuna della chiesa dedicata al vescovo di Mira e di cui il De Lignamine possedeva il patronato. Per l’occasione lo scultore avrebbe dovuto eseguire un nuovo altare «ad modum altaris maginifici Jacobi Micari fundatum intus eadem ecclesiam». Per i due documenti d’archivio, cfr. E. MAUCERI, Nuovi documenti inediti intorno alla scultura e pittura messinese del secolo XV, in «Rassegna d’arte antica e moderna», I, 1919, pp. 75, 78 doc. IV, e IDEM, Nuove notizie intorno alla pittura e scultura del Rinascimento in Messina, Tip. Guerriera, Messina 1920, pp. 9-10. Nei circa venti atti notarili sinora noti riguardanti il Freri, e relativi al periodo 1479-1523, il nome di questi compare di volta in volta con occorrenze diverse, tra cui “Antonellus di lu Fleri”, “Antonius Fleri”, “Antonellus Freri”, “Antonius de Freri, alias de Buctono”, “Antonius Buctuni”, “Antonius di Buctone”, “Antonello Buctuni”. 2 OPVS ANTONI DE FRERI MESSENENSIS. 3 F. PATERNÒ CASTELLO, Il mausoleo del viceré don Fernardo de Acuna in Catania, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1907, pp. 125-134; G. ARDIZZONI, Sulla costruzione dell’ancona nella cappella di S. Agata nella cattedrale di Catania ritenuta sinora d’ignota origine, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», 1918, pp. 224-238; V. CASAGRANDI, La fondazione della monumentale cappella di S. Agata, auspice Donna Maria d’Avila vedova del Viceré Ferdinando d’Acuna e per opera dello scultore messinese Antonio de Freri (da documenti coevi), in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1927-28, pp. 359-389; G. BASILE, Le opere di Antonio de Freri nella cappella di S. Agata nella cattedrale di Catania, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1932, pp. 95-121. 70 sinistra della tribuna catanese.4 Prima però di procedere all’analisi formale (il solo strumento utile, in questo caso, ad una più approfondita comprensione delle diverse fasi esecutive dei manufatti), è opportuno riassumere brevemente le vicende relative alla committenza, nonché alcuni imprescindibili dati documentari su quest’imponente impresa scultorea. L’impianto architettonico e decorativo della porta della cella di Sant’Agata e la Tomba del Viceré furono eseguiti in breve tempo, tra il 15 novembre 1494 e il luglio dell’anno successivo, così come attestano ben due iscrizioni, entrambe esibite sul portale stesso: la prima, esposta entro un cartiglio sostenuto da due puttini e collocato subito al di sopra della porta vera e propria (fig. 4),5 e la seconda, incisa sul lato destro della trabeazione su cui poggia la nicchia che ospita l’effigie marmorea della Santa (fig. 3).6 Alle due opere, dunque, il Freri dovette lavorare simultaneamente, sebbene sia necessario ricordare che la costruzione del portale precedette, se pur di poco, l’inizio dei lavori al sepolcro. Mentre per l’erezione di quest’ultimo, infatti, Maria d’Avila, vedova del viceré (deceduto il 2 dicembre 1494), fu autorizzata ufficialmente dal Capitolo della Cattedrale il trenta novembre, la decorazione della porta fu avviata il 15 novembre dello stesso 1494.7 Tra le ultime volontà espresse da Ferdinando d’Acuña prima di morire, rientrava infatti, oltre alla fondazione della Cappella di Sant’Agata (già Cappella del Santissimo Sacramento) e alla dotazione 4 Di tali vistose discrasie stilistiche si erano già accorti C. SCIUTO PATTI, I monumenti di Sant’Agata esistenti in Catania: note storico-archeologiche, Tip. Roma di R. Bonsignore, Catania 1892, p. 198; E. MAUCERI, Antonello Freri, scultore messinese del Rinascimento, in «Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione», 19, 1925/26, pp. 385-398; G. BASILE, Le opere di Antonio de Freri cit., pp. 110-112; F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 53; di recente, anche M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 42-44. 5 HOC OPVS ET SEPVLCRVM ILLUD ILLUSTRIS DOMINI FERDINANDI DE ACVNA PROREGIS SICILIE MANDAVIT FIERI EIVS CHARISSIMA VXOR DOMINA MARIA DE AVILA ANNO DOMINI MCCCCLXXXXV. 6 IUSSUM FIERI XV NOVEM. P.FECTVM XV IULII XIII IND. La verifica autoptica dei complessi scultorei di cui qui si discute, supportata dalla conseguente campagna fotografica effettuata da chi scrive, ha consentito di correggere alcune imprecisioni, comparse inizialmente nel contributo del Casagrandi (V. CASAGRANDI, La fondazione della monumentale cappella cit., p. 366), e poi riportate dagli studi successivi, relative alla trascrizione delle due incisioni: si tratta, nell’iscrizione in nota 5, dell’oblio del “FIERI” presente tra “MANDAVIT” e “EIVS”, nonché, nella seconda iscrizione, della mancata lettura della traccia indizionale, che àncora al 1495 la conclusione dei lavori del portale e del sepolcro. Non conoscendo quest’ultimo riferimento cronologico, Stefano Bottari aveva pensato che le due imprese fossero state avviate il 15 novembre 1495, e che si fossero concluse nel luglio del 1496 (cfr. S. BOTTARI, Note sull’opera di Antonello Freri, in Arte e artisti dei laghi lombardi, I, Architetti e scultori del Quattrocento, pubblicazione curata da E. ARSLAN, Tipografia editrice Antonio Noseda, Como 1959, p. 87). 7 L’accordo tra la vedova ed il Capitolo era stato stipulato giusto un mese prima. Il 21 novembre 1494, inoltre, a pochi giorni dall’avvio dell’opera del portale, Maria donò alla cappella alcune preziose suppellettili sacre, tutte dotate degli stemmi delle famiglie D’Acuña e d’Avila (cfr. V. CASAGRANDI, La fondazione della monumentale cappella cit., pp. 363-365). 71 della stessa con diciotto once annue, la messa in opera di un mausoleo, da innalzarsi sul tumulo del defunto viceré («item sia licitu… poneri un monumentu di petra cisa a loru modu et gratu in ditta cappella super loco dictae sepulturae»). D’altronde, che l’incarico della tomba abbia seguito quello relativo al portale (e non viceversa) sembra dedursi anche dalle disposizioni del Capitolo inerenti alla realizzazione del sepolcro stesso, la cui costruzione non avrebbe in alcun modo dovuto ostacolare l’ingresso e la vista della porta che conduceva al sacrario della santa vergine e martire etnea («per modu non si occupa né impacciu inserixxa a lu altare dictae cappellae, ni alla porta di la custodia di S. Agata»).8 Sebbene l’operosità di Antonello sia attestata già dal 1479,9 le imprese catanesi risultano essere le più antiche sinora note, e pertanto esse assumono notevole rilevanza al fine di ricostruire la personalità ed il catalogo di questo scultore. Specie se ci si trova, come in questo caso, di fronte ad un maestro del quale s’ignora totalmente la formazione, e del quale, a fronte di un’attività più che quarantennale,10 rimangono poco meno di una decina di sculture.11 Tra queste ultime si annoverano due statue, raffiguranti l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Annunciata, commissionate al Freri nel 1493, dunque prima dell’incarico etneo, e ancora oggi conservate a Castanea delle Furìe (ME).12 Malgrado la grave perdita delle teste che esse hanno subìto in epoca imprecisata, queste due immagini marmoree rappresentano le opere freriane più vicine, per cronologia e per stile, a quelle catanesi. Come infatti può evincersi dall’elenco dei lavori superstiti,13 rilevanti lacune segnano la lunga carriera dell’artista siciliano, specie nel periodo 8 Ibidem, p. 366. Cfr. supra, nota 1. 10 L’ultima notizia documentaria in cui compare ancora il suo nome risale al 1523. In questo strumento «lu onorabili magistro Antonellu Buctuni» viene definito «capu mastru di la ditta majuri ecclesia» (pubblicato da D. PUZZOLO SIGILLO, Il più antico campanone del Duomo (Notizie e documenti inediti), in «La Gazzetta. Eco della Sicilia e delle Calabrie», III, 99, 25 aprile 1929, p. 7). Ammettendo che nel 1479 egli fosse almeno maggiorenne (tale da comparire già personalmente nella stipula dell’atto di commissione dell’altare eucaristico per San Nicolò), dovremmo collocare la sua nascita intorno al 1460-61 (forse anche qualche anno prima). 11 A voler essere precisi, se ne contano otto, di cui cinque documentate: la frammentaria Annunciazione di Castanea (ME, 1493), il Portale e il Monumento catanesi (1494-95), la Madonna dell’Accomandata di Castroreale (ME, 1510, fig. 21) e la Vergine col Bambino di Montebello Jonico (RC, 1512, fig. 22); e tre attribuite, vale a dire il Portale della Cappella Ansalone e una Madonna col Bambino e angeli reggiscudo all’interno del Duomo di Messina (figg. 35, 38) e un tabernacolo eucaristico nella Cattedrale di Taormina (figg. 31-32). Queste ultime tre possono datarsi al periodo compreso tra la fine del secondo e l’inizio del terzo decennio del secolo. 12 Da una carta d’archivio pubblicata da M. G. MILITI, Artisti, committenze e aggregazione sociale a Messina alla fine del Medioevo, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», 2, 1984, pp. 559-634 [633-634]), si deduce che Antonello «Freri, maczonus, civis Messane» eseguì i due marmi per la confraternita dell’Annunziata di Castanea (il merito di aver riconosciuto nell’Annunciazione citata dal rogito le sculture acefale di Castanea si deve a G. ARENA, Antonello Freri scultore, in «La Cometa», mensile dell’associazione turistico-culturale “Giovanna d’Arco”, 12, dicembre 1998, p. 18; cfr. anche, più di recente, M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., p. 44, figg. 15-16). 13 Cfr. supra, nota 11. 9 72 compreso tra il 1496 ed il 1509, che si contraddistingue per la totale mancanza di testimonianze figurative.14 Gli anni tra il ’12 ed il ’23, arricchitisi di recente da ben quattro aggiunte,15 sono invece caratterizzati da un’evidente, e per alcuni aspetti sconcertante, evoluzione dello stile di questo maestro, che da attardato quattrocentista si aprì, al principio del XVI secolo, alle novità figurative che nel frattempo venivano comparendo anche in Sicilia. Se si osserva il Portale, l’occhio, attratto dai molteplici, minuti dettagli del suo arredo scultoreo, quasi si perde, complice il proliferare degli elementi figurativi e del lucente fondo oro che tutto amalgama e appiattisce. Tra il registro inferiore, concepito come una sorta di baldacchino appoggiato alla parete e svettante su esili colonnine variamente decorate e a loro volta sorrette da arpie (fig. 1), e quello superiore, dove, entro due edicole sovrapposte sono albergate le figure più importanti dell’intero complesso, vale a dire la Sant’Agata ed il Dio Padre Benedicente (figg. 8-10), non si rileva alcuna reale unità architettonica e decorativa.16 Il tutto, anzi, è sommerso da un sovraffollamento d’ornato, tra cui primeggiano volute, più o meno grandi, alcune di raccordo tra i diversi settori del monumento, altre semplicemente decorative; stilizzati elementi fitomorfi sparsi ovunque, sia sulla fronte che sui lati; testine di cherubini e angeli reggifestone e reggitarga. Da tutto ciò s’intuisce che l’artefice di quest’opera, sebbene palesi di conoscere e possedere il bagaglio figurativo del Rinascimento, sia rimasto ancora, per indole e forse anche per l’impossibilità di un aggiornamento in altri luoghi della Penisola, strettamente legato alla cultura tardogotica di cui dovette evidentemente nutrirsi durante la formazione.17 14 Nel settembre 1497 Antonello s’impegnò a realizzare una Madonna col Bambino per Randazzo (CT), mentre due anni dopo egli è attestato al lavoro per il nobile Tommaso de Lignamine, al quale promise di erigere un nuovo altare nella stessa chiesa di San Nicolò per la quale lui stesso nel 1479 aveva scolpito un tabernacolo (per i rispettivi documenti, cfr. G. LA CORTE CAILLER, Memorie catanesi in Messina (notizie inedite), in «Archivio storico per la Sicilia orientale», XXIX, 1933, pp. 293-338 [305]; E. MAUCERI, Nuove notizie intorno alla pittura cit., pp. 53-54). Di questi lavori non resta alcuna traccia. Tra la commessa del De Lignamine (1499) ed il 1510 (Vergine di Castroreale), possediamo solo due strumenti notarili, che però non riguardano l’esecuzione di opere d’arte. 15 Cfr. supra, nota 11. Al di là di tali novità, a scandire questi quattordici anni rimangono solamente tre rogiti, di cui uno relativo a due fonti che il Freri avrebbe dovuto compiere per un committente siracusano (cfr. infra, nota 42). Anche queste due sculture sembrano andate perdute. 16 Si noti anche, ai piedi della Santa, l’elefantino in pietra rossa simbolo della città etnea. 17 Sorprende che Alessandra Migliorato, in una nota del suo volume Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 85, nota 19, definisca Antonello Freri «di origini lombarde». E non perché, nella bibliografia relativa a questo artista, non sia mai apparso un nesso con la Lombardia (intesa però non come luogo di origine dello scultore, ma come sua cultura di provenienza: per questo, cfr. S. BOTTARI, Note sull’opera di Antonello Freri cit., pp. 77-78), quanto piuttosto per l’assoluta mancanza di argomentazioni con cui la studiosa sorregge tale affermazione. 73 Pur immaginando di trovarci di fronte ad un lavoro condotto dal capobottega con una larga partecipazione di assistenti,18 si può ragionevolmente supporre che al Freri siano spettate le parti più propriamente “di figura”, quelle cioè maggiormente impegnative, tra cui rientrano di diritto le due statue della Santa e dell’Eterno Padre (figg. 9-10). Qui, rispetto al traboccante decorativismo delle architetture, dominano abbreviazione ed essenzialità di forme e di composizione, che ritroviamo nell’Annunciazione mutila di Castanea. La linearità delle pieghe della veste della Vergine Annunciata (fig. 11), che descrivono sul fianco sinistro larghe arcate concentriche ricadenti fino ai piedi, viene riproposta da Antonello nella Sant’Agata (fig. 10), la quale replica anche nella posizione delle mani l’immagine di Castanea. Ed anche le tozze e corpose piegature che segnano il fianco destro dell’Angelo sono parenti di quelle, sugli stessi lati, che compaiono nella Santa e nel Dio Padre al di sopra di essa (figg. 9-10, 14). Se poi ci si volge alla parete di fronte, ed in particolare al Viceré inginocchiato e al paggetto al suo fianco (figg. 12-13), nonché agli Apostoli a mezzi busti scolpiti nel fregio della trabeazione della grandiosa edicola che incornicia l’intero complesso funerario (fig. 7), non potranno non ravvisarsi le numerose analogie formali che, se da un lato rafforzano l’ipotesi dell’intervento autografo del maestro nelle parti di statuaria, dall’altro suggeriscono l’idea che un folto gruppo di aiuti sia stato impiegato nell’esecuzione delle restanti parti dell’imponente sepolcro.19 Nel Portale, le arpie su cui si stagliano le colonnine e le due sculture della Sant’Agata e dell’Eterno si caratterizzano per i volti tondi e addolciti, dagli occhi mandorlati con le pupille profondamente incise e con vistose borse, identici a quelli di Ferdinando e del paggetto (figg. 9-10, 12-13). In questi ultimi personaggi, poi, il trattamento dei capelli, a ciocche sottilissime e fortemente solcate, si presenta analogo a quello esibito dal Dio Padre, così come quegli stessi larghi e poco complicati drappeggi poco sopra descritti si apparentano strettamente ai panneggi degli Apostoli (fig. 7). 18 Specie se si considera che sia il portale che il sepolcro, almeno da quanto riportano le iscrizioni, dovettero essere compiuti nell’arco di otto mesi (dal novembre 1494 al luglio ’95). 19 Il monumento è costituito da un’imponente edicola architettonica, riccamente decorata, entro cui trovano posto il defunto, inginocchiato, con le mani giunte e rivolto verso la pala (al cui centro s’alza ancora oggi la scena con l’Incoronazione di Sant’Agata), assistito dal fedele paggetto con scudo. I due poggiano sul sarcofago vero e proprio, collocato al centro dei due grossi plinti che fungono da base dell’intera struttura. Su di essi s’innalzano le colonnine, a loro volta reggenti una trabeazione molto aggettante e recante le figure a mezzi busti degli Apostoli e del Cristo (al centro) e culminante, al di sopra di un pennacchio ornato da una coppia di angeli reggifestone, con la personificazione della Giustizia. Già E. MAUCERI, Antonello Freri, scultore messinese cit., p. 394, e S. BOTTARI, Note sull’opera di Antonello Freri cit., fecero riferimento, in relazione alla particolare tipologia del mausoleo, ad esempi spagnoli, tra cui è bene ricordare, oltre al tardogotico Sepolcro di Don Juan de Padilla (Burgos, Museo Provinciale), eseguito sullo scadere del XV secolo da Gil de Siloé, la Tomba di Pedro d’Acuña († 1482), padre di Ferdinando, sita nella chiesa di Santa María a Dueñas, in Castiglia (per quest’ultimo caso, cfr. F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., p. 54). 74 Tuttavia, nel suo complesso, la Tomba D’Acuña sembra non soltanto differire rispetto alla Porta dirimpetto, ma anche mostrare evidenti disomogeneità interne.20 In entrambi i casi, le discrasie si notano nella resa formale del repertorio decorativo, a conferma appunto del coinvolgimento dell’intera bottega al fine precipuo di rispettare i tempi di consegna. L’intervento di scalpellini diversi è evidente specie in alcune parti “secondarie”, quali gli angeli variamente abbigliati e sparsi sulle pareti dei due complessi marmorei: in particolare, risalta il ductus scultoreo delle quattro testine di cherubini intagliate nei lati lunghi dei plinti su cui si appoggiano i leoni stilofori, nettamente divergenti dalle altre figure di analogo soggetto (figg. 4, 14).21 III.1.1 La respinta Incoronazione di Sant’Agata e la sua (s)fortuna critica. Sempre nel 1495, e precisamente il 25 settembre, dal Capitolo dei Canonici della Cattedrale catanese e dai Giurati cittadini fu richiesta ad Antonello Freri l’esecuzione di «lu altaru, cona, guardapulviri, historia di la Passioni et translacioni di la signura Sancta Agathi», con l’impegno, assunto dall’artista, di fornire una “mustra” delle proprie capacità entro il giorno festivo della santa, nel successivo mese di febbraio.22 L’altare doveva dunque includere, oltre all’ancona centrale, raffigurante l’Incoronazione di Sant’Agata, le figure laterali dei Principi degli Apostoli, una sorta di baldacchino (“guardapulviri”), e alcuni pannelli, a mo’ di predella alla base del retablo, con le scene della Passione di Cristo e della Traslazione delle reliquie di Agata.23 Struttura e misure del retablo (730x290 cm) 24 furono puntualmente disposte dal rogito, nel quale si prescriveva che «magistru 20 Da una cronaca coeva alla messa in opera del monumento si sa che già nel 1548 l’originario assetto del mausoleo fu alterato dall’intervento del viceré Giovanni de Vega, il quale, durante una visita alla cappella, prescrisse che fosse decurtato l’alto zoccolo su cui si elevava l’arca funebre, e che quest’ultima, incassata entro i due plinti, fosse appoggiata direttamente sul pavimento. Anche la lastra con l’epigrafe che attualmente campeggia alle spalle del defunto perdette l’originaria posizione, la quale doveva corrispondere un tempo alla fronte del sarcofago (cfr. Cronaca siciliana del XVI secolo, a cura di V. EPIFANIO e A. GULLI, Stabilimento tipografico Virzi, Palermo 1902, p. 176). Tale operazione fu effettuata per l’avvertita esigenza di ridimensionare la figura del viceré, sino a quel momento posta più in alto dell’altare. 21 Sembra che qui sia all’opera lo stesso autore dell’ancona svettante sull’altare maggiore della cappella. Per un’inedita proposta attributiva di tale complesso scultoreo, cfr. qui il Capitolo I, con la relativa scheda. 22 G. ARDIZZONI, Sulla costruzione dell’ancona cit., pp. 224-238 [232-236]. Cfr. qui il Capitolo I, Appendice documentaria, n. 1. 23 L’intero settore inferiore, includente i rilievi scolpiti con scene della Vita della Santa (ai lati del tabernacolo eucaristico), gli altri con la Passione di Cristo ai lati del paliotto, nonché il paliotto stesso, ornato con una coppia di angeli reggenti un clipeo con la Vergine Annunciata, sono opere novecentesche. 24 Queste sono le misure attuali, che differiscono veramente di poco (giusto di qualche centimetro) da quelle indicate nell’atto notarile. 75 Antonio di Freri, chiamato di Buctuni, di la nobili cità di Missina», dovesse «costruere, edificare et sculpire bene et peroptime… de lapidibus marmoreis et terre Tauromenei altarem, conam et guardapurviri». La consegna doveva avvenire entro tre anni, ed il prezzo pattuito non avrebbe dovuto superare le trecento once. Dopo un primo acconto di undici once, riscosse dal messinese al momento della sottoscrizione dell’atto (il 25 settembre, appunto), ai margini dello stesso strumento notarile vennero man mano vergate alcune note di pagamento, relative ai mesi di febbraio, marzo, maggio, giugno e agosto 1496, con le quali si corrispondevano allo scultore rispettivamente sedici, dieci, sette, quindici e tre once.25 Nel maggio del 1497, a poco meno di due anni dalla stipula del contratto, Antonello inviò a Catania la sola “cona”, vale a dire la pala con l’Incoronazione, la quale però non dovette riscuotere il successo sperato, se i committenti se ne lamentarono così vivacemente: «Certamenti reputamo, a lu adventu di la petra ni mandastivo per cona, tiniri quista cità per Rayalbuto et lo Zirillo, né altro sindi po confidari ki essendo mastro tali più tosto l’aviti facto ad nostro vilipendio ki altrimenti la fazati fari, però cridimo ki tucto sirrà ad vestro danno. Tali petra rustica et senza forma per vui la lassamo et cridimo areto vi la mandari quillo ki in quisto haviriti avanzato lo tempu vi la dimostra quista cità non si merita cussì disonorata da vui ki siti statu ben tractatu…».26 Ciò che il Capitolo e i Giurati si trovarono di fronte, dunque, non solo non piacque, non soddisfacendo in alcun modo la loro richiesta, ma fu addirittura ritenuto offensivo del nome e del prestigio della città («quista cità non si merita cussì disonorata da vui»), a dispetto dell’ottimo trattamento che lo scultore aveva ricevuto sino a quel momento.27 Non è certo la prima volta che ci si trova dinnanzi a casi di opere respinte e rispedite al mittente. Ciò che lascia perplessi in questa vicenda è invero il destinatario di una così accesa rimostranza, espressa dai committenti tramite una missiva datata 27 maggio 1497: egli non fu, come ci si sarebbe aspettati, il Freri, ma un certo “Giovanni de Buctone”, altro esponente della medesima famiglia di Antonello.28 Se il Capitolo si rivolgeva a lui, le ipotesi che si configurano 25 A poco meno di un anno di distanza dalla stipula del contratto di allogazione, il Freri aveva dunque ricevuto un quinto del compenso concordato (cfr. qui il Capitolo I, Appendice documentaria, n. 1). 26 G. BASILE, Le opere di Antonio de Freri cit., pp. 95-121 [105]. 27 Si fa evidentemente riferimento a quanto Antonello e bottega avevano realizzato per Catania negli anni precedenti. 28 Oltre ad Antonello, e al Giovanni qui citato, si può ricordare Giuseppe, formatosi con Martino Montanini sullo scadere degli anni cinquanta del Cinquecento, e la cui attività è copiosamente attestata sino alla fine dell’ottavo decennio. Anch’egli, come Antonello, nelle carte d’archivio che lo riguardano, viene alternativamente indicato come “Fleri”, “Freri” o ancora “Buctunis”, benché tra i due cognomi alla fine sia prevalso, nella storiografia, il secondo. C’è da credere, però, che il cognome vero e proprio, cui si legano tutti gli esponenti della famiglia, sia stato “Freri”, e che in “Bottone” debba riconoscersi quello che fu, almeno all’inizio, un semplice soprannome. Sulle occorrenze archivistiche del cognome “Freri”, cfr. ibidem, p. 95. 76 sembrerebbero due: o Giovanni svolgeva un ruolo di intermediario tra il consanguineo Antonello e il Capitolo etneo,29 oppure anch’egli dovette, al pari del più famoso congiunto, essere un maestro del marmo, lavorare nella medesima officina di questi, e perciò essere prontamente contattato dai committenti. Una cosa appare comunque certa: da questo momento in poi il Freri dovette, obtorto collo, chiudere ogni relazione professionale con Catania e con la sua Cattedrale. E ciò non si desume semplicemente dall’ovvia constatazione che, a seguito di una così vigorosa lamentela, fosse quasi scontato che la committenza gli togliesse l’incarico; si evince anche dalle lampanti difformità stilistiche esistenti tra l’attuale Ancona di Sant’Agata (fig. 17) e gli altri due complessi marmorei ospitati nella cappella, e che sappiamo per certo essere stati compiuti dal messinese (Portale e Tomba del Viceré d’Acuña, figg. 1, 5). Numerose analogie stilistiche con questi due ultimi monumenti esibisce, al contrario, un bassorilievo marmoreo recante un’Incoronazione di Sant’Agata e conservato a Catania tra le collezioni del Museo Civico di Castell’Ursino (fig. 18). La scultura è nota soltanto dal 1959, vale a dire da quando Stefano Bottari la vide e la fotografò in un locale dell’ex Collegio Gesuita della città etnea.30 Come spesso accade in questi casi, alla fortuna della scoperta, che ha sottratto l’opera ad un oblio durato ben cinque secoli, è corrisposta la sfortuna dell’errata interpretazione della sua natura e della sua funzione, che ne ha generato il declassamento da “opera finita” a “mustra”. Lo studioso, infatti, individuando la forte relazione tipologica con la pala oggi in Cattedrale,31 e conoscendo il contenuto della lettera del 1497 (cioè che il manufatto inviato dal Freri era stato prontamente bocciato dal Capitolo e dai Giurati), identificò il rilievo all’epoca nel Collegio Gesuita proprio con quel “saggio di prova” previsto nel contratto. La natura della “mustra” doveva però essere alquanto diversa da quella supposta dal Bottari, poiché dall’atto notarile si evince che «per mustra dila dicta opera digia fari lu predictu mastru Antonio una Coronacioni comu divi esseri in la cona di lu altaru per lu tabernaculu chi est intra la logia di la predicta clarissima chitati di Cathania, di marmora fina et di quillo relevu». Si trattava dunque di una 29 Non sarebbe certo questo il primo caso di procuratori scelti dai capibottega tra i propri parenti, reputati ovviamente più fidati di altri, ed anche la vicenda di cui qui si discute non fa eccezione. Infatti, in una delle note di pagamento cui ho accennato prima (cfr. qui il Capitolo I, Appendice documentaria, n. 1), e nello specifico in quella del marzo 1496, compare un certo Pietro Freri proprio in qualità di procuratore di Antonello: a lui fu affidato l’incarico di riscuotere una delle tranches del compenso pattuito col capomastro. Che si tratti di un consanguineo di Antonello, alla luce di quanto scritto finora, mi sembra fuor di dubbio. 30 Il marmo non è esposto, ma è custodito in un locale sito al piano superiore dell’edificio, assieme ad un’altra decina di pezzi scultorei che non hanno ancora trovato adeguata collocazione all’interno delle sale. Esso è adagiato a terra, appoggiato su due assi di legno, è privo di numero d’inventario, e se ne ignora la provenienza. In tale situazione, dunque, risulta ancora più preziosa la notizia fornita dal Bottari, secondo cui l’Incoronazione era alloggiata in un corridoio dell’ex Collegio dei Gesuiti in Via Crociferi. 31 S. BOTTARI, Note sull’opera cit., p. 82, tav. XX, fig. 50. 77 vera e propria opera “finita”, con una destinazione autonoma (un tabernacolo collocato all’interno di una loggia pubblica),32 ciò nondimeno usata dai committenti come prova dell’abilità tecnica dello scultore incaricato di eseguire la più ampia e complessa decorazione della Cappella della Santa.33 Il Bottari dovette intendere l’Incoronazione oggi a Castell’Ursino come un semplice saggio sia a causa delle pessime condizioni conservative del marmo, che ne accentuano il carattere rapido ed approssimato; sia per quanto espresso dai committenti nella lettera, e nello specifico nel brano in cui la statua spedita da Antonello veniva definita «petra rustica e senza forma», o ancora dal passo in cui si parla dell’«adventu di la petra ni mandastivo per cona».34 Tratto in inganno da tali parole, egli pensò che la cona fosse stata veramente realizzata in pietra: essa, però, è stata scolpita nel marmo, e l’uso del termine “petra” deve essere inteso come “opera brutta, degna di essere rifiutata”, e non come scultura fatta, appunto, in pietra. Un altro, incontrovertibile, dato si aggiunge a supporto di questa inedita lettura del bassorilievo catanese: le misure dell’Incoronazione oggi svettante sull’altare della Cappella di Sant’Agata (cm 110x68) coincidono quasi perfettamente con quelle dell’ancona di Castell’Ursino (cm 109x73). Le dimensioni di un saggio, per ovvie ragioni di economicità di lavoro e di risparmio di materiale, sarebbero certo state minori. E poi ancora: possibile che, dopo quasi due anni dall’epoca di commissione, Antonello Freri si fosse limitato ad inviare a Catania soltanto la “mustra”, considerato che mancava soltanto un anno alla consegna pattuita e che gli accordi prevedevano l’esecuzione di un retablo dalle misure imponenti? Il rispetto dei tempi di consegna non dovette essere la prima preoccupazione dello scultore, ma credere che egli abbia consegnato soltanto una “prova” del proprio lavoro sembra rasentare la beffa. 32 La Loggia pubblica più importante della città, atta ad albergare uno dei principali episodi della vita della Santa patrona, era quella del Senato, sita di fronte al Duomo. Distrutta dal sisma del 1693, fu ricostruita sullo stesso luogo, ed oggi non è altro che il Palazzo del Municipio etneo. Cfr. F. FERRARA, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, [s.e.], Catania 1829, p. 550: «Loggia o Palazzo del Senato. È la casa del Pubblico dove si raduna il Senato. L’antica esisteva quasi nello stesso sito di oggi. Era rinomata una volta che essa avea, e che sosteneva quasi tutto l’edificio. Caduta nel 1693, se ne cominciò la edificazione quasi nello stesso luogo. È un palazzo quadrato isolato, ammirabile per la gravità del disegno e per la semplicità dell’architettura. Ha una sala spaziosissima dove si tengono le feste pubbliche. Vi si conserva l’archivio della città». 33 Ma, come sappiamo, a seguito del rifiuto dell’Incoronazione destinata alla Loggia, Antonello fu estromesso dal prestigioso incarico. 34 La “mustra” che il Capitolo gli aveva richiesto doveva rappresentare appunto l’Incoronazione di Sant’Agata, e in base a quanto mostrato dall’artista, si sarebbe di conseguenza giudicata l’opera: «Item, per mustra di la dicta opera digia fari lu predictu mastru Antonio una Coronacioni comu divi esseri in la cona di lu altaru…». Stranamente non compare, né in questa prima versione eseguita dal Freri, né nella seconda, e definitiva, oggi esistente nella Cappella, la figura di San Benedetto, che pure era prevista dal rogito: «Christu et Nostra Donna…et la signura Sancta Agathi et Sanctu Bendictu». 78 Sebbene la superficie del marmo sia gravemente compromessa,35 la leggibilità del manufatto non è totalmente inficiata, e consente con una certa agilità di includere anch’esso nel corpus freriano. La linearità di forme e la chiarezza compositiva che contraddistinguono le parti di figura del Portale (figg. 19, 21-22) e del Sepolcro del Viceré (figg. 7, 12-13) si apprezzano anche nel rilievo mandorlato di cui qui si discute, e che contribuisce ad accostarci ancora meglio allo stile di questo maestro sullo scorcio del Quattrocento. La raffigurazione è semplificata al massimo (fig. 17), e i protagonisti (da sinistra, Dio Padre, Sant’Agata, la Madonna, figg. 19, 21-22) sembrano tre piccole e grevi masse ciascuna indipendente dall’altra, a dispetto della reciproca vicinanza.36 Anche le posizioni dei personaggi, perfettamente simmetriche, sono indicative: l’Eterno e la Vergine, agli estremi della mandorla, sono collocati alla stessa altezza; più in basso al centro, la Santa, col capo chino in procinto di ricevere la corona; cinque testine di cherubini, di cui una centrale in alto e le altre, accoppiate, speculari ai lati. Rafforza il senso di squadratura che permea l’intera composizione la resa dello sfondo ad archi acuti concentrici.37 A ben guardare, gli unici elementi “estranei”, che con le loro rotondità smorzano le forme taglienti del resto del rilievo, sono proprio i cherubini (fig. 16). Non solo le linee dei panneggi dell’Incoronazione, per la loro semplicità, ricordano molto quelli della Sant’Agata, del Dio Padre sul Portale e dell’Annunciazione (figg. 10, 9, 11, 14) di Castanea (a questo riguardo si osservi anche il dettaglio del mantello della Madonna, le cui pieghe sono simili a quelle descritte nel panno che riveste l’inginocchiatoio del viceré, figg. 19-20); ma anche i volti tondi e paffuti, i nasi larghi alla base e le bocche carnose dei cherubini richiamano analoghe soluzioni adottate da Antonello in quelle stesse sculture. Una certa comunanza si ravvisa altresì con alcuni lavori che Antonello dovette compiere nei decenni successivi, tra cui figurano, oltre alla documentata Vergine 35 Purtroppo non si sa in che epoca, e da quale luogo, il bassorilievo pervenne all’ex Collegio dei Gesuiti in Via Crociferi, dove lo vide Stefano Bottari. Sorprende che al Museo Civico di Castell’Ursino non soltanto non vi sia alcuna traccia dell’ingresso di questo pezzo nelle collezioni e della sua provenienza, ma anche che non si conosca la preziosa notizia fornita dal Bottari. Quali passaggi di proprietà, e di luoghi, abbia subito l’Incoronazione, una volta respinta dal Capitolo e dai Giurati, non è dato sapere; probabilmente il Collegio dei Gesuiti non fu il primo ed ultimo sito in cui essa sostò. Di certo, le abrasioni del marmo si devono ai plurimi spostamenti cui essa andò incontro. 36 Tra l’altro, per eseguire la Santa e la Madonna lo scultore ha palesemente usato un unico schema compositivo: le due figure, infatti, differiscono solamente per la veste che le ricopre e per la posizione del corpo, ma osservate frontalmente denunciano la derivazione da un comune modello. 37 Stefano Bottari (ibidem, p. 82) parlava di «equilibrio della composizione e chiarezza stringata delle forme», che si opponevano al «più ricco e ornato ma anche più estrinseco e ridondante» stile del manufatto poi effettivamente comparso nella Cappella, che qui si attribuisce ad uno scultore molto vicino a Domenico Gagini, forse da identificare con quel “Giovanni de Buctone” destinatario della lamentela. Stranamente, lo studioso non si occupa affatto dell’ancona, per così dire, gaginiana. 79 col Bambino di Montebello Jonico (RC, 1510), una Santa Lucia ed un’Annunciata che molto si apparentano alla Madonna di Castell’Ursino (figg. 22, 39-40, 19).38 Resta da stabilire, a questo punto, a quale maestro si affidò il Capitolo per veder finalmente completata la decorazione della cappella: può egli identificarsi in quel Giovanni de Buctone, chiamato al posto di Antonello perché di già nel novero degli scalpellini affermati e attivi nell’area orientale dell’isola sullo scorcio del XV secolo?39 III.2 Antonello Freri e Giovambattista Mazzolo “socii”: due maestri a confronto nella Messina di primo Cinquecento. Quando, nel giugno 1512, lo scultore d’origine carrarese Giovambattista Mazzolo risulta documentato per la prima volta a Messina, deve immaginarsi che egli avesse di già acquisito una certa dimestichezza con l’ambiente peloritano e che la sua attività di maestro del marmo fosse altresì ben avviata. A tale data, infatti, risale un atto notarile nel quale Giovambattista veniva citato assieme al “socio” Antonello Freri per l’ipoteca di due statue (una per ciascuno) come garanzia di un debito contratto a seguito dell’acquisto di alcune partite di marmi.40 Esattamente un anno dopo (giugno 1513), i due risultavano ancora alle prese con la compera di materiale marmoreo, ben cinquanta carrate da far sbarcare nel porto di Messina,41 verosimilmente da collegare a future imprese scultoree. Soltanto pochi mesi dopo, nel febbraio del 1514, essi si impegnavano con Pere Sanchez de Calatajud, governatore della Camera Reginale di Siracusa, ad eseguire due fontane a pianta centrale e a vasche plurime:42 in questa occasione il Mazzolo veniva per la prima volta definito “civis Messane”, ad ulteriore conferma della posizione oramai piuttosto consolidata che egli doveva aver conquistato in città. 38 Per queste statue, cfr. infra, nota 71. La Santa Lucia e l’Annunciata devono datarsi entro il secondo decennio del secolo. 39 Per un’inedita ipotesi sull’autore della pala, cfr. qui il Capitolo I. 40 Il rogito è stato sunteggiato da G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27. 41 IDEM, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84, I, pp. 747-748, II, p. 425 doc. CCCXL. 42 La trascrizione completa di questo documento è in G. MOLONIA, Note sulla committenza siracusana ad artisti messinesi (con un documento inedito su Antonello Freri e Giovan Battista Mazzolo), in Da Antonello a Paladino: pittori messinesi nel siracusano dal XV al XVIII secolo, a cura di G. BARBERA, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione, Ediprint s.r.l., Siracusa 1996, pp. 105-106. 80 La riproposizione succinta del contenuto dei tre rogiti, ben noti alla letteratura specialistica,43 non vuole porsi come una sterile registrazione dei primi passi compiuti dal carrarese in quella che divenne a tutti gli effetti la sua città d’adozione, e che gli concesse altresì il privilegio dell’esenzione dal pagamento di tutte le gabelle cittadine;44 ma vuole focalizzare l’attenzione sulle strette relazioni che il Mazzolo ed il Freri intesserono nella Messina del secondo decennio del Cinquecento, nel momento in cui Antonello Gagini, ossia il più valente scultore che la città dello Stretto avesse conosciuto fino a quel momento, le aveva preferito Palermo, decidendo così di ricalcare le orme del padre Domenico.45 Sulla base delle sole attestazioni documentarie, sinora si è creduto che i due artisti avessero instaurato un semplice rapporto professionale, volto sostanzialmente alla compravendita di marmi, di certo favorita dai legami che Giovambattista dovette intrattenere, anche dalla lontana Sicilia, con colleghi e/o commercianti della propria terra d’origine, diretta fornitrice della materia prima.46 43 Fra i tre, l’unico ad essere stato letteralmente dimenticato dagli studi, benché fosse stato reso noto da Gioacchino di Marzo già nel lontano 1909, è quello del giugno 1512. Esso è stato poi recuperato da F. CAGLIOTI (Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60 [50]), che vi ha trovato il giusto indizio per restituire ad Antonello Freri la Madonna col Bambino di Montebello Ionico (cfr. infra, nota 52). 44 Ciò avvenne nel novembre 1534, quando Giovambattista consegnò finalmente, dopo ben dieci anni dalla stipula del primo contratto, le tre statue, raffiguranti la Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Paolo, da collocare sul portale maggiore della Cattedrale messinese. In quell’occasione lo scultore venne definito «discreto atque industrioso viro magistro, sculptori celeberrimo, concivi nostro charissimo», artefice di molte opere che avevano accresciuto il «decoro e l’ornamento» della città peloritana, tra cui appunto le tre immagini destinate al Duomo, «quorum et quidam vivo spirant in marmore vultus» (secondo l’abusato topos letterario riferentesi alle supreme qualità di Fidia, le cui sculture erano talmente rispondenti alla verità di natura che sembravano realmente vive). La prestigiosa commessa di queste opere giunse al Mazzolo direttamente dai “marammieri” del Duomo, e testimonia ampiamente il largo successo che il carrarese aveva ottenuto anche tra le fila della committenza pubblica. Le due carte d’archivio relative alla commissione di questi marmi (23 ottobre 1524) e della concessione del privilegio (7 novembre 1534) sono state pubblicate da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., II, pp. 425-426 doc. CCCXLI, 430 doc. CCCXLVIII. 45 «Niuno però, per bravo che fosse nella scultura, riuscì ad avere ivi [a Messina] acquistato celebrità come ve l’acquistò, benché ventenne, il Gagini, il quale in men di dieci anni di suo soggiorno cominciò a rivelarvi in tal guisa la singolarità del suo genio e del suo divin magistero e quindi vi pervenne a tanta eccellenza di fama che per Messina non solo, e per vari luoghi dell’isola fu senza posa ad alti lavori adibito… ma quando dalla stessa celebrità del suo nome fu egli di nuovo tratto in Palermo sua patria a produrvi le più insigni sue opere e vi rinvenne il miglior campo ed il maggior centro a diffondere ovunque per l’isola ed al di fuori i continui portenti del suo scalpello, restò Messina priva in lui d’una gloria, ond’ella, siccome fu poi Palermo, sarebbe stata a capo del più grande e meraviglioso sviluppo della siciliana scultura… essendo dunque allora più che mai stato bisogno in Messina d’un bravo scultore, che avesse preso in mano le sorti dell’arte e supplito al possibile il vuoto lasciato dal Gagini, ben fu ad ascrivere a ventura l’averlo trovato in un Giambattista Mazzolo da Carrara, il quale, non guari dopo andatone quello, appare fermamente quivi di già stabilito» (ibidem, I, pp. 745-746). 46 Così L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, p. 1047, dopo aver sunteggiato il rogito del giugno 1513, affermava che Giovambattista «era legato al Freri 81 D’altro canto, l’esiguità del catalogo di Antonello Freri non lasciava largo margine ad un’adeguata conoscenza dei modi espressivi di questi. Infatti, a fronte di poco meno di trenta opere mazzoliane rimasteci (in circa quarant’anni di attività), il corpus del più anziano47 maestro messinese si attestava su quattro lavori superstiti, fra cui, oltre alla decorazione della Cappella di Sant’Agata nella Cattedrale di Catania (che include il portale d’ingresso al sacello nel quale sono custodite le spoglie della Santa patrona della città etnea e il Monumento funebre del viceré Ferdinando de Acuña, figg. 1, 5, 8), compaiono due Madonne, conservate rispettivamente a Castroreale (ME, 1510, fig. 21) e a Montebello Ionico (RC, 1512 circa, fig. 22).48 Ma, negli ultimi anni, l’accentuata attenzione della bibliografia sui temi della produzione scultorea rinascimentale in Sicilia e in probabilmente da una comunanza di interessi, piuttosto che da una consuetudine reciproca nell’esercizio dell’arte. Sebbene le opere note del lombardo esprimano un carattere incisivo e non incline al plasticismo, cui sono prossimi la secchezza di tratto e le stilizzazioni ricorrenti nelle figure del Mazzolo, non si ritiene fondata l’ipotesi che il carrarese, appena giunto a Messina, abbia lavorato nella bottega dell’anziano scultore, documentato sino al 1513: in particolare, egli limitò i propri prestiti dal Freri ad echi superficiali, rimanendo estraneo all’esuberante decorativismo di ascendenza lombarda, che fortemente connota le sue opere». La proposta di una collaborazione tra i due artisti, cui fa riferimento la Lojacono, era stata avanzata da F. CAMPAGNA CICALA, in F. ZERI, F. CAMPAGNA CICALA, Messina. Museo Regionale, Novecento, Libreria dello Stato, Palermo 1992, pp. 82-83, scheda n. 50, relativamente alla Santa Caterina d’Alessandria oggi custodita nel Museo Regionale di Messina ma proveniente da Santa Lucia del Mela. Ciò che lascia perplessi, in questo passo della studiosa, non è tanto la mancata ricezione, da parte sua, della fattiva e concreta comunanza d’intenti esistente tra il Mazzolo ed il Freri, che emerge anche da quanto affermato da F. CAGLIOTI in Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., p. 41 (quando la Lojacono scrisse il proprio contributo sul Mazzolo, infatti, non erano ancora note le nuove aggiunte al catalogo del Freri, sulle quali si fonda, in questa sede, l’ipotesi di un avvicinamento stilistico tra i due maestri). Sorprende piuttosto che ella ritenga Antonello Freri d’origini lombarde, introducendo dunque un’area culturale che, almeno a chi scrive, non sembra specificamente pertinente all’indirizzo stilistico del Freri (tantomeno del Mazzolo, la cui propensione al decorativismo, presente in alcuni suoi lavori, deriva semmai dal contesto culturale d’origine dello scultore, vale a dire la Carrara del Quattrocento). Da quanto si sa, i Freri, o Fleri, provengono da una nota famiglia di scalpellini messinesi, ricordata nelle carte d’archivio anche come “Bottone”, o “Buctunis”. G. BASILE (Le opere di Antonio de Freri cit., pp. 95-121 [95]) menziona i seguenti esponenti della famiglia Freri, sulla scorta di notizie emerse da alcuni strumenti rintracciati dall’erudito Gaetano La Corte Cailler: Girolamo Buctuni mazonus, nobilis civitatis Messane, nel 1469; Ettore Buctono nel 1470; Martino o Marano, Tommaso, Luciano; Pietro Freri de civitate Messane, forse figlio di Antonio, nel 1496; Giovanni de Buctuno nel 1497; Filippo Buctoni o Bittoni mazonus nel 1555; Giuseppe Bottone nel 1561; Domenico Buctono nel 1556. 47 Il Freri precedeva Giovambattista di almeno due generazioni: come già detto, la prima carta d’archivio che lo riguardi risale al 1479, e si riferisce ad un tabernacolo eucaristico da destinare alla chiesa messinese di San Nicolò. Ciò porta ad arretrare la data di nascita di Antonello almeno agli inizi degli anni sessanta. L’ultima notizia documentaria in cui compare ancora il suo nome è del 1523. 48 L’opera di Montebello è stata restituita ad Antonello Freri da Francesco Caglioti (Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., p. 50), che nel medesimo contributo ha espunto dal catalogo del medesimo artista (dirottandolo su quello del “socio” carrarese) il Sepolcro di Angelo Balsamo, barone di San Basilio (fig. 51), oggi allestito a Messina nel Museo Regionale ma proveniente dalla locale chiesa di San Francesco. A questi lavori deve aggiungersi la già citata Annunciazione di Castanea (figg. 11, 14). 82 Calabria ha assicurato al catalogo freriano due nuove proposte.49 Ciò consente, dunque, non soltanto di delineare meglio la figura di questo (sino a poco tempo fa) semisconosciuto maestro; ma anche di comprendere, per la prima volta così chiaramente, quanto Antonello e Giovambattista, nel secondo decennio del XVI secolo, si avvicinassero sul piano dello stile, oltre che per ragioni puramente commerciali. Se, come si accennava sopra, nel 1512 i due erano già “socii”, e se dopo soli due anni il carrarese ottenne il privilegio della cittadinanza onoraria dal Senato peloritano, l’arrivo del Mazzolo deve retrodatarsi almeno di quattro, cinque anni. Si arriverebbe così al 1507 o, al più tardi, al 1508, date, per quanto ipotetiche, da ritenersi credibili, specie se si rammenta che sul basamento della Tomba dell’arcivescovo Pietro Bellorado è riportata la data “1513”, e che il prelato era morto nel 1509.50 Il giovane Giovambattista, del quale non conosciamo l’anno di nascita,51 ma che possiamo ipotizzare quantomeno ventenne al momento dell’esecuzione del Monumento Bellorado, dovette perciò, appena giunto nella città dello Stretto, legarsi all’artista più affermato a quel tempo, e divenuto anche il più richiesto, da quando Antonello Gagini aveva lasciato libera la “piazza” messinese. Anzi, proprio in merito al Sepolcro dell’arcivescovo Bellorado, non è da escludere che possa essere stato l’anziano maestro, noto alla committenza locale da tempo, a veicolare la prestigiosa commessa verso il Mazzolo, a quella data ancora quasi sconosciuto nell’ambiente peloritano. 49 Cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 47-48, figg. 81-82. L’opera non è documentata, ma è stata ricondotta all’attività mazzoliana da Gioacchino di Marzo (I Gagini e la scultura cit., I, p. 744), al quale si è unita la successiva bibliografia specialistica: G. PAVONE ROMEO, I Gagini e la scultura in Messina, estratto dal «Nuovo Imparziale», Messina 1892, III, pp. 26-33; S. BOTTARI, Il Duomo di Messina, Editrice “La Sicilia”, Messina 1929, p. 43; G. BASILE, Studi sull’architettura in Sicilia. La corrente michelangiolesca, Ed. L.I.B.E.R., Roma 1942, pp. 15-19; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, pp. 24-26; F. ZERI, F. CAMPAGNA CICALA, Messina. Museo Regionale cit., p. 21; F. PAOLINO, Altari monumentali in Calabria 1500-1620, Jason Editrice Srl, Reggio Calabria 1996, pp. 36-43; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 102; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 30; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento cit., p. 1047; EADEM, Per un catalogo dei monumenti sepolcrali del Rinascimento in Sicilia: contributi su Giambattista Mazzolo, in «Arte cristiana», XCVI, 2008, 845, pp. 95-108; EADEM, Frammenti di memoria: contributi su recupero e fruizione di antichi marmi delle cattedrali di Reggio Calabria e Messina dopo il terremoto del 1908, in 28 dicembre 1908. La grande ricostruzione dopo il terremoto del 1908 nell’area dello Stretto, a cura di S. VALTIERI, CLEAR, Roma 2008, pp. 444-465 [458-461]; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 50-52, fig. 50; A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 82, fig. 6. 51 G. CAMPORI (Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori…nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 161), sosteneva che la famiglia Mazzolo «fino dal 1487 si vede nominata nelle carte carraresi», ma citava il solo Giovandomenico, figlio di Giovambattista e anch’egli attivo a Messina al fianco del padre. 50 83 III.2.1 L’“ipoteca” del 1512 e la Madonna mazzoliana di Castell’Umberto. Il documento sunteggiato dall’erudito palermitano Gioacchino di Marzo e meritoriamente riguadagnato agli studi da Francesco Caglioti, aveva, come più sopra accennato,52 già consentito al secondo studioso di ricondurre in maniera definitiva ad Antonello Freri la Madonna col Bambino tuttora custodita nella chiesa della Presentazione a Montebello Ionico. Con una bella intuizione, il Caglioti riconosceva infatti nel “Monticello in Calabria”, frettolosamente trascritto dal Di Marzo, il borgo reggino di Montebello, cui il Freri avrebbe destinato una scultura che nel giugno del 1512 veniva ipotecata per un debito contratto nell’acquisto di alcuni marmi. Identica situazione si delineava per il collega carrarese, il quale si vedeva costretto ad impegnare un’opera da spedire invece a Castanea. I numerosi sopralluoghi effettuati nel territorio messinese oggi compreso nell’area del Parco dei Nebrodi mi hanno condotto anche a Castell’Umberto, l’antica Castanea di Naso, piccolo abitato montuoso sito tra le più estese Naso e Tortorici. Ebbene, all’interno della chiesetta di Santa Croce, piccolo ambiente altrimenti spoglio di arredi, si erge un’immagine mariana, datata nello scannello “1512”, che presenta tutti i caratteri distintivi dello stile di Giovambattista Mazzolo (fig. 23). Esistono infatti almeno tre figure, di analogo soggetto, concordemente assegnate dalla storiografia artistica al carrarese, che esibiscono palesi elementi comuni all’inedito manufatto di Castell’Umberto. Mi riferisco alle Vergini di Raccuia (ME, fig. 24), Monforte San Giorgio (ME, fig. 27) e Galatro (RC, fig. 28), per le quali occorrerebbe ritenere plausibile una prossimità cronologica sino a questo momento non emersa in tutta la sua evidenza. Se per le prime due statue soltanto l’analisi formale può rafforzare l’aggancio al secondo decennio del Cinquecento, per la terza, quella calabra, un indizio cronologico indiretto ci aiuta: come è già stato notato da Monica de Marco,53 il committente dovette essere stato lo stesso al 52 Cfr. supra, nota 48. La pertinenza del marmo freriano aveva oscillato sino a quel momento tra Antonello Gagini e un ignoto maestro francese seguace di Francesco Laurana (per queste ultime attribuzioni, cfr. rispettivamente L. SCLAPARI, La Madonna Benedicente di Montebello Jonico, in «Calabria sconosciuta», XX, 1997, 75, pp. 31-33, e C. NOSTRO, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 22 e 107 n. 3). 53 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 190-192, figg. 91-94. In precedenza la scultura galatrese era stata dirottata da Lucia Lojacono all’ambito di Giovambattista sulla metà del secolo (cfr. L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento cit., p. 1060, fig. 17). Alla De Marco deve inoltre riconoscersi il merito di aver effettuato per la prima volta delle buone riprese fotografiche della Madonna di Montebello, che grazie a queste nuove riproduzioni ha acquistato una nuova luce, mostrando, pur nel suo essere intrinsecamente attardata per quegli anni, un fare scultoreo sicuramente meno arcaico e impacciato di quello che avevano restituito le fotografie sinora note, e sulle quali evidentemente ci si era basati per l’analisi dell’opera stessa. 84 quale si fa risalire la fondazione della chiesa galatrese di Santa Maria,54 vale a dire l’allora vescovo di Mileto Andrea della Valle. Nulla di più facile che l’illustre prelato romano, il quale resse le sorti della diocesi calabrese dal 1508 al 1523, desiderasse dotare il neonato edificio di culto di una scultura mariana da collocare sull’altare maggiore.55 Qualora poi si volesse tracciare una successione diacronica delle quattro Madonne di cui qui si discute, penso di non sbagliare nel sostenere che proprio il marmo di Castell’Umberto debba reputarsi il più antico, seguito a poca distanza dagli altri tre; e ciò, se non altro perché esso si àncora a quella che resta tuttora la più alta attestazione documentaria in nostro possesso relativa al Mazzolo. Rispetto alla Vergine destinata all’antica Castanea, le statue di Raccuia, Monforte San Giorgio e Galatro si assestano in una posizione di tale vicinanza da recuperarne praticamente tutti i nessi formali più tipici: l’ovale quasi perfetto del volto, l’ampia arcata sopraccigliare, il naso lungo e fino, gli occhi piccoli, le dita anch’esse lunghe e affusolate, l’incalzare delle pieghette dei perizomi dei Bambini, così come il generale sistema di panneggiature (figg. 29-30). Tra queste quattro raffigurazioni mariane, la scultura di Raccuia è l’unica recante la firma del maestro,56 mentre, come già detto, quella di Castell’Umberto è 54 In una nota nel Liber mortuorum del 1783, l’arciprete Nicola Garuffi scriveva: «Ecclesia Sanctae Mariae de Valle ab Ill.mo et R.mo domino Andrea Tertio de Valle, olim Militen. episcopo, a fundamentis condita, a iurisditione episcopi diocesani immunitatem iactans, in solo Lateranensi se praedicat subiectam; multis particularium sacellis venusta» (cfr. U. DI STILO, Il cinquecentesco trittico marmoreo della chiesa parrocchiale di Galatro. Con l’aggiunta di notizie sulle altre opere del patrimonio artistico locale, Grafiche Femia, Marina di Gioiosa Ionica 2005, p. 43). 55 Tra le numerose cariche ottenute dal Della Valle (Roma, 1463-1534), è interessante qui ricordare quella di archimandrita di Messina, ricevuta nel 1519 per volere dell’imperatore Carlo V, e tenuta, se pur con qualche interruzione, fino al 1532. Nello stesso 1519 il Della Valle ricevette anche la dignità di vescovo di Malta, ma vi rinunciò proprio per accettare l’incarico di archimandrita, che evidentemente egli dovette reputare più prestigioso. La chiesa di Santa Maria, detta “della Valle” dal nome del fondatore, non esiste più, rasa al suolo dal devastante sisma che colpì il territorio reggino nel 1783. Il paese fu ricostruito, e quanto si poté recuperare dalla distruzione fu ricoverato nella nuova chiesa dedicata a San Nicolò: è proprio in questa fabbrica che si custodisce la Madonna col Bambino del Mazzolo, affiancata da altre due sculture raffiguranti San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista d’epoca più tarda, e coevi all’imponente edicola marmorea che inquadra le tre statue. Per un’analisi dell’opera, cfr. F. PAOLINO, Altari monumentali in Calabria 1500-1620, Jason Editrice Srl, Reggio Calabria, pp. 105-112; per l’autore dei Santi laterali, identificato in Giovandomenico Monterosso, cfr. M. PANARELLO, Artisti della tarda maniera nel viceregno di Napoli. Mastri scultori, marmorari, architetti, con contributi di D. PUNTIERI, O. SERGI, G. SOLFERINO, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 21, figg. 34-37. Così viene descritta l’effigie della Vergine nella visita pastorale redatta nel 1587 in occasione della riconsacrazione dell’altare operata dal vescovo di Mileto Marc’Antonio del Tufo: «sopra l’altare mag(gio)re vi trovò una cona con l’imagine della Madonna Santissima con un putto in braccio, sculpita in marmo» (cfr. Archivio Storico Diocesano di Mileto, Acta Pastoralis Visitationis, II, fol. 284r). 56 In proporzione al cospicuo numero di imprese portate a termine, Giovambattista Mazzolo firmò ben poco. Oltre che nello scannello della Vergine di Raccuia, la sua firma compare nella fronte del Sarcofago di Eleonora Branciforte (fig. 46), parte di un più complesso monumento funebre inviato intorno al 1525 a Siracusa e allogato nella locale chiesa di Santa Maria di Gesù (oggi è conservato nel Museo di Palazzo Bellomo della stessa città), e su una cornice marmorea eseguita nel 1536 e attualmente custodita nei depositi del Museo Regionale di Messina. Non è un caso che egli 85 la sola a presentare un’indiscutibile traccia cronologica (1512): grazie all’incrocio tra opere firmate ed altre datate, si accresce il catalogo “giovanile” di Giovambattista, sino a questo momento spropositatamente rappresentato a favore dei lavori più tardi, compiuti a partire dagli anni trenta; e, nel contempo, si riesce a determinare il punto di stile del carrarese a cavallo tra il secondo ed il terzo decennio del XVI secolo. Malgrado che fosse trascorso non molto tempo dal distacco dalla terra d’origine, il Mazzolo sembra essersi “accomodato” su schemi figurativi già diffusi localmente, e licenziati da Antonello Gagini entro gli anni dieci del secolo.57 D’altronde, anche il manufatto freriano di Montebello ricalca con precisione i medesimi modelli gaginiani, tanto da indurci a credere ad una precisa richiesta della committenza. Ma il punto nodale dell’intera questione si sviluppa attorno al sorprendente, per non dire sconcertante, aggiornamento che il linguaggio di Antonello Freri palesa nel passaggio dalla Madonna di Castroreale all’analoga figura conservata a Montebello (figg. 21-22). Lo scarto qualitativo e stilistico tra queste due statue è così rilevante da far ipotizzare il massiccio intervento, nella prima, di aiuti; eppure, soltanto questo sembra non bastare. L’impressione che si ricava dal confronto tra le due Vergini freriane è che, nel volgere di pochi anni (dal 1510 al 1512), l’artista messinese abbia effettivamente compiuto un enorme sforzo sulla strada della “maniera moderna”, magari spronato dai nuovi esempi scultorei del Gagini a lui fisicamente vicini,58 e forse in parte aiutato dal giovane “socio” giunto dalla Toscana e più aperto alla ricezione delle invenzioni altrui. Un discorso analogo può farsi anche per due inediti altari eucaristici, conservati a Taormina e nel casale messinese di Pezzolo, da aggiungere rispettivamente ai cataloghi del Freri e del Mazzolo: entrambi dialoganti tra di loro, come lo erano state le figure mariane sopra descritte, ed entrambi chiaramente derivati da un autorevole esemplare eseguito poco tempo prima da Antonello Gagini. firmasse proprio queste tre sculture: per Raccuia, tra le prime statue a grandezza naturale compiute a Messina, l’apposizione della firma scaturirebbe dalla volontà dell’autore di farsi conoscere, nella speranza di ottenere nuove commesse; il Monumento Branciforte, che segnò il prestigio ottenuto dal Mazzolo al di fuori dello stretto territorio peloritano, venne firmato verosimilmente per sottolineare l’origine forestiera (adottiva) del suo artefice; infine, la cornice, da quanto si legge nell’iscrizione incisa nella base, veniva “dedicata”, cioè donata da Giovambattista in persona alla chiesa della Madonna della Pace, forse in segno di devozione all’antichissima immagine della Madonna della Pace contenuta al suo interno. 57 Tali modelli erano a loro volta il frutto della rielaborazione, operata dal Gagini, della Madonna della Neve che Benedetto da Maiano aveva spedito a Terranova (RC) sul 1491-92. In effetti, l’unico retaggio di “toscanità” esibito dal manufatto mazzoliano di Castell’Umberto sembra essere questo lasco riferimento all’illustre prototipo maianesco. 58 Fra queste, è bene ricordare almeno la Madonna degli Angeli che il Gagini compì nel 1506 circa per la chiesa messinese di San Francesco (oggi nel Museo Regionale, fig. 71). 86 III.2.2 Breve digressione sul tabernacolo e sull’altare eucaristico nel Cinquecento. Forme e usi. Nell’ambito della produzione scultorea del Cinquecento un ruolo significativo è occupato dai tabernacoli del Santissimo Sacramento, oggetti liturgici con la necessaria funzione di preservare le Sacre Specie che via via acquistarono un ruolo sempre maggiore nella pratica cultuale legata all’adorazione del Corpo di Cristo. Dalla torre, pisside o colomba usate come custodie in prevalenza sino al Trecento, sospese sopra l’altare o sotto di esso,59 si passò man mano ad un piccolo armadio, e quindi all’edicola vera e propria, scavata nel muro a destra o a sinistra dell’altare maggiore, già attestate dallo scadere del XIV in numerose aree del Nord Europa. L’origine delle edicole si deve alla diffusa pietà popolare, che, specie nel Medioevo, spingeva i fedeli a contemplare l’ostia consacrata non soltanto durante la celebrazione ma anche al di fuori di essa (da ciò la consuetudine di illuminarla con una candela e di collocarla entro un vasetto trasparente posto dietro una grata metallica).60 È opinione oramai comune che questa tipologia di tabernacolo “a muro”, la cui fortuna perdurò lungo l’intero XVI secolo, sia stata canonizzata dagli esempi di Bernardo Rossellino e Desiderio da Settignano, e nello specifico da quelli compiuti rispettivamente per la chiesa di Sant’Egidio (1449) e per la Cappella del Santissimo in San Lorenzo (entro il 1461), entrambi a Firenze. Al Rossellino, in particolare, è assegnata l’introduzione dell’edicola compatta, costituita dalla mostra centrale col fastigio a timpano, e contraddistinta dalla resa dello spazio prospettico tipicamente rinascimentale, coperto da soffitto a lacunari scorciati in profondità, e ulteriormente “sfondato” ai lati mediante porticine dalle quali escono due angeli adoranti. Modello, questo, reso più complesso dall’esemplare di Desiderio, che accresce la profondità prospettica della zona centrale, introducendo il fastigio lunettato, sulla cui sommità svetta il Bambino benedicente, e arricchisce notevolmente l’apparato decorativo, che fra le altre cose prevede la presenza ai lati dell’altare di due grandi angeli reggicero. Partendo da questi due prototipi, gli artefici successivi fecero sfoggio della propria creatività originando 59 Negli Statuti Sinodali di Liegi del 1287 si prescrive che «Corpus Domini in honesto loco, sub altari vel armariolo sub clave custodiant» (cfr. M. MARCHETTI, La custodia dell’Eucaristia. Il tabernacolo e la sua storia, in Panis Vivus. Arredi e testimonianze figurative del culto eucaristico dal VI al XIX secolo, a cura di C. ALESSI – L. MARTINI, catalogo della mostra, Siena 1994, pp. 227-238). 60 Non si dimentichi, inoltre, che già nel Medioevo la venerazione dell’Eucarestia fu sollecitata dalla proclamazione della festa del Corpus Christi, istituita dal papa Urbano IV negli anni sessanta del XIII secolo. 87 una ragguardevole serie di varianti sul tema, che potrebbero essere classificate in altrettante “famiglie” tipologiche.61 Un particolare tipo di custodia è poi quella che ostenta la forma di un edificio tridimensionale a pianta centrale, con un’esplicita allusione alla basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, il quale probabilmente, rispetto al “semplice” tabernacolo a muro, ha avuto una sorte più duratura, persistendo, con ovvi mutamenti nelle dimensioni, negli aspetti e negli apparati decorativi, sino all’avanzato XVII secolo e oltre. Sulla genesi di questa specifica tipologia di custodia delle Sacre Specie risulta molto interessante la tesi di Francesco Caglioti, secondo cui il tabernacolo eseguito da Donatello per la Capella Parva di Eugenio IV in Vaticano (1432-33), «…si colloca alle origini di quella gloriosa tradizione di tempietti eucaristici centralizzati ed eretti a ridosso delle mense d’altare che attingerà le sue massime vette nel Cinque e nel Seicento, fino al Bernini ed oltre».62 Avendo utilizzato, per l’opera di Desiderio, il termine “altare”, varrà la pena di accennare al perché di questa specificazione riportando le parole di Francesco Caglioti, che in una densa trattazione sugli altari eucaristici dei primi tempi del Rinascimento discerne opportunamente e chiaramente le voci “tabernacolo” e “altare”, partendo innanzitutto dalla chiara differenziazione delle rispettive funzioni. «Col termine “tabernacolo”», sostiene Caglioti, «tanto fortunato in bibliografia da usurpare spesso il ruolo al termine “altare”, mi riferisco ai casi – effettivamente i più frequenti – in cui il repositorio o custodia delle Sacre Specie ha assunto il luogo, l’aspetto e la funzione di un’edicola affatto autonoma rispetto a quella mensa (o quelle mense) cui tuttavia l’edicola stessa in qualche modo si ricollegava – tramite i movimenti del sacerdote – nella pratica liturgica. Col termine “altare”, invece, ritengo sia conveniente designare – assai più di quanto solitamente non si faccia – i casi in cui il tabernacolo è entrato ab origine in relazione formale e spaziale strettissima, praticamente irrinunciabile, con la mensa, trovandosi questa o direttamente ai piedi del tabernacolo, o alquanto vicina e comunque in evidente asse con esso, così che l’officiante, accostandosi alla mensa dalla parte verso la navata, dava le spalle al popolo e volgeva lo sguardo – al di là della mensa e dello spazio dietro di essa – al tabernacolo. In tutte quest’ultime occorrenze l’oggetto che noi – come in passato – chiamiamo “tabernacolo” costituiva la vera e propria “ancona” (o “cona”) o “tavola”, o “pala” dell’altare, diciture tante volte adoperate – non a caso – dai più antichi documenti relativi a simili soluzioni». 61 Sempre sui tabernacoli, cfr. H. CASPARY, Tabernacoli quattrocenteschi meno noti, in «Antichità viva», 2, 1963, pp. 39-47; IDEM, Das Sakramentstabernakel in Italien bis zum Konzil von Trient: Gestalt, Ikonographie und Symbolik, kultische Funktion, München 1964; IDEM, Ancora sui tabernacoli eucaristici del Quattrocento, «Antichità viva», 3, 1964, pp. 26-35. 62 F. CAGLIOTI, Altari eucaristici scolpiti del primo Rinascimento: qualche caso maggiore, in Lo spazio e il culto. Relazioni tra edificio ecclesiale e uso liturgico dal XV al XVII secolo, a cura di J. STABENOW, atti delle giornate di studio, Kunsthistorisches Institut in Florenz, 27-28 marzo 2003, Venezia, Marsilio 2006, p. 56. 88 Il discorso di Caglioti si proponeva di illustrare alcuni casi particolarmente significativi (in Toscana e a Roma in particolare) di ancone eucaristiche destinate già nel Quattrocento agli altari principali, vale a dire ben prima che questa consuetudine, nel Cinquecento, entrasse nella pratica comune,63 e soprattutto prima che le disposizioni emanate dal Concilio di Trento in materia di esposizione delle Sacre Specie iniziassero ad essere concretamente attuate dalle varie diocesi. Se infatti è vero che le norme tridentine diedero un nuovo ed indiscusso vigore al culto dell’Eucaristia, sottolineando la presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata di fronte alle perplessità avanzate dalle dottrine protestanti, e di conseguenza determinando sostanziali modifiche degli spazi liturgici delle chiese, con la stabilizzazione dell’uso di porre il tabernacolo sull’altare maggiore e con la massima cura dell’arredo e della decorazione dell’area presbiteriale; è anche vero che dovette trascorrere un po’ di tempo prima che le diocesi sparse sul territorio italiano si adeguassero a tali prescrizioni. Possediamo infatti molte testimonianze, tramandateci dalle visite pastorali, nelle quali emergono le rimostranze dei prelati nei confronti delle numerose irregolarità e licenze alle disposizioni adottate dal Concilio.64 Il tabernacolo a muro, eccetto che in alcuni casi particolari, come per esempio nelle cattedrali (all’interno delle quali il suo uso fu consentito, sulla scia di quanto prescriveva Carlo Borromeo nel suo trattato),65 fu spodestato, ridotto alla funzione di ricovero degli olea sancta e sostituito dagli altari veri e propri, sulle cui mense a partire da questo momento il Santissimo fu innalzato.66 Tra le sculture inedite qui di seguito presentate, si trovano un piccolo tabernacolo a muro, divenuto poi repositorio degli oli santi, ed un’imponente ancona eucaristica ancora oggi svettante sull’altare maggiore della chiesa che lo ospita. 63 D’altronde, ai primi del Cinquecento si data un decreto del vescovo di Verona Giovan Matteo Giberti, il quale prescriveva che «tabernaculum ligneum aut ex alia materia pulchrum cum sua clavi fiat et super altari magno collocetur et ita bene et firmiter stabiliatur, ut inde per sacrilegas manus avelli nullo modo possit» (cfr. O. KURZ, A group of Florentine drawings for an altar, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XVIII, 1955, p. 51). 64 È questo, fra i tanti, il caso del vescovo gallese Lewis Owen (italianizzato Ludovico Audoeno), eletto nel 1583 a capo della diocesi calabrese di Cassano. Condotta la visita pastorale, fra le varie violazioni alle norme tridentine il prelato ne riscontrò una relativa proprio al tabernacolo, dentro al quale si continuava a custodire non soltanto l’Eucaristia ma anche gli oli sacri. Al fine di far risaltare la presenza del Santissimo Sacramento, ai sacerdoti fu concesso un mese di tempo per trasferire l’olio dei catecumeni ed il crisma per il battesimo presso il battistero, mentre per l’olio degli infermi fu disposto che fosse conservato in sagrestia oppure in un luogo vicino all’altare maggiore (cfr. R. BENVENUTO, L’Eucaristia nel magistero post-tridentino dei vescovi calabresi, in Pange lingua. Il culto eucaristico in Calabria, Abramo, Catanzaro 2002, pp. 95-121). 65 C. BORROMEO, Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae (1577), in Trattati d’Arte del Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, a cura di P. BAROCCHI, III, Laterza, Bari 1962, pp. 36-38. 66 Nel 1863 la Sacra Congregazione dei Riti abolì definitivamente l’uso dei tabernacoli a muro. 89 III.2.3 Aggiunte al Freri e al Mazzolo: gli altari eucaristici di Taormina e di Pezzolo. All’interno della Cattedrale di Taormina, murati nella cappella sita alla destra dell’altare maggiore, si trovano i pezzi di uno smembrato tabernacolo eucaristico (figg. 31-32) apparentato stilisticamente alla Vergine di Montebello. Di esso rimane, appoggiata sul registro centrale con il repositorio delle Sacre Specie affiancato da angeli adoranti, la lunetta con la colomba dello Spirito Santo e testine di cherubini ai lati, nonché lo zoccolo decorato da due puttini reggenti lo stemma della città. Su tale piccolo basamento, che sostiene due colonnine laterali non pertinenti, s’innalzano altri due frammenti lunettati, raffiguranti l’Annunciazione, in origine parte del fastigio dell’edicola.67 Il confronto tra i puttini reggistemma della custodia taorminese ed il Bambino di Montebello è, a mio avviso, parlante, e palesa sensibilmente l’esprimersi di un unico linguaggio formale, che accosta i tre bambini nel taglio degli occhi, quasi a mandorla, nel naso un po’ schiacciato, nelle labbra che ai lati s’inarcano con delle fossette, e infine nei riccioli ben definiti che svirgolano taglienti e appuntiti (figg. 33-34). Lo stesso dicasi per gli angeli adoranti il Santissimo Sacramento, dai volti dolci e dalle espressioni trasognate, simili a quelli della Madonna e del Figlio di Montebello, ma anche a quelli dei fedeli che si proteggono sotto il manto della Vergine freriana oggi nel Museo Civico di Castroreale (1510, ME, fig. 36-37).68 Ulteriori conferme all’attribuzione del tabernacolo di Taormina si trovano nelle due sculture restituite di recente ad Antonello da Monica de Marco, vale a dire una Madonna entro un clipeo affiancata da due putti reggistemma, oggi sistemati a mo’ di paliotto d’altare nella Cappella dei Canonici all’interno della Cattedrale di Messina (fig. 38), e una minuta Santa Lucia albergata sul portale che in passato conduceva nella Cappella Ansalone (figg. 35, 40), sempre nella chiesa maggiore della città dello Stretto.69 In queste ultime due figure femminili ritroviamo i medesimi lineamenti dell’Annunciata campeggiante nella lunetta taorminese, e si ripresenta altresì un identico trattamento delle pieghe, profondamente solcate, più fitte all’altezza del petto, e man mano diradanti dalla vita in giù, dove si aprono infine in larghe falde (figg. 38-40). Alla luce di tali riflessioni, diventa quasi superfluo sottolineare, per la custodia eucaristica, una prossimità anche cronologica ai manufatti freriani di Castroreale e di Montebello, e dunque 67 Lo zoccolo con i putti reggistemma, le colonnine e le lunette con l’Angelo annunciante e l’Annunciata inquadrano oggi un busto ligneo dell’Ecce Homo custodito in una teca. 68 Il rogito, con data 20 gennaio 1510, relativo alla commissione di quest’opera al Freri è stato rintracciato da A. BILARDO, che lo ha pubblicato in IDEM, Taccuino d’arte messinese, con un documento inedito riguardante lo scultore Antonello Freri, Tip. Città del ragazzo, Messina 1967, pp. 28-34. 69 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 47-48, figg. 18-21. Non concorda con l’ascrizione della Santa Lucia al Freri A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., pp. 81-85, figg. 4-5. 90 l’inserimento di questa tra le opere della fase che potremmo definire “moderna” dell’attività di Antonello Freri: quell’ultimo scorcio di carriera (dall’inizio del secondo decennio del secolo), cioè, nel quale l’artista messinese dovette interloquire vivacemente con gli esempi gaginiani da un lato, e con il pungolo mazzoliano dall’altro. Non a caso, nella Chiesa Madre di Pezzolo (ME) una bella ancona eucaristica (fig. 45), ispirata ai modi espressivi di Giovambattista Mazzolo sugli anni venti del Cinquecento, ostenta, se pur con un impianto monumentale, una tipologia analoga a quella dell’edicoletta di Taormina, a sua volta apertamente derivata da un raffinatissimo modello che Antonello Gagini dovette realizzare entro il 1508, anno che dovette segnare il suo definitivo trasferimento a Palermo (fig. 41). Il marmo è oggi custodito nel Museo Regionale della città peloritana, dove è pervenuto nei primi anni del Novecento dalla chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo”, vale a dire dalla cripta dell’antica Cattedrale normanna, sottoposta, intorno al 1638, ad un radicale rifacimento che trasformò l’angusto ambiente originario in un ampio edificio di culto dedicato alla Vergine.70 Questo capolavoro d’esordio gaginiano dovette giustappunto inaugurare localmente la serie di custodie comprendenti al centro il tempietto del Santo Sepolcro ornato da lesene scanalate, timpano con mascherone e tamburo, con relativa cupola, inquadrati in prospettiva e culminanti con la figura del Cristo trionfante.71 Ovviamente, ciò che nella pregevole scultura di Antonello Gagini è reso con una nobiltà d’intaglio ed una ricchezza d’invenzioni normalmente concesse solo ai grandi artisti, si risolve in secchezza di modi ed in semplificazione di motivi nelle derivazioni del Freri e del Mazzolo. E se l’edicola taorminese risulta più “riuscita”, e più aderente al prototipo, vuoi perché più antica (dunque ad esso più vicina), 70 L’edicola è nota da quando lo studioso palermitano Gioacchino di Marzo ne segnalò, qualche anno prima della pubblicazione dei suoi due volumi sulla scultura in Sicilia, il ritrovamento «sotterra, scavando non so per qual causa vicino al Duomo di Messina», e, ritenendola «un importante avanzo di un’altra custodia o ciborio in marmo bianco», aggiungeva che essa «venne incastrata in una parete interna del sotterraneo del Duomo stesso». Il Di Marzo, secondo cui il manufatto era da collegare all’operato del Gagini junior, ipotizzò che esso potesse essere stato eseguito dal maestro per la Cappella del Santissimo Sacramento all’interno del Duomo messinese, dalla quale sarebbe stato «rimosso e vandalicamente buttato fra le macerie quando nel secolo XVII fu ivi dato luogo alle barocche decorazioni di marmi a vari colori nella cappella ed altare del Sacramento» (cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 195). Poco più tardi, anche Gaetano La Corte Cailler menzionò la scultura là dove l’aveva ricordata il Di Marzo, vale a dire nella chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo” (cfr. Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, p. 222). Si deve immaginare che la custodia non rimase per molto tempo in Santa Maria “sotto il Duomo”, se già nel 1902 lo stesso La Corte Cailler poté affermare che «il ciborio di Santa Maria sotto il Duomo è pronto per essere trasferito al Museo» (cfr. G. LA CORTE CAILLER, Il mio diario. 1893-1903, a cura di G. MOLONIA, Edizioni GBM, Messina 1998, p. 305, 21 ottobre 1902). 71 Un esemplare analogo a questo messinese si trova, smembrato, a Novara di Sicilia (ME): qui si nota una leggera flessione di tenuta stilistica (rispetto all’altro superbamente intagliato), ma anch’esso dovette essere licenziato da Antonello approssimativamente negli stessi anni (cfr. qui il Capitolo II). 91 vuoi perché il suo artefice si sentiva spontaneamente più a suo agio nel dialogo con un marmo genuinamente “quattrocentesco” com’è il tabernacolo del Gagini junior;72 la pala mazzoliana si configura come un’attardata riproposizione di una realtà figurativa, quella appunto pienamente rinascimentale, oramai anacronistica. Al di là, poi, del confronto, frustrante per Giovambattista, con la raffinatezza del tratto e con la perizia tecnica del modello scelto (si osservi, a Pezzolo, il carattere sommario e abbreviato del tamburo e della cupola, sovradimensionati e per giunta imbarazzanti nella loro prospettiva errata, di contro alla precisione prospettica di Antonello a Messina, figg. 41, 43). Volendo però circoscrivere il più possibile l’epoca d’esecuzione del retablo pezzolano, al fine anche d’individuarne il preciso punto di stile, risulta che un’opera in particolare gli si accosta meglio e più di altre: mi riferisco al Monumento funebre di Eleonora Branciforte, conservato a Siracusa nella Galleria Regionale di Palazzo Bellomo (ma già a Lentini nella chiesa di Santa Maria di Gesù, fig. 46). Il sepolcro, che è datato 1525, mostra precise affinità con l’altare eucaristico, suffragando così la pertinenza di quest’ultimo alla fase intermedia della carriera del Mazzolo senior (anni venti-trenta). Le maggiori comunanze s’individuano nel partito decorativo dispiegato nelle lesene del tabernacolo e nel registro mediano della tomba (figg. 47-48), nonché nel perfetto parallelismo tra alcune delle figure che popolano le due opere, tra le quali spiccano gli angeli, dai lineamenti dolci e dalle dita affusolate, dai corpi esili e allungati, avvolti da vesti con pieghe larghe e squadrate all’altezza della vita, e aderenti invece ai corpi, con angoli appuntiti e taglienti, attorno al bacino e alle gambe (figg. 48-49). Il successo riscosso presso la committenza da questa specifica tipologia di edicola del Santissimo Sacramento fu tale che ancora oltre la metà del XVI secolo si rinvengono esemplari simili. La stessa bottega del Mazzolo nel 1554 ne licenziò un altro, conservato a Santo Stefano di Briga (ME, fig. 44), nella chiesa di San 72 Anche Hanno-Walter Kruft nel 1980 assegnò l’opera al Gagini junior, istituendo dei confronti con l’altare eucaristico di Santa Maria Maggiore a Nicosia e notandovi una «forte componente stilistica lombarda acquisita attraverso l’opera di suo padre» (Antonello Gagini cit., pp. 380-81, figg. 54-55). La lettura stilistica del Kruft deve necessariamente essere integrata con quella proposta da Francesco Caglioti, che ha riconosciuto in Benedetto da Maiano (dopo gli iniziali rudimenti del mestiere appresi nella bottega paterna) il “mentore” di Antonello Gagini. Su quest’ultimo punto, cfr. F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 990-1006. D’altronde, lo stesso Caglioti aveva in precedenza restituito credito, sostanziandole con nuove e solide argomentazioni, alle notizie che attestavano la presenza di Domenico Gagini a Firenze al fianco di Filippo Brunelleschi (cfr. F. CAGLIOTI, Sull’esordio brunelleschiano cit., pp. 70-90). Alla luce di tutto questo, dunque, si può affermare che, almeno in Antonello, la componente toscana prevalga rispetto a quella lombarda. In effetti, quell’elemento appunto lombardo, che il Kruft riscontrò nel tabernacolo di Messina e che, a detta dello studioso tedesco, il Gagini junior ereditò dal padre, non è altro che l’ultimo retaggio di quella cultura, pienamente quattrocentesca, lombardo-toscana tipica di Domenico e con lui arrestatasi. Non a caso questa dovette essere una delle prime prove compiute da Antonello a Messina (il riferimento del Kruft al retablo di Nicosia, datato 1512, è corretto, ma per l’edicola del Museo peloritano proporrei una cronologia ancora più alta). 92 Giovanni Evangelista.73 Si tratta di una sorta di gemello, in formato ridotto, dell’ancona pezzolana, sebbene non possa ritenersi un lavoro autografo del maestro, a quelle date forse già deceduto;74 eppure, la derivazione da quel marmo è talmente netta da indurci a pensare che l’autore possa riconoscersi in colui che dovette essere il più stretto collaboratore di Giovambattista, vale a dire il figlio Giovandomenico.75 III.2.4 Per una migliore comprensione dei rapporti tra Antonello Freri e Giovambattista Mazzolo nei primi due decenni del Cinquecento: un profondo vincolo di stile più che un semplice passaggio di consegne. Queste nuove acquisizioni al catalogo di Antonello Freri, se da un lato concorrono ad individuare in maniera più netta e precipua il linguaggio di questo scultore negli anni che sinora sembravano essere, per lui, i più scarni di testimonianze figurative (vale a dire i primi due decenni del Cinquecento);76 dall’altro inducono ad ulteriori riflessioni non tanto sulla “quantità” dei rapporti stretti tra il Mazzolo ed il Freri in quel medesimo torno di anni (tema che, alla luce di quanto detto finora, sembra essere oramai un dato di fatto), quanto piuttosto sulla “qualità” di questo legame, che sembra assomigliare molto ad una sorta di filiazione del giovane Giovambattista dall’anziano Antonello. Dall’analisi dei manufatti che con qualche certezza possono ricondursi alla prima attività di Giovambattista nella città dello Stretto si deduce infatti che egli, giunto immediatamente a contatto, per ragioni di opportunità lavorative, con il maestro siciliano, abbia sin da subito recepito, o ancor meglio assorbito ed introiettato i modi espressivi di questi. In alcuni casi tale processo di assimilazione dello stile freriano è stato talmente profondo da lasciare oggi disorientati. E ciò appare ancora più singolare se si pensa che il Mazzolo, pur giunto a Messina dalla Lunigiana, territorio d’origine dei marmi, e di conseguenza di un ragguardevole numero di famiglie di scalpellini, appare tuttavia vistosamente estraneo alla 73 Cfr. la scheda n. 8. Nel 1549 il Mazzolo senior dettò il proprio testamento (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Il pergamo del Duomo di Messina ha ritrovato il suo autore, in «Gazzetta della Sicilia e delle Calabrie», VI, n. 186, 5 agosto 1932, p. 3). 75 Il corretto inquadramento della custodia entro l’ambito dei Mazzolo si deve a Monica de Marco (Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., p. 59, figg. 35-36). 76 Prima che Francesco Caglioti chiarisse, una volta per tutte, la vicenda della Madonna di Montebello, il Freri cinquecentesco s’identificava con il solo Monumento dell’ammiraglio Angelo Balsamo († 1507). Più decisamente documentata rimaneva invece l’attività di Antonello allo scadere del XV, attraverso le imprese compiute per la committenza del viceré Ferdinando de Acuña e della consorte Maria d’Avila e destinate alla Cappella di Sant’Agata all’interno della Cattedrale catanese. 74 93 matrice culturale della propria terra natia, orientato com’è, già dagli esordi, a replicare le inflessioni stilistiche dell’attardato, e mediocre, Antonello Freri.77 Non può infatti reputarsi pura casualità la comparsa, nelle prove mazzoliane dei primi tempi, di precise e talora sconcertanti assonanze formali con le coeve opere freriane. A questo riguardo, mi sembra esemplare il caso delle figure mariane gemelle di Montebello e di Castell’Umberto (figg. 22-23), nate di certo “insieme” durante il periodo di maggiore scambio (di spunti, di idee) e di condivisione (di esperienze, di modelli) tra i due artisti. Eppure, a fronte della generale comunanza d’intenti e di motivi che apparenta le due statue, la Madonna di Giovambattista si differenzia per un fare più ampio, una solidità d’impianto più moderna, da interpretare come il passo in avanti compiuto dal carrarese rispetto al quattrocentismo minuto, delicato ma ormai vetusto, del Freri. Proprio l’ancoraggio cronologico delle due Vergini al 1512, e l’ipotesi, qui avanzata, di un’iniziale permanenza del Mazzolo presso l’officina del collega siciliano, ci aiutano a comprendere meglio i diversi punti di stile dei due lapicidi: per il messinese, la scultura di Montebello ha rappresentato il momento più alto, e invero insuperato, di un processo d’aggiornamento che, dai lavori ancora quattrocenteschi di Catania, lo ha catapultato in una temperie culturale nuova, alla quale, per ovvi motivi d’anagrafe, egli non poté partecipare; per Giovambattista, invece, il marmo di Castell’Umberto ha costituito piuttosto un avvio, improntato sui prototipi 77 Alla luce delle novità emerse di recente, e delle quali qui si discute, l’attività di Giovambattista sembra potersi suddividere in due principali momenti: il primo, entro gli anni venti del secolo, che lo vede letteralmente “appaiato” al Freri; il secondo, protrattosi sino alla fine della carriera, si distingue per una stretta e ben poco originale aderenza agli schemi e ai modelli propagati da Antonello Gagini e dalla sua bottega. L’ipotesi qui avanzata sulla formazione e sugli esordi mazzoliani diverge da quanto sostenuto da Lucia Lojacono (Per un catalogo dei monumenti sepolcrali cit., pp. 95-108), che individuava alcuni riferimenti più genericamente toscani per alcune opere del Mazzolo (cfr. infra, nota 85). Con questo non si vuole a tutti i costi postulare un alunnato, nel senso più stretto del termine, di Giovambattista presso il Freri (almeno i rudimenti dell’arte del marmo dovrà averli appresi in Toscana, come già evidenziato da F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., p. 41). Di certo non può essere condivisibile la proposta avanzata da F. PAOLINO (Altari monumentali cit., p. 38), secondo la quale il carrarese dovette trasferirsi a Messina molto giovane iniziando un vero e proprio apprendistato presso la bottega di Antonello Gagini. Né si può concordare con A. MIGLIORATO (Una maniera molto graziosa cit., p. 78), la quale, ribadendo un’opinione espressa da lei medesima in passato (Tra Messina e Napoli cit., pp. 30-31), ha affermato: «Gli elementi della sua [di Giovambattista] cultura si basano sostanzialmente, oltre che sulla tradizione scultorea toscana del tardo Quattrocento, sull’eredità di Antonello Gagini e su alcuni elementi di cultura manierista, che lo scultore utilizza abilmente per mimetizzare, attraverso il ricorso alle deformazioni anatomiche, qualche incertezza disegnativa nella resa delle figure». Onestamente non credo che il rapporto tra il Mazzolo e Antonello Gagini sia andato al di là di un semplice, e anche piuttosto sterile prelievo, da parte del primo, di schemi e tipologie elaborate dall’ingegno sempre vivido del secondo. Così come non riesco, per quanto mi sforzi, a rintracciare nel fare scultoreo di Giovambattista alcuno stilema, né interno al suo stile, né esterno, che solo lontanamente possa definirsi “manierista”. Anzi, mi sembra che egli, pur varcando anagraficamente la soglia della metà del Cinquecento, sia rimasto ancorato, fino alla fine, mentalmente e stilisticamente, al secolo precedente. 94 gaginiani, dal quale comunque egli non riuscì ad emanciparsi mai, malgrado la lunga carriera e le opportunità presentatesi nel corso degli anni.78 La convergenza dei modi espressivi dei due scultori è stata comunque tale che, nelle voci bibliografiche degli ultimi anni, si è assistito a veri e propri slittamenti di opere dall’uno all’altro autore. Già nel 2003 Francesco Caglioti aveva ragionevolmente dirottato la Santa Caterina d’Alessandria del Museo Regionale di Messina dal corpus freriano a quello mazzoliano,79 a fronte della visibile pertinenza di quel marmo ad una cultura più “moderna”. Più di recente, l’ascrizione ad Antonello del Portale della Cappella Ansalone nel Duomo peloritano, avanzata da Monica de Marco, è stata rifiutata da Alessandra Migliorato, la quale ha preferito assestarsi, per questo lavoro, sull’intervento di Giovambattista.80 Il carattere ambiguo e nebuloso della produzione dei due artisti in questo giro di anni segna, a mio avviso, anche due imprese monumentali che sarebbe più opportuno ricondurre ad una collaborazione entro la medesima bottega. Mi riferisco ai già citati Monumenti funebri dell’arcivescovo Pietro Bellorado (1513 circa, Messina, Cattedrale, fig. 50) e dell’ammiraglio Angelo Balsamo (1515 circa, Messina, Museo Regionale, già San Francesco, fig. 51). Riguardo al primo, a partire da Gioacchino di Marzo in poi,81 la bibliografia specialistica ha proposto il nome del Mazzolo sulla base del confronto con la Tomba di Eleonora Branciforte, firmata e datata 1525. Il Sepolcro Bellorado risale invece al 1513, come si ricava dall’iscrizione che ricorda l’anno di morte del prelato messinese (1509) e il nome del committente dell’opera, vale a dire il nipote Giovanni Ruiz.82 Malgrado le decurtazioni subite a causa dei bombardamenti che 78 L’avvento in città di artisti “forestieri”, tra cui Polidoro da Caravaggio (1527) e Giovann’Angelo Montorsoli (1547), contribuì a svecchiare l’attardato panorama artistico cittadino, così come la presenza di maestri locali, quali Stefano Giordano, Mariano Riccio, Jacopo Vignerio, Deodato Guinaccia (per la pittura), e specie Rinaldo Bonanno per l’arte scultorea, provocò delle necessarie aperture al linguaggio manierista che altrove si era già imposto da tempo. Malgrado ciò, il linguaggio mazzoliano si è ben presto cristallizzato cadendo in una serialità, divenuta più in là sistematica, che ha contraddistinto in particolare le Madonne e le Sante Caterine (e, come abbiamo visto sopra, le edicole eucaristiche, sebbene quantitativamente meno rilevanti), ripetutesi, anche a distanza di molti anni, con minime, e sempre deboli, varianti. In almeno due occasioni, quelle relative all’esecuzione dell’ancona marmorea con l’Epifania destinata a Seminara (RC, entro il terzo decennio del Cinquecento) e delle tre statue (Vergine, Santi Pietro e Paolo, 1524-34) da collocare sul portale maggiore della Chiesa Madre messinese, il Mazzolo replicò addirittura, fin nei minimi dettagli, un modello pittorico ben noto nella città peloritana, vale a dire l’Adorazione dei Magi che Cesare da Sesto aveva compiuto entro il 1519 per la chiesa di San Nicolò dei Gentiluomini. Viene dunque a determinarsi il profilo di uno scultore dalla produzione convenzionale, spesso alla ricerca di invenzioni altrui. 79 F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 42-50, figg. 1-3, 9, 11, 13. Per la raffinatezza dell’intaglio e l’eleganza dell’impianto, lo studioso reputa questa statua una tra le migliori prove del carrarese. 80 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 47-48, figg. 18-21; A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., pp. 81-85, figg. 4-5. 81 Cfr. supra, nota 50. 82 Le iscrizioni scampate alla distruzione sono due, una incisa nello zoccolo, l’altra entro una lastra marmorea che doveva trovare posto al di sopra del defunto, chiudendo così in alto il monumento. 95 colpirono il Duomo cittadino nel 1943, il monumento preserva ancora una parte del suo corredo scultoreo, tra cui il registro mediano scandito da nicchie poco profonde entro le quali sono allogate le Virtù teologali, e le due lastre incise commemoranti defunto e committente.83 Ebbene, se il parallelismo BelloradoBranciforte è talmente lampante da non aver mai lasciato dubbi sull’identità del loro comune autore, altrettanto chiaro risulta lo scarto di qualità tra i due complessi marmorei, che declassa inesorabilmente il primo allo status di lavoro ancora acerbo condotto da un’officina situata a metà strada tra le secchezze e le abbreviazioni tipiche del Freri e un tenue spiraglio ad un fare “grande” più aggiornato, rappresentato da Giovambattista. D’altronde, gli anni cui risale questa commessa sono proprio quelli in cui il Mazzolo aveva appena mosso i primi passi nel panorama artistico siciliano: come di già prospettato, egli dovette sbarcare sull’isola intorno al 1507-08, e dunque, anche a voler ritardare al ’12 la commissione del monumento, sembra poco plausibile credere che fosse affidato un incarico così impegnativo e prestigioso ad uno scultore ancora così poco noto.84 Molto più verosimile sembra invece l’ipotesi che, entrato in contatto con Antonello, presso la cui bottega egli dovette appoggiarsi (almeno in questa prima fase), Giovambattista abbia partecipato all’impresa assieme all’anziano maestro e ai suoi aiutanti. Qualora, invece, ci si orientasse per una commissione ricevuta direttamente e personalmente dal toscano, ciò non porterebbe tuttavia all’esclusione dell’ipotesi di collaborazione col Freri.85 L’analisi formale del sepolcro spinge infatti a nutrire seri dubbi sulla piena Ecco le rispettive trascrizioni: PETRO BELHORADO ARCHIEPISCOPO MESSANENSI VIRTVTIS AC BONITATIS EXEMPLO IN IPSO VITAE CVRSV AB INTEMPESTA MORTE SURREPTO IOANES RVIS NEPOS PATRVO OPTIME MERENTI TVMVLVM EREXIT VIXIT ANNOS LV MENSES VIII DIES IIII ANNO DOMINI MCCCCCXIII DEO OPTIMO MAXIMO IOANES RVIS NEPOS PRIVATA IMPENSA INGENIVM VIRTVS PROBITAS SAPIENTIA SERMO PATRVO BENEMERITI HVNC TVMVLVM EREXIT PERSPICVVS PETRI MORTE SEPVLTA IACENT. 83 Salvatasi dal sisma del 1908, la tomba non resse ai bombardamenti alleati del 1943, i quali generarono un incendio che fu causa di rovina di numerose opere custodite nel Duomo. L’assetto attuale del sepolcro, originariamente alloggiato nel transetto sinistro, vicino alla Cappella del Sacramento, è il risultato della ricomposizione post-bellica. Oggi, ciò che resta, vale a dire il basamento comprensivo di zoccolo, Virtù e lastra con iscrizione, si trova murato nel pilastro sinistro della tribuna che affaccia sul presbiterio. La testa dell’arcivescovo, fortunosamente ritrovata nel 1969 in una discarica, e dunque consegnata al museo peloritano (inv. n. 5183), il 6 luglio 2012 è stata ufficialmente restituita alla Cattedrale e al suo complesso monumentale d’origine. 84 Va da sé che, in mancanza di attestazioni precise, è sempre molto complicato datare i monumenti funerari, ma in questo caso si può certamente prendere in considerazione il periodo trascorso tra la morte del vescovo (1509) e il 1513 inciso nello zoccolo, riconoscendo, con buona approssimazione, in questa seconda indicazione temporale l’epoca della consegna dell’opera. 85 Nella lunga lista di fautori dell’ascrizione mazzoliana della tomba, l’unica voce fuori dal coro fu Virgilio Saccà, che nel 1898 pensava a due distinte fasi d’esecuzione: a suo parere, il sarcofago doveva ricondursi ad un’epoca più antica, corrispondente al periodo d’attività messinese di Antonello Gagini, mentre il basamento con le Virtù veniva attribuito al Mazzolo o, in alternativa, al socio Freri (V. SACCÀ, Studi critici sul Duomo di Messina, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», XII (1897-98), 1898, pp. 376-377). A differenza di Lucia Lojacono, la quale ha pensato di consolidare l’attribuzione del sepolcro al carrarese Giovambattista riconducendone la tipologia a 96 autografia mazzoliana dell’intero manufatto, poiché numerosi tratti distintivi del linguaggio freriano vi fanno la loro comparsa in più parti. Iniziando dalle Virtù, se ne osservino in particolare le pieghe dritte e rinsecchite e i profili netti e taglienti dei volti, che, pur ricorrendo nelle coeve immagini mariane di Giovambattista (Raccuia, Monforte San Giorgio, figg. 24, 27) e nelle Virtù gemelle di Siracusa (figg. 54-55, 56, 58), vengono tuttavia condivise anche dalle Vergini di Castroreale (benché con forme più arcaiche, fig. 21) e di Montebello (fig. 22), nonché nelle piccole figure della Madonna scolpita sul paliotto custodito nella Cappella dei Canonici e della Santa Lucia nella lunetta del Portale Ansalone, entrambi all’interno della Chiesa Madre messinese (figg. 38, 40). Proprio quest’ultima opera offre un altro termine di paragone utile al discorso che qui si pone: vi è infatti presente la caratteristica decorazione a grottesche, che presenta molti elementi analoghi a quella distribuita nelle lesene del basamento Bellorado.86 Al di là del ripetersi degli stessi motivi figurativi (arpie, racemi vegetali stilizzati, testine di putti, figure zoomorfe, candelabri, targhette ornate da mascheroncini o contenenti iscrizioni inneggianti all’antico), mi pare che possa riscontrarsi anche un simile ductus scultoreo nell’esilità e nella secchezza delle forme, che indurrebbero ad ipotizzare l’intervento di un unico maestro; o, in alternativa, di uno o più collaboratori della società Freri-Mazzolo (figg. 64-65). Benché si distingua per una tenuta stilistica più nobile, analogo discorso può farsi per la Tomba Balsamo (fig. 51), tradizionalmente ascritta all’operosità freriana, e recentemente dirottata da Francesco Caglioti verso il collega carrarese.87 La condivisione della medesima tipologia figurativa esibita tempo prima dal Sepolcro del Viceré d’Acuña, incentrata sulla figura del defunto inginocchiato e affiancato da un paggio e inquadrato entro un’imponente illustri prototipi rinascimentali toscani, io non credo che, in questo caso specifico, la sola dipendenza tipologica sia sufficiente a dirimere tale piuttosto complessa vicenda, che da un lato si spiega con l’analisi stilistica, e che dall’altro si presenta strettamente legata alla comprensione delle dinamiche, quasi mai chiare, della suddivisione del lavoro all’interno di botteghe così grandi. La studiosa fa riferimento, in merito all’impaginazione generale dell’opera messinese, al Monumento di Baldassarre Coscia nel Battistero di Firenze (Donatello e Michelozzo sul 1425-27); e per il modello del sarcofago, «assimilabile ad un cofano tondeggiante, ornato naturalisticamente», ella opta per la Tomba di Carlo Marsuppini realizzata da Desiderio da Settignano per la chiesa fiorentina di Santa Croce intorno al 1453 (cfr. L. LOJACONO, Per un catalogo dei monumenti sepolcrali cit., pp. 95-96). Onestamente, non scomoderei tali apici dell’arte scultorea rinascimentale per spiegare la tipologia “forestiera”, e peraltro non integralmente toscana (analoghe soluzioni si erano viste largamente nella Roma curiale della seconda metà del XV secolo), esibita dal Monumento Bellorado. Pur non volendo deprimere la forza derivativa che noti esempi toscani dovettero esercitare sul Giovambattista da poco trasferito a Messina, ci si dimentica troppo spesso che, già a partire dal settimo decennio del Quattrocento, l’arrivo sull’isola di Domenico Gagini, educatosi appunto in Toscana, determinò proprio l’importazione, ed il successo, di molteplici modelli e schemi figurativi presi dal ticinese proprio da quella ch’era stata la sua regione di formazione. 86 Nonché sul sarcofago del Bellorado, andato perduto ma ancora visibile in una vecchia riproduzione fotografica precedente alla distruzione bellica. 87 F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 50-53, figg. 17-19. 97 intelaiatura architettonica con alto basamento che sorregge un’edicola cassettonata e ampiamente ornata, non può certo ritenersi sufficiente a sostenere, per entrambe le opere, la coincidenza del loro autore. Eppure, a partire dal 1925, quando per la prima volta Enrico Mauceri ne identificò l’artefice appunto nel Freri, questa tesi è stata accolta senza riserve da tutta la storiografia successiva, fatta eccezione per il solo Caglioti.88 Lo studioso, infatti, nell’ambito di un determinante contributo che, grazie all’attribuzione della Madonna col Bambino di Montebello e della Santa Caterina d’Alessandria di Messina,89 ha gettato per la prima volta luce sull’attività dei due soci sugli anni dieci-venti del secolo, ha proposto, pur cautamente, un intervento mazzoliano per il Monumento Balsamo. E ciò sulla base del confronto tra il complesso scultoreo oggi al museo e quanto noto, sino a quel momento, dell’opera di Antonello: al Caglioti non sfuggiva infatti la schiacciante modernità, nella composizione e nello stile, che il Sepolcro messinese ostenta rispetto a quello catanese di Ferdinando d’Acuña, e che inserisce apertamente il primo nella nuova cultura della Maniera moderna. L’avanzare degli studi, però, e le aggiunte al catalogo dello scultore siciliano, inducono chi scrive, pur condividendo in linea di massima la lettura stilistica offerta dal Caglioti, a proporre anche per la Tomba dell’Ammiraglio una cooperazione tra il Freri ed il Mazzolo. Una soluzione, questa, che si adopera non perché ritenuta la più comoda, o quella meno problematica, ma piuttosto perché, come spero di aver già ampiamente mostrato nelle pagine precedenti, mi sembra che una società tra i due sia realmente esistita negli anni che qui ci interessano. Il difficile compito è stabilire quanto i due colleghi si siano influenzati l’un l’altro, e cosa possa con certezza addursi all’operato dell’uno e quanto all’altro; e ancora, quanto sia da ascrivere, molto più semplicemente e realisticamente, ai comuni aiutanti (è questo, ad esempio, il caso dei partiti decorativi e delle sculture, per così dire, architettoniche, che in larga misura si diffondono nei tre complessi marmorei sin qui presi in esame, vale a dire i Monumenti Bellorado e Balsamo e il Portale Ansalone, figg. 64-66). In quest’ottica, il Sepolcro Balsamo si pone come una sorta di summa delle diverse esperienze culturali e formali dei due scultori: se la tipologia ricalca modelli più antichi, lo stile che informa l’opera nei suoi caratteri generali è di certo, come già osservato dal Caglioti, più moderno; se alcuni personaggi, tra cui gli spiritelli reggiscudo e il putto cavalcante il delfino nella scena mitologica descritta nello zoccolo, richiamano apertamente le analoghe figure di Antonello custodite a 88 E. MAUCERI, Antonello Freri, scultore messinese cit., pp. 385-398. Già prima di Mauceri, Gaetano La Corte Cailler aveva orientato verso il Freri l’attribuzione del Monumento Balsamo (cfr. Il mausoleo “de Acuna” in Catania (notizia di un documento inedito), in «Archivio storico messinese», VIII, 1907, pp. 140-144, p. 142 e nota 1, e IDEM, Spigolature storiche messinesi, Puntata II, Tipografia D’Amico, Messina 1907, pp. 49-53, p. 51 e nota 1). 89 Quest’ultima restituita a Giovambattista, cfr. F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 37-60. 98 Montebello, a Taormina, nella Cappella dei Canonici e sul Portale Ansalone (figg. 52-53, 59); altrettanti protagonisti della tomba, quali lo stesso ammiraglio, il paggetto, o le arpie nei plinti sui quali si stagliano le colonne, non possono non rammentarci alcuni ben noti marmi mazzoliani, in primis le Vergini di Castell’Umberto e di Raccuia (figg. 25-26), ma anche le Virtù, benché più tarde, di Siracusa, e la coeva Santa Caterina del Museo messinese (figg. 57-58, 67-68). O, ancora, risultano molto interessanti alcuni raffronti con figure che in questa sede sono state ricondotte alla società Freri-Mazzolo, quali le Virtù teologali del Monumento Bellorado, in cui ricorrono i medesimi lineamenti taglienti, e le ampie arcate sopracciliari mostrate dal Balsamo e dal paggetto alle sue spalle (figg. 5657, 69). Si configura così una situazione che la letteratura specialistica non aveva ancora valutato nella giusta misura, e cioè che il giovane Mazzolo visse i suoi primi anni siciliani, coincidenti con i suoi esordi da maestro del marmo, a stretto contatto con Antonello Freri, instaurando un rapporto di collaborazione man mano trasformatosi in un vero e proprio legame culturale. La relazione tra i due potrebbe a ragione definirsi “osmotica”, dal momento che, come si è cercato di dimostrare in queste pagine, gli scambi sembrano essere stati reciproci e vicendevolmente influenti. Ciò che lascia perplessi è, da un lato, la rapidità con cui Giovambattista ha “ingurgitato” alcuni tratti peculiari dello stile del collega; dall’altro, la straordinaria capacità manifestata dal messinese di evolvere il proprio tardivo linguaggio, aiutato certamente dalla ventata di novità apportata da Antonello Gagini sullo scadere del XV secolo. La svolta dovette avvenire già nel primo decennio del Cinquecento, in concomitanza con la presenza gaginiana nella città dello Stretto, ed è dunque un peccato che allo stato attuale non si conosca nulla dell’attività freriana di questi anni.90 Diversamente, non soltanto la comparsa, nel corpus del Freri, della Madonna col Bambino di Montebello Jonico avrebbe destato meno sorpresa, ma si sarebbe anche riusciti a seguire il maestro in questo percorso di rinnovamento, comprendendone forse meglio le spinte e le dinamiche. III.2.5 Giovambattista Mazzolo e le repliche “maianesche” da Antonello Gagini: l’inedita Santa Caterina d’Alessandria di Montalbano Elicona. Se poi il linguaggio mazzoliano, specie in anni avanzati, si è fissato e standardizzato secondo linee, forme e schemi sempre uguali, vieppiù nelle raffigurazioni mariane, ciò non è da attribuirsi solamente alla scarsa capacità 90 La Vergine di Castroreale, risalente al 1510, non può servire precipuamente al nostro discorso, poiché la sua parzialmente mancata adesione alla nuova fase formale del suo artefice deve in larga parte attribuirsi, a mio avviso, all’iconografia tipicamente quattrocentesca, espressa richiesta della confraternita committente dell’opera. 99 inventiva dell’artefice. Come è stato oramai da tempo sottolineato,91 infatti, alla base della cospicua produzione di Vergini marmoree siciliane del XVI secolo (fra cui quelle del carrarese rientrano pienamente) vi fu un archetipo il cui straordinario successo presso la committenza dovette, già a poca distanza dalla sua comparsa, dettar legge, cancellando letteralmente il ricordo della cosiddetta Madonna di Trapani (1355 circa, fig. 69), sulla quale si erano esemplate le figure mariane in Sicilia almeno sino agli anni ottanta del Quattrocento.92 La scultura in questione è la splendida Madonna della Neve (fig. 70) già al centro di una pala compiuta intorno al 1490-91 dal maestro toscano Benedetto da Maiano per Terranova, feudo calabrese di Marino Correale, maggiordomo della regina Giovanna d’Aragona.93 La fortuna iconografica e tipologica riscossa da questa figura determinò una lunghissima sequela di repliche più o meno fedeli, a partire dagli esempi licenziati da Antonello Gagini, verosimilmente recatosi in giovane età a Firenze al fine di perfezionare la propria formazione presso la bottega del Maiano.94 Con molta probabilità sia il Freri che il Mazzolo elessero proprio un’opera gaginiana (una fra le tante portate a termine dal Gagini junior entro il 1510) quale prototipo da reiterare con lo scopo di esaudire le richieste della committenza.95 Fra tutti i probabili archetipi, quello più convincente sembra essere la Madonna degli Angeli che nel 1506 circa Antonello compì per la chiesa messinese di San Francesco,96 e della quale i due scultori avevano dunque una conoscenza diretta (fig. 71): se si pensa che ancora nel 1554 l’officina di Giovambattista inviava a Vico Aprigliano (CS) una Vergine col Bambino concepita sull’esempio maianesco (fig. 73), e che a quest’ultima possono facilmente accostarsi almeno altre otto Madonne 91 F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 979-1042 [990-1006]; IDEM, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., p. 50. 92 La scultura fu realizzata da Nino Pisano intorno al 1355, in piena congiuntura gotica, ed era destinata alla chiesa dell’Annunziata del capoluogo siculo (cfr. H.-W. KRUFT, Die Madonna von Trapani und ihre Kopien: Studien zur Madonnen-Typologie und zum Begriff der Kopie in der sizilianischen Skulptur des Quattrocento, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 14, 1969/70 (1970), 3, pp. 297-322). 93 Cfr. il Capitolo II, nota 40. 94 Ibidem, pp. 1000-1002. 95 La prima Vergine ad essere realizzata da Antonello sulla scorta del modello maianesco è quella di Nicotera (1498-99), che a sua volta diventò, nel breve volgere di qualche anno, modello, espressamente richiesto dalla committenza, al quale lo stesso Gagini dovette far riferimento nell’eseguire altre sue creazioni. Ciò è accaduto, ad esempio, per la Madonna della Grazia destinata a Catanzaro: cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, p. 374, doc. XXII. Procedendo in ordine diacronico, dopo Nicotera abbiamo le immagini di: Palermo, Duomo (1503), Palermo, Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis (1503 circa), Catania, Santa Maria di Gesù (1504 circa), Catanzaro (1504), Mesoraca (1504-05), Amantea (1505), Morano Calabro (1505), Messina, Museo Regionale (1506), Pietrapennata di Palizzi (1506 circa), Monreale, Arcivescovado (1506-08 circa), Bombile d’Ardore (1509), Seminara (1509 circa). 96 Il contratto d’allogagione di questa statua è stato pubblicato da G. MOLONIA, La “Madonna degli Angeli” di Antonello Gagini e il suo documento, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 9, 1999, pp. 71-79. 100 mazzoliane, vale a dire quelle di Castell’Umberto (ME, fig. 23), Raccuia (ME, fig. 24), Galatro (RC, fig. 28), Melicuccà (RC, fig. 72), Scido (RC), Monforte San Giorgio (ME, fig. 27), San Martino di Taurianova (RC), ed un’ultima conservata in collezione privata messinese (fig. 74),97 si riesce forse meglio a cogliere il duraturo impatto della forza paradigmatica scaturita dalla Vergine calabra di Benedetto da Maiano.98 Prima che il sisma del 1783 le separasse definitivamente, la Madonna maianesca era affiancata da altre due figure, anch’esse a grandezza naturale, rappresentanti rispettivamente una Santa Caterina d’Alessandria (fig. 75) ed un San Sebastiano, a formare una pala d’altare pressocché identica a quella che Benedetto inviava contestualmente a Napoli nella Cappella Correale all’interno della chiesa benedettina di Santa Maria di Monteoliveto. Sebbene non raggiungendo, anzi non sfiorando neppure, il medesimo numero di “derivazioni” mariane, anche la Santa Caterina di Terranova ha generato un apprezzabile gruppo di repliche, ispirando non soltanto Antonello Gagini ma anche lo stesso Mazzolo. Dopo che nel 2002 Francesco Caglioti ha riconfermato l’attribuzione al carrarese della Santa Vergine e Martire proveniente da Santa Lucia del Mela (ME) ed oggi conservata nel Museo Regionale di Messina (fig. 76);99 e dopo che lo stesso studioso ha giustamente collegato questo marmo agli altri due, di analogo soggetto, compiuti sempre da Giovambattista per Bianco (RC, 1530, fig. 78) e per San Piero Patti (ME, anni quaranta, fig. 90),100 accrescendo pertanto il corpus di questo artista e rimpinguando contemporaneamente la serie delle Sante Caterine dipendenti dal tipo maianesco sparse sul territorio dello Stretto; risulta adesso ancora più interessante l’aggiunta al catalogo mazzoliano di un’altra Santa inedita, rintracciata da chi scrive in un borgo del territorio dei Nebrodi situato a poca distanza dalla città peloritana.101 97 Questa Madonna col Bambino fu pubblicata per la prima volta da Hanno Walter Kruft, che la inserì nel corpus delle opere di Antonello Gagini, dal quale deve però essere espunta per le stringenti affinità formali che essa condivide con analoghi manufatti prodotti nella bottega di Giovambattista Mazzolo (H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., p. 424, fig. 15; IDEM, Figure giovanili di Madonne di Antonello Gagini, in «Antichità viva», XIV, 1975, 2, pp. 24-34 [pp. 29, 31, 32 figg. 2021]). Già F. CAGLIOTI (La scultura del Quattrocento cit., pp. 1033, nota 89, 1036, nota 132; IDEM, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 37-38, 55 note 9-10) ha segnalato l’opera come tipico prodotto mazzoliano. 98 D’altronde, l’ultima replica, in ordine di tempo, della scultura maianesca sembra essere stata la Madonna che nel 1600 fu spedita da Pietro Bernini a Saracena (cfr. A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 104-109, per l’attribuzione; e F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 995-996, per l’ascendenza maianesca). 99 L’opera pervenne al Museo messinese dalla chiesa benedettina di Sant’Antonio da Padova. Una prima, debole ascrizione di questa scultura al carrarese fu avanzata da F. CAMPAGNA CICALA, in F. ZERI, F. CAMPAGNA CICALA, Messina. Museo Regionale cit., p. 84, scheda n. 51. 100 Cfr. la scheda n. 5. 101 A Mario Panarello e ad Alessandra Migliorato si deve inoltre l’ascrizione di altre due Sante, rispettivamente una Caterina ed un’Agata, rintracciata l’una a Satriano (CZ), e l’altra a Calatabiano (CT, fig. 88). Ma risultano entrambe più deboli nella tenuta stilistica, specie la prima, nella quale è palese l’intervento massiccio della bottega. Cfr. M. PANARELLO, La statua di Sant’Agata a 101 Si tratta della statua (fig. 77) custodita a Montalbano Elicona, nella quasi diruta chiesa omonima:102 l’analisi stilistica avvicina quest’opera all’altra originariamente conservata a Santa Lucia del Mela, e suggerisce una datazione entro gli anni venti del Cinquecento. La nobiltà dell’intaglio e la raffinatezza dei dettagli contribuiscono a sostenere tale ipotesi e a far reputare la scultura montalbanese una delle migliori creazioni del Mazzolo senior. Col tempo, a partire dagli anni trenta, il carrarese, complice anche il più ampio contributo degli aiuti di bottega, optò invece per composizioni più goffe e appesantite, come testimoniano ampiamente le Sante di San Piero Patti e di Altolia (figg. 90, 79).103 Satriano: un’aggiunta al catalogo di Giovambattista Mazzolo, in «Esperide», 2, 2009 (2010), 3/4, pp. 89-96 [89-92], figg. 1-4, 6; A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 89, fig. 12. 102 Cfr. la scheda n. 3. 103 Altolia è uno dei casali a sud di Messina. Nella seconda cappella sinistra della Chiesa Madre, dedicata a Santa Maria del Tindari, è collocata la Santa Caterina, pubblicata recentemente da Virginia Buda in I tesori di Giampilieri. La chiesa madre di San Nicola e il patrimonio figurativo del territorio, a cura di L. GIACOBBE, Di Nicolò Edizioni, Messina 2011, pp. 143-144, figg. 9-10. Cfr. la scheda n. 4. 102 III.3 SCHEDE 103 1. Giovambattista Mazzolo (Carrara, 1485-90 – Messina, 1550 circa) Madonna col Bambino 1512 Marmo Altezza 173 cm, scannello altezza 28 cm Castell’Umberto, chiesa di Santa Croce Iscrizioni: nella faccia laterale destra dello scannello: 1512 Questa inedita Madonna col Bambino (fig. 23) è collocata alle spalle dell’altare maggiore della chiesetta di Santa Croce a Castell’Umberto (ME), piccolo centro del Parco dei Nebrodi. La scultura, nel cui scannello è incisa la data 1512, presenta numerose affinità con altri marmi, di identico soggetto, compiute dal maestro carrarese Giovambattista Mazzolo, documentato a Messina proprio dal giugno 1512. A quest’epoca risale infatti un rogito col quale il Mazzolo ed il “socio” Antonello Freri ipotecavano ciascuno una statua a garanzia di un debito contratto nell’acquisto di alcune carrate di marmi.104 Sebbene si tratti della prima testimonianza archivistica relativa alla presenza del carrarese in città, dobbiamo immaginare che egli, a quella data, fosse già noto nell’ambiente peloritano e che la sua attività di lapicida fosse avviata, se in essa egli è attestato già in qualità di artefice di un’impresa scultorea. Nello strumento notarile si fa menzione di due opere (senza specificarne il soggetto) che Giovambattista e Antonello si impegnavano a destinare rispettivamente a Castanea e a Monticello in Calabria. Se l’identificazione della Vergine freriana, tuttora esistente nel borgo di Montebello (RC, fig. 22), è stata opportunamente risolta da Francesco Caglioti (2003),105 nella 104 Il rogito è stato sunteggiato da G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27. 105 F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60 [50]. Recuperando il sopra citato documento, risalente al giugno 1512 e pubblicato da G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo cit., lo studioso ha identificato la Madonna di Montebello con quella citata nel rogito, attraverso il quale Giovambattista Mazzolo e il Freri impegnavano ciascuno una statua a garanzia di un debito contratto nell’acquisto di marmi. Il carrarese ipotecava una scultura da destinare al casale messinese di Castanea delle Furie (perduta) e il Freri una da spedire all’improbabile borgo di Monticello in Calabria, che il Caglioti ha giustamente riconosciuto in Montebello Ionico, in provincia di Reggio Calabria. La Vergine di Montebello era ben nota agli studi di settore, i quali però prima dell’identificazione del Caglioti l’avevano ascritta tanto ad Antonello Gagini quanto ad un ignoto autore francese, seguace di Francesco Laurana (cfr. L. SCLAPARI, La Madonna benedicente di Montebello Ionico, in «Calabria sconosciuta», XX, 1997, 75, pp. 31-33; C. NOSTRO, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella 104 Madonna di Castell’Umberto potrebbe forse riconoscersi il marmo oggetto dell’ipoteca da parte del Mazzolo. L’odierna Castell’Umberto, infatti, non è altro che l’antica Castanea di Naso, piccolo abitato montuoso sito tra le più estese cittadine di Naso e Tortorici.106 Dunque, l’equivalenza tra i due toponimi, il 1512 iscritto nella base e l’analisi stilistica, che orienta decisamente l’opera verso lo stile del carrarese, costituiscono elementi a favore dell’attribuzione a questo artista della Madonna qui presentata. Tra i lavori mazzoliani, ve ne sono almeno tre, concordemente assegnati dalla storiografia artistica a Giovambattista, che esibiscono palesi elementi comuni al manufatto di Castell’Umberto. Si tratta delle Vergini di Raccuia (ME, fig. 24), Monforte San Giorgio (ME, fig. 27) e Galatro (RC, fig. 28), anche per cronologia vicine alla statua di cui qui si discute. A quest’ultima sembra però spettare la precedenza, dal momento che esso si àncora a quella che resta tuttora la più alta attestazione documentaria in nostro possesso relativa al Mazzolo. Al di là del comune schema e dell’identico impianto compositivo condiviso dai quattro marmi, si osservi, altresì, il dettaglio del velo che risvolta sotto il mantello; oppure l’insieme di pieghe concentriche che si affastellano sotto la figura del Bambino, o ancora le altre che si addensano, accartocciandosi, sopra il piede sinistro della Madre. Ci troviamo di fronte a cifre stilistiche così peculiari da potersi spiegare soltanto ammettendo l’intervento del medesimo artefice. Lo stesso dicasi per i volti, dall’ovale praticamente perfetto, e per i loro lineamenti, dolci ma netti (anche quelli dei rispettivi Bambini), gli occhi quasi a mandorla, i nasi lunghi e appuntiti, le dita affusolate; o ancora, le pieghette fitte e profonde che ricoprono completamente i perizomi dei due Bambini, i cui ricci d’altronde esibiscono i medesimi taglienti contorni, tra i quali rimangono ben evidenti i fori circolari lasciati dal trapano. Risalta in tutta la sua flagranza e chiarezza la dipendenza di questa scultura dalla Madonna della Neve di Benedetto da Maiano a Terranova.107 Giovambattista provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 22 e 107 n. 3). 106 Nel 1931 l’antica Castanea venne abbandonata a causa delle numerose frane che interessarono tutto il territorio, e il nuovo centro, denominato “Castell’Umberto” in omaggio al re sabaudo Umberto I, venne riedificato ex novo su un vicina area più sicura. Il paese dista circa 80 km da Messina e 120 da Palermo, ed è situato sui Nebrodi settentrionali, sulla dorsale nordoccidentale del monte Rocca di Poggio, tra le fiumare di Naso e di Fitalia. In passato era noto anche come “Castanea di Capo d’Orlando”, perché sorgeva «poco distante dal promontorio d’Orlando» (cfr. V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto e annotato da G. DI MARZO, Tipografia di Pietro Morvillo, Salvatore di Marzo Editore, Palermo 1858-1859, I, pp. 253254). Tradizione vuole che il nome sarebbe una corruzione di “Castrum Aeneae”, riferendosi ai compagni di Enea che avrebbero risalito il torrente e fondato un grosso centro a valle, Salusapri, poi diviso a seguito di un’alluvione in tre nuovi centri urbani: Castania appunto, Tortorici e San Salvatore). In epoca bizantina il borgo antico fu roccaforte contro le invasioni saracene. A quel periodo risale infatti l’antica torre, nel corso del XVI secolo divenuta castello della nobile famiglia dei Sollima. 107 Cfr. il Capitolo II, nota 40. 105 non si rifà direttamente al paradigma inventato dal Maiano, la cui opera verosimilmente non ha mai conosciuto di persona, ma alle numerose derivazioni scolpite da Antonello Gagini, che sul 1512 lavorava intensamente a Palermo dopo aver di già sostato a Messina per una decina d’anni (1498-1507). Gli stessi manufatti di Raccuia, Monforte e Galatro, nonché le successive numerose immagini mariane licenziate dall’officina mazzoliana fino alla metà del XVI secolo discendono palesemente dal modello maianesco.108 Ciò ha dato luogo ad uno dei più rilevanti fenomeni di replica, in serie, di un fortunato prototipo, la cui catena, come rilevato dal Caglioti, si chiuse con un ultimo, pregevolissimo anello, rappresentato dalla Madonna col Bambino compiuta da Pietro Bernini per Saracena (e documentata al 1600).109 108 Procedendo in ordine diacronico, abbiamo le Vergini di Nicotera (1498-99), Palermo, Duomo (1503), Palermo, Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis (1503 circa), Catania, Santa Maria di Gesù (1504 circa), Catanzaro (1504), Mesoraca (1504-05), Amantea (1505), Morano Calabro (1505), Messina, Museo Regionale (1506), Pietrapennata di Palizzi (1506 circa), Monreale, Arcivescovado (1506-08 circa), Bombile d’Ardore (1509), Seminara (1509). Per tutte queste sculture, con le relative immagini, cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980. 109 L’attribuzione di questa scultura al Bernini senior si deve ad A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 104-109. 106 2. Antonello Freri (Messina, notizie dal 1479 al 1523) Tabernacolo eucaristico Primo decennio del Cinquecento Marmo Taormina, Cattedrale di San Nicolò La cappella a destra dell’altare maggiore della Cattedrale di Taormina custodisce, in frammenti, uno smembrato tabernacolo eucaristico degli inizi del Cinquecento. Sulla parete laterale sinistra della cappella sono murate la parte centrale della custodia, con gli angeli adoranti il Santissimo Sacramento, e una lunetta, decorata con testine di cherubini e con la colomba dello Spirito Santo (fig. 31); sul muro destro si conservano invece le altre due lunette, in origine poste a completamento del fastigio, e rappresentanti la Vergine Annunciata e l’Arcangelo Gabriele, unitamente ad un quinto elemento che presenta due putti reggenti lo stemma della città di Taormina (fig. 32). Queste ultime sculture, vale a dire l’Annunciazione e i puttini reggistemma, fanno oggi da cornice ad una teca ospitante al suo interno un busto ligneo dell’Ecce Homo, in un tardo assemblaggio che ha previsto anche l’inserzione di due colonnine composite e di altri pezzi erratici evidentemente recuperati da altri ambienti del medesimo edificio di culto.110 Ricomponendo idealmente i frammenti a nostra disposizione, ci si trova dunque di fronte ad un’edicola eucaristica a parete, dismessa di certo a seguito delle disposizioni imposte dal Concilio di Trento in materia di culto sacramentale, quindi smembrata e verosimilmente riutilizzata come repositorio degli oli santi.111 Questa specifica tipologia di manufatto, che si pone a metà strada tra un semplice tabernacolo ed una più complessa ancona (dal cui schema deriva infatti l’idea del 110 Non si ha alcuna notizia in merito all’epoca del montaggio dei vari pezzi che hanno generato questa sorta di altare atto ad incorniciare l’Ecce Homo, anch’esso antico, ma verosimilmente da ricondurre ad un periodo non precedente alla fine del XVI secolo. L’assemblaggio potrebbe certo risalire all’epoca dell’acquisizione dell’Ecce Homo, più o meno in concomitanza con la dismissione del tabernacolo in epoca controriformata, ma alcuni elementi di raccordo, quali le colonnine, la base marmorea su cui poggiano le colonne stesse e dentro alla quale è stato incassato il frammento con i putti reggistemma, infine la trabeazione che sostiene le due lunette con l’Annunciazione sono aggiunte novecentesche. 111 Sul pannellino centrale, ai lati della cupola del Santo Sepolcro, si trovano incise le seguenti iscrizioni: MDCXLVIII, e, più in alto, RELIQÆ SANCTOR[VM], che si spiegano proprio con la mutata funzione che la custodia ha assunto a seguito della sua dismissione come repositorio delle Sacre Specie. Anche in questo caso, non si hanno notizie in merito ad eventuali reliquie venerate nella Cattedrale taorminese, ma normalmente questi manufatti, persa l’originaria funzione d’uso, ospitavano gli oli santi. 107 fastigio lunettato), non è affatto nuova nel panorama della produzione in marmo siciliana d’epoca rinascimentale:112 limitandoci alla sola area prossima a Messina, troviamo infatti almeno altri due esemplari molto vicini all’opera taorminese. Si tratta di due tabernacoli conservati nei casali di Pezzolo (entro il terzo decennio del Cinquecento, fig. 45) e di Santo Stefano di Briga (1554, fig. 44), entrambi da ricondurre, ma con diversi gradi di autografia, all’artista carrarese Giovambattista Mazzolo, attivo nella città dello Stretto nella prima metà del XVI secolo.113 A ben guardare, oltre alla chiara affinità tipologica, alcuni elementi formali uniscono questi tre marmi, a dimostrazione della loro appartenenza alla medesima temperie culturale. Dalle prime notizie documentarie relative al Mazzolo emerge la figura di uno scultore ancora giovane che, appena giunto sull’isola,114 si associò professionalmente al più esperto maestro locale Antonello Freri.115 Dell’attività di quest’ultimo, formatosi in patria negli anni settanta del Quattrocento, in un clima ancora intriso di retaggi culturali tardogotici, rimangono purtroppo scarse testimonianze figurative (a fronte delle cospicue attestazioni documentarie); quanto basta però per riuscire ad individuarne il modus operandi e a riconoscerne l’intervento nella smembrata custodia di cui qui si discute. Tra le due statue che con certezza gli si possono ascrivere, vale a dire le Madonne conservate a Castroreale (ME, 1510 circa, fig. 21) e a Montebello Ionico (RC, 1512 circa, fig. 22), la seconda esibisce palesi comunanze stilistiche con le figurine scolpite sul 112 Esempi di ancone marmoree culminanti con fastigi identici o quantomeno simili, e in alcuni casi dotati al centro di repositorio per le Sacre Specie sono quelli, tutti usciti dalla bottega di Antonello Gagini, conservati a Tusa (1525), Roccella Valdemone (1526-28), Mazara del Vallo (1532), Monreale (anni trenta), Ficarra (1534), per citare solo i più vicini, in quanto alla tipologia, a questo di Taormina (benché le dimensioni varino di volta in volta). Per tutte queste opere, cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, p. 422 e fig. 212; pp. 413-414, doc. CXVI, figg. 213-216; p. 382, fig. 221; p. 377, doc. CLXX, fig. 225. 113 Cfr. rispettive schede nn. 7-8. 114 Quando, in un rogito messinese del giugno 1512, compare per la prima volta il nome di Giovambattista Mazzolo, è per ipotecare, assieme ad Antonello Freri, due statue (una per ciascuno) a garanzia di un debito contratto nell’acquisto di una partita di marmi. Nell’atto notarile i due vengono definiti “sotii”, il che ci induce a presupporre che il Mazzolo fosse giunto in città almeno da qualche anno (il rogito è stato pubblicato da G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27). D’altronde, che il carrarese risiedesse oramai da un po’ nella città dello Stretto trova ulteriore conferma nell’esistenza di un secondo documento, datato 10 febbraio 1514, in cui egli viene definito “civis Messane”, privilegio che non veniva concesso certo ai primi arrivati (cfr. G. MOLONIA, Note sulla committenza siracusana ad artisti messinesi (con un documento inedito su Antonello Freri e Giovan Battista Mazzolo), in Da Antonello a Paladino: pittori messinesi nel siracusano dal XV al XVIII secolo, a cura di G. BARBERA, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione, Ediprint s.r.l., Siracusa 1996, pp. 105-106). 115 La prima notizia documentaria relativa a questo maestro, proveniente da una nota famiglia di scalpellini, i “Bottone” (nelle stesse carte d’archivio il cognome di Antonello oscilla tra “Buctunis” o “Buttuni” e “Freri”, o anche “Fleri”), risale al 1479, e si riferisce all’esecuzione di un tabernacolo da destinare alla chiesa messinese di San Nicolò. Ciò porta ad arretrare la data di nascita del Freri almeno agli inizi degli anni sessanta. 108 tabernacolo.116 In particolare, mi sembra di ritrovare, nella dolcezza arcaica e un po’ trasognata del Bambino di Montebello, negli acuti lineamenti del suo volto, nei taglienti ricci dei suoi capelli, tra i quali si aprono profondi vuoti di materia – dovuti ad un uso cospicuo del trapano –, quegli stessi elementi che caratterizzano i puttini reggistemma e gli angeli adoranti il Sacramento nell’opera di Taormina (figg. 22a, 33-34, 36 ). Altri raffronti possono istituirsi tra la Madonna di Montebello e l’Annunciata della lunetta (figg. 22, 39), ma anche tra quest’ultima e altre due immagini mariane che di recente sono state a ragione restituite all’operato del Freri:117 mi riferisco alla Santa Lucia campeggiante nel fastigio del Portale dell’antica Cappella Ansalone e alla Vergine rimontata su un paliotto d’altare della Cappella dei Canonici, entrambi all’interno della Cattedrale di Messina (figg. 40, 38). I lineamenti dolci ma netti che contraddistinguono tutte queste Madonne, le loro dita, lunghe e affusolate, le vesti, dalle pieghe dritte e parallele che lasciano solchi profondi nella materia, mi sembra possano ascriversi, con una certa agilità, al particolare ductus scultoreo di Antonello. Sono certo questi gli ultimi scampoli di un linguaggio antico, di cui il siciliano, a quelle date, rimase uno dei pochi depositari, non a caso seguito dal Mazzolo, che 116 La scultura di Montebello Ionico è stata ricondotta per la prima volta ad Antonello Freri da F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60 [50]. Recuperando una carta d’archivio risalente al giugno 1512 e pubblicata da G. DI MARZO. Del gran portale marmoreo cit., testo e nota 27, lo studioso ha identificato la Madonna di Montebello con quella citata nel rogito, attraverso il quale il Mazzolo ed il Freri impegnavano ciascuno una statua a garanzia di un debito contratto nell’acquisto di marmi. Il carrarese ipotecava una Vergine col Bambino oggi a Castell’Umberto (Cfr. infra, scheda n. 2), mentre Antonello un’opera, di analogo soggetto, da spedire all’improbabile borgo di Monticello in Calabria, che il Caglioti ha giustamente riconosciuto in Montebello Ionico, in provincia di Reggio Calabria. La Madonna di Montebello era ben nota agli studi di settore, i quali però prima dell’identificazione del Caglioti l’avevano ascritta tanto ad Antonello Gagini quanto ad un ignoto autore francese, seguace di Francesco Laurana (cfr. L. SCLAPARI, La Madonna benedicente di Montebello Ionico, in «Calabria sconosciuta», XX, 1997, 75, pp. 31-33; C. NOSTRO, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 22 e 107 n. 3). 117 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 41-50. Pur ammettendo la forte comunanza tra la scultura di Montebello Ionico e la Santa Lucia del Portale messinese, A. MIGLIORATO, (Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 82-83), ha assegnato quest’ultima al Mazzolo, sulla base di confronti con varie opere del carrarese, e nella convinzione che, entro il corpus di Antonello Freri, il marmo di Montebello fosse l’unico a prestarsi ad utili accostamenti, «a fronte del catalogo ben più nutrito e meglio documentato del Mazzolo». Alla luce però del ritrovamento di questo tabernacolo (che da una parte rimpingua l’esiguo catalogo freriano, e dall’altra si confronta bene con la Santa Lucia), si può smentire l’asserzione della Migliorato, la quale d’altronde, in quello stesso studio, non aveva neanche preso in considerazione la Madonnina della Cappella dei Canonici di già ricondotta al maestro peloritano da Monica De Marco. A questo punto, dunque, la statue utili ad istituire validi termini di paragone con la Santa Lucia diventano ben tre (Montebello, la custodia di Taormina e la Vergine della Cappella dei Canonici). 109 nei primi anni in città collaborò più volte con l’anziano maestro. La stessa contiguità tipologica tra la custodia taorminese e le edicole eseguite dal carrarese testimonia una sorta di “parentela” stilistica che ha legato i due scultori nel corso del secondo decennio del Cinquecento, e che adesso, grazie alla restituzione al Freri di questo inedito tabernacolo, emerge con ancora maggiore evidenza.118 Non è difficile individuare il prototipo cui il Freri prima, e Giovambattista Mazzolo poi, guardarono nel realizzare, anche a notevole distanza l’uno dall’altro, questo tipo specifico di custodia eucaristica, che specie per la parte centrale, con il Santo Sepolcro affiancato dagli angeli, deve sicuramente ricondursi al pregevole tabernacolo che l’altro grande protagonista della scultura siciliana del Rinascimento, Antonello Gagini, aveva eseguito per la Cattedrale di Messina (fig. 41).119 In questo senso, la scultura taorminese, da datarsi entro l’inizio degli anni venti del Cinquecento, si porrebbe proprio a metà strada tra il prezioso manufatto 118 Esiste un’altra opera, ancora più emblematicamente testimonianza della prossimità stilistica tra il Freri e il Mazzolo negli anni dieci e venti del Cinquecento (l’ultima notizia relativa al messinese è del 1523): si tratta di una Madonna col Bambino, inedita, custodita a Castell’Umberto nella chiesa di Santa Croce e datata nello scannello 1512. Per questa scultura, cfr. infra, scheda n. 1. 119 La custodia pervenne al Museo Regionale di Messina all’inizio del Novecento dalla chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo”. Già Gioacchino di Marzo la ascriveva ad Antonello Gagini, ipotizzandone l’originaria collocazione nella Cappella del Corpo di Cristo della Cattedrale peloritana, dalla quale sarebbe stata «rimossa e vandalicamente buttata fra le macerie quando nel secolo XVII fu ivi dato luogo alle barocche decorazioni di marmi a vari colori nella cappella ed altare del Sacramento» (cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84, I, p. 195). La chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo” non è altro che la cripta del Duomo di Messina che nel 1638 venne completamente riammodernata e dedicata appunto alla Vergine. Di recente A. MIGLIORATO (Una maniera molto graziosa cit., pp. 40-41) ha proposto di identificare quest’opera con quella che nell’ottobre del 1504 venne commissionata al Gagini da un certo Ranieri Romano. Benché il punto di stile della scultura si accordi bene con l’alta datazione di quel rogito (per esso cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 380-381, doc. XXIV, figg. 54-55), trattandosi di un manufatto in cui è ancora molto forte il richiamo alla raffinatissima cultura di pieno Quattrocento cui apparteneva il padre di Antonello, Domenico Gagini; ciò nondimeno vi sono alcuni dati che spingono ad essere molto cauti nell’associare quel documento specifico al tabernacolo antonelliano del Duomo, primo fra tutti il fatto che nell’atto notarile attestante l’impegno dello scultore nei confronti del Romano si dichiari espressamente che l’edicola doveva terminare con una lunetta raffigurante un Cristo in pietà tra due angeli, qui mancante. È possibile certo che la lunetta, nei ripetuti disastri subiti dal patrimonio artistico cittadino, sia andata distrutta, ma rimane comunque la difformità delle dimensioni. Nel contratto infatti si parla di «…altitudinis palmorum quinque a pede usque adque cornicem, cum dimidio tundo, et in dicto tundo imaginem Pietatis, et largitudinis de vivo et palmorum trium…», vale a dire di 129 cm d’altezza (compresa, si badi, la lunetta), e 77 cm di larghezza. Il marmo oggi al Museo invece è alto 137 cm e largo 63. Anche volendo tralasciare l’incongruenza relativa alla larghezza, resta comunque il fatto che il pezzo a noi pervenuto, senza lunetta, è più alto dell’altezza totale (tabernacolo più lunetta) prevista dal rogito. In alternativa, si potrebbe anche accettare l’ipotesi di una modifica in corso d’opera da parte dello scultore, come suggerito dalla Migliorato, la quale, in riferimento alla lunetta, scrive che «non è dato sapere se sia stata effettivamente realizzata secondo i termini del contratto». Ma i dubbi rimangono. 110 gaginiano (dall’altissimo grado di autografia), dei primi del secolo, e i più tardi esemplari mazzoliani.120 120 A tutt’oggi non si conosce alcuna custodia eucaristica esemplata su questa di Taormina (con l’inclusione del fastigio lunettato costituito dai tre elementi) che possa ascriversi, con un alto grado di autografia, ad Antonello Gagini, i cui schemi e repertori figurativi sono stati molto spesso ripresi da scultori operanti lontano da lui, sia nel tempo che nello spazio (non solo Freri e Mazzolo, ma anche il più moderno Rinaldo Bonanno, anch’egli attivo a Messina); però nella chiesa di Santa Maria la Novara a Novara di Sicilia (ME) si conserva, sebbene anch’esso nei fatti smembrato, un inedito tabernacolo, di buona fattura, risalente anch’esso al secondo decennio del Cinquecento, che deve considerarsi a ragion veduta il più “antonelliano” fra tutti quelli usciti dalla bottega del Gagini junior, quello insomma che maggiormente sembra essere stato eseguito sotto la supervisione del maestro. Anche questa custodia presenta il motivo del tempietto del Santo Sepolcro quale repositorio delle Sacre Specie, come quello scolpito per il Duomo messinese, dal quale evidentemente deriva (cfr. qui il Capitolo II). 111 3. Giovambattista Mazzolo (Carrara, 1485-90 – Messina, 1550 circa) Santa Caterina d’Alessandria Primi anni venti del Cinquecento Marmo Altezza 180 cm, scannello altezza 27 cm Montalbano Elicona (ME), chiesa di Santa Caterina Questa bella scultura raffigurante Santa Caterina d’Alessandria s’innalza sull’altare maggiore della chiesetta omonima nel borgo di Montalbano Elicona (figg. 77).121 L’opera, inedita, deve ricondursi all’operato di Giovambattista Mazzolo, maestro originario di Carrara che allo scadere del primo decennio del Cinquecento si trasferì a Messina, dove fu attivo sino alla metà del secolo.122 I più efficaci confronti stilistici possono istituirsi con altre tre raffigurazioni, di identico soggetto, scolpite dal Mazzolo, e sulla cui paternità la letteratura, specie quella più recente, si trova oramai unanimamente concorde. Mi riferisco, seguendo un ordine diacronico, alle Sante Caterine di Santa Lucia del Mela (oggi nel Museo Regionale di Messina, fig. 76), di Calatabiano e di Bianco (datata 1530, figg. 78, 88).123 121 L’edificio di culto, da tempo chiuso, versa in condizioni di conservazione oltremodo critiche. Da ampie fessure nel tetto entra non solo l’acqua piovana, ma anche animali d’ogni sorta. In questa situazione è davvero sorprendente che quest’opera si sia preservata, dopotutto, così bene. 122 La prima notizia riguardante Giovambattista risale al giugno 1512, quando, assieme al maestro messinese Antonello Freri, egli ipotecò una statua (una per ciascuno) a garanzia di un debito contratto nella compravendita di alcune carrate di marmi (cfr. G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27). Ciò ovviamente induce a retrodatare l’arrivo del toscano in città almeno di qualche anno (1508-09). L’ultimo rogito, invece, è datato 4 dicembre 1550, ed è relativo alla vendita, da parte dell’anziano scultore, di due pilastri destinati all’arco della Cappella di Pietro de Benedetto dentro alla Cattedrale messinese (quella, per intenderci, per la quale Giovann’Angelo Montorsoli, giunto nella città peloritana nel 1547, avrebbe di lì a poco consegnato il San Pietro oggi distrutto). Per questo e per la gran parte dei documenti attestanti l’attività di Giovambattista Mazzolo, cfr. IDEM, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84 [I, p. 761]. 123 Le due Sante di Calatabiano e di Bianco sono state ricondotte al Mazzolo da A. MIGLIORATO, rispettivamente in Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 89, fig. n. 12, e in Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 41-42 (sebbene per la seconda avesse già fatto il nome del carrarese, in collaborazione tra Mazzolo e Antonello Freri, C. NOSTRO, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, p. 116). 112 La statua di Santa Lucia del Mela (la più antica fra le tre sopra citate), che aveva di già ricevuto una prima convinta ascrizione al carrarese da parte di Alessandra Migliorato,124 è stata accolta nel corpus di Giovambattista anche da Francesco Caglioti, il quale ne ha con più precisione analizzato modi e tempi d’esecuzione, chiarendone meglio il contesto culturale d’origine. Lo studioso ha inserito infatti quest’opera nel più ampio novero di marmi, raffiguranti Sante Vergini, che prendono spunto, più o meno liberamente, dalla Santa Caterina d’Alessandria che Benedetto da Maiano sul 1490-91 inviò a Terranova per conto di Marino Correale (fig. 75).125 In quest’ottica, la scultura oggi al Museo Regionale di Messina è stata considerata dal Caglioti come la prima riproposizione dell’archetipo maianesco scolpita dal Mazzolo verosimilmente entro lo scadere del secondo decennio del XVI secolo, seguita, ad una decina d’anni di distanza, dall’esemplare di Bianco. La statua di Montalbano, dunque, potrebbe datarsi ad un periodo intermedio tra quella di Santa Lucia del Mela e l’altra, più tarda, ancora conservata a Bianco, come dimostra d’altronde un’attenta analisi formale che ne indaghi tutti i dettagli, finanche quelli, più minuti, degli scannelli. Se infatti la Santa oggi al Museo palesa una raffinatezza d’esecuzione ed una più stretta aderenza al prototipo maianesco che hanno giustamente indotto Francesco Caglioti ad una sua precoce datazione, all’incirca agli esordi di Giovambattista, ancora troppo poco autonomo nei riguardi del modello al quale, anzi, cerca di avvicinarsi con ogni sforzo; la scultura qui presentata esibisce invece caratteristiche esattamente speculari alla “sorella” proveniente da Santa Lucia del Mela, nel senso che perde in finitezza e precisione d’intaglio, svincolandosi così dall’esempio di Terranova, ma ne guadagna in ampiezza nell’impianto e in morbidezza nell’intaglio. Elementi, questi ultimi, che proverebbero l’intervento dello scultore ormai più maturo, che inizia poco a poco ad aprirsi la strada verso le forme, più solide e solenni, del pieno Rinascimento (ad ogni modo in ritardo rispetto ai suoi colleghi continentali). È infatti evidente che, a fronte di una certa arcaicità, la quale si esprime anche nella secchezza e nell’estrema rigidezza della prima Santa Caterina, le forme della Santa Vergine di Montalbano si allargano, sotto panneggi ormai più ampi e distesi, che ben si accordano a quelli scolpiti dal Mazzolo nella Madonna col Bambino (1524-34) destinata al portale maggiore della Cattedrale di Messina.126 124 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 41-44, senza però aver individuato il carattere derivativo del marmo da quello di Benedetto da Maiano, anzi, proponendo la sconcertante attribuzione anche di quest’ultimo a Giovambattista Mazzolo. Un rimando, per quanto dubitativo, al Mazzolo era stato comunque proposto già da F. CAMPAGNA CICALA, in F. ZERI, F. CAMPAGNA CICALA, Messina. Museo Regionale, Novecento, Libreria dello Stato, Palermo 1992, p. 84, scheda n. 51. 125 Cfr. il Capitolo II, nota 40. 126 La commissione della Vergine e dei Santi Pietro e Paolo da collocare rispettivamente al centro e ai lati del registro mediano del portale centrale della maggiore chiesa messinese risale al 23 113 4. Bottega di Giovambattista Mazzolo (Carrara, 1485-90 – Messina, 1550 circa) Santa Caterina d’Alessandria Fine quarto decennio del Cinquecento Marmo Altezza 176 cm, scannello altezza 25 cm Altolia (ME), chiesa di Santa Maria del Tindari Questa Santa Caterina d’Alessandria è custodita entro una nicchia sull’ultimo altare sinistro della Chiesa Madre del casale messinese di Altolia (fig. 79).127 Essa si accosta con una certa agilità all’operato del maestro carrarese Giovambattista Mazzolo, giunto nella città dello Stretto intorno allo scadere del primo decennio del Cinquecento e attivo sino alla metà del secolo.128 In particolare la statua di Altolia trova validi riscontri con l’altra, di identico soggetto, eseguita nel 1530 dal Mazzolo per Bianco (RC, fig. 78),129 e con una Vergine Annunciata, documentata anch’essa al 1530, e inviata a Brognaturo, altro borgo calabrese nella provincia di Catanzaro (fig. 89).130 Benché la responsabilità mazzoliana dell’opera di Bianco ottobre 1524, ma da un altro rogito, del 25 aprile 1534, emerge che le tre sculture dovevano ancora essere consegnate (cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 751 e II, pp. 425-426). 127 L’opera è stata pubblicata, con un’attribuzione a Giovambattista, da Virginia Buda in I tesori di Giampilieri. La chiesa madre di San Nicola e il patrimonio figurativo del territorio, a cura di L. GIACOBBE, Di Nicolò Edizioni, Messina 2011, pp. 143-144, figg. 9-10. 128 La prima notizia relativa al Mazzolo risale al giugno 1512, e riguarda l’ipoteca di una statua a garanzia di un debito contratto nella compravendita di alcuni marmi (cfr. G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27). Ciò ovviamente induce a retrodatare l’arrivo del toscano a Messina almeno di qualche anno (1508-09). L’ultimo rogito invece è datato 4 dicembre 1550, ed è relativo alla vendita, da parte dell’ormai anziano scultore, di due pilastri destinati all’arco della Cappella di Pietro de Benedetto dentro alla Cattedrale peloritana (quella, per intenderci, per la quale Giovann’Angelo Montorsoli, giunto nella città dello Stretto nel 1547, avrebbe di lì a poco consegnato il San Pietro oggi distrutto). Per questo e per la gran parte dei documenti attestanti l’attività di Giovambattista Mazzolo, cfr. IDEM, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84 [I, p. 761]. 129 Le due Sante di Calatabiano e di Bianco sono state ricondotte al Mazzolo da Alessandra Migliorato, rispettivamente in Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 89, fig. n. 12, e in Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 41-42 (sebbene per la seconda avesse già fatto il nome del carrarese, in collaborazione tra Mazzolo e Antonello Freri, Cettina Nostro, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, p. 116). 130 La Vergine è parte di un gruppo dell’Annunciazione che prevede, oltre all’Arcangelo, un Dio Padre Benedicente. Fu commissionato al Mazzolo nel settembre del 1530, e si trova tuttora a 114 non abbia trovato conferma alcuna nelle carte d’archivio, la critica è oramai unanimamente concorde nell’ascrizione al carrarese:131 la scultura calabra, e di conseguenza anche questa di Altolia, ad essa molto vicina, s’inserisce altresì in una serie di Sante Caterine che il carrarese realizzò lungo il corso della sua carriera, e che s’inaugura con il bel marmo oggi esposto al Museo Regionale di Messina (proveniente da Santa Lucia del Mela, fig. 76), compiuto agli esordi.132 A poca distanza di tempo l’artista portò a compimento altre due immagini della Santa Vergine e Martire, conservate rispettivamente a Calatabiano e a Montalbano Elicona (figg. 88, 77),133 per poi completare la serie con un ultimo lavoro, ospitato nella Chiesa Matrice di San Piero Patti (ME, fig. 90),134 che palesa il massiccio intervento della bottega. Tutti questi manufatti derivano palesemente da un unico, fortunatissimo archetipo, che ha funto da modello non soltanto per il Mazzolo, ma anche per Antonello Gagini, l’altro grande protagonista della produzione scultorea siciliana del Cinquecento: si tratta della Santa Caterina d’Alessandria di Benedetto da Maiano a Terranova, in Calabria Ultra (fig. 75).135 Anzi, può ragionevolmente sostenersi che Giovambattista non vide personalmente il prototipo maianesco, ma che prese spunto da un esemplare intermedio, eseguito proprio da Antonello, il quale compì verosimilmente un periodo di apprendistato nell’officina dell’insigne maestro toscano.136 Gli esiti figurativi del Mazzolo, che non era nuovo a “prelievi” di tale genere, specie da opere del Gagini junior,137 si diversificano tra di loro a seconda che egli abbia interpretato più o meno liberamente il modello nonché in base al grado di autografia. Brognaturo nella chiesa di Santa Maria della Consolazione (il documento è stato edito da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., II, pp. 426-427). 131 Cfr. anche F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, pp. 979-1042 [1005]; IDEM, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60 [46-49]; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 197-199. 132 F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 1005; IDEM, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 42-50. 133 La statua di Calatabiano è stata di recente aggiunta al catalogo del Mazzolo da A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 89, fig. n. 12. 134 Cfr. la scheda n. 5. 135 Cfr. il Capitolo II, nota 40. 136 F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., pp. 1000-1002. 137 Vi sono infatti almeno altre due tipologie di manufatti che Giovambattista “prelevò” dal Gagini junior, vale a dire il tabernacolo a parete e i gruppi con l’Annunciazione, composti da figure a grandezza naturale della Vergine, dell’Arcangelo Gabriele e in alcuni casi anche del Dio Padre Benedicente. Per i primi, cfr. le schede nn. 6-7 relative alle custodie eucaristiche eseguite dal Mazzolo per Pezzolo (entro il 1530) e per Santo Stefano di Briga (1554). Per i secondi, basti confrontare i gruppi che il carrarese inviò a Brognaturo (CZ, 1530, fig. 89) e a Tropea (VV, 1532) con le analoghe statue di Antonello Gagini per Bagaladi (RC, 1504) e per Castroreale (ME, 1519). 115 Rispetto a quelle di Messina e di Calatabiano, e, anche se in minor misura, all’altra di Montalbano, che si caratterizzano per un più spinto arcaismo delle forme e degli impianti, l’opera qui presentata esibisce con evidenza tratti più ampi e distesi (sebbene anche meno raffinati), testimoni di una raggiunta maturità dell’artista originario di Carrara. Non è un caso, infatti, che, come accennato sopra, le sculture con le quali la Santa di Altolia si confronta meglio siano quelle di Bianco e di Brognaturo, entrambe risalenti al 1530, epoca di particolare prolificità per Giovambattista, richiestissimo anche dalla committenza calabra. 116 5. Giovambattista Mazzolo (Carrara, 1485-90 – Messina, 1550 circa) Santa Caterina d’Alessandria Quinto decennio del Cinquecento Marmo Altezza 151 cm, scannello altezza 26 cm San Piero Patti, chiesa di San Pancrazio L’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1991 da Anna Barricelli, con un’attribuzione ad Antonino Gagini, figlio di prime nozze del più celebre Antonello (fig. 90).138 Qualche tempo dopo Alessandra Migliorato dirottò l’ascrizione sul carrarese Giovambattista Mazzolo, attivo a Messina nella prima metà del XVI secolo.139 La studiosa pose in stretta relazione stilistica la scultura di San Piero Patti con altre due, di identico soggetto, custodite a Messina nel Museo Regionale (ma proveniente da Santa Lucia del Mela, fig. 76) e a Bianco (RC, fig. 78), tutte da considerare, a suo avviso, varianti di un unico modello adoperato dall’artista.140 Il riferimento gaginiano, proposto dalla Barricelli, non era certo completamente fuorviante, in un contesto figurativo che, come quello siciliano dei primi decennio del Cinquecento, fu dominato a lungo dagli schemi e dalle invenzioni di Antonello. Eppure, confrontando la statua qui presentata con una Santa Caterina ricondotta ad Antonino, vale a dire quella conservata a Galati Mamertino nella chiesetta omonima (fig. 91), risultano evidenti le divergenze formali, pur nell’alveo della medesima cultura.141 Effettivamente questa Santa, eseguita nella bottega del Mazzolo con una larga partecipazione degli aiuti, si pone quale ultima, in ordine di tempo, replica 138 A. BARRICELLI, Scultura devozionale e monastica inedita o poco nota dei Nebrodi, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Messina», 15, 1991, pp. 23-46 [37]. 139 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 41-42. 140 La Migliorato aveva colto che le analogie fra tutti questi manufatti erano talmente stringenti da prevedere l’adozione di un unico esemplare, che dovesse fungere in qualche modo da archetipo; nei fatti però ella si allontanò molto da una verosimile ricostruzione della vicenda (poi chiarita da Francesco Caglioti, cfr. infra, nota 144), visto che propose l’imbarazzante attribuzione della Santa Caterina di Terranova Sappo Minulio allo stesso Mazzolo (ibidem, pp. 42-44). 141 L’attribuzione, che si deve a H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, p. 431, fig. 466, si fonda su un buon accostamento con le sculture che Antonino (assieme al fratello Giacomo) realizzò negli anni quaranta del Cinquecento per la chiesa maggiore di Sciacca. Già Gioacchino di Marzo aveva restituito queste cinque figure di Santi (Maddalena, Pietro, Paolo, Giovanni Battista e Calogero) all’operato dei fratelli Gagini, sulla scorta di un documento del luglio 1541 relativo all’acquisto, da parte dei due scultori, di ben trenta carrate di marmi che dovevano essere scaricate proprio a Sciacca (cfr. IDEM, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84, I, pp. 472-474). 117 iconografica e tipologica di una serie di Sante Caterine marmoree esemplate sull’illustre prototipo compiuto intorno al 1490-91 da Benedetto da Maiano per Marino Correale.142 La vicenda, che è stata ricostruita, con conclusioni per lo più definitive, da Francesco Caglioti, riguarda una sequela di immagini di martiri alessandrine diffusesi a macchia d’olio in Sicilia e nella dirimpettaia Calabria proprio a partire dall’archetipo maianesco, verosimilmente mediato da una copia di Antonello Gagini, che il Caglioti ritiene abbia trascorso un periodo di apprendistato presso la bottega del Maiano.143 Al solo Giovambattista si riconducono, oltre a questa di San Piero Patti, e alle due sopra citate di Santa Lucia del Mela e di Bianco (RC), altre due figure di Sante Martiri, custodite a Calatabiano e a Montalbano Elicona (figg. 88, 77).144 Rispetto a tutte queste, comunque, la statua di San Piero Patti si connota per una più bassa qualità esecutiva nonché per un progressivo allontanamento dal modello, giustificando così la datazione piuttosto avanzata (quinto decennio del secolo XVI) di già proposta dal Caglioti. 142 Cfr. il Capitolo II, nota 40. Purtroppo ad oggi non è nota alcuna immagine di Santa Caterina che possa ritenersi un vero e proprio autografo d’Antonello, benché ve ne siano alcune di certo uscite dalla prolifica bottega di questo maestro. In compenso però vi sono altre figure marmoree di eroine della fede che le carte d’archivio, nonché lo stile, restituiscono con certezza alla mano del maestro in persona, e che devono intendersi sempre come risultati di interpretazioni (con qualche comprensibile variante) della statua di Terranova. Si tratta delle Sante Oliva e Maddalena di Alcamo (rispettivamente datate 1511 e 1520), della Maddalena di Buccheri (1507) e di una Santa Margherita (1525 circa), d’ignota provenienza, oggi nel Museum of Fine Arts di Cleveland. 144 L’opera di Calatabiano è stata aggiunta al catalogo del Mazzolo da A. MIGLIORATO, in Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 89, fig. n. 12; quella di Montalbano da chi scrive (cfr. la scheda n. 3). 143 118 6. Giovambattista Mazzolo (Carrara, 1485-90 – Messina, 1550 circa) Madonna col Bambino Fine del quinto decennio del Cinquecento Marmo Misure non rilevate Collezione privata Questa Madonna col Bambino (fig. 74) fu pubblicata per la prima volta da Hanno Walter Kruft,145 che la inserì nel corpus delle opere di Antonello Gagini, dal quale deve però essere espunta per le stringenti affinità formali che essa condivide con analoghi manufatti prodotti nella bottega di Giovambattista Mazzolo, maestro d’origine carrarese attivo a Messina nella prima metà del Cinquecento.146 La statua, che proviene da una collezione privata messinese, trova validi termini di paragone nelle Madonne mazzoliane di Galatro (fig. 28), San Martino di Taurianova e di Vico Aprigliano (fig. 73), sculture queste che, sebbene non documentate, sono state unanimamente accolte dalla letteratura specialistica.147 Esse s’inseriscono in una lunga serie di raffigurazioni mariane che costituisce uno dei fili conduttori dell’attività di questo maestro, richiesto moltissimo non soltanto dalla committenza siciliana ma anche da quella della dirimpettaia Calabria. Dal 1512,148 anno cui risalirebbe la sua prima Vergine, al 1554,149 data incisa nello 145 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, p. 424, fig. 15; IDEM, Figure giovanili di Madonne di Antonello Gagini, in «Antichità viva», XIV, 1975, 2, pp. 24-34 [pp. 29, 31, 32 figg. 20-21]. 146 Già FRANCESCO CAGLIOTI (La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, pp. 979-1042 [pp. 1033, nota 89, 1036, nota 132]; IDEM, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-60 [37-38, 55 note 9-10]) aveva segnalato l’opera come tipico prodotto mazzoliano. 147 Per la bibliografia (mi limito a segnalare quella più recente) sulle tre statue, cfr. F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 185. A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 38; F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento cit., p. 1005; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, pp. 10431092 [1059-1060]; F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 37-60 [37, 55 note 6-7]; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 53 nota 47, 190-192, 218-219. 148 Nel giugno di quell’anno il Mazzolo, assieme al più anziano maestro messinese Antonello Freri, ipotecò una scultura (una per ciascuno) a garanzia di un debito contratto nella compravendita di alcune carrate di marmi (cfr. G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27). 119 scannello di quella che si ritiene essere l’ultimo suo lavoro, vale a dire la già citata opera conservata a Vico Aprigliano, Giovambattista innovò veramente poco i modelli, le forme, finanche le posture delle sue Madonne e dei loro rispettivi Bambini, palesando una spiccata mancanza d’invenzione. È d’altronde oramai ampiamente noto che il Mazzolo, nell’eseguire le sue numerose immagini mariane, abbia replicato, più o meno liberamente a seconda dei casi, il celebre esemplare inviato intorno al 1490-91 da Benedetto da Maiano a Terranova.150 La pregevole Madonna della Neve maianesca (fig. 70), che ha funto da archetipo per decine di raffigurazioni analoghe uscite in primis dall’officina di Antonello Gagini, e quindi anche da quella di Giovambattista, nelle repliche di quest’ultimo si avvizzisce, banalizzandosi e fissandosi in posture sempre uguali, riproponendosi con forme e panneggi impacciati e rinsecchiti. 149 Si tratta in assoluto dell’ultimo marmo, sinora noto, lavorato dallo scultore. La più tarda attestazione documentaria che lo riguardi risale però al 4 dicembre 1550, quando egli fu protagonista della vendita di due pilastri destinati all’arco della Cappella di Pietro de Benedetto dentro alla Cattedrale messinese (quella, per intenderci, per la quale Giovann’Angelo Montorsoli, giunto nella città peloritana nel 1547, avrebbe di lì a poco consegnato il San Pietro oggi distrutto). Per questo e per la gran parte degli atti notarili relativi a Giovambattista Mazzolo, cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, 2 voll., Palermo 1880-84, I, p. 761. 150 Cfr. il Capitolo II, nota 40. 120 7. Giovambattista Mazzolo (Carrara, 1485 circa – Messina, 1554 circa) Tabernacolo eucaristico Entro il 1530 Marmo con tracce di dipintura Altezza 250 cm, larghezza 150 cm Pezzolo (Messina), chiesa di San Nicola Il patrimonio artistico dei casali di Messina, specie di quelli meridionali, di cui Pezzolo è parte, meriterebbe un maggiore interesse da parte degli studi di settore, in prevalenza concentratisi sulla città e sulla sua provincia, dove tuttavia si è dedicata l’esclusiva ai centri più grossi. Scomparse quasi del tutto le testimonianze risalenti al periodo medioevale, la gran parte delle opere d’arte tuttora esistenti nelle chiese di questi villaggi appartiene all’epoca rinascimentale e barocca, quando gli stabilimenti religiosi più antichi ricevettero rimaneggiamenti con conseguente rinnovo dei propri arredi, e molti altri ne furono eretti ex novo. In questa seconda tipologia s’inserisce la parrocchiale di Pezzolo, sorta nel Cinquecento, gravemente danneggiata dal terremoto del 1908, e a seguito di quel tragico evento pesantemente restaurata. Una preziosissima notizia fornita dall’erudito messinese Gaetano La Corte Cailler in alcuni appunti manoscritti, sotto forma di diario, da qualche tempo pubblicati e resi pertanto fruibili ad un pubblico esteso, c’informa, per via indiretta, sull’originaria collocazione dell’ancona eucaristica, oggi svettante sull’altare maggiore dell’edificio di culto dedicato a San Nicola.151 Lo studioso aveva saputo che nella chiesa era scoppiato un incendio il quale aveva interessato «il tetto dell’altare maggiore e quello dell’altare accanto in sul lato sinistro»; il 3 febbraio 1902 egli venne quindi informato dal parroco, in qualità di appassionato conoscitore d’arte ma anche di ufficiale ed operoso direttore, in 151 La chiesa parrocchiale di Pezzolo è dotata di un bel portale, costruito con una pietra calcarea locale e con ogni verosimiglianza risalente agli stessi anni del tabernacolo, vale a dire gli anni trenta del Cinquecento. Portali simili sono piuttosto diffusi nell’intera zona a sud di Messina, e condividono, su linee generali, la medesima impostazione: paraste corinzie sostenute da coppie di sfingi incorniciano un fornice ornato da testine di cherubini e sostenuto da una trabeazione su cui si dispiega il Tetramorfo ai lati dell’Agnello. L’architrave nella maggioranza dei casi presenta a rilievo piccole figure di santi che spesso affiancano la Vergine. Mi sembra utile in questa sede segnalarne almeno due, che palesano notevoli affinità sia tipologiche sia stilistiche con quello di Pezzolo. Entrambi si trovano a ornamento delle facciate di due chiese del casale di Santo Stefano Briga, ed entrambi hanno in comune la data di esecuzione (1524) testimoniata da iscrizioni: quello della diruta chiesa di San Gaetano e l’altro di San Giovanni Battista. Ricordo che quest’ultimo edificio di culto custodisce al suo interno una custodia del Santissimo Sacramento qui attribuita alla bottega di Giovambattista Mazzolo, vale a dire dello stesso maestro cui si riconduce quella pezzolana (cfr. la scheda n. 8). 121 quegli anni, del Museo cittadino, delle condizioni in cui versava il complesso religioso. Il sacerdote gli riferì che «togliendo la tela bruciata della Madonna del Rosario dall’altare maggiore della chiesa, si trovò che sotto quel quadro ce n’era un altro su tavola d’uguale soggetto assai ben conservato, e nel quale sta dipinta la veduta di Pezzolo». All’epoca il La Corte non era ancora stato nel piccolo borgo a sud di Messina, e la sfortunata sorte subìta dalla parrocchiale di San Nicola lo indusse a recarvisi: il sopralluogo gli consentì di verificare personalmente l’ammontare dei danni, di fotografare il tabernacolo, e, in ultimo, di annotare nel “diario” che «…vi è nella chiesa un ciborio dei principi del ’600».152 Da quanto riportato si deduce che la pala doveva in passato essere alloggiata altrove, di certo nei pressi dell’altare principale, magari murata su una delle pareti ai lati della tribuna, com’era d’altronde usuale per questo tipo di manufatti in periodi antecedenti alle disposizioni tridentine, quando cioè le custodie delle Sacre Specie, nella maggioranza dei casi, non erano strettamente legate alle mense, ma venivano raggiunte dai sacerdoti e dai loro movimenti durante le celebrazioni.153 Altre due riflessioni emergono: innanzitutto, la data degli appunti del La Corte Cailler ci conforta sul fatto che, già prima dei rimaneggiamenti architettonici e delle inevitabili manomissioni patite dagli arredi chiesastici l’indomani del sisma, la scultura si trovasse nel medesimo edificio religioso in cui la vediamo oggi, il che, se non costituisce una prova inconfutabile che questa fosse stata la sua destinazione originaria, di certo ci offre un buon argomento per crederlo.154 Secondariamente, si può ipotizzare che essa abbia occupato l’attuale sito o a seguito dell’incendio, che aveva danneggiato irreparabilmente la pala e aveva spinto il La Corte Cailler e l’intero direttivo del Museo a richiedere il trasferimento della tavola all’interno della stessa struttura museale, o dopo il fatidico 1908 (con maggiori probabilità); comunque quando, rimasto l’altare orfano dell’una e dell’altra, si decise di traslocarvi l’ancona, comunque priva della funzione originaria di custodia del Santissimo (il tabernacolo attualmente posto sulla mensa è un prodotto moderno). La scultura (fig. 45) si presenta con una “maschera” architettonica riccamente decorata e munita al centro dell’usuale apertura, a forma di tempio (chiaro 152 G. LA CORTE CAILLER, Il mio diario. 1893-1903, a cura di Giovanni Molonia, Edizioni GBM, Messina 1998, pp. 188 e 196. 153 Sul problema dei molteplici e mutevoli rapporti esistenti tra la liturgia e i suoi arredi, i complessi architettonici in generale e i loro vari ambienti in particolare, cfr. il recente volume Lo spazio e il culto. Relazioni tra edificio ecclesiale e uso liturgico dal XV al XVII secolo, a cura di J. Stabenow, atti delle giornate di studio, Kunsthistorisches Institut in Florenz, 27-28 marzo 2003, Venezia, Marsilio 2006. Sulla materia specifica relativa ai tabernacoli eucaristici, all’interno di questo medesimo testo, cfr. F. CAGLIOTI, Altari eucaristici scolpiti del primo Rinascimento: qualche caso maggiore, pp. 53-89 e 397-407. 154 Alcuni manufatti, sia scultorei che pittorici, attualmente ospitati nella parrocchiale (quelli evidentemente scampati alla distruzione generale) provengono in realtà da altri tre complessi religiosi un tempo esistenti nel piccolo borgo (tutti dedicati alla Madonna, delle Grazie, dell’Itria e di Loreto). 122 richiamo al Santo Sepolcro di Gerusalemme), che in passato doveva accogliere la pisside, e ai cui lati si dispongono due angeli adoranti genuflessi. La figura trionfante del Cristo risorto s’innalza sulla cupola di questo tempietto circondata da testine di cherubini. L’intera scena, che riceve illusionisticamente profondità spaziale dai cassettoncini scorciati di cui consta il soffitto, è incorniciata da due colonne d’ordine composito scanalate e munite di alti podi ospitanti le figure dei Santi Placido e Nicola (rispettivamente a sinistra e a destra di chi guarda).155 In alto la cona si conclude con un fastigio composto da tre lunette accoglienti la scena dell’Annunciazione ai lati (l’Arcangelo a sinistra, la Vergine a destra) e la colomba, simbolo dello Spirito Santo, accerchiata dai cherubini. Tutt’attorno si dispiega un ricco apparato ornamentale che esibisce, oltre a stilizzati motivi fitomorfi, mascheroni e piccole sfingi. L’opera può essere ricondotta all’attività del maestro carrarese Giovambattista Mazzolo, che, come molti altri toscani prima di lui, elesse la Sicilia quale sua residenza privilegiata (pur continuando ad avere rapporti con la propria terra d’origine, se non altro per fruttuose compravendite di marmi), e che risulta documentato a Messina almeno dal 1512. Il Mazzolo, la cui presenza fu considerata dalla storiografia erudita ottocentesca156 “necessaria” a consentire all’arte scultorea messinese, rimasta orfana di Antonello Gagini definitivamente trasferitosi a Palermo, di attestarsi sull’alto livello verso cui questi l’aveva condotta, si pose a capo di un’operosa bottega che dagli anni trenta del secolo ricevette anche il significativo apporto del figlio Giovandomenico, e la cui produzione a tutt’oggi attestata dalle carte d’archivio sembra particolarmente rivolta alla Calabria. Ciò che, prendendo in considerazione il catalogo del carrarese, sembra essere un po’ anomalo è la scarsezza di testimonianze figurative ascrittegli fino a questo momento nel periodo intercorrente tra il suo arrivo in città ed il 1530: in diciotto anni i lavori mazzoliani ammonterebbero solo a cinque, un po’ strano per un artista che nei restanti ventiquattro anni (la sua ultima fatica si data al 1554), tra opere tuttora esistenti e altre attestate dai documenti ma disperse, ricevette più di una trentina di commesse.157 Certo dovranno considerarsi le difficoltà, 155 Oltre all’ovvia raffigurazione di San Nicola, titolare dell’edificio di culto, è presente Placido, il cui culto era già all’epoca molto diffuso e al quale era dedicato il noto monastero benedettino di San Placido Calonerò, sito a pochi chilometri da Pezzolo. 156 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, p. 742. 157 Le cinque opere riconducibili alla prima fase d’attività del maestro sono la Madonna col Bambino che egli ipoteca nel 1512 eseguita per il villaggio di Castanea delle Furie (cfr. F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 50; la tomba dell’arcivescovo Pietro Bellorado per il Duomo di Messina, intorno al 1513, oggi frammentario (dell’effigie del defunto rimane la testa al Museo, all’interno della Cattedrale si conserva il basamento con le figure delle Virtù Teologali); il monumento funerario di Angelo Balsamo, barone di San Basilio, sul 1515 circa, custodita al Museo e di recente attribuzione (con 123 specialmente incontrate all’inizio, di adattamento al nuovo ambiente; ma dal primo rogito che lo riguarda, e che risale al giugno 1512, quando egli risulta aver ipotecato, assieme al collega Antonello Freri, una statua al fine di garantire il pagamento di marmi acquistati a Carrara, sembra che questi siano tempi in cui il Mazzolo fu non solo di già operoso, ma anche piuttosto conosciuto.158 Nel cercare, all’interno del corpus di Giovambattista, sculture dalle quali possano affiorare valide affinità sia tipologiche che formali con il tabernacolo pezzolano, ci si accorge come un ruolo preminente sia da assegnarsi alle imprese compiute dal carrarese proprio entro lo scadere del quarto secolo. I riferimenti sono numerosi, e mi obbligano ad una rassegna che non ha affatto la pretesa di essere esaustiva, ma che si propone semplicemente, con l’espediente dell’elenco succinto, di fornire degli utili termini di paragone atti a suffragare la mia tesi attributiva. Il fastigio lunettato includente figure a mezzobusto trova riscontro in quelli del Monumento di Eleonora Branciforte (1525, fig. 46), dell’Adorazione dei Magi di Seminara (RC, anni venti) e dell’Altare della Madonna delle Grazie di Cetraro (CS, 1533). L’apparato ornamentale costituito da girali vegetali, mascheroni, medaglioni, sfingi, candelabri, disposti su paraste o su semicolonne inquadranti complessi architettonici più ampi ritorna nella Tomba Bellorado (1513 circa, figg. 50, 65), nell’Adorazione dei Magi di Seminara, nel Monumento Branciforte (fig. 47), nell’Altare di Cetraro e in una cornice nei depositi del Museo Regionale (1535). Gli angeli adoranti genuflessi, dai volti e dai colli allungati e sottili, dalle ciocche consistenti e ben definite, e dalle membra avvolte in vesti le cui pieghe rinsecchite raggiungono il punto massimo di asprezza nelle falcature triangolari all’altezza del bacino, rievocano da vicino quelli del Sepolcro Branciforte (figg. 48-49), di Cetraro, della pala di Seminara , nonché degli angeli scolpiti sugli scannelli delle Vergini di Delianuova, Scido (RC, entro gli anni trenta, figg. 93, 94), San Martino di Taurianova e Galatro (RC, figg. 95, 92). Il San Placido sul podio punto interrogativo) ad opera di F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 50-55; la statua della Santa Caterina d’Alessandria (1520 circa), anch’essa al Museo ma proveniente da Santa Lucia del Mela; infine il monumento di Eleonora Branciforte, sul 1525, oggi a Siracusa, Galleria Regionale di Palazzo Bellomo, già a Lentini nella chiesa di Santa Maria di Gesù. A queste a rigor di logica dovrebbero aggiungersi le tre statue a grandezza naturale (Vergine col Bambino, San Pietro, San Paolo) commissionate nel 1524 allo scultore toscano dal Senato di Messina per ornare il portale centrale del Duomo ma in realtà consegnate soltanto dieci anni più tardi. 158 Questo sodalizio “imprenditoriale” fra i due è attestato sino al febbraio 1514, quando essi s’impegnano a scolpire due fontane per Pere Sanchez de Calatajud, governatore della Camera Reginale di Siracusa, ma deve molto probabilmente essere iniziato prima del giugno 1512; lo stesso vale per l’ipotetica data di arrivo in città di Giovambattista, che doveva trovarsi nell’isola già prima che, in quello stesso giugno del ’12, egli ipotecasse una Madonna col Bambino destinata al casale di Castanea (a meno che non si pensi che il Mazzolo senior portasse con sé direttamente dalla Toscana il marmo lì eseguito). Gli estremi cronologici relativi al carrarese dovrebbero rientrare in questa forbice: 1485 circa – 1554. Per queste notizie, così come per altre precisazioni d’ordine documentario e stilistico che contribuiscono ad ampliare la nostra conoscenza sull’attività di Giovambattista e sul Freri, cfr. F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo cit., pp. 3760. 124 della colonna sinistra trova dei corrispettivi, sia per l’impianto che per i panneggi, nelle Virtù Teologali entro nicchie della Tombe Bellorado e Branciforte (figg. 54-55, 96), ma anche nei Santi Francesco e Antonio dell’Altare di Cetraro. Il San Nicola, invece, è parente dei personaggi maschili rappresentati nello scannello della Santa Caterina d’Alessandria oggi al Museo Regionale di Messina (1520 circa, figg. 83, 85, 97). La Vergine Annunciata del fastigio si può confrontare con quasi tutte le analoghe figure muliebri del Mazzolo, ma affiorano delle decise assonanze con la stessa Santa Caterina del Museo (fig. 76). L’altare di Pezzolo pertanto verrebbe a colmare, per una piccola parte, la lacuna esistente nel catalogo mazzoliano tra la Madonna inviata a Castanea (documentata al 1512) e il gruppo dell’Annunciazione di Raccuia (documentato al 1530); nello specifico io la collocherei dopo il ’25, anno in cui il maestro firmò e datò il Monumento Branciforte, e verosimilmente prima dello stesso impegno calabrese del ’30, momento a partire dal quale iniziò per lui una sequela di commesse che lo impegneranno quasi ad annum fino al 1550. L’interesse della committenza, sia religiosa che privata, per i suoi lavori dimostra che il carrarese riuscì, anche in tempi brevi dal suo arrivo in città, ad imporsi quale scultore privilegiato, in un momento in cui il clima culturale si mostrava fervente e propositivo. Egli però, un po’ a causa della presenza di una committenza i cui desiderata, per spirito di emulazione, si assomigliavano spesso l’uno all’altro, ma anche per la sua innata incapacità al rinnovo di certi motivi e stilemi, che una volta acquisiti, venivano ripetuti di continuo e anche a distanza di molti anni, si attestò sempre su posizioni attardate rispetto agli sviluppi moderni dell’arte nella Penisola. E se questa condizione può, in un certo senso, valere per l’intera regione, a Messina ciò si è avvertito ancora maggiormente, e proprio grazie alla presenza del Mazzolo, le cui fatiche, espresse in un’attività quarantennale, si potrebbero tutte ritenere palesemente derivate da modelli altrui.159 Per rimanere nell’ambito dell’opera pezzolana, basti rilevare che essa non è una creazione originale del nostro scultore, ma che alla sua origine deve collocarsi (per lo meno nella parte centrale, con il tempietto del Santo Sepolcro affiancato dagli angeli adoranti e col la figura svettante del Cristo risorto), un prototipo oggi conservato al Museo Regionale della città peloritana ma verosimilmente proveniente dal Duomo160 e 159 Il caso di certo più emblematico è quello manifestato dalle tante Madonne col Bambino portate a compimento da Giovambattista ed inviate in vari luoghi della Calabria e palesemente derivate, attraverso la mediazione degli esempi di Antonello Gagini, dalla oramai celebre figura rappresentante la Vergine col Bambino sita a Terranova Sappo Minulio (RC) eseguita dal toscano Benedetto da Maiano sul 1490-91 per Marino Correale (cfr. il Capitolo II, nota 40). 160 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, p. 195; Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908, Società Fotografica Italiana, Firenze 1909, p. 89; Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, p. 222; G. DELIA, La scultura decorativa interna del Duomo di Messina, in Messina ieri e oggi, Collana di studi storico-religiosi, a cura della Compagnia di S. Placido, 3, 1966, pp. 58-59; H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 380-381, figg. 54-55; G. MOLONIA, Antonello Gagini a Messina: documenti e ipotesi, in Aspetti 125 che già Hanno Walter Kruft assegnò alla fase iniziale dell’attività di Antonello Gagini (fig. 41). Fiduciosa che le comunanze tipologiche ed iconografiche tra le due sculture si palesino con tutta la loro perentorietà tanto quanto le assolute divergenze stilistiche (a danno, inutile dirlo, del carrarese), e a testimonianza della persistenza, nell’officina di Giovambattista ancora nel Cinquecento avanzato, di fortunati prototipi che il carrarese recepiva facendo suoi, credo sia interessante segnalare l’esistenza a Santo Stefano Briga di un altro tabernacolo (fig. 44), il quale può leggersi tutto d’un fiato con quello di Pezzolo. Ciò che, relativamente a questa edicola, contribuisce maggiormente a suffragare l’argomento della riproposizione da parte mazzoliana di modelli noti è la datazione: un’iscrizione incisa sul basamento c’informa che essa è stata licenziata dalla bottega del Mazzolo nel 1554, in anni cioè molto avanzati. della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell'attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 66 e nota 59. 126 8. Bottega di Giovambattista Mazzolo Tabernacolo eucaristico 1554 Marmo con tracce di dipintura Altezza 162 cm, larghezza 83 cm Santo Stefano di Briga (Messina), chiesa di San Giovanni Battista Iscrizioni (sul basamento, al centro): HIC EST PANIS VIVVS QVI DE CELO DESCENDIT (sul basamento, ai lati): 1554 La scarsa fortuna critica di questa custodia eucaristica (fig. 44) è inversamente proporzionale al contributo che essa può dare per una migliore comprensione delle dinamiche di diffusione, nell’ambito specialmente della provincia di Messina, di tale specifica tipologia di manufatti marmorei.161 L’edificio di culto oggi intitolato al Battista e all’interno del quale è ospitata l’opera, corrisponde a quello, un tempo dedicato a San Nicola, che ha cambiato titolo quando la prima parrocchiale fu distrutta da un incendio già nel Seicento. La chiesa di San Nicola vanta però un’antica fondazione di epoca normanna (pare sia stata eretta nel 1185 con la dedica a San Nicola degli Infermi), e nel Cinquecento subì un radicale rinnovamento che ne ampliò le dimensioni con l’innesto delle due navate laterali. Danneggiata dal sisma del 1908, essa è stata interessata da un ampio intervento di restauro prima di soggiacere all’ennesimo, stavolta decisamente snaturante, rimaneggiamento, che nel 1972 ha portato alla distruzione degli altari laterali, alla scomparsa del coro e di alcune statue lignee.162 Nella distruzione generale, possiamo quindi ritenerci fortunati che l’edicola si trovi ancora in loco, e che mostri, malgrado qualche comprensibile racconciatura, un discreto stato di conservazione. La scultura, che s’inserisce all’interno di quella folta serie di tabernacoli a muro la cui produzione iniziò ad aumentare a partire dal XV secolo, è murata sulla parete in cornu Epistulae, ed è costituita da un frontale architettonico proiettato nello spazio grazie all’espediente del soffitto cassettonato e scorciato e da un fastigio lunettato che accoglie al centro la colomba dello Spirito Santo attorniata da una ghiera di testine di cherubini, e ai lati l’Annunciazione. Due colonne d’ordine composito, in basso decorate da figure di Santi a figura intera 161 L’unico che ne segnali l’esistenza è G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle chiese dei casali di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina [1992], p. 95, con una generica iscrizione alla scuola gaginiana. 162 F. CHILLEMI, I casali di Messina. Strutture urbane e patrimonio artistico, con saggio introduttivo di A. AMATO ed un contributo di L. PALADINO, EDAS, Messina 1995, nuova edizione a cura di G. MOLONIA, FBP (fondazione Bonino-Pulejo), Messina 2004, pp. 310-311. 127 che, in mancanza di attributi specifici, è difficile identificare, e in alto arricchite da larghe scanalature, inquadrano la scena principale, il cui fulcro visivo è rappresentato dall’apertura centrale chiusa da un’elegante porticina lignea e oltre la quale si colloca il vano che accoglieva la pisside con le Sacre Specie. L’alloggio del Santissimo, che presenta una forma a tempietto munito di timpano e di grande cupola con alto tamburo (chiara allusione alla basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme), è vegliato da due angeli adoranti ed è sormontato dal Cristo risorto e benedicente affiancato da due file di cherubini. L’intera custodia è corredata da un ricco apparato decorativo guarnito da motivi fitomorfi e zoomorfi nelle paraste affiancanti le colonne, mascheroni, cornucopie e medaglioni lungo la trabeazione, e che si contraddistingue per una forte impronta “classicistica”, che sembra un’arretrata imitazione di analoghi prodotti partoriti almeno una trentina d’anni prima. Partiti decorativi simili a questi in nuce sono già presenti, agli albori del XV secolo, nel bagaglio formale dei principali rappresentanti della cultura figurativa della Penisola (grazie ovviamente all’enorme repertorio di invenzioni sia iconografiche sia decorative offerto dall’arte classica, cui già all’epoca gli artisti attingevano per le proprie creazioni); ma ricevettero, com’è noto, una notevole diffusione dalla scoperta della Domus Aurea neroniana sullo scadere del Quattrocento, che ha imprescindibilmente determinato i futuri sviluppi della storia della decorazione in senso lato.163 Nel nostro caso, però, dobbiamo considerare che ci troviamo di fronte ad un’opera datata, per iscrizione, al 1554, vale a dire ad un’epoca in cui la foggia di questo tipo di ornamentazione, pur continuando a proporre, da un punto di vista strettamente iconografico, i medesimi elementi, subì dei mutamenti nella rappresentazione formale, adeguandosi man mano al volgere del tempo e dunque al cambiamento di gusto diffuso nelle varie epoche. Qua sembra che l’artefice di questa edicola eucaristica, pur vivendo ed operando negli anni cinquanta del Cinquecento, non soltanto guardi al passato con commovente nostalgia, ma sia anche radicalmente ed indissolubilmente ancorato a quel tempo artistico dal quale non vuole o non riesce a distaccarsi. Uno scultore quindi, magari avanti con gli 163 Per uno sguardo d’insieme sulla diffusione delle grottesche in Italia, specie a partire da quello che sarà il cantiere che ne consacrerà il successo, vale a dire le Logge di Raffaello e dei suoi allievi in Vaticano (1517-19), un buon punto di partenza sono gli studi di Nicole DACOS: Per la storia delle grottesche: [la riscoperta della Domus Aurea], Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma [1967]; Le Logge di Raffaello: maestro e bottega di fronte all'antico, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1977. È utile inoltre ricordare che a Messina la fortuna del repertorio figurativo e formale delle grottesche è partita da quanto Cesare da Sesto mostrava nella splendida Sacra Conversazione con la Vergine, San Giovanni Battista e San Giorgio (1514 circa) emigrata a San Francisco, De Young Memorial Museum of Fine Arts, ma proveniente dall’Oratorio di San Giorgio fondato dai mercanti genovesi nella città peloritana, e si è rinvigorita con le straordinarie invenzioni di Polidoro (giunto in città nel 1528), la cui attività grafica ci lascia numerose testimonianze di decorazioni per fregi, basamenti, architravi. 128 anni, sostanzialmente attardato, incapace di aggiornarsi e di cogliere i pur tanti stimoli che il panorama artistico cittadino in quegli anni andava offrendo, e che ancora nel 1554 scolpisce come avrebbe fatto trenta o venti anni prima. A Messina è documentata, dal 1512 al 1554, la presenza di un artista, molto attivo non soltanto per la committenza isolana ma anche per quella calabrese, nato a Carrara ma naturalizzatosi messinese: si tratta di Giovambattista Mazzolo, che avvia nella capitale dei Peloritani rimasta orfana di Antonello Gagini una fiorente bottega, col sostegno, a partire dagli anni trenta, anche del figlio Giovandomenico.164 La formazione artistica del Mazzolo senior, al quale, fra attestazioni documentarie e attribuzioni per confronti di stile cui la critica concorda unanimamente, possono ricondursi poco meno di una trentina di lavori, dovette verosimilmente svolgersi nel proprio paese d’origine, ma, una volta in Sicilia, egli contaminò il proprio linguaggio con quello imperante nell’isola, vale a dire quello di matrice gaginiana. Nelle sue sculture, infatti, vi sono continui e duraturi richiami all’arte di Antonello, del quale a più riprese egli ripropose formule e composizioni dal successo consolidato da tempo (sarà utile ricordare a questo riguardo che il Gagini junior fece rientro dalla Toscana a Messina nel 1498 e che prima di eleggere Palermo quale residenza vitalizia rimase nella città dello Stretto fino al 1508 circa).165 Basti pensare che una delle sue fatiche, la Madonna col Bambino a dimensioni naturali eseguita per la chiesa dedicata alla Santissima Annunziata a Monforte San Giorgio (fig. 27), che ricalca nell’impianto, nei panneggi, fin nei gesti le sue prime rappresentazioni di Annunciate (ad esempio quelle di Brognaturo, 1530, e di Tropea, 1530-32, fig. 89), e proseguendo con le tante Vergini col Bambino disseminate più che altro sul territorio calabrese.166 Volendo quindi rintracciare, tra le opere del Mazzolo, quella che maggiormente si può accostare, tipologicamente e stilisticamente, al tabernacolo di Santo Stefano Briga, si dovrà innanzitutto menzionare l’analoga custodia del Santissimo Sacramento tuttora svettante al centro dell’altare maggiore della chiesa di San Nicola a Pezzolo (fig. 45), un altro casale della zona nord di Messina, a pochi chilometri dalla stessa Santo Stefano. Non si tratta di un lavoro attestato per via documentaria, ma in questa sede lo si 164 Possono così individuarsi i limiti cronologici relativi ai due scultori: Giovambattista (1485 circa1554), documentato dal 1512 al 1550; Giovandomenico (1510/1515-1577 circa), documentato dal 1533 al 1577. 165 Sul determinante periodo di apprendistato fiorentino di Antonello Gagini presso la bottega di Benedetto da Maiano, cfr. F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2007, pp. 990-1006). 166 Riguardo alla statua di Monforte San Giorgio, lo studioso locale Giuseppe Ardizzone Gullo ne avrebbe rintracciato, nell’Archivio di Stato di Messina, l’atto di commissione (ma se ne aspetta ancora, dal 2003, la pubblicazione). Per la sfilza di Madonne col Bambino esemplate, anche dal Mazzolo senior, come già per Antonello Gagini (ma attraverso la mediazione di quest’ultimo), sull’esempio della Madonna della Neve che Benedetto da Maiano fra il 1491 ed il 1492 confezionò per Marino Correale conte di Terranova (cfr. il Capitolo II, nota 40). 129 riconduce per analisi stilistica all’attività del carrarese sugli anni trenta del XVI secolo.167 L’ostentazione delle affinità principia dalla struttura d’insieme: frontale architettonico centrale incorniciato da colonne decorate ai lati con vari motivi fito e zoomorfi, alloggio del Santissimo a fornice su cui s’imposta la cupola che a sua volta serve da appoggio al Cristo risorto; trabeazione con mascherone al centro e girali che si dispiegano ai lati; in alto cimasa con colomba centrale e Annunciazione laterale chiuse entro lunette rudentate. E continua, se vogliamo anche più tipicamente, con i dettagli formali: le fisionomie degli angeli, dai volti e dai colli lunghi e sottili, le faccine tornite dei cherubini e la cura e la morbidezza con cui di tutte queste figure sono resi i capelli, dalle ciocche tirate quasi una ad una (motivo che ricorre in tutte le Madonne mazzoliane), in contrapposizione però alla durezza delle vesti che essi indossano. Da un punto di vista tipologico, le larghe e aspre piegature che scendono dritte dal torace fino alla vita, e la voltatella, secca e quasi priva di ariosità, del drappo che avvolge le braccia nella parte superiore, potrebbero anche trovare una loro ragion d’essere nella comunanza di questi motivi con quelli affioranti in altre analoghe immagini licenziate dall’officina gaginiana, che pure dalla capitale dell’isola continuava ad inviare, ancora in anni avanzati come questi, numerosi prodotti anche a Messina e nella sua provincia; ma se poi si osserva il particolare delle piccole pieghe falcate triangolari, che non seguono alcun andamento del corpo, delineandosi cone un puro e semplice capriccio decorativo, e le si confrontano con quelle di Pezzolo, allora, credo, si ottiene un’ulteriore argomento a favore della tesi mazzoliana. Mazzoliana, sia chiaro, da intendere come appartenente all’“ambito” di quell’artista. Perché, a fronte delle strette assonanze rilevate sinora con l’ancona di Pezzolo, ed in realtà, proprio alla luce di queste, risaltano, in maniera più manifesta, le differenze. La nostra edicola tradisce la presenza di una mano diversa, che nello stesso tempo in cui tenta, con tutti i propri mezzi a disposizione, di emulare la condotta di quello che verosimilmente dovette essere il suo maestro, denuncia irrimediabilmente la sua estraneità a quello stesso linguaggio al raggiungimento del quale egli tanto ambisce. In breve, la qualità esibita dal manufatto di Santo Stefano è più bassa di quella del gemello pezzolano, e, come se non bastasse, la sua cronologia è troppo alta per uno scultore nato, come si suppone, attorno al 1485 e che pertanto nel 1554 dev’essere stato alla soglia dei settant’anni. D’altronde, specie a partire dagli anni trenta, il corpus del Mazzolo (prendendo in considerazione anche le numerose imprese attestate dalle carte d’archivio che però risultano disperse) diventa molto consistente, a riprova di una produzione continua cui soltanto una ben organizzata bottega poteva far fronte senza rischiare di deludere la committenza. È quindi verosimile pensare, per 167 Cfr. la scheda n. 7. 130 questo tabernacolo, ad un suo stretto collaboratore, attivo in anni coevi a quelli del figlio Giovandomenico. La tarda cronologia dell’opera di Santo Stefano costituisce un’ulteriore prova (qualora ce ne fosse bisogno) della persistenza, ancora nel Cinquecento avanzato, negli stessi anni cioè in cui si assisteva all’erezione da parte di Giovann’Angelo Montorsoli della Fontana di Orione (1553), di modelli partoriti molto tempo prima e che vengono recuperati anche a notevole distanza. Nello specifico, mi riferisco alla custodia eucaristica pervenuta all’inizio del Novecento al Museo Regionale della città peloritana dalla chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo” e che Gioacchino di Marzo assegnò ad Antonello Gagini (fig. 41), ipotizzandone l’originaria collocazione nella Cappella del Corpo di Cristo della Cattedrale messinese, dalla quale sarebbe stata «rimossa e vandalicamente buttata fra le macerie quando nel secolo XVII fu ivi dato luogo alle barocche decorazioni di marmi a vari colori nella cappella ed altare del Sacramento».168 168 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 195. La chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo” non è altro che la cripta della Cattedrale normanna di Messina che nel 1638 venne completamente riammodernata e dedicata appunto alla Vergine. 131 CAPITOLO IV Altri due carraresi a Messina: Giovandomenico Mazzolo e Domenico Vanello 132 IV.1 La lunga carriera di Giovandomenico Mazzolo dal classicismo del padre Giovambattista all’aggiornamento sugli esempi manieristi. Quando, nel settembre del 1547, Giovann’Angelo Montorsoli giunse a Messina, chiamatovi per erigere nella Piazza del Duomo la Fontana di Orione, Giovandomenico Mazzolo aveva ormai palesato la sua tardiva adesione alla moderna cultura manieristica della quale il frate-scultore proveniente dalla Toscana costituì uno dei principali esponenti.1 Nato nella città dello Stretto intorno al 1510-15 dal carrarese Giovambattista,2 anch’egli maestro dell’intaglio marmoreo, il Mazzolo junior, che mosse certamente i primi passi nella bottega paterna, dimostrò presto la volontà di emanciparsi dai modelli dell’attardato genitore. I primi, significativi segnali della nuova strada che Giovandomenico intendeva percorrere nell’ambito dell’arte figurativa scultorea risalgono ai primi anni trenta del secolo. Si passa dalle figurette scolpite nello scannello delle Vergini, eseguite dal padre, di San Procopio (1532, figg. 6-7),3 e di Tresilico di Oppido (terzo-quarto decennio, fig. 8), le quali, messe a confronto con quelle intagliate da Giovambattista (fig. 5), mostrano qualche novità nell’ampiezza dei volumi e nella morbidezza del drappeggio; all’accento patetico dei protagonisti della Pietà che compare sul registro superiore della grande pala d’altare di Cetraro (CS, fig. 57), dallo stesso genitore firmata e datata 1533, e che si oppone alla genericità dei volti delle immagini paterne, sempre inespressivi.4 Giovandomenico dovette anche posare lo scalpello sul San Basilio in trono oggi conservato a Cataforio (RC, fig. 4), commissionato nel 1533 e consegnato, secondo quanto stabilito dall’atto notarile, due anni dopo: un consapevole senso del volume ed un’articolata, benché ordinatissima, panneggiatura (lontani dall’esilità e dalla stringatezza del linguaggio del padre) sono palpabili in questo manufatto, il cui rogito rappresenta la prima testimonianza d’archivio relativa al Mazzolo junior.5 Dunque, pur giovanissimo, e sebbene vincolato allo stile del genitore, entro la cui officina queste tre opere furono concepite e compiute, cionondimeno l’erede, 1 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, pp. 617-618, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it. 2 L’ultima attestazione, in questo caso epigrafica, relativa al Mazzolo junior è costituita dall’iscrizione nel portale laterale della Cattedrale di Catania, che riporta la data 1577. 3 Questo deve reputarsi uno dei primi (se non il primo) interventi del giovane Mazzolo. Il rogito della Madonna di San Procopio è stato pubblicato da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, II, p. 428 doc. CCCXLV. 4 La partecipazione di Giovandomenico a quest’impresa è stata rilevata per la prima volta da M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 56-57, figg. 37-39. 5 Il documento è stato pubblicato da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., II, p. 429 doc. CCCXLI. 133 esibendo qualche elemento di una più moderna maniera artistica, si adoperò per pronunciarsi in modo autonomo: naturale evoluzione dell’ancora profondamente quattrocentesco esprimersi di Giovambattista, favorita forse anche dalle novità importate nella città peloritana da Polidoro Caldara da Caravaggio, ivi approdato nel 1528, e operoso sino alla morte (1543). Volendo operare un riesame critico della figura di Giovandomenico, ricostruendone il corpus alla luce di due importanti aggiunte, risalta particolarmente l’estesa lacuna documentaria esistente tra il febbraio del 1533, periodo in cui si stendono i dettagli della commissione del citato San Basilio, ed il giugno del 1542, epoca in cui Giovandomenico è attestato a Carrara alla stipula di un atto che sanciva l’acquisto da parte sua di alcune “carrate” di marmi.6 Pur volendo tenere in considerazione il 1535, data che compare nella base del San Basilio, realizzato, come s’è visto, in collaborazione col padre, si tratta comunque di sette anni di totale assenza di notizie a lui relative. Forse che egli si sia recato, per iniziativa personale o per volontà del genitore, nella terra d’origine di questi, spinto dal desiderio di aggiornarsi su quanto si verificava, sulla terraferma, nel campo dell’arte?7 È soltanto un’ipotesi: certo è che la successiva impresa scultorea concordemente attribuitagli, la monumentale Santa Lucia conservata a Castroreale (ME, fig. 1), recante nello scannello la data 1546, rivela oramai esplicitamente il divario dalla produzione paterna.8 Il confronto tra la Santa Lucia e la coeva Vergine col Bambino realizzata negli anni quaranta da Giovambattista e da questi spedita a Melicuccà (RC, fig. 2) esemplifica al meglio l’incolmabile distanza che separa i due lapicidi. Da una parte, il primo sfoderava l’ennesima immagine mariana, per giunta tra le migliori in quanto alla tenuta stilistica, ricalcata sugli illustri ma ormai anacronistici schemi gaginiani (a loro volta derivati da quelli di Benedetto da Maiano),9 dalle forme 6 Il rogito, che è stato sunteggiato da L. LOJACONO, Per un catalogo dei monumenti sepolcrali del Rinascimento in Sicilia: contributi su Giambattista Mazzolo, in «Arte cristiana», XCVI, 2008, 845, pp. 95-108 [103-104 n. 4], si trova nell’Archivio di Stato di Massa, Fondo del canonico Pietro Andrei, Miscellanea Storica I, Cart. 7, fasc. 53 (Sulle belle arti in Lunigiana e sugli artisti lunesi in diversi paesi della terra dal secolo XIII al XIX. Memorie storiche). 7 Per gli artisti nati e cresciuti in zone per certi aspetti “periferiche”, un viaggio di studio e d’aggiornamento era piuttosto frequente. Limitandoci al solo ambito peloritano, è bene ricordare quanto avvenne intorno allo scadere del sesto decennio del Cinquecento allo scultore locale Rinaldo Bonanno, anch’egli partito alla volta della Toscana (cfr. qui il Capitolo VI). 8 L’attribuzione di questo marmo a Giovandomenico si deve ad A. BILARDO, Le opere di Antonello Gagini a Castroreale, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 7588 [84]. 9 Com’è noto, alla base della produzione di Vergini scultoree siciliane del XVI secolo vi fu un archetipo il cui straordinario successo presso la committenza dovette dettar legge già a poca distanza dalla sua comparsa, cancellando letteralmente il ricordo della cosiddetta Madonna di Trapani (1355 circa), sulla quale si erano esemplate le figure mariane in Sicilia almeno sino agli anni ottanta del Quattrocento. La scultura in questione è la Madonna della Neve compiuta intorno al 1490-91 da Benedetto da Maiano per Terranova (RC), feudo calabrese di Marino Correale (Cfr. il Capitolo II, nota 40). 134 ancorate ad un fare artistico tardo quattrocentesco; dall’altra il secondo portava a termine una statua che, sebbene improntata ad una generale delicatezza espressiva e ad un’eleganza di forme, supera la preminente assialità tipica dei manufatti di Giovambattista, spostando lievemente il baricentro della figura verso sinistra e inclinandone il capo, dal volto non più banale ma anzi piuttosto eloquente nel dolce patetismo. Si notino anche il particolare trattamento del drappeggio, che aderisce al corpo con grande naturalezza (elemento che tornerà nei marmi più tardi), e il bel dettaglio del fiocco in cui la veste si raccoglie alla sinistra della figura generando un piccolo vortice di pieghe che si distendono poi verso l’alto (fig. 3). Entro la metà degli anni quaranta Giovandomenico aveva già ricevuto un apprezzabile numero di commesse, non soltanto dal messinese, ma anche dalle zone limitrofe, com’è testimoniato da tre carte d’archivio che lo videro impegnato in altrettante opere, di cui una da realizzare a Siracusa;10 e nel contempo iniziava il suo costante peregrinare dalla Sicilia alla Toscana, che dal 1542 al 1556 lo portò per ben tre volte a Carrara e in un’occasione a Pisa.11 La prima scultura documentata ancora oggi superstite è la bella Madonna col Bambino richiestagli nel 1553 dal consultore del Viceré e protettore del Real Patrimonio Andrea Arduini (o Arduino) per Petilia Policastro (KR, fig. 11), consegnata un anno dopo, com’è attestato dalla data incisa nello scannello, e attualmente custodita nel Santuario della Santa Spina nei pressi di quel borgo. La staticità della Vergine, esemplata sul modello delle eroine antiche, viene qui energicamente spezzata dall’irruenza motoria del Bambino, che, nel tentativo di divincolarsi dalla stretta materna, si dimena assumendo una posizione contorta e disarticolata: il capo, dal volto segnato da un gesto di irritazione, si piega verso la Madre, il braccio destro si allunga con uno scatto nervoso verso l’esterno, portando tutto il corpo ad un’innaturale torsione, mentre la gambetta sinistra, accavallandosi sull’altra, si volge dalla parte opposta. I gesti, i movimenti improvvisi risultano amplificati dal corpo nerboruto del Bambino, da quella muscolatura erculea che si riproporrà nei successivi lavori del maestro, caratterizzandone fortemente lo stile. Se isolassimo, anche solo per un istante, dal gruppo marmoreo il solo Bambino e lo guardassimo come se fosse la prima volta, 10 Nell’ordine, si tratta dell’erezione di una cappella (novembre 1543) all’interno di una non meglio specificata chiesa «cantonum Syragusarum» per una certa Violante Fimia, e di due fontane, la prima con la figura di Orfeo in atto di suonare la lira, da eseguire per il nobile messinese Giovan Filippo La Rocca (marzo 1544), e la seconda, più piccola, per un tale Giacomo Trischitta di Forza d’Agrò (aprile 1544). Tutti e tre gli atti sono stati pubblicati da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., II, rispettivamente alle pagine 432 doc. CCCLII; 432-433 doc. CCCLIII; 433 doc. CCCLIV. 11 Il primo soggiorno carrarese documentato è quello del giugno 1542 (cfr. supra, nota 6). Gli altri due risalgono al novembre 1547 e al maggio 1550: i relativi rogiti, trascritti da L. LOJACONO, Per un catalogo cit., pp. 103-104, provengono anch’essi dal Fondo Andrei (ASMA, Miscellanea Storica I, Cart. 7, fasc. 156; cart. 6, fasc. 7, fol. 13). 135 non avremmo difficoltà alcuna ad accostarlo a qualche analoga creazione di uno fra i tanti manieristi della Penisola. Ed è certo emblematico che nel 1554, e dunque in perfetta contemporaneità con la commessa dell’Arduini, fosse richiesta a Giovann’Angelo Montorsoli una Madonna, da inviare a Tropea (VV, datata nella base 1555, fig. 12), che si offre allo spettatore come molto meno sfrontatamente “audace”, nel suo essere, al contrario, classicamente composta e più dimessa nelle intenzioni rispetto alla Vergine mazzoliana.12 Vi sono però due statue, entrambe autografe del Montorsoli, e raffiguranti San Pietro e Sant’Agata (figg. 9-10), che potrebbero, se non aver funto da modello, quantomeno aver ispirato Giovandomenico nel momento in cui egli si apprestò a scolpire la Madonna calabra. Sono queste le prime sculture monumentali della Maniera eseguite in Sicilia e per la Sicilia: la prima custodita nella Cattedrale di Taormina, la seconda irrimediabilmente perduta a seguito delle distruzioni belliche e nota soltanto da vecchie fotografie.13 I due manufatti devono con evidenza considerarsi i prototipi – l’uno per le immagini di sante vergini e martiri, l’altro per analoghe rappresentazioni di apostoli – di numerose repliche, più o meno fedeli, compiute nei decenni a seguire da diversi artefici attivi nella città dello Stretto.14 La Sant’Agata precede, se pur di poco, lo sfortunato San Pietro, ma entrambi devono datarsi entro il 1555.15 Il Mazzolo junior dovette quasi certamente aver visto, prima di compiere il marmo di Petilia, 12 In questo caso, però, non bisogna trascurare l’influenza che può aver svolto sull’artefice la committenza, la quale spesso, nell’imporre il proprio gusto, chiedeva espressamente agli artisti (precisandolo nei rogiti) di lavorare replicando il modello di opere a essa note e gradite. L’atto notarile, datato 29 agosto 1554, col quale il Capitolo della Cattedrale di Tropea commissionò la Madonna del Popolo specificava che la Vergine doveva essere sorretta da due cherubini, a loro volta poggiati su uno scannello. L’inconsueta iconografia, consona più ad una Maddalena che ad una Madonna, deriva a mio avviso proprio da un’opera che aveva riscosso grande successo presso la committenza calabra della prima metà del Cinquecento: la Maddalena che Antonello Gagini aveva compiuto tra il 1525 ed il 1530 per i Pignatelli di Monteleone, e che è oggi nella Cattedrale di Santa Maria Maggiore e San Leoluca di Vibo Valentia, a pochi chilometri da Tropea. Il rogito relativo alla Madonna del Popolo, rintracciato e sunteggiato da D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, p. 114, è stato poi pubblicato integralmente da A. BASILE, Una Madonna del Montorsoli nel Duomo di Tropea, in «Brutium», XXXVIII, 1959, pp. 7-10. 13 Il San Pietro dovette essere la prima scultura della serie dell’Apostolato commissionato al maestro toscano dal Senato peloritano (cfr. G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 619). Sono noti due strumenti notarili relativi al Principe degli Apostoli: un primo, con data 15 settembre 1550, che definiva formalmente i dettagli della commessa, ed un secondo, del 4 dicembre successivo, che registrava un iniziale pagamento corrisposto all’artefice da Pietro de Benedetto, patrono della cappella. Un’iscrizione posta al centro del timpano spezzato che, sormontando la trabeazione, chiudeva architettonicamente l’altare dedicato a San Pietro, e trascritta nel 1918 da Enrico Mauceri, ci assicurava che nel 1555 i lavori dovevano essere conclusi. 14 Ricordo qui Martino Montanini, l’allievo del Montorsoli, gli scultori locali Giuseppe Bottone e Rinaldo Bonanno, e infine Domenico e Francesco Calamecca, rispettivamente fratello e figlio del toscano Andrea. 15 Cfr. qui il Capitolo VI, scheda n. 1. 136 almeno la Santa taorminese, dalla quale potrebbe aver derivato il motivo, presente nella parte alta della veste, della testina di serafino (riecheggiante le protomi leonine tipiche della statuaria antica), che, se usuale nelle raffigurazioni di eroine della cristianità (qual è appunto Agata), ricorre qui per la prima volta in una Madonna.16 La data 1551 compare nella base di un Santo (forse San Basilio, fig. 13) ricoverato nel Museo Regionale di Messina e ricondotto a Giovandomenico da Alessandra Migliorato, la quale lo ha identificato, in maniera dubitativa, con San Nicolò.17 Nel condividere a pieno l’attribuzione della studiosa, tenderei però ad inserire più puntualmente questo marmo nel percorso mazzoliano, convinta che il confronto proposto dalla Migliorato, vale a dire quello con la Sant’Agata e con il San Berillo che s’innalzano sul portale laterale della Cattedrale di Catania, non sia così incisivo (figg. 14-15). E ciò non solamente a causa della tarda cronologia delle due sculture etnee, che, stando all’iscrizione posta sull’architrave del portale, risalirebbero al 1577, e dunque a vent’anni e più di distanza dal Santo messinese; ma anche perché, a mio avviso, quest’ultimo da un lato prosegue sulla strada imboccata dalla Santa Lucia (fig. 1), acuendone taluni caratteri, e anticipando per altri aspetti i successivi esiti ottenuti nella Vergine di Petilia (fig. 11); dall’altro palesa alcuni stilemi, segnatamente montorsoliani, che lo orientano in modo deciso verso la nuova temperie culturale inaugurata dal toscano nella città dello Stretto. 16 Non è un caso che lo stesso motivo ritorni nelle due Sante Caterine di Forza d’Agrò e Milazzo, rispettivamente di Montanini e di Giuseppe Bottone, ma non nelle numerose Madonne col Bambino licenziate dalla bottega dello stesso Bottone, o da quella del più giovane Rinaldo Bonanno, attivo sino al 1590, o ancora dalla fiorente officina calamecchiana, i cui ultimi esponenti furono operosi fino al primo decennio del Seicento. 17 Nell’avanzare la proposta attributiva di questo ‘Santo’ al Mazzolo junior, la studiosa, relativamente all’iconografia, ha accennato ad un generico santo basiliano (cfr. A. Migliorato, Giandomenico Mazzolo: ipotesi per un percorso cit., p. 17). Successivamente, la Migliorato ha cambiato idea, riconoscendovi un «Santo vescovo, da identificarsi forse con San Nicolò, di provenienza ignota» (cfr. Eadem, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 107, fig. 36). Le croci intagliate nella stola incrociata sul petto collocano effettivamente la figura tra quelle legate alla chiesa ortodossa, ma la mancanza di altri attributi ne rende difficile l’identificazione. A prescindere dalla corretta interpretazione del personaggio, credo sia interessante ricordare che il 5 settembre del 1902 Gaetano La Corte Cailler, durante un sopralluogo nell’allora Museo Provinciale, aveva segnalato l’esistenza di una statua di ‘San Basilio’, proveniente, a detta dello studioso, dalla facciata della chiesa di San Salvatore dei Greci (un tempo sita nell’area oggi occupata dal Museo Regionale), dalla quale era caduta a causa del sisma del 1783 (cfr. Gaetano La Corte Cailler, Il mio diario (1893-1918), 3 voll., a cura di G. Molonia, Istituto di Studi Storici “Gaetano Salvemini”, Edizioni GBM, Messina 1998, I, p. 297). Pur con il beneficio del dubbio, mi sembra rilevante accogliere questa notizia, utile a sbrogliare la questione della provenienza dell’opera: è infatti plausibile legare questo marmo al principale monastero basiliano della città, erede dell’antico cenobio eretto nella Penisola di San Raineri, “in lingua phari”. Quest’ultima fabbrica, elevata nel 1131 dal re Ruggero II a “Mandra”, vale a dire “mater monasterium” (da cui il termine “archimandritato”), fu parzialmente distrutta e poi abbandonata intorno alla metà del Cinquecento, dopo che l’imperatore Carlo V, nel 1546, decise di farvi costruire un forte. 137 La visione frontale del San Basilio ci restituisce infatti, in maniera notevolmente accentuata, quello sbilanciamento che già era stato rilevato nell’opera di Castroreale, mentre la torsione innaturale del busto e del braccio destro, che il Santo flette verso sinistra e che si contrappongono nettamente alla testa, tutta orientata a destra, non sono che un preludio alle membra inquiete e disarticolate del più tardo Bambino calabrese (fig. 64). Se poi ci si addentra nell’analisi fisionomica, risalta con evidenza un dettaglio inedito che non si ripete più nei successivi lavori mazzoliani: mi riferisco agli occhi grandi, dalla forma tondeggiante, con l’iride incisa e un vistoso sacco lacrimale (fig. 18), tratto distintivo dei volti di Giovann’Angelo Montorsoli, e ricorrente sia nelle raffigurazioni sacre che in quelle profane. Dalla stessa Sant’Agata taorminese (fig. 17) ai tanti personaggi che popolano la Fontana di Orione (i tritoni, le erme, i mascheroni, le protomi leonine, Orione stesso, figg. 16, 19), al Cristo e alla Maddalena del bassorilievo con il Noli me tangere, oggi nel Museo Regionale, il motivo degli occhi larghi dal profondo solco attorno alla pupilla ritorna, e può aver lasciato il segno nella mente di Giovandomenico. Sebbene la fontana, per la quale il Montorsoli si mise subito a lavoro, si dati al 1553,18 ciò nondimeno molte delle figure destinate a quell’imponente impresa dovettero essere compiute entro il 1551, anno di esecuzione del San Basilio, e dovettero dunque significativamente impressionare i tanti scultori attivi in quel momento a Messina, tra cui ovviamente il Mazzolo junior. Al sesto decennio del Cinquecento risalgono anche quattro custodie marmoree integralmente portate a termine da Giovandomenico, cui se ne aggiunge qui una quinta compiuta con la collaborazione di qualche aiuto: trattasi dei manufatti conservati a Santo Stefano di Briga (ME, fig. 20), a Massa San Nicola (ME, fig. 21), a Sinopoli (RC, fig. 23), a Caulonia (RC, fig. 24) e a Messina all’interno della Villa De Pasquale (fig. 22).19 La tipologia di tutti questi tabernacoli è simile, ed è costituita da un frontale architettonico inserito nello spazio grazie all’espediente del soffitto cassettonato e scorciato; la scena centrale, il cui fulcro visivo è chiaramente rappresentato 18 Nella galleria sotterranea alla fontana è murata un’iscrizione marmorea, riportante la data 1553, e trascritta da S. BOSCARINO, L’opera di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura dell’Università di Roma», Roma 1957, 20-21, pp. 1-12 [2], n. 20. Essa recita così: D.O.M. CARLO V AUGUSTO SICILIAE REGE PROREGE AUTEM JOHANNE DE VEGA MESSANAE MAGISTRATIBUS FRANCISCO MARULLA COLA MAZA COLA DE CALCIS PANTALEONE CIVICO HIERONIMO ROMANO STEPHANO DE MESSANA AQUE VERO AEDILIBUS ANTHONINO GOTHO, FRANCISCO DE CASTELLIS SCULPTORIS ET OPERIS ARCHITECTO JOHANE ANGELO MOTURSOLO FLORENTINO HIC VETUSTO DOMINO LAURENTI TEMPLO SERIO DIRUTO FONS FUNDABATUR MDLIII. Cfr. anche IDEM, L’opera di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina, in «Studi e rilievi di architettura siciliana», Messina 1961, pp. 9-46 [11], n. 20. 19 Il frammentario, e inedito, tabernacolo si trova nel casale messinese di Contesse, all’interno del grandioso complesso monumentale costruito in stile liberty da Eugenio De Pasquale l’indomani del terremoto. La residenza è costituita dalla casa padronale, la fabbrica per la lavorazione delle essenze agrumarie e la chiesa, dedicata all’Immacolata. Della provenienza, nonché dell’epoca d’ingresso del marmo nella collezione della famiglia, non si hanno notizie. 138 dall’alloggio del Santissimo Sacramento, chiuso da una porticina, è inquadrata in due casi (Santo Stefano e Massa San Nicola) da colonne, negli altri due da una semplice incorniciatura liscia. Il repositorio delle Sacre Specie, che presenta una forma a tempietto munito di timpano e di cupola con alto tamburo,20 è vegliato da due angeli adoranti ed è sormontato dal Cristo benedicente affiancato da due file di cherubini.21 Tutte e cinque le edicole sono corredate di un ricco apparato decorativo composto da motivi fitomorfi e zoomorfi, mascheroni, cornucopie e medaglioni.22 Tale schema deriva esplicitamente da alcuni celebri lavori licenziati da Antonello Gagini entro gli anni venti del Cinquecento: come già notato da Francesco Caglioti e Luigi Hyerace, uno degli elementi ricorrenti nella bottega del maestro siciliano è il soffitto a cassettoncini scorciati entro cui si svolge la scena prospetticamente inquadrata.23 Facendo una carrellata dell’imponente monografia su Antonello pubblicata nel 1980 da Hanno-Walter Kruft, che comprenda però solo le fatiche autografe compiute entro la metà degli anni trenta, si ritrova questo motivo tipico delle composizioni gaginiane nelle seguenti opere:24 nello scannello della Madonna col Bambino di Amantea (CS, 1505) e nell’Altare di Nicosia (CT, 1512); in tutte le formelle laterali dell’Altare Diana nella chiesa di Santa Cita a Palermo (1504-17) e nell’Altare Mastandrea (1519) nella Chiesa Madre di Alcamo; nei tabernacoli di Ciminna (San Domenico, 1522) e di Tusa (Chiesa Madre, 1525); nell’Altare di San Giorgio in San Francesco d’Assisi a Palermo (1526) e in quello La Franchina in San Salvatore a San Salvatore di Fitalia (1527-28); infine, nelle custodie eucaristiche del Duomo di Mazara del Vallo (1532) e della Matrice di Ficarra (1536). 20 Solo a Massa San Nicola il disegno si semplifica, limitandosi alla porticina. Eccezion fatta per il tabernacolo di Sinopoli, dove il Cristo è scolpito direttamente nel fastigio lunettato che sormonta l’intera custodia. 22 Eccetto che per il manufatto della Villa De Pasquale, di cui rimane oggi solamente la lastra centrale con gli angeli adoranti il Santissimo Sacramento e il Cristo trionfante affiancato dalle testine di cherubini. Questa tipologia di edicola eucaristica è ancora di ascendenza gaginiana, derivando dallo splendido archetipo di Antonello (primi anni del Cinquecento), pervenuto all’inizio del XX secolo al Museo Regionale della città peloritana, dove ancora oggi si trova, dalla chiesa di Santa Maria “sotto il Duomo”, vale a dire dalla cripta dell’antica Cattedrale normanna di Messina trasformata nel 1638 in una vera e propria chiesa dedicata alla Vergine. Per il determinante ruolo di archetipo svolto da questo marmo per altri manufatti analoghi, cfr. qui il Capitolo III. 23 Tale nesso era già stato individuato da Francesco Caglioti e Luigi Hyerace (Antonello Gagini e le tombe Carafa di Castelvetere, in La Calabria del Viceregno spagnolo: storia, arte, architettura e urbanistica, a cura di A. ANSELMI, Gangemi editore, Roma 2009, pp. 337-385, nota 94), i quali hanno proposto per le custodie di Caulonia e di Sinopoli l’ascrizione ad una bottega messinese attiva tra il 1520 ed il 1530 circa. Il primo, un tempo collocato nella Cappella del Corpo di Cristo della Chiesa Madre del paese calabrese, dovette essere licenziato qualche lustro più tardi da una bottega operosa a Messina che guardava da vicino i prodotti eseguiti dal Gagini junior (a quest’ultimo si deve l’esecuzione, sul 1520, del complesso delle Tombe Carafa, erette nello stesso edificio di culto). 24 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980. A quest’opera si rimanda per i riferimenti fotografici indicati poco oltre nel testo. 21 139 Sebbene non abbia difficoltà ad accogliere nel catalogo di Giovandomenico il marmo custodito a Massa San Nicola, accettato soltanto in maniera dubitativa dalla Migliorato, mi tocca tuttavia ribadire, in relazione all’opera di Santo Stefano di Briga, che l’intervento del Mazzolo junior dovette limitarsi al solo fastigio lunettato ospitante al centro la colomba dello Spirito Santo attorniata da una ghiera di testine di cherubini, e ai lati l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Annunciata (figg. 25).25 Rispetto agli altri, infatti, nel tabernacolo di Santo Stefano (l’unico cui possiamo riferire una data certa, il 1554, incisa ai lati della base) si registra un notevole scarto formale. In esso prevalgono forme abbreviate e sintetiche, assieme ad una secchezza di linee e ad una durezza d’intaglio che, unite ad una poco salda definizione spaziale, conducono a riconoscervi l’intervento di un collaboratore. Nelle altre quattro custodie s’individua, al contrario, il ductus scultoreo tipico di Giovandomenico, con i Cristi dalle corporature anatomicamente ben delineate e dai fisici muscolosi, che occupano con sicurezza lo spazio loro destinato, e con gli angeli dalle vesti inamidate, ben aderenti alle membra. IV.1.1 Novità sul catalogo di Giovandomenico: le Madonne di Pezzolo e Frazzanò e il San Sebastiano di Alì Superiore. Avendo dunque acquistato un po’ di dimestichezza con lo stile di questo artefice, sarà forse più facile adesso includere nel suo corpus tre nuove sculture, di cui due sconosciute agli studi, vale a dire la Madonna di Loreto attualmente custodita nella Chiesa Madre di Pezzolo (ME, fig. 26),26 ed un’Annunciata ancora oggi svettante sull’altare maggiore della Chiesa Matrice di Frazzanò (ME, fig. 31);27 infine, il ben noto San Sebastiano di Raccuia (ME, fig. 47), ancorato sin dalla metà degli anni sessanta del Novecento al nome di Rinaldo Bonanno.28 Proveniente dalla chiesa dedicata alla Vergine di Loreto, che nel periodo precedente il sisma del 1908 si ergeva a pochi passi dalla Matrice, il marmo pezzolano presenta un’iconografia un po’ inusuale, caratterizzata dalla Vergine seduta sulla Santa Casa con un atteggiamento a metà strada tra il giocoso e il disinvolto. A mio avviso, essa trova nei due manufatti mazzoliani sopra citati di Castroreale (1546, figg. 1, 3) e di Petilia Policastro (1554, fig. 11) alcuni paralleli molto eloquenti. A questi ultimi, infatti, l’inedita figura si accosta, pur nella differenza d’impianto, per il medesimo trattamento dei panneggi e per le affinità fisionomiche, che si riscontrano nei volti un po’ allungati, animati da occhi piccoli ma profondamente 25 Vedi qui il Capitolo III, scheda n. 7. Vedi la scheda n. 1. 27 Vedi la scheda n. 2. 28 Vedi la scheda n. 3. 26 140 incisi e sottolineati dalla sempre ampia arcata sopracciliare, nei nasi pronunciati, e nelle larghe e solcate fossette che conducono a labbra minute e leggermente aperte (figg. 27-29). Anche le capigliature sono simili, benché lo scultore non indulga molto verso una più sottile definizione delle ciocche e opti sempre per i capelli lunghi nascosti dal velo che ricopre il capo di tutte e tre le donne. Le forti divergenze tra la Madonna di Loreto e le altre due figure riguardano, al contrario, lo scarso grado di rifinitura di alcune sue parti, fra cui quella tra il collo e il lembo del mantello e quella all’altezza della mano destra della Madre che va a coprire le pudenda del Figlio (fig. 26); così come pone alcuni problemi, quantomeno nella considerazione della piena autografia di Giovandomenico, il Bambino, che specie nella veduta laterale destra mostra, da un lato, la manchevole saldezza d’impianto e di solidità statica, e dall’altro alcune imperfezioni evidenti sul volto, percorso da uno strano cordoncino di marmo cui forse un inesperto collaboratore non ha saputo dare gli ultimi, necessari ritocchi (fig. 34).29 Le due immagini di Petilia e di Castroreale offrono altresì validi termini di confronto per l’ascrizione al medesimo autore della figura mariana di Frazzanò: con quelle essa condivide le tipologie dei volti, piegati sul lato e sempre tendenti a toni particolarmente espressivi e pietosi (figg. 28-30), le ampie arcate sopracciliari confluenti in nasi pronunciati, le panneggiature ampie e distese (figg. 1, 11, 31), e, infine, quel generale accento tra il contrito e il compassionevole assunto da ciascuna di loro.30 Osservando, invece, lo scannello di San Pier Niceto (ME, figg. 37-38),31 numerose emergono le affinità tra questi personaggi e quelli di Frazzanò, dalle figure smilze e allungate dai tratti ben distinti (figg. 36, 39), non a caso accostabili anche alle basi delle Vergini di San Procopio (figg. 6-7), di Tresilico di Oppido Mamertina (RC, terzo decennio del Cinquecento, figg. 8, 41) e di Motta San Giovanni (RC, fine terzo decennio, fig. 40), commissionate a Giovambattista, che le eseguì in collaborazione col figlio. 29 A questo proposito sarà utile ricordare che già nel 1542, epoca della sua prima permanenza documentata a Carrara, Giovandomenico s’impegnò a procurare giovani desiderosi di imparare l’arte del marmo, portandoli con sé in Sicilia. Al luglio e all’agosto di quell’anno risalgono infatti due atti notarili che sancivano l’impegno dello scultore ad insegnare il mestiere ad altrettanti futuri apprendisti: nel primo si menzionava un certo Rocco, figlio di Michele de’ Rossi di San Terenzo, che sarebbe rimasto nella bottega del Mazzolo per cinque anni; nel secondo, Agostino, figlio di un tale «mastro Antonio aromatario», s’obbligava a prestare servizio presso i Mazzolo padre e figlio per ben sei anni. I due rogiti, sunteggiati da L. LOJACONO, Per un catalogo dei monumenti sepolcrali cit., pp. 95-108 [103-104], si custodiscono nell’Archivio di Stato di Massa, Fondo del canonico Pietro Andrei, Miscellanea Storica I, Cart. 6, fasc. 47, foll. 12 e 13. Ancora nell’ottobre del 1550 un certo Francesco Berrettari affidò il proprio figlio Paolino, aspirante apprendista, a Giovandomenico (cfr. G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori…nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 161). 30 Vedi la scheda n. 2. 31 La Madonna di San Pier Niceto è stata di recente attribuita a Giovandomenico da Alessandra Migliorato. 141 Resta da proporre un’attendibile cronologia per le due nuove sculture, che potrebbero collocarsi alla fine degli anni cinquanta, quindi dopo la Vergine di Petilia ma prima dell’oneroso incarico assunto a Catania per l’erezione del Portale della Cappella del Crocifisso (1561-63, fig. 46). La data di quest’impresa, che sancì il definitivo successo ottenuto dal Mazzolo junior anche al di fuori degli stretti confini peloritani, è nota grazie all’iscrizione posta sull’architrave del portale stesso, recante l’anno 1563. Ma alcuni atti notarili pubblicati già nel 1845 dal Musumeci ci informano che ancora nel 1567 il maestro ricevette pagamenti per la croce e per i due angeli svettanti sulla trabeazione. Sebbene dai rogiti non si possa ricavare alcun dato più preciso, tuttavia è da confermare l’idea, espressa da Gioacchino di Marzo, secondo cui l’opera dovette essere di certo conclusa «sino alla cornice» proprio nel 1563,32 per poi essere verosimilmente integrata, intorno al 1567 o poco prima (in un’epoca tale da giustificare l’ultimo pagamento registrato appunto in quell’anno), dalla croce e dalle statue sommitali. È dunque il periodo compreso tra il 1561 ed il ’63 che dobbiamo tenere in considerazione per l’esecuzione delle quattordici formelle intagliate con Scene della Passione di Cristo; per la coppia, inconsueta, di fregi, il primo dei quali decorato da due volute scanalate d’ascendenza michelangiolesca e da altrettante lastre rettangolari scolpite con foglie e girali d’acanto, e il secondo ornato da una più tradizionale sequenza di triglifi e metope con i simboli della Passione; e, in ultimo, anche per la lunetta che accoglie la Pietà (fig. 68). A ridosso di questi anni credo debba stare anche il San Sebastiano (fig. 47) che fa bella mostra di sé nella Chiesa Madre di Raccuia, piccolo borgo erto sui Nebrodi e noto alla bibliografia sulla scultura sicula del Rinascimento sia perché Giovambattista Mazzolo vi spedì ben due manufatti (una Madonna col Bambino ed un gruppo dell’Annunciazione, anch’essi entrambi nella Matrice),33 sia per esservi nato, intorno al 1545, Rinaldo Bonanno.34 Proprio nei numerosi personaggi rappresentati nelle formelle del portale catanese si scorgono lampanti analogie con il Santo martire (fig. 54) che l’errata analisi formale compiuta nel 1965 da Maria Accascina e poi la pigrizia fisica e intellettuale degli studi successivi hanno ascritto all’attività dell’artista nativo di Raccuia. Da un lato la scarsa comprensione dell’opera di quest’ultimo maestro 32 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 763-764. Il gruppo con l’Annunciazione è documentato al 1530 (cfr. ibidem, II, pp. 427-428 doc. CCCXLIII). La Madonna col Bambino è attribuita al Mazzolo padre nel secondo decennio del Cinquecento. 34 L’anno di nascita del Bonanno si ricava da un rogito pubblicato da Domenico Puzzolo Sigillo e datato 2 gennaio 1559, nel quale si attesta che «Petrus Bonanno de terra Raccudie» lasciava il proprio figlio Rinaldo «etatis annorum quatordecim vel circa» in qualità di apprendista presso la bottega di Martino Montanini per un periodo di cinque anni (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., p. 115, n. 1; B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117, 128 doc. n. 1). 33 142 (cui si spera di aver supplito almeno in parte grazie a questo studio),35 dall’altro la mancata conoscenza autoptica dell’impresa che Giovandomenico portò a termine per la città etnea hanno contribuito, seppur indirettamente, a decretare una volta per tutte la responsabilità bonanniana di questo marmo. Non bisogna dimenticare che il Portale della Cappella del Crocifisso costituisce, assieme alla Madonna di Petilia Policastro, l’unico lavoro mazzoliano documentato tuttora esistente; che esso fu commissionato dalla Confraternita del Crocifisso di cui faceva parte anche il vescovo di Catania Nicolò Caracciolo; che la pia congrega era appena venuta in possesso della cappella, alla quale si accedeva proprio varcando quella porta marmorea; e, infine, che quell’ambiente di culto occupava uno degli spazi più importanti all’interno della maggiore chiesa cittadina, vale a dire quello posto alla destra dell’altare maggiore. Né bisogna trascurare che, entro il corpus dopotutto esiguo di Giovandomenico, la fatica catanese si distingue anche per essere, per la sua stessa natura, l’unica nella quale il suo artefice ha potuto dispiegare una gran messe di figure, dando largo spazio alla propria libertà d’invenzione, e lasciando di conseguenza a noi che ne studiamo l’opera una ricca e piuttosto lunga sequela di immagini, gesti, movenze e stilemi particolarmente utili ad una più precisa analisi della personalità e dello stile dell’artista. Se poi si riunissero i contributi, a dire il vero pochi, che si sono occupati specificamente del Mazzolo junior, e che dunque hanno in qualche modo trattato anche del portale di Catania, si constaterebbe prontamente che le fotografie ad esso relative pubblicate a profitto del lettore sono circa sei-sette, per giunta sempre le stesse: chi scrive dunque del portale, se lo ha mai visto personalmente, non ne ha mai guadagnato utili riproduzioni fotografiche.36 Eppure, sono proprio le figurette che popolano queste formelle a costituire il più prossimo termine di paragone per il San Sebastiano. Le esibite ed esasperate muscolature, i volti fortemente espressivi e declinati talora nel tragico e nell’afflizione (si vedano al riguardo la Vergine, San Giovanni Evangelista e la Maddalena nella Pietà scolpita nel fastigio lunettato, fig. 68), e infine i ventri, quasi tutti rigonfi con l’ombelico dalla forma perfettamente circolare sempre in evidenza (anche quando è ricoperto dalle vesti), rappresentano motivi e stilemi che, pur nella loro minutezza (ciascuna formella misura cm 17x17), rievocano quelli espressi, se pur ormai in forme monumentali, nel Santo di Raccuia. Il carattere statuario del martire accresce, infatti, ognuno di questi elementi, acuendone la drammaticità e dunque amplificando l’effetto patetico sullo spettatore. Un ulteriore, valido confronto può istituirsi tra la scultura raccuiese e la Madonna col Bambino custodita nella Chiesa Madre di San Pier Niceto (ME, figg. 35 Cfr. qui il Capitolo VI. A. MIGLIORATO, Giandomenico Mazzolo cit., pp. 9-23 [1-12]; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 59, 63 figg. 47-50; A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 95 figg. 18-20. 36 143 64-65), di recente ascritta al Mazzolo junior da Alessandra Migliorato.37 In particolare, mi sembra simile il trattamento delle ciocche del Bambino, ognuna ben distinta dall’altra, dalle virgolettature ricadenti anche sulla fronte, proprio come accade nel San Sebastiano. Benché la Migliorato abbia pensato, per questa Vergine, ad una datazione agli anni cinquanta, la mia idea è che essa sia molto vicina, oltre che al Santo, a quell’opera attualmente considerata come l’ultimo lavoro mazzoliano, la cui attribuzione fu in passato avanzata da Gioacchino di Marzo: un secondo portale destinato alla Cattedrale di Catania, questa volta esterno, che fa ancora oggi bella mostra di sé sul lato settentrionale dell’edificio di culto (fig.104).38 Da quanto si legge nell’iscrizione campeggiante al centro della trabeazione, l’opera dovette essere terminata entro il 1577, in un’epoca in cui del maestro, ormai ultrasessantenne, non abbiamo alcun’altra notizia. L’ultima attestazione documentaria che lo riguarda risale infatti al 1565, e consta di un atto notarile con cui lo scultore Paolo Tasso s’impegnava a realizzare una coppia di monumenti funerari per il nobile messinese Filippo La Rocca e Buonfiglio sul disegno di già fornito da Andrea Calamecca e dallo stesso Giovandomenico.39 Non ostando comunque tutto ciò alla bontà dell’ascrizione mazzoliana del portale settentrionale della Cattedrale etnea, della quale anzi rimango fermamente convinta, proporrei in primis un raffronto morelliano tra il Bambino del gruppo di San Pier Niceto ed uno fra i puttini gioiosi che fanno capolino tra i girali d’acanto nel fregio della grande porta: guardando alla metà destra dell’architrave decorata, il putto più vicino al centro, raffigurato col capo rivolto verso il basso, è un gemellino, in miniatura, del Bambino tenuto in braccia dalla Vergine di San Pier Niceto (figg.69-70). Ma tutti i nerboruti puttini catanesi ripropongono gli stessi motivi già rilevati in alcuni dei fanciulli mazzoliani sinora citati, in particolare nel Bambino di Petilia Policastro (figg. 71-72). IV.2 Spigolature critiche su Polidoro da Caravaggio e i portali laterali del Duomo di Messina. 37 Ibidem, p. 103 fig. 30. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 764-766. 39 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117, 128 doc. n. 2. 38 144 Da un punto di vista tipologico e compositivo, la porta esterna della Cattedrale etnea è stata collegata ai due portali laterali della maggiore chiesa di Messina (figg. 72a-73), che Placido Samperi, nel primo volume della Messana illustrata, risalente alla metà del Seicento, legò al nome di Polidoro Caldara da Caravaggio.40 La straordinaria versatilità dell’artista lombardo, che progettò architetture finte, come le famose “case pinte” sparse tra Roma, Napoli e la stessa cittadina peloritana, ma che dispiegò anche la propria inesauribile vena creativa in una notevole quantità di disegni oggi a ragione considerati dei veri e propri progetti architettonici, ebbe modo di esprimersi con vivezza anche nella città dello Stretto. È ben noto, infatti, che Polidoro partecipò attivamente all’ideazione e alla realizzazione degli apparati trionfali eretti nell’ottobre 1535 in occasione del passaggio da Messina dell’imperatore Carlo V appena rientrato dalla storica presa di Tunisi. Un dettagliatissimo resoconto dell’ingresso del sovrano asburgico nella città peloritana e delle macchine sceniche la cui imponente presenza cadenzava il transito imperiale verso la Piazza del Duomo, dove in ultimo il corteo si fermò, fu vergato quasi in contemporanea dal prete-letterato Colagiacomo d’Alibrando, e da questi dato alle stampe il 15 dicembre dello stesso anno.41 La precisione del racconto dell’Alibrando, che indugia sull’insieme delle cerimonie, delle processioni, delle numerose funzioni religiose organizzate in occasione dell’evento, non è ovviamente da meno rispetto alla descrizione, molto puntuale, delle scenografie effimere, le quali erano così distribuite: ben cinque archi comparivano lungo le circa otto miglia del tragitto che dalla periferia conducevano alla Porta Sant’Antonio (detta anche Imperiale), accesso meridionale alla città;42 un sesto 40 Messana S.P.Q.R. regumque decreto nobilis exemplaris et Regni Siciliae caput duodecim titulis illustrata, opus posthumum r.p. Placidi Samperii Messanensis Societatis Jesu in duo volumina distributum augustissimae magnae dominae Deiparae virgini a sacris literis dicatum typis rev. cam. archiep. d. Placidi Grillo, Messanae 1742, ms. 1653-54, I, p. 617: «At vero circa architecturam Polydorus fuit etiam eximius; ipse enim duas templi maximi portas summo artificio ordinavit; et anno 1535 in Caroli V Imperatori Messanam adventu, pontem, arcus, columnas, ad artis, ac pulchritudinis miraculum, usque disposuit erexitque». 41 Soltanto un anno prima l’Alibrando aveva licenziato, sotto forma di poemetto, l’elogio in ottave, intitolato Il Spasmo di Maria Vergine, della celebre pala di Polidoro con la Salita al Calvario destinata alla chiesa messinese dell’Annunziata dei Catalani (IDEM, Il Spasmo di Maria Vergine. Ottave per un dipinto di Polidoro da Caravaggio a Messina, a cura di B. AGOSTI, G. ALFANO, I. DI MAJO, Paparo Edizioni, Napoli 1999). Il titolo del resoconto del trionfo di Carlo V, stampato presso Petruccio Spira, è Il triompho il quale fece Messina nella intrata del’Imperator Carlo V. Una decurtata versione di questo scritto è custodita nella Biblioteca Civica di Palermo, ma a profitto dei lettori si possiede fortunatamente la trascrizione che ne fece l’erudito messinese Caio Domenico Gallo all’interno dei suoi Annali della città di Messina, capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua formazione fino ai tempi presenti, in Messina, per Francesco Gaipa regio impressore, 1758, pp. 497-514. 42 Ibidem, pp. 500-501: «Sua Maghestà, udita messa, dopo il desinare cavalcò appressandosi alla città per la via detta del Dromo, la quale tiene otto miglia di strada piana, e tutta piena di case belle di sotto e di sopra che non paiono di villa ma di città. Nella quale via v’erano alquanto distanti l’una da l’altro cinque archi triumphali: il primo che Sua Maghestà vide su al principio del detto habitato era questo sopra sei colonne, tutto d’alloro trasposto, e nel mezzo della sommità v’era una Vittoria 145 era «lontan delle mura della città un trar di mano», un settimo ancora nei pressi di Porta Imperiale, cui si aggiungevano anche due carri trionfali;43 altri due archi onorari s’innalzavano lungo la strada che portava al palazzo imperiale e alla Marina, vicino alla Porta della Dogana.44 A detta dell’Alibrando, «l’arteficio e la galeata et alata vestita di rosso, e con la man destra che distesa teneva porgea una corona d’alloro, e di sotto al primo cornicione v’erano queste parole in lettere d’oro: VITTORIA AUGUSTI. Il secondo parimente fu tutto adornato di quercia, e nel mezzo della sommità v’era un Hercule, e nel friso queste parole in oro: FORTITUDO AUGUSTI; il terzo fu fregiato d’hedera, et al sommo una Concordia con due coppie. Il scritto diceva: CONCORDIA AUGUSTI; il quarto fu contesto di fronde di oliva, e di sotto queste parole: PAX AUGUSTI; l’ultimo, il qual fu posto alla foce del fiume delle Cammari lunge della città mezzo miglo, fu quest’arco di mirabile ingegno quatrangolato posto sopra xii colonne, et in ogni quatrangolo v’era un portico di larghezza convenevole con suoi capitelli, architravo e cornicioni primi e secondi, et alle cossalette del portico v’erano due colonne, et ogni lato et ogni portico era della consimil maniera. L’arco degli portici era infondato di fronde di cerre a modo d’un festone, con le fronde che l’una usciva dall’altra; i capitelli et i cornicioni erano dorati, che veramente fu un bello artificio, et era una mirabil cosa a vedere, ma quel che non fu meno arteficioso che bello era che il primo portico si vedea di sì fatta maniera infiorato che parea veder una primavera, il secondo una estate ripiena di frutti diversi, il terzo uno autunno, il quarto fu fatto di tal sorte che havresti veduto il disnore e la sterelità del verno. Di sopra il primo portico v’era scritto in lettere dorate maiuscole VER; nel secondo ESTAS, nel terzo AUTUNNUS, nel quarto HIEMS; di sopra la cimasa v’erano le armi dello Imperator, e nella estremità di quella l’arme della città… l’arteficio e la struttura fu fatta per mano di maestro Dominico di Carrara architettor ingenioso, et al presente nostro citatino». 43 Ibidem, pp. 504-506: «così andando incontro un ricchissimo e superbo arco triomphale, lontan delle mura della città un trar di mano. Quest’arco era posto sopra XVIII colonne, sei nella prima faccia e sei nell’altra, et altre sei tra l’una e l’altra faccia; le basi di queste colonne erano un palmo sopra il pavimento, molto belle, poste d’oro; il pavimento tutto coperto di panni fini di flametta, gialli e rossi, librea della città; le colonne, controfatte di marmo lavorate, assai vaghe, coperte di raso, carmesino giallo e bianco; i capitelli fatti con mirabile arteficio, parti hionici, parti corinti e parti thoscani, tutti posto d’oro; queste colonne, con sue basi e capitelli, erano alte palmi XXIIII. Gli portici, che duo erano, l’un nella prima faccia e l’altro nell’altra, erano controfatti di marmo lavorati all’antica di bellissima maniera, erano alti palmi XXXV per uno, e tra l’uno e l’altro portico andava una lamia in tondo di marmo, coperta di rasi degli sopra detti colori… l’uno e l’altro architravo delli portici erano di marmo intagliato al modo antico, di maravigliosa bellezza, lunghi palmi LIIII. Sopra l’architravo il suo friso di petra miscia, e di sopra il friso il suo cornitione intagliato di marmo, e di sopra quest’ordine già detto era uno epitaffio con sua cimasa, che faceva il fenimento con giusta mesura. In cima delli portici v’erano l’arme dell’imperator di grandezza proporzionate a tal loco, con due Vittorie di marmo che regevano con mani quest’arme, e con l’altre mani tenevano una palma; e nell’una e nell’altra estremità della cimasa erano l’arme della città, le quali tenevano certi puttini ignudi. Questo ordine detto, di questa prima faccia, era nell’altra che guardava verso la porta della città, e le due facce per fianco erano corrispondenti a queste nel friso della prima faccia… passato quest’arco Sua Maghestà venne ad entar nella città per la porta di Santo Antonio, al presente detta Imperiale, onde fu fatta per ornamento un’altra porta di petra miscia di bellissimo arteficio, con quatro colonne, due tonde e due piane con suo architravo, friso e frontespizio, e nella sommità del frontespizio v’era una Fama alata di marmo con due trombe nella bocca in atto di sonare, e nell’estremità del frontespizio due brasciere con fiamme di foco; erano anchor nel friso di questa porta molti trophei racquistati nella guerra della Goletta e di Tunisi… questo arco di sopra descritto e questa porta fe’ maestro Polidoro di Caravaggio pittor famosissimo e meraviglioso, gli versi e prose fe’ prete Francisco Maurolico nostro cittadino studiosissimo e dotto della matematica». 44 Ibidem, p. 513: «La mattina che sequì, che fu la memoria degli defunti, andò al detto monisterio di Santo Helia, et udita messa tornò in palagio, e dopo desinare uscì a piè per la Porta di Santa Maria del Pilerio alla Marina, et andò in fin al Ponte della Dovana, ove era preparato un arco triumphale sopra quatro colonne di petra miscia, con suoi capitelli, architravo, friso e cornitione, molto vago e bello, ove erano depinte molte e diverse figure di dei e dii maritimi, in un mar 146 struttura» delle cinque architetture effimere svettanti fuori delle mura cittadine «fu fatta per mano di maestro Dominico di Carrara architettor ingenioso, et al presente nostro citatino», mentre al Caldara spettavano i due archi collocati immediatamente prima e subito dopo la Porta Imperiale («questo arco di sopra descritto e questa porta fe’ maestro Polidoro di Caravaggio pittor famosissimo e meraviglioso, gli versi e prose fe’ prete Francisco Maurolico nostro cittadino studiosissimo e dotto della matematica»), e nei pressi della Porta della Dogana, «depinto per maestro Polidoro di sopra detto». Compare dunque, per la prima volta, nel resoconto del prete-letterato il nome di Domenico Vanello, un maestro del marmo che soltanto molto più tardi, grazie specialmente agli spogli archivistici compiuti dagli eruditi siciliani Gioacchino di Marzo e Domenico Puzzolo Sigillo e dal toscano Giuseppe Campori, avrebbe iniziato a configurarsi come uno dei protagonisti, a Messina, dell’arte scultorea della prima metà del XVI secolo. Prima però di occuparci della figura di questo artista, è opportuno spendere ancora qualche parola su Polidoro e sul suo rapporto con l’antico, specie relativamente alla fase progettuale dei due portali messinesi, i quali per certi aspetti si possono considerare il punto d’arrivo, il naturale approdo, delle molteplici fantasie dispiegate negli apparati trionfali del 1535.45 La stretta correlazione tra una parte della produzione grafica del Caldara e alcune delle architetture effimere descritte dall’Alibrando è stata già da tempo rilevata,46 e si è esplicitata nell’individuazione, all’interno dell’album di disegni polidoreschi appartenuto prima a Bartolomeo Cavaceppi, e poi allo scultore e collezionista Vincenzo Pacetti,47 dei molteplici temi, motivi ed elementi decorativi descritti dalle parole ammirate e insieme orgogliose del prete Colagiacomo.48 Tra questi fogli, alcuni sono stati tranquillo e piano, mostrando gioire dell’avento di Sua Maghestà, al parvimento del quale v’erano posti tappeti di seta finissimi. Fu questo arco depinto per maestro Polidoro di sopra detto». Altre fonti per la descrizione del corteo di Carlo V a Messina sono A. SALA, La triomphale entrata di Carlo Imperatore Augusto in la inclita città di Napoli, et di Messina, con il significato delli archi triomphali, & dele figure antiche in prosa & versi latini, s.l. 1535; M. GUAZZO, Historie di tutte le cose degne di memoria qual del’anno M.D.XX.IIII fino questo presente sono occorse nella Italia, nella Provenza, nella Franza, nella Picardia, per Comin da Trino di Monferrato, Venezia 1545, cc. 219-224v. 45 Dopo il Samperi, anche Giuseppe Grosso Cacopardo identificò in Polidoro l’autore della coppia di portali: «… altre però ce ne restano, le quali mostrano a sufficienza l’alto suo valore nell’architettura: sono queste le due porte nei fianchi del nostro Duomo, d’ordine composto, con elegantissimo frontespizio. Le modanature della cornice, la sveltezza dell’ornato, l’eleganza e la proporzione che si osserva, lo caratterizzano per uomo di gusto e di fino discernimento in questa parte di disegno; ma sopra ogn’altro il fregio ornato di rabeschi con varii puttini è con tale e tanta dilicatezza eseguito che di molle cera anziché duro marmo rassembra…» (cfr. IDEM, Memorie de’ pittori messinesi e degli esteri che i Messina fiorirono dal secolo XII fino al secolo XIX ornate di ritratti, presso Giuseppe Pappalardo, Messina 1821, Vita di Polidoro da Caravaggio, p. 41). 46 Mi limito qui a ricordare l’ultimo studio completo sul pittore, e a rimandare ad esso per l’ampia bibliografia precedente: P. L. DE CASTRIS, Polidoro da Caravaggio, Electa Napoli, Napoli 2001, pp. 373-412. 47 Nel 1843 l’album fu acquistato a Roma da Gustav Friedrich Waagen, entrando così nelle raccolte dei musei berlinesi. 48 Ibidem, pp. 374-380. 147 opportunamente connessi alle due grandi porte, fra cui lo Studio di fregi a girali con donne, putti, capre e uno stemma della Royal Library di Windsor (inv. 10909, fig. 79),49 lo Studio per una pala d’altare con la Madonna delle Grazie e i Santi Pietro e Andrea, anch’esso a Windsor (inv. 0383, fig. 76), quello per un Arco trionfale con divinità marine e tritoni a Berlino (Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, inv. 26450r, fig. 77);50 e ancora il disegno berlinese con Studio di portale o edicola con la Resurrezione nel timpano e gli Evangelisti (inv. 23858, fig. 78), collegato da Pierluigi Leone De Castris alle architetture erette per Carlo V, benché anche in esso si riconoscano chiaramente almeno due diretti rimandi ai portali, vale dire il fregio a girali d’acanto e i capitelli compositi.51 Ciò che a mio avviso non è stato sinora sufficientemente evidenziato, al di là del generico riferimento al rapporto con l’antico, emerso in più occasioni nella bibliografia sul lombardo, è la gran messe di richiami a ben precisi edifici dell’antichità squadernati nelle due porte del Duomo, e che, in quel museo a cielo aperto che era la Roma dei primi decenni del Cinquecento, dovettero ispirare innumerevoli artisti, tra cui ovviamente Polidoro. L’impaginatura generale delle porte, con il timpano e l’architrave decorati dalle modanature a dentelli, a file di perle, ad ovuli, a quelle con il kyma lesbio trilobato, a file di astragali alternati a perline (motivi ricorrenti nelle architetture romane già dall’età augustea), potrebbero derivare dal portale del Tempio del divo Romolo nel Foro Romano, sulla Via Sacra, risalente all’epoca di riutilizzo da parte di Massenzio, che intorno al 309 d.C. lo dedicò al figlio Romolo (fig. 81).52 Il fregio di questo portale presenta, inoltre, per tutta la sua larghezza, tre fasce decorate con girali d’acanto, elemento che ricorre in entrambe le creazioni messinesi (figg. 80, 82, 83, 86), ma che il Caldara potrebbe aver desunto anche dal Tempio di Venere Genitrice nel Foro di 49 M. CLAYTON, Raphael and his circle. Drawings from Windsor Castle. The Royal Collection, M. Holberton, London 1999, p. 210, n. 66, con una datazione alla fine degli anni venti. 50 Entrambi questi fogli devono essere collegati alle pale eseguite dal Caldara per la chiesa napoletana di Santa Maria delle Grazie alla Pescheria (cfr. P. L. DE CASTRIS, Polidoro da Caravaggio cit., p. 381). 51 Ibidem, p. 469. Il disegno è conservato negli Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz Kupferstichkabinett. In relazione ai portali, lo studioso ha segnalato anche il foglio con Studi vari di portale o arco trionfale timpanato, di arcone rustico, di motivi ornamentali e per una Resurrezione (inv. 26469r, fig. 448), e l’altro con Studi vari di una Madonna col Bambino in trono e angeli reggicortina entro una lunetta, di stemmi, di portali, di figure (inv. 20737r, fig. 453), ma i riferimenti sono troppo deboli per la diretta connessione alle due porte messinesi. 52 G. FLACCOMIO, Il “Tempio di Romolo” al Foro Romano, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», 157/162, 1980, pp. 3-128. Molti frammenti di epoca flavia, provenienti dalla Domus di Vespasiano sul Palatino, presentano motivi simili a quelli dei portali, sia nelle decorazioni che nella presenza di puttini o eroti fitomorfi alternati a girali d’acanto (cfr. Le sculture Farnese. Le sculture delle Terme di Caracalla, III, a cura di C. GASPARRI, Electa, Milano 2009, pp. 33-41). Per un’ampia panoramica sull’architettura di età flavia cfr. anche Divus Vespasianus: il bimillenario dei Flavi, catalogo della mostra a cura di F. COARELLI, Electa, Milano 2009. Fondamentale rimane comunque il testo di P.-H. BLANCKENHAGEN, Flavische Architektur und ihre Dekoration untersucht am Nervaforum, Mann, Berlin 1940. 148 Cesare (nella veste che ancora oggi noi ammiriamo, vale a dire quella traianea),53 nelle lesene (I d.C.) della collezione antica dei Della Valle, passate poi ai Medici (fig. 84),54 nella trabeazione della Basilica di San Paolo fuori le Mura (pezzi di reimpiego della basilica costantinana, fig. 85),55 e ancora in un pannello decorato già in possesso dell’antiquario e collezionista riminese Francesco Gualdi e oggi murato nella cosiddetta Torre Colonna (fine III d.C., fig. 87).56 La modanatura dentellata di entrambi i portali è impreziosita da un dettaglio risalente alle fabbriche di epoca flavia: mi riferisco a quello che gli archeologi chiamano “anello di Rabirio”, vale a dire quei due minutissimi cerchietti a forma di un otto ruotato di novanta gradi che l’architetto Rabirio, artefice del progetto della Domus Flavia sul Palatino, interpose tra i dentelli (fig. 75). Sebbene qui l’anello di Rabirio sia stato interpretato con grande libertà (si è infatti ridotto ad un unico e solo cerchietto, fig. 74), la presenza, decisamente inusuale, di questo motivo ornamentale rafforza l’idea che alle spalle del progetto dei manufatti messinesi vi sia stato un maestro dedito all’osservazione delle vestigia antiche. Un artista che, nel recupero filologico dell’antico, ha saputo creare un nuovo vocabolario figurativo, combinando la sequela di spunti carpiti da più parti. La decorazione della trabeazione della porta settentrionale,57 che contempla la presenza dei 53 M. FLORIANI SQUARCIAPINO, Pannelli decorativi del tempio di Venere Genitrice, in «Atti dell’Accademia dei Lincei. Memorie», 1948, pp. 61-111; P. MAISTO, M. VITTI, Tempio di Venere Genitrice: nuovi dati sulle fasi costruttive e decorative, in «Bollettino della commissione archeologica comunale di Roma», 110, 2009, pp. 31-80; M. MILELLA, Il Tempio di venere Genitrice e le novità archeologiche sul Foro di Cesare, in Simulacra Romae II. Rome, les capitales de provence (capita provinciarum) et la création d’un espace commun européen. Une approche archéologique, atti del convegno, Reims 2008, a cura di R. GONZALES VILLAESCUSA, J. RUIZ DE ARBULO, Soc. Archéologique Champenois, Reims 2010, pp. 13-20; EADEM, La decorazione del tempio di Venere Genitrice, in «Scienze dell’antichità. Storia, archeologia, antropologia», 16, 2010, pp. 455-469. 54 E. TALAMO, Su alcuni frammenti di lesene della collezione Della Valle-Medici, in «Xenia», 5, 1983, pp. 15-46; P. CICERCHIA, Ipotesi di ricomposizione e note metrologiche su alcuni frammenti di lesene della collezione Della Valle-Medici, ivi, pp. 47-58. Carlo Gasparri (Sulle lesene con tralci d’acanto a Villa Medici, in Antikenzeichnung und Antikestudium in Renaissance und Frühbarock, Akten des internationalen Symposions 8.-10. September 1986 in Coburg, Verlag Philip von Zabern, Mainz Am Rhein 1989, pp. 111-125), e ancora in Villa Médicis. Le collezioni del cardinale Ferdinando. I dipinti e le sculture, a cura di A. CECCHI e C. GASPARRI, Académie de France à Rome, École Française de Rome, Académie des Beaux-Arts, Rome 2009, volume 4, pp. 24-28, ha dimostrato come questi elementi frammentari con girali d’acanto figurati con inserzioni di vari animali fossero noti almeno a partire dagli anni settanta del Quattrocento, e come dovettero essere conosciuti anche da Raffaello e dalla sua équipe (tra cui Polidoro e Baldassarre Peruzzi, cfr. infra, nota 58) impegnata nel cantiere delle Logge, dove appunto due dei pilastri contemplano, all’interno della decorazione a grottesche, altrettante copie delle lesene Della Valle (cfr. ibidem, p. 24; N. DACOS, Le Logge di Raffaello: maestro e bottega di fronte all’antico, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1986, p. 251, tav. 90, pilastro V; tav. 92, pilastro IX; tav. colore 17). 55 G. SCHÖRNER, Römische Rankenfriese. Untersuchungen zur Baudekoration der späten Republik und der frühen und mittleren Kaiserzeit in Westen des Imperium Romanum, Verlag Philpp von Zabern, Mainz am Rhein 1785, p. 173, tavole 76-77. 56 C. FRANZONI, A. TEMPESTA, Il Museo di Francesco Gualdi nella Roma del Seicento tra raccolta privata ed esibizione pubblica, in «Bollettino d’arte», 77, 1992, 73, pp. 1-42 [28-29, fig. 33]. 57 Questo portale oggi è collocato all’interno, e dà accesso al Battistero. 149 puttini, non è, a ben vedere, un tema molto frequente in questi anni. Numerosissimi, al contrario, sono i casi di ripresa in disegni, in dipinti, nelle architetture, del fregio semplice, ornato dai soli girali d’acanto.58 I più prossimi riferimenti per i puttini inseriti tra la rigogliosa verzura sarebbero quelli ricorrenti su alcune lastre frammentarie appartenenti alla decorazione del Tempio di Venere Genitrice; in particolare, il lacunare murato a Villa Medici, con il bambino dalle cui estremità si dipartono quattro girali d’acanto simmetrici, può essere stato uno dei modelli per la coppia di analoghe raffigurazioni intagliate nelle basi cubitali delle semi-colonne del portale meridionale (figg. 88-91).59 Infine, i capitelli compositi esibiti da entrambe le opere messinesi dipendono direttamente da analoghi esempi d’epoca severiana, e non a caso si propone qui il confronto con uno dei capitelli dell’Arco di Settimio Severo (figg. 92-93). Alla solerzia polidoriana nella riproposizione dei temi antichi nella fase ideativa e progettuale corrisponde una cura, una politezza dell’intaglio scultoreo che, a quelle date, rende piuttosto difficile la determinazione dell’esecutore materiale delle due porte. Se infatti, come credo, l’epoca cui far risalire l’erezione di queste opere non deve discostarsi molto dagli anni in cui il Caldara disegnò e dipinse i finti archi onorari per Carlo V; e se l’impressione scaturita dall’osservazione dei portali è quella di un lavoro che non superi di molto gli anni trenta, allora sono veramente poche le opzioni possibili per l’individuazione del probabile maestro cui Polidoro dovette affidare la traduzione in marmo delle sue idee. La Messina del quarto decennio del Cinquecento vide all’opera soltanto tre scultori di spicco (tra quelli cui può oggi associarsi un numero relativamente cospicuo di carte d’archivio): i Mazzolo, padre e figlio, e Domenico Vanello, lo scultore che, come già visto, Colagiacomo d’Alibrando annoverò tra gli artefici, nel 1535, degli apparati effimeri. IV.2.1 Domenico Vanello da Torano: dall’attività carrarese con Bartolomé Ordoñez al definitivo trasferimento nella città peloritana. 58 Giusto per rimanere nell’ambito della bottega raffaellesca al tempo delle Logge, e per limitarci al solo campo dell’architettura, ricordo che il motivo del fregio con girali d’acanto ricorre nella trabeazione del portale della chiesa bolognese di San Michele in Bosco, attribuito a Baldassarre Peruzzi sul finire degli anni venti. Per un’ampia panoramica sui fregi animati dell’antichità, cfr. l’indispensabile J.M.C. TOYNBEE, J.B. WARD PERKINS, Peopled Scrolls: a Hellenistic Motif in Imperial Art, in “Papers of the British School at Rome”, 18, 1950, pp. 1-43. 59 C. GASPARRI, in Villa Médicis cit., pp. 115 n. 269.1, 410 n. 83. 150 Il Vanello, originario di Carrara (come si evince dal cognome, ricorrente in Lunigiana), esponente di una famiglia di scalpellini da generazioni,60 è documentato nella città dello Stretto a partire dal febbraio del 1533, epoca in cui egli ricevette ben centocinquanta ducati d’oro da Giovambattista Mazzolo per la consegna a questi di «tantam quantitatem lapidum marmorie» da destinare al convento di San Francesco e alla Cattedrale.61 A Monica de Marco spetta il merito di aver gettato un po’ di luce, grazie alla collazione di alcune carte d’archivio note da tempo, sugli anni vissuti da questo maestro in patria, quando cioè egli figurava a Carrara tra gli aiuti di Bartolomé Ordoñez sul 1519-20, assieme a Girolamo Santacroce, Giovan Giacomo da Brescia, Raffaello da Montelupo ed altri.62 La mancanza di qualsiasi riferimento anagrafico non ci aiuta nella determinazione, anche approssimativa, dell’anno di nascita di Domenico. Dal Quinterno del Duomo di Messina risalente agli anni 1550-51 si deduce che a quella data egli era già morto;63 sappiamo altresì che, nella propria città d’origine, a quasi due anni dalla morte dell’Ordoñez (1522), egli mostrò tutta la sua caparbietà nell’ottenere i compensi arretrati per il lavoro di già svolto nel cantiere dello spagnolo.64 Da ciò potremmo forse desumere che egli avesse non soltanto compiuto la maggiore età, giuridicamente necessaria alla rivendicazione dei crediti, ma anche raggiunto una certa considerazione all’interno della bottega, se egli fece la sua comparsa, alla pari, assieme al Santacroce e a Giovan Giacomo da Brescia, nel rogito del ’22 stipulato proprio al fine di recuperare il dovuto. Fa bene la De Marco a dedicare spazio e attenzione alla figura del carrarese, e a sostenere che il suo apporto allo sviluppo dell’arte scultorea peloritana della prima metà del Cinquecento è stato ingiustamente trascurato dalla storiografia specialistica: il problema è che, a dispetto di un numero neppure così esiguo di 60 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, pp. 67-70, 766-767. Secondo l’erudito palermitano, Domenico era figlio di Antonio Vanello «de Carrara», ampiamente documentato a Palermo dal 1475 al 1514 (per questo scultore, cfr. qui il Capitolo I). Ma in uno strumento notarile reso noto da C. RAPETTI, Storie di marmo. Sculture del Rinascimento tra Liguria e Toscana, Electa, Milano 1998, p. 66 nota 125, si menziona Francesco “del fu Jacopo Vanelli di Torano”, fratello di Domenico Vanello. Se i due erano fratelli, e se il Domenico qui citato corrisponde allo scultore successivamente trasferitosi a Messina, dobbiamo allora credere che egli fosse figlio di un Jacopo e non dell’Antonio attestato a Palermo. 61 Ibidem, I, p. 757. 62 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 61-70. 63 D. PUZZOLO SIGILLO, Il pergamo del Duomo di Messina ha ritrovato il suo autore, in «Gazzetta della Sicilia e delle Calabrie», 5 agosto 1932, p. 3, riporta un’annotazione, contenuta nel Quinterno, relativa all’assunzione dell’incarico di capomastro scalpellino del Duomo da parte del Montorsoli proprio a causa della morte del Vanello: «capo mastro di li mazuni… chi è ogi lo magnifico Johanni Angilo Montursulo electo per la morti di Dominico Vanello». 64 P. ANDREI, Sopra Domenico Fancelli fiorentino e Bartolomeo Ordognes spagnolo e sopra altri artisti loro contemporanei che nel principio del secolo decimo sesto coltivarono e propagarono in Ispagna le Arti Belle Italiane. Memorie estratte da documenti inediti, Frediani, Massa 1871, pp. 7980 (per il primo dei solleciti di pagamento, datato 22 settembre 1522); G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori cit., p. 324, e R. NALDI, Girolamo Santacroce, Electa Napoli, Napoli 1997, pp. 19, 50 n. 120, 195 doc. 1 (per il successivo, dell’ottobre dello stesso anno). 151 attestazioni documentarie che lo riguardano,65 sembra non essere rimasto, al momento, alcun manufatto che gli si possa ascrivere con una certa sicurezza. Anche il tentativo, comunque meritorio, compiuto dalla studiosa di ricostruire un probabile corpus delle opere vanelliane lascia un po’ perplessi. E ciò non tanto per la scelta dei singoli lavori da lei ricondotti a Domenico, quanto per la scarsa correlazione che in particolare uno di essi palesa con gli altri. Si tratta delle due custodie eucaristiche conservate a Castanea delle Furìe (ME, datata 1546, fig. 94) nella chiesa di San Giovanni Battista, e a Seminara (RC, fig. 95) all’interno della chiesa di San Marco;66 dei portali laterali del Duomo messinese, ed infine di una Madonna col Bambino, datata nello scannello 1547, e collocata nella chiesa di San Giorgio a Sinopoli Inferiore (RC, fig. 103).67 Delle due, l’una: posto che ci si muove sempre nel campo delle congetture (visto che nessuno di questi marmi trova al momento riscontro in opere vanelliane in qualche modo attestate), al carrarese possono essere ascritti o i tabernacoli e i portali, tra i quali in effetti ricorrono alcune affinità, o la Vergine di Sinopoli. Mentre tra la sodezza e la cura nell’intaglio dei puttini della porta settentrionale e quelli scolpiti nella coppia di edicole gemelle si avverte una certa familiarità (figg. 98-100), la statua calabrese sembra appartenere ad un’altra cultura, diversa da quella circolante a Messina in questi anni, e vicina, al contrario, alla temperie figurativa partenopea strettamente legata all’ambito di Giovanni da Nola.68 IV.2.2 Un inizio per Domenico Vanello: la Madonna col Bambino di Castanea delle Furìe. 65 In totale una decina (cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 132-133). Ibidem, pp. 236-239, figg. 57-58, 192-193, 196. 67 Ibidem, pp. 240-241, figg. 197-202. 68 L’accostamento alla cultura partenopea della Madonna di Sinopoli è stato d’altronde rilevato dalla stessa De Marco, la quale lo ha interpretato come una prova della particolare vicinanza, da un punto di vista formale, del carrarese all’ambiente napoletano. La studiosa ha infatti collegato la tipologia delle due edicole eucaristiche da lei ricondotte al Vanello all’Altare Cesarini nel Duomo di Nola, eseguito appunto da Giovanni da Nola sul 1523. Ma questa lettura della personalità prima ancora che dell’opera vanelliana necessiterebbe, a mio avviso, di qualche argomento più forte di una semplice derivazione tipologica. D’altronde, se veramente Domenico avesse stretto un qualsiasi legame con i protagonisti della statuaria napoletana di primo Cinquecento, non si capisce perché il retaggio di tale legame dovette presentarsi nella sola Madonna di Sinopoli e non negli altri manufatti che la studiosa pure gli ascrive. 66 152 È arrivato dunque il momento di presentare, con tutte le cautele del caso, l’opera che un’annotazione, lasciata a margine del testo di Antonio Ciraolo sulle chiese di Castanea delle Furìe, legherebbe al nome del Vanello.69 Tale appunto manoscritto fu vergato a matita (forse da Domenico Puzzolo Sigillo) nel passo in cui il Ciraolo registrò l’esistenza, all’interno della chiesa dedicata a Santa Maria della Portella a Castanea, di una statua raffigurante la Madonna col Bambino; esso riporta le seguenti parole: «commissionata a m.ro Dominico Vanello il 12.9. I. ind. 1542 con atto in N. Bartolomeo d’Angelo e consegnata addì 1.8.1544». Verificare la bontà di questa nota oggi risulta impossibile, per due ragioni: in primis perché il presunto rogito cui essa rimanda non esiste più, distrutto, come tanti altri, dalla furia delle fiamme che colpì l’Archivio di Stato di Messina durante i bombardamenti del secondo conflitto bellico; ma anche perché, qualora si volesse dar credito a chi ha riconosciuto, in quell’annotazione, la calligrafia del Puzzolo Sigillo,70 non bisogna trascurare che lo stesso Puzzolo non riportò più quell’appunto nei suoi scritti successivi, e che l’atto notarile al quale esso fa riferimento non fu mai trascritto per esteso. Nella generale labilità delle informazioni sopra riportate, l’unica certezza affonda nell’esistenza, nel casale settentrionale di Messina, di una Madonna col Bambino che, pur oggi ospitata nella Matrice (fig. 98), proviene dalla diruta chiesetta “della Portella”, sita nell’omonima località al di fuori dell’abitato.71 Non volendo, e non potendo, basarmi esclusivamente sulla nota del presunto Puzzolo Sigillo ai fini dell’attribuzione a Domenico Vanello di questa scultura (sebbene io stessa non ritenga ragionevole trascurare totalmente questa pur debole traccia), azzardo comunque un tentativo, che non pretende affatto di essere pacificatorio né definitivo, di risoluzione del problema. La Vergine qui presentata costituisce, a mia scienza, un unicum, una sorta di opera fuori contesto, se si guarda al panorama della produzione scultorea del Cinquecento nell’intera Sicilia orientale e anche in parte del territorio occidentale.72 69 A. CIRAOLO, Cenni storici sulle chiese di Castanea dalla fondazione della parrocchia di San Giovanni – 1500, ad oggi – novembre 1908, Premiata Officina Grafica Gaspare Astesano, Chieri (Torino) 1917, p. 32. Cfr. la scheda n. 4. Il testo di Ciraolo è oggi custodito nell’Archivio di Stato di Messina. 70 G. GIORGIANNI, La chiesa di S. Maria di Portella, in «Archivio Storico Messinese», XLI, 50, 1987, pp. 77-122. 71 Ibidem, pp. 116-117. Lo stato di conservazione della statua non è dei migliori: essa è da tempo priva della testa (custodita a casa di uno dei parrocchiani), e non è esposta al pubblico, ma gelosamente custodita alle spalle dell’altare maggiore del principale edificio di culto del piccolo borgo. 72 L’opera non è propriamente inedita, poiché è stata segnalata più volte (L. PRINCIPATO, Castanea nelle sue vicende storico-religiose, Scuola Tip. Antoniana, Messina 1939, p. 87; T. PUGLIATTI, Arte e storia nella provincia di Messina. Prima parte, Tipografia Samperi, Messina 1986, p. 56; G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle chiese dei casali di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1992, p. 445). Inedita è la proposta della responsabilità vanelliana, che qui si avanza per la prima volta. 153 Forse ciò non è sufficiente ad assumere tale considerazione come un argomento a favore dell’ascrizione di questo marmo ad un maestro ancora così oscuro come il Vanello. Tuttavia, il panneggio della Madonna, contraddistinto da quei modi così affilati e ricadenti ai piedi con quelle pieghe che sembrano accartocciarsi l’una sull’altra, mi sembra vicino a quello dei Santi Pietro e Paolo accolti nelle nicchie laterali del tabernacolo custodito sempre nel piccolo borgo nei pressi di Messina (figg. 96-97). Nel Bambino sembra invece presentarsi la medesima tipologia dei puttini intagliati nel portale settentrionale del Duomo, sebbene salti agli occhi che questi ultimi esibiscono un maggior grado di finitezza, caratterizzandosi dunque per una tenuta stilistica ben più alta di quella della figura di Castanea (figg. 97-100). Quest’ultimo, ennesimo, riferimento alle porte della Cattedrale peloritana non è affatto casuale: la diatriba sul loro probabile esecutore non soltanto è ancora aperta, ma si è anche arricchita, proprio negli ultimi anni, di due nuovi e diversi contributi. Il primo, in ordine di tempo, è quello di Alessandra Migliorato, che nel 2002, e poi ancora nel 2010, ha proposto di legare alle due imprese scultoree il nome di Giovandomenico Mazzolo.73 Nel secondo, un piccolo intervento di Caterina di Giacomo dato alle stampe a seguito del restauro del portale meridionale condotto proprio sotto la sua guida, è stata avanzata molto cautamente l’ascrizione a Rinaldo Bonanno.74 Purtroppo quest’ultima ipotesi non può essere accolta, e non soltanto a causa dell’evidente anacronismo (il Bonanno nacque intorno al 1545, vale a dire quando entrambe le opere dovevano essere state collocate già da un pezzo), ma anche per l’assoluta divergenza stilistica tra Rinaldo e l’artefice dei due lavori.75 La proposta della Migliorato merita invece una più ampia riflessione, sebbene in questa sede non si accettino gli argomenti da lei avanzati a favore della responsabilità mazzoliana. Ella ha fondato la propria tesi attributiva sul confronto con le due analoghe imprese compiute da Giovandomenico per il Duomo di Catania (figg. 46, 106). «Innanzitutto», ha sostenuto la studiosa, «vi è un’affinità fondamentale dal punto di vista dell’impianto e della concezione architettonica: simile è, inoltre, il ritmo decorativo che restituisce l’effetto di un movimento rapido e scattante, un insieme fluido, in cui tutto si fonde senza soluzione di continuità. 73 A. MIGLIORATO, Giandomenico Mazzolo cit., pp. 9-23 [17-22]; EADEM, Una maniera molto graziosa cit., pp. 98-103, figg. 27-28. 74 C. DI GIACOMO, I restaurati portali di Polidoro Caldara da Caravaggio nel Duomo di Messina: appunti dal cantiere, in Interventi sulla Questione Meridionale, Centro Studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale “Giovanni Previtali”, a cura di F. ABBATE, Donzelli Editore, Roma 2005, pp. 85-88. 75 Non regge il confronto, proposto dalla studiosa, tra i puttini della porta nord e i due angeli reggiface murati nel cappellone sinistro del Duomo, unici frammenti del monumento funebre che Rinaldo eseguì negli anni ottanta per l’arcivescovo Retana. L’attribuzione al Bonanno aveva trovato un sostenitore in Stefano Bottari già nel 1929 (IDEM, Il Duomo di Messina, Editrice “La Sicilia”, Messina 1929, p. 18). 154 Infine i putti, con il loro modellato sodo e compatto, si possono appropriatamente accostare a quelli del portale esterno della Cattedrale catanese e, estendendo i confronti, non si potrà non notare l’affinità con il Bambino della Madonna di Petilia».76 Credo che questo passo della Migliorato esemplifichi bene una delle situazioni in cui spesso gli storici dell’arte s’imbattono, vale a dire quella di una stretta analogia tipologica tra opere differenti dal punto di vista dello stile. Ebbene, in questo caso il giudizio della studiosa viene annebbiato dalla forza paradigmatica della “tipologia”, e fa di questa un tutt’uno con la forma, a scapito ovviamente di quest’ultima. È evidente che il portale esterno catanese deriva “tipologicamente” dai due messinesi, e specie da quello settentrionale in relazione al fregio figurato (fig. 86), ma ai miei occhi è proprio l’affinità tipologica a rendermi convinta dell’assoluta divergenza stilistica. Mentre le porte peloritane, nella grazia un po’ stentata dei puttini, nell’attenzione alla rifinitura dei dettagli anche più minuti, ottenuti attraverso un sapiente uso del trapano che scava il marmo restituendoci un ben dosato rapporto chiaroscurale, ci dà l’idea di un maestro ancora pienamente inserito nella fase del Rinascimento maturo (fig. 104); l’impresa etnea, con il carattere più corsivo e sintetico dell’intaglio, con le anatomie accentuate dei puttini, divenuti tanti piccoli ercolini che con una certa impertinenza guardano dall’alto i frequentatori della maggiore chiesa cittadina, è la creazione di un artista che si palesa oramai da tempo partecipe della nuova temperie manieristica, che scardina gli equilibri interni ed esterni alle figure (fig. 105). 76 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 101. 155 IV.3 SCHEDE 156 1. Giovandomenico Mazzolo (Messina, 1510 circa – 1577 circa) Madonna di Loreto Fine degli anni cinquanta del Cinquecento Marmo Altezza 152 cm Pezzolo, chiesa di San Nicola Questa poco tradizionale immagine marmorea, grande quasi al vero, della Vergine di Loreto seduta, con fare un po’ sbarazzino, sulla Casa Santa, anch’essa scolpita nel marmo (fig. 26), può ascriversi all’operato di Giovandomenico Mazzolo, figlio del carrarese Giovambattista e attivo a Messina sino alla fine dell’ottavo decennio del Cinquecento. Conservata nella parrocchiale di Pezzolo, uno dei casali meridionali della città dello Stretto, l’inedita statua dovette trovarsi in origine nell’omonima chiesa, sita a pochi passi dalla Matrice e irreparabilmente danneggiata dal sisma del 1908.77 La scultura si presta ad efficaci confronti con un’altra figura mariana eseguita dal Mazzolo junior, vale a dire la Madonna col Bambino (documentata) collocata a Petilia Policastro (KR, 1554, fig. 11) nel Santuario della Sacra Spina e datata nello scannello 1554.78 Tralasciando le differenze iconografiche esistenti tra le due opere, l’occhio si sofferma sui molteplici elementi comuni, quali la tipologia dei volti, l’ampia e rilevata arcata sopraccigliare, gli occhi piccoli con la sclerotica incisa, la bocca minuta leggermente dischiusa, e i capelli, dalle lunghe e ondulate 77 Il ricovero della statua nella parrocchiale dovette dunque avvenire in un’epoca successiva al terremoto. Di tale trasferimento però non vi è traccia alcuna, pertanto la mia è una semplice deduzione, che tuttavia troverebbe un argomento a favore nella testimonianza autoptica dell’erudito messinese Gaetano La Corte Cailler. Dopo aver visitato il piccolo borgo all’alba del XX secolo, lo studioso menzionò le opere d’arte degne di particolare riguardo viste personalmente nella Chiesa Matrice: tra queste egli descrisse puntualmente l’altare maggiore, con il grande ciborio marmoreo, e il bel portale d’inizio Cinquecento. Nessun riferimento invece alla Vergine di Loreto, che avrebbe certo destato l’attenzione dell’attento e curioso appassionato d’arte (cfr. IDEM, Il mio diario (1893-1918), 3 voll., a cura di G. MOLONIA, Istituto di Studi Storici “Gaetano Salvemini”, Edizioni GBM, Messina 1998, I, p. 188). Un cenno dell’esistenza della scultura si trova in G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle chiese dei casali di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1992, pp. 7173 (senza foto). Di recente, essa è stata pubblicata con un’imbarazzante attribuzione ad Antonello Gagini da V. BUDA, Scultura e intaglio, in I tesori di Giampilieri. La chiesa madre di San Nicola e il patrimonio figurativo del territorio, a cura di L. GIACOBBE, Di Nicolò Edizioni, Messina 2011, p. 143, fig. 8. 78 Per quest’opera, cfr. E. MAUCERI, Nuove notizie intorno alla pittura e scultura del Rinascimento in Messina, Tip. Guerriera, Messina 1920, pp. 45-46; F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-39. 157 ciocche che si dipartono esattamente dal centro del capo (figg. 27, 29). Ma ciò che risalta con maggior evidenza, e che, a mio avviso, rafforza l’accostamento tra i due manufatti, è la loro postura, dinamica e un po’ scomposta, che caratterizza quasi tutte le figure di Giovandomenico. Se nel gruppo della Vergine calabrese, oltre al contrapposto e al leggero sbilanciamento all’indietro, è il Bambino, irrequieto e disarticolato, a connotarsi maggiormente;79 l’opera siciliana si contraddistingue per la naturalezza e l’arditezza della posa della Madonna, che, come colta di sorpresa, si offre allo sguardo dello spettatore seduta sulla Casa Santa con i piedi diversamente disposti, l’uno, ritratto, poggiato sul tetto, e l’altro disteso nel vuoto. Rispetto alla scultura di Petilia Policastro, questa di Pezzolo si presenta, nella rifinitura di alcuni dettagli, più approssimativa, palesando dunque una più accentuata rapidità d’esecuzione da parte dello scultore. Ciò è particolarmente evidente nel Bambino, dall’esile e incerta silhouette in più punti rimasta allo stato di semplice sbozzatura, che emerge specialmente dalla veduta laterale destra (fig. 34); sia nella Vergine, specie nella parte sommitale tra le orecchie e le ciocche dei capelli, scarsamente definite. 79 Sull’imbarazzante anticipo (di ben quarant’anni) della datazione del marmo di Petilia Policastro ad opera di Alessandra Migliorato (Giandomenico Mazzolo: ipotesi per un percorso, in Miscellanea di studi e ricerche, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 12, 2002, pp. 9-23 [14-17]), una volta per tutte affrontato e risolto da Francesco Caglioti, nonché per le numerose notizie relative al committente, il consultore del Viceré e protettore del Real Patrimonio Andrea Arduini, cfr. IDEM, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, Ivi, 13, 2003, pp. 37-59 [38-39). 158 2. Giovandomenico Mazzolo (Messina, 1510 circa – 1577 circa) Vergine Annunciata Fine degli anni cinquanta del Cinquecento Marmo Altezza 158 cm Frazzanò (ME), Chiesa Madre Benché in anni piuttosto recenti si siano succedute tre voci bibliografiche che ne hanno specificamente fatto menzione,80 di questa bella scultura ancora oggi svettante sull’altare maggiore della Chiesa Matrice di Frazzanò (piccolo borgo sito nel territorio dei Monti Nebrodi), non si è offerta alcuna analisi stilistica né alcuna riproduzione fotografica (fig. 31).81 Nell’opera, che si presenta in buono stato di 80 T. PUGLIATTI, I santi della montagna. Statue e strutture lignee della Sicilia Orientale, tra i monti Nebrodi e Peloritani), pp. 118-119, in Splendori di Sicilia, a cura di M.C. DI NATALE, Charta, Milano 2001; EADEM, Culture antiche e stile locale. Alcuni esempi di statuaria lignea siciliana del XVI e XVII secolo, in L’arte del legno in Italia, atti del convegno, Pergola, 9-12 maggio 2002, a cura di G.B. FIDANZA, Quattroemme, Perugia 2005, pp. 251-252; F. NEGRI ARNOLDI, Antonello Gagini. La Vergine Annunziata, in Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, pp. 50-51. 81 All’interno della medesima fabbrica religiosa, entro un armadio che ne impedisce la vista ai fedeli e agli studiosi, si custodisce una bella Annunciata lignea (la Chiesa Madre di Frazzanò è appunto dedicata all’Annunziata, fig. 42). Quest’opera, che Francesco Negri Arnoldi attribuì ad Antonello Gagini, entro l’attività del quale egli la considerò una delle migliori creazioni (nonché «l’unica statua lignea della sua produzione», cfr. ibidem, p. 50), è un documentato lavoro di una buona bottega d’intagliatori in legno attivi nella seconda metà del Seicento. Tale novità è emersa di recente grazie a Giampaolo Chillè (cfr. IDEM, Culture e sculture di legno nel messinese tra Rinascimento e tardo Barocco, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. PUGLIATTI, S. RIZZO, P. RUSSO, Maimone, Catania 2012, pp. 325-351 [333]), il quale ha rintracciato uno scritto ottocentesco non solo menzionante la statua ma anche la data d’esecuzione (1703) ed il nome dell’autore, vale a dire Sebastiano Leone (16301710). Osservando con attenzione le due Annunciate, quella lignea e quella marmorea qui ricondotta a Giovandomenico Mazzolo, non può sfuggire la comunanza delle loro linee compositive, al punto che esse giungono quasi a sovrapporsi, come accade, in particolare, nella soluzione a doppia e larga falda adottata per i mantelli, e, sempre in questi ultimi, nell’accartocciarsi dei rispettivi bordi destri culminanti in morbide pieghe ondulate. La somiglianza tra le due rappresentazioni mariane, che deve verosimilmente spiegarsi con la richiesta dei committenti al Leone di replicare, in legno, l’esemplare mazzoliano in marmo (forse per esigenze devozionali), è stata letteralmente invertita nell’interpretazione del Negri Arnoldi. Lo studioso, infatti, convinto che la Vergine oggi assicurata al Leone precedesse la sua “gemella” marmorea, considerava quest’ultima come «un tentativo, per la verità assai goffo» di replica dell’Annunciata di legno, per lui gaginiana. A tale riflessione il Negri Arnoldi fu forse indotto dalla tesi precedentemente sostenuta da Teresa Pugliatti, la quale pensava che la Madonna lapidea avesse sostituito il manufatto ligneo (sul cui artefice ella non si era espressa: cfr. EADEM, I santi della montagna cit., pp. 118-119; EADEM, Culture antiche e stile locale cit., pp. 251-252). Comunque, sia la Pugliatti che il Negri Arnoldi sono caduti nell’errore di credere che la Vergine mazzoliana fosse stata compiuta da Giuseppe Gagini, il quale, secondo loro, vi avrebbe apposto la propria 159 conservazione e ricoperta in larga parte dalla coloritura originaria, si riconosce, con una certa agilità, uno dei fortunati modelli elaborati da Antonello Gagini nei primi decenni del Cinquecento. L’ampio mantello che avvolge il corpo dell’Annunciata che si appoggia sulle ginocchia, aderendovi con i due larghi e morbidi lembi laterali, costituisce uno degli stilemi tipici del maestro siciliano, da questi espresso specialmente nelle statue di Sante Vergini e Martiri compiute lungo il corso della sua carriera. Basti osservare le Sante Maria Maddalena di Buccheri (SR, 1507-08) e di Alcamo (TP, 1520), la Oliva, anch’essa ad Alcamo (1511), la Margherita di Cleveland (1525), o ancora la Santa Lucia di Siracusa (Duomo, 1527), per comprendere quanto stretto e puntuale sia il riferimento alle creazioni gaginiane.82 Eppure, se le Sante di Antonello, per la solidità d’impianto e l’equilibrio della composizione, per l’eleganza e la grazia delle movenze, palesano la loro appartenenza alla fase matura della Rinascenza, l’Annunciata di Frazzanò manifesta in maniera ancora più evidente la sua natura di tarda e fedele replica di quegli insuperabili esemplari. La Vergine, infatti, si differenzia da questi ultimi per il baricentro non pienamente allineato, con il conseguente, pur lieve, spostamento dell’asse della figura verso la sinistra del riguardante; per il leggero avanzare della gamba sinistra, il cui ginocchio si flette, delineando un movimento percepibile anche al di sotto delle vesti; infine, per il capo visibilmente declinante a destra, contraddistinto dal volto dall’espressione più devota e pietosa. Si tratta di elementi che inducono ad inquadrare questo marmo in un’epoca posteriore a quella antonelliana, vale a dire nell’ambito figurativo della Maniera, e nello specifico entro i modi in cui essa fu interpretata da uno dei protagonisti dell’arte scultorea messinese attivi a cavallo della metà del XVI secolo. Mi riferisco a Giovandomenico Mazzolo, figlio del carrarese Giovambattista trasferitosi in città e ivi documentato dal 1512.83 Non mancano, nel catalogo di questo autore, manufatti analoghi alla Vergine di Frazzanò, e che ad esso si possono accostare con una certa agilità: tra questi, si ricordano quelli conservati a Petilia Policastro (KR, 1554, fig. 11),84 a San Pier firma e la data (1575). Poiché sulla Vergine di Giovandomenico non compare alcuna firma né tantomeno alcuna indicazione cronologica, temo che i due studiosi si confondano con una Madonna col Bambino custodita a pochi chilometri da Frazzanò nella chiesa francescana di Mirto (Santa Maria di Gesù, figg. 43-45), firmata e datata appunto da Giuseppe Gagini (1578, però, non 1575). 82 Per tutte queste sculture, si rimanda alle riproduzioni fotografiche pubblicate in H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980. 83 Per il Mazzolo senior, cfr. qui il Capitolo III. 84 Per quest’opera, cfr. E. MAUCERI, Nuove notizie intorno alla pittura e scultura del Rinascimento in Messina, Tip. Guerriera, Messina 1920, pp. 45-46; F. CAGLIOTI, Due opere di Giovambattista Mazzolo nel Museo Regionale di Messina (ed una d’Antonello Freri a Montebello Jonico), in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 37-39. 160 Niceto (ME, fig. 32)85 e a Pezzolo (ME, fig. 26),86 ai quali si aggiunge la Santa Lucia eseguita per Castroreale (ME, 1546, fig. 1).87 Con tutte queste raffigurazioni, l’opera qui presentata condivide le tipologie dei volti, piegati sul lato e sempre tendenti a toni particolarmente espressivi (figg. 27-30), le ampie arcate sopracciliari confluenti in nasi pronunciati; le panneggiature ampie e distese; infine, quel generale accento tra il contrito e il compassionevole assunto da ognuna di loro. Un ultimo, ma probante dettaglio emerge negli scannelli di Frazzanò e di San Pier Niceto (figg. 36-39), popolati da figure smilze e allungate dai tratti ben distinti, e molto diversi dagli analoghi personaggi scolpiti in anni vicini dai tardi epigoni gaginiani (Mirto, 1578, figg. 44-45). La ripresa tipologica dei prototipi di Antonello Gagini, qui così lampante, benché sorprendente al pensiero di una tale distanza temporale, ciò nondimeno rientra pienamente nelle dinamiche e nella prassi della committenza siciliana, spesso legata a modelli di successo, se pur vetusti. Anche in questo caso, non è da escludere che la scelta di Giovandomenico della riproposizione dell’archetipo antonelliano non sia stata dettata dalla propria autonoma volontà, ma sia stata direttamente orientata dai committenti. 85 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 103-104. 86 Cfr. la scheda n. 1. 87 L’attribuzione di questo marmo a Giovandomenico si deve ad A. BILARDO, Le opere di Antonello Gagini a Castroreale, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 75-88 [84]. 161 3. Giovandomenico Mazzolo (Messina, 1510 circa – 1577 circa) San Sebastiano Anni sessanta del Cinquecento Marmo Altezza 174 cm, scannello 23 cm Raccuia, Chiesa Madre Da quando, nel 1965, Maria Accascina attribuì per prima questo San Sebastiano a Rinaldo Bonanno, tale proposta ha ottenuto, nel corso del tempo, sempre maggior credito, riservando dunque al marmo un posto di rilievo nel catalogo di quell’artista (fig. 47).88 La studiosa, nel pubblicare l’opera, corredandola anche di una piccola fotografia, sebbene ne abbia fornito una rapida lettura formale, che la inquadrava correttamente entro l’alveo della cultura manieristica, tuttavia non operò alcun confronto stilistico “interno” al corpus bonanniano. Eppure, soltanto cinque anni prima Benedetta Saccone aveva condotto il primo, embrionale studio sulla figura di questo autorevole maestro dell’intaglio marmoreo, ricostruendone il catalogo usando quale imprescindibile punto d’appoggio la cospicua documentazione d’archivio scampata alla distruzione.89 Ciò nondimeno, la Accascina non perse l’occasione, nella medesima circostanza, di confermare l’ancora “fresca” attribuzione al Bonanno di un’altra scultura, di identico soggetto, custodita ad Alì Superiore (ME).90 Dunque non uno, ma ben due erano i manufatti “inediti” aggiunti dalla studiosa al catalogo di Rinaldo: entrambi strettamente connessi tra di loro non soltanto per via della comunanza tipologica, ma anche perché, secondo la Accascina, nel più piccolo Santo di Alì ella riconosceva una «piccola copia o un bozzetto compiuto in preparazione della grande opera».91 La mancanza di accostamenti formali, che tenessero conto del reale “punto di stile” del Santo di Raccuia, benché costante in tutti i successivi interventi, più o meno estesi, sul Bonanno, ha caratterizzato con ancora maggior sorpresa un contributo di Alessandra Migliorato (2003) specificamente dedicato all’artista siciliano. Anche in questo caso, infatti, la studiosa non ha avvertito l’esigenza di 88 M. ACCASCINA, Tre inediti di Rinaldo Bonanno, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», XLVIII-XLIX, 1965, pp. 79-83 [82, fig. 2]. 89 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180. 90 L’attribuzione del Santo di Alì è di S. BOTTARI, L’arte in Sicilia, D’Anna, Messina-Firenze 1962, p. 101. 91 M. ACCASCINA, Tre inediti cit., p. 82. 162 chiarificare, e dunque di rendere maggiormente condivisibile, l’ascrizione bonanniana di questa statua, limitandosi ad esprimerne lo scarto, nella resa stilistica, con l’omonima immagine di Alì.92 Insomma, la bella scultura raccuiese, attualmente collocata nella piccola Matrice del borgo dei Nebrodi ma proveniente, con larga probabilità, dalla poco distante chiesa dedicata al Santo, non sembrava trovare alcun manufatto stilisticamente simile all’interno del pur abbondante corpus del Bonanno.93 Tutto ciò a mio avviso non è affatto casuale, né tantomeno può dipendere solo ed esclusivamente dalla scarsa attenzione degli studi che in essa si sono imbattuti. La mia opinione è che non esistono elementi formali che accomunino il Santo martire a qualsivoglia lavoro di Rinaldo, dal momento che esso non deve ascriversi all’attività di questo artista bensì a quella di Giovandomenico Mazzolo, anch’egli attivo a Messina alla metà del Cinquecento. Giovandomenico nacque nella città dello Stretto intorno al 1510-15 dal carrarese Giovambattista, anch’egli scultore, muovendo i primi passi da lapicida nella bottega paterna, specializzata nella produzione di Madonne col Bambino destinate a numerose località siciliane e calabresi; dai modi anacronisticamente quattrocenteschi dell’attardato genitore egli mostrò di emanciparsi molto presto, specie in prove di piccolo formato, quali ad esempio le figurette intagliate nello scannello della Vergine col Bambino commissionata al padre nel 1532 per il borgo reggino di San Procopio (figg. 6-7). A dispetto del numero piuttosto cospicuo di commesse ricevute, sono soltanto due le opere che con certezza documentaria si possono attribuire al Mazzolo junior: una Madonna col Bambino eseguita nel 1554 per Petilia Policastro (KR, fig. 11), che precede cronologicamente l’erezione e la decorazione del Portale del Crocifisso all’interno della Cattedrale di Catania, prestigioso incarico assolto tra il 1561 ed il 1567 (fig. 46). Quest’ultima impresa, che ancora oggi può ammirarsi nel cappellone alla destra della tribuna della maggiore chiesa catanese, è impreziosita dalla presenza, nelle lesene, di quattordici formelle scolpite con altrettante Scene della Passione di Gesù, e di una Pietà nella lunetta che chiude il fastigio in alto 92 A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 119-134 [128-129], fig. 8: «Le opere non sono però identiche: nella statua di Raccuia vi sono infatti delle varianti che ne accentuano le tendenze dinamiche, ad esempio nella torsione del braccio destro del Santo e nella testa riversa indietro per il sopraggiungere di uno spasmo di dolore». 93 La statua di Raccuia è stata segnalata, sempre con l’attribuzione a Rinaldo Bonanno, anche da S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, p. 72; in ben altre due occasioni da A. MIGLIORATO (Aggiunte al manierismo messinese in Calabria, in «Daidalos. Periodico trimestrale dei beni e delle attività culturali della Calabria», II/1, 2002, pp. 2127 [23-24]), e in Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 344-345, figg. 17-18; infine da M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 85 e 89 n. 138. 163 (fig. 68). Pur tenendo ben presente il notevole scarto dimensionale tra la monumentalità del San Sebastiano e i piccoli personaggi che animano questi bassorilievi, sono proprio questi ultimi che, a mio avviso, squadernano una serie di inediti paralleli stilistici e tipologici con il marmo qui presentato. Tra le quattordici scene, ve ne sono almeno dieci i cui protagonisti, quelli maschili s’intende, palesano l’identico, un po’ disarticolato, impianto del Santo martire, la medesima definizione anatomica, la stessa esasperata accentuazione muscolare che caratterizza, rendendolo unico nel suo genere, il manufatto di Raccuia. Tali elementi sono particolarmente evidenti nelle scene con Cristo e i progenitori e nel Cristo davanti a Pilato (figg. 49-50), dove rispettivamente Gesù e i soldati esibiscono corpi torniti e muscolosi, con grandi ombelichi ben in vista e dalla forma perfettamente circolare, e con ventri molto pronunciati, quasi rigonfi, proprio come si vede nel San Sebastiano (fig. 54); nei bassorilievi con la Cattura, Flagellazione e l’Ecce Homo (figg. 48, 51-53), dove alla netta sottolineatura delle ossa del bacino, che anche le vesti contribuiscono ad evidenziare – come accade nella lorica del soldato per la Condanna e nel bermuda attillato indossato dai torturatori per la Flagellazione, alla stregua di quanto si nota nel perizoma della statua raccuiese (figg. 48, 51, 54) – si aggiunge la puntuale marcatura delle costole e delle braccia presente nei protagonisti delle formelle di Catania, nitidamente accostabili al fisico da culturista del San Sebastiano. Con quest’ultimo, poi, sia gli armigeri loricati della Cattura che i torturatori della Flazgellazione condividono i grossi polpacci da ginnasta solcati da profonde linee di contorno (figg. 52-54). Osservando il Cristo morto che Giovandomenico scolpì nel fastigio lunettato, si nota inoltre che l’estrema precisione con cui l’artista definisce le linee anatomiche all’altezza del torace, facendo emergere le forme costola per costola e persino l’arcata della cassa toracica, si ritrova identica nel San Sebastiano, benché in dimensioni monumentali (figg. 55-56). Ulteriore caratteristica delle creazioni di questa fase dell’attività di Giovandomenico, condivisa anche dal marmo di Raccuia, è la presenza di forti trapassi chiaroscurali che segnano le figure: la luce, nell’attraversarle, solca i numerosi incavi generati dalla prominente muscolatura, determinando così effetti talora molto contrastanti.94 94 Nelle scene nello scannello, raffiguranti al centro il Santo davanti all’imperatore e ai lati due momenti del Martirio (figg. 66-67), non riesco a scorgere l’intervento di Giovandomenico: i personaggi non presentano quelle caratteristiche, sinora discusse, tipiche del suo stile, e non è un caso che essi non mostrino alcuna affinità con gli analoghi basamenti scolpiti dal Mazzolo junior, quali ad esempio quelli su cui poggiano le Madonne di San Procopio (RC, 1532, fig. 6-7), di Tresilico di Oppido Mamertina (RC, terzo-quarto decennio del Cinquecento, fig. 41) e di Motta San Giovanni (RC, fine terzo decennio, fig. 40). Benché queste tre immagini mariane siano state compiute da Giovambattista, le palesi difformità stilistiche con le scenette delle basi inducono a credere che in queste ultime sia subentrato il figlio. A mio avviso, anzi, è proprio in queste figurette che si possono scorgere le primissime prove del giovane Mazzolo, all’epoca poco più che ventenne. È inoltre interessante rilevare che la scena in cui i due soldati da distanza molto 164 Cercando, invece, tra le opere attribuite, risalta con evidenza come il Bambino tenuto in braccio dalla Madonna custodita nella Chiesa Madre di San Pier Niceto (ME, figg. 64-65) presenti delle ciocche piccole e definite, con virgolettature ben incise, simili a quelle della scultura di cui qui si discute;95 e come l’atteggiamento, un po’ pietoso, di quest’ultima, esibito nel volto, dalla bocca dischiusa e dalle sopracciglia aggrottate a causa del dolore, corrisponda in pieno a quello dei personaggi che compaiono nella lunetta con la Pietà di Cetraro (CS, 1533, fig. 57),96 commissionato al Mazzolo senior che per l’occasione affidò al figlio la realizzazione di alcune parti dell’imponente pala d’altare. ravvicinata colpiscono a morte il Santo (fig. 67) è un diretto ricordo della formella bronzea di Donatello (1460 circa) oggi esposta al Musée Jacquemart-André di Parigi. 95 L’attribuzione della statua di San Pier Niceto a Giovandomenico si deve ad A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 103 fig. 30. 96 Ha individuato l’intervento di Giovandomenico nella Pietà e negli Angeli reggicorona nei clipei soprastanti le figure dei Santi laterali M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 56-57, figg. 37-39. 165 4. Domenico Vanello (notizie dal 1522 al 1550 circa) Madonna col Bambino (“Madonna della Portella”) 1544 Marmo Altezza 92 cm Castanea delle Furìe (ME), chiesa del Rosario Un’importante notizia relativa a questa scultura si trova in una copia, custodita nell’Archivio di Stato di Messina, del volumetto sulla storia delle chiese di Castanea pubblicato nel 1917 dal frate francescano Antonio Ciraolo, in quegli anni operante proprio nel casale messinese:97 si tratta di un’annotazione vergata a matita a piè della pagina sedici di quel volume, nel passo in cui il Ciraolo segnalò l’esistenza, all’interno della chiesa della Trinità (anche detta del Rosario),98 di un’immagine marmorea della Madonna col Bambino a sua detta proveniente da un’altra fabbrica religiosa, dedicata alla “Madonna della Portella”.99 La nota manoscritta, che è stata riportata per la prima volta nel 1987 da Antonino Fazio e Giuseppe Giorgianni,100 recita così: «commissionata a m.ro Dominico Vanello il 12.9. I. ind. 1542 con atto in N. Bartolomeo d’Angelo e consegnata addì 1.8.1544 v. p. 31». La verifica calligrafica ha consentito agli autori del contributo di riconoscere nell’estensore di quell’appunto Domenico Puzzolo Sigillo, ex direttore dell’archivio peloritano, alle cui ricerche ancora oggi dobbiamo gran parte della documentazione relativa alla cultura artistica nella città dello Stretto. Poiché la verifica dei dati riportati in questa annotazione è oramai impossibile, a causa della distruzione, durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, 97 A. CIRAOLO, Cenni storici sulle chiese di Castanea dalla fondazione della parrocchia di San Giovanni – 1500 ad oggi – novembre 1908, Premiata Officina Grafica Gaspare Astesano, Chieri (Torino) 1917, p. 32. 98 L’edificio di culto, oggi intitolato alla Madonna del Rosario, è seicentesco, e la sua fondazione fu decisa nel 1628 per decreto dell’arcivescovo di Messina Biagio Proto de’ Rubeis, che ne impose l’intitolazione alla Trinità. L’iniziativa del prelato fu la conseguenza delle molteplici diatribe scoppiate, già dagli inizi del XV secolo, tra la diocesi peloritana e l’Ordine Gerosolimitano di Malta, il quale rivendicò a più riprese la giurisdizione del casale di Castanea. Come ricordato da L. PRINCIPATO (Castanea nelle sue vicende storico-religiose, Scuola Tip. Antoniana, Messina 1939, pp. 83-84), la fabbrica è ricordata per l’ultima volta con la dedica alla Trinità in un atto di battesimo datato 2 settembre 1838. Le due intitolazioni dovettero comunque convivere ancora nell’inoltrato XX secolo, se padre Ciraolo, nel segnalare la Madonna vanelliana, la ricordò nella chiesa della “Trinità”. 99 Questa chiesetta, eretta fuori dal centro abitato, all’incrocio tra Castanea e l’adiacente casale di Salice in località detta appunto “Portella”, si presenta oggi gravemente dannegiata. 100 A. FAZIO, G. GIORGIANNI, La chiesa di S. Maria di Portella, in «Archivio Storico Messinese», XLI, 50, 1987, pp. 77-122. 166 di parte del patrimonio cartaceo conservato nell’archivio, l’attribuzione di questo marmo allo scultore carrarese Domenico Vanello deve per forza di cose rientrare nel campo delle ipotesi.101 E ciò risulta ancora più valido se si considera che, allo stato attuale degli studi, non vi è alcun’opera che con certezza possa essere ricondotta a questo maestro. Eppure, la sua permanenza a Messina durò per una ventina d’anni circa, nei quali dobbiamo di certo immaginare che egli fu impegnato nella realizzazione di opere marmoree. Dal 1533, epoca cui risale la prima attestazione documentaria in nostro possesso relativa al Vanello, al 1550-51, quando una carta d’archivio fornisce la notizia della sua morte,102 la sua dovette essere una figura di riferimento nel panorama artistico cittadino. Il prete-scrittore Colagiacomo d’Alibrando, testimone oculare dell’ingresso trionfale dell’imperatore Carlo V in città avvenuto nel 1535 (al ritorno dalla presa di Tunisi), gli riconobbe il progetto della quasi totalità degli apparati effimeri eretti in quell’occasione (ben quattro dei cinque archi innalzati in prossimità delle antiche porte o delle più importanti piazze). Altri strumenti notarili, recuperati dalla furia delle fiamme delle bombe alleate da vari eruditi locali nello scorso secolo, ne hanno altresì attestato l’attività di commerciante di marmi e di capomastro scultore del Duomo.103 In effetti, nella chiesa del Rosario di Castanea è ancora oggi visibile una Madonna col Bambino i cui modi espressivi non ricordano nulla di quanto prodotto nelle tante officine scultoree attive in città nella prima metà del Cinquecento (fig. 98).104 Sembra, dunque, di trovarsi di fronte ad una sorta di opera “fuori contesto”, difficile da inquadrare entro la specifica sfera d’appartenenza di uno dei numerosi artefici operosi in quel tempo a Messina. Alla luce di tale considerazione, sapere che di Domenico non rimane alcuna testimonianza figurativa certa porterebbe acqua al mulino di chi, come la scrivente, crede nella veridicità della nota dello pseudo-Puzzolo Sigillo. Eppure, a ben guardare, sempre a Castanea, a pochi passi dalla chiesa del Rosario, si custodisce una scultura nella quale compaiono 101 Né tantomeno è stato possibile rintracciare tale notizia in qualche altro scritto del Puzzolo Sigillo, il quale non ha mai pubblicato nulla su questo scultore. 102 Si tratta di un rogito, datato 7 febbraio 1533, col quale egli registrava di aver ricevuto dallo scultore Giovambattista Mazzolo ben centocinquanta ducati d’oro in cambio di marmi destinati al convento messinese di San Francesco (cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, p. 132). La data di morte di Domenico si deduce invece da un’altra annotazione del solito Domenico Puzzolo Sigillo. Egli trasse tale notizia dal Quinterno del Duomo, relativo agli anni 155051, nel quale si faceva riferimento all’incarico di capomastro scalpellino della fabbrica, passato a Giovann’Angelo Montorsoli proprio a causa della morte del Vanello: «capo mastro di li mazuni…chi è ogi lo magnifico Johanni Angilo Montursulo electo per la morti di Dominico Vanello». L’erudito trascrisse questa breve nota ne Il pergamo del Duomo di Messina ha ritrovato il suo autore, in «Gazzetta della Sicilia e delle Calabrie», 5 agosto 1932, p. 3. 103 Cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 132-133. 104 L’opera non è propriamente inedita, poiché è stata segnalata più volte (L. PRINCIPATO, Castanea nelle sue vicende cit., p. 87; T. PUGLIATTI, Arte e storia nella provincia di Messina. Prima parte, Tipografia Samperi, Messina 1986, p. 56; G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle chiese dei casali di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1992, p. 445). Inedita è la proposta della responsabilità vanelliana che qui si avanza per la prima volta. 167 alcuni elementi formali simili a quelli espressi nella Vergine di cui qui si discute. Mi riferisco alla custodia eucaristica allogata nella chiesa di San Giovanni Battista, e risalente al 1546 (fig. 94):105 il panneggio della Madonna, contraddistinto da modi così affilati e ricadenti ai piedi con delle pieghe che sembrano accartocciarsi l’una sull’altra, rievoca da vicino quello dei Santi Pietro e Paolo accolti nelle nicchie laterali del tabernacolo (figg. 96-97). Quest’ultimo, che a seguito degli spostamenti occorsi nel tempo, dovette subire alcuni rimaneggiamenti,106 è stato di recente accolto nel catalogo vanelliano da Monica de Marco, la quale l’ha accostato ad una seconda edicola, simile a questa tipologicamente e stilisticamente, allogata a Seminara (RC, chiesa di San Marco, fig. 95). La natura un po’ indeterminata dell’intuizione della studiosa sembra trovare, proprio nell’esistenza della figura mariana di Castanea un’ulteriore, e più fondante prova dell’ascrizione al medesimo autore anche della coppia di custodie “gemelle”.107 D’altra parte, se, 105 Una visita priorale avvenuta nel 1604 segnalò l’esistenza, all’interno di questa stessa fabbrica religiosa, di un «grande tabernacolo marmoreo con accanto due angeli a rilievo, ai lati S. Pietro e S. Paolo e sopra il SS. Salvatore con due angeli, datato 1546» (cfr. L. BUONO, G. PACE GRAVINA, La Sicilia dei cavalieri: le istituzioni dell’ordine di Malta in età moderna (1530-1826), Sovrano Militare Ordine di Malta, Fondazione Donna Maria Marullo di Condojanni, Roma 2003, pp. 104-105). È indubbio che ci si riferisca alla medesima opera di cui si parla in queste pagine, e che in epoca imprecisata (forse ai primi del Novecento) fu trasferita dall’altare maggiore, sua sede originaria, alla Cappella del Sacramento allestita alla destra del presbiterio, dove si trova ancora oggi. La data, riportata dalla visita, non è più rilevabile. Stando alla descrizione effettuata in occasione della visita del Priore dell’Ordine Gerosolimitano, veniamo a sapere che all’interno dell’edificio si custodivano anche, nella navata sinistra, la statua della Madonna del Consiglio; in quella destra un’acquasantiera, infine un fonte battesimale con otto cherubini a rilievo, munito di relativo copri-fonte in legno intarsiato. Dell’immagine mariana non vi è traccia, mentre l’acquasantiera e il fonte battesimale sono ancora conservati in chiesa. 106 Tali manomissioni devono risalire al periodo immediatamente successivo al sisma del 1908: l’intera parte superiore della custodia si presenta palesemente alterata dall’inserzione della nicchia, ricoperta da marmi diversi da quelli del tabernacolo sottostante, ospitante un Gesù benedicente che non sembra pertinente all’edicola. Anche la fascia che cinge l’arco della lunetta non sembra appartenere al complesso scultoreo originario, ma risalire alla fase di ricomposizione postterremoto. 107 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera cit., pp. 236-239, fig. 192. La studiosa, che non era al corrente della notizia relativa alla Madonna di Castanea tratta dal contributo di padre Ciraolo, e che evidentemente non conosce l’opera, è giunta a ricondurre al Vanello le due custodie un po’ per esclusione, ben sapendo che a quelle date (1546) pochi erano gli artefici attivi a Messina eleggibili per l’esecuzione dei due marmi (Giovambattista Mazzolo era troppo vecchio, e lo stile del figlio Giovandomenico palesemente diverso da quello dell’autore del manufatto di Castanea, Giuseppe Bottone era ancora fanciullo, e il Montorsoli non era ancora giunto; giusto per citare gli artisti di cui conosciamo l’attività, grazie alla documentazione d’archivio). Tale considerazione non sminuisce affatto l’intuizione della De Marco, cui spetta il merito di aver per la prima volta puntato l’accento sulla personalità di questo maestro, finora ingiustamente obliterato dagli studi, a dispetto della rilevanza che la sua figura dovette assumere nel panorama artistico messinese della prima metà del XVI secolo. Tuttavia, la studiosa, a mio avviso, ha commesso un errore nel restituire a Domenico anche una Madonna col Bambino custodita a Sinopoli Inferiore (RC, chiesa di San Giorgio, 1547, fig. 103), riscontrando scarse e fin troppo labili analogie fra queste tre sculture. Al contrario, in questa sede si ritiene che la Vergine di Sinopoli palesi numerose tangenze con la coeva statuaria napoletana facente capo all’ambito di Giovanni da Nola, al cui entourage l’opera era stata in precedenza ricondotta (cfr. A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista 168 come credo, tali considerazioni sono corrette, il riconoscimento di questo piccolo ma importante nucleo di manufatti vanelliani può considerarsi un primo, iniziale passo verso la comprensione del linguaggio di quest’ennesimo protagonista dell’arte scultorea messinese del Rinascimento. Un ultimo, e prezioso confronto utile al consolidamento di tale attribuzione si trova nei puttini scolpiti sul fregio del portale settentrionale della Cattedrale peloritana, in questa sede proposti quale lavoro di Domenico sugli anni trenta del secolo (figg. 72a-73). Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 91-93; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2007, pp. 1043-1092 [nota 281 p. 1091]). Anche la De Marco, d’altronde, non ha smentito l’aura partenopea dell’immagine di Sinopoli; ciò nondimeno, ella ha concluso la sua indagine ribadendo la proposta vanelliana (Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera, pp. 240-241). 169 CAPITOLO V L’attività messinese di Giovann’Angelo Montorsoli e della sua bottega 170 V.1 L’arrivo di Giovann’Angelo Montorsoli a Messina e l’Apostolato del Duomo. «Mentre che il frate si andava trattenendo in Roma, avendo i messinesi deliberato di fare sopra la piazza del lor duomo una fonte con un ornamento grandissimo di statue, avevano mandati uomini a Roma a cercare d’avere uno eccellente scultore; i quali uomini, se bene avevano fermo Raffaello da Montelupo, perché s’infermò quando apunto volea partire con esso loro per Messina, fecero altra resoluzione e condussero il frate, che con ogni istanza e qualche mezzo cercò d’avere quel lavoro. Avendo dunque posto in Roma al legnaiolo Angelo suo nipote, che gli riuscì di più grosso ingegno che non avea pensato, con Martino si partì il frate, e giunsono in Messina del mese di settembre 1547; dove, accomodati di stanze, e messo mano a fare il condotto dell’acque che vengono di lontano et a fare venire marmi da Carrara, condusse con l’aiuto di molti scalpellini et intagliatori con molta prestezza quella fonte…».1 Estrapolato dalla Vita vasariana dedicata a Giovann’Angelo Montorsoli, questo brano c’informa sulla natura “fortuita” del trasferimento del frate servita nella città dello Stretto. Ulteriori notizie sulla vicenda sono state fornite da un’attestazione documentaria rintracciata e pubblicata nel 1932 dall’archivista siciliano Domenico Puzzolo Sigillo. Questo atto, datato 13 maggio 1547, prescriveva che «magister Dominicus Vanello, civis Messanensis marmorarius,… se obligavit et obligat magnificis dominis… provisoribus aqueflomarie Cammariorum… se conferre in partibus Ytalie et ibi invenire un mastro sculturi valenti homo, zoè a Joanni di Nola, napolitano sculturi, oy ad Raffaeli di Munti Lupu, florentino, ad Tribulo et ad frati Angelo et ad qualunque altro mastro valenti homo sufficienti ad lavurari la infrascritta fonti di lo modello dato a dictj signori provisuri per ipso mastro Dominico, et ditti mastrj non poza piglari sj primo non advisa ad ipsi signuri provisuri…».2 Tralasciando la figura del carrarese Domenico Vanello, all’epoca capomastro scultore del Duomo di Messina,3 risulta interessante rilevare come il Montorsoli 1 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, pp. 617-618, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it. 2 D. PUZZOLO SIGILLO, Il documento che ha rivelato l’autore del pergamo del Duomo, in «La Gazzetta. Eco della Sicilia e delle Calabrie», 18 ottobre 1932, p. 3. 3 Per una prima ipotesi ricostruttiva del corpus di questo scultore, attivo a Messina per ben vent’anni (la sua presenza in città è infatti documentata dal 1533 al 1550, anno della morte), si veda qui il Capitolo IV. Di recente se ne è occupata anche M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 61-70: è interessante il legame che la studiosa ha posto tra il Vanello e Raffaello da Montelupo (entrambi avevano mosso i primi passi nell’arte del marmo a Carrara entro la bottega dello spagnolo Bartolomé Ordóñez), poiché ella basa proprio su questa pregressa conoscenza fra i due la comparsa del secondo nell’elenco degli artisti richiesti dal Senato peloritano per la commissione della Fontana di Orione. Già Domenico Puzzolo Sigillo, ne Il documento che ha rivelato l’autore cit., p. 3, aveva tentato, ma invano, di rivalutarne la figura. La gran parte della 171 sia, tra i marmorari menzionati nel rogito, l’ultimo della lista, preceduto dal nolano Giovanni Meriliano, a quel tempo il più noto maestro di scultura operante a Napoli, e dai toscani Raffaello da Montelupo e Niccolò Tribolo.4 Trovandosi a Roma, dove aveva da poco ricevuto il titolo di cavaliere di san Pietro, Giovann’Angelo accettò di buon grado, secondo il Vasari, la proposta siciliana. In effetti, la sua permanenza in città fu decennale e, a dispetto dell’iniziale accidentalità del suo arrivo, la presenza del toscano impresse un forte segnale di novità nel panorama artistico cittadino.5 La vicenda personale e professionale del frate-scultore può a ragion veduta reputarsi speculare a quella di Polidoro Caldara da Caravaggio, che, giunto a Messina nel 1528, e rimastovi sino al 1543 (anno della morte), contribuì, col suo moderno linguaggio manieristico, a svecchiare la cultura pittorica cittadina, ancora radicata negli attardati schemi degli epigoni antonelliani. Mentre si accingeva a licenziare la monumentale impresa per la quale era stato chiamato, vale a dire la Fontana di Orione (fig. 1), il Montorsoli, nominato ufficialmente «capo mastro di li mazunj»,6 ricevette dai Giurati peloritani l’incarico di dotare le pareti laterali del Duomo di dodici cappelle ospitanti altrettante statue, a grandezza naturale, raffiguranti gli Apostoli.7 Secondo il racconto vasariano, infatti, i messinesi, «avendo trovato un uomo secondo il gusto loro, diedero, finite le fonti, principio alla facciata del Duomo, tirandola alquanto inanzi; e dopo ordinarono di far dentro dodici cappelle d’opera corintia, cioè sei per banda, con i dodici Apostoli di marmo di braccia cinque l’uno: delle quali tutte ne furono solamente finite quattro dal frate, che vi fece di sua mano un San Piero et un San bibliografia, sino a quel momento, lo aveva reputato un semplice scalpellino o al più un imprenditore, in virtù dei molteplici scambi di marmi che avvenivano tra Carrara e Messina grazie alla sua mediazione (deve ricordarsi almeno S. BOTTARI, Giovanni Angiolo Montorsoli a Messina, in «L’Arte», XXI, 1928, pp. 1-9 [6]). 4 Sarebbe oltremodo interessante comprendere se la scelta di questi artisti sia da attribuire in toto ad un’iniziativa del Vanello o se non vi sia stato anche lo zampino del Senato messinese. È utile forse a questo riguardo ricordare che Giovanni da Nola era un riconosciuto maestro operoso anche per i viceré spagnoli, e che, a quella data, egli aveva scolpito varie figure per fontane monumentali da innalzarsi a Napoli; Raffaello da Montelupo, Niccolò Tribolo e il Montorsoli condividevano invece la comune, e, in alcuni casi, coeva frequentazione con Michelangelo, che li chiamò a più riprese in veste di collaboratori in imprese quali la decorazione scultorea della Sagrestia Nuova in San Lorenzo e la Tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli. 5 Com’è noto, Giovann’Angelo non fu il solo toscano che, alla metà del XVI secolo, si trasferì nella città peloritana. Basti ricordare, fra gli altri, i fratelli Domenico e Andrea Calamecca, rispettivamente documentati a Messina il primo dal 1535 al 1556, il secondo una prima volta dal 1551 fino al 1554 circa, e poi definitivamente dal 1565 al 1589, anno della morte. 6 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, pp. 772-773; D. PUZZOLO SIGILLO, Il documento che ha rivelato l’autore cit., p. 3. 7 Non si tratta di cappelle nel senso stretto odierno del termine, ma di edicole, anch’esse progettate dal Montorsoli, addossate alle pareti laterali dell’edificio di culto. I monumentali Apostoli, svettanti sugli altari, erano collocati entro nicchie inquadrate da colonne d’ordine corinzio e concluse in alto da un timpano spezzato, al centro del quale campeggiava, per ciascuno, un bassorilievo raffigurante un episodio della vita del santo corrispondente. Il tutto era incorniciato da un imponente arco a tutto sesto. 172 Paulo, che furono due grandi e molto buone figure. Doveva anco fare in testa della cappella maggiore un Cristo di marmo con ricchissimo ornamento intorno, e sotto ciascuna delle statue degl’Apostoli una storia di basso rilievo; ma per allora non fece altro».8 La prima scultura ad essere eseguita, com’è usuale in questi casi, fu il San Pietro (fig. 4), relativamente al quale possediamo due strumenti notarili: il primo, con data 15 settembre 1550, definiva formalmente la commissione a Giovann’Angelo, e il secondo, del 4 dicembre successivo, registrava un iniziale pagamento corrisposto all’artefice dal nobile Pietro de Benedetto, patrono della cappella.9 Un’iscrizione posta al centro del timpano spezzato che, sormontando la trabeazione, chiudeva architettonicamente l’altare dedicato a San Pietro, e trascritta nel 1918 da Enrico Mauceri, ci assicurava che nel 1555 i lavori dovevano essere conclusi.10 Secondo quanto riportato dal Vasari, però, al toscano doveva riconoscersi la realizzazione di entrambi i Principi degli Apostoli; ma se sull’autografia del San Pietro non è mai stata avanzata alcuna obiezione, sul San Paolo già le fonti antiche manifestarono una diversa opinione (fig. 5). Dopo che, nel 1606, Giuseppe Buonfiglio e Costanzo per primo lo aveva assegnato a Martino Montanini, collaboratore del Montorsoli, tale attribuzione conquistò in poco tempo la storiografia artistica, prevalendo nettamente su quella vasariana.11 Le ragioni di 8 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 619. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 761, nota 4. Dal documento datato 15 settembre sappiamo altresì che il Senato avrebbe voluto coinvolgere l’intera cittadinanza nella realizzazione delle dodici cappelle intitolate agli Apostoli, ma che in effetti Pietro de Benedetto, senatore negli anni 1549-50 e ancora tra il 1554 ed il 1555, fu l’unico a rispondere all’invito. 10 Anche l’iscrizione è andata perduta. Venne però trascritta, per ultimo, da E. MAUCERI, Giovan Angiolo Montorsoli e i suoi allievi nel Duomo di Messina, in «Rassegna d’Arte», XVIII, 1918, pp. 206-209 [207]: D.O.M. Divoq(ue) Petro Apostolorum Principi sacellum et aram cum signo dicavit Petrus Benedictus MDLV. 11 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, p. 27: «nell’una e nell’altr’ala si fabricano dodici cappelle di marmi di ricco et vago lavoro, sopra il modello di Giovanni Agnolo, scultore et architetto fiorentino, dedicati a’ dodici Apostoli, delle quali se ne veggono tre perfettionate dall’una parte, et dua dall’altra. La prima, di San Pietro, la cui statoa di mano del predetto Giovanni Agnolo, è tenuta fra l’opre singolari dagl’intendenti; la seconda è il Santo Andrea, opra assai bella et artificiosa d’Andrea Calamech, scultore et architetto messinese; il San Giovanni, lavoro di mano di Martino, scultore et architetto fiorentino discepolo di Giovanni Agnolo. Dall’altr’ala, al dirimpetto del San Pietro, postavi è la statoa di San Paolo, bella et gentil opra anch’ella di Martino prenarrato, a canto a cui nell’altra cappella si vede eretta la statoa di San Jacopo il Maggiore, opra di Giulio Scalzo, scultore et architetto fiorentino. Le altre al prenarrato compimento non sono perfettionate ancora». Per i giudizi espressi dalla critica sulle due più note sculture dell’Apostolato, cfr. anche: F. SUSINNO, Le vite dei pittori messinesi e degli altri che fiorirono in Messina, ms. 1724, testo, introduzione e note bibliografiche a cura di V. MARTINELLI, Felice Le Monnier, Firenze 1960, pp. 88-89: «In tutte le opere di fra Giovanni Agnolo lavorovvi lo scolajo, né di esse se ne può dare specificata contezza, a cagion che passano per mano del frate il quale non poté giammai condurre tanti lavori nel corso degli anni predetti, benché alleviato dalla maggior fatica da molti scalpellini, che con esso lui lavoravano e sgrossavano marmi… E qui dee sapersi che la maniera tenuta da Martino nel far le statue fu assai vicina all’usanza e regole degli antichi. Osservate in vicinanza compariscono morbide, quanto veramente dimostrano allorché nella debita distanza si osservano… chi vuol vedere un’opera sua singolare entri nella nostra cattedrale a vedere la statua 9 173 questo slittamento attributivo si sono concentrate specialmente sul carattere più sommario e convenzionale che contraddistingue l’immagine di San Paolo, il suo essere, da un punto di vista stilistico, meno convincente, sebbene da ogni parte sia stata riconosciuta l’esistenza di un modello montorsoliano, al quale Martino si sarebbe dunque attenuto. Com’è noto, i due manufatti, sopravvissuti (malgrado gli ingenti danni subìti) all’incendio scatenatosi all’interno della Cattedrale durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, non ressero alla conseguente dispersione (se non di San Giovanni Evangelista, in altezza di dieci palmi, situata nell’ala destra, lavorio adorno di una maniera molto graziosa in qualunque sua parte, così nell’idea della testa, come nell’atteggiamento, ed in mezzo ad altre cinque statue tutte ugualmente insigni: cioè il primo San Pietro di fra Giovanni Agnolo suo maestro, Sant’Andrea di Andrea Calamech fiorentino, San Simone e San Bartolomeo di Vincenzio Tudisco romano e San Filippo di autore a me sinora incognito. Nel mezzo di tali artefici viene al sommo commendata ed applaudita la predetta statua di Martino, di cui questo solo lavoro basterebbe a rimostrarlo per un eminente artiere alla posterità. La statua di San Paolo, nell’ala sinistra delle predetta chiesa, è parimente fatica de’ suoi scalpelli»; Messana S.P.Q.R. regumque decreto nobilis exemplaris et Regni Siciliae caput duodecim titulis illustrata opus posthumum r.p. Placidi Samperii Messanensis Societatis Jesu in duo volumina distributum augustissimae magnae dominae Deiparae virgini a sacris literis dicatum, typis rev. cam. archiep. d. Placidi Grillo, Messanae 1742, I, p. 291; C. D. GALLO, Apparato agli Annali della città di Messina, capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua formazione fino ai tempi presenti, a cura di G. MOLONIA, G. B. M., Messina 1985, p. 259; G. GROSSO CACOPARDO, Martino da Firenze, scultore e architetto [1843], in Opere, I. Scritti minori (1832-1857), a cura di G. MOLONIA, Società Messinese di Storia patria, Messina 1994, pp. 358-359; G. 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Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 153-156. 174 addirittura distruzione) dei frammenti rimasti;12 ci si deve pertanto accontentare delle poche (e per il San Paolo anche sbiadite) riproduzioni fotografiche precedenti l’evento bellico.13 Un confronto tra le due sculture sembra in effetti confermare i giudizi espressi finora dalla critica; nel San Pietro, piuttosto che nel suo compagno Paolo, sono infatti presenti quei caratteri (la foggia classica del drappeggio, il volto significativamente espressivo, il taglio degli occhi, il modo di trattare barbe e capelli), distintivi dell’intervento del capobottega, che raggiungono il massimo della rappresentazione nelle Storie della Vita del Santo intagliate nello scannello: qui l’artista raggiunge l’apice espressivo, specie nel Martirio (fig. 12), dove il dinamismo delle piccole figure diventa concitazione, e dove la ferocia degli aguzzini si palesa pienamente nei volti arcigni e tesi fino quasi alla caricatura, dando vita ad un’intensa pagina drammatica dispiegata sul marmo. Nel San Paolo, al contrario, malgrado l’esistenza di riferimenti espliciti, nell’impianto e nella composizione, ai modelli montorsoliani,14 è palese una flessione stilistica dovuta all’intervento di un aiuto, da identificarsi verosimilmente nel Montanini. Risulta difficile stabilire se la debolezza di questa figura sia da ascrivere al concreto coinvolgimento di una diversa personalità, o se, invece, essa sia accentuata dalla scarsa qualità delle riprese fotografiche in nostro possesso: certo è che, ad osservare, senza alcuna visione pregiudiziale, le scene e i personaggi scolpiti nello scannello (fig. 117), emerge una nobiltà d’intaglio, una perfetta padronanza dello spazio ed una realistica, e talora drammatica, rappresentazione dei sentimenti umani tali da dirottare il nostro giudizio direttamente su Giovann’Angelo.15 12 Successivamente, con un’operazione a dir poco discutibile, si decise di ricostruire, sulla base delle riproduzioni fotografiche degli originali, l’intera serie degli Apostoli, che oggi fanno bella mostra di sé entro nicchie (sei per lato) nella nuova Cattedrale, anch’essa riedificata dal 1948 in poi. Le statue erano comunque scampate al tremendo sisma del 28 dicembre 1908, che aveva distrutto totalmente il soffitto e parte delle pareti laterali della fabbrica religiosa. 13 Del San Paolo rimane in Duomo il bassorilievo, raffigurante la Conversione di Saulo, in origine collocato nella parte sommitale dell’edicola (fig. 117). 14 Basti pensare, tra tutti, al San Giovanni Evangelista compiuto per la Cattedrale di Genova (154041, fig. 2). 15 Alessandra Migliorato (Gli Apostoli del Duomo di Messina cit., pp. 289-313 [308-309]), pubblicando una fotografia d’archivio del San Giovanni Evangelista (fig. 3), ha dubitativamente ricondotto anche questo Santo al Montanini, ma non riesco a seguire la studiosa su questo punto, poiché la statua mi sembra visibilmente più tarda, da restituire forse alla fase calamecchiana dei lavori all’Apostolato. 175 V.1.1 Una conferma al corpus di Montorsoli: la Sant’Agata di Taormina e la sua fortuna, da Martino Montanini a Giuseppe Bottone. La Testa di satiro del Museo Lázaro Galdiano di Madrid. È proprio dal San Pietro che intendo partire per presentare un’opera nota da tempo alla storiografia sul Montorsoli, dal cui catalogo il giudizio unanime della critica l’ha espunta, a mio avviso ingiustamente: trattasi della Sant’Agata conservata nel Duomo di Taormina (fig. 6), sulla quale ha destato per la prima volta l’attenzione Stefano Bottari, pubblicandola nel 1930 come lavoro di Martino Montanini. Lo storico dell’arte siciliano fondò tale attribuzione sulla base delle evidenti affinità che egli rilevava tra questa Santa e la Santa Caterina d’Alessandria commissionata nel 1559 al Montanini e al discepolo di questi, il messinese Giuseppe Bottone, i quali la consegnarono un anno dopo ai procuratori dell’omonima chiesa di Forza d’Agrò (fig. 34). Ad uno sguardo attento, però, la statua di Taormina appare molto più sostenuta qualitativamente del marmo forzese, e più rispondente al ductus formale tipico di Giovann’Angelo; non a caso, essa si presta ad alcuni raffronti con lavori di documentata autografia montorsoliana. Per ovvie ragioni di contemporaneità, mi preme segnalare innanzitutto il San Pietro, col quale l’immagine taorminese condivide l’impianto generale, il trattamento delle pieghe dell’abito, un po’ dure, accartocciate, e lo svolgimento del drappeggio del mantello, che si affastella all’altezza del ventre e ricade sulla spalla sinistra con larghe piegature molto ben definite. Per scendere nei dettagli, invece, sono da notare soprattutto gli occhi, grandi, dall’orbita aperta e dai contorni perfettamente incisi e segnati dalla leggera sottolineatura delle occhiaie (figg. 7-8). Se poi si passa ad analizzare le figure rappresentate nei rispettivi plinti, si noterà facilmente che, specie nel Martirio (figg. 9-12), la quasi sovrapponibilità della disposizione dei protagonisti, la composizione stessa delle scene e il medesimo altissimo esito drammatico dei gesti e delle espressioni tradiscono l’identità di mano e di concezione. Le medesime caratteristiche emergono anche dal confronto con il San Giacomo eseguito dal maestro toscano alla fine del quarto decennio del Cinquecento e destinato alla Tomba di Jacopo Sannazaro eretta nella chiesa napoletana di Santa Maria del Parto (fig. 14). Al di là delle affinità nell’impianto, le due sculture si avvicinano per la simile foggia dei drappeggi e per il modo d’incidere i capelli, separati da lunghe e sottili ciocche ben distinte l’una dall’altra (figg. 15-16): la differenza risiede nella resa qualitativa dei due manufatti, in quanto la Sant’Agata denuncia un indebolimento formale che la inserisce tra le realizzazioni meno riuscite del Montorsoli. L’eccessiva rigidità nell’impostazione, che blocca la Santa in una posizione assai meno sciolta e naturale del San Giacomo, la secchezza e l’indurimento delle 176 pieghe del petto e della vita (pur nella bella trovata del doppio giro di cintura che genera una serie di piccole plissettature), a riscontro del morbido rigonfiarsi della veste del Santo pellegrino (figg. 18-19, 21-22), spiegano forse le ragioni della concorde assegnazione al Montanini. Interessante risulta la notizia riportata dal Vasari, che, tra le opere eseguite da Giovann’Angelo a Messina, ne menziona solamente una inviata fuori dagli stretti confini della città: una Santa Caterina compiuta per “Tarumezia”, vale a dire per Taormina.16 Nulla osta pensare che la statua cui accenna il biografo possa effettivamente identificarsi con la nostra Sant’Agata, sempre ammettendo che egli si sia sbagliato sul soggetto raffigurato.17 Ma è facile accettare che il Vasari si sia sbagliato, se si riflette sulla forte somiglianza iconografica esistente fra le due Sante Vergini e Martiri, distinte solamente dagli attributi del martirio (tenaglia per Agata, ruota dentata e, almeno in Sicilia come in tutto il Meridione, testa dell’imperatore ai piedi di Caterina). Nel Museo Regionale di Messina, esposto con la dicitura “ignoto del secolo XVI”, si conserva un altorilievo con il Noli me tangere, che nel 1875 ha fatto il suo ingresso nell’allora Museo Civico dalla chiesa cittadina di San Domenico con un’attribuzione ad Antonello Gagini (fig. 23).18 La pregevole opera, nella quale può a ragione riconoscersi la «storia» che Giorgio Vasari ricordava esistente nella Cappella Borsa all’interno della fabbrica domenicana,19 soltanto nel 2007 ha 16 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 620: «fece di marmo una statua di quattro braccia, cioè una Santa Caterina martire molto bella, la quale fu mandata a Tarumezia, luogo lontano da Messina 24 miglia». 17 Già A. MIGLIORATO, La produzione scultorea cit., p. 6, fig. 13, è arrivata a tale conclusione, pur non sostenendo, alla fine, con convinzione l’autografia montorsoliana. La studiosa infatti dichiara: «è tutt’altro che improbabile che la statua sia stata eseguita, o almeno sbozzata, sotto la supervisione del Montorsoli e che sia proprio questa l’opera a cui si riferiva il Vasari». 18 L’edificio di culto, uno dei più importanti della città, andò completamente distrutto nel 1848 a causa di un terribile incendio. I frammenti rinvenuti furono trasferiti nel Museo, da poco costituito. Prima che Alessandra Migliorato riconducesse con forza l’opera al Montorsoli, essa era stata presentata da Gioacchino Barbera, assieme ad un bassorilievo raffigurante la Trinità, anch’esso proveniente da San Domenico, al convegno tenutosi a Lecce sulla scultura del Rinascimento in Italia Meridionale. In quell’occasione (e negli atti successivamente pubblicati), lo studioso, all’epoca direttore del Museo Regionale peloritano, centrando il proprio intervento sulla ricostruzione della vicenda critica del marmo (esso è tanto ben documentato dalla letteratura periegetica messinese quanto poco considerato dalla successiva storiografia artistica), ne individuò correttamente la spiccata «impronta montorsoliana», ma, non certo dell’autografia, si limitò a reputarlo un prodotto eseguito dalla bottega, su disegno del maestro, dopo la partenza di questi dalla città (cfr. G. BARBERA, Su due sculture cinquecentesche del Museo Regionale di Messina, in La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, atti del Convegno internazionale di Studi “La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, Lecce, 9-10-11 giugno 2004, a cura di L. GAETA, Mario Congedo Editore, Galatina 2007, I, pp. 373-386, con bibl. precedente). 19 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 620: «nel chiostro della medesima chiesa, alla cappella del signor Angelo Borsa, fece in marmo di basso rilievo una storia che fu tenuta bella e condotta con molta diligenza». 177 guadagnato la totale autografia montorsoliana grazie ad Alessandra Migliorato.20 Non è difficile reperire, all’interno del catalogo di Giovann’Angelo, immagini stilisticamente accostabili al Cristo messinese (fig. 25): mi riferisco in particolare alla figura, di identico soggetto, eseguita per Santa Maria dei Servi a Bologna (1558-62, fig. 24) e, ancora una volta, al San Giacomo partenopeo (fig. 16). Allo stesso modo, la Maddalena mostra rilevanti analogie, sia tipologiche sia formali, con la Sant’Agata taorminese: si osservino in particolare il volto ovale dagli occhi sbarrati (come quelli del Cristo bolognese), e le acconciature delle due donne, praticamente identiche, anche nel fiocco che raccoglie due lembi dei capelli ed esibito dalla Santa Vergine sulla fronte, dalla Maddalena sulla nuca (figg. 15, 2629). La restituzione della Sant’Agata di Taormina al Montorsoli è rilevante non soltanto perché si tratta di una delle poche fatiche sicule scaturite da commesse private;21 ma anche perché, sulla base di tale conferma, potrà risultare più facile riconsiderare la radicata (e pertanto difficile da mettere in discussione) tesi di autografia montorsoliana di un altro marmo, con medesimo soggetto, conservato a Castroreale (fig. 30). In questo caso però, a differenza che per la statua taorminese, non si tratta di un’attribuzione fondata solamente sull’analisi stilistica: la Sant’Agata di Castroreale fu di fatto commissionata il 30 marzo 1554 a Giovann’Angelo dal nobile locale Cusmano Siracusa.22 Si comprende pertanto (in verità un po’ a fatica, visto che i confronti con il manufatto di Taormina sono schiaccianti, e a completo sfavore della “compagna” castrorealese) il motivo per cui della responsabilità montorsoliana di questa scultura non si è mai dubitato,23 a dispetto di modi espressivi in cui non può affatto riconoscersi il diretto intervento del maestro. Delle due, l’una: o assegniamo al toscano la bella Santa di Taormina, per quanto inferiore agli standards qualitativi cui egli ci ha abituati, o la fredda e rinsecchita Vergine di Castroreale. 20 A. MIGLIORATO, La produzione scultorea cit., pp. 8-9, fig. 18. L’opera era comunque già stata ricondotta alla bottega dell’artista toscano da S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera cit., p. 52, fig. 29. B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli cit., p. 103, pensava invece ad un collaboratore, identificato nel solito Montanini. 21 A dispetto delle tre monumentali imprese pubbliche (le Fontane di Orione e di Nettuno e il progetto per l’Apostolato), che devono aver impegnato lo scultore per una considerevole parte del suo tempo trascorso sull’isola. 22 D. PUZZOLO SIGILLO, Una nobilissima statua di Sant’Agata documentata di legittima paternità montorsoliana, in «Spirale», 1951, 2, pp. 3-5. Cfr. Appendice documentaria, n. 1. 23 B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli cit., pp. 103-104, è stata l’unica a mettere in dubbio l’autografia del Montorsoli, ritenendo la figura un lavoro di bottega accostabile alla maniera del Montanini, cui ella ha restituito anche la Santa taorminese. Nel confrontare le due sculture, la studiosa tedesca ha comunque ravvisato, nelle scene presentate nei rispettivi plinti, a riscontro con la manifesta drammaticità espressa nelle storie di Taormina, la «convenzionalità» e la natura «repertoriale» dei personaggi sottostanti alla Vergine di Castroreale. 178 Mia opinione è semmai che quest’ultima debba ricondursi al tanto noto quanto ancora sfuggente Martino Montanini,24 che già Vasari menziona al fianco di Montorsoli in veste di collaboratore ai tempi delle imprese genovesi, e che seguì il maestro in Sicilia fino al maggio 1557, anno in cui i due rientrarono insieme a Firenze.25 L’autore della scultura di Castroreale tradisce infatti molto apertamente il debito contratto col Montorsoli, a riprova del lungo rapporto professionale intercorso tra i due. Anche lo scannello di quest’opera ripropone esplicitamentele scene della “gemella” di Taormina: ben due delle tre scene raffigurate (il Martirio e il Giudizio di Sant’Agata, figg. 31-32) corrispondono perfettamente persino nella diposizione dei personaggi; ciò nondimeno, la forza della rappresentazione e la drammaticità cedono il posto ad una piattezza e freddezza espressiva, a gesti e volti ovvi e impersonali. A quella data soltanto Martino avrebbe potuto avvicinarsi al toscano così tanto da emularlo così apertamente, e quasi sfacciatamente; anzi, non può affatto escludersi che, avendo Giovann’Angelo in persona ricevuto questa commessa, ma non potendo porvi mano direttamente perché oberato da altre scadenze, sia stato il maestro stesso a proporre all’allievo di prendere come riferimento la propria creazione eseguita tempo addietro per Taormina. Se si accetta questa ricostruzione dei fatti, anche la questione tipologica, per come era stata affrontata finora da una buona parte della bibliografia, si capovolge letteralmente. Non sarebbe più, infatti, la Santa di Castroreale a svolgere quel 24 Questo scultore dalla personalità ancora da ricostruire è di certo intervenuto nelle principali e più impegnative imprese portate a termine a Messina dal Montorsoli, ma deve anche aver lavorato autonomamente rispetto al maestro, gestendo e portando a termine varie commesse. Poiché l’unica testimonianza documentaria relativa ad un’opera condotta in toto da Martino, vale a dire la Santa Caterina d’Alessandria di Forza d’Agrò, risale alla fine del 1559, quando cioè Giovann’Angelo aveva lasciato l’isola da quasi due anni, gli studi hanno finora unanimamente pensato che Montanini fosse stato, sino a quel momento, poco indipendente dal maestro, escludendo di conseguenza a priori che egli avesse potuto lavorare personalmente qualche marmo già durante la permanenza di Giovann’Angelo in città. Di questa totale “dipendenza” professionale di Martino dal frate servita è convinta, ad esempio, A. MIGLIORATO, La produzione scultorea cit., p. 4, quando sostiene che «nell’organizzazione della bottega al nipote Martino Montanini spettava il ruolo principale: secondo quanto emerge dalle fonti, egli fu presente in tutti i cantieri montorsoliani e quando il frate lasciò la città egli si dedicò al completamento di quanto iniziato dal maestro. Lavorando nella bottega del Montorsoli, Martino non aveva un’attività autonoma e solo dopo la partenza del maestro gestì la struttura in prima persona, servendosi naturalmente, anche di altri assistenti. Questo spiega perché Montanini compaia nei documenti d’archivio solo a partire dal 1558». A dispetto di quanto affermato dalla studiosa, in questa sede si ritiene che il Montanini, anche durante la permanenza del maestro in città, abbia lavorato autonomamente. E la Sant’Agata di Castroreale non è altro che una prova di tale convinzione. L’esistenza di questo marmo capovolge pertanto letteralmente la tesi della Migliorato nel momento in cui ella dichiara che la mancata indipendenza di Martino dal Montorsoli sarebbe provata dal fatto che la prima attestazione documentaria in cui compare il suo nome risale al 1558, vale a dire al tempo in cui il frate servita era di già partito. La carenza documentaria del periodo antecedente al 1558 non implica affatto che l’allievo in quegli anni non abbia scolpito per conto suo alcun’opera. 25 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, p. 403, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it. Malgrado ciò, Martino tornò a Messina dopo poco più di un anno, richiesto a gran voce dal Senato, desideroso che venissero completati i lavori avviati da Giovann’Angelo. 179 ruolo di “archetipo”, che da ogni parte le è stato riconosciuto,26 nei riguardi sia dell’immagine taorminese sia di due Sante Caterine d’Alessandria, rispettivamente conservate a Milazzo e a Forza d’Agrò (figg. 33-36); al contrario, il supposto prototipo dovrebbe identificarsi nella Sant’Agata montorsoliana. D’altronde, lo stesso assunto dell’esistenza di un comune esemplare di riferimento trova un terreno più solido cui appoggiarsi se si accetta che all’opera individuata come modello, e dunque apprezzata dalla committenza e dai seguaci del suo autore, siano seguiti dei prodotti di media fattura che, in maniera più o meno originale, abbiano interpretato quel prototipo. Per venire ora alle due immagini raffiguranti Santa Caterina d’Alessandria e derivanti dal manufatto di Taormina, bisogna anzitutto sottolineare che esse sono entrambe documentate, e che per entrambe, nei rispettivi rogiti, si fa il nome di Giuseppe Bottone, scalpellino locale attivo sino al 1574. Tra i due marmi, il secondo (in ordine cronologico), custodito a Milazzo nella chiesetta omonima, fu commissionato a questo artefice il 17 novembre 1560, e già palesa, ad una data così alta per questo artista, modi e stilemi che si ritroveranno nelle opere della maturità.27 Sulla prima statua, invece, che dall’atto notarile sappiamo essere stata richiesta per il borgo di Forza d’Agrò il 29 dicembre 1558 ai «nobiles Martinus Montanino Florentinus et Joseph Buttonus scultores», potrebbero sorgere alcune perplessità attributive, in ragione non soltanto della comparsa, nel documento, dei nomi di entrambi gli scultori, ma anche (e soprattutto) delle palesi comunanze che le due Sante rivelano nell’impianto, nei gesti, nei panneggi, fin nei dettagli puramente ornativi. Stando poi ad una seconda carta d’archivio, con data 11 novembre 1559, l’opera fu consegnata «intus stantiam predictorum nobilorum Martini Montanino et Joseph Buctuni in qua fuit fatta supra ditta inmago Sancte Catherine», la qual cosa ha fatto giustamente ritenere a Domenico Puzzolo Sigillo 26 La prima ad avanzare la tesi del prototipo, in relazione alla Sant’Agata di Castroreale, è stata E. NATOLI, Nuove attribuzioni a Martino Montanini, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Messina», 11, 1987, p. 24, anche se prima vi aveva fatto un rapido cenno S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della maniera cit., p. 64. Ancora su questo punto, cfr. F. NEGRI ARNOLDI, La pala marmorea di Polistena, Montorsoli e Montanini, in «Napoli, l’Europa: ricerche di storia dell’arte in onore di Ferdinando Bologna», a cura di F. ABBATE e F. SRICCHIA SANTORO, Meridiana Libri, Catanzaro 1995, p. 178, fig. 135; IDEM, Scultura del Cinquecento cit., pp. 291-292, fig. 300. Più di recente, anche A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 33, 50, 59, fig. 38; EADEM, La produzione scultorea cit., p. 6, fig. 13. 27 La data di nascita di Bottone può ricavarsi, indirettamente, da un rogito, ancora una volta rintracciato dall’infaticabile Domenico Puzzolo, nel quale il 31 ottobre 1557 il padre di Giuseppe, Filippo, definito in quest’occasione «maczonus civis Messane» (dunque anch’egli marmorario), nomina il figlio «procuratorem et nuntium specialem» per la riscossione di alcuni crediti. Se nel 1557 Giuseppe poteva essere delegato dal padre per tale incarico, il Puzzolo dedusse giustamente che egli a quella data doveva aver di già raggiunto la maggiore età. Perciò, suole farsi risalire la nascita dello scultore intorno al 1539 circa, con ovvia possibilità di retrodatazione (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [119]). 180 (il quale pubblicò entrambi gli strumenti notarili) che i due lavorassero insieme; e che anzi Giuseppe fosse un vero e proprio discepolo del Montanini.28 L’eventuale insorgere di perplessità attributive, dunque, che potrebbero indurre ad avallare un’effettiva collaborazione fra i due artisti nell’esecuzione della Santa Caterina di Forza d’Agrò, svanisce però, a mio avviso, nel momento in cui, esaminando il catalogo del Bottone, ci si accorge che i modi figurativi di quest’ultimo risultano distanti da quelli della Santa di cui qui si discute. Infatti, volendo considerare anche soltanto i manufatti che con certezza possono assegnarsi al messinese, risalta chiaramente come il linguaggio di Giuseppe palesi una certa propensione allo stereotipo che ne svela la modestia sia tecnica che inventiva: ciò è evidente, ad esempio, nelle Madonne col Bambino realizzate per Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC, ante 1568, fig. 64) e Albi (CZ, 1574, fig. 65), nei due angeli reggicandelabro frammentari eseguiti per la chiesa messinese di San Nicolò (entro il 1560, figg. 78-79), e, ovviamente, nella già citata Santa alessandrina inviata a Milazzo (1559, fig. 33). Tutti questi marmi sono accomunati da quelli che potremmo ritenere i caratteri tipici bottoniani, vale a dire le fisionomie dei volti, dall’ovale quasi perfetto e dai teneri lineamenti, l’eccessiva durezza delle vesti, le cui aspre pieghe non seguono il movimento delle membra, rimanendo dunque completamente autonomi rispetto alle figure, e il generoso spessore degli orli e delle pieghe, che tradisce l’incapacità di questo maestro di lavorare “di fino” (ottenendo, ad esempio, diverse gradazioni del rilievo). Diversamente dovrà dirsi per gli stilemi esibiti dalla statua spedita a Forza d’Agrò, la quale rivela l’intervento di uno scultore più esperto e più dotato tecnicamente (fig. 34). Pur nella ripetizione di certe fisionomie (ad esempio quelle barbute dei personaggi intagliati nello scannello, che richiamano direttamente le figure montorsoliane del marmo di Taormina, fig. 42), egli non scade nella tipizzazione (il volto della sua Santa, per quanto un po’ impersonale come quello dell’omonima immagine bottoniana, diverge dall’ovvio e classico ovale di quest’ultima, fig. 41); le ciocche dei capelli, la cui acconciatura è palesemente ripresa da quelle delle figure muliebri di Giovann’Angelo (l’Agata taorminese e la Maddalena del Museo di Messina, figg. 15, 26), sono ben distinte l’una dall’altra, a differenza di quelle, solamente abbozzate, delle Vergini e della Santa bottoniane; e, infine, la resa dei panneggi e delle piegature, che Martino colloca sulla base delle sporgenze e delle rientranze del corpo, risultano naturali e realistiche nel loro svolgimento (a questo 28 Non è un caso che Martino, il 15 ottobre 1561, alla vigilia della sua definitiva partenza da Messina, avesse rinunciato al rinnovo della nomina di capomastro scultore del Duomo, al fine di delegare al suo posto proprio Giuseppe. Il messinese detenne la carica sino al 1574, come risulta da alcune annotazioni trascritte dallo stesso Puzzolo Sigillo e tratte dai Quinterni dell’Opera del Duomo: il Quinterno relativo al periodo 1 settembre 1574 – 31 agosto 1575 è l’ultimo in cui fu registrato allo scultore il simbolico pagamento di un’oncia che regolarmente spettava a chiunque si fosse assunto quell’incarico. Da ciò il Puzzolo evinse che il Bottone dovette morire proprio in questi mesi, a cavallo dello scoppio in città dell’epidemia di peste (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107-142 [124-125]). 181 proposito, si noti il dettaglio delle pieghette, sotto ai seni, generate dalla stretta del cinturino, o quello dell’estremo margine superiore dell’abito della Santa). Questi ultimi due particolari, ad esempio, tipologicamente identici nell’opera di Milazzo, proprio in quest’ultima si presentano però talmente rozzi e sgraziati da denunciare, per forza di cose, la lontananza del marmo forzese da un intervento di Giuseppe Bottone e, per contro, la conferma dell’autografia montaniniana. Merita una certa attenzione un piccolo manufatto marmoreo, una Testa di satiro, conservato nelle collezioni del Museo Lázaro Galdiano di Madrid e ritenutovi un’opera di scuola francese del XVIII secolo (fig. 47).29 A mio avviso si tratta di un’ulteriore testimonianza dell’arte di Giovann’Angelo, forse in un tempo vicino alla permanenza siciliana, o comunque in un’epoca a cavallo tra l’attività genovese e quella messinese. Non è un caso che i più validi e convincenti confronti si ravvisino proprio con sculture compiute dal maestro per la cità dello Stretto. La testa, che si distingue per i tratti un po’ marcati (tale da giustificarne l’identificazione in un satiro), si colloca a metà strada tra i più caricati volti dei Tritoni e dei Fiumi della Fontana di Orione e quelli del Cristo (anni cinquanta, Museo Regionale, figg. 48-50) e del già citato San Giacomo napoletano (1537-42, fig. 16). La fronte ampia, le taglienti arcate sopraccigliari, gli occhi larghi, dalle pupille profondamente incise e dalle sacche lacrimali in evidenza, infine le labbra carnose ricorrono puntuali nel bel Cristo del Noli me tangere (anni cinquanta, Museo Regionale, fig. 52) e nella Scilla che un tempo era parte della Fontana del Nettuno (1557, Museo Regionale, fig. 53).30 29 Il marmo misura 40x21x24,5 cm. Il collo mostra la traccia di interventi di restauro; la base è posticcia. 30 Danneggiata durante i bombardamenti del 1848, la statua fu ricoverata nel Museo (dove tuttora si trova assieme al Nettuno), e sostituita, nel 1857, da una copia eseguita da Letterio Subba. A questa stessa congiuntura storica e artistica della carriera di Giovann’Angelo appartiene una seconda Testa di satiro (Capri, collezione privata, fig. 58), pubblicata senza attribuzione nel volume di L. CAMMARELLA FALSITTA, A. FALSITTA, Cellini, Bandinelli, Ammannati: la fontana del Nettuno in piazza della Signoria a Firenze, Skira, Milano 2009, p. 171. Anch’essa esibisce numerose affinità con i marmi montorsoliani sin qui citati, benché, rispetto al manufatto madrileno, essa presenti dei tratti ancora più caricati. L’opera che più le si accosta, tipologicamente e stilisticamente, è proprio la Scilla, la quale si presenta come una sorta di replica femminile della Testa oggi in collezione privata. Si notino inoltre le tangenze tipologiche che la Scilla mostra con l’Arpia a cavallo di un rospo di Palazzo Blu (Pisa, figg. 55, 57), ricondotta a Niccolò Tribolo da Claudio Pizzorusso (L’officina della maniera: varietà e fierezza nell’arte fiorentina del Cinquecento fra le due repubbliche 1494-1530, catalogo della mostra a cura di A. CECCHI, A. NATALI, Giunta Regionale Toscana, Marsilio, Venezia 1996, pp. 394-395; Palazzo Blu. Le collezioni, Pacini Editore, Pisa 2010, pp. 322-324, scheda di Claudio Casini). Al di là della comune iconografia, legata all’esistenza di modelli ampiamente circolanti all’interno del gruppo di scultori gravitanti nell’orbita di Michelangelo all’epoca dell’esecuzione delle Tombe Medicee (di cui, com’è noto, il Montorsoli e il Tribolò fanno parte), sarebbe interessante indagare meglio i rapporti e gli scambi culturali intercorsi tra questi due maestri. Per la Fontana di Nettuno, cfr. B. LASCHKE, La Fontana di Nettuno a Messina: un modello per l’allegorismo politico monumentale nel Cinquecento, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003), pp. 99-108 (con precedente bibliografia), e Storie d’acqua e di marmo: fontane di Messina del Cinquecento e del Seicento, 182 Il non eccellente stato di conservazione di questo frammento, dalla superficie corrosa e dilavata, nonché la verosimile identificazione con la figura di un satiro, indurrebbero a pensare che si tratti di un pezzo per fontana, quasi sicuramente mutilo, giunto nella collezione della Fondazione madrilena per passaggi collezionistici purtroppo ancora non chiari.31 Limitandoci anche solo agli anni siciliani, sappiamo che il Montorsoli aveva eseguito più di una fontana (oltre alle due monumentali di Orione e di Nettuno) destinate a diversi luoghi della città: «Fece anco condurre per lo muro di Santo Agnolo acqua per una fontana, e vi fece di sua mano un putto di marmo grande, che versa in un vaso molto adorno e benissimo accomodato, che fu tenuta bell’opera; et al muro della Vergine fece un’altra fontana, con una Vergine di sua mano che versa acqua in un pilo; e per quella che è posta al palazzo del signor don Filippo Laroca fece un putto maggiore del naturale d’una certa pietra che s’usa in Messina; il qual putto, che è in mezzo a certi mostri et altre cose marittime, getta acqua in un vaso».32 A causa delle dispersioni e delle molteplici distruzioni occorse alla cittadina peloritana, nessuna traccia rimane di queste tre fontane ricordate dal Vasari; eppure, l’idea che la Testa di satiro spagnola, qui per la prima volta ricondotta a Giovann’Angelo, possa collegarsi ad una di queste imprese resta affascinante, sebbene rientri nel campo delle congetture. V.2 Per Giuseppe Bottone, modesto epigono montaniniano. Se Martino Montanini, con la Santa Caterina di Forza d’Agrò, si pose quale diretto “erede” del Montorsoli e della Sant’Agata spedita a Taormina, Giuseppe, nella statua di Milazzo, emula del marmo forzese, tentò a sua volta di mettere a frutto la propria formazione montaniniana, attiva fintanto che, operante il maestro a Messina, la presenza di questi risultò influente per l’allievo. Invece, una volta che, dopo la definitiva partenza del Montanini, Bottone rimase solo (privo anche di modelli da replicare), quell’impronta iniziale, complice il trascorrere del tempo, si affievolì sempre di più fino a scomparire totalmente (ne sono testimoni le Vergini calabre sopra citate). Ulteriore conferma del grosso debito che Giuseppe accumulò nei confronti del toscano è l’esistenza di un secondo manufatto, opportunamente attribuitogli da Monica de Marco, la cui dipendenza da un’analoga scultura montaniniana è talmente forte da farmi credere che si tratti di una vicenda speculare a quella delle Assessorato Regionale dei Beni Culturali Ambientali e della Pubblica Istruzione, a cura di G. BARBERA, La Grafica Editoriale, Messina 2003, pp. 35-37, scheda di Giusy Larinà. 31 Allo stato attuale degli studi non si possiede alcuna notizia relativa alla provenienza di quest’opera. 32 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori, pp. 619-620. 183 due Sante Agate. Si tratta della Madonna del Soccorso conservata a Gesso (ME, Sant’Antonio, fig. 59), e strettamente connessa ad un esemplare ritenuto, sempre dalla De Marco, autografo di Martino, a sua volta custodito in una casa privata di Castanea (ME, fig. 60) ma proveniente dalla locale chiesa omonima non più esistente.33 Ebbene, ancora una volta, il messinese risultò autore di un secondo, manifesto “prelievo” dalle creazioni del Montanini. Tuttavia, Giuseppe tradusse l’originale in forme fin troppo banali, e, pur volendo apprezzarne il tentativo di abbandonare l’eccessiva rigidità del modello, instillando al contrario nella propria opera un barlume di dinamicità, si percepisce quel carattere di convenzionalità, quell’impoverimento strutturale e formale che contraddistingue tutti i suoi lavori. Non bisogna comunque sottovalutare l’eventuale influenza della committenza, che poté incidere sulla riproposizione, da parte dello scultore peloritano, di simili schemi figurativi, tipologici e iconografici. Da parte sua, Giuseppe Bottone non era certo nuovo a produzioni su larga scala che potremmo a ragion veduta definire seriali, se si prendono in considerazione le tante Vergini col Bambino che negli ultimi tempi gli sono state attribuite. Mi riferisco, per quanto riguarda la Calabria, alle immagini mariane inviate a Pazzano (RC, 1562, fig. 61), Scigliano (CS, 1562, fig. 62), Pentedattilo (RC, 1564, fig. 63), Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC, ante 1568, fig. 64), Santo Stefano d’Aspromonte (RC, 1568-69), Albi (CZ, 1574, fig. 65), Cosenza (anni sessanta, fig. 66), Rende (CS, anni sessanta, fig. 67), Bonifati (CS, anni sessanta), Terranova Sappo Minulio (RC, fine anni sessanta, fig. 68).34 A queste si aggiungono altre Madonne che la prolifica officina dell’artista messinese eseguì per le località sicule di Fiumedinisi (ME, 1560, fig. 69), Villafranca Tirrena (ME, anni sessanta, fig. 70) e Castanea (ME, anni settanta, fig. 71).35 Tutte queste opere, divergenti soltanto per qualche trascurabile dettaglio, ma identiche sostanzialmente per impianto, composizione e tipologia, oltre a costituire plausibilmente la prova di vincoli posti dai committenti, contribuiscono a tracciare l’immagine del Bottone come quella di un artefice che, acquisito un modello, tese 33 Per entrambe le attribuzioni, cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 71-73, 79, e figg. 66, 75-78. 34 Per le attribuzioni delle Madonne di Bonifati e Pazzano, cfr. G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella a Pazzano: le testimonianze artistiche recenti, contributi storico-artistici e iconografici, in L’eremo di S. Maria della Stella nell’area bizantina dello Stilaro. Storia, arte, spiritualità, atti del convegno, Pazzano 1996, Arti Grafiche GS, Ardore Marina 2000, pp. 136-137; per la statua di Cosenza, IDEM, Esiti della “pittura devota” nel primo trentennio del Seicento a Taverna, in Museo Civico di Taverna 1699-1999 nel terzo centenario della morte di Mattia Preti (= Bollettino del Museo Civico di Taverna, 2), [s.e.], [s.l.] 1999, pp. 4-5; per la Vergine di Scigliano, cfr. L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2003, pp. 1068-1069; per le opere di Rende, Pentedattilo e Terranova Sappo Minulio, cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 83, 266-271. 35 Per questi tre marmi siciliani, cfr. le rispettive schede nn. 5-7. 184 a riproporlo più volte, anche a distanza di molti anni, senza mai riuscire ad emanciparsene. V.2.1 Custodie eucaristiche bottoniane (Drosi, San Nicolò, Santa Maria di Basicò, Ospedale Piemonte). Entro la fine del sesto decennio del secolo Giuseppe Bottone fu scelto dalla comunità gesuita peloritana per realizzare un complesso scultoreo costituito da un tempietto eucaristico e da una coppia di angeli reggicandelabro genuflessi da collocare nella chiesa di San Nicolò (figg. 76, 78-79).36 Tali sculture mostrano come il maestro, nel passaggio dal piccolo al grande formato, risulti più impacciato, e come il suo repertorio formale perda quella minutezza di dettaglio più diligentemente dispiegata nelle piccole figure che animano la custodia. Negli angeli, infatti, caratterizzati da un’imponenza greve e tozza, è notevole lo scarto che subisce lo stile bottoniano nel momento in cui l’artefice è posto di fronte alla resa monumentale (figg. 78-79). Ancor di più risalta la differenza esistente tra il tabernacolo di San Nicolò e quello che egli dovette compiere nel 1560 per Drosi (RC, fig. 77) proprio partendo dall’esempio destinato alla fabbrica gesuita.37 Nell’opera drosiana Giuseppe si mostra più attento alla definizione anche grafica di alcuni particolari, mentre gli angeli adoranti ed il Dio Padre Benedicente guadagnano rispettivamente una certa grazia ed una monumentalità che non possedevano le analoghe immagini di San Nicolò. Sebbene non vi sia molta distanza tra le due edicole (quella messinese potrebbe anticiparsi rispetto all’altra di un paio d’anni al massimo, forse anche meno), sembra che il loro autore abbia acquisito una certa dimestichezza nella tecnica scultorea. Quando poi, nel 1568, gli fu affidato l’incarico di una terza custodia, ancora una volta per un edificio di culto messinese, vale a dire il convento francescano femminile di Santa Maria di Basicò (fig. 82),38 un problema tecnico più che formale sembrò attrarre l’attenzione dello scultore: l’armonica disposizione degli elementi architettonici costituenti il tempietto, che conferisce a quest’ultimo un’equilibrata alternanza di superfici convesse e di rientranze piane, e che palesa, da parte del suo autore, un’ormai raggiunta consapevolezza prospettica affiorante specie nella rilevata figura dell’Eterno disposta entro un timpano molto aggettante. L’ultimo 36 Cfr. la scheda n. 9. Cfr. la scheda n. 8. Nel commissionare l’edicola, i rappresentanti della Cappella del Corpo di Cristo di Drosi chiesero espressamente al Bottone di eseguirla in conformità a quella già esistente nella chiesa di San Nicolò, il che ha indotto gli studiosi ad assegnare, se pur indirettamente, anche la custodia di San Nicolò allo stesso artefice. Per il documento, cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107-142 [136], doc. I. Vedi anche Appendice documentaria, n. 2. 38 Cfr. la scheda n. 10. Oggi il marmo è custodito nel Museo Regionale della città dello Stretto. 37 185 marmo di questa breve rassegna è l’inedito tabernacolo attualmente collocato nella chiesetta interna all’Ospedale Piemonte a Messina, ma di ancora ignota provenienza (fig. 85).39 Le affinità tipologiche con le già menzionate edicole del Bottone da una parte e le contestuali decise difformità stilistiche dall’altra, nonché un modesto livello qualitativo generale (figg. 86-87), inducono a pensare ad un anonimo collaboratore operante allo scadere del settimo decennio del Cinquecento. Questo tempietto condensa, in un agglomerato disorganico e poco armonico, tutti i motivi e gli stilemi tipici del capobottega: in particolare sembra che i prelievi operati dallo sconosciuto artefice si concentrino nei primi due lavori bottoniani, vale a dire quelli di San Nicolò e di Drosi (figg. 76-77, 86-87). Quest’ultima commessa e quella della Santa Caterina di Milazzo, entrambe documentate al 1560, dovettero inaugurare, per Giuseppe, l’inizio dell’attività in proprio, spingendolo così a richiedere l’aiuto di qualche assistente per tenere fede alle commesse sempre più crescenti. V.3 Un inizio per Domenico Calamecca, all’ombra di Giovann’Angelo Montorsoli. La Madonna col Bambino di Santa Maria di Gesù Superiore. Tra i numerosi maestri del marmo toscani attivi a Messina nel corso del Cinquecento merita di essere segnalato anche Domenico Calamecca, primo, tra gli esponenti della nota famiglia d’origine carrarese, a trasferirsi nella città dello Stretto, dove la sua presenza si attesterebbe già dal 1535.40 Il ruolo di Domenico fu quello di “apripista”, dal momento che la sua scelta di lasciare la terra natia alla volta della Sicilia fu condivisa, qualche tempo dopo, non soltanto dai figli Jacopo e Lorenzo, ma anche dal fratello Andrea nonché dal di lui figlio Francesco.41 39 Cfr. la scheda n. 11. Tale riferimento cronologico è stato fornito da Nicola Aricò nella scheda sul Monumento funebre di Antonio La Rocca, in Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, pp. 58-60; peccato però che lo studioso non abbia aggiunto ulteriori dettagli sulla fonte da cui trae tale preziosa informazione. Tuttavia, dal momento che in quel breve contributo egli ha potuto attribuire a Domenico Calamecca la Tomba La Rocca grazie allo stralcio documentario di Domenico Puzzolo Sigillo a sua volta trascritto da Carmela Albanese nella propria tesi di laurea, potrebbe presumersi che l’Aricò abbia ottenuto la data della prima notizia certa di Domenico a Messina da questa stessa fonte. Tutto resta comunque nel campo delle ipotesi. Tra l’altro, sempre nello stesso passo, lo studioso a affermato (anche qui però senza supportare la sua asserzione con alcuna prova documentaria) che nel 1535 il carrarese fosse quindicenne, fissando dunque, se pur in maniera indiretta, la data di nascita dello scultore al 1518. 41 Benché non ve ne sia certezza, da notizie documentarie indirette ricaviamo che Andrea fosse più giovane di Domenico: se infatti le ultime attestazioni relative a quest’ultimo risalgono al 1569, Andrea è testimoniato ancora fino al febbraio del 1589, anno in cui dettò il proprio testamento (per i due atti notarili, cfr. rispettivamente G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 785, e D. PUZZOLO SIGILLO, Il pergamo del Duomo di Messina ha ritrovato il suo autore, in «Gazzetta della Sicilia e delle Calabrie», 5 agosto 1932, p. 3). 40 186 Soffermandosi sulle date dei rogiti riguardanti il più anziano e il più giovane tra i Calamecca, vale a dire rispettivamente Domenico e Lorenzo,42 ci si rende conto di quanto questi scultori siano stati operosi nella cittadina peloritana: un’attività lunga quasi un secolo, dal 1547 (periodo cui risale la prima carta d’archivio utile su Domenico) al 1627, quando a Lorenzo fu corrisposto un pagamento per un lavoro destinato alla Cattedrale messinese.43 Per certi aspetti, la vicenda dei Calamecca può ritenersi speculare a quella dei Gagini, il cui segno sulla produzione marmorea dell’isola ebbe modo di imprimersi ancora più a lungo, grazie al coinvolgimento di ben tre generazioni di artisti a fronte delle due calamecchiane.44 Inoltre, proprio come all’interno dell’officina gaginiana, anche in quella dei carraresi con il passaggio di consegne dai rispettivi capibottega ai figli e ai collaboratori coincise una manifesta caduta della qualità artistica: la produzione di manufatti scultorei si ridusse infatti, man mano, alla poco più che semplice riproposizione dei vecchi modelli di successo, quando non addirittura alla sterile e pedissequa imitazione di schemi e stilemi figurativi già ampiamente sperimentati. In questo quadro, l’arrivo di Domenico dalla Toscana dovette di certo rappresentare, anche in relazione al panorama artistico cittadino, un apporto di cultura nuova, più moderna; ma non bisogna dimenticare che egli s’inserisce nel lungo elenco di artisti “forestieri” che già a partire dal XV secolo avevano eletto la vivace città peloritana quale meta privilegiata dei propri spostamenti. Anche volendo limitarci al periodo immediatamente precedente e a quello di poco posteriore alla discesa del Calamecca, si possono ricordare, infatti, le presenze di Giovambattista Mazzolo, anch’egli carrarese, e di Giovann’Angelo Montorsoli.45 Di Domenico ci restano purtroppo scarse notizie documentarie, alle quali corrisponde altresì una quasi totale mancanza di riscontri diretti con opere superstiti: da ciò, dunque, deriva che egli non occupò propriamente un ruolo di primo piano, tale da incidere sugli sviluppi dell’arte scultorea prodotta in città. Eppure, malgrado ciò, ritengo sia opportuno, nonché proficuo per gli studi, delinearne meglio la figura, tentando di operare anche un ampliamento del suo 42 In realtà, logica vorrebbe che, tra i cugini, il più giovane fosse Francesco, visto che egli è il figlio di Andrea (a sua volta più giovane di Domenico), ma è di Lorenzo che possediamo l’attestazione più tarda, relativa appunto al 1627. Le notizie relative a Francesco si fermano infatti al 1582 (trattasi della firma dell’artista incisa nello scannello di una bella Madonna col Bambino oggi in collezione privata nel casale messinese di Castanea delle Furìe, fig. 88). 43 Per la trascrizione di questo rogito, cfr. G. LA CORTE CAILLER, Andrea Calamech scultore e architetto del secolo XVI, in «Archivio Storico Messinese», I-II, 1901, p. 84 nota 2. 44 Le prime due sono quelle del capostipite Domenico e del figlio Antonello, la terza quella cui appartennero gli altri quattro eredi diretti di Antonello. Da ciò evidentemente derivò la più incisiva influenza e la più duratura eco che la bottega gaginiana ha esercitato sulle vicende artistiche isolane. 45 Il Mazzolo si trasferì a Messina prima del 1512: cfr. G. DI MARZO, Del gran portale marmoreo della Cattedrale di Messina, in Messina, 28 dicembre 1908 [numero speciale della «Sicile Illustrée»], Società edit. Marraffa Abate, Palermo 1909, testo e nota 27. 187 catalogo, alla luce della recente attribuzione a questo autore di quella che deve a tutti gli effetti considerarsi la sua prima (e per ora unica) impresa documentata. D’altronde, la stessa data di nascita di Domenico ci è ignota, e soltanto per completezza d’informazione ricordiamo che in un recente contributo lo studioso siciliano Nicola Aricò ha sostenuto, pur senza indicare la fonte di tale asserzione, che nel 1535 lo scultore fosse poco più che quindicenne.46 Conviene dunque basarsi sui documenti in nostro possesso, i quali segnalano il Calamecca nel 1547, nel ’49 e ancora nel ’52 in qualità di commerciante di marmi che dalla natia Carrara venivano imbarcati alla volta della città dello Stretto;47 al 1553 e al ’56 risalgono invece gli unici due atti notarili nei quali si menzionano altrettanti lavori da associare alla sua attività di maestro di pietra. Tra i due rogiti, il secondo riguarda l’esecuzione del Monumento funebre di Leonardo Testa, commessa per la quale lo stesso Giovann’Angelo Montorsoli si obbligò con gli eredi del noto poeta messinese sepolto nella chiesa di Sant’Agostino «anche per nome e conto del magnifico Domenico Calamecca di Carrara, marmorario»;48 nel 1553, invece, il nobile messinese Antonio La Rocca chiese a Domenico e al fratello Andrea l’esecuzione di «quoddam sepulcrum marmoreum cum lapidibus marmoreis» dedicato al padre «spectabile domino Hieronimo La Rocca, baroni Militelli».49 In entrambi i casi, si tratta di note documentarie trascritte dall’erudito locale Domenico Puzzolo Sigillo; e se la Tomba di Leonardo Testa è andata irrimediabilmente perduta, quella di Antonio La Rocca ha resistito alle numerose distruzioni, naturali e non, succedutesi a Messina, ed è tuttora conservata nel museo peloritano (fig. 90). La notizia è di notevole importanza, perché, come più sopra accennato, ci troviamo di fronte all’unica impresa di Domenico Calamecca documentata di cui sia rimasta ancora oggi traccia materiale, e utile pertanto ad un primo, basilare, avvicinamento allo stile di questo maestro. Assieme a quest’ultimo 46 Cfr. supra, nota 40. Per il documento del 1547, cfr. G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori… nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 43; per gli altri due, G. DI MARZO, Memorie storiche di Antonello Gaggini e de’ suoi figli e nepoti, scultori siciliani del secolo XVI, Tip. Galileana, Firenze 1868, I, pp. 769, 773 nota 3, 785, e D. PUZZOLO SIGILLO, Il documento che ha rivelato l’autore cit., p. 3. 48 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311 [307]. 49 N. ARICÒ, Un museo immaginario cit., p. 59, ha precisato che non si tratta della «trascrizione integrale dell’atto, ma di un frammento riportato dalla trascrizione eseguita da Domenico Puzzolo Sigillo». In nota, poi, lo studioso ha aggiunto che le «poche righe» sono a loro volta state ricopiate dalla tesi di laurea che Carmela Albanese aveva discusso nell’anno accademico 1958-59 a Messina con Valentino Martinelli. Evidentemente all’epoca l’autrice aveva potuto visionare personalmente le preziose carte del Puzzolo Sigillo, operazione oggi non più possibile. 47 188 vi s’impegnava anche il fratello Andrea, la cui presenza in città divenne fissa a partire dal 1565, ma che tra il ’51 e il ’53 vi è pure documentato.50 A giudicare dai pochi manufatti che con certezza possono ricondursi ad Andrea, vale a dire il Monumento di don Giovanni d’Austria (fig. 91), i pezzi erratici facenti parte del Sepolcro di Visconte Cicala (figg. 92-94) e le due perdute statue raffiguranti San Giovanni Evangelista e Sant’Andrea (fig. 3), non sembra però che egli abbia contribuito fattivamente alla realizzazione della Tomba La Rocca.51 È probabile che Andrea abbia fornito il disegno dell’opera,52 e che l’esecuzione materiale dell’intero complesso sia spettata al fratello maggiore. Il monumento, che si presenta attualmente scomposto all’interno del Museo,53 riprende nella tipologia quello che Giovann’Angelo Montorsoli aveva eseguito intorno al 1533 per il generale dell’ordine servita Angelo Aretino e che era stato allogato nella chiesa di San Pietro ad Arezzo, dove ancora oggi è conservato (fig. 96). Possiamo infatti immaginare che la cassa funebre del La Rocca fosse collocata, alla stregua di quella montorsoliana, al di sopra di un alto zoccolo comprendente al centro l’iscrizione dedicatoria, e che essa fosse affiancata dai due putti reggistemma. L’analisi dei pezzi costituenti la Tomba La Rocca, a dispetto della loro frammentarietà, consente di ricondurre all’operato del medesimo autore un secondo marmo, raffigurante una Madonna col Bambino, tuttora custodita a Messina nella chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore (fig. 99).54 Particolarmente 50 Nel 1551 Andrea sposò a Messina una certa Giovannella Vannella (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Il pergamo del Duomo di Messina cit., p. 3). Un anno dopo, ancora assieme a Domenico, egli stipulò un contratto nel quale si assicurava ai due fratelli il pagamento per l’acquisto di alcuni marmi imbarcati a Carrara e destinati alla cappella del nobile Pietro di Benedetto nella maggiore chiesa messinese. Com’è noto, l’erezione di questa cappella fu affidata dal Di Benedetto al Montorsoli, che vi eseguì il San Pietro. 51 Il monumento celebrativo dedicato al trionfatore della battaglia di Lepanto s’innalza oggi in un piccolo slargo alle spalle della chiesa di Santa Maria dell’Annunziata; i frammenti del Sepolcro Cicala sono custoditi nei depositi del Museo Regionale; delle due statue, a grandezza naturale, facenti parte del complesso dell’Apostolato un tempo esistente all’interno della Cattedrale cittadina, restano oggi soltanto un paio di riproduzioni fotografiche precedenti al sisma del 1908. 52 Come accadde effettivamente qualche tempo dopo. È questo, ad esempio, il caso della prima attestazione documentaria riguardante Andrea l’indomani del suo arrivo a Messina, e risalente al 7 maggio 1565: in quell’anno il nobile messinese Giovanfilippo La Rocca commissionò una coppia di monumenti funerari al collaboratore di Andrea, Paolo Tasso, e allo scultore locale Rinaldo Bonanno, che si sarebbero dovuti attenere «a lo disingno et a talentamento di li nobili Andrea Calameca et Johanni Domenico Mazzolo» (cfr. B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117 e 128, doc. n. 2). Per questo rogito, vedi qui il Capitolo VI, Appendice documentaria, nn. 1-3. 53 Il sarcofago con il semi-gisant è esposto nel cortile della struttura museale, i due putti reggistemma sono stati ricoverati in un ambiente di deposito, la lastra marmorea con l’iscrizione si trova all’esterno lungo un vialetto che corre dietro agli uffici del Museo. 54 L’edifico di culto fu fondato dai frati carmelitani intorno alla metà del XII secolo su un’altura all’epoca fuori dalle mura nei pressi del torrente Giostra. Esso assunse la denominazione di “Superiore” a partire dalla seconda metà del XV secolo, quando con lo stesso titolo di Santa Maria di Gesù venne eretto dai francescani un altro complesso conventuale in una diversa area della città (quartiere detto “delle Fornaci”). Il terremoto del 1908 devastò questo nuova fabbrica, così che ne fu costruita una nuova, con la medesima dedicazione, inaugurata nel 1932 nel rione “Provinciale”. 189 utili al confronto con quest’ultimo manufatto risultano i due putti reggistemma (figg. 97-98, 101-102), i cui dettagli anatomici (il volto con le orbite oculari visibilmente incavate, le arcuate aperture sopraccigliari, i nasini schiacciati, il solco inciso attorno al collo e le gambette, circoscritte nella parte bassa da paffuti cordoncini di pelle) sono analoghi a quelli del Bambino benedicente in braccio alla Vergine del Gesù Superiore.55 Il riferimento al Montorsoli, lungi dal limitarsi al semplice nesso tipologico, implica, a mio avviso, una certa dimestichezza con il fare scultoreo di quel maestro dovuta alla plausibile frequentazione, da parte di Domenico, della bottega che Giovann’Angelo aveva impiantato in città nel quinto decennio del secolo. Prima dell’arrivo del fratello Andrea (1565) e prima che Rinaldo Bonanno si affermasse come il più talentuoso scultore locale, a capo di una prolifica e dinamica officina del marmo, fu proprio Montorsoli ad attrarre molti degli artisti presenti in città. Tra questi compare, ad esempio, Giovandomenico Mazzolo, che, dopo essersi formato presso il padre Giovambattista, non soltanto gravitò attorno al Montorsoli, ma riuscì anche a recepirne, prima di chiunque altro, le novità figurative.56 Medesima sorte toccò al locale maestro di pietra Giuseppe Bottone, il quale da un rapporto professionale anche documentato con Martino Montanini poté derivare alcuni più moderni schemi tipologici (senza riuscire però, vista la povertà dei mezzi posseduti, a guadagnarne in destrezza tecnica). Lo stesso Rinaldo Bonanno, appena quattordicenne, dovette affiancarsi al Montanini nel Dal canto suo, anche la chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore subì notevoli danni, in questo caso non causati dal terremoto, ma da una terribile alluvione che si abbatté sulla città nel 1863. In quella circostanza la chiesa fu talmente danneggiata che si decise di costruirne una ex novo, praticamente quasi nello stesso sito dove sorgeva quella antica. E fu proprio mentre si scavava per i lavori di ricostruzione del nuovo edificio (intorno al 1886) che venne alla luce la Madonna qui attribuita a Domenico Calamecca. Da Gaetano La Corte Cailler sappiamo che il marmo fu collocato nella fabbrica moderna nel 1897, durante una solenne cerimonia cui parteciparono i fedeli nel giubilo generale (G. LA CORTE CAILLER, La chiesa di S. Maria di Gesù Superiore ed una statua di Antonello Gagini, dalla tip. dell’Epoca, Messina 1897, pp. 15-18). Cfr. anche V. SACCÀ, Una Madonna del Gagini, Tipografia Nicotra, Messina 1897, pp. 6-15. Il riferimento della statua, in entrambi gli autori, ad Antonello Gagini, si deve ad un errore dei due studiosi, tratti in inganno dall’esistenza di una scultura mariana di bottega gaginiana nell’altra chiesa, quella del Gesù Inferiore. Ad un’epoca anteriore all’alluvione risalgono le due segnalazioni del Grosso Cacopardo e del La Farina: G. GROSSO CACOPARDO, Guida della città di Messina scritta dall’autore delle Memorie de’ pittori messinesi, presso Giuseppe Pappalardo, Messina 1826, p. 123; C. LA FARINA, Messina e i suoi monumenti, Stamperia G. Fiumara, Messina 1840, p. 141. 55 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., pp. 272-273 figg. 46-47, ha assegnato la Madonna del Gesù alla bottega calamecchiana, proponendo (ma lasciando in didascalia il punto interrogativo) il nome di Lorenzo Calamecca. Il confronto, operato dalla studiosa, con un’immagine mariana datata nello scannello 1578, e custodita a Dipignano (CS, fig. 89) nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, non convince, poiché risalta agli occhi la notevole distanza cronologica che separa i due manufatti. Non a caso, Monica de Marco ha restituito il marmo di Dipignano a Francesco Calamecca, sulla base del confronto con la Vergine di Castanea, firmata e datata (fig. 88). 56 Cfr. qui il Capitolo IV. 190 periodo in cui quest’ultimo protrasse la propria permanenza a Messina dopo il definitivo rientro in patria del Montorsoli (1558-61). Domenico s’inserisce dunque pienamente nel novero dei tanti maestri che, se da un lato tentarono di cogliere, più o meno proficuamente, gli insegnamenti di colui il quale aveva lavorato al fianco di Michelangelo, dall’altro furono anche notevolmente avvantaggiati dalla presenza del toscano in città, che scatenò una fioritura di commesse tale da caratterizzare la seconda metà del secolo come la più vivace e florida in termini di produzione scultorea. D’altronde, è già stato ricordato il rogito stipulato nel 1556 con gli eredi di Leonardo Testa, rogito attraverso il quale Giovann’Angelo s’impegnava, in veste di garante, a portare a termine il monumento funerario del poeta, eseguito nei fatti dal Calamecca: ciò dimostra come tra i due si fosse instaurato un rapporto professionale nel quale evidentemente Domenico dovette usufruire della maggiore reputazione di cui godeva il Montorsoli, all’ombra del quale e grazie al quale lui ed altri scultori finirono per ottenere anche prestigiose commesse.57 La stessa Vergine del Gesù Superiore replica l’immagine, di analogo soggetto, spedita da Giovann’Angelo a Tropea (VV) nel 1554, ed ancora in situ nella Cattedrale della cittadina tirrenica (fig. 100). Il gesto del Bambino, che solleva agilmente la gambetta destra, conferisce un accenno di moto all’intera figura (altrimenti immobile nella sua posizione perfettamente frontale), e non a caso riprende proprio quello di Tropea, sebbene in controparte.58 57 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima cit., p. 52, ricordò che nella medesima cappella si custodiva anche la Pietà eseguita da Lorenzo Calamecca, il figlio di Domenico: «In questo tempio si vede di notabile la palla… di Nostra Signora della Pietà, opra di Lorenzo Calamech pittore et scultore messinese, esposta questa palla nella cappella dove sepellito giace Lionardo Testa in un sepolcro marmoreo, dottissimo et prestantissimo filosofo, medico et poeta de’ suoi tempi, n cui si legge intagliato quest’epitafio…». La Pietà, firmata dall’artista, si trova oggi presso il Museo Regionale. 58 Un’ipotesi da prendere in considerazione è quella che il Sepolcro La Rocca e la Madonna col Bambino facciano parte di un unico complesso monumentale forse destinato ad una cappella di patronato della nobile famiglia messinese. Purtroppo le fonti non ci aiutano al riguardo, dal momento che non forniscono alcuna descrizione di sepolcri allogati in una cappella, eretta all’interno della chiesa francescana, appartenente ai La Rocca. Soltanto G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima cit., pp. 12-13, segnalò l’esistenza delle due tombe, l’una di Antonio La Rocca, e l’altra della moglie, trascrivendone le iscrizioni: «Giacevi parimente Antonio dalla Rocca et la di costui moglie, sepelliti però in due sepolcri marmorei con gli infrascritti epitafii». Questo è il testo delle due iscrizioni, incise su un’unica lastra marmorea attualmente al Museo: D.O.M. ANTONIO LA ROCCA PATRICIO MESSANENSI BARONIQVE TERRE MELLITELLI VALLIS NEMOR. VIRO NON MINVS VIRTVTIBVS QVAM OPIBVS DITISSIMO VIXIT AN. XCIIII ET MEN. III OBIIT MEN. DECEMB. DIE VI. MDXLII IN FESTO D. NICOLAI I PONTIFICIS SVI PATRONI. EUPHEMIEQVE VXORI, MVLIERI EXEMPLARI, CVJVS COR ANIMVSQVE CHARITATE EXARDEBANT. EAMQVE OPERIBVS ILLVSTRABAT. VIXIT AN LXX. HYERONYM. VTRIVSQVE FILIVS ET DON VINCENTIVS NEPOS EX DON BERNARDINO FRATRE HOC MERITO PARAVERVNT SEPVLCHRVM. ANNO DOMINI MDLIII». 191 V.3.1 L’Adorazione dei Magi di Seminara: una nuova proposta attributiva. Nell’ambito dei rapporti di lavoro e dei molteplici scambi culturali avviati tra Domenico e l’entourage montorsoliano, sembra plausibile credere che il Calamecca dovette aver modo di collaborare attivamente con Martino Montanini. Potrebbe essere questo il caso dell’impegnativa pala d’altare raffigurante l’Epifania (1551 circa, figg. 103, 105) attualmente custodita nella chiesa di San Michele a Seminara (RC). L’ancona, sinora integralmente attribuita a Martino, palesa invece, a mio avviso, alcune stringenti affinità con le due opere calamecchiane poco sopra citate.59 Una platea datata 1722 e parzialmente pubblicata dallo studioso locale Antonio Tripodi fornisce preziose informazioni in merito alla provenienza e alla datazione nonché alla committenza dell’altare.60 Esso era collocato in origine nella chiesa dei minori conventuali di San Francesco, e suoi committenti furono i fratelli Giovanni Bernardo e Lorenzo Longo, i cui Santi protettori figurano non a caso rispettivamente a destra e a sinistra dello zoccolo.61 L’opera è costituita da una 59 Già E. NATOLI, Scultura di ambito messinese in Calabria nei secoli XVI e XVII, in Messina e la Calabria dal basso Medioevo all’età contemporanea, atti del I colloquio calabro-siculo, Reggio Calabria-Messina 21-23 novembre 1986, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1988, pp. 24-25, e F. PAOLINO, Altari monumentali in Calabria 1500-1620, Jason Editrice Srl, Reggio Calabria 1996, pp. 45-63, avevano ricondotto l’Adorazione dei Magi all’ambito montorsoliano (la seconda aveva pensato a Giovann’Angelo in persona). A fare il nome del Montanini, sebbene un po’ confusamente (cfr. infra, nota 63), è stata A. MIGLIORATO, Per la scultura del Cinquecento in Calabria: alcune precisazione e qualche inedito, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», LXXIV (1998), pp. 353-354, e poi ancora in Tra Messina e Napoli cit., pp. 51-59. Ad uno scultore napoletano «prossimo a Giovanni da Nola giovane e forse allo stesso Diego de Siloe» ascrisse invece l’opera F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento cit., p. 187. L’Epifania, unitamente agli altri marmi cinquecenteschi custoditi nei principali edifici religiosi seminaresi (Chiesa Madre e chiese di San Michele e di San Marco), si è guadagnata una scheda nel libro di M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 254-257. 60 Archivio Storico Diocesano di Mileto, Platea ven(erabilis) conve(n)tus PP. Min(o)rum Conven(tua)lium S(ancti) Fran(cisci) de Assisio civit(a)tis Seminariae (anno 1722), fol. 12r. La parziale trascrizione del documento è in A. TRIPODI, I Francescani conventuali a Seminara, in «Calabria letteraria», XLVI (1998), 7-9, pp. 39-40. Ecco il testo della Platea nella parte relativa alla chiesa di San Francesco: «Nel […] del Vangelo di detta chiesa vi son cinque cappelle, la prima delle quali che siegue appresso quella del patriarca S. Francesco, è sotto il titolo dell’Epifania del Signore della famiglia de’ signori di Longo di questa predetta città di Seminara… Qual cappella tiene due colonne intagliate di pietra bianca di Seracusa; il quadro è di fino marmo bianco colle figure della Epifania, scolpite a basso rilievo; sopra vi sono due angeli in atto di adorazione, ed in mezzo l’effigie dell’Eterno Padre scolpite a basso rilievo in detto marmo, col motto a lettere incise: Deliciæ meæ cun fillis hominum. A piè del quadro a lettere anche incise sul marmo leggonsi le seguenti parole: Regis Tharsis et insulæ munera offerunt (sic) Reges Arabum et saba dona adducent. E sopra la detta cappella, verso il suo finimento, vi si leggono incise anche in detto marmo le seguenti parole: Vidimus stellam eius in Oriente, et venimus cum muneribus adorare Dominum. Joannes Bernardus filius, et eius frater, ad honorem Christi et eius matris hoc opus fieri fecerunt 1551». 61 C. RAGONA, La committenza artistica delle confraternite dell’Immacolata in Calabria, in L’Immacolata nei rapporti tra l’Italia e la Spagna, a cura di A. ANSELMI, De Luca Editori, Roma 2008, pp. 143-166 [151-152]. Al di sotto dello zoccolo in epoca imprecisata è stato murato un 192 grande tavola centrale scolpita con l’Adorazione dei Magi e conclusa in alto, al di sopra di una trabeazione lungo cui corre un fregio decorato con testine di cherubini, da un fastigio lunettato con l’Eterno Padre Benedicente affiancato da due angeli adoranti. La struttura e la composizione dell’ancona ricordano quella, di identico soggetto, conservata sempre a Seminara all’interno della chiesa di San Marco e concordemente attribuita dalla letteratura artistica a Giovambattista Mazzolo (fig. 104). Malgrado ciò, la maggiore linearità compositiva e la più spiccata semplicità dell’apparato decorativo esibiti dal marmo oggi a San Michele palesano la distanza dall’esemplare decisamente più antico prodotto dalla bottega mazzoliana.62 Alla luce dell’acquisizione al catalogo di Domenico del Sepolcro La Rocca, l’analisi della pala con l’Epifania consente facilmente di individuare lo specifico apporto del Calamecca, benché esso presenti qui una sorta di contiguità stilistica e di comunità d’intenti con l’officina montorsoliana ed in particolare con l’operato del Montanini. Tra i putti reggistemma appartenenti alla Tomba La Rocca e i Bambini del Gesù Superiore e di Seminara sono forti le analogie nella resa dei capelli, svolti in piccole virgolettature e caratterizzati da un ciuffo più grande ricadente sulla parte centrale della fronte; nella delineazione dei volti, dai tratti marcati, contraddistinti da un’ampia arcata sopraccigliare, dagli occhi con le pupille profondamente incise e dai nasini un po’ appiattiti e larghi alla punta; nella sottolineatura dell’arco alla base del collo, che forma quasi un collare con un piccolo solco più profondo al centro (figg. 106-109). Alla stessa stregua, mi sembra possano cogliersi i medesimi stilemi in alcuni personaggi del corteo dei Magi, fra cui il giovane collocato all’estrema sinistra (fig. 110), che ben si confronta con i soliti putti reggistemma (fig. 111). Anche l’uomo posto tra il Mago rappresentato a destra ed uno dei soldati del seguito, e del quale si scorge solamente il volto, trova a mio avviso dei precisi punti di confronto con la figura del La Rocca nel relativo monumento funebre: si osservino, in particolare, le rughe d’espressione così accentuate tra il naso e la fronte (figg. 112-114). Ciò che, nel marmo seminarese, ad Alessandra Migliorato rievocava il ductus montaniniano, a me sembra debba inquadrarsi nell’ambito di un preciso legame tipologico con le creazioni di Martino piuttosto che in quello di una reale partecipazione di quest’ultimo alla realizzazione dell’ancona.63 Esiste certamente fregio, decorato con testine di cherubini alternate a drappi, evidentemente proveniente da un altro complesso marmoreo. 62 A tale riguardo occorre ricordare che il Mazzolo, nel portare a termine quest’opera e la sua gemella ancora esistente a Messina in Cattedrale, prese spunto, in termini di composizione, dal noto dipinto con l’Adorazione dei Magi che Cesare da Sesto completò intorno al 1517 per un edificio di culto ancora ignoto e che in seguito giunse nella chiesa di San Nicolò dei Gentiluomini (il dipinto pervenne poi, a seguito delle soppressioni borboniche, a Napoli al Museo Nazionale di Capodimonte). 63 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 58-59. La studiosa è arrivata a Martino dopo un’incomprensibile serie di confronti con opere compiute da Rinaldo Bonanno a circa trent’anni di 193 una familiarità tra la Vergine dell’Adorazione dei Magi e la Santa Caterina d’Alessandria che il Montanini compì tra il 1559 ed il 1560 per la Chiesa Madre di Forza d’Agrò (ME, figg. 115-116),64 ma la mia idea è che nel primo manufatto si ripropongano alcuni elementi tipici dello stile montaniniano ad opera di un’altra personalità, individuabile appunto in Domenico Calamecca. Se poi si confronta il San Paolo un tempo parte dell’Apostolato del Duomo messinese, ricondotto dalla storiografia locale proprio all’allievo del Montorsoli, si ottiene più di una riprova della distanza che separa la più corsiva ancona seminarese dalla maggiore solennità d’impianto e potenza espressiva sia del Principe degli Apostoli sia delle numerose piccole figure che ne popolano lo scannello, scolpito con scene della Vita del Santo (figg. 5, 117). Queste ultime esibiscono infatti una tale pienezza di forme inserite in uno spazio magistralmente inquadrato nel senso della prospettiva difficile da ritrovare nei personaggi dell’Adorazione, i quali, disposti quasi tutti paratatticamente, si muovono su un unico piano di fondo. Tutto ciò farebbe dunque supporre che Martino non abbia preso parte all’impresa commissionata dai fratelli Longo, o almeno che il suo contributo non sia stato così preponderante come si è pensato finora. Non è forse superfluo ricordare che l’Epifania era destinata alla principale chiesa francescana della cittadina calabra, e che anche il Monumento La Rocca fu collocato in un edificio di culto dei minori conventuali: anche la data (1551) riportata dalla platea, la quale a sua volta dovette essere parte di una perduta iscrizione posta a corredo dell’ancona,65 è prossima a quella del Sepolcro La Rocca, lasciando il campo aperto ad eventuali riflessioni sui talora duraturi rapporti che si instauravano tra artisti e committenti.66 distanza dall’epoca d’esecuzione della pala di Seminara. In quell’occasione ella ha posto l’accento sul «nodo Montanini-Bonanno e sul rapporto di forte contiguità stilistica fra i due» (nelle didascalie alle foto 21-24, 28, 33, compare la dicitura “bottega di Martino Montanini”). Il nome del Bonanno è stato ancora riproposto dalla Migliorato in un recente contributo (Una maniera molto graziosa cit., p. 200), ma stavolta la studiosa si è presentata più convinta dell’ascrizione montaniniana, anche perché «la cronologia tra il 1551 e il 1555 permette di escludere l’intervento di Giuseppe Bottone o di Rinaldo Bonanno ancora non attivi a queste date. In conclusione, è probabile che» l’Epifania sia stata eseguita «su disegno del Montorsoli, ma quasi esclusivamente per mano del Montanini, probabilmente a sua volta affiancato da altri aiuti». Per una rilettura complessiva dell’opera di Rinaldo Bonanno, il quale sin dalle prime prove palesò un linguaggio diverso dall’entourage montorsoliano (malgrado il periodo di apprendistato presso il Montanini), cfr. qui il Capitolo VI. 64 Sebbene esistano almeno altri due marmi ascrivibili a Martino, vale a dire la Madonna oggi in collezione privata a Castanea delle Furìe ed una Sant’Agata conservata a Castroreale nell’omonima chiesa, la Santa di Forza d’Agrò è l’unica opera documentata. L’atto notarile relativo alla sua commissione è stato rintracciato da D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata cit., pp. 306-311. Essa era destinata alla chiesa francescana di Forza d’Agrò intitolata alla martire alessandrina. 65 Come anche per la Trasfigurazione, l’ipotesi più semplice è che le date trascritte nella platea siano relative all’epoca di consegna delle opere. 66 A tal proposito è doveroso ricordare che Seminara, situata nel territorio della Calabria Ulteriore, acquistò notevole importanza a partire dalla fine del XV secolo, quando le campagne nei dintorni della cittadina furono teatro (tra il 1495 ed il 1503) di cruenti battaglie tra Francesi e Spagnoli per accaparrarsi il potere sulla Penisola. In epoca vicereale la cittadina ricevette addirittura il privilegio 194 V.3.2 Frammenti calabri da Seminara e da Galatro. Gli inediti tabernacoli eucaristici di Galati Mamertino e di Santo Stefano Medio. L’Adorazione dei Magi non doveva essere l’unico complesso scultoreo di provenienza messinese esistente a Seminara nella chiesa di San Francesco: la stessa platea di cui sopra, infatti, c’informa della presenza di un secondo altare marmoreo svettante in una cappella situata esattamente di fronte a quella che ospitava l’Epifania calamecchiana. Come si legge dal testo della Platea, doveva trattarsi di una Trasfigurazione di Cristo fatta eseguire per volere dell’ecclesiastico Jacobello Franco (o de Franchis) e da datare attorno al 1555.67 Parte di questa tavola esiste ancora, ed è costituita da un bassorilievo scolpito con le tre figure di Apostoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) giacenti a terra, scossi dall’evento miracoloso che si sta verificando in loro presenza, mentre ai lati sono ancora leggibili i due stemmi dei committenti, l’uno della famiglia Franco, l’altro da identificare verosimilmente con quello dei Marulli.68 La lastra (fig. 118), albergata all’interno della chiesa di San Marco,69 è stata murata al di sotto della già citata pala, anch’essa raffigurante l’Adorazione dei Magi e spedita al di là dello Stretto dal carrarese Giovambattista Mazzolo (fig. 104). Essa svolge pertanto la funzione di paliotto dell’opera mazzoliana, alla quale però non è connessa da alcun legame stilistico. Al contrario, come di già in parte rilevato da Francesca Paolino e poi più estesamente argomentato da Alessandra Migliorato,70 questo frammento deve di accogliere Carlo V, che vi entrò trionfalmente dopo la conquista di Tunisi (1535). È questa l’epoca in cui in città dominò la potente famiglia degli Spinelli, il cui principale esponente fu senza dubbio Carlo, terzo conte e poi duca di Seminara, valoroso condottiero, uomo politico di grande acume nonché generoso mecenate (cfr. S. AMMIRATO, Il Rota overo dell’imprese, dialogo del signor Scipione Ammirato nel quale si ragiona di molte imprese di diversi eccellenti autori, e di alcune regole e avertimenti intorno questa materia, Gio. Maria Scotto, Napoli 1562, pp. 157-158). 67 ASDM, Platea ven(erabilis) cit., fol. 13r: «sotto il titolo della Trasfigurazion del Sig(no)re il di cui quadro è di marmo fino colle figure di d(ett)a Transfiguraz(io)ne a basso rilievo scolpite, alli due finimenti del quadro vi sono incise le armi del padrono, e nel frontespizio leggesi la seg(uen)te iscrizz(io)ne: Salvatoris Jesu Christi Transfigurationi dicavit, et sibi, et suis a fundam(e)ntis op(er)a divina erexit Jacobellus Francus Antonii filius, Dei et Apostolicæ sedis gratia miles, ac comes palatinus, ac canonicus Militensis, anno 1555». “Jacopello de Franchis” è inoltre ricordato da padre Fiore tra gli uomini illustri di Seminara (cfr. G. FIORE DA CROPANI, Della Calabria illustrata, Parrino e Muzio, Napoli 1691, I, p. 149). 68 L’ancona, che potremmo immaginare “gemella” dell’Adorazione dei Magi, doveva evidentemente prevedere un’altra lastra scolpita con il Cristo affiancato dai profeti Mosè e Elia, oltre al corredo di trabeazione e fregio decorato nonché una più che plausibile lunetta, alla stregua, dunque, dell’opera calamecchiana. Gli stemmi sono inseriti ai lati di una predella anch’essa da collegare alla Trasfigurazione: quello dei Franco (gigli nel campo superiore e bastone trasversale in quello inferiore) figura a sinistra, l’altro dei Marulli (leone rampante sovrastato da una croce) a destra. 69 L’edificio religioso, che fino al 1880 era una collegiata, è stato completamente ricostruito dopo il 1783 sul sito dell’antica chiesa dei minori osservanti, sotto il titolo di Santa Maria degli Angeli. 70 Un po’ imbarazzante appare l’ipotesi di F. PAOLINO, Altari monumentali cit., p. 72, secondo la quale l’invenzione della pala sarebbe da attribuire al Montorsoli, mentre l’autore sarebbe da identificare in Giovambattista Mazzolo. È evidente che la studiosa non si è soltanto lasciata 195 ricondursi alla medesima bottega autrice sia dell’Epifania qui attribuita al Calamecca (fig. 103), sia dei due Principi degli Apostoli e del fregio decorato con testine di cherubini e drappi, impropriamente murati nell’abside di San Michele (già in San Francesco, figg. 119-120). Anche questi ultimi pezzi, scampati ai due terremoti (1783 e 1908), un tempo dovettero far parte di un più esteso altare forse proveniente da un diverso edificio religioso. A questo riguardo risulta interessante la proposta, avanzata da Monica de Marco, di leggere tali frammenti come parti di una custodia eucaristica a parete, da identificare con quella descritta sull’altare maggiore della chiesa seminarese di Santa Maria “delli Arangi” in occasione di una visita pastorale compiuta nel 1586 dal vescovo di Mileto Marcantonio del Tufo.71 Assodata la matrice culturale dei due complessi marmorei (il presunto altare eucaristico e la Trasfigurazione), resta ora da approfondirne l’indagine relativamente agli autori. Benché sia chiaro il riferimento allo stretto ambito montorsoliano, non riesco a trovare in essi tracce dello stile del Montanini,72 né tantomeno vi riscontro elementi riconducibili a Domenico Calamecca. Penserei piuttosto a qualcuno tra i collaboratori, incaricati di portare a termine lavori forse concepiti da Martino, o comunque supervisionati da quest’ultimo, nell’eventualità intervenuto di persona in qualche brano specifico. Potrebbe essere questo il caso, ad esempio, del frammento con gli Apostoli della perduta Trasfigurazione, nel quale le figure, imponenti, occupano l’intera scena, dominando lo spazio con la loro robusta presenza (fig. 118). Nei Santi Pietro e Paolo scolpiti ad altorilievo entro nicchie conchigliate, invece, mi sembra prevalga una maggiore rapidità d’esecuzione, indice forse dell’intervento di qualche aiuto (fig. 119-120). Verrebbe dunque a delinearsi una situazione che si può così riassumere: entro il sesto decennio del Cinquecento ben tre commesse giungono all’entourage montorsoliano, destinate a due importanti fabbriche religiose di Seminara; tra di essi si annoverano due grandi pale raffiguranti l’Adorazione dei Magi e la Trasfigurazione, compiute rispettivamente da Calamecca e da Montanini, i due esponenti di spicco dell’officina messinese di Giovann’Angelo; ad una terza personalità ancora ignota, ma comunque vicina a Martino, spetterebbero invece i Principi degli Apostoli (e un fregio con testine di ingannare dalla sovrastante pala mazzoliana, ma non ha neanche colto che la scena con la Trasfigurazione proveniva da un altro complesso scultoreo. Di ciò si è accorta invece A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 53-56. 71 ASDM, Acta Pastoralis Visitationis, foll. 658v-687v. La visita del prelato iniziò proprio con la Matrice di Santa Maria “delli Arangi” (cfr. A. TRIPODI, Le chiese di Seminara sul finire del XVI secolo, in «L’alba della Piana», marzo 2011, pp. 21-24). Secondo A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 53-54, figg. 25-26, i Principi degli Apostoli (altezza 80 cm) ed il fregio con testine di cherubini alternate a drappi (230x17 cm) sarebbero pezzi erratici della Trasfigurazione oggi a San Marco (già in San Francesco), di cui rimane il bassorilievo con gli Apostoli (122x78 cm). 72 Soltanto per i Santi Pietro e Paolo e per il fregio ad essi correlato la De Marco ha pensato alla possibilità dell’intervento dei collaboratori (cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 252-253 figg. 223-228). 196 cherubini alternate a drappi), uniche parti superstiti di una custodia del Santissimo Sacramento. A quest’ultima tipologia di manufatti, che nel corso del Cinquecento ebbe una notevole diffusione, si possono aggiungere altri tre esemplari licenziati anch’essi dalla bottega del Montorsoli e spediti in altrettante località periferiche (due sicule ed una calabra). Si tratta dei tabernacoli custoditi a Gàlatro (RC) nella chiesa della Madonna della Montagna, ma proveniente dall’antica Matrice dedicata a San Nicola (fig. 121),73 e di quelli, inediti, ospitati nella chiesa del Rosario a Galati Mamertino (ME, fig. 123) e a Santo Stefano Medio (ME, Santa Maria dei Giardini, fig. 122). Il marmo galatrese, anch’esso menzionato nella visita pastorale di monsignor Del Tufo,74 alla fine degli anni settanta è stato malamente ricomposto, tant’è che la lunetta col Dio Padre Benedicente destinata a sormontare l’altare si trova attualmente, a mo’ di paliotto, alla base della custodia. In un ambiente di deposito dell’edificio di culto si conserva invece il timpano, che in origine dovette costituire il fastigio dell’intera opera, della quale Monica de Marco ha di recente fornito una ricostruzione virtuale.75 Un’idea dell’assetto primitivo dell’edicola eucaristica di Gàlatro è comunque offerta dalla “gemella” di Galati Mamertino, ancora oggi integra e in buono stato di conservazione:76 la tipologia è quella di un tempietto svettante su un alto zoccolo che fa da base a quattro colonne lisce sui cui fusti si annodano tralci di vite; i tre scomparti così delineati presentano al centro il repositorio vero e proprio, con la porticina affiancata da coppie di angeli adoranti, e ai lati i Santi Pietro e Paolo (nell’esemplare siculo troviamo invece la Pietà e l’Immacolata); al di sopra del fregio decorato con testine di cherubini alternate a drappi s’innalza la lunetta con l’Eterno Padre (fig. 127).77 Per entrambi i manufatti penserei, più che ad un intervento autografo di Martino Montanini, a quello della sua cerchia, in virtù di un palese scarto rispetto al più sostenuto ductus del capomastro.78 È questo il caso della veste del Dio Padre, contraddistinta da quelle plissettature che, partendo dal 73 G. DE MARCO, Gli arredi liturgici, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi, Roma 2002, pp. 959-976 [967, fig. 29]. 74 ASDM, Acta Pastoralis Visitationis, II, fol. 270r. Ad occuparsi estesamente del marmo galatrese, ed a fornire altresì i primi raffronti con l’Epifania di Seminara, è stato lo studioso locale U. DI STILO, Il cinquecentesco trittico marmoreo della chiesa parrocchiale di Galatro. Con l’aggiunta di notizie sulle altre opere del patrimonio artistico locale, Grafiche Femia, Marina di Gioiosa Ionica 2005, pp. 107-108. 75 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., p. 248 fig. 216. È stato effettuato anche qualche intervento di integrazione di parti mancanti, come nel settore sinistro dello zoccolo. 76 Cfr. la scheda n. 13. 77 I timpani di entrambe le custodie conservano ancora traccia di tre basette su cui evidentemente dovettero poggiare altrettante sculture, oggi perdute. Nel manufatto di Gàlatro lo zoccolo presenta al centro la figura di San Nicola, patrono della Matrice cui l’opera fu in origine destinata. 78 Ha avanzato l’attribuzione al Montanini M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 248251. Un rapido cenno, con la medesima ascrizione, è anche in A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., p. 200. 197 collo, scendono giù in direzione obliqua, e del mantello, che, ruotando attorno all’Eterno, crea una parabola perfettamente circolare.79 La già citata Santa Caterina d’Alessandria di Milazzo, eseguita da Giuseppe Bottone nel 1560, fornisce anche qualche termine di confronto con gli angeli veglianti il Santissimo nella custodia di Santo Stefano Medio (figg. 129-130), e denotanti una stessa impostazione e analoghe fisionomie, cui si aggiungono i medesimi trattamenti, ampi e distesi, dei panneggi. Un dettaglio “morelliano” particolarmente significativo delle assonanze tra i due manufatti è costituito dalle mani, dalla tozza conformazione della palma e dalle dita grosse all’attaccatura e poi man mano più fini, con le due centrali (medio e anulare) spesso unite (figg. 129, 131).80 Alcuni brani, quali il Dio Padre nel marmo galatrese o le due scene con la Pietà e l’Immacolata a Galati (figg. 126, 133, 135), sono caratterizzati da un tratto rapido e da un’estrema rigidezza dell’intaglio. Non è un caso, anzi, che alcune di queste figure e lo stesso carattere un po’ corsivo dell’esecuzione ricordino lo stile del già citato Bottone. 79 Il riferimento in questo caso è direttamente montorsoliano, e s’identifica in motivi figurativi simili a quelli che il toscano espresse in alcuni dei pannelli decorativi della Fontana di Orione (fig. 1). Si noti l’esempio del rilievo sottostante al Camaro (fig. 128). 80 Giusto per stabilire, anche col supporto di precise testimonianze figurative, un nesso tra le opere marmoree di cui qui si discute, e nello specifico tra quelle dell’ambito bottoniano ed esempi pittorici ancora vivi nella produzione figurativa peloritana, proporrei un raffronto tra le figure angeliche esibite nei tabernacoli di Santo Stefano Medio, di San Nicolò, di Drosi e dell’Ospedale Piemonte e la Maddalena (parte di un polittico, fig. 137) compiuta da Polidoro probabilmente per il romitorio messinese di Santa Maria degli Angeli alla fine degli anni trenta del Cinquecento ed oggi conservata al Museo Nazionale di Capodimonte (cfr. P. L. DE CASTRIS, Polidoro da Caravaggio, Electa Napoli, Napoli 2001, p. 445, fig. 106). O, ancora gli angeli adoranti a riscontro con la figura, di identico soggetto, eseguita dal polidoresco Mariano Riccio alla fine degli anni cinquanta nell’Annunciazione di provenienza ignota (oggi Messina, Museo Regionale, fig. 139). 198 V.4 SCHEDE 199 1. Giovann’Angelo Montorsoli (Montorsoli (Firenze), 1507 circa – Firenze, 1563) Sant’Agata Primi anni cinquanta del Cinquecento Marmo Altezza 168 cm, scannello altezza 25 cm Taormina, Cattedrale di San Nicolò La fortuna critica di questa pregevole statua (fig. 6) iniziò nel 1930, anno in cui Stefano Bottari, insigne storico dell’arte siciliano, la pubblicò entro un importante contributo dedicato a Martino Montanini,81 il “Martino da Firenze” che già Vasari ricordava al fianco di Giovann’Angelo Montorsoli nelle imprese genovesi e siciliane.82 Il Bottari, che giusto qualche anno prima aveva ampiamente indagato l’attività del celebre maestro toscano a Messina,83 si proponeva adesso non soltanto, e per la prima volta, di ricostruire l’attività del più noto collaboratore di questi, ma anche di ampliarne l’esiguo catalogo. Segnalata l’opera, lo studioso ne fondava l’attribuzione al Montanini sulla base del confronto con la documentata scultura raffigurante Santa Caterina d’Alessandria (1558-61) oggi conservata a Forza d’Agrò (ME) nel Duomo ma proveniente dalla chiesetta omonima (fig. 34).84 Pur notando, nelle due Sante, l’identità di composizione e di impostazione, tuttavia Bottari arguì che quella di Taormina «si mostra più accademica e più trascurata nei particolari, anche se i bassorilievi sono superiori per la finezza di esecuzione».85 Successivamente, grazie anche al crescente interesse che le vicende dello sviluppo dell’arte scultorea in Sicilia, specie di quella del Rinascimento, sollevavano, la Sant’Agata trovò posto entro la bibliografia specialistica, man mano che se ne assestava anche l’attribuzione a Martino86 e che lo stesso marmo 81 S. BOTTARI, Di Martino Montanini scultore del secolo XVI, in «Arte Cristiana», 6, 1930, pp. 162172 [167]. 82 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, pp. 616-623, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it. 83 S. BOTTARI, Giovanni Angiolo Montorsoli a Messina, in «L’Arte», XXI, 1928, pp. 1-9. 84 Vedi la scheda n. 3. 85 IDEM, Di Martino Montanini cit., p. 167. 86 S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, p. 66, fig. 43; E. NATOLI, Nuove attribuzioni a Martino Montanini, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Messina», 11, 1987, pp. 19-32 [24]; B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli: ein Florentiner Bildhauer des 16. Jahrhunderts, Gebr. Mann Verlag, Berlin 1992, pp. 103-104, fig. 201; C. DI GIACOMO, Questioni attributive e manufatti inediti nel patrimonio scultoreo della città di Milazzo, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 191; E. NATOLI, Martino Montanini e la committenza 200 si guadagnava, all’interno del catalogo di questi, la giusta considerazione. Assieme al consolidamento della responsabilità montaniniana, si affermava altresì lo stretto legame, da un punto di vista tipologico, che univa il manufatto taorminese al suo omonimo custodito a Castroreale (fig. 30),87 specie dopo che nel 1967 lo studioso locale Antonino Bilardo, rispolverando un dimenticato contributo in cui Domenico Puzzolo Sigillo (1951) rendeva noto il contratto di allogagione del marmo castrorealese nel quale si faceva espressamente il nome di Giovann’Angelo Montorsoli, ne identificò l’artefice proprio in quest’ultimo.88 Bisogna aspettare il 2007 affinché emergano i primi dubbi sull’autore della Sant’Agata, con la conseguente, pur timida, proposta di un’autografia montorsoliana: a quella data, infatti, Alessandra Migliorato sottolineava che «rispetto alla Santa Caterina di Forza d’Agrò la statua di Taormina presenta un’esecuzione più raffinata, sia nel modellato del corpo, che nei rilievi del basamento, improntati ad una volumetria e ad un dinamismo davvero notevoli. Volumetria e dinamismo assenti, invece, in quelli dell’opera di Forza d’Agrò e solo parzialmente presenti nel basamento della stessa Sant’Agata di Castroreale».89 La studiosa, giungendo alla conclusione che «l’opera di Taormina deve essere stata eseguita, o almeno sbozzata, sotto la supervisione del Montorsoli», trovava un valido sostegno alla sua tesi nella testimonianza, in passato scarsamente presa in considerazione, del Vasari, secondo il quale, durante la permanenza messinese, Giovann’Angelo «…fece di marmo una statua di quattro braccia, cioè una Santa Caterina martire molto bella, la quale fu mandata a Tarumezia, luogo lontano da Messina 24 miglia».90 La scultura ricordata dal biografo, chiosava la Migliorato, potrebbe identificarsi proprio con questa Sant’Agata, salvo accettare che Vasari abbia commesso un errore nell’individuazione del soggetto del marmo inviato dal frate a Taormina, confusione «facilmente comprensibile se si tiene conto della strettissima somiglianza iconografica tra le due sante, le cui principali varianti francescana a Messina, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Messina, atti del Convegno di studio, Messina 6-8 novembre 2008, a cura di C. MICELI e A. PASSANTINO, Biblioteca Francescana di Palermo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, pp. 207-212 [210211]. 87 Vedi la scheda n. 2. 88 A. BILARDO, Taccuino d’arte messinese, con un documento inedito riguardante lo scultore Antonello Freri, Tip. Città del ragazzo, Messina 1967, pp. 39-41; F. NEGRI ARNOLDI, La pala marmorea di Polistena, Montorsoli e Montanini, in Napoli, l’Europa: ricerche di storia dell’arte in onore di Ferdinando Bologna, a cura di F. ABBATE e F. SRICCHIA SANTORO, Meridiana Libri, Catanzaro 1995, p. 178, fig. 135; IDEM, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, pp. 291-292, fig. 300; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2003, p. 1063. 89 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 33, 50, 59, fig. 38; EADEM, La produzione scultorea di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina, in «Messenion d’oro. Trimestrale di cultura e d’informazione», 2007, p. 6, fig. 13. 90 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti cit., p. 620. 201 riguardano praticamente solo gli attributi del martirio».91 La studiosa, tuttavia, né in quell’occasione né in un più recente contributo ha sostenuto con decisione la tesi dell’autografia montorsoliana, limitandosi ad ascrivere l’opera al Montanini.92 Il giudizio espresso dalla Migliorato in merito alla maggiore raffinatezza d’esecuzione che caratterizza la figura taorminese rispetto a quella di Forza d’Agrò è pienamente condivisibile: il bel volto, classicamente definito, è arricchito da un’acconciatura all’antica, con i capelli che si dipartono dal cuoio capelluto in sottili ciocche diligentemente lavorate anche sul retro e culminanti al centro in una sorta di fiocco impreziosito da un diadema. L’intaglio è raffinatissimo, specie in alcuni particolari, come quelli della veste della Martire all’altezza del petto, contraddistinto da una visiera decorata da motivi vegetali e conchiglie ai lati e da una testina di cherubino al centro; risaltano, in tutta la figura, la delicatezza con cui sono resi i seni e le piccole pieghe che confluiscono al centro di questi e la morbidezza, tutt’altro che affettata, delle incalzanti increspature che scaturiscono dal doppio giro di cintura; è apprezzabile anche l’ampiezza, assolutamente naturale, che l’abito assume nella parte inferiore del corpo, e che si distingue per larghe e morbide falde, mentre il ginocchio destro, avanzando leggermente, obbliga la veste a delineare una secca e dritta piega che scende giù fino ai piedi. Se si passa alle scene rappresentate nelle tre facce dello scannello (Giudizio, Martirio e Incarcerazione, figg. 9, 11, 20), il distacco dalla Santa Caterina non può che accentuarsi. Innanzitutto risalta la marcata espressività dei gesti dei personaggi, i quali talora rasentano la caricatura (si vedano, ad esempio, gli aguzzini nel pannello centrale con il Martirio, fig. 11, 32), contribuendo a determinare nelle scene una maggiore drammaticità; inoltre, anche qui, come già notato per la monumentale figura a tutto tondo, si assiste al dispiegarsi di una lunga serie di dettagli (si osservi, ad esempio, il braciere posto ai piedi dell’aguzzino di sinistra, fig. 11) che descrivono con minuzia tanto i costumi e le armature quanto i volti, resi con grande capacità ritrattistica, specie quelli dei protagonisti del Martirio e dell’Incarcerazione (figg. 11, 20). L’impressione che si ricava è dunque che si tratti di un’impresa largamente condotta dal Montorsoli in persona. Cercando, dunque, nel catalogo dello scultore toscano, mi sembra che validi raffronti possano istituirsi con il San Giacomo (1537-42) che il frate servita realizzò per la chiesa di Santa Maria del Parto a Napoli (1539-42 circa, fig. 14) e con il San Pietro eseguito a Messina per il Duomo (1550 circa, fig. 4). Un analogo modo d’intagliare il marmo nella fine definizione dei capelli accomuna tutte e tre queste 91 A. MIGLIORATO, La produzione scultorea cit., p. 6. Ancora in Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 170-171, fig. 46, la Migliorato affermava che la Sant’Agata era stata «materialmente scolpita, in tutto o in parte, dal Montanini». La didascalia che accompagna la riproduzione fotografica (p. 171) recita infatti: “Martino Montanini (su disegno del Montorsoli)”. 92 202 sculture, sebbene il San Giacomo palesi una fermezza nell’impostazione della figura ed una naturalezza nella resa plastica delle vesti che nella Sant’Agata si trasformano in rigidezza e staticità e in un rinsecchimento dei panneggi dell’abito e del mantello (si noti al contrario il morbido sbuffo di pieghe che si gonfiano, all’altezza del petto, nell’Apostolo napoletano, figg. 17-19, 21-22); nel Principe degli Apostoli si osservino, invece, gli andamenti del mantello, un lembo del quale si poggia sulla spalla destra, analogamente a quanto accade nella Martire di Taormina, e della veste, terminante in basso con delle piegature dritte che in quest’ultima opera si appoggiano morbidamente sul bordo superiore dello scannello (figg. 4-6). Emblematico appare anche il confronto tra i personaggi che affollano le storie incise negli scannelli, specie nelle facce centrali con la raffigurazione del Martirio (figg. 9-12). Le due formelle sono quasi sovrapponibili nella disposizione dei personaggi principali, accomunati da identiche fisionomie, arcigne ed estremamente caricate quelle degli aguzzini, serene e risolute quelle dei due Martiri; a questo si aggiunge la comparsa, in entrambe le scene, del milite collocato a destra in armatura e con sul capo l’elmo finemente decorato. Altri utili raffronti possono istituirsi con il Noli me tangere oggi custodito nel Museo Regionale di Messina (già nella chiesa di San Domenico), la cui ascrizione al toscano sembra ormai acclarata (figg. 23, 26-29).93 Certo è che se si accetta la responsabilità montorsoliana della statua taorminese, lo stesso non può farsi per la già citata scultura, di analogo soggetto, conservata a Castroreale (fig. 30), sulla cui autografia (in virtù del menzionato atto notarile) finora non si è mai dubitato.94 Delle due, l’una: chi ha scolpito la Martire castrorealese non può aver lavorato anche quella di Taormina, perché i due manufatti sono, eccetto che per la tipologia, lontani anni luce l’una dall’altra, e chi ne fa le spese, in termini di resa stilistica e di qualità d’esecuzione, è proprio la 93 Sebbene già S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera cit., p. 52, fig. 29, avesse avanzato l’attribuzione di questo marmo alla stretta cerchia montorsoliana, nel 1992 Francesca Campagna Cicala ipotizzò un intervento dello scultore siciliano Rinaldo Bonanno (F. ZERI-F. CAMPAGNA CICALA, Messina. Museo Regionale, Novecento, Libreria dello Stato, Palermo 1992, p. 100). Successivamente G. BARBERA, Su due sculture cinquecentesche del Museo Regionale di Messina, in La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, atti del Convegno internazionale di Studi La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, Lecce, 9-10-11 giugno 2004, a cura di L. GAETA, Mario Congedo editore, Galatina 2007, I, pp. 373-386), pur riconoscendone la spiccata «impronta montorsoliana», non ha creduto nell’autografia, fermandosi all’ipotesi di un prodotto eseguito dalla bottega su disegno del maestro dopo la partenza di questi da Messina. È stata poi A. MIGLIORATO, La produzione scultorea cit., 2007, pp. 8-9, a proporre l’identificazione di questo altorilievo con la “storia” eseguita dal Montorsoli per la Cappella Borsa nella chiesa messinese di San Domenico. La notizia che Giovann’Angelo avesse lavorato per la Cappella Borsa è già in G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 620: «…nel chiostro della medesima chiesa, alla cappella del signor Angelo Borsa, fece in marmo di basso rilievo una storia che fu tenuta bella e condotta con molta diligenza». 94 Cfr. la scheda n. 2. 203 Sant’Agata di Castroreale. Si propone insomma qui di ribaltare la convinzione, affermata con decisione da Francesco Negri Arnoldi95 e ripresa dalla Migliorato,96 secondo cui quest’ultima opera abbia costituito il prototipo della serie di figure a tutto tondo con soggetto Sant’Agata e Santa Caterina d’Alessandria, con la conseguente tesi della «derivazione diretta» della scultura di Taormina da quella di Castroreale.97 Secondo la ricostruzione che in questa sede si è tentato di operare, è al contrario la statua taorminese che, nel guadagnare la precedenza cronologica e nel suo collocarsi quale una tra le migliori prove del maestro toscano compiute in Sicilia, può a ragion veduta ritenersi il modello, a dir il vero insuperato, di questo esiguo gruppo di marmi raffiguranti appunto le Sante Martiri. 95 F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento cit., pp. 291-292, fig. 299. A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., p. 32, l’ha considerata un «importantissimo prototipo da cui discendono molte rappresentazioni di figure femminili che si trovano sia in Sicilia che in Calabria». 97 Già E. NATOLI, Nuove attribuzioni cit., p. 24, si era espressa in questo senso, affermando che le Sante di Taormina e Forza d’Agrò «possono risalire entrambe al modello della Sant’Agata di Castroreale». 96 204 2. Martino Montanini (Firenze, 1515 circa – Firenze, 1563) Sant’Agata 1554 circa Marmo con estese tracce di dorature Altezza 166 cm, scannello altezza 24 cm Castroreale, chiesa di Sant’Agata Malgrado che nel 1951 l’archivista e studioso messinese Domenico Puzzolo Sigillo avesse pubblicato il contratto di allogazione, datato 30 marzo 1554, con cui il nobile Cusmano Siracusa «de terra Castri Regalis» affidava, per 33 once, a Giovann’Angelo Montorsoli l’incarico di scolpire una Sant’Agata (fig. 30), la notizia passò inosservata.98 Soltanto quando lo studioso locale Antonino Bilardo, recuperando la ghiotta segnalazione del Puzzolo, rinnovò l’interesse per l’opera in uno scritto ad hoc, essa acquistò finalmente il giusto posto nella bibliografia specialistica.99 Anzi, l’essere una fra le poche statue, licenziate dalla bottega del maestro toscano, attribuibili con certezza in virtù dell’esistenza di un rogito, indusse col tempo la storiografia ad assegnarle il ruolo di archetipo di una serie di figure analoghe, anch’esse riconducibili alla stretta cerchia montorsoliana.100 Tale ipotesi, già sostenuta nel 1987 da Elvira Natoli, si consolidò con Francesco Negri Arnoldi, che in ben due occasioni (1995 e 1997)101 ribadì il carattere “derivativo” dal marmo di Castroreale di altre due Sante dell’ambito di Giovann’Angelo. In particolare, lo studioso, nel volume sulla Scultura del 98 D. PUZZOLO SIGILLO, Una nobilissima statua di Sant’Agata documentata di legittima paternità montorsoliana, in «Spirale», 1951, 2, pp. 3-5. Dopo la pubblicazione del contributo del Puzzolo, sia S. BOTTARI (La cultura figurativa in Sicilia, D’Anna, Messina-Firenze 1954, p. 219) che G. BELLAFIORE (La Maniera italiana in Sicilia, Palumbo, Palermo 1963, p. 65), pur occupandosi strettamente di questi argomenti, hanno taciuto la preziosa notizia. 99 A. BILARDO, Taccuino d’arte messinese, con un documento inedito riguardante lo scultore Antonello Freri, Tip. Città del ragazzo, Messina 1967, pp. 39-42; IDEM, Castroreale: cenni storici sul patrimonio culturale, Comune di Castroreale, Castroreale 1983, p. 26. 100 La prima a sostenere questa tesi è stata S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera cit., p. 44, fig. 16. 101 E. NATOLI, Nuove attribuzioni a Martino Montanini, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Messina», 11, 1987, p. 24; F. NEGRI ARNOLDI, La pala marmorea di Polistena, Montorsoli e Montanini, in Napoli, l’Europa: ricerche di storia dell’arte in onore di Ferdinando Bologna, a cura di F. ABBATE e F. SRICCHIA SANTORO, Meridiana Libri, Catanzaro 1995, p. 178, fig. 135; IDEM, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, pp. 291-292, fig. 299; B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli: ein Florentiner Bildhauer des 16. Jahrhunderts, Gebr. Mann Verlag, Berlin 1992, pp. 103-104, figg. 132, 135; E. NATOLI, Martino Montanini e la committenza francescana a Messina, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Messina, atti del Convegno di studio, Messina 6-8 novembre 2008, a cura di C. MICELI e A. PASSANTINO, Biblioteca Francescana di Palermo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, pp. 207-212 [210-211]. 205 Cinquecento in Italia Meridionale, dedicò nell’Appendice, in cui egli indagò più dettagliatamente alcuni temi specifici, un trafiletto alla rappresentazione della sant’Agata e della santa Caterina d’Alessandria, «due fra le più frequenti raffigurazioni siciliane di santi…che assumono nella seconda metà del Cinquecento, per opera del Montorsoli e della sua scuola, una nuova tipologia, che ne accomuna l’aspetto, se non proprio l’iconografia, allontanandole dai modelli gaginiani sino ad allora seguiti». Apripista deve essere considerato, secondo lo studioso, proprio il manufatto qui presentato, «che si ispira chiaramente alla statuaria classica, sia nel volto e nell’acconciatura dei capelli, sia nell’abbigliamento composto da una lunga tunica plissettata e da un leggero manto che scende dalle spalle per essere raccolto in ampio panneggio all’altezza del ventre, come nelle Veneri antiche». Le due sculture esemplate su questo modello sono, così come già sostenuto dalla Natoli, le Sante Agata e Caterina rispettivamente conservate a Taormina e a Forza d’Agrò (figg. 6, 34), dallo studioso assegnate al discepolo del Montorsoli, Martino Montanini. Ancora nel 2007 Alessandra Migliorato, pur identificando l’opera taorminese con quella che già il Vasari ricordava essere stata eseguita da Giovann’Angelo, non affrontò per esteso la questione, preferendo non pronunciarsi sulla responsabilità della statua castrorealese.102 Ma l’autografia montorsoliana della Sant’Agata (fig. 6), avallata in questa sede e supportata da confronti con opere certe dello scultore toscano,103 esclude, per incontrovertibili dissonanze stilistiche, quella dell’omonimo marmo di Castroreale.104 La classica definizione del volto della Santa taorminese cede il passo qui ad un generico volto di donna, i capelli s’increspano, le pieghe della veste si presentano qui indurite e rinsecchite, diventando quasi coriacee; la raffinatezza di certi particolari, che a Taormina si apprezza finanche nelle scene dello scannello, viene qui totalmente abbandonata, e tutto sembra essere stato lavorato più grossolanamente, più rapidamente; nel contempo si avverte, nella scultura qui presentata, una minore attenzione alla caratterizzazione dei personaggi (specie nella base), che perdono quei caratteri distintivi osservati a Taormina, col risultato che anche la tensione emotiva, la 102 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 32, 59, fig. 54; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2003, p. 1063, fig. 22; A. BILARDO, Castroreale. Curiosando tra passato e presente, Pro Loco “Artemisia”, Olivarella (ME) 2006, pp. 110-112; A. MIGLIORATO, La produzione scultorea di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina, in «Messenion d’oro. Trimestrale di cultura e d’informazione», 2007, pp. 5-6, fig. 12. 103 Vedi la scheda n. 1. 104 B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli cit., pp. 103-104, è stata l’unica a mettere in dubbio l’autografia del Montorsoli, ritenendola lavoro di bottega accostabile alla maniera del Montanini, secondo la studiosa autore anche della Santa taorminese. Nel confrontare le due sculture, la Laschke ravvisava comunque, nelle scene presentate nei rispettivi plinti, a riscontro della manifesta drammaticità espressa nelle storie di Taormina, la «convenzionalità» e la natura «repertoriale» dei personaggi di Castroreale. 206 drammaticità dei gesti e l’espressività dei volti, ad esempio nella scena centrale con il Martirio, vengono meno (figg. 9, 11, 31-32).105 Ciò che accomuna le due Sante si limita alla loro impostazione generale, alla costruzione complessiva delle figure rispondente alla medesima matrice culturale, che l’artefice del marmo castrorealese dimostra di conoscere profondamente proprio perché formatosi in seno ad essa. La proposta che qui s’intende avanzare è infatti che l’autore della Sant’Agata debba identificarsi nel Montanini, che da Vasari sappiamo aver affiancato il Montorsoli non solo a Genova, ma anche a Messina. L’esistenza della carta d’archivio, lungi dal rappresentare un ostacolo a tale ipotesi attributiva, deve essere interpretata come un ulteriore elemento a sostegno dell’orientamento di questo manufatto entro l’officina del toscano; è d’altronde noto che, all’interno della medesima bottega, costituita da numerosi aiuti, il caposcuola fosse solito delegare ai discepoli più capaci alcuni lavori, anche monumentali (come in questo caso), al fine di ridurre i tempi di consegna in periodi di grande operosità. All’epoca della commissione della Sant’Agata (1554 circa), Giovann’Angelo aveva appena da un anno licenziato la prima delle due Fontane eseguite in città, quella di Orione (fig. 1); continuava ad occuparsi dell’impegnativo progetto dell’Apostolato (l’incarico risale al 1550, e a questa data doveva aver da poco compiuto il San Pietro, fig. 4), riceveva la commissione di una Madonna da inviare a Tropea (fig. 100), iniziava la poderosa Fontana del Nettuno, poi consegnata nel 1557 (fig. 44); lavorava, infine, alla figura di una Vergine col Bambino e di un bassorilievo rispettivamente per le Cappelle Cicala e Borsa all’interno della chiesa di San Domenico. Tutte queste opere (anche quelle destinate alla fabbrica domenicana, oggi non più esistenti, benchè testimoniate dalle fonti) furono nei fatti portate a termine, malgrado la partenza un po’ affrettata che, nel maggio del 1557, condusse lo scultore, ancora una volta accompagnato dal Montanini, definitivamente in Toscana. Non è dunque affatto azzardato credere che il maestro abbia affidato in toto l’esecuzione della statua qui in esame proprio al suo più fidato allievo. All’interno del catalogo montaniniano la Sant’Agata, che si erge sul terzo altare sinistro dell’omonima chiesa del borgo siculo, trova altresì una valida “compagna” nella Santa Caterina d’Alessandria eseguita da Martino nel 1559 per la chiesa dei francescani conventuali di Forza d’Agrò (fig. 34).106 Le due figure, oltre all’impianto e alla composizione, condividono la stessa durezza nello svolgimento delle linee delle vesti e dei manti ed una comune rapidità nell’esecuzione di alcune parti 105 A. BILARDO, Castroreale cit., 2006, p. 112, nota 9, ha altresì segnalato che le figure scolpite nelle formelle estreme dello scannello, e recanti in processione su un’asta l’immagine del Salvatore, sarebbero un richiamo evidente alla confraternita di Sant’Agata, committente dell’opera, nonché alla celebre processione del Cristo Lungo che «già nel 1554 identificava la confraternita di Sant’Agata». 106 Vedi la scheda n. 3. 207 (capelli e pieghe degli abiti, ad esempio), così come la scarsa qualità nell’intaglio delle scene dei plinti (figg. 41, 43). 208 3. Martino Montanini (Firenze, 1520 circa – Firenze, 1562) Santa Caterina d’Alessandria 1559 Marmo con tracce di dorature Altezza 168 cm, scannello altezza 32 cm Forza d’Agrò, Duomo (dalla chiesa di San Francesco) La “scoperta” di quest’opera si deve alla fervida attività archivistica di Domenico Puzzolo Sigillo, che nel 1925-26 pubblicò nell’Archivio Storico Messinese l’atto notarile con cui il 29 dicembre 1558 essa veniva allogata ai «nobiles Martinus Montanino florentino et Joseph Buttonus scultores».107 Dalla lettura del documento si evince che la statua, raffigurante Santa Caterina d’Alessandria (fig. 34), era destinata alla chiesa francescana intitolata alla martire alessandrina, e che i committenti Geronimo Riccio, Giovandomenico Crisafulli e Nicolandrea Ricca, «procuratori Sancte Caterine terre Fortilicii Agro», si assicuravano che, per la cifra di quaranta once, gli scultori consegnassero il marmo entro il successivo mese di settembre. Il Puzzolo Sigillo, nel rendere noto il contratto, dichiarava di venire incontro innanzitutto alla richiesta del «nostro egregio giovane consocio» Stefano Bottari, il quale, proprio in quegli anni, stava preparando due lavori editoriali rispettivamente sul patrimonio artistico del borgo di Forza d’Agrò108 e su Martino Montanini, collaboratore di Giovann’Angelo Montorsoli. Assodata dunque la responsabilità montaniniana della scultura in questione, nel contributo dedicato ad approfondire l’attività sicula del suo autore, il Bottari la collegava, per tipologia e per stile, ad altre due figure marmoree analoghe, vale a dire una sua omonima custodita a Milazzo (1560-61, fig. 33) ed una Sant’Agata esistente nella Cattedrale di Taormina (inizio anni cinquanta, figg. 6, 13).109 Se la Santa milazzese era assegnata dallo studioso a Vincenzo Gagini (sulla scorta di una mal interpretata carta d’archivio trascritta da Gioacchino di Marzo),110 quella taorminese, proprio in virtù del confronto con il manufatto di Forza d’Agrò, doveva senz’altro attribuirsi allo stesso artefice; e se la statua gaginiana «si presenta ancora impacciata nelle sue vesti ed accentua le reminiscenze quattrocentesche nella staticità dei personaggi scolpiti nella base, a differenza di 107 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. 108 S. BOTTARI, Forza d’Agrò, Edizioni d’Arte Giacomo d’Anna, Grafiche “La Sicilia”, Messina 1927, pp. 106-115). 109 IDEM, Di Martino Montanini scultore del secolo XVI, in «Arte Cristiana», 6, 1930, pp. 165-167. 110 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, p. 586; II, doc. CCXXXVI pp. 297-298. 209 quelli della seconda [la Santa Caterina] vivida di armonia, eleganza e movimento», la Sant’Agata di Taormina «si mostra più accademica e più trascurata nei particolari, anche se i bassorilievi sono superiori per la finezza di esecuzione».111 Esclusa pertanto la Santa Caterina di Milazzo, che, erroneamente creduta afferente alla cultura gaginiana, fu da più parti trascurata,112 la bibliografia successiva affiancò alla scultura qui in esame un’altra Sant’Agata, custodita a Castroreale nella chiesa omonima, e che un atto notarile rinvenuto dal solito Puzzolo restituiva direttamente al Montorsoli (fig. 30).113 A partire da Simonetta La Barbera Bellia (1984)114 si è venuta anzi consolidando, sino a diventare normativa, la convinzione che il marmo castrorealese, in quanto ritenuto autografo di Giovann’Angelo, abbia rappresentato il “prototipo” da cui sarebbero derivate anche le altre due figure (Taormina e Forza d’Agrò). Avendo già nella sede opportuna115 tentato di dimostrare la responsabilità montorsoliana della prima (fig. 6), ciò che mi propongo qui è di sostenere che quel ruolo archetipico cui si accennava sopra, e che, nell’ambito della cerchia dell’artista toscano, ha fatto fiorire una serie di immagini marmoree analoghe per tipologia, è stato svolto giustappunto dalla Santa eseguita dal Montorsoli. Se si raffronta quest’ultima immagine con quella di Forza d’Agrò, credo si rilevi agilmente che la Santa Caterina è direttamente esemplata sulla “gemella” di Taormina, e non sul manufatto di Castroreale (figg. 13, 30).116 E questo non perché, come si è pensato finora, entrambe siano state modellate dal medesimo artista (il Montanini appunto), ma semplicemente perché è l’allievo che, nel confezionare la propria opera, non trovò soluzione migliore se non quella di riferirsi specificamente ad una creazione del proprio maestro. Altro elemento da non sottovalutare è il momento in cui a Martino fu commissionata la statua: siamo esattamente due mesi dopo la sua nomina 111 S. BOTTARI, Di Martino Montanini cit., 6, 1930, p. 164. Vedi la scheda n. 4. 113 D. PUZZOLO SIGILLO, Una nobilissima statua di Sant’Agata documentata di legittima paternità montorsoliana, in «Spirale», 1951, 2, pp. 3-5. 114 S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, pp. 64-66, fig. 39; E. NATOLI, Nuove attribuzioni a Martino Montanini, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Messina», 11, 1987, p. 24; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, pp. 104, 292, fig. 301; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 32, 50, fig. 35; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2003, p. 1063; A. BILARDO, Castroreale. Curiosando tra passato e presente, Pro Loco “Artemisia”, Olivarella (ME) 2006, pp. 110-112. Una successiva segnalazione dell’opera si trova in E. NATOLI, Martino Montanini e la committenza francescana a Messina, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Messina, atti del Convegno di studio, Messina 6-8 novembre 2008, a cura di C. MICELI e A. PASSANTINO, Biblioteca Francescana di Palermo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, pp. 207-212. 115 Vedi la scheda n. 1. 116 Vedi la scheda n. 2. 112 210 ufficiale a capomastro scultore dell’Opera del Duomo, incarico poco prima assunto proprio da Giovann’Angelo. Anche il Montanini, al richiamo del maestro operato dal generale dell’ordine servita,117 decise di lasciare l’isola, ma dopo poco più di un anno, vale a dire nell’ottobre del 1558, dovette trovarsi nuovamente in città, se il 17 di quello stesso mese i giurati messinesi lo invitavano a ricoprire, per i successivi tre anni, quello stesso ruolo poco tempo prima affidato al Montorsoli. Dobbiamo immaginare infatti che, partendo all’improvviso, i due artisti avessero lasciato incompiuti alcuni dei lavori già assunti, tant’è che i giurati offrirono a Martino la stessa cifra (settantadue once) corrisposta a Giovann’Angelo, e questo «pro omnibus et singulis ac aliis quibuscumque serviciis dictis laboribus lucris havanciis emolumentis…in quibusvis marmoriis lapidibus lanterna statuis fonti bus ecclesiis…et in omnibus aliis operibus et magisteriis quomodocumque et qualitercumque per eum faciendis et laborandis et in cappella seu ecclesia Sancti Laurentii, in plano majoris messanensis ecclesie incepta et non completa…».118 Il Montanini si trovò dunque a gestire autonomamente una situazione che valse per lui come l’occasione più importante della carriera: a Firenze, al seguito del Montorsoli, egli non era che uno fra le decine di semplici scalpellini al fianco di un affermato maestro; a Messina, invece, gli veniva riconosciuto il ruolo di scultore di riferimento dell’intera cittadina, in un tempo in cui sia i suoi principali organi pubblici (il Senato, l’Opera del Duomo, i “provisori delle acque” in primis) sia la committenza privata avevano deciso d’impegnare abbondanti risorse da destinare alle imprese artistiche. La scelta di un modello “illustre”, creato direttamente dal capobottega qualche tempo prima, potrebbe pertanto spiegarsi con la volontà, da parte sua, di esaudire con poco margine d’errore le richieste di una committenza che non poteva essere delusa. Precise rispondenze tipologiche legano infatti strettamente le Sante di Taormina e di Forza d’Agrò, rendendole quasi sovrapponibili grazie alle numerose affinità compositive. Si osservi, ad esempio, la veste della Santa Caterina, il cui panneggio è identico, in ogni punto, a quello della Sant’Agata, con una precisa aderenza all’altezza del petto, dove i seni sono ben evidenziati; le numerose piccole pieghe che si creano nello spazio ricavatosi grazie al doppio giro di cintura che lega l’abito alla vita; infine il mantello, che si raccoglie sul ventre per poi girare con qualche plissettatura sulla spalla sinistra (figg. 13, 34). Anche elementi puramente ornativi, come la parte alta della veste, che cinge il collo, riccamente decorata nel mezzo con una testina di cherubino, e l’acconciatura, che culmina con un fiocco al centro, sono chiaramente ripresi da quelli taorminesi. La 117 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, p. 620, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it. 118 Dai documenti pubblicati da D. PUZZOLO SIGILLO (Tre opportuni chiarimenti di toponomastica messinese, in «Archivio storico messinese», XXVI-XXVII, 1925-26, pp. 227-234 [227]) si evince che Martino rientrò nella città dello Stretto dietro l’insistente richiesta dei messinesi nell’ottobre 1558. Dopo due mesi ricevette la commissione di Forza d’Agrò. 211 differenza sta nella resa formale di tutti questi elementi che tradisce, in maniera inequivocabile, la responsabilità di un diverso autore. Pur avendo assorbito profondamente i modi figurativi montorsoliani, Martino non riesce, infatti, a raggiungere le alte vette di raffinatezza esecutiva e di plasticismo figurativo espresse dal maestro: la sua scultura palesa un’eccessiva rigidità nell’impostazione, i panni appaiono taglienti e rinsecchiti, il volto ovvio e impersonale, le mani non più nodose ma lisce e affusolate. Nelle scene che si dispiegano sul plinto (Disputa coi filosofi, Martirio, Decollazione, figg. 42, 45-46) si raggiunge il livello massimo di dissonanza col prototipo: l’accentuato plasticismo (ottenuto anche grazie ad un rilievo molto pronunciato) e la violenza espressiva trasudante drammaticità che caratterizzavano i personaggi delle Storie della vita di Sant’Agata (figg. 9, 11) cedono qui il passo ad intagli poco profondi dai quali emergono figure prive di alcuna caratterizzazione ritrattistica, in alcuni casi semplicemente abbozzate, col risultato di una scarsa intensità espressiva e di conseguenza emotiva (fig. 42). In merito infine alla menzione che nello strumento notarile si fa di Giuseppe Bottone, scultore messinese attivo fino al 1574, la cui attività ha goduto nel 1934 di un primo (ed in verità ultimo) approfondimento critico ad opera, ancora una volta, di Domenico Puzzolo Sigillo,119 è importante sottolineare che, in base a quanto è stato ricostruito in questa sede, nella Santa Caterina non sembra potersi riconoscere il suo intervento. E non tanto per la sua giovane età (secondo la ricostruzione del Puzzolo egli nel 1558 doveva aver compiuto quasi vent’anni);120 né tantomeno per la natura stessa della sua comparsa entro il rogito, vale a dire quella di un semplice “prestanome” a favore di Martino, che, avendo ottenuto l’incarico di capomastro dell’Opera del Duomo, non poteva assumere altri impegni ufficiali (dal momento che era stipendiato dal Senato cittadino);121 quanto piuttosto 119 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142. 120 La data di nascita di Bottone può ricavarsi, indirettamente, da un rogito, ancora una volta rintracciato dal Puzzolo Sigillo, nel quale il 31 ottobre 1557 il padre di Giuseppe, Filippo, definito «maczonus civis Messane», vale a dire anch’egli marmorario, nominò il figlio «procuratorem et nuntium specialem» per la riscossione di alcuni crediti. Dal fatto che nel 1557 Giuseppe fu delegato dal padre per tale incarico, il Puzzolo dedusse che egli aveva già raggiunto la maggiore età. Perciò, si è soliti far risalire la nascita dello scultore intorno al 1539 circa, con ovvia possibilità di retrodatazione (cfr. IDEM, Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 117-142 [119]). 121 IDEM, Una statua ignorata cit., p. 307. In effetti, è quantomeno singolare che, dopo questa tesi espressa dal Puzzolo, la letteratura artistica successiva (cfr. supra, nota 114) abbia in qualche caso taciuto sulla comparsa nel rogito del nome del Bottone (non ponendosi pertanto il problema di un eventuale intervento di questi nella realizzazione del marmo); oppure, in qualche altra occorrenza, si sia limitata a replicare quanto sostenuto dall’archivista messinese, senza però affrontare la questione stilistica. C’è anche chi, come Alessandra Migliorato, in un recente contributo centrato su una revisione dell’attività del Montorsoli a Messina (La produzione scultorea di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina, in «Messenion d’oro. Trimestrale di cultura e d’informazione», 2007, p. 6, fig. 14), ha interpretato erroneamente le parole del Puzzolo, pensando 212 perché è l’analisi stilistica a confermarcelo. In una delle opere assegnabili con certezza al Bottone, vale a dire la già citata Santa Caterina d’Alessandria di Milazzo (fig. 33), emergono infatti con chiarezza i modi e gli stilemi figurativi tipici bottoniani che, pur imitando quelli del Montanini, anzi forse proprio per questo, denunciano inequivocabilmente la loro differenza formale da quelli del toscano. quindi che Giuseppe Bottone all’epoca della commissione della Santa di Forza d’Agrò fosse ancora minorenne. Ella pertanto, nella nota 12, chiosa che, proprio per questo motivo «l’opera…si ritiene eseguita quasi completamente dal Montanini». Un’ulteriore conferma del fatto che intorno al 155758 l’artista fosse già attivo e che anzi fosse anche piuttosto conosciuto è la presenza di almeno altre due sue opere risalenti a questo periodo: mi riferisco ai due tabernacoli eucaristici eseguiti fra il 1558 ed il 1560 circa rispettivamente per la chiesa gesuita di San Nicola e per la parrocchiale di Drosi, piccolo borgo della provincia di Reggio Calabria (vedi rispettive schede nn. 8-9). 213 4. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Santa Caterina d’Alessandria 1560-61 circa Marmo con dorature Altezza 170 cm, scannello altezza 26 cm Milazzo, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria La scultura è nota sin dal 1930, anno cui risale un contributo di Stefano Bottari sull’attività messinese di Martino Montanini, collaboratore di Giovann’Angelo Montorsoli a Messina (fig. 33).122 In quell’occasione lo studioso la assegnò a Vincenzo Gagini, sulla scia di uno strumento notarile rintracciato nell’Archivio di Stato di Palermo da Gioacchino di Marzo.123 Con tale atto, datato 17 novembre 1550, Colangelo Majorana, procuratore della confraternita di Santa Caterina della cittadina di Milazzo, commissionava a Vincenzo Gagini, figlio del più celebre Antonello, una Santa Caterina d’Alessandria, consegnata nel gennaio 1552 (fig. 37). Tra le espresse richieste del committente vi era che essa fosse in tutto simile a quella che l’illustre genitore aveva scolpito, fra il 1527 ed il 1528, per la chiesa palermitana di San Domenico (fig. 38). Sebbene il Di Marzo non avesse mai visto l’opera di cui rendeva noto il rogito, egli sosteneva che essa «esiste colà fin oggi nella chiesuola di quella confraternita, rivelando gli sforzi del figlio in seguir le orme paterne…».124 È in virtù di tale affermazione che Stefano Bottari, pubblicando la Santa Caterina custodita nella chiesetta omonima, la attribuiva appunto al Gagini, pur notando un’evidente discrepanza fra i tipici modi figurativi della celebre bottega e quelli esibiti dal manufatto milazzese, che a suo parere era strettamente legato ad una statua, di uguale soggetto, conservata a Forza d’Agrò e commissionata al Montanini e al discepolo Giuseppe Bottone il 29 dicembre 1558 (fig. 34). Pur notando che «quella di Milazzo si presenta ancora impacciata nelle sue vesti ed accentua le reminiscenze quattrocentesche nella staticità dei personaggi scolpiti nella base, a differenza di quelli della seconda [quella di Forza d’Agrò], vivida di armonia, eleganza e movimento», per lo studioso le comunanze tra le due figure erano talmente palesi da spingerlo a sostenere che esse dovessero dipendere da un comune modello all’epoca ancora sconosciuto.125 122 S. BOTTARI, Di Martino Montanini scultore del secolo XVI, in «Arte Cristiana», 6, 1930, p. 164. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, p. 566; II, pp. 297-298 doc. CCXXXVI. 124 Ibidem, I, p. 566. 125 S. BOTTARI, Di Martino Montanini cit., p. 164. 123 214 Qualche tempo dopo, Domenico Puzzolo Sigillo chiarì la vicenda, grazie al rinvenimento di un documento d’archivio, con data 17 novembre 1560, i cui contraenti erano un rappresentante della chiesa di Santa Caterina di Milazzo e lo scultore messinese Giuseppe Bottone.126 Poiché l’opera richiesta era una «imaginem marmoream Sancte Catharine cum eius scannello», e poiché il Puzzolo, conoscendo il passo del Di Marzo, escludeva che a distanza di soli dieci anni venissero commissionate a due artisti diversi altrettante sculture di identico soggetto destinate ad un medesimo edificio di culto, egli identificò la Santa Caterina svettante sull’altare maggiore della chiesa di Milazzo con il marmo eseguito dal Bottone (fig. 33); al contrario, riconobbe in una seconda Santa Vergine e Martire, custodita a Pozzo di Gotto in località Nasari (chiesa di San Rocco), quella precedentemente realizzata da Vincenzo Gagini su un modello paterno (fig. 37).127 L’esistenza di queste due statue doveva motivarsi, secondo il Puzzolo, con la considerazione che, in passato, il borgo “Nasari” fosse stato parte integrante del territorio di Milazzo, e non, come nella situazione attuale, di quello di Barcellona Pozzo di Gotto. Il contributo di Domenico Puzzolo ebbe però la sfortuna di passare completamente inosservato per lungo tempo, se ancora nel 1980 la figura bottoniana fu inclusa tra le fatiche di Vincenzo Gagini nella ricca monografia dedicata dal tedesco Hanno-Walter Kruft al padre Antonello;128 né valse il successivo recupero, da parte di Anna Barricelli, del rogito reso noto dal Puzzolo, ed il ribadire, da parte della studiosa, dell’attribuzione a Giuseppe Bottone,129 se ancora nel 1997 Francesco Negri Arnoldi, dimostrando di non conoscere né Puzzolo né la Barricelli, riteneva che la scultura fosse «opera documentata di Vincenzo Gagini del 1550-52». Stravolgendo la prassi stilistica della scuola gaginiana, ancora sino al settimo decennio del Cinquecento profondamente legata a certi prototipi inaugurati dal caposcuola Antonello all’inizio di quello stesso secolo, lo studioso, pur inserendo correttamente la Santa Caterina milazzese fra le «derivazioni dal modello montorsoliano e da quelli del Montanini», pur di giustificare l’ascrizione gaginiana, la presentò quale dimostrazione di «come anche nel clan gaginesco venissero accolte ormai le nuove tendenze di quella scuola [quella montorsoliana]».130 126 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [126-128]. Lo studioso non trascrisse l’atto per intero, ma si limitò a riportarne i passi salienti. 127 Per quest’opera, vedi qui il Capitolo II. 128 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, pp. 439, 540, figg. 524-525. 129 A. BARRICELLI, Dieci capolavori (una paternità contestata), in «Kalòs. Luoghi di Sicilia», suppl. 5, 1993, pp. 10-16 [11-12]. 130 F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, pp. 291-292, fig. 302. A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in 215 Per fortuna, recentemente Caterina di Giacomo, entro un saggio centrato sul patrimonio artistico di Milazzo, ha ricostruito l’intera vicenda, restituendo l’opera al Bottone, ed evidenziando il giusto nesso formale che la unisce al già citato manufatto di Forza d’Agrò e alla Sant’Agata custodita nel Duomo di Taormina (fig. 6).131 I riferimenti, entrambi corretti, devono comunque privilegiare la statua di Forza d’Agrò, che costituisce il modello esplicito e diretto della Santa qui in esame. Giuseppe Bottone, il cui nome compare nel documento di commissione della scultura forzese,132 compì un periodo di apprendistato nella bottega di Martino Montanini dopo il rientro di questi in città nel 1558. È proprio questa la congiuntura in cui ha avuto luogo la commessa milazzese: poco tempo dopo l’esecuzione, da parte del toscano, della Santa Caterina inviata a Forza d’Agrò, l’allievo replicò quel prototipo, alla cui lavorazione egli dovette (forse) assistere. Impegnato in quella che deve a tutti gli effetti ritenersi la sua prima impresa monumentale, Giuseppe non solo rivelò la propria assoluta incapacità di distaccarsi dagli schemi visti e appresi in bottega; inoltre, la staticità della sua figura, la rigidità dell’impianto compositivo, il banale accartocciarsi dei panni, l’anonimato del volto (anche dei personaggi incisi nello scannello) dimostrano ampiamente la scarsa perizia tecnica dell’artefice. I confronti con i lavori certi che egli aveva realizzato prima di questa Santa Caterina provano che la sua grossa difficoltà risiedeva proprio nel cimentarsi con le statue a grandezza naturale. L’attività del messinese guadagna insomma maggiori consensi nel piccolo formato, così come si esprime, ad esempio, nei tabernacoli eucaristici eseguiti per la chiesa di San Nicolò a Messina (1558 circa, fig. 76)133 e per la Matrice di Drosi (RC, 1560, fig. 77),134 coi quali per l’appunto il marmo qui presentato può trovare validi termini di raffronto. Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 35, nota 38, pensava che a restituire alla Santa Caterina milazzese la responsabilità bottoniana fosse stata la Barricelli, e non il Puzzolo. 131 C. DI GIACOMO, Questioni attributive e manufatti inediti nel patrimonio scultoreo della città di Milazzo, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 191-192. 132 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. 133 Questa edicola eucaristica, dopo la distruzione della fabbrica religiosa che la custodiva a causa del sisma del 1908, è oggi custodita nei depositi del Museo Regionale di Messina, unitamente ai due angeli reggicandelabro genuflessi che la affiancavano. Il gruppo scultoreo, in origine collocato sull’altare maggiore della chiesa gesuita della città peloritana, deve considerarsi, allo stato attuale dagli studi, la prima opera compiuta dal Bottone. Essa può assegnarsi al messinese non soltanto grazie alle concordanze stilistiche che la legano strettamente al tabernacolo di Drosi, ma anche perché nel documento di commissione di quest’ultimo vi si fa preciso riferimento (lo scultore avrebbe dovuto prendere in considerazione proprio il manufatto siciliano nell’eseguire quello analogo destinato al borgo calabro). Per la custodia di San Nicolò, vedi la scheda n. 9. 134 Il rogito è stato pubblicato da D. PUZZOLO SIGILLO in Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107142 [136], doc. I. Vedi la scheda n. 8. 216 5. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Madonna col Bambino 1560 (incisa nello scannello) Marmo Altezza 80 cm Fiumedinisi, Duomo Questa piccola scultura raffigurante la Madonna col Bambino, collocata sul terzo altare destro del Duomo (dedicato alla Santissima Annunziata) del borgo siciliano, appartiene con tutta evidenza ad una serie di immagini marmoree afferenti alla cultura montorsoliana (fig. 69). Negli ultimi anni l’assegnazione a Martino Montanini, collaboratore di Giovann’Angelo Montorsoli, ribadita da Simonetta La Barbera e da Francesco Negri Arnoldi sulla scia di quanto aveva in precedenza sostenuto Stefano Bottari,135 ha ceduto il passo ad una virata attributiva che ricondurrebbe l’opera a Giuseppe Bottone, modesto scultore messinese che, da quanto si deduce dalle carte d’archivio, dovette formarsi con il Montanini. Tale cambio di orientamento, timidamente prospettato in tempi piuttosto recenti da Alessandra Migliorato (2000) e da Lucia Lojacono (2003), viene qui accolto senza esitazione.136 Stefano Bottari, al quale per primo si deve il merito di aver suscitato l’interesse su questa statua, entro un saggio centrato sulla ricostruzione dell’attività siciliana di Martino, notò un profondo nesso sia tipologico sia stilistico tra la Madonna di Fiumedinisi e la Santa Caterina d’Alessandria custodita nella Chiesa Matrice di Forza d’Agrò ed eseguita dal toscano intorno al 1560 (fig. 34).137 Ma se tale 135 S. BOTTARI, Di Martino Montanini scultore del secolo XVI, in «Arte Cristiana», 6, 1930, pp. 167-168; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, pp. 66-68, fig. 44; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 104. Da ignorare decisamente la fantasiosa attribuzione a Jacopo del Duca proposta da C. NOSTRO, Tra Montorsoli e Del Duca: riflessioni sulla Madonna di Loreto di Reggio Calabria, in «Calabria sconosciuta», XXII, 1999, pp. 27-29. 136 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 33, propose l’intervento della bottega di Martino senza fare il nome di Bottone; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2003, p. 1068, note 231-232, avanzò invece per prima l’ascrizione al messinese. Ancora ad una collaborazione tra Montanini e Bottone hanno pensato M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, p. 79, nota 119, e A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 72-73, fig. 72. 137 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. All’interno del catalogo 217 confronto per lo studioso era, per così dire, diretto, tant’è che egli basava la propria attribuzione proprio sui vari raffronti “morelliani” tra le due figure, a mio parere l’analogia esistente fra di esse deve considerarsi solamente tipologica. Non vi è infatti alcuna reale concordanza stilistica tra i due manufatti, essendo anzi palese la più modesta resa formale della Vergine rispetto alla Santa alessandrina. A quest’ultima, semmai, il Bottone dovette riferirsi nell’eseguire, in tempi molto vicini a quelli della Madonna di Fiumedinisi, una seconda Santa Caterina d’Alessandria, che egli spedì a Milazzo nel 1561 circa (fig. 33).138 Questo marmo, anzi, riproduce tanto fedelmente quello montaniniano da indurre a credere che esso sia una vera e propria replica creata da un modesto scalpellino che si esprime imitando le opere del maestro. Ecco perché, nella ricostruzione che qui si propone, è la Santa bottoniana di Milazzo a riguadagnare il suo giusto ruolo di “mediatrice” tra i più netti e distinti modi figurativi di Martino e i più ovvi e rinsecchiti stilemi di Giuseppe. A quest’ultimo, d’altronde, si attribuisce una cospicua serie di immagini mariane, molto simili tra loro, in cui questa di Fiumedinisi s’inserisce a pino titolo: tra le tante, ricordo i manufatti di Sant’Eufemia d’Aspromonte (1568, fig. 64), di Albi (1574, fig. 65), di Castanea (fig. 71),139 di Pentedattilo (1564, fig. 63) e di Villafranca Tirrena (fig. 70).140 Grazie anche ad una cronologia che scandisce in una sequenza molto ravvicinata queste ultime due statue e quella qui presentata, emerge senza equivoci la loro comune appartenenza al linguaggio bottoniano. I volti ovali dagli occhi lunghi e stretti inscritti in un’arcata sopraccigliare ampia e dal mento sporgente e individuato da una fossetta centrale; la resa, poco voluminosa e un po’ rinsecchita, del drappeggio dei manti, nonché il dettaglio delle maniche delle vesti, a metà braccio strette da una fascetta; l’impostazione generale delle tre sculture, oltremodo rigide e bloccate in una posizione assiale che ben poco concede in termini di dinamismo: si tratta di elementi che tradiscono in maniera inequivocabile l’intervento di un unico artefice. L’unica variante si nota, relativamente alla Vergine di Fiumedinisi, nella rappresentazione del Bambino, il dell’artista toscano tale opera riveste una particolare importanza, in quanto essa è l’unica documentata, quindi l’unica che gli si può attribuire con certezza. 138 Gli unici e brevi passi del rogito relativo alla commissione di quest’opera sono stati pubblicati da D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [126-128]. Il ruolo rilevante di “ponte”, svolto dalla scultura bottoniana di Milazzo, che si colloca agilmente tra la Santa Caterina di Forza d’Agrò eseguita dal Montanini e i tanti numerosi esemplari di Madonne col Bambino realizzate da Giuseppe Bottone, non poteva essere compreso da Stefano Bottari perché all’epoca del suo contributo su Martino si credeva che l’opera milazzese fosse stata compiuta da Vincenzo Gagini, ultimogenito di Antonello. Ecco perché, mancando il passaggio fondante costituito dalla statua milazzese, il Bottari non dubitava nell’ascrivere al toscano anche la Vergine di Fiumedinisi. 139 Vedi la scheda n. 7. 140 Vedi la scheda n. 6. 218 quale, più che quelli di Villafranca e di Pentedattilo, rievoca più fortemente l’analoga figura di Albi, con la quale condivide la posizione e la resa delle carni robuste e generose (figg. 65, 69). Tale evidente scarto nella rappresentazione, non solo stilistica ma anche tipologica del Bambino, dal corpo talmente nerboruto e forzuto da lambire quasi la sproporzione anatomica, e dalla disposizione di profilo, vivace e dinamica nella posa, non deriva però da un’invenzione dell’artista messinese, ma dipende ancora una volta da un precedente montaniniano. Mi riferisco alla Madonna del Soccorso di Castanea delle Furìe (ME, fig. 60), oggi conservata in una casa privata ma proveniente dalla chiesa omonima. Dopo un’improbabile collocamento nell’area calamecchiana,141 questa statua è stata ricondotta all’ambito montorsoliano142 proprio in virtù del raffronto con la Vergine di Fiumedinisi; recentemente, Monica de Marco l’ha opportunamente restituita al Montanini.143 Alla luce del forte nesso tipologico che lega questi due marmi, il divario formale tra loro esistente appare ancora più manifesto, e ci restituisce la personalità di uno scultore, Giuseppe Bottone appunto, talmente incapace di sganciarsi dai modelli visti e appresi in bottega da continuare a replicarli anche a distanza di tempo. All’interno di questa lunga sequela di figure marmoree licenziate dall’officina bottoniana sia per la Sicilia che per numerose località della dirimpettaia Calabria, la Madonna qui in esame si guadagna però almeno la precedenza cronologica, potendosi datare con certezza al 1560. 141 V. LO PARO, Scultura calamecchiana in Messina e dintorni, in «Messina ieri ed oggi», 3, Messina 1966, p. 13 (con illustrazione); E. NATOLI, Problemi di scultura a Messina nel secolo XVII, in Cultura arte e società a Messina nel Seicento, Industria Poligrafica della Sicilia, Messina 1984, p. 51, fig. 3. 142 O. D’ANGELO, Osservazioni in margine ad un gruppo di opere inedite di scultura del XVI secolo, in Arte e storia nella provincia di Messina: prima parte, catalogo della mostra a cura di T. PUGLIATTI, Tipografia Samperi, Messina 1986, pp. 27, 58, fig. 25. 143 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 71, 79, figg. 66, 78. 219 6. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Madonna col Bambino Anni sessanta del Cinquecento Marmo Altezza 112 cm Villafranca Tirrena, chiesa di San Nicola di Bari Il marmo è stato ricondotto da Alessandra Migliorato all’attività di Giuseppe Bottone,144 scalpellino peloritano che, con ogni probabilità, dovette formarsi nella bottega di Martino Montanini,145 collaboratore di Giovann’Angelo Montorsoli (fig. 70). Evidenti affinità stilistiche e tipologiche collegano quest’opera ad una serie di analoghe immagini mariane licenziate dalla prolifica officina del messinese durante il settimo decennio del Cinquecento. Nello specifico, essa si apparenta ai manufatti conservati nelle località calabre di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC, ante 1568, chiesa della Madonna delle Grazie, fig. 64), di Scigliano (CS, 1562, San Francesco d’Assisi, fig. 62) e di Pentedattilo (RC, 1564, San Domenico, fig. 63).146 Tra di esse, la prima può ricondursi a Giuseppe, grazie alla sua menzione nell’atto notarile con cui, il 13 novembre 1568, egli s’impegnava ad eseguire una Vergine col Bambino da destinare a Santo Stefano d’Aspromonte, prendendo come riferimento proprio la scultura di Sant’Eufemia. La richiesta era stata espressa direttamente dai committenti: come è precisato nel rogito, i rappresentanti del piccolo borgo calabro chiedevano al maestro di scolpire una Madonna «di la grandizza, lavoro et perfettione con admegloranza di un’altra imagini quali questi tempi passati ha fatto alo casali di Sancta Efimia parcium Calabrie».147 144 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 204, fig. 77. L’opera era stata segnalata (senza illustrazione) anche in Arte e storia nella provincia di Messina: prima parte, catalogo della mostra a cura di T. PUGLIATTI, Tipografia Samperi, Messina 1986, p. 6, con l’indicazione di lavoro di «ignoto scultore, sec. XVII». Essa è ancora oggi custodita nella chiesa dell’antica Bavusum, oggi Bauso, contrada del piccolo borgo di Villafranca Tirrena. Lo scannello reca a destra lo stemma della famiglia Cottone, feudatari di Villafranca nel XVI secolo. 145 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. 146 Entrambe le date sono incise nei rispettivi scannelli. Nella Vergine di Scigliano l’iscrizione sul plinto ne ricorda anche il carattere “comunitario” della commissione, che deve aver coinvolto un numero cospicuo di personaggi della piccola cittadina cosentina: A PLURIBUS BENEFACTORIBUS ANNO DN. MDLXII. 147 IDEM, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [128-130], doc. II. In questa stessa occasione lo studioso pubblicò anche il documento di consegna della statua. 220 Perduta la figura di Santo Stefano,148 nel ricostruire la cronologia delle commesse che il Bottone ricevette nell’arco degli anni sessanta, avremmo così le Madonne di Fiumedinisi (1560, fig. 69), di Scigliano (1562), di Pentedattilo (1564), di Sant’Eufemia (1567-68 circa), cui si aggiungono le sculture di Villafranca e di Cosenza (San Francesco d’Assisi, fig. 66). La scansione incalzante delle opere149 dimostra come, partito definitivamente il Montanini, l’artista più richiesto in città (almeno fino all’imporsi di Rinaldo Bonanno) fu appunto Giuseppe. La ragione della datazione della Vergine di Villafranca nei primi anni sessanta è motivata dalle numerose comunanze che essa presenta specialmente con le immagini di Fiumedinisi e di Scigliano, datate nei rispettivi scannelli 1560 e 1562. Tutti questi marmi, cui può altresì accostarsi quella cosentina (fig. 66), sembrano dipendere da un unico e ben preciso prototipo, che il messinese dovette mutuare da Martino. Mi riferisco alla Madonna del Soccorso un tempo collocata sull’altare maggiore della chiesa omonima di Castanea (ME, fig. 71) ed oggi custodita in una locale casa privata, restituita al Montanini soltanto di recente.150 I modi figurativi espressi in questa statua, per la quale si propone qui una datazione sul finire degli anni cinquanta, furono dal Bottone assimilati talmente dall’indurlo a replicarla fin nei più minuti dettagli, sebbene sia palese il notevole scarto nella resa formale. Gradualmente infatti, nel passaggio dal modello alle “copie”, le Madonne persero freschezza e vivezza di rappresentazione, le volumetrie si affilarono e i drappeggi si rinsecchirono, mentre il Bambino passò dal corpo “erculeo” e dalla posa dinamica di Fiumedinisi all’esile e instabile bambolotto dell’analoga figura di Villafranca. 148 A causa di un disastroso incendio scoppiato all’inizio del Novecento all’interno della Matrice di Santo Stefano d’Aspromonte, la statua ivi collocata, che fu effettivamente consegnata il 4 giugno 1569, è andata irrimediabilmente perduta. 149 Le Madonne custodite a Fiumedinisi, Scigliano e Pentedattilo recano la data d’esecuzione incisa nello scannello. 150 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 71, 79, figg. 66, 78. 221 7. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Madonna col Bambino Inizio anni settanta del Cinquecento Marmo con estese tracce di dorature Altezza 112 cm Castanea delle Furìe (ME), chiesa del Rosario (dalla chiesa della Madonna del Tindari) La scultura ha fatto il suo ingresso nella chiesa del Rosario da un altro edificio di culto, dedicato alla Madonna del Tindari e andato distrutto a seguito del sisma occorso nel 1908 (fig. 71). Trafugata negli anni ottanta del secolo scorso, e successivamente recuperata, essa è attualmente relegata dietro all’altare maggiore della chiesa seicentesca, occultata dunque ai fedeli.151 Nel 2011 Alessandra Migliorato l’ha restituita allo scultore messinese Giuseppe Bottone, formatosi con Martino Montanini.152 Manifeste affinità stilistiche apparentano la Madonna di Castanea alla figura, di identico soggetto, custodita ad Albi (CZ, chiesa dei Santi Pietro e Paolo, fig. 65), che uno strumento notarile datato 29 gennaio 1574 assegna con certezza a Giuseppe.153 Il profilo di questo modesto 151 Quando, nel 1938, si decise di ricostruire la chiesetta del Tindari, al suo interno si lasciò lo scannello che in origine accompagnava la Vergine, e recante nelle facce alcune testine di cherubini (fig. 72). 152 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 204, fig. 78. In precedenza l’opera aveva ricevuto alcune segnalazioni entro contesti più generali riguardanti la chiesa o su studi relativi al patrimonio d’arte conservato nei casali della città di Messina: A. CIRAOLO, Cenni storici sulle chiese di Castanea dalla fondazione della parrocchia di San Giovanni – 1500 ad oggi – novembre 1908, Premiata Officina Grafica Gaspare Astesano, Chieri (Torino) 1917, p. 47; L. PRINCIPATO, Castanea nelle sue vicende storico-religiose, Scuola Tip. Antoniana, Messina 1939, p. 127; F. CHILLEMI, I casali di Messina. Strutture urbane e patrimonio artistico, con saggio introduttivo di A. AMATO ed un contributo di L. PALADINO, EDAS, Messina 1995, nuova edizione a cura di G. MOLONIA, FBP (fondazione Bonino-Pulejo), Messina 2004, p. 197. 153 Il rogito è stato rintracciato e pubblicato dal sempre impagabile Domenico Puzzolo Sigillo, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [130-134], docc. III-IV. Dalla lettura dell’atto notarile emerge che il manufatto era destinato ad una cappella «Sancte Marie Populi de Pietate civitatis Taberne», vale a dire dell’attuale cittadina di Taverna, di cui Albi in passato era un casale. La collocazione originale della Vergine era la chiesa di Santa Maria della Misericordia, annessa al convento dei padri agostiniani della Congregazione di Zumpano, e il suo scannello reca nella parte frontale la dicitura Sancta Maria Populi. Nel documento, datato 29 giugno 1574, che testimonia l’avvenuta consegna del marmo da parte dello scultore, vengono menzionati il padre agostiniano Daniele Russo e il nobile Allegria Cosso, procuratori «ecclesie Sante Marie de lo Populo civitatis Taberne». Cfr. anche L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2003, p. 1069. 222 maestro ha acquistato di recente un certo rilievo entro una parte della storiografia artistica (specialmente quella calabrese): si è così riusciti ad inquadrarne meglio la prolifica attività, specializzatasi nella produzione di immagini mariane destinate a numerose località calabre.154 In effetti, la serie di Madonne ancora oggi esistenti in questa regione che possono attribuirsi al Bottone o perché documentate o per convincenti confronti con le opere certe è cospicua, e include, fra le prime, i marmi di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC, ante 1568, fig. 64) e di Albi (CZ, 1574, fig. 65)155, e poi ancora quelle di Pazzano (RC, 1562, fig. 61), Scigliano (CS, 1562, fig. 62), Pentedattilo (RC, 1564, fig. 63), Cosenza (anni sessanta, fig. 66), Rende (CS, anni sessanta, fig. 67), Bonifati (CS, anni sessanta), Terranova Sappo Minulio (RC, fine anni sessanta, fig. 68).156 L’eccezionalità della scultura qui presentata dipende dunque, molto semplicemente, dall’essere una tra le poche, finora note, realizzate dal messinese per la sua terra d’origine. Oltre a questa, si conoscono infatti solamente altre due Vergini col Bambino allogate in altrettanti siti del territorio distrettuale peloritano, vale a dire quelle di Fiumedinisi (ME, 1560, fig. 69)157 e di Villafranca Tirrena (ME, fig. 70).158 Risalta perciò la forte sproporzione esistente nella produzione di Giuseppe destinata alla Sicilia a riscontro di quella spedita in Calabria, la qual cosa se, da un lato, si spiega con l’influenza di una committenza conservatrice, incapace di slegarsi da uno schema iconografico di successo; dall’altro dimostra che nella città dello Stretto, dove la “piazza” si distingueva per un’elevata capacità 154 G. LEONE, Esiti della “pittura devota” nel primo trentennio del Seicento a Taverna, in Museo Civico di Taverna 1699-1999 nel terzo centenario della morte di Mattia Preti = Bollettino del Museo Civico di Taverna, 2, [s.e.], [s.l.], 1999, pp. 4-5; L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento cit., pp. 1068-1069; G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella a Pazzano: le testimonianze artistiche recenti, contributi storico-artistici e iconografici, in L’eremo di S. Maria della Stella nell’area bizantina dello Stilaro. Storia, arte, spiritualità, atti del convegno, Pazzano 1996, Arti Grafiche GS, Ardore Marina 2000, pp. 136-137; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 7173, 78-83. 155 A queste se ne aggiunge una terza, commissionata il 13 novembre 1568 dai rappresentanti del casale di Santo Stefano d’Aspromonte e consegnata l’anno successivo. Dalla lettura di questo rogito si evince che la scultura di Sant’Eufemia d’Aspromonte doveva somigliare a quella di Santo Stefano, di già eseguita dal Bottone. Quest’ultima è però andata perduta in un incendio che ai primi del Novecento ha devastato la chiesa che la custodiva. I due atti notarili (sia quello di commissione che quello di consegna) sono stati pubblicati da D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107-142 [128-130], doc. II. 156 Per le attribuzioni delle Madonne di Bonifati e Pazzano, cfr. G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella cit., pp. 136-137; per la statua di Cosenza, IDEM, Esiti della “pittura devota” cit., pp. 45; per la Vergine di Scigliano, cfr. L. LOJACONO, La scultura del Cinquecento cit., pp. 1068-1069; per le opere di Rende, Pentedattilo e Terranova Sappo Minulio, cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 83, 266-271. 157 La data è incisa nello scannello. Vedi la scheda n. 5. 158 Vedi la scheda n. 6. 223 concorrenziale, egli fu solamente uno dei tanti “comprimari”, senza mai detenere il primato di scultore di riferimento.159 Nell’impianto, nei panneggi, fin nei gesti e nei dettagli d’ornato, la statua di Castanea replica puntualmente quella custodita ad Albi, il che induce a ritenerle più o meno coeve. Se la Vergine calabrese deve considerarsi l’ultima fatica bottoniana (le attestazioni documentarie che riguardano quest’artista si arrestano al periodo successivo alla consegna del marmo di Albi),160 sembra plausibile credere che la “gemella” sicula la preceda, se pur di poco. La ripetitività, oserei dire la serialità che contraddistingue queste figure marmoree e tutte le altre sopra elencate mostrano quanto egli, lungo l’intero corso della propria carriera, sia stato scarsamente ricettivo ai cambiamenti e alle novità pur introdotte nella città peloritana da altri maestri.161 Se poi s’immagina, come io penso, che dietro a questa sequela di rappresentazioni mariane risieda un prototipo che il Bottone tentò fedelmente di emulare, e che esso debba riconoscersi nella Madonna del Soccorso oggi custodita in una casa privata di Castanea (già nella locale chiesa omonima), allora si comprende da una parte il ruolo, evidentemente vincolante, della committenza; dall’altra, l’indole di questo autore, che, dopo aver scelto uno schema compositivo di partenza, dovette riprodurlo numerose volte, limitandosi ad apportare di tanto in tanto qualche trascurabile variazione. Giuseppe doveva conoscere molto bene il proprio modello, se, come ultimamente ha proposto Monica de Marco, esso fu realizzato dal suo maestro Martino Montanini.162 Come era già accaduto per la Santa Caterina d’Alessandria 159 Giocoforza, ciò gli riuscì in Calabria, la cui struttura sociale ed economica, ancora nel corso del Cinquecento, si presentava legata a forme che con tutta evidenza possiamo definire medievali. Ciò comportò la persistenza, tra la committenza, di gusti per l’appunto conservatori. Unita alla mancanza assoluta di istanze artistiche che si registrava nei numerosi e minuti borghi nei quali si strutturava la vita della regione (non vi era alcun vivace centro cittadino di un certo rilievo), la situazione calabra si delineava totalmente dipendente dai mercati esterni, in primis quello siciliano, dal quale non a caso nel XVI secolo è provenuta la stragrande maggioranza di opere d’arte. 160 Giuseppe Bottone ricoprì, dal 1561, la carica di capomastro scultore del Duomo di Messina. Domenico Puzzolo Sigillo recuperò nei Quinterni dell’Opera, vale a dire fra i documenti che registravano le svariate e numerose attività relative alla Cattedrale messinese, le varie annotazioni che, di anno in anno, attestavano la consegna allo scultore del corrispettivo (equivalente ad un’oncia) per la mansione svolta. L’ultimo pagamento riguardante il Bottone si trova nel Quinterno del periodo 1 settembre 1574–31 agosto 1575. Da ciò il Puzzolo dedusse che il messinese dovette morire proprio in questi mesi, a cavallo tra l’altro dello scoppio nella città dello Stretto dell’epidemia di peste (cfr. IDEM, Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107-142 [124-125]). 161 Fra i tanti artisti presenti in città in quegli anni, compaiono Rinaldo Bonanno (dal 1559), che volse un iniziale apprendistato presso l’officina montaniniana, e Andrea Calamecca (dal 1565), «sculptor electus fontium hujus civitatis». 162 Molto plausibilmente la Madonna del Soccorso deve farsi risalire al periodo immediatamente successivo al rientro di Martino in città, vale a dire intorno al 1558-59: egli, com’è noto, partì nel maggio 1557 assieme al Montorsoli, ma rientrò a Messina dopo poco più di un anno, richiamato con forza dal Senato peloritano che il 27 ottobre 1558 lo nominò capomastro scultore del Duomo. Il rapporto professionale tra il Montanini e il messinese è inoltre attestato da una carta d’archivio (ibidem, pp. 306-311), nella quale il 29 dicembre del 1558 Giuseppe Bottone veniva coinvolto assieme a Martino nell’esecuzione di una statua a grandezza naturale raffigurante Santa Caterina 224 di Milazzo (1560-61, fig. 33), per la quale il messinese replicò, con modi più stecchiti e stereotipati, l’analoga statua compiuta dal toscano nel 1558 per Forza d’Agrò (fig. 34), anche in quest’occasione il Bottone dovette rielaborare un’opera di Martino. L’unico elemento divergente in questa lampante riproposizione del manufatto montaniniano è costituito dal Bambino, la cui posizione si discosta da quella “archetipica”, rivolta lateralmente e con il braccio sinistro teneramente appoggiato sul collo materno; la dinamica postura del Bambino del Montanini, che dovette suscitare l’attenzione di Giuseppe, fu da questi ripresentata soltanto nelle già citate Vergini di Fiumedinisi e di Albi (figg. 65, 69). Per Castanea, invece, egli scelse una posa decisamente più canonica, quella di già adottata nelle altre immagini mariane poco sopra citate, e nelle quali il Bambino è rappresentato per lo più frontalmente, talora con una sfera nella mano sinistra e con la destra levata in segno di benedizione. d’Alessandria da inviare a Forza d’Agrò, piccolo centro della provincia peloritana. Per quest’ultimo marmo, vedi la scheda n. 3. 225 8. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Tabernacolo eucaristico 1560 Marmo con dorature Altezza 100 cm, larghezza 55 cm Drosi (frazione di Rizziconi), Reggio Calabria, chiesa di San Martino Iscrizioni (sul basamento): HIC EST PANI[S] QUI DE CELO DESCE[NDIT] La fortuna critica di questo tabernacolo (fig. 77) iniziò nel 1938, quando l’erudito messinese Domenico Puzzolo Sigillo ne pubblicò il documento di allogazione, datato 7 settembre 1560, in cui si menzionava Giuseppe Bottone, «scultor civis Messane».163 Non era la prima volta che lo studioso siciliano si occupava di questo maestro: poco meno di una decina di anni prima, infatti, la costante e tenace attività di spoglio delle carte conservate nella sezione notarile dell’allora archivio provinciale di Stato della città di Messina, aveva portato il Puzzolo a fornire una prima, significativa notizia strettamente riguardante l’attività del Bottone.164 Si trattava di un atto notarile in cui, allo scadere del 1558, l’artista messinese veniva citato assieme al toscano Martino Montanini, allievo di Giovann’Angelo Montorsoli, per l’esecuzione di una statua a grandezza naturale raffigurante Santa Caterina d’Alessandria per Forza d’Agrò, piccolo centro della provincia peloritana.165 Il rogito relativo alla custodia di Drosi è per noi molto interessante, non soltanto perché, com’è ovvio, fornisce la certa attribuzione dell’opera a questo scultore, ma anche, e soprattutto, perché esso costituisce la più antica attestazione di un incarico affidato a Giuseppe, impegnato per la prima volta autonomamente con una commessa peraltro non proveniente dalla sua terra d’origine: dettaglio quest’ultimo certamente trascurabile se si pensa ai continui e numerosi scambi commerciali e culturali che legano ab immemorabili le due regioni dello Stretto, ma 163 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [136], doc. I. Cfr. Appendice documentaria, n. 2. 164 Ma colui che svelò agli studi il Bottone grazie al reperimento di alcuni documenti nel medesimo archivio fu l’abate Gioacchino di Marzo, direttore della biblioteca comunale di Palermo, nonché pioniere della storiografia artistica siciliana, autore della monumentale opera I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, pp. 762-765. 165 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. 226 che acquista carattere di notevole rilevanza se lo si valuta, in anni dopotutto piuttosto precoci per il nostro maestro, quale prova di una sua notorietà anche al di fuori degli stretti confini isolani.166 Il pur significativo contributo del Puzzolo Sigillo rimase totalmente sconosciuto alla storiografia artistica per i successivi trent’anni, quando fu recuperato dallo studioso locale Antonino Basile, il quale corredò il proprio intervento critico di preziose riproduzioni fotografiche dell’edicola.167 Dall’attenta lettura del dettagliatissimo strumento notarile emerge una serie di notizie estremamente preziose, che inducono a soffermarsi su molti luoghi del suo dettato così come è stato trascritto dal Puzzolo.168 Compaiono innanzitutto i nomi dei committenti, Filippo Buculo, procuratore della cappella del Corpo di Cristo della terra di Drosi, «parcium Calabrie», e Marco Davili, «de eadem terra», coi quali il Bottone s’impegnava a scolpire «ad omnes eius expensas…quandam custodiam marmoream ad opus corporis Christi dicte terre Drosi»; veniamo altresì a sapere che il tabernacolo doveva avvicinarsi per «sorte, modo e qualità» ad un altro esistente nella chiesa messinese di San Nicolò dei Gentiluomini. Quest’ultimo passo del rogito, che evidentemente fornisce un importantissimo elemento, se pur esterno, a favore dell’assegnazione al medesimo maestro anche di questa seconda scultura,169 deve considerarsi come l’ulteriore testimonianza di una consuetudine invalsa fra la committenza calabro-sicula, che, da un lato per uno spiccato spirito emulativo, dall’altro per una scarsa predisposizione all’accoglimento di novità, tendeva a richiedere, spesso a molti anni di distanza, manufatti talora molto simili tra di loro. L’opera da inviare a Drosi, pur mantenendo una struttura generale sostanzialmente analoga a quella della “gemella” siciliana (fig. 76), avrebbe però dovuto differire da quest’ultima relativamente alle dimensioni («omni banda…sia più larga de quilla de Sancto Nicolao tri digita»); inoltre, le sue facce laterali, perdendo le cupolette, si sarebbero presentate con una superficie completamente liscia, e alcune stelle dorate sarebbero state aggiunte negli spazi rimasti liberi entro le specchiature interne. I committenti garantivano a Giuseppe la somma di trentacinque scudi, e quest’ultimo dal canto suo prometteva non solo di consegnare il lavoro entro quaranta giorni dalla stipula del contratto, ma anche di occuparsi personalmente del suo allestimento all’interno della cappella ad essa destinata (che evidentemente dovette essere quella intitolata al Corpo di Cristo). 166 All’epoca lo scultore doveva avere poco più di vent’anni. Quest’elemento non è assolutamente trascurabile, visto che la più grande pecca della maggior parte della storiografia artistica meridionale è quella di dotare i propri contributi di un numero fin troppo esiguo di illustrazioni. A. BASILE, Ciborio del Bottone a Drosi, in «Nuovi Quaderni del Meridione», Banco di Sicilia, Ufficio Fondazione Mormino, 1968, 24, pp. 2-5. 168 Vedi Appendice documentaria, n. 2. 169 Cfr. la scheda n. 9. 167 227 Malgrado che nel rogito non si faccia specifica menzione dell’edificio di culto cui il marmo era riservato, ma soltanto della cappella che avrebbe dovuto accoglierlo, Antonino Basile dà per scontato che la chiesa in questione sia da identificare con l’odierna parrocchiale dedicata a San Martino, riedificata nelle forme attuali a seguito del disastroso terremoto abbattutosi in quest’area nel 1783, a causa del quale la gran parte degli stabilimenti religiosi ivi presenti rovinò irreparabilmente. L’indomani della ricostruzione della parrocchiale la custodia fu sistemata sull’altare maggiore, dove ancora oggi fa mostra di sé, essendo fortunosamente scampata, in un secondo momento, ad un pericoloso incendio scoppiato in chiesa nel 1922 che ne annerì la superficie legittimando un successivo intervento di ridipintura tuttora visibile. Ripubblicato soltanto un anno dopo (1969) su Brutium, la nota rivista d’arte calabrese fondata da Alfonso Frangipane, il contributo del Basile ebbe anche il pregio di destare l’interesse degli studi170 su questo pezzo marmoreo “di provincia” che costituisce uno dei pochi punti fermi del catalogo del Bottone, fra i rari maestri di pietra del Cinquecento operanti a Messina e di documentata origine siciliana.171 170 G. DE MARCO, Tabernacoli eucaristici, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, p. 960, nel ricordare che il paese reggino fu feudo della famiglia Pignatelli, affermò che «la presenza di questo tabernacolo a Drosi testimonia le scelte culturali della feudalità». Alla luce di quanto si evince dal contratto di allogazione non credo si possano, almeno per quest’opera, citare in causa i nobili e potenti Pignatelli, in più circostanze attivi in qualità di mecenati (ricordo a tal proposito che sempre a Drosi, e più precisamente nella chiesa dedicata a San Giovanni Battista, si conservava, sino al 1783, la statua del titolare grande al naturale, oggi al Museo Nazionale di Reggio Calabria, erroneamente attribuita a Pietro Bernini, che reca nello scannello lo stemma della nota famiglia calabrese). Al di là dell’attestazione documentaria, che ci delucida in merito ai committenti del nostro tabernacolo e alla sua conseguente destinazione, propenderei a sostenere che la commessa drosiana s’inserisce in quella più generale discorso relativo ai rapporti continui che questa la Calabria Ultra intessé con la Sicilia, ed in particolare con Messina. Basti pensare che quando, nel 1133, Ruggero II sanzionò la nuova costituzione dell’archimandritato, prevedendo che i vari monasteri basiliani sorti sino a quel momento sull’isola e in Calabria fossero sottomessi alla giurisdizione del monastero messinese del Santissimo Salvatore in lingua phari, fra questi risultò anche “San Nicola de Drosis” (M. SCADUTO, Il monachismo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza (sec. XIXIV), Edizioni di «Storia e Letteratura», Roma 1947, p. 185). Sul tabernacolo, cfr. anche A. R. CARTISANO, Prospetto di custodia (Drosi), in Pange lingua. L’Eucaristia in Calabria. Storia, devozione, arte, a cura di G. LEONE, Abramo, Catanzaro 2002, p. 317 n. 20. 171 A. BASILE, Sculture cinquecentesche a Drosi, in «Brutium», 1969, II, pp. 11-13. Oltre alla guida del Touring Club Italiano, Basilicata e Calabria, Milano 1980, p. 633, occorre ricordare: E. NATOLI, Scultura di ambito messinese in Calabria nei secoli XVI e XVII, in Messina e la Calabria dal basso Medioevo all’età contemporanea, atti del I colloquio calabro-siculo, Reggio Calabria-Messina 21-23 novembre 1986, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1988, p. 25; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 186; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 67; G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella a Pazzano: le testimonianze artistiche recenti, contributi storico-artistici e iconografici, in L’eremo di S. Maria della Stella nell’area bizantina dello Stilaro. Storia, arte, spiritualità, atti del convegno, Arti Grafiche GS, Ardore Marina 2000, p. 136, nota 127. 228 La custodia assume la forma di un tempietto a pianta centrale sormontato da cupola il cui fulcro visivo è rappresentato, per ovvi motivi, dal vano mediano, chiuso da un moderno sportello ligneo e tuttora repositorio delle Sacre Specie. La Cappella del Corpo di Cristo, aperta in cornu evangelii, doveva in origine ospitare l’edicola a ridosso della mensa d’altare, com’era uso all’epoca per questo tipo di manufatti, ma sempre come un corpo a sé stante, autonomo rispetto alla mensa stessa, di cui costituiva il necessario ma non per questo inamovibile complemento d’arredo; oggi invece, come si evince dalla documentazione fotografica, il marmo si presenta murato al centro della struttura dell’altare e dunque oramai inscindibile da questa. L’opera, danneggiatasi forse durante l’evento sismico, o più verosimilmente per essere adattata alla nuova collocazione, ha perduto, assieme all’intera superficie tergale, anche parte delle due facce laterali, che, da contratto, dovevano misurare ben tre dita più di quelle dell’analoga scultura di San Nicolò.172 Due coppie di angeli adoranti disposti ai lati dello sportello convergono al centro in adorazione del Santissimo, mentre i pennacchi ricavati tra l’estradosso dell’arco a tutto sesto e la trabeazione accolgono due cherubini le cui ali si adagiano sul bordo dell’arco stesso adeguandosi alla sua superficie curvilinea. Lo zoccolo, che, come previsto dal rogito, è ornato al centro da una stella dorata, reca i simboli degli Evangelisti (tetramorfo) – partendo dalla sinistra del riguardante l’Aquila di Giovanni, il Bue di Luca, il Leone di Marco e l’Angelo di Matteo –, mentre sul bordo inferiore del tempio è inciso il noto versetto del Vangelo di Giovanni (6,51) strettamente connesso al tema eucaristico. In alto la custodia è chiusa da un frontone spezzato lievemente aggettante e occupato al centro da una bella figura del Dio Padre Benedicente affiancato da due testine di cherubini. La più antica attestazione relativa a Giuseppe Bottone risale al 31 ottobre 1557, data in cui egli è nominato dal padre Filippo, detto «maczonus civis Messane», «procuratorem et nuntium specialem» al fine di riscuotere vari crediti che il genitore aveva accumulato presso numerosi clienti «et maxime totum id quid quid et quantum recipere et habere debet a regir (sic) curia huius regni et ab aliis quibusqcumque officialibus et personis pro serviciis et operibus per eum prestitis et factis».173 Già il Puzzolo Sigillo desunse che, per ottenere la procura, il maestro doveva essere almeno maggiorenne, e pertanto ne collocò la nascita al più tardi nel 1539; ma è verosimile che essa debba essere retrodatata almeno di qualche anno, specialmente se si considera che fra il 1558 ed il 1560 egli ricevette tre incarichi documentati e che già nel 1561, alla partenza definitiva di Martino Montanini dalla città peloritana, egli fu nominato dalla Maramma del Duomo 172 Un rapido calcolo delle dimensioni di entrambi i pezzi ci fornisce la prova di questa affermazione: considerato che il tabernacolo messinese è largo 36,5 cm e che tre dita corrispondono approssimativamente a 15 cm, dovremmo ottenere una misura di poco più di 50 cm, che non equivale alla profondità dell’edicola di Drosi (per lo meno non a quella attuale). 173 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., p. 119. 229 capomastro della fabbrica della maggiore chiesa cittadina.174 Ciò su cui, dal Puzzolo in poi, la storiografia sembra concordare è l’apprendistato del Bottone al fianco di Montanini, anche se ritengo debba leggermente correggersi il tiro di questa convinzione, pur corretta per vie generali, sostenendo piuttosto che, avviandosi egli alla pratica scultorea ancor prima del compimento della maggiore età, è verosimile che avesse frequentato la bottega del Montorsoli prima del rientro di questi in patria avvenuto nel 1557. Di Giuseppe si conosce, oltre a questo di Drosi e al suo “modello” di San Nicola, un altro esemplare di tabernacolo eucaristico a forma di tempio centralizzato, più uno non autografo ma appartenente o alla sua stessa bottega o tutt’al più ad un’altra alla sua molto vicina.175 L’opera calabrese si contraddistingue per la propensione del suo autore ad una certa caratterizzazione calligrafica che conferisce, ad esempio, alle testine di cherubini poste nei pennacchi dei lineamenti fisionomici ben definiti nei contorni. Contestualmente, lo scultore mostra anche una discreta capacità di accordare alle figure, seppur nel piccolo formato, una certa monumentalità, come accade in particolare al Dio Padre Benedicente (fig. 84), che esibisce una silhouette movimentata dalla contrapposizione tra la veduta frontale del dorso e la testa volta di tre quarti nonché dallo svolazzo del mantello attorno al corpo. Al centro dell’edicola gli angeli adoranti dalle slanciate fattezze non smentiscono la condotta “formalistica” avviata dal Bottone (anche se i volti, i capelli, le mani e le ali rivelano una condotta più sommaria, così come il Tetramorfo), connotandosi per una relativa morbidezza dei panneggi, i quali, specie all’altezza della vita, tradiscono il subitaneo spostamento che li ha spinti verso il Santissimo, e per la comparsa del dettaglio dell’acconciatura stretta da una fascetta culminante in un piccolo nodo. Vista la tendenza del maestro messinese a riproporre modelli altrui e la conseguente sua modesta capacità di rinnovarsi non solo nello stile ma anche nelle iconografie, penserei anche per questi pezzi ad una “inventio” a lui precedente, magari da ascrivere al Montanini o, perché no, al Montorsoli stesso. Un prototipo di cui forse oggi siamo orfani a causa dei tanti rovinosi eventi che, nel corso dei secoli, hanno investito la Sicilia e la dirimpettaia Calabria, o che, non essendo ancora noto agli studi, c’impedisce di avere una più ampia visione e specialmente ci priva di un utile ed ulteriore termine di confronto con le testimonianze sinora note. 174 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia cit., I, p. 762. Trattasi di quello oggi custodito nel Museo Regionale di Messina ma proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Basicò, e dell’altro oggi nella cappella dell’Ospedale Piemonte. Cfr. rispettive schede nn. 10-11. 175 230 9. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Tabernacolo eucaristico (inv. 441) Seconda metà degli anni cinquanta Marmo con tracce di dorature Altezza 96 cm, larghezza 36,5 cm Angeli reggicandelabro (inv. 465) Seconda metà degli anni cinquanta Marmo con tracce di dorature Cm 67×50×27 Messina, Museo Regionale, Depositi (da San Nicolò) Iscrizioni (nello zoccolo del tabernacolo): D[OMINUS] MARIUS CIRINO AB[AS] (nelle basi degli angeli): D MARIUS CIRINO AB[AS] Stemmi: nella parte frontale dei basamenti degli angeli compare la banda centrale dell’insegna della famiglia Cirino con cinque losanghe. Quando Enrico Mauceri nel 1929 pubblicò questa edicola eucaristica nel primo catalogo del Museo Regionale di Messina (fig. 76), i due angeli reggicandelabro (fig. 78-79), malgrado che condividessero con essa la medesima provenienza e che fossero giunti assieme alla custodia (recuperati dalle macerie dopo il disastroso terremoto del 1908) sulla “spianata” dell’improvvisato museo cittadino,176 figuravano ancora come opere a sé stanti, non pertinenti al tabernacolo di cui pure costituivano il giusto complemento liturgico e figurativo.177 Sorprende come Francesca Campagna Cicala, direttrice di quella stessa struttura museale sino ad anni recenti, ancora nel 1994 abbia dedicato un’intera scheda all’edicola, senza però collegarla ai due sfortunati angeli genuflessi rimasti pertanto nell’anonimato.178 La prima ipotesi di ricomposizione del gruppo scultoreo 176 L’indomani del sisma, il Ministero della Pubblica Istruzione e la Soprintendenza alle Gallerie e ai Monumenti decisero di occupare l’intera spianata su cui sorgeva il monastero del Santissimo Salvatore, per raccogliervi e depositarvi tutto il materiale che si veniva man mano recuperando dalle chiese e dai tanti monumenti distrutti, anche in vista della ricostruzione di quello che sarebbe stato il nuovo museo. 177 E. MAUCERI, Il Museo Nazionale di Messina, La Libreria dello Stato, Roma 1929, p. 85: «Bel ciborio di forma bramantesca, col nome di don Mario Cirino» (con illustrazione). 178 F. CAMPAGNA CICALA, scheda n. 22, in Arte e storia nella provincia di Messina: prima parte, catalogo della mostra a cura di T. PUGLIATTI, Tipografia Samperi, Messina 1986, p 271. La 231 è molto recente, e si deve a Giampaolo Chillè, in un breve ma esaustivo contributo volto a chiarire le vicende costruttive della chiesa di San Nicolò, che sino al 1908 aveva ospitato i tre pezzi marmorei.179 Bisogna rivolgersi alla storiografia messinese erudita per trovare un prezioso riferimento utile all’individuazione dell’autore delle sculture qui presentate. Si tratta di Domenico Puzzolo Sigillo, il quale nel 1938 pubblicò un rogito (7 settembre 1560) dal quale si evince chiaramente che, nel richiedere all’artista messinese Giuseppe Bottone l’esecuzione di una «custodiam marmoream ad opus Corporis Christi» per il borgo calabro di Drosi, i committenti specificavano che essa avrebbe dovuto presentarsi «illius sortis, modi, qualitatis et laboris pro ut est custodia Corporis Christi ecclesie Sanctorum Nicolai Nobilium Messane».180 I due manufatti dovevano differire nelle dimensioni, visto che per contratto quello calabrese doveva misurare tre dita meno del “gemello” siciliano, e che, a differenza di quest’ultimo, le cui facce laterali erano arricchite per tutta la loro altezza da cupolette, il tempietto di Drosi doveva presentare i lati «dricti ita che non li siano quelli cupule che a li cante su ad quella di Sancto Nicolao». Quella di San Nicolò dei Gentiluomini era una tra le principali fabbriche religiose cittadine,181 sorta per volontà del conte Ruggero lungo la strada un tempo nota studiosa, sostenendo che «nonostante l’apparato decorativo si rifaccia a repertori già in uso a Messina, vicini a prototipi gaginiani, il dinamismo impresso alle figure e l’espressività che le anima – per quanto le forti abrasioni consentano ancora di leggere – sembrano appartenere alle correnti manieristiche di importanza toscana, e probabilmente alla cerchia calamecchiana», palesava d’ignorare il determinante contributo di Domenico Puzzolo Sigillo che riconduceva la scultura a Giuseppe Bottone. Altre tre segnalazioni del tabernacolo si trovano in A. BASILE, Ciborio del Bottone a Drosi, in «Nuovi Quaderni del Meridione», Banco di Sicilia, Ufficio Fondazione Mormino, 1968, 24, pp. 2-5; IDEM, Sculture cinquecentesche a Drosi, in «Brutium», 1969, II, pp. 11-13; A. R. CARTISANO, Prospetto di custodia (Drosi), in Pange lingua. L’Eucaristia in Calabria. Storia, devozione, arte, a cura di G. LEONE, Abramo, Catanzaro 2002, n. 21, p. 317. 179 G. CHILLÈ, Tra assenza e presenza. L’antica chiesa di San Nicolò dei Gentiluomini e la Compagnia di Gesù a Messina. Note storiche e documenti inediti, in Scritti di storia dell’arte in onore di Teresa Pugliatti, a cura di G. BONGIOVANNI, Commentari d’arte/Quaderni, De Luca Editori d’Arte, Roma 2007, pp. 51-57 [54]. Lo studioso, che ha riportato i numeri d’inventario dei due angeli, ne ha pubblicato anche le illustrazioni (le prime in effetti sino a quel momento note di queste sculture). A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 205-209, ascrive edicola e angeli ad una collaborazione tra Montanini e Bottone. 180 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [136], doc. I. Cfr. la scheda n. 8. 181 Esso era detto “dei Gentiluomini” perché, come ricordato da P. SAMPERI (Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio, Giacomo Matthei, Messina 1644, pp. 202 e 346), presso di essa «s’adunavano fra di loro» alcuni nobili messinesi «per diverse opere di pietà e di divotione». Nella seconda metà del XV secolo la confraternita dei Gentiluomini lasciò il modesto edificio, che venne subito inglobato all’interno del nascente monastero di Montevergine, per trasferirsi nella chiesa medievale di Santa Maria dell’Accomandata. A questo periodo (1464-65) risale la prestigiosa commissione ad Antonello da Messina della tavola con il Santo titolare in trono, purtroppo distrutta nel 1908 (l’importante tavola, prototipo di molte altre raffigurazioni siciliane di analogo soggetto, ci 232 come la “ruga magistra” dell’impianto urbano normanno-svevo; nel 1547, col consenso del Senato cittadino, l’edificio fu ceduto alla Compagnia di Gesù, da poco giunta in città, mantenendo l’intitolazione a San Nicola.182 Dovettero essere questi gli anni della commissione della custodia e degli angeli, da datare, grazie all’incrocio dei dati forniti dal citato documento nonché dall’analisi del punto di stile, a qualche tempo prima del 1560. Seguendo passo passo quanto riportato dalle due fonti più vicine ai fatti qui discussi, vale a dire la Messina città nobilissima di Giuseppe Buonfiglio e Costanzo e l’Iconografia della Gloriosissima Vergine di Placido Samperi, veniamo a sapere che nel 1573 la Compagnia di Gesù, decidendo di erigere un moderno tempio più grande, ne affidò l’incarico allo scultore e architetto toscano Andrea Calamecca;183 la nuova chiesa, quindi, fu solennemente consacrata il 25 novembre 1582 alla presenza dell’arcivescovo Giovanni Retana. Dopo soli tre anni, un terribile incendio che distrusse l’adiacente collegio danneggiò in parte anche l’edificio calamecchiano: ciò ebbe come conseguenza non un semplice intervento di restauro ma un ulteriore, definitivo cambiamento dell’assetto della fabbrica con l’inserimento di altre due navate. Con questa pianta a cinque navate, dotata ai lati di due serie di cappelle circolari ciascuna provvista di cupolette, il San Nicola sarà noto sino al fatidico 28 dicembre 1908 e sarà anche ricordato nelle descrizioni dei numerosi viaggiatori stranieri in visita alla città.184 Non sappiamo quando furono ultimati i lavori, ma dalle parole del Buonfiglio si deduce che il cantiere era ancora aperto, mentr’egli era intento a scrivere la propria opera.185 è nota grazie ad alcuni schizzi che Giovambattista Cavalcaselle trasse nel suo prezioso taccuino e, se pur indirettamente, da un’opera raffigurante San Nicola con storie della sua vita conservata nel Duomo di Milazzo). 182 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, pp. 50-51: “Questo Collegio fu introdotto in Messina, et il primo in Sicilia, da don Giovanni de Vega, viceré all’hora nell’anno 1548. Questo tempio, nuovamente edificato sotto il titolo di San Nicola, et prima che si dicesse de’ Gentil’huomini, fu hospedale, detto di San Nicola degli Accomandati”; P. SAMPERI, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio cit, pp. 198-201. 183 La pianta del Calamecca doveva prevedere tre navate scandite da robuste colonne monolitiche sorreggenti archi a tutto sesto. 184 Per Goethe, ad esempio, che nel 1787 ebbe modo di visitare la chiesa, essa appariva come una sorta di «palazzo incantato, privo di ogni senso del divino». E dell’altare maggiore annotava: «…colonne di lapislazzuli con finte scanalature di verghe di bronzo dorato, pilastri e pannelli con intarsi di stile fiorentino, una profusione delle splendide agate siciliane, un avvicendarsi e intersecarsi di bronzi e dorature…ma cosa mai non riuscivano a fare i gesuiti?» (J. W. GOETHE, Viaggio in Italia (1786-1788), Mondadori, Milano 1985, p. 344). Per la storia dell’ordine gesuita a Messina e più specificamente in Sicilia, e per un’ampia panoramica sui suoi complessi religiosi nell’isola, G. MOLONIA, I Gesuiti a Messina dal XVI al XVIII secolo, in Un dipinto del XVIII secolo nel Collegio dei Gesuiti a Messina, catalogo a cura di G. FAMÀ, Messina 2000; M. I. LIMA, Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia, Novecento, Palermo 2001, pp. 5-10. 185 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima, cit., p. 50: «…il primo tempio detto di San Nicola de’ Gentil’huomini arse di notte, essendosi fortuitamente attaccato il fuoco. Si è rifabbricato l’altro tempio nuovo, ma non perfettionato ancora, con ricca et bella struttura, et sopra tutto con belle colonne, sopra il modello recato da Roma». 233 Molto significativo e strettamente connesso al nostro discorso è il seguente passo del Samperi: «Vengo all’artificioso quadro dell’altar maggiore alla SS. Vergine col puttino in braccio da tre angeli adorata, opera di Cesare da Milano stimata da’ periti la miglior gioia di Europa in somigliante soggetto, il quale con molta ragione viene augustamente adornato col ricco e sontuoso cappellone di marmi e pietre mischie eretto alcuni anni sono dal reverendissimo abbate di Rocca Amatore domino Mario Cirino per sé e per quei della sua nobilissima famiglia, accompagnato pure da un ricchissimo tabernacolo, fabbricato in Roma, di artificiosa manifattura di gioie e pietre mischie, che è cosa assai degna e riguardevole».186 Mi sembra che ci troviamo di fronte ad uno dei tanti esempi di riutilizzo di opere d’arte occorso all’interno di edifici che, per rinnovate esigenze di spazi o di culto, per cambiamenti del gusto o a seguito di più generali lavori di riammodernamento (specie allo scadere del XVI secolo), riorganizzavano i propri ambienti, specie alla luce delle nuove disposizioni tridentine. Il recupero, nel corso dei secoli, di manufatti risalenti ad epoche passate ed il loro conseguente riallestimento all’interno di macchine e strutture “moderne” si avvale di una casistica molto varia, e sembra proprio confarsi al nostro caso: Mario Cirino, in qualità di reggente dell’abbazia cistercense di Roccamadore (ruolo che ricoprì tra il 1614 ed il 1619) dovette commissionare, una volta terminati i lavori successivi all’incendio del 1585 (quelli che Buonfiglio ancora vedeva negli anni in cui scriveva la Messina), il riassetto del principale altare della chiesa gesuita, il cosiddetto “cappellone”, arricchendolo con “marmi e pietre mischie”, segni dei nuovi tempi, ma riadoperando il tabernacolo e gli angeli reggicandelabro cinquecenteschi. Al fine di suggellare la prestigiosa iniziativa, l’abate fece anche incidere nei pezzi recuperati un’iscrizione col proprio nome e titolo ecclesiastico nonché, nei piedistalli degli angeli, l’insegna araldica di famiglia, non riprodotta però entro il classico stemma, ma estrapolando da questo la sola banda centrale 186 P. SAMPERI, Iconologia della gloriosa Vergine cit., p. 200. L’affermazione dell’erudito messinese indusse la Campagna Cicala a desumere che «la descrizione del Samperi non coincide evidentemente con questo ciborio, realizzato in marmo bianco di Carrara ed in forme squisitamente rinascimentali…pertanto è possibile che esso facesse parte di un altare precedente a quello in marmi mischi e che la sua esecuzione debba risalire ad un’epoca precedente al riammodernamento calamecchiano». Sulla chiesa di San Nicolò, cfr. anche C. D. GALLO, Annali della città di Messina, capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua formazione fino ai tempi presenti, in Messina, per Francesco Gaipa regio impressore, 1758, pp. 77-81; C. D. GALLO, Apparato agli Annali della città di Messina, capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua formazione fino ai tempi presenti, a cura di G. MOLONIA, G.B.M., Messina 1985, pp. 207-210; G. GROSSO CACOPARDO, Guida della città di Messina scritta dall’autore delle Memorie de’ pittori messinesi, presso Giuseppe Pappalardo, Messina 1826, pp. 82-84; A. BUSACCA, Guida per la città di Messina, Tipografia del Commercio, Messina 1873, p. 39; Messina e dintorni, guida a cura del Municipio, Prem. Stab. G. Crupi, Messina 1902, p. 303; Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, pp. 276-78; G. FOTI, Storia, arte e tradizione nelle chiese di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1983, pp. 91-93. 234 munita delle cinque losanghe che si dispiegano nelle basi delle sculture per tutta la loro lunghezza. Quasi, insomma, a mo’ di ornamento.187 Non è poi notizia di secondo piano quella data dal Samperi in merito alla celebre pala raffigurante l’Adorazione dei Magi (1517 circa, fig. 73), eseguita dal pittore lombardo Cesare da Sesto, che però sembra essere pervenuta a San Nicolò in un secondo momento, e da un altro, ancora non identificato, edificio di culto messinese.188 Sta di fatto che il tabernacolo costituiva, assieme al dipinto e ai due angeli reggicandelabro, il cuore visivo e liturgico dell’altare maggiore della chiesa dedicata al vescovo di Mira. La custodia presenta la tipica forma a tempio centralizzato di tradizione quattrocentesca, ed è arricchito, lungo i lati, da ambienti semicircolari conclusi da cupole a simulare delle cappellette. L’apertura centrale, che immette nel vero e proprio repositorio delle Sacre Specie, assume l’aspetto di un arco a tutto sesto inquadrato da lesene d’ordine dorico e ornato nei pennacchi da due angioletti. In 187 Credo che questa possa connotarsi come un’iniziativa, nata evidentemente dall’esplicita volontà di un colto committente, molto elegante e raffinata, volta appunto a dissimulare le imprese di famiglia dietro ad una fascia che potrebbe interpretarsi come una semplice decorazione. Mi viene da pensare che il Cirino abbia adottato questo espediente perché le opere che dovevano accogliere le sue insegne, prima che lui se ne appropriasse, gli erano affatto “estranee”. In realtà il prelato non andò molto per il sottile, anzi, facendo incidere su tutte e tre le sculture il proprio nome, egli palesò l’intento di voler in tutti i modi rimarcare il cambio di “proprietà” delle stesse. La famiglia Cirino, fra le più ragguardevoli di Messina, attestata dall’epoca normanna sino all’avanzato Settecento, possedeva le baronie di Lando, San Basilio, Favara, vantava cavalieri dell’ordine di Malta, cavalieri e principi dell’ordine militare della Stella in Messina, abati, nonché molti senatori della stessa città. Alla medesima famiglia appartenne inoltre suor Frabia Cirino, che in qualità di badessa della chiesa di Santa Maria extra Moenia (detta anche di San Gregorio), compare tra i documenti di commissione del Polittico di San Gregorio di Antonello da Messina (1473). La più celebre, probabilmente, raffigurazione dello stemma di questa famiglia è proprio quella presente nella tavola antonelliana ai piedi di San Gregorio. Arma: di rosso, alla fascia d’oro, caricata da cinque losanghe d’azzurro. 188 A. PERISSA TORRINI, Un’ipotesi per la ‘cona grande’ di Cesare da Sesto per San Michele Arcangelo a Baiano, in «Prospettiva», 1980, 22, pp. 76-86. La studiosa, recuperando due preziose notizie fornite dal noto pittore e trattatista cinquecentesco Giovanni Paolo Lomazzo, sostenne che l’opera giunse a San Nicolò da un convento di suore che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è possibile identificare. Ella chiarì, una volta per tutte, che il dipinto, oggi custodito al Museo Nazionale di Capodimonte, dove è pervenuto a seguito delle soppressioni borboniche, non è quello, di soggetto analogo, realizzato dal pittore lombardo per la chiesa napoletana di San Michele Arcangelo a Baiano (che deve considerarsi quindi a tutti gli effetti disperso), ma appunto questo siciliano, giunto in epoca imprecisata a San Nicolò. La Perissa Torrini, nel domandarsi quale possa essere stata l’epoca d’ingresso dell’Adorazione dei Magi in chiesa, ha proposto gli anni successivi al 1573, quando, come abbiamo visto, Andrea Calamecca si occupò dell’ampliamento dell’edificio che, da quanto tramandato dalle fonti, non era il primo complesso dedicato al santo vescovo di Mira, ma il secondo (la studiosa invece parla di “costruzione della chiesa” avvenuta nel 1573, legando quindi troppo strettamente, a mio avviso, l’arrivo della pala a questi anni). Partita per Napoli l’Adorazione dei Magi, l’altare maggiore della chiesa di San Nicolò rimase sprovvisto di pala almeno sino al 1848, anno in cui, a seguito dei tumulti scoppiati in città, fu demolita la chiesa della Candelora, sede dell’Arciconfraternita dei Verdi: i confrati, dovendo trovare un’altra chiesa che li ospitasse, scelsero quella di San Nicolò, nel frattempo privata dei padri gesuiti che erano stati espulsi a causa delle soppressioni borboniche, portando con sé l’imponente Presentazione al Tempio di Girolamo Alibrandi (1519), ora custodita nel Museo Regionale della città peloritana. 235 adorazione del Santissimo, ai lati del fornice, si dispongono due coppie di angeli stanti, mentre lo zoccolo esibisce una Pietà affiancata dall’Aquila di Giovanni e dall’Angelo di Matteo. Gli altri due simboli degli Evangelisti occupano le facce laterali della base, con a destra il Leone di Marco e a sinistra il Bue di Luca. In alto, il timpano, un po’ aggettante, è spezzato per accogliere il Dio Padre Benedicente affiancato da due testine di cherubini. Lo scultore ha dispiegato in questo tempietto un repertorio decorativo che appare più ricercato rispetto a quello di Drosi (figg. 80-81), innanzitutto ricoprendo d’embrici sia la grande cupola centrale che le due cupolette laterali, quindi scolpendo su di esse delle finestre circolari molto profonde che restituiscono la progressione prospettica, infine decorando le pareti semicircolari dello zoccolo con partiture geometriche rettangolari. Un altro bel dettaglio dalla funzione puramente ornamentale è costituito dalle tabulæ rettangolari che occupano i bracci trasversali della trabeazione. Ad uno degli angeli reggicandelabro la furia della devastazione sismica ha sottratto testa, braccio destro, avambraccio e braccio sinistro e l’intero candelabro, ad esclusione del piedistallo; all’altro, oltre alla testa, una buona metà del candelabro. Essi, raffigurati inginocchiati e connotati da solidi e pieni volumi, indossano vesti dai morbidi drappeggi, modulati da pieghe ampie e distese in tutto simili a quelle esibite dalle gemelle figure collocate al centro della custodia. Le basi dei candelieri ed il fusto di quello superstite ospitano motivi decorativi vegetali. Quest’opera si colloca fra le prime prove del messinese Giuseppe Bottone, la cui attività si attesta compiutamente per la prima volta nel 1560 con la commessa dell’edicola destinata a Drosi.189 Rispetto a quest’ultima, l’opera eseguita per San Nicolò sembra però caratterizzarsi per un più basso livello qualitativo, una minore attenzione, da parte del suo artefice, alla determinazione dei dettagli formali. Manca in essa l’accentuazione calligrafica che si riscontra, ad esempio, nel Dio Padre Benedicente della scultura calabrese, e qui il Padre Eterno, il Cristo morto nello zoccolo e gli angeli sono più sommari (figg. 81, 87). Lo stesso dicasi per i panneggi degli angeli adoranti, e di Maria e San Giovanni nella scena della Pietà, meno incisi degli altri e contraddistinti da larghe ondulazioni delle vesti che, più che scolpite nel marmo, sembrano essere state modellate col gesso tanto danno l’impressione di una certa pastosità materica. Le figure angeliche risultano poi tozze e meno aggraziate dei compagni calabresi, e quel dettaglio in questi ultimi 189 La prima carta d’archivio sinora nota sul Bottone è però un’altra, risalente all’ottobre 1557, dalla quale si evince che a quella data egli doveva essere maggiorenne (in quanto nominato dal padre per la riscossione di alcuni crediti). Già Domenico Puzzolo Sigillo (Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107-142 [122]), che rintracciò quel documento, ne fece risalire la nascita intorno al 1539. Ovviamente nulla impedisce che questa data possa essere anticipata di qualche anno; anzi, una retrodatazione, sebbene di poco, spiegherebbe ancora meglio, a mio parere, il prestigioso incarico affidatogli dai gesuiti di San Nicola. 236 apprezzabile, relativo alle acconciature, elegantemente raccolte da una fettuccia terminante in alto con un piccolo nodo, si banalizza qui nel semplice intreccio di capelli, avendo lo scultore fatto a meno della fascetta di raccordo. 237 10. Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Tabernacolo eucaristico (inv. 400) 1568 Marmo Altezza 100 cm, larghezza 34 cm Messina, Museo Regionale, cortile interno (da Santa Maria di Basicò) Iscrizioni (nella trabeazione, al centro): HIC EST FILIVS MEVS DILETTVS (nella trabeazione, a sinistra): TEMPO[RE] ABATIS(SE) R(EVEREN)D[E] SO[RORIS] ELEONORE D(E) ANSALON (nella trabeazione, a destra): SORORE ISABELA D(E) BO(N)FILIO FIERI FE[CIT] MDLXVIII Sebbene provenga da una fra le principali chiese cittadine e sia ricoverato (poco accortamente) nel cortile interno della vecchia struttura museale, assieme ad altri pezzi erratici qui pervenuti l’indomani del tremendo terremoto che nel 1908 devastò la città dello Stretto, questo tabernacolo non ha mai destato particolare attenzione tra gli studi (fig. 82).190 Neanche l’ultimo catalogo sulle collezioni del Museo pubblicato nel 1980 da Giuseppe Consoli lo ha menzionato, e di certo l’attuale collocazione, che lo espone costantemente agli agenti atmosferici più disparati, si rivela non soltanto inappropriata ma altamente pericolosa per la conservazione della piccola scultura.191 Essa infatti presenta, sull’intera superficie marmorea, le tracce di continue abrasioni e costanti dilavamenti, più corposi, com’è comprensibile, sugli spigoli e su tutte le parti angolate e sporgenti, come le paraste del prospetto, la base convessa e la semicupola al centro della stessa facciata, la colomba, la cui testina non è più leggibile e, ancora, le figurine, rappresentanti un’Annunciazione, ai lati del Padre Eterno Benedicente nel timpano. Lo stesso Padre Eterno è privo della testa. Fortunatamente l’iscrizione, incisa nella trabeazione, divisa tra il braccio destro e quello sinistro, è ancora chiaramente leggibile, e, oltre a fornirci un significativo aggancio cronologico (1568), connesso al periodo in cui la badessa del convento francescano femminile di Santa Maria di Basicò fu Eleonora Ansalone (o Anzalone), riconduce la commissione, sempre entro le mura del medesimo 190 Di recente il marmo è stato pubblicato da A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 207-208. 191 G. CONSOLI, Messina, Museo Regionale, Calderini, Bologna 1980. 238 complesso religioso, ad un’altra “sorella”, tale Isabella Bonfiglio.192 La badessa Ansalone fu in effetti menzionata nel 1644 da Placido Samperi, in un passo della sua Messina città nobilissima, nel quale il gesuita, avendo descritto l’immagine, a sua detta miracolosa, «della Santissima Annuntiata d’antica dipintura, ma delicata, e di molta veneratione fin dalla fondazione del monasterio, in una cappelletta della parte destra, verso l’altar maggiore», afferma che la stessa «abbadessa perpetua suor Leonora Ansalone, religiosa di singolar virtù e prudenza», nei momenti di particolare bisogno ricorreva alle virtù prodigiose dell’immagine sacra.193 L’opera s’inserisce nel novero delle custodie eucaristiche largamente diffuse sul suolo italiano a partire dal XV secolo, la cui collocazione privilegiata era quella defilata rispetto all’altare, sebbene si attestasse comunque entro l’area presbiteriale, spesso a ridosso della parete sinistra di questa e raggiunta dal sacerdote durante la cerimonia. La fortuna di questi manufatti, che pure era stata molto ampia sino all’avanzato Cinquecento, proprio sullo scadere di questo stesso secolo iniziò a scemare, a seguito delle disposizioni tridentine in materia di esposizione del Santissimo Sacramento. A tal proposito si decise, infatti, d’innalzare il Corpo di Cristo solo ed esclusivamente sulle mense degli altari principali, determinando pertanto la dismissione di tutte quelle edicole che sino a quel momento avevano ospitato l’ostia consacrata. Esse persero, quindi, la propria funzione originaria divenendo semplice ricovero degli olea sancta. La scultura, che esibisce la forma di un edificio a pianta centrale (con un esplicito riferimento alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme) sovrastato da una cupola ricoperta da finti embrici, è dotata sui bracci trasversali di lunghi elementi convessi chiusi da calotte semicircolari a simulare delle absidiole, mentre la facciata, al centro occupata dal vano che le Sacre Specie, è ornata in alto da una calotta absidale cui si appoggia, quasi in bilico, la colomba dello Spirito Santo, in basso da una basetta anch’essa tondeggiante. L’autore può identificarsi in 192 L’origine del convento francescano di Santa Maria di Basicò deve farsi risalire al 1320, quando con un privilegio di quell’anno il re aragonese Federico II non solo provvide a dotare le suore di tutti i mezzi di sussistenza, ma anche le nominò di “Sua Maestà Reale perpetue oratrici”. Il complesso religioso si trovava appunto a Basicò, piccolo paese della costa tirrenica messinese, oggi noto come Casalnuovo. Presto però, durante le lotte tra Aragonesi e Angioini per la conquista del potere, le francescane lasciarono Basicò e ripararono nella vicina Rometta, da dove si trasferirono in maniera definitiva nel capoluogo peloritano. Già al 1344 è documentato l’acquisto, da parte loro, di un terreno a Messina al fine di edificarvi il convento, proprio nel quartiere che oggi assume tal nome (ai piedi del colle della Caperrina, sotto al monastero benedettino di Santa Maria dell’Alto). Il Samperi ricordò anche che la chiesa «fu edificata da suor Lucrezia del Campo nell’anno 1531» (cfr. Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio, Giacomo Matthei, Messina 1644, pp. 373-376). Su Santa Maria di Basicò, cfr. anche G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, p. 53; G. GROSSO CACOPARDO, Guida della città di Messina scritta dall’autore delle Memorie de’ pittori messinesi, presso Giuseppe Pappalardo, Messina 1826, pp. 112-114; Messina e dintorni, guida a cura del Municipio, Prem. Stab. G. Crupi, Messina 1902, p. 297; Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, pp. 355-357; G. FOTI, Storia, arte e tradizione nelle chiese di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1983, pp. 153-154. 193 P. SAMPERI, Iconologia della gloriosa Vergine cit., p. 375. 239 Giuseppe Bottone, scultore messinese la cui attività è documentata in patria a partire dal 1557 e il cui primo lavoro attestato da fonti d’archivio è un secondo tabernacolo commissionatogli nel 1560 da alcuni rappresentanti della Cappella del Corpo di Cristo della parrocchiale di Drosi, in Calabria (fig. 77).194 Questo stesso rogito, in cui si menziona il marmo di San Nicolò di Messina quale modello per l’artefice da prendere in considerazione per l’analoga scultura calabrese, consente di assegnare “indirettamente” al medesimo maestro anche questo terzo manufatto, anch’esso custodito al Museo Regionale, ma nei depositi (fig. 76).195 Tutte queste edicole eucaristiche, al di là dell’analoga impostazione architettonica e di un simile repertorio decorativo, che differisce soltanto per comprensibili varianti in qualche caso apportate da Giuseppe su espressa richiesta della committenza, tradiscono, da un punto di vista formale, la comune matrice “bottoniana”. Purtroppo, i già pochi elementi puramente descrittivi, che in quest’opera avrebbero potuto fornirci dei validi termini di raffronto, sono resi illeggibili a causa dell’estesa consunzione dei materiali, ma, sfruttando al massimo quanto rimane, si riesce comunque a cogliere alcuni dettagli figurativi utili a suffragare l’ipotesi attributiva al Bottone. L’attenzione può concentrarsi sulla figura a mezzo busto del Dio Padre Benedicente, che, malgrado la modestia delle dimensioni, rivela tutte le caratteristiche dello stile dello scultore peloritano, quelle stesse riscontrabili d’altronde nell’Eterno Padre di Drosi (figg. 83-84): entrambi ostentano una certa monumentalità ed esibiscono una ricercatezza formale nello sviluppo delle pieghe delle vesti; il mantello ne circonda le sagome con una parabola perfettamente circolare, e in corrispondenza del lato sinistro si sovrappone al braccio coprendolo per intero, mentre a destra si assesta sul piano di fondo scomparendo sotto al corpo. Apprezzabili, se pur difficili da valutare, appaiono anche la Vergine Annunciante e l’Arcangelo Gabriele, ridotti ormai ad uno stato quasi larvale, e disposti ai lati dell’Eterno, le cui grosse e tozze mani si ritrovano in tutte le immagini marmoree eseguite da questo medesimo artefice. 194 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [136], doc. I; A. BASILE, Ciborio del Bottone a Drosi, in «Nuovi Quaderni del Meridione», Banco di Sicilia, Ufficio Fondazione Mormino, ottobre-dicembre 1968, 24, pp. 2-5; A. BASILE, Sculture cinquecentesche a Drosi, in «Brutium», 1969, II, pp. 11-13. Cfr. la scheda n. 8. 195 Cfr. la scheda n. 9. 240 11. Collaboratore di Giuseppe Bottone (Messina, 1539 circa – 1575 circa) Tabernacolo eucaristico Fine anni sessanta del Cinquecento Marmo con tracce di dorature e dipinture Altezza 105 cm, larghezza 41 cm Messina, Ospedale Piemonte, chiesa Questo inedito tabernacolo eucaristico (fig. 85) è custodito nella chiesa dell’Ospedale Piemonte, così denominato per essere stato eretto l’indomani del sisma del 1908 col largo contributo dello Stato sabaudo. Una base marmorea moderna collocata in cornu Epistolae del modesto edificio religioso interno al nosocomio sostiene l’edicola, che mantiene la sua funzione liturgica originaria di repositorio delle Sacre Specie. L’unica, lapidaria menzione di quest’opera è contenuta nella tesi di dottorato di Alessandra Migliorato, la quale, senza però citare la fonte, asserì che essa proviene dal Grande Ospedale della città peloritana.196 Le principali fonti a nostra disposizione non forniscono purtroppo utili informazioni in merito, malgrado che in tutte si faccia riferimento alla chiesa dell’antico ospedale, edificata nel 1542 e dedicata a Santa Maria della Pietà.197 In mancanza di ulteriori notizie che possano suffragare o eventualmente smentire tale assunto, dobbiamo dunque considerare tale notizia con il giusto merito che si conviene alle supposizioni. Se la storia relativa a questa scultura sembra averne eclissato provenienza e committenza, la trama figurativa che si dipana sulla sua superficie fortunatamente sopravvive, e ci offre vari elementi atti ad indirizzarci su un preciso orientamento stilistico. La mia idea è che questa custodia possa ricondursi all’operato di uno stretto collaboratore dello scultore messinese Giuseppe Bottone, gravitante entro l’orbita di Giovann’Angelo Montorsoli, e documentato in un rogito del 1560 alle prese con l’esecuzione di una Santa Caterina d’Alessandria per Forza d’Agrò, 196 A. MIGLIORATO, Contributi alla conoscenza della scultura nella Sicilia orientale, tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo, anno accademico 2003/2004, p. 153. 197 L’ospedale viene denominato “Grande” da tutte le fonti, antiche e moderne, perché in quell’anno, col consenso del Senato cittadino e dell’allora viceré don Giovanni de Vega, esso riuniva entro un’unica struttura tutti i principali nosocomi cittadini sino a quel momento esistenti. Per l’ospedale, con l’annesso edificio di culto, cfr. G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, ristampa anastatica Forni, Bologna 1976, p. 73; P. SAMPERI, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio, Giacomo Matthei, Messina 1644, p. 125; C. LA FARINA, Messina e i suoi monumenti, Stamperia G. Fiumara, Messina 1840, p. 165; Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, pp. 261-263; G. FOTI, Storia, arte e tradizione nelle chiese di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1983, p. 55. 241 commessa che il Bottone avrebbe dovuto dividere con Martino Montanini, allievo del Montorsoli.198 L’anonimo artefice di questo tempietto ha scelto per esso la forma di un edificio a croce greca sormontato da una grande cupola embricata su cui si erge il lanternino, anch’esso terminante con una calotta emisferica. Allo stesso maestro possono con certezza essere assegnati tre tabernacoli simili a questo, tutti licenziati nell’arco di una decina d’anni (dalla fine degli anni cinquanta del XVI secolo sino al 1568), e tutti, in modi differenti e con apporti distinti, sembra siano stati presi in considerazione dall’ignoto autore al momento della realizzazione della sua opera. Si tratta delle due custodie destinate alle chiese messinesi di San Nicolò (fine anni cinquanta, fig. 76) e di Santa Maria di Basicò (1568, fig. 82), e dell’altra compiuta per il piccolo borgo calabrese di Drosi (1560, fig. 77).199 Come in queste ultime, l’edicola qui in esame è costituita da un prospetto il cui fulcro, visivo e liturgico, è rappresentato da un alto fornice chiuso da uno sportello ligneo oltre il quale si serba il Santissimo Sacramento, vegliato da due coppie di angeli adoranti stanti. L’alto zoccolo è ornato dalla Pietà con le consuete figure della Vergine e di San Giovanni, a loro volta affiancati da due Evangelisti, rispettivamente Giovanni medesimo e Matteo, mentre il timpano arcuato accoglie la poco rilevata immagine del Dio Padre Benedicente. Al contrario del Bottone, che in due casi su tre ha ornato i bracci trasversali dei suoi marmi con delle cupolette al fine di simulare delle absidi (in un terzo caso, quello di Drosi, le pareti, per disposizioni contrattuali, sono state lasciate libere da alcuna decorazione), il nostro autore ha scelto di “popolare” anche le facce laterali con figure e scenette sacre. Il braccio laterale destro, infatti, che sull’alto basamento accoglie i mezzibusti di San Marco e di un santo vescovo non ben identificabile, è occupato al centro da una nicchia ospitante San Pietro. Nelle zone sovrastanti e sottostanti il Principe degli Apostoli si dispiegano poi due storie della sua vita, vale a dire la Crocifissione e un’altra non ben identificabile. Il braccio sinistro, invece, a giusto complemento dell’altro, ospita il San Paolo con la Conversione ed il Martirio, mentre il basamento esibisce un secondo santo vescovo all’estrema destra, e a sinistra quello in cui, malgrado la mancanza dell’attributo specifico, dobbiamo plausibilmente riconoscere San Luca. Dall’analisi stilistica emerge chiaramente che il tempietto dell’Ospedale Piemonte si presenta come una sorta di poco organico ed armonizzato milieu architettonico, iconografico e formale dei tre già citati tabernacoli, e che lo scultore ha operato la gran parte dei suoi prelievi sia iconografici che formali da quelli di Drosi e di San Nicolò. Osservandone con attenzione i dettagli anche minuti ci si accorge della gran messe di riferimenti espliciti alle due opere del maestro. La 198 D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. 199 Cfr. rispettive schede nn. 9, 10, 8. 242 scena della Pietà è ricalcata da quella che compare nella base della facciata di San Nicolò, con la differenza però che, mentre in quest’ultima le figure appaiono ben delineate nei contorni e palesano una certa monumentalità, qui i tre corpi sembrano privi d’ossa, e i loro panneggi, al confronto con gli altri, appaiono duri e rinsecchiti. Il bel movimento della Maddalena di San Nicolò, che nel suo volgersi all’indietro conferiva un certo dinamismo ad una scena solitamente piuttosto statica, e che arricchiva la stessa immagine di una pur “piccola” variatio iconografica, manca completamente nell’edicola dello sconosciuto maestro, dove tutto è come appiattito, banalizzato: anche le braccia del Cristo, di cui Giuseppe era riuscito a modellare la muscolatura, qui sono esili e insignificanti. Se si passa poi al repertorio decorativo, ci si accorge come dall’esemplare di San Nicolò il nostro anonimo artefice ricavi due peculiari elementi figurativi, la cui ripresa può doversi solo a chi ha sostato anche materialmente a lungo davanti all’opera scelta come prototipo: mi riferisco alle testine di cherubini nei pennacchi, le cui ali, seguendo la curva dell’estradosso, vi si adagiano comodamente, e agli oculi che si aprono sul tamburo della cupola (fig. 75). Iconografia identica, dunque, che ne denuncia al tempo stesso l’estrema distanza formale: i primi perdono quelle sfumature calligrafiche che il Bottone aveva raggiunto in un suo insolito “stato di grazia”, i secondi sono privi d’una piena profondità prospettica, e si riducono alla stregua di semplici fenditure scavate nel marmo. Il modello della custodia di Drosi è servito invece all’oscuro artefice di questa scultura quale punto di partenza per gli angeli adoranti e per l’Eterno Padre a mezzo busto nel timpano (fig. 85): ma si tratta di figure che sembrano rimaste allo stato di abbozzo. Gli angeli non presentano alcuna caratterizzazione né nelle fisionomie (comunque affini a quelle del Bottone), né tanto meno nella modulazione dei drappeggi; le ali quasi non recano traccia dello scalpello, intuendosi solo le sagome entro lo sbozzato brandello di marmo. Lo stesso dicasi per il Dio Padre, la cui bella voluta del mantello nel tabernacolo calabrese lascia qui il posto ad un drappo dalla durezza estrema. L’impressione che se ne ricava è insomma che ci troviamo in presenza di un modesto scultore molto vicino al Bottone nel momento in cui questi, partito definitivamente Martino Montanini da Messina (1561), si dovette organizzare in proprio inaugurando egli stesso una bottega, al fine di esaudire le richieste della committenza isolana e di quella calabrese, che nel giro di poco tempo erano rimaste orfane dei due più significativi rappresentanti a Messina dell’arte scultorea di quegli anni. A tal fine conviene rilevare che il 7 giugno 1561 Giuseppe Bottone fu nominato “capo mastro scultori della ecclesia”, vale a dire del Duomo della città dello Stretto, carica che manterrà sembra senza soluzione di continuità sino almeno al 1575.200 Tale titolo, sebbene fosse vitalizio, formalmente gratuito (lo si 200 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, pp. 783-784; D. PUZZOLO SIGILLO, 243 accettava infatti “pro nihilo”) e pertanto onorifico (l’Opera del Duomo pagava ogni anno un’oncia all’artista “per sua honoranza”), insignì comunque il maestro beneficiato di un ruolo di rilievo, tale da accrescerne il numero delle commesse. Anche questo può quindi aver spinto il giovane Bottone a chiamare a sé degli aiuti che lo affiancassero nel lavoro.201 Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [118-122]; G. LA CORTE CAILLER, Andrea Calamech scultore e architetto del secolo XVI, in «Archivio Storico Messinese», I-II, 1901, pp. 4142. 244 12. Domenico Calamecca (Carrara, notizie dal 1535 al 1569) Madonna col Bambino Anni cinquanta del Cinquecento Marmo Altezza 150 cm, scannello altezza 21 cm Messina, chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore Benché ospitata in uno dei più antichi edifici di culto cittadini, abitato dai frati minori conventuali,202 questa scultura non ha ottenuto la giusta attenzione da parte della critica (fig. 99).203 La prima menzione che si ricordi risale a Gaetano La Corte 202 La chiesa fu fondata dai frati carmelitani intorno alla metà del XII secolo su un’altura all’epoca fuori dalle mura cittadine nei pressi del torrente Giostra. Abbandonata dai carmelitani, che si trasferirono altrove, a partire dai primi anni del XV secolo l’edificio, dedicato a Santa Maria di Gesù, fu abitato dai francescani, guidati dal vescovo di Agrigento Matteo Gallo. Già nel 1463 però i frati decisero di avvicinarsi alla città, e fondarono, nel quartiere detto “delle Fornaci”, un secondo complesso conventuale, che conservò la medesima intitolazione. A quel punto sembrò naturale, in virtù della posizione isolata, che la vecchia fabbrica religiosa venisse adibita a sede del noviziato. È da questo momento che essa prese il nome di “Santa Maria del Gesù Superiore” o il “Ritiro”, proprio per distinguerla dalla nuova chiamata “Inferiore”. Il terremoto del 1908 devastò il convento “Inferiore”, poi ricostruito nel 1932 nel quartiere “Provinciale”; l’alluvione invece distrusse la chiesa “Superiore”. 203 Ad un’epoca anteriore all’alluvione risalgono le due segnalazioni del Grosso Cacopardo e del La Farina: G. GROSSO CACOPARDO, Guida della città di Messina scritta dall’autore delle Memorie de’ pittori messinesi, presso Giuseppe Pappalardo, Messina 1826, p. 123; C. LA FARINA, Messina e i suoi monumenti, Stamperia G. Fiumara, Messina 1840, p. 141. Placido Samperi (Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio, Giacomo Matthei, Messina 1644, p. 142) ricordò l’esistenza di una scultura raffigurante la Madonna col Bambino all’interno della chiesa francescana; ma a considerare da un lato le misure riportate dall’erudito (tre palmi), dall’altro l’incisione da questi pubblicata a corredo della descrizione, essa non sembra corrispondere all’immagine calamecchiana di cui qui si discute: «Di più un’altra imagine di tutto rilievo di tre palmi in circa, di Nostra Signora col puttino in braccio molto bella e divota, la quale da fra Arcangelo di Messina, religioso di singolar santità e virtù, che fu poi generale di tutto l’ordine et arcivescovo di Monreale, divotissimo della Beata Vergine, fu riposta in una cappelletta del monte, o selva, dove si ritirassero nel giorno i frati ad orare; ma poi da un altro provinciale indi rimossa, per essere con maggior culto ne’ chiostri del convento riverita, fu quivi riposta in cappella particolare, sopra una base di marmo…viene ornato questo sacrario dal sepolcro e statue di marmo d’Andreotta Staiti e suoi heredi nobili messinesi, di maravigliosa scultura et artificio, il cui epitafio si può vedere appresso il Buonfiglio nella sua Messina, con quelle d’Antonio La Rocca e di Galeotto Bardassi, persone illustrissime e degne di perpetua memoria. Si mette in questo luogo l’imagine di Nostra Signora, ch’è di tutto rilievo accennata di sopra». Il prelato messinese, divenuto poi vescovo di Monreale nonché ministro generale dell’ordine francescano cui spetterebbe, secondo il Samperi, il trasferimento della statua dalla chiesa ad un ambiente evidentemente più isolato del complesso conventuale (non a caso chiamato “monte” o “selva”), deve identificarsi con Arcangelo Gualtieri, deceduto nel 1617 (Secoli serafici ovvero Compendio cronologico della storia francescana dall’anno M.C.LXXXII in cui nacque il serafico patriarca S. Francesco d’Assisi fondatore dell’Ordine de’ Frati Minori fino al Capitolo Generale dell'anno M.DCC.LVI, nuovamente disteso, aggiunto, difeso con un’appendice alla storia del primo secolo da un religioso toscano dello stess’Ordine, appresso Pietro Gaetano Viviani, Firenze 1757, p. 190). Dal brano dell’erudito non è chiaro in 245 Cailler, che, allo scadere del XIX secolo, rievocò la solenne cerimonia durante la quale la statua fu ricollocata nella nuova chiesa ricostruita l’indomani dell’alluvione che nel 1863 aveva devastato l’intero complesso conventuale francescano.204 Dal racconto dello studioso sappiamo che la Madonna qui presentata venne alla luce nel 1886, proprio mentre si scavava per i lavori di ricostruzione della chiesa odierna. Nel descrivere il marmo, il La Corte Cailler lo attribuì ad Antonello Gagini, credendo di identificare in esso la Vergine col Bambino commissionata nel 1500 da Antonio La Rocca, procuratore ed economo del convento di Santa Maria di Gesù.205 Lo stesso erudito non nascose però di nutrire qualche dubbio sull’ascrizione al celebre maestro, dal momento che «la dolcezza, la soavità, l’espressione che, fra i nostri, solo il Gagino improntava nelle sue sculture, non sono però trasfuse in questo marmo; le pieghe non sono quelle che tanto morbidamente egli sapeva scolpire, quasi che fossero getti di molle cera…»; malgrado ciò, il prestigio dell’identità del presunto artefice da una parte, e l’esistenza del rogito dall’altra indussero il La Corte Cailler a perseguire la proposta gaginiana.206 Se manifeste divergenze stilistiche allontanano la Madonna del Gesù Superiore da Antonello Gagini, al contrario elementi per così dire “interni” all’opera ne spostano in avanti l’epoca di esecuzione, e la inseriscono nella temperie culturale della Maniera, affermatasi a Messina grazie agli apporti di Polidoro da Caravaggio e di Giovann’Angelo Montorsoli. Proprio dall’entourage dell’artista toscano proviene l’autore della scultura qui in esame, a mio avviso da identificare in quale cappella trovò posto l’opera, una volta restituita all’edificio religioso: mi sembra comunque un po’ forzata l’interpretazione di Francesca Campagna Cicala (Appunti su alcune sculture di ambito gaginiano del Museo Regionale di Messina, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 27-36 [30]), secondo la quale il marmo fu ospitato nella Cappella La Rocca. Il Sepolcro La Rocca viene citato dal Samperi alla stessa stregua di quelli Staiti e Bardassi, disposti altrove all’interno della chiesa. 204 L’evento si svolse nel marzo 1897 (cfr. G. LA CORTE CAILLER, La chiesa di S. Maria di Gesù Superiore ed una statua di Antonello Gagini, dalla tip. dell’Epoca, Messina 1897, pp. 15-18). 205 Il rogito era stato pubblicato da G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-84, II, p. 186. In effetti in Santa Maria di Gesù Inferiore esiste ancora oggi una Vergine col Bambino di chiara ma lontana derivazione gaginiana: il marmo fu pubblicato da Maria Accascina, che lo inserì tra le prove aurorali di Antonello Gagini in persona (cfr. M. ACCASCINA, Indagini sul primo Rinascimento a Messina e provincia, in Scritti in onore di Salvatore Caronia, a cura della Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, La Cartografica, Palermo 1966, p. 19, fig. 19). Malgrado che, molto più opportunamente, l’opera sia stata ricondotta da Francesco Caglioti alla tarda maniera gaginiana (F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2002, pp. 977-1042 [1034, n. 95]), l’attribuzione ad Antonello è stata riproposta dalla Campagna Cicala (Appunti su alcune sculture cit., pp. 27-36), e da A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 36. 206 Cfr. anche V. SACCÀ, Una Madonna del Gagini, Tipografia Nicotra, Messina 1897, pp. 6-15. 246 Domenico Calamecca, il primo fra gli esponenti della nota famiglia di scalpellini di origine carrarese a trasferirsi nella città dello Stretto.207 Fino a poco tempo fa, a Domenico potevano collegarsi solamente alcune carte d’archivio che ne attestavano la presenza a Messina dal 1547 al 1556. Ma nel 2009 Nicola Aricò ha pubblicato lo stralcio di un atto notarile dal quale si evince che nel 1553 egli fu impegnato nella realizzazione del Monumento funebre di Antonio La Rocca (figg. 90), proveniente dalla stessa chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore ed oggi ricoverato presso il Museo Regionale della città peloritana.208 Un piccolo, ma quanto mai importante indizio è emerso dunque ai fini della comprensione dello stile di quest’ennesimo protagonista dell’arte scultorea nella Messina del Cinquecento. Proprio il confronto con questa che, per il momento, deve considerarsi la prima e unica opera certa di Domenico, consente, a mio avviso, di avanzare la proposta d’attribuzione in favore di questo scultore anche per la Vergine del Gesù Superiore. Le analogie più stringenti si ravvisano tra i due putti reggistemma e il Bambino (figg. 97-98), nei quali il maestro esprime una certa propensione al tratto pittorico, puntando alla marcata accentuazione dei più minuti dettagli fisionomici. Le affinità riguardano in primis i volti, contraddistinti da un’ampia arcata sopraccigliare e dalle orbite oculari incassate, con le rughe d’espressione, la pupilla incisa profondamente, il nasino largo in punta, la bocca piccola e il mento sporgente; comunanze emergono anche nel trattamento dei capelli, dalle ciocche piccole e regolari, con un folto ciuffo che ricade al centro della fronte. Identico, inoltre, è il modo di rendere i corpicini, dalla muscolatura prominente e caratterizzati da quei rotolini un po’ grassocci all’altezza delle ginocchia, delle cosce e delle gambe al di sopra delle caviglie. Infine, un ennesimo, piccolo particolare risalta su tutti, ed emerge quasi come elemento distintivo di questo artefice: il profondo solco scavato attorno al collo confluente al centro in una fossetta leggermente appuntita (figg. 101-102). In merito alla cronologia della Madonna, propenderei per una datazione entro gli anni cinquanta, periodo al quale risalgono i pur pochi atti notarili nei quali il Calamecca comparve con un ruolo di vero e proprio maestro del marmo. 209 207 Se la Campagna Cicala (Appunti su alcune sculture cit., p. 32, fig. 8), non si è espressa sull’autore della Madonna del Gesù, A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., pp. 272273 figg. 46-47, l’ha collegata alla bottega calamecchiana, proponendo (lasciando in didascalia il punto interrogativo) Lorenzo Calamecca, vale a dire il figlio di Domenico, attivo qualche decennio più tardi. Il confronto, operato dalla studiosa, con un’immagine mariana datata nello scannello 1578 e custodita a Dipignano (CS, fig. 89) nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, non convince, poiché risalta agli occhi la distanza cronologica che separa i due manufatti. 208 N. ARICÒ, Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, pp. 58-60. 209 Già nel 1547, poi ancora nel 1549 e nel 1569, il Calamecca fu ricordato nelle carte d’archivio come intermediario nella compravendita di marmi. Per il documento del 1547, cfr. G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori…nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un 247 L’epoca insomma nella quale l’artista di spicco era Giovann’Angelo Montorsoli, attivo in Cattedrale con le figure da destinare all’Apostolato e alle prese con le due monumentali fontane compiute con l’ausilio dei collaboratori. È dunque verosimile che anche Domenico abbia gravitato attorno alla bottega del più celebre conterraneo,210 e che da questi abbia derivato ispirazione per le proprie creazioni. In questo senso, la Vergine del Gesù costituisce un chiaro esempio di riproposizione di un preciso modello montorsoliano, vale a dire la cosiddetta Madonna del Popolo portata a termine nel 1555 per la maggiore chiesa di Tropea (VV, fig. 100). saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 43; per gli altri due, G. DI MARZO, Memorie storiche di Antonello Gaggini e de’ suoi figli e nepoti, scultori siciliani del secolo XVI, Tip. Galileana, Firenze 1868, I, pp. 769, 773 nota 3, 785, e D. PUZZOLO SIGILLO, Il documento che ha rivelato l’autore del pergamo del Duomo, in «La Gazzetta. Eco della Sicilia e delle Calabrie», 18 ottobre 1932, p. 3. 210 Da Domenico Puzzolo Sigillo (Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311 [307]) sappiamo, ad esempio, che nel 1556 Montorsoli s’impegnò, per sé e per Domenico Calamecca, con gli eredi del poeta messinese Leonardo Testa a compiere il sepolcro del loro caro defunto. 248 13. Bottega di Martino Montanini Tabernacolo eucaristico Anni sessanta del Cinquecento Marmo Altezza 210 cm, larghezza 80 cm Galati Mamertino (ME), chiesa del Rosario L’opera, custodita nella cappella posta alla sinistra dell’altare maggiore, è inedita, e costituisce un buon esempio, anche discretamente conservato, della tipologia di custodie eucaristiche a parete che così largo successo ebbero nel corso del XVI secolo (fig. 123). Dall’altra parte dello Stretto, nella chiesa della Madonna della Montagna nel piccolo borgo di Gàlatro (RC, fig. 121), si conserva l’esemplare più vicino a questo di Galati, non solo in termini di iconografia, ma anche di cultura artistica. Questa seconda edicola è stata messa in relazione da Monica de Marco con Martino Montanini, giunto a Messina nel 1547 al seguito di Giovann’Angelo Montorsoli, e successivamente protrattosi nella città peloritana anche dopo il definitivo rientro del maestro in patria.211 La studiosa ha fondato tale attribuzione sul confronto con i manufatti di ambito montorsoliano esistenti a Seminara (RC), importante centro della Calabria Ultra non distante da Gàlatro. Si tratta di due dossali marmorei raffiguranti rispettivamente l’Adorazione dei Magi (fig. 103) e la Trasfigurazione (fig. 118),212 e dei Santi Pietro e Paolo scolpiti ad 211 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 248-251. La permanenza di Giovann’Angelo e di Martino in città durò ben dieci anni (dal 1547 al 1557), poi entrambi fecero ritorno a Firenze. Dopo circa un anno, però, mentre Montorsoli si recava a Bologna, dove ricevette l’incarico di eseguire la macchina marmorea dell’altare maggiore all’interno della chiesa di Santa Maria dei Servi, l’allievo rientrò a Messina, richiesto a gran voce dal Senato al fine di portare a compimento i lavori iniziati da Giovann’Angelo, e vi rimase fino al 1561 (G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, p. 403, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it): «Quando adunque al tempo di papa Paulo Quarto, l’anno 1557, furono tutti gl’apostati, overo sfratati, astretti a tornare alle loro religioni sotto gravissime pene, fra’ Giovann’Agnolo lasciò l’opere che avea fra mano et in suo luogo Martino suo creato, e da Messina del mese di maggio se ne venne a Napoli per tornare alla sua religione de’ Servi in Fiorenza»). 212 Di quest’opera, purtroppo frammentaria, rimane in realtà solamente il bassorilievo con gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni raffigurati a terra colti di sorpresa dall’evento miracoloso. Dobbiamo immaginare che si tratta di una parte di una più grande pala d’altare un tempo svettante nella chiesa seminarese di San Francesco (cfr. Archivio Storico Diocesano di Mileto, Platea ven(erabilis) conve(n)tus PP. Min(o)rum Conven(tua)lium S(ancti) Fran(cisci) de Assisio civit(a)tis Seminariae (anno 1722), fol. 13r). Attualmente essa è murata, a mo’ di paliotto, al di sotto di un retablo, anch’esso marmoreo, con l’Adorazione dei Magi, concordemente attribuito al carrarese, pure di stanza a Messina, Giovambattista Mazzolo. Ai lati della lastra con gli Apostoli si conservano ancora due stemmi gentilizi (quelli delle famiglie Franco e Marulli), probabili committenti della perduta Trasfigurazione. 249 altorilievo entro nicchie conchigliate, forse frammenti di un tabernacolo delle Sacre Specie (figg. 119-120).213 Pur concordando con la studiosa sull’individuazione dell’ambito culturale d’appartenenza dell’altare galatrese, credo sia opportuno operare una distinzione tra ciò che può ascriversi al Montanini e quanto si deve invece all’intervento dei collaboratori. E se questo può dirsi per la pala con l’Epifania di Seminara, nella quale io credo sia da considerarsi preponderante l’intervento di Domenico Calamecca,214 analogamente tenderei ad escludere l’apporto diretto di Martino da entrambe le custodie eucaristiche sopra citate. Sia il marmo di Gàlatro che quello di Galati, infatti, nel momento stesso in cui esibiscono un linguaggio spiccatamente montaniniano (si pensi, ad esempio, al perduto San Paolo dell’Apostolato messinese, comprensivo delle belle figure scolpite nello scannello (figg. 5, 117), o alla Santa Caterina d’Alessandria di Forza d’Agrò, (fig. 34), altresì dichiarano un palese indebolimento della tenuta stilistica che li dirotta entrambi verso qualche aiuto di bottega. Tra i tanti scalpellini che dovettero collaborare col Montanini, ruotando attorno all’officina di questi nei tre anni successivi alla definitiva partenza del Montorsoli da Messina (1559-1561), Giuseppe Bottone non è soltanto quello che conosciamo meglio, grazie alla cospicua messe di carte d’archivio connesse ad opere fortunatamente ancora esistenti; ma è anche l’artista il cui stile sembra maggiormente avvicinarsi a quello del tabernacolo di Galati. A questo proposito, credo risultino efficaci i confronti tra l’Immacolata e la Pietà collocati negli scomparti laterali del manufatto galatese e il piccolo gruppo con l’Annunciazione scolpita dal Bottone nello scannello della Madonna col Bambino allogata a Villafranca Tirrena nella chiesa di San Nicola (figg. 70, 133-137).215 Chiare affinità si riscontrano anche tra le coppie di angeli adoranti nelle edicole compiute da Giuseppe per le chiese messinesi di San Nicola (anni sessanta, fig. 81) e di Santa Maria di Basicò (1568), nonché per il borgo reggino di Drosi (1560, fig. 80)216 e gli analoghi personaggi che affiancano il repositorio delle Sacre Specie nell’altare di Galati (fig. 131). Non è affatto superfluo sottolineare altresì che il partito decorativo, con il fregio con testine di cherubini, e la soluzione del 213 Secondo A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 53-54, figg. 25-26, i Principi degli Apostoli (altezza 80 cm) ed il fregio con testine di cherubini alternate a drappi (230x17 cm) proverrebbero dalla citata pala con la Trasfigurazione oggi a San Marco (già in San Francesco), di cui rimane la tavola con gli Apostoli (122x78 cm). Riterrei più credibile l’ipotesi avanzata da Monica de Marco (Dal primo Rinascimento cit., p. 252), secondo la quale si tratterebbe di frammenti di una perduta edicola eucaristica a parete, della stessa tipologia di quelle esistenti a Gàlatro e a Galati, dove non a caso ricorrono, ai lati del repositorio delle Sacre Specie, due elementi verticali posti a decorazione degli scomparti laterali: si tratta rispettivamente dei Santi Pietro e Paolo (anche qui in nicchie conchigliate) e della Pietà e della Vergine Immacolata. 214 Cfr. la scheda n. 14. 215 Cfr. la scheda n. 6. 216 Cfr. le rispettive schede nn. 9, 10, 8. 250 fastigio lunettato scolpito con il Dio Padre Benedicente, entrambi motivi presenti nell’inedito tabernacolo siciliano, corrispondono agli identici elementi adottati nell’Adorazione dei Magi anch’essa partorita dalla bottega montaniniana (forse eseguita da Domenico Calamecca con la collaborazione di Martino, fig. 103). 251 14. Martino Montanini (Firenze, 1515 circa – Firenze, 1563) e Domenico Calamecca (Carrara, notizie dal 1535 al 1569) Adorazione dei Magi 1555 circa Marmo Altezza 280 cm, larghezza 195 cm Seminara (RC), chiesa di San Michele (da San Francesco) Iscrizioni (nello zoccolo): REGES THARSIS ET INSVLE MVNERA OFFERENT REGES ARABUM ET SABA DONA ADDVCENT Già da tempo la matrice stilistica di questa pala d’altare raffigurante l’Epifania (fig. 103) era stata rintracciata nell’ambito della più importante bottega scultorea esistente a Messina alla metà del Cinquecento, vale a dire quella impiantata dal toscano Giovann’Angelo Montorsoli chiamato in città per la realizzazione della Fontana di Orione.217 A stringere ulteriormente il cerchio attorno al probabile autore dell’ancona seminarese è stata Alessandra Migliorato, che ha avanzato l’ipotesi dell’intervento di Martino Montanini, allievo del Montorsoli.218 Una platea datata 1722 e parzialmente pubblicata dallo studioso locale Antonio Tripodi ha fornito preziose informazioni in merito alla provenienza, alla datazione nonché alla committenza dell’opera, attualmente custodita nella chiesa di San Michele.219 Originariamente essa era allogata nell’edificio di culto dei minori 217 Già E. NATOLI, Scultura di ambito messinese in Calabria nei secoli XVI e XVII, in «Messina e la Calabria dal basso Medioevo all’età contemporanea», atti del I colloquio calabro-siculo, Reggio Calabria-Messina 21-23 novembre 1986, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1988, pp. 24-25, e F. PAOLINO, Altari monumentali in Calabria 1500-1620, Jason Editrice Srl, Reggio Calabria 1986, pp. 45-63, avevano pensato all’ambito montorsoliano (la seconda aveva proposto l’intervento di Giovann’Angelo in persona). Ad uno scultore napoletano «prossimo a Giovanni da Nola giovane e forse allo stesso Diego de Siloe» ascrisse invece l’opera F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 187. 218 A. MIGLIORATO, Per la scultura del Cinquecento in Calabria: alcune precisazione e qualche inedito, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», LXXIV, 1998, pp. 353-354, e poi ancora in Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 51-59; G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, pp. 400-405, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it. 219 Archivio Storico Diocesano di Mileto, Platea ven(erabilis) conve(n)tus PP. Min(o)rum Conven(tua)lium S(ancti) Fran(cisci) de Assisio civit(a)tis Seminariae (anno 1722), fol. 12r. La parziale trascrizione del documento è in A. TRIPODI, I Francescani conventuali a Seminara, in «Calabria letteraria», XLVI, 1998, 7-9, pp. 39-40. Ecco il testo della Platea nella parte relativa alla chiesa di San Francesco: «Nel […] del Vangelo di detta chiesa vi son cinque cappelle, la prima delle quali che siegue appresso del patriarca S. Francesco, è sotto il titolo dell’Epifania del Signore della famiglia de’ signori di Longo di questa predetta città di Seminara…Qual cappella tiene due colonne intagliate di pietra bianca di Seracusa; il quadro è di fino marmo bianco colle figure della 252 conventuali di San Francesco, e, in base al testo di una perduta iscrizione posta a corredo del marmo, la datazione dovrebbe aggirarsi attorno al 1551. Suoi committenti furono i fratelli Giovanni Bernardo e Lorenzo Longo (menzionati nella medesima iscrizione), i cui Santi protettori non a caso figurano nei piedistalli destro e sinistro dello zoccolo.220 L’opera è costituita da una grande tavola centrale scolpita con l’Adorazione dei Magi e conclusa in alto, al di sopra di una trabeazione su cui corre un fregio decorato con testine di cherubini, da un fastigio lunettato con l’Eterno Padre Benedicente affiancato da due angeli adoranti. La proposta d’attribuzione al Montanini, a mio avviso, è condivisibile solo in parte, vale a dire soltanto nei termini di una presenza, all’interno dell’opera, di alcune evidenti affinità con i manufatti di questo artista motivati dalla plausibile provenienza della pala dalla bottega montaniniana. Volendo però approfondire l’analisi delle caratteristiche formali dell’Epifania, risalta piuttosto chiaramente che una diversa personalità, benché legata a Martino, dovette intervenire nella sua esecuzione. Sarei propensa ad ascrivere larga parte della cona seminarese a Domenico Calamecca, scultore d’origine carrarese attestato a Messina almeno dal 1547 e ivi attivo lungo il corso del settimo decennio del secolo. Tale ipotesi si basa sul confronto con l’unico lavoro certo di Domenico, di recente identificato nel Monumento funerario di Antonio La Rocca, custodito nel Museo Regionale di Messina ma proveniente dalla locale chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore (fig. 99).221 In particolare, mi sembrano stringenti e puntuali le comunanze individuabili tra il gisant e i putti reggistemma della Tomba La Rocca e i principali personaggi raffigurati nell’Adorazione dei Magi. Si osservino, ad esempio, nei putti e nel Bambino di Seminara, le forti analogie nella resa dei capelli, svolti in piccole virgolettature e caratterizzati da un ciuffo più grande ricadente sulla parte centrale della fronte; nella delineazione dei volti, dai tratti marcati, contraddistinti da un’ampia arcata sopraccigliare, dagli occhi con le Epifania, scolpite a basso rilievo; sopra vi sono due angeli in atto di adorazione, ed in mezzo l’effigie dell’Eterno Padre scolpite a basso rilievo in detto marmo, col motto a lettere incise: Deliciæ meæ cun fillis hominum. A pié del quadro a lettere anche incise sul marmo leggonsi le seguenti parole: Regis Tharsis et insulæ munera offerunt (sic) Reges Arabum et saba dona adducent. E sopra la detta cappella, verso il suo finimento, vi si leggono incise anche in detto marmo le seguenti parole: Vidimus stellam eius in Oriente, et venimus cum muneribus adorare Dominum. Joannes Bernardus filius, et eius frater, ad honorem Christi et eius matris hoc opus fieri fecerunt 1551». 220 Cfr. C. RAGONA, La committenza artistica delle confraternite dell’Immacolata in Calabria, in L’Immacolata nei rapporti tra l’Italia e la Spagna, a cura di A. ANSELMI, De Luca Editori, Roma 2008, pp. 143-166 [151-152]. Al di sotto dello zoccolo in epoca imprecisata è stato murato un fregio, decorato con testine di cherubini alternate a drappi, evidentemente proveniente da un altro complesso marmoreo. L’ancona dovette essere trasferita nella sede odierna a seguito del devastante terremoto che nel 1783 distrusse completamente l’antica fabbrica religiosa. 221 Lo stralcio di un rogito datato 19 maggio 1553 attestante l’esecuzione del Sepolcro La Rocca da parte di Domenico è stato pubblicato da N. ARICÒ, Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, p. 59. 253 pupille profondamente incise e dai nasini un po’ appiattiti e larghi alla punta; nella sottolineatura dell’arco alla base del collo, che forma quasi un collare con un piccolo solco più profondo al centro (figg. 106-111). Alla stessa stregua mi sembra possano cogliersi i medesimi stilemi in alcune figure del corteo dei Magi, quale, ad esempio, il giovane collocato all’estrema sinistra, che ben si confronta con i soliti putti (figg. 110-111). Anche l’uomo posto tra il Mago rappresentato a destra ed uno dei soldati del seguito, e del quale si scorge solamente il volto, bene si accosta all’Antonio la Rocca nel relativo sepolcro, con quelle rughe d’espressione così accentuate tra il naso e la fronte (figg. 112-113). Ciò che, nel marmo seminarese, alla Migliorato rievocava il ductus montaniniano, a me sembra debba inquadrarsi semmai nell’ambito di un nesso tipologico con le opere di Martino piuttosto che in quello di una reale partecipazione di quest’ultimo alla realizzazione della tavola.222 Esiste certamente una certa familiarità tra la Vergine dell’Adorazione dei Magi (fig. 116) e la Santa Caterina d’Alessandria che il Montanini compì tra il 1559 ed il 1560 per Forza d’Agrò (ME, fig. 115),223 ma la mia idea è che, in merito all’Epifania, sia intervenuta la riproposizione, operata da Domenico, di alcuni stilemi caratteristici del linguaggio montaniniano. Tutto ciò farebbe dunque supporre che Martino non abbia preso parte all’impresa commissionata dai fratelli Longo, o almeno che il suo contributo non sia stato così preminente come si è pensato sinora. 222 A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli cit., pp. 58-59. La studiosa è approdata al Montanini dopo un’incomprensibile serie di confronti con opere compiute da Rinaldo Bonanno a circa trent’anni di distanza dall’epoca d’esecuzione della pala di Seminara. In quell’occasione ella aveva posto l’accento sul «nodo Montanini-Bonanno e sul rapporto di forte contiguità stilistica fra i due» (nelle didascalie alle foto 21-24, 28, 33, compare la dicitura “bottega di Martino Montanini”). Il nome del Bonanno è stato ancora riproposto dalla studiosa in un recente contributo (Una maniera molto graziosa cit., p. 200), ma stavolta ella si è presentata più convinta dell’ascrizione montaniniana, anche perché «la cronologia tra il 1551 e il 1555 permette di escludere l’intervento di Giuseppe Bottone o di Rinaldo Bonanno ancora non attivi a queste date. In conclusione, è probabile che» l’Epifania sia stata eseguita «su disegno del Montorsoli, ma quasi esclusivamente per mano del Montanini, probabilmente a sua volta affiancato da altri aiuti». Per una rilettura complessiva dell’opera di Rinaldo Bonanno, il quale sin dalle prime prove palesò un linguaggio diverso da quello dell’entourage montorsoliano (malgrado il periodo di apprendistato presso il Montanini), cfr. qui il Capitolo VI. L’attribuzione a Martino Montanini è stata accolta anche da M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 254-257. 223 Sebbene esistano almeno altri due marmi ascrivibili a Martino, vale a dire la Madonna del Soccorso oggi in collezione privata a Castanea delle Furìe (fig. 60) ed una Sant’Agata allogata a Castroreale nell’omonima chiesa (fig. 30), la Santa di Forza d’Agrò è l’unica opera documentata di questo maestro. L’atto notarile relativo alla sua commissione è stato rintracciato da D. PUZZOLO SIGILLO, Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311. Essa era destinata alla chiesa francescana di Forza d’Agrò intitolata alla martire alessandrina. 254 V.5 Appendice documentaria. 1. Messina, 30 marzo 1554. Magnificus Joannes Angelus de Montursulo, Florentinus, Messane commorans sculptor et capud magister fabricum Messane, presens, sponte, sollemniter se obligavit in pace nobili Cosmano de Siracusa de terra Castri Regalis, ibidem presenti, ad complendum, sculpendum et laborandum quamdam imaginem et statuam marmoriam effigie Sancte Agathe que detinebit in una manu parum malleolum cum una papilla, et in alia manu detinebit librum et palmam ad omnes eius expensas tam marmorum quam sculture et aliarum expensarum; que imago esse debet altitudinis palmorum sex cum dimidio, et subtus pedes habebit scannum altitudinis palmi unius incirca, in quo scanno erunt sculta triunt miracula dicte virginis; que imago et miracula esse debent bona sculta et spicata et magistrata; quam imaginem modo predicto ipse mastro Joannes Angelus consignare promisit eodem nobili Cosmano per totum festum Omnium Sanctorum proximo venturo hic Messane in eius domo. Et hoc pro precio et precii nomine unciarum triginta trium, de quibus prefatus mastro Joannes Angelus confessus est recepisse et habuisse uncias decem presencialiter et manualiter in aquilis argenteis ut constitit renunciando ecc.; et restans ad complimentum dictarum oncias 33 ipse Cosmanus solvere promisit et tenetur per se in pace ac in pecunia numerata, consignata dicta statua modo predicto fieri facere per alios magistros ad maius salarium ad damna et interesse ipsius Joannis Angeli pro quibus et omnibus premissis possit contraventionis casu fieri exequtio. Presentibus mastro Joannello Carbono, nobili Mariano de Parisi et aliis. Già Messina, Archivio di Stato. Edizione: D. Puzzolo Sigillo, Una nobilissima statua di Sant’Agata documentata di legittima paternità montorsoliana, in «Spirale», 1951, 2, p. 5. 2. Messina, 7 settembre 1560. Nobilis Josep Boctonus, sculptor civis Messane, presens, in pace se constituit et solemniter obbligavit nobili Philippo Buculo, procuratorio nomine cappelle Corporis Christi terre Drosi, parcium Calabrie, et nobili Marco Davili proprio 255 nomine de eadem terra et cuilibet eorum in solidum ibidem presentibus ac convenientibus in nos ecc., ad omnes eius expensas tam lapiduum marmoreorum quam artis et magisterii, construere et laborare quamdam custodiam marmoream ad opus corporis Christi dicte terre Drosi illius sortis, modi, qualitatis et laboris pro ut est custodia Corporis Christi ecclesie Sanctorum Nicolai Nobilium Messane; et ultra pro ut infra, videlicet che sia tucto lo lavoro de avante et dili cante de ipsa custodia sia lavorata un palmo, et che dicti lavore (sic) dricti, ita che non li siano quelli cupule che ali cante su ad quella di Sancto Nicolao, ma che in loco de dicti cupuli sia lo lavuoro che curre de innante, che sarrà palmo uno lavorate di dicti cante cum tucta la grossiza, et che per omni banda sia più larga de quilla de Sancto Nicolao tri digita, et undi non sarrà lavuoro chi sia stilliata d’oro, et etiam deorato di lo modo de dicta de Santo Nicola. Et hoc pro precio et precii nomine scutorum triginta quinque ad rationem tarenorum duodecim singulo scudo, de quo pretio ipse nobilis Josep confessus est habuisse et recepisse a dictis nobilibus de Buculo et Danili scutos alios decem presentialiter et manualiter, ut constitit (sic) renunciando ecc.; scutos alios decem ipsi nobili Philippus et Marcus in solidum dicto nobili Josep dare promiserunt infra dies quadraginta proximo venturo; et restans ad complementum finita dicta opera custodia, quam finire debet per totum mensem dicembri proximo venturo et ea consignare hic Messane, et ipse nobilis Josep teneatur ire in dicta terra Drosi ad expensas omnes ipsorum nobili Philippi et Marci, et ibi stare donec et quousque sit assectata et murata dicta custodia et hoc ex pacto. Et, in casu contraventionis, teneatur una pars alteri et e contra ad omnia damna, expensas et interesse litis, et extra, et etiam ad viaticas. Et quod licitum sit dictis nobilibus Philippo et Marco quibus supra nominibus dictam custodiam fieri facere per alios magistros ad maius ius ad damna et interesse ipsius nobilis Josep, pro quibus omnibus premissis adimplendis possit contrapartem non adimplentum (sic) fieri exequtio brevi manu in persona et in bonis cum auctoritate variandi. In quolibet foro qualibetque mundi parte et cum pacto de non opponendo, prevenendo ecc., que omnia sub ipoteca et obligando personas et eorum bona. Renunciando etiam privilegio fori eorum et aliis per pactum cum iuramento. Et iuraverunt. Presentibus nobilibus Bartholomeo et Francisco Monforte, patre et filio, et Joanne Dominico Russo, et aliis. Già Messina, Archivio di Stato. Edizione: D. Puzzolo Sigillo, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [136], doc. I. 256 CAPITOLO VI L’attività di Rinaldo Bonanno dalle novità della Maniera Moderna al ritorno alla tradizione gaginiana 257 VI.1 La figura “eccentrica” di Rinaldo Bonanno nello scenario artistico messinese della seconda metà del Cinquecento. Nell’ampio novero dei maestri di scultura monumentale operanti a Messina lungo il corso del XVI secolo, Rinaldo Bonanno si connota per il carattere divergente che la sua personalità ha manifestato rispetto alla unanime equivalenza di intenti ed esiti che ha contraddistinto le carriere di larga parte dei suoi colleghi. Tale scarto sostanziale, che la figura bonanniana ha rappresentato, si è proiettato su due binari paralleli: l’uno, per così dire “interno” a Rinaldo stesso, concerne la discordante, e per certi versi contraddittoria evoluzione del linguaggio stilistico di questo artista; l’altro, “esterno”, si pone in relazione con gli scultori suoi coetanei. Nel primo caso ci si riferisce alla convivenza in Bonanno di due diversi e talora opposti modi di sentire, che si sono esplicitati nella coesistenza, all’interno del suo catalogo, di marmi accostabili alle nuove istanze manieristiche già da tempo dominanti nell’arte figurativa italiana, e di altri invero palesemente derivati dagli antichi esemplari di cui l’officina di Antonello Gagini aveva inondato la Sicilia intera; nel secondo caso, rispetto cioè agli altri artefici operosi nella città dello Stretto, lo scarto bonanniano è ancora più evidente, se da una anche rapida carrellata delle sue creazioni si ha l’immediata sensazione di un diretto e profondo aggiornamento sulle coeve vicende scultoree del continente che non ha eguali nella coeva produzione marmorea isolana. Ora, se il primo punto, vale a dire il carattere eterogeneo dell’opera di Rinaldo, è talmente manifesto da essere stato il Leitmotiv della lettura critica che tutti gli studi di settore, da quelli antichi ai più recenti, hanno concordemente dato della sua personalità;1 lo stesso non è accaduto per il secondo (e per certi versi più 1 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia” Palermo 1880-84, I, pp. 803-805; S. BOTTARI, Nota sul Busto di F. Maurolico e su Rinaldo Bonanno, in «Archivio storico messinese», XXXIII-XXXV, 1933, pp. 125-135 [127-129]; B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [113-138]; G. CONSOLI, Messina, Museo Regionale, Calderini, Bologna 1980, p. 94, fig. 274; M. P. DI DARIO GUIDA, La Calabria del XVI secolo, in Itinerari per la Calabria, collana Itinerari de “l’Espresso”, 13, Roma-Vicenza 1983, p. 202; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, pp. 70-71, figg. 47-48; E. NATOLI, Scultura di ambito messinese in Calabria nei secoli XVI e XVII, in Messina e la Calabria dal basso Medioevo all’età contemporanea, atti del I colloquio calabro-siculo, Reggio Calabria-Messina 21-23 novembre 1986, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1988, pp. 23-24; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 105, fig. 131; G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella a Pazzano: le testimonianze artistiche recenti, contributi storico-artistici e iconografici, in L’eremo di S. Maria della Stella nell’area bizantina dello Stilaro. Storia, arte, spiritualità, atti del convegno, Arti Grafiche GS, Ardore Marina 2000, pp. 140-141; IDEM, Culto e iconografia dei santi italo-greci nell’area reggina, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 62-63, figg. 34; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan 258 complesso) aspetto qui evidenziato, quello riferibile alla palese componente “moderna” che traspare da una porzione ben precisa dei manufatti di questo artista. A tal riguardo la storiografia, pur inserendo il Bonanno nell’alveo della cultura manieristica, nell’individuare i probabili modelli che egli dovette tener presente si è limitata al solo Giovann’Angelo Montorsoli e, più scontatamente, ad Andrea Calamecca,2 i due maestri toscani il cui soggiorno messinese nel corso della seconda metà del Cinquecento influì maggiormente sugli sviluppi del contesto artistico locale.3 Il risultato di questa analisi è stato il conseguente livellamento del siciliano alle posizioni della restante parte di artefici che aderirono soltanto per via indiretta alla nuova fase nella quale l’arte figurativa si era avviata grazie alle deflagranti novità di volta in volta scaturite dalla genialità buonarrotiana. Come per altri colleghi siciliani della sua epoca, anche per Bonanno, insomma, l’acquisizione delle istanze moderne sarebbe avvenuta in maniera “filtrata”, dovuta cioè al benefico influsso che su di lui avrebbero esercitato le presenze dei manieristi toscani giunti in Sicilia.4 Sebbene ciò, in una certa misura, sia vero, tuttavia non corrisponde precisamente all’idea che in questa sede ci si è fatti del maestro originario di Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 57; EADEM, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 121-122; F. ABBATE, Intorno alla Natività di Rinaldo Bonanno, ivi, pp. 113-118; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 83-92; A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, pp. 353. 2 Andrea Calamecca era suocero di Bonanno, avendone quest’ultimo sposato la figlia Veronica: per tale ragione la bibliografia specialistica ha sempre istituito un legame culturale tra i due. Sebbene tale collegamento sia valido, in virtù dell’esistenza di un rapporto professionale tra di loro, dimostrabile grazie ad alcune testimonianze documentarie che li hanno visti collaborare almeno in un paio di occasioni, ciò nondimeno è opportuno precisare che in Rinaldo non sono riscontrabili particolari suggestioni calamecchiane. Per le carte d’archivio relative alla parentela stretta fra i due maestri: B. SACCONE, Rinaldo Bonanno cit., pp. 117-180 [133-134, doc. n. 23], nella quale Francesco Calamecca, altro figlio di Andrea (e anch’egli scultore), viene definito «sororio» del Bonanno, vale a dire cognato; e ibidem, pp. 126, 137, doc. n. 35. In questo secondo caso si tratta dell’atto di morte del raccuiese, nel quale egli è indicato come «henniru di mastro Andria Calamecca». 3 La figura di Andrea Calamecca scultore rimane, allo stato attuale degli studi, molto vaga, dal momento che, a fronte di decine di progetti architettonici di cui, grazie alle numerose carte d’archivio, rimane traccia, vi sarebbero solamente due imprese marmoree a lui attribuibili con certezza. Il caso ha peraltro voluto che entrambe queste opere, vale a dire il Monumento di don Giovanni d’Austria (1572 circa) e il Sepolcro di Visconte Cicala, siano poco utili a definirne la personalità: il primo a causa della tipologia (figura intera gettata in bronzo che s’innalza su un alto piedistallo marmoreo) e della sua stessa natura di opera celebrativa, per ovvi motivi legata a ben determinati canoni di rappresentazione che dovettero vincolare la creatività dell’artista lasciando poco margine alla sua iniziativa personale; il secondo, per il carattere frammentario che lo connota, essendo andato quasi interamente distrutto a seguito di un grosso incendio divampato nel 1884 nella chiesa di San Domenico, dov’esso si conservava. 4 Come vedremo più avanti, un’altra tesi interpreta la modernità bonanniana come la diretta conseguenza dell’incontro “folgorante” che il siciliano avrebbe avuto con la coeva produzione scultorea napoletana. 259 Raccuia, e soprattutto non giustifica lo “scarto” di cui si parlava prima. Ciò che, a mio avviso, differenzia profondamente questo artista dagli altri presenti sul territorio messinese è la conoscenza diretta dell’opera di Michelangelo nello specifico ma, più in generale, di quanto veniva producendosi nella Firenze della metà del secolo XVI; conoscenza che può spiegarsi con l’ipotesi più semplice (e forse per questo meno fortunata) di un suo precoce soggiorno nella capitale del Granducato. VI.1.1 Il supposto viaggio in Toscana ed il michelangiolismo delle prime prove. Sappiamo per certo che fra il 1559 ed il 1561 Rinaldo compì un primo apprendistato presso il toscano Martino Montanini,5 che, a differenza del maestro Giovann’Angelo Montorsoli (partitosene nel 1557), rimase nella città dello Stretto ancora per qualche anno, ereditando il ruolo ufficiale di capomastro scultore della fabbrica del Duomo. Il soggiorno messinese di Montorsoli è stato probabilmente l’ennesima, forse anche la più esplicita dimostrazione della vivacità del panorama artistico di questa cittadina durante il XVI secolo, e la popolarità e il prestigio di cui egli godette portarono alla concentrazione, nelle mani dell’illustre toscano, di un cospicuo numero di commesse cui soltanto una ben organizzata bottega poté far fronte. Oltre all’allievo Martino, che Giovann’Angelo portò con sé da Genova, attorno a lui gravitarono altri scultori, fra i quali Paolo Tasso, Domenico Calamecca, Giovandomenico Mazzolo. Non stupisce, dunque, che per il giovanissimo Bonanno, disceso dai Nebrodi nel 1559 con il desiderio di imparare l’arte del marmo, la scelta “forzata” di studiare presso Martino Montanini dovette costituire una sorta di ripiego.6 A leggere la carta d’archivio (del gennaio 1559) trascritta da Domenico Puzzolo Sigillo, l’apprendistato del giovane presso il Montanini era stato stabilito per un periodo di cinque anni, ma, com’è noto, nel 1561 anche Montanini lasciò Messina 5 La notizia si deve all’erudito messinese (direttore dell’archivio di Stato della sua città) Domenico Puzzolo Sigillo, che nel 1938 pubblicò un rogito, datato 2 gennaio 1559, che attesta che «Petrus Bonanno de terra Raccudie» lasciava il proprio figlio Rinaldo «etatis annorum quatordecim vel circa» in qualità di apprendista presso la bottega di Martino Montanini per un periodo di cinque anni. Si veda D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [115], n. 1; e B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [117 e 128, doc. n. 1]). 6 Benché risulti che Andrea Calamecca si trovava a Messina nel 1551, anno in cui dovette sposare Giovannella Vanello, figlia dello scultore Domenico (tale notizia si evince da un documento rintracciato sempre dal Puzzolo Sigillo, e da questi sunteggiato senza però riportare l’indicazione archivistica, ne Il pergamo del Duomo di Messina ha ritrovato il suo autore, in «Gazzetta della Sicilia e delle Calabrie», 5 agosto 1932, p. 3), il suo definitivo trasferimento in città deve datarsi al 1565. L’anno prima, infatti, egli è ancora documentato a Carrara. 260 per rientrare definitivamente a Firenze. A questa data Rinaldo era appena diciassettenne, e la sua prima opera concordemente attribuita, risalente al 1563, è una scultura per fontana raffigurante un Giovane con anfora (figg. 1, 2, 4). La forza e l’immediatezza con le quali egli ha esibito, già in questo lavoro d’esordio (e poi ancora nella successiva Natività, fig. 5), alcuni chiari e puntuali prelievi da ben note creazioni di Michelangelo, fanno pensare ad una sorta di folgorazione tanto più profondamente recepita quanto più egli, ancor giovane, doveva avere un animo sgombro da qualsiasi altro riferimento culturale e per ciò stesso particolarmente ricettivo nell’accogliere le suggestioni del Buonarroti. Non può infatti ritenersi puramente casuale che queste due prime sculture licenziate dal Bonanno,7 entrambe attualmente custodite nel Museo Regionale di Messina, siano quelle in cui non soltanto si ravvisano i rimandi più diretti a idee buonarrotiane; ma anche quelle che, all’interno del catalogo del siciliano, rappresentano a ben vedere dei pezzi “unici”. Lo sono innanzitutto da un punto di vista tipologico, trattandosi rispettivamente dell’unico marmo destinato ad una fonte e dell’unica tavola d’altare ad altorilievo eseguiti dallo scultore; ma, più significativamente, lo sono anche da un punto di vista stilistico, dal momento che in essi si concentra un tasso di “michelangiolismo” mai più raggiunto dal maestro di Raccuia. I riferimenti, per il primo ad un bozzetto in cera conservato in Casa Buonarroti nel quale alcuni vedono un modello per il perduto Ercole mediceo, altri per il David destinato alla Piazza della Signoria; e per la seconda alla produzione grafica del toscano, fra cui il cartone della Battaglia di Cascina, ma anche le figure giovanili dell’Angelo reggicandelabro eseguito per l’Arca di San Domenico a Bologna e del Fanciullo arciere da qualche tempo felicemente restituito al Buonarroti (figg. 10-19), sono talmente espliciti da precludere qualsiasi altra chiave di lettura di questa prima fase dell’attività di Rinaldo. L’ipotesi che sembra pertanto profilarsi è quella di un precoce viaggio a Firenze compiuto dal siciliano, il quale, dopo i primi due anni trascorsi nella bottega montaniniana (ed in coincidenza con la partenza del maestro), non dovette accontentarsi più di quanto gli veniva offerto dalla “piazza” messinese, desiderando, al contrario, aggiornarsi su quanto andava accadendo al di fuori degli stretti confini isolani. Questo supposto quanto verosimile viaggio di studio ben si concilierebbe con il più lungo vuoto documentario nella biografia bonanniana, relativo al periodo 1559-1565: se, come sembra, egli rimase presso il Montanini fino al 1561, nulla osta a ipotizzare che l’idea di una trasferta nel Granducato sia stata partorita proprio all’interno di quella medesima bottega, e che magari sia stata caldeggiata dall’artista toscano stesso, prontamente accortosi delle doti del giovane allievo.8 Avanzare la tesi che Rinaldo abbia seguito Martino 7 Cfr. le rispettive schede nn. 1-2. Un ulteriore argomento a favore di questa ricostruzione dei primi anni d’attività del siciliano potrebbe essere l’insolita assenza, specialmente nelle sue prove aurorali, di visibili nessi con il 8 261 sino a Firenze (approssimativamente nell’ottobre del 1561)9 per ammirare e conoscere de visu le principali testimonianze della Maniera moderna spiegherebbe dunque anche l’esistenza nel suo catalogo, ad una data così alta, di un’opera di evidente derivazione michelangiolesca come il Giovane con anfora (1563), unico frammento superstite di quella fontana che il Senato messinese dovette commissionargli l’indomani del suo rientro in patria.10 VI.2 L’avvio del legame con Andrea Calamecca. Una proposta (e tanti problemi) per i perduti (?) Sepolcri La Rocca. Già dal 1565, intanto, Bonanno si avviava a stringere con Andrea Calamecca quel rapporto professionale (divenuto poi anche personale, grazie al matrimonio contratto da Rinaldo con la figlia Veronica) che verosimilmente dovette contribuire a schiudere al raccuiese le porte della committenza cittadina. Il Calamecca, infatti, giunto a Messina, vi svolse sin da subito quel medesimo ruolo in precedenza assunto da Giovann’Angelo Montorsoli, vale a dire quello di maestro di riferimento per una moltitudine di artisti, sia locali che “forestieri”.11 Già Vasari ricordava che Andrea era un “creato” di Bartolomeo Ammannati,12 tant’è che il suo nome compare in un paio di atti notarili connessi con l’esecuzione della Fontana del linguaggio del primo maestro Martino Montanini. Si può certo obiettare che il periodo di discepolato fu breve, e che Martino dopotutto, benché buon allievo di Montorsoli, rimase comunque un modesto artefice di provincia, dal quale ben poco avrebbe potuto trarre un giovane così talentuoso come Rinaldo, se non i primi basilari rudimenti dell’arte del marmo; ma la strana coincidenza potrebbe altresì spiegarsi, se si crede all’ipotesi del giovanile viaggio di studio, con la subitanea fiammata michelangiolesca che, accendendo l’animo di Rinaldo appena licenziato dal Montanini, avrebbe letteralmente spazzato via qualsiasi altro riferimento culturale acquisito nel frattempo dal messinese. 9 Che il Montanini abbia lasciato definitivamente Messina intorno a quella data si desume dal fatto che il 15 ottobre 1561 egli rinunciò alla carica di capomastro scultore del Duomo detenuta da quando, nel 1557, Giovann’Angelo Montorsoli aveva fatto rientro definitivo in Toscana (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., pp. 107-142 [124-125]). 10 L’iscrizione, nella quale campeggiavano i nomi dei senatori in carica tra il ’61 ed il ’62, accanto alla data 1563, è ricordata da G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, p. 20. Rinaldo dovette tornare a Messina entro il 1562, se si concorda sull’attribuzione del fonte. In base a quanto riportato da Vasari, Montanini dovette morire poco dopo il suo rientro nella città natale: «Martino intanto, discepolo del frate, essendo da Messina venuto a Fiorenza, in pochi giorni morendosi, fu sotterrato nella sepoltura detta, stata fatta dal suo maestro» (cfr. Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, p. 566, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it, p. 623). La tomba cui si riferisce Vasari era stata eretta dal Montorsoli nella chiesa servita della Santissima Annunziata di Firenze. 11 A lui si devono, tra le altre cose, l’erezione di tre cappelle all’interno del Duomo di Messina (1571), il progetto per la costruzione del Grande Ospedale (1574), ed il il riammodernamento della chiesa gesuita di San Nicolò (1583). 12 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 566. 262 Nettuno eretta in Piazza della Signoria.13 Siamo al principio del 1561, e il Calamecca, che già dal 1555 faceva parte di quella folta schiera di scalpellini operosi nei cantieri medicei,14 dopo aver contribuito attivamente alla realizzazione degli apparati effimeri innalzati in occasione delle esequie di Michelangelo (1564) decideva di recarsi nella città dello Stretto, dove da tempo si era trasferito il fratello Domenico,15 e dove, già nel 1563, benché in absentia, egli era stato nominato capomastro scultore del Duomo.16 La prima attestazione documentaria riguardante Andrea l’indomani del suo arrivo a Messina coinvolge indirettamente anche Rinaldo, trattandosi di un atto, datato 7 maggio 1565, col quale il nobile Giovanfilippo La Rocca commissionava una coppia di monumenti funerari a Paolo Tasso, che si sarebbe dovuto attenere «a lo disingno et a talentamento di li nobili Andrea Calameca et Johanni Domenico Mazzolo»: in margine a questo rogito venivano annotati due pagamenti, rispettivamente di due once e di ventuno tarì, corrisposti dal Tasso al Bonanno.17 In una città, come quella peloritana, colpita, nel breve volgere di quarant’anni, da due disastrosi eventi quali il terremoto (1908) e il bombardamento angloamericano (1943), riannodare il filo della storia attraverso la ricostruzione delle testimonianze materiali risulta spesso notevolmente difficile. Anche perché, nella gran parte dei casi, degli oggetti in questione si è persa traccia a causa delle dispersioni successive a quei tragici accadimenti: a questa triste vicenda non sembrano essere sfuggiti i due Sepolcri La Rocca, dimenticati dalla storiografia specialistica, probabilmente anche per via della loro ignota destinazione.18 13 H. UTZ, The Labors of Hercules and other works by Vincenzo de’ Rossi, in «The art bulletin», LVIII, 1971, pp. 344-366 [p. 362, doc. 2, n. 1]; IDEM, A note on Ammannati’s Apennine and on the chronology of the figures for his Fountain of Neptune, in «The Burlington Magazine», CXV, 1973, pp. 295-300 [295]. 14 N. ARICÒ, La statua, la mappa e la storia. Il Don Giovanni d’Austria a Messina, in «Storia della città», 48, 1988, p. 51. 15 Domenico doveva trovarsi a Messina almeno dal 1547, poiché nel dicembre di quell’anno Angelo Casoni e Andrea Pelliccia, attraverso la mediazione del Calamecca, si apprestavano ad imbarcare alcuni marmi da Carrara alla volta della città peloritana (cfr. G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori… nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 43). Nicola Aricò, nella scheda al Monumento funebre di Antonio la Rocca proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Gesù Superiore (oggi al Museo Regionale) pubblicata in Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, p. 58, afferma che Domenico era presente a Messina già dal 1535, ma non indica la fonte da cui avrebbe ricavato tale notizia. 16 Cfr. G. DI MARZO, I Gagini e la scultura cit., I, p. 786, nota 1: lo studioso sostiene di aver ricevuto la notizia dall’erudito Giuseppe Grosso Cacopardo, il quale aveva trascritto un atto personalmente rintracciato nei Diversi (del 1563), all’epoca custoditi nell’Archivio Comunale di Messina (e distrutti, assieme a centinaia di migliaia di altri documenti, in parte nell’incendio del 1848, in parte a seguito dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale). 17 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [117 e 128, doc. n. 2]. Cfr. Appendice documentaria, nn. 1-3. 18 Ibidem, p. 117. 263 Eppure, leggendo fra i pochi titoli che compongono la letteratura periegetica messinese, ci si accorge che Giuseppe Buonfiglio e Costanzo, nella sua Messina città nobilissima (1604), segnalava l’esistenza di due tombe erette per volontà di Giovanfilippo La Rocca nella tribuna della chiesa di San Francesco di Paola: «Nella cappella maggiore, ornata et lavorata di scacchi, et per l’oro risplendenti, si veggono duo sepolchri in aria eretti da don Filippo della Rocca, l’uno per gli huomini, et l’altro per le donne di questa famiglia, con li sottoscritti epitaffii di questo tenore».19 Insomma, il La Rocca aveva occupato l’area presbiterale della principale fabbrica religiosa francescana cittadina, affidando ai due scultori più rappresentativi del momento, il Calamecca e il Mazzolo junior, l’incarico dell’erezione di due sepolture destinate agli esponenti, sia maschi che femmine, della propria famiglia.20 La consultazione dell’archivio fotografico e la contemporanea visita al Museo Regionale di Messina hanno rivelato l’esistenza, all’interno di alcuni ambienti oggi adibiti a deposito, di due monumenti funerari (come vedremo tra poco, nei fatti può provarsi la presenza di uno solo tra i due) dalla provenienza incerta. Un’ipotesi allettante, che si avanza qui con estrema cautela, è che possa trattarsi per l’appunto dei Sepolcri La Rocca di San Francesco ricordati dal Buonfiglio. La fotografia qui riprodotta (fig. 20) ritrae un sarcofago, decorato sulla fronte da due figure maschili che infilano le rispettive mani destre dentro agli occhi cavi di un teschio. Esso è altresì accompagnato da cinque elementi erratici, tra cui due putti reggiface semidistesi, due erme ed un finto scudo gentilizio. I sei pezzi, nonostante l’aspetto frammentario, sono stilisticamente coerenti, databili all’incirca alla metà del Cinquecento, e dovettero, in origine, costituire una tomba monumentale. Sul retro del cartone fotografico, la didascalia ne indica l’epoca (XVII secolo), l’autore (Rinaldo Bonanno), il soggetto, identificato nel “Sarcofago La Rocca”, e infine la provenienza, riconosciuta nella “Cappella Abbate, all’interno della chiesa di Sant’Agostino”. 19 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima cit., p. 10. Così recitava l’iscrizione relativa alla sepoltura degli uomini della famiglia: D. O. M. D. HIERONYMO A ROCCA PATRITIO MESSANENSI IN PATRIA ET IN CURIA AMPLISSIMIS MAGISTRATIBUS FUNCTO. D. PHILIPPUS ET D. CHRISTOPHORUS FILII PIENTISSIMI, ET SIBI, ET POSTERIS EREXERE MDLXVI. Questo invece era destinato alle donne: D. O. M. D. JOANNAE D. PHILIPPUS A ROCCA AC BONFILIUS ET D. ANTONIAE VIVENTI D. CHRISTOPHORUS A ROCCA AMANTISSIMI POSTERIS FÆMINIS POSUERE MDLVI. 20 Giovanfilippo La Rocca fu senatore della città nel biennio 1535-36 e deputato del Regno negli anni 1547, 1549, 1566 (cfr. F. M. EMANUELE E GAETANI, Della Sicilia nobile, nella Stamperia dei Santi Apostoli per Pietro Bencivenga, Palermo 1754-1759, II, p. 231). G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 620: «Furono amici di fra Giovann’Agnolo, mentre stette in Messina, il detto signor don Filippo Laroca e don Francesco della medesima famiglia, messer Bardo Corsi, Giovan Francesco Scali e messer Lorenzo Borghini, tutti tre gentiluomini fiorentini allora in Messina; Serafino da Fermo et il signor Gran Mastro di Rodi che più volte fece opera di tirarlo a Malta…». La Rocca è ricordato anche da C. D. GALLO, Annali della città di Messina, capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua formazione fino ai tempi presenti, in Messina, per Francesco Gaipa regio impressore, 1758, II, p. 446. 264 All’interno di uno dei depositi del museo ho potuto invece rintracciare una cassa funebre ornata con motivi simili a quelli sopra descritti (fig. 21), addossata ad una parete di fronte alla quale si disponevano (mischiati a numerosi elementi non pertinenti) altri cinque frammenti: due putti che reggono in mano altrettante torce capovolte, due telamoni, e infine un piccolo plinto rettangolare decorato con un finto stemma araldico (figg. 22-26). Grande è stata la sorpresa quando ho potuto constatare che la sepoltura riprodotta nella fotografia dell’archivio e quella custodita nel magazzino non corrispondevano, malgrado la loro apparente equivalenza. Un confronto serrato rileva infatti alcune difformità esistenti tra i due scomposti complessi marmorei, segno che ci troviamo di fronte a due tombe distinte e separate. Tali discordanze emergono chiaramente nelle coppie di puttini e nelle erme, ma con un po’ di attenzione si colgono anche nei due sarcofagi: i geni appoggiati ai teschi entro i medaglioni scolpiti nelle loro fronti sono diversi tra di loro, tant’è che una coppia (quella ritratta nella fotografia, fig. 28) dispone le proprie ali verso l’esterno, a ridosso della nuca; nell’altra, quella fotografata nei depositi (fig. 30), le ali piegano verso l’interno, sfiorandosi, e trovandosi in questo modo ad occupare lo spazio altrimenti rimasto vuoto tra le due figure. Gli interrogativi sono molteplici: come si spiega il carattere problematico delle informazioni fornite dalla didascalia, le quali, piuttosto che fornire un aiuto, complicano la vicenda, sostenendo che il monumento riprodotto sia quello La Rocca proveniente dalla Cappella Abbate in Sant’Agostino? Sappiamo bene che Gabriele Abbate nel 1569 commissionò al Bonanno, assieme alla già citata pala con la Natività, anche un sepolcro, da destinare alla propria cappella eretta nella chiesa agostiniana della città dello Stretto. Ma non abbiamo alcuna notizia relativa all’esistenza, in questa stessa cappella, di un “Sepolcro La Rocca”. L’ipotesi più plausibile è che le notizie della didascalia siano frutto di confusione del compilatore della didascalia. Eppure, vi è ancora un altro, ben più spinoso, quesito: se la tomba da me vista e fotografata personalmente non è quella riprodotta nella foto dell’archivio, quest’ultima dove si trova? Dovrebbe, a tutti gli effetti, essere custodita in qualche ambiente all’interno della struttura museale, ma sinora non mi è stato possibile reperirla (a dispetto dei vari sopralluoghi effettuati all’interno del museo). Dell’argomento si è occupata recentemente Alessandra Migliorato, la quale ha riportato alcune note scritte da Maria Accascina, direttrice del museo peloritano l’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale: in esse la Accascina descrisse due monumenti funebri (corrispondenti a quelli di cui qui si discute), identificandoli con quelli un tempo collocati nella Cappella Abbate in Sant’Agostino, e della quale ella trascrive anche la coppia di iscrizioni commemoranti Gabriele Abbate e il figlio Giovanni († 1603).21 Sulla scorta di tali 21 A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa cit., pp. 328-329. Ecco il testo delle due iscrizioni così come viene riportato dalla Migliorato, che a sua volta lo ha tratto dagli appunti di Maria Accascina: «d. Johannes abbatius d. gabrielis ucriae baronis tertius filius s. insignis genere, 265 notizie, la Migliorato ha consolidato la tesi sostenuta dalla Accascina, precisando che «a uno sguardo più avvertito ci si accorge, però, che l’identità tra i monumenti si limita solo agli aspetti tipologici, ma non riguarda invece gli aspetti stilistici che appaiono piuttosto difformi e conducono a una diversa datazione. È chiaro, dunque, che uno dei due venne eseguito sulla falsariga di quello più antico per rispettare l’armonia della cappella».22 Stranamente, la studiosa non ha pubblicato il sarcofago e i cinque pezzi erratici qui presentati (figg. 21-26), ma si è limitata a riprodurre la fotografia conservata in archivio (fig. 20), aggiungendo: «oggi che entrambi sono smembrati, il collegamento tra le iscrizioni e i relativi sepolcri non è immediatamente ricostruibile, ma si può dedurre che il più antico si identifichi con quello, non datato, di Gabriele Abbate…». La studiosa non chiarisce più di un dettaglio: ella ha avuto modo di verificare de visu l’esistenza, in qualche altro luogo non ancora esplorato del museo, delle sculture sinora note soltanto grazie alla fotografia (fig. 20)? E se ella è convinta di una differenza cronologica, e pertanto stilistica, tra le due sepolture, per quale ragione non ha pubblicato anche i vari materiali confusamente e sbrigativamente ammucchiati nel deposito? E chi sarebbe, infine, l’autore della tomba di Giovanni Abbate, deceduto addirittura nel 1603, quando Rinaldo Bonanno era venuto a mancare da più di una decina d’anni? Proviamo dunque a riprendere il filo di questa complessa vicenda. Il legame tra la coppia di monumenti e la chiesa di Sant’Agostino sorge, a mio avviso, dalla presenza, sulla medesima parete che accoglie i cinque frammenti del complesso funerario (fig. 21), di una lastra marmorea (fig. 29) recante inciso il nome di Gabriele Abbate, e nella quale deve dunque riconoscersi un pezzo del sepolcro bonanniano eretto nel 1569 per quel personaggio. Nella sala sono disposte decine di elementi marmorei, dalle dimensioni più disparate, spesso dai non chiari (e chiariti) contesti di provenienza; nulla di più facile, dunque, che da Sant’Agostino provenga la lastra con l’iscrizione, e chissà quale altro frammento lì depositato; ma nulla ci assicura che anche le cinque sculture funebri vengano da quella chiesa (incluso il sarcofago collocato sulla parete opposta, fig. 21). D’altro moribus et virtute miles, sibi vivens hoc monumentum posuit, anno domini MDCIII obiit die quartae indictionis anno millesimo sexagesimo quinto aetatis suae anno nonaginta; d. gabbr. Abbatus messanensis patritius ucriae baro quam suam in [terris] domum restaurasset coelisque aliam sedulo stabilisset hoc deo sacellu sibiq. sepulchrum condidit seqimill (sic) anno septuag.mo». La Accascina, nella descrizione delle due tombe, includeva anche, al fianco dei putti reggiface, un «cubo con lo stemma degli Abbate a rilievo su mezza faccia». Ma alla verifica autoptica, effettuata dalla scrivente, la superficie del marmo che accoglie l’arma gentilizia si è rivelata perfettamente liscia, come se non avesse mai accolto un rilievo. 22 La studiosa ha tentato in questo modo di dare spiegazione alle parole di G. LA FARINA (Messina e i suoi monumenti, Stamperia G. Fiumara, Messina 1840, p. 58), che segnalava l’esistenza nella Cappella Abbate di due sepolture marmoree, della quale quella addossata alla parete sinistra gli sembrava cinquecentesca piuttosto che seicentesca: «sonvi accanto due urne marmoree di belle forme e di eleganti modanature e ornati, specialmente quelle in sulla sinistra, tanto da parere più presto opera del XVI secolo che del XVII secolo». 266 canto, il numero (d’inventario?) tratteggiato in rosso su di essi (800), che pure risulta nel registro cartaceo, non corrisponde alle erme, ai puttini e al plinto, ma ad altre opere che nulla hanno a che vedere con questi ultimi.23 Se poi si procede all’analisi stilistica delle sei restanti parti del sepolcro, si deduce che esse differiscono tra di loro: i putti, ad esempio, sono stati palesemente lavorati da due scultori diversi (figg. 24-25). Le discordanze, dunque, si evidenziano all’interno stesso di uno dei due monumenti, e non, come sosteneva la Migliorato, tra le due diverse tombe (figg. 20-21), secondo lei appartenenti a momenti storici distinti. Anzi, ad uno sguardo attento, emerge che, ad eccezione del putto ospitato nel deposito (fig. 24), il resto dei due complessi scultorei è pressoché omogeneo. È proprio l’indagine del punto di stile che porterebbe a considerare non priva di una qualche validità l’ipotesi della loro identificazione con le Tombe La Rocca un tempo albergate a San Francesco. Come si è accennato in precedenza, a Rinaldo fu corrisposta, in due soluzioni, l’esigua cifra di due once e ventuno tarì, che ben si accosterebbero a quel putto (fig. 24). L’attribuzione di quest’ultima scultura al maestro raccuiese è d’altronde corroborata dagli stringenti confronti con analoghe figure licenziate dal Bonanno in anni vicini a quelli di cui qui si discute (1565 circa), fra cui gli angeli scolpiti a bassorilievo nella Natività (1569, figg. 27, 33) e i putti reggitorcia che affiancano i Sepolcri Marchese, risalenti al 1572 circa (fig. 32). L’altro puttino è invece distante dallo stile di Rinaldo, e potrebbe pertanto essere ricondotto (ma si tratterebbe di una congettura) a Paolo Tasso, vale a dire allo scultore che, almeno da quanto emerge dall’unica carta d’archivio ad oggi nota, sembra essere stato il principale responsabile dell’impresa promossa da Giovanfilippo La Rocca. E se del Tasso non rimane, ad oggi, alcun’altra testimonianza figurativa, il profilo di Giovandomenico Mazzolo (l’altro autore, assieme al Calamecca, del progetto) è oramai ampiamente noto alla storiografia:24 il suo catalogo non sembra offrire validi raffronti con i marmi qui presentati, e ciò induce a pensare che egli dovette effettivamente limitarsi a fornire il solo progetto delle tombe. Un discorso analogo può farsi anche per Andrea Calamecca, del quale si ammirano, nei depositi del Museo Regionale, due pannelli marmorei originariamente parte del Monumento funerario del capitano Visconte Cicala (seconda metà degli anni sessanta, figg. 57-58):25 anche in questo caso, il punto 23 Il registro è stato consultato personalmente da chi scrive. Cfr. qui il Capitolo IV. 25 Oltre ai due pilastrini, al museo si conservano cinque formelle quadrangolari rappresentanti le imprese del capitano, nonché tre busti che ritraggono Visconte, il fratello cardinale Giovambattista, e Visconte II, duca di Castrogiovanni e nipote del capitano; infine, una mensola raffigurante due galee, legate ovviamente alle molteplici attività marinare del defunto. L’attribuzione al Calamecca di quest’opera, destinata alla Cappella Cicala nella chiesa di San Domenico, ha trovato, dal Samperi in poi (1644), largo seguito nella storiografia erudita messinese, ed è stata accettata anche dai recenti studi. Per questo monumento cfr. da ultimo A. MIGLIORATO, Andrea Calamech, formelle del monumento a Visconte Cicala, scheda in La navigazione nel Mediterraneo, catalogo della 24 267 di stile che caratterizza questi bassorilievi non presenta affinità con i frammenti dei supposti Sepolcri La Rocca. Al contrario, la tipologia delle due arche funerarie rievoca fortemente quella dei due Sarcofagi Marchese, non a caso anch’essi ideati da Andrea e compiuti dal Bonanno (figg. 34-35).26 L’analisi formale sembrerebbe dunque confermare il dettato dell’atto notarile, con l’incarico affidato in maniera esclusiva a Paolo Tasso, il quale dovette a sua volta concedere al giovane Rinaldo la possibilità di lavorarvi, sebbene con un minimo contributo. In conclusione, vi sono alcuni argomenti che porterebbero a riconoscere nei pezzi erratici custoditi nel museo e nei loro “gemelli” ritratti nella foto d’archivio le due tombe installate un tempo nella tribuna di San Francesco di Paola. Rimangono però alcuni grossi interrogativi (in primis quello relativo alla provenienza, non ancora accertata, dei due monumenti scomposti), che determinano il carattere affatto ipotetico di questa ricostruzione. VI.2.1 La comparsa di molteplici e variegati modelli: Bartolomeo Ammannati, Andrea Calamecca, Giovann’Angelo Montorsoli, Antonello Gagini. Intanto, mentre la popolarità del Bonanno si estendeva dal confine strettamente cittadino al territorio circostante (prime avvisaglie di quel successo, giunto anche in Calabria, che accompagnò la sua figura a partire dal principio del nono decennio del secolo), il barone della Scaletta Antonino Marchese promuoveva l’erezione di due grandiosi monumenti funebri atti a commemorare rispettivamente i propri genitori, Francesco Marchese e Anna Staiti, e sé stesso con la consorte Antonina Barrese (figg. 34-35).27 Destinati al coro della chiesa francescana di Santa Maria di Gesù Inferiore, e anch’essi custoditi nel Museo Regionale, questi sepolcri rappresentano il primo lavoro bonanniano in cui emerge con forza l’ascendenza dell’arte di Bartolomeo Ammannati. Ciò si deve di certo alla collaborazione con l’“ammannatiano” Andrea Calamecca, il quale, come accennato sopra, aveva fornito il progetto che Rinaldo e gli scalpellini Giuseppe Vanello e Andrea Doro s’impegnavano a seguire;28 ma deriva anche da una certa mostra a cura di M. L. FAMÀ, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione, Dipartimento dei Beni Culturali, Ambientali ed Educazione Permanente, Palermo 2005, pp. 29-32; EADEM, Il monumento a Visconte Cicala, corsaro e imprenditore, in «Karta», 1, 4, 2006, pp. 6-7. 26 L’inserzione calamecchiana delle erme, poste a sostegno della cassa funebre, che per la prima volta compaiono in una tomba prodotta a Messina, potrebbe derivare da idee sviluppate da Bartolomeo Ammannati in anni di poco precedenti a questi (1552-1555 circa), quando il fiorentino fu attivo nel cantiere di Villa Giulia per conto di Giulio III del Monte. Egli, assieme a molti altri collaboratori, progettò ed eseguì il Ninfeo, dove otto cariatidi (quattro scolpite a tuttotondo, e quattro ad altorilievo addossate ad altrettanti pilastri) reggono un grandioso balcone curvilineo. 27 Cfr. la scheda n. 3. 28 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [119 e 131, doc. n. 13]. 268 dimestichezza con l’opera di Bartolomeo, anch’essa evidentemente ottenuta durante la giovanile permanenza fiorentina. D’altronde, da quanto è possibile riscontrare dall’analisi dei Monumenti Marchese, il discepolato presso l’Ammannati aveva impresso nello stesso Calamecca segni tangibili e duraturi, che, relativamente alla fase progettuale dei due sepolcri in questione, non possono certo essere trascurati. A questo proposito i paralleli ammannatiani che qui si instaurano, in relazione allo schema della cassa funebre, con il Monumento di Bindo Altoviti (1570 circa, fig. 36); quelli rilevati tra le due allegorie della Fortezza e della Vittoria nei Sepolcri Marchese e l’Atena sovrastante la Tomba di Fabiano del Monte in San Pietro in Montorio a Roma (entro il 1553, figg. 40-41), l’immagine marmorea di Firenze oggi a Boboli (entro il 1563, fig. 42) e la Giustizia e la Pace eseguite nel 1572 circa per il Monumento funerario di Giovanni Boncompagni a Pisa nel Camposanto (figg. 43-44); e infine i parlanti raffronti tra i putti agilmente seduti sui bordi dell’arca siciliana e le due figure di identico soggetto (in collezioni private), di recente ricondotti alla Tomba di Mario Nari (1540-42, figg. 38-40);29 ebbene, tutti questi paralleli credo siano sufficienti a rivelare quanto sia stato proficuo il lascito di Bartolomeo sui modi espressivi di Andrea. Il legame, anche formale, tra il Bonanno e l’Ammannati non si concluse però con le Tombe Marchese; esso, anzi, continuò, raggiungendo il punto di massimo avvicinamento nella Madonna col Bambino eseguita dal siciliano per la chiesa del Rosario a Petilia Policastro (KR, metà anni settanta, fig. 48).30 In quest’ultima opera, infatti, la somiglianza del Bambino con il già citato putto un tempo parte integrante della Tomba Nari è davvero sorprendente, investendo le due immagini non soltanto nel generale assetto compositivo, ma anche in alcuni dettagli figurativi assolutamente identici come le labbra carnose e le ciocche ricciolute che svirgolano ai lati e sulla fronte (figg. 49-50). Sempre entro l’ottavo decennio del secolo si collocano altri due marmi bonanniani che insistono sulla direzione delle novità studiate e ammirate dallo scultore in Toscana: si tratta dell’Annunciazione scolpita per Salice (fig. 54) e dell’inedita Madonna col Bambino a mezza figura oggi conservata nel Museo Diocesano di Tropea (VV, fig. 51) e proveniente dalla Cattedrale della cittadina calabrese. Non è un caso che i confronti più stringenti possano instaurarsi, per entrambe queste opere, proprio con la Vergine di Petilia (figg. 52-53). A partire da quest’epoca inizia altresì a manifestarsi, nel linguaggio di Rinaldo, quella tendenza a tornare sui vetusti modelli della tradizione gaginiana cui si è accennato sopra e che, sebbene ancora moderata, si rafforzò man mano, costituendo addirittura, dal 1583 in poi, il filo conduttore del suo percorso artistico. Forse perché ormai 29 F. LOFFREDO, La giovinezza di Bartolomeo Ammannati all’ombra della Tomba Nari, in L’acqua, la pietra, il fuoco: Bartolomeo Ammannati scultore, catalogo della mostra a cura di B. PAOLOZZI STROZZI, D. ZIKOS, Giunti, Firenze 2011, pp. 95-135. 30 Per quest’opera, cfr. A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi cit., pp. 126-127. 269 fisicamente lontano dagli stimoli recepiti a Firenze, e forse anche per l’imporsi della committenza, Bonanno stemperò il giovanile stile a metà strada tra l’irruento michelangiolismo degli esordi e il più pacato e vibrante richiamo ammannatiano, dando vita, così, ad una coppia di Madonne col Bambino, manifestamente orientate alla riproposizione di precisi schemi antonelliani. Mi riferisco in particolare all’inedita statua compiuta per il casale di Larderia (ME, figg. 66, 68), e all’altra, firmata e nota da tempo, conservata a Massa San Giorgio (ME, figg. 69, 70).31 I due manufatti sono accomunati, oltre che dalla cronologia, qui proposta sulla metà degli anni settanta, dalla condivisione del medesimo prototipo, che può agilmente riconoscersi nella cosiddetta Madonna degli Angeli licenziata da Antonello Gagini intorno al 1506 per la chiesa messinese di San Francesco (fig. 67).32 Ma se la Vergine di Larderia deve ritenersi una vera e propria replica, che ripropone puntualmente del modello l’impostazione generale e lo svolgimento del drappeggio, in quella di Massa San Giorgio si assiste allo strano caso di commistione di due esemplari differenti, non solo per la datazione, ma anche, e soprattutto, per la matrice stilistica: il Bambino è infatti direttamente prelevato dall’immagine gemella che Giovann’Angelo Montorsoli aveva compiuto intorno al 1555 per la Cattedrale di Tropea (fig. 71).33 Impianti, posizioni, gesti, tutto corrisponde, dandoci l’idea di una scultura intrinsecamente gaginiana interpretata però con uno sguardo all’illustre precedente montorsoliano. VI.3 Da Messina alla Toscana: l’esperienza carrarese del primo scultore siciliano all’“estero”. Nel frattempo il rapporto con Andrea Calamecca si era talmente consolidato che Rinaldo ne sposò la figlia Veronica (entro il 1574);34 fin quando, all’inizio del novembre 1580, egli risulta presente fra Massa e Carrara alle dipendenze di Alberico I Cybo Malaspina, davanti al quale dovette presentarsi verosimilmente dietro suggerimento dello stesso Calamecca, vecchia frequentazione del 31 Cfr. le rispettive schede nn. 4, 6. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, p. 380, figg. 29-30. Il rogito relativo a questo marmo, rintracciato da Gaetano La Corte Cailler, è stato pubblicato da G. MOLONIA, La Madonna degli Angeli di Antonello Gagini e il suo documento, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo», 9, 1999, pp. 71-79. 33 Per la Madonna del Popolo, cfr. B. LASCHKE, Fra Giovan Angelo da Montorsoli: ein Florentiner Bildhauer des 16. Jahrhunderts, Gebr. Mann Verlag, Berlin 1992, pp. 103-104, figg. 130-131. 34 Già il 6 giugno di quell’anno Rinaldo e Veronica risultavano sposati: cfr. B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [132, doc. n. 17]. 32 270 principe.35 Così, dopo aver contribuito al completamento del Canale della Grondine a Massa,36 il siciliano otteneva un incarico di tutto riguardo, sostanziatosi nell’esecuzione dell’Altare di Santa Maria del Portello all’interno del Duomo carrarese (fig. 75). Egli veniva chiamato a sostituire Andrea di Policleto Pelliccia, già ingaggiato nel luglio del 1579 ma non ligio all’obbligo,37 e assieme a lui comparivano, per i lavori di quadro e di ornato, i marmorari locali Francesco Bergamini e Andrea di Pietro d’Avenza.38 L’artista rimase in Toscana sino all’estate dell’82; pertanto, da quando ricevette il lavoro (novembre 1581), passarono circa nove mesi: l’altare nel suo complesso consta di un’imponente macchina marmorea al cui centro campeggiano tre statue a grandezza naturale ospitate in altrettante nicchie e raffiguranti l’Assunta al centro e i Santi Caterina d’Alessandria e Bernardo ai lati (figg. 75, 86). L’analisi stilistica ha permesso ad Alessandra Migliorato di riconoscere la mano del messinese soltanto nella Vergine e nei due Angeli collocati ai suoi piedi, distinguendo nettamente da essi la parte bassa della raffigurazione, una sorta di basamento ricavato da un secondo blocco marmoreo, in cui sono scolpiti altri tre angeli chiaramente da ascrivere ad un altro artefice (fig. 76).39 L’Assunta in effetti è gemella della Madonna scolpita nella Natività Abbate (figg. 77-80), e nell’impostazione, nella disarticolata disposizione delle gambe, nel movimento rotante del busto e delle braccia rispetto alla fissità del volto, essa ricorda molto le dinamiche immagini mariane di già eseguite dallo scultore, fra cui la Vergine che compare su uno dei bassorilievi facenti parte dei Sepolcri Marchese (quello con la scena della Presentazione di Gesù al Tempio, fig. 82), quella di Petilia Policastro (fig. 52), ed anche la Madonna tropeana, di poco precedente il soggiorno carrarese (fig. 53). Anche gli Angeli trovano agili riscontri nelle analoghe figure bonanniane della Natività (fig. 82-84), così come nel Bambino della successiva Madonna del Soccorso inviata a Taurianova, altro borgo calabrese (RC, fig. 85). La vicenda dell’Altare del Portello, venuto meno anche Rinaldo, che nel luglio dell’82 è nuovamente attestato in patria, coinvolse successivamente, quale autore del San Bernardo, quell’Alessandro Rossi col quale il siciliano aveva collaborato 35 Il marchese di Massa e principe di Carrara Alberico I Cybo considerava Andrea suo «scultore vassallo», e non era affatto d’accordo che egli partisse per la Sicilia. Per questo motivo nel 1564 Alberico scrisse al granduca Cosimo I pregandolo di intercedere presso il cardinal Morone affinché Andrea riuscisse ad inserirsi nel gruppo di collaboratori che stavano aiutando Pirro Ligorio nei lavori alla fabbrica di San Pietro. Ma il tentativo fallì, dal momento che la presenza del Calamecca nella città dello Stretto è attestata già dal maggio del ’65 (M. GUALANDI, Nuova raccolta di lettere sulla Pittura, la Scultura e Architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV a XIX, Tipografia Sassi, Bologna 1844-56, pp. 26-28). 36 G. CAMPORI, Memorie biografiche cit., p. 285. 37 C. RAPETTI, Storie di marmo. Sculture del Rinascimento tra Liguria e Toscana, Electa, Milano 1998, pp. 54 e 358. 38 G. CAMPORI, Memorie biografiche cit., p. 285. 39 A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi cit., pp. 119-134 [124-125]. Nelle medesima occasione la studiosa ha proposto di ascrivere al periodo di attività carrarese del Bonanno la statua di una Santa non identificata conservata ad Avenza (CA) nella chiesa di San Pietro (fig. 109). 271 per il Canale della Grondine, per concludersi definitivamente nel 1586. Chissà però se, prima di lasciare Carrara, il Bonanno avesse avuto il tempo di mettere mano alla Santa Caterina, il cui capo sembra avere precise rispondenze in marmi di poco successivi, in primis le due Madonne di Taurianova e di Oppido Mamertina (figg. 95, 97, 99).40 VI.3.1 Il rimpatrio e la nuova (breve) ondata manieristica. Una nuova lettura critica delle statue di Taurianova e di Bova. Dal rientro a Messina fino al termine della sua breve carriera, conclusasi al principio del ’90, si contano nel catalogo bonanniano, tra manufatti firmati e documentati ed altri attribuiti unanimemente dagli studi, ben undici sculture monumentali (l’unica eccezione è costituita dal mezzo busto della Madonna di Santo Stefano Medio):41 un’attività frenetica grazie alla quale il maestro, se da una parte si vide ulteriormente riconoscere dalla committenza messinese il ruolo di artista di riferimento (il Sepolcro dell’arcivescovo Retana eretto nel Duomo cittadino ne è forse la prova più lampante);42 dall’altra conquistò definitivamente il mercato dell’antistante Calabria, dal momento che ben sette di queste opere erano destinate ad altrettante località di quella regione. Basti pensare che allo stesso 1582 risalgono due fra le sue più rappresentative fatiche, la già citata Madonna del Soccorso di Taurianova (firmata e datata, figg. 95, 99),43 ed il San Leo conservato a Bova nella chiesa omonima (datato, fig. 96).44 Questi due splendidi marmi hanno però costituito, specie per una parte della critica, una sorta di crux desperationis, un’ulteriore prova della quasi schizofrenica alternanza fra le polari e apparentemente inconciliabili componenti della cultura del siciliano. 40 Per la statua di Taurianova, cfr. la scheda n. 9. Per quella di Oppido Mamertina, cfr. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 304-307. 41 A queste si aggiungono tre imprese, tutte documentate, di cui oggi non rimane alcuna traccia: l’erezione di tre cappelle all’interno del Duomo di Messina (1585); un monumento funerario nella Cappella di Stefano da Patti nella chiesa di San Francesco (1587); infine un sepolcro per un tale Francesco Lo Giudice, da inviare in una non specificata chiesa di Catania (1588). A Francesco Negri Arnoldi (Su quattro marmi siciliani del Cinquecento, in «Kronos», 13, 2009, parte 1, Scritti in onore di Francesco Abbate, pp. 91-94 [93-94]) si deve l’attribuzione di una bella Madonna col Bambino collocata nello scalone d’ingresso del convento annesso alla chiesa palermitana della Gancia (fig. 92), e datata dallo studioso ad un’epoca prossima a quella della Vergine dI Taurianova (1582). 42 Cfr. la scheda n. 8. 43 F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento cit., p. 185, fig. 131; F. ABBATE, Intorno alla Natività cit., pp. 116-117; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 89 e 304-307. 44 L’attribuzione del San Leo di Bova al Bonanno è stata avanzata per la prima volta da G. LEONE, Culto e iconografia cit., p. 63. Per quest’opera, si veda anche M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 308-311. 272 Il così palese rimando, in esse, ad elementi tipicamente manieristici, quali l’impianto chiastico, la brusca torsione del capo rispetto al resto del corpo, che determina una disarticolazione delle figure, possenti e monumentali; i loro volti, così austeri, quasi all’antica, il loro ampio e fluido panneggiare che non nasconde le generose forme sottostanti, hanno letteralmente destabilizzato la storiografia. Dato per scontato il concorde giudizio positivo espresso su entrambe queste statue, il problema si è presentato nell’inquadrarle all’interno del catalogo di Rinaldo, di trovarne validi modelli coi quali evidenziare eventuali caratteri comuni. Si è così parlato di una «virata in chiave più vigorosamente manieristica riscontrabile nelle opere immediatamente successive al rientro a Messina»;45 e, nel rintracciarne la fonte, sia figurativa che stilistica, si è giunti ad ipotizzare un soggiorno del Bonanno a Napoli. Un viaggio, dunque, nella capitale del Viceregno, che secondo Francesco Abbate dovrebbe risalire agli anni giovanili, fra il 1567 ed il 1569 (a ciò lo studioso imputa, ad esempio, la sorprendente “pelle” michelangiolesca esibita dalla Natività del Museo Regionale).46 Per Monica de Marco, invece, la trasferta partenopea potrebbe collocarsi nell’82 lungo la discesa da Carrara. A detta della studiosa, l’acquisizione degli esempi scultorei che venivano producendosi nella capitale vicereale, e che aveva comportato una vera e propria “conversione stilistica” dello scultore sui primi anni ottanta, fu una «sconvolgente folgorazione sulla via di Damasco». Il riferimento culturale cui allude la De Marco è preciso: trattasi del partenopeo Giovandomenico d’Auria, formatosi con Giovanni da Nola e operoso sino al principio dell’ottavo decennio del secolo. Pur ammettendo tra i due artisti l’esistenza di «sensibili divergenze stilistiche che tradiscono la reciproca appartenenza a un diverso orizzonte culturale», la De Marco tuttavia rileva nell’opera del D’Auria «affinità considerevoli rispetto a certa produzione dello scultore messinese, specie nel vigore plastico e nella possanza fisica delle figure, ma anche, e forse soprattutto, nella salda interpretazione del contrapposto michelangiolesco».47 Le obiezioni che si pongono a questa lettura critica sono due: il vigore plastico, la possanza fisica delle figure, il contrapposto michelangiolesco sono riscontrabili in tutti quei maestri che, confrontatisi proficuamente con Michelangelo, hanno recepito, più o meno profondamente, quelle stesse componenti, tentando, con maggiore o minore autonomia a seconda dei casi, di assumerle nelle proprie creazioni. È pertanto scontato che esse costituiscano dei punti in comune tra D’Auria e Bonanno, entrambi inseriti a pieno titolo entro la corrente manieristica, ed eminenti rappresentanti di questa nel Sud della Penisola. Ammesso questo, non mi sembra che Rinaldo (se si accetta la lettura critica qui proposta del suo 45 Ibidem, p. 89. F. ABBATE, Intorno alla Natività cit., p. 116. 47 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., p. 89. 46 273 periodo formativo e della conseguente prima fase d’attività) necessitasse di un soggiorno a Napoli per aggiornarsi sui nuovi esiti dell’arte scultorea, anche perché, qualora avesse voluto farlo, si sarebbe recato direttamente alla “fonte”, vale a dire in Toscana (non a caso è appunto questa la tesi qui sostenuta). Dalla mia prospettiva dunque, quella che, relativamente alla Madonna di Taurianova e al San Leo di Bova, secondo Monica De Marco è stata una conversione stilistica, deve in realtà intendersi come il naturale prosieguo dell’introiezione di tutte quelle suggestioni (buonarrotiane, ammannatiane e sansovinesche in primis) di già emerse nei lavori d’esordio del raccuiese, e che adesso, nel periodo della maturità artistica, esplodono forse come mai prima. La stessa Madonna del Soccorso, per la studiosa «punto di snodo fondamentale nel percorso evolutivo dello scultore»,48 deve leggersi semmai come un punto di arrivo.49 VI.3.2 Il ritorno al passato. Il rapporto tra Rinaldo Bonanno e Antonello Gagini. La riflessione che il marmo di Taurianova non possa reputarsi uno “snodo” nella carriera bonanniana trova conferma anche nel fatto che, l’indomani della sua esecuzione, Rinaldo cambia repentinamente faccia, con un’evidenza tale che per tutte (o quasi) le opere licenziate da questo momento in poi sino alla morte si può puntualmente individuare un prototipo gaginiano, da lui seguito talora alla lettera. Fra queste opere s’inseriscono ben quattro immagini mariane completate tra il 1584 ed il 1589, per le quali si ravvisano rispondenze precise con esemplari dei primi anni d’attività di Antonello. Trattasi della Madonna dell’Isodia custodita nella Cattedrale di Bova (firmata e datata 1584, fig. 103), impressionante replica, fin nei 48 Ibidem, p. 304. Per F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento cit., p. 185, la fonte figurativa deve identificarsi con la Madonna della Neve di Vibo Valentia (Cattedrale di Santa Maria Maggiore e San Leoluca), secondo lui da ascrivere ad Annibale Caccavello, e che invece Riccardo Naldi (Giovanni da Nola, Annibale Caccavello, Giovan Domenico D’Auria. Sculture ‘ritrovate’ tra Napoli e Terra di Lavoro, Università degli Studi di Napoli l’Orientale, Dipartimento di Filosofia e Politica, Electa Napoli, Napoli 2007, p. 104, figg. 166-122) ha ricondotto all’attività di Giovandomenico d’Auria. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 306-307, nella scheda dedicata alla Madonna del Soccorso custodita a Taurianova, ha ricordato come il precedente tipologico per la figura bonanniana sia l’analoga immagine mariana compiuta da Girolamo Santacroce per l’Altare Del Pezzo nella chiesa partenopea di Santa Maria di Monteoliveto (1524); ella, inoltre, è ritornata sulla tesi sostenuta dal Negri Arnoldi in merito alla derivazione iconografica del marmo di Taurianova dalla Madonna delle Neve di Monteleone, immaginando addirittura che Rinaldo si sia recato personalmente in Calabria per vedere quell’opera (d’altronde, secondo la studiosa, a Monteleone il messinese dovette andare certamente, «vista la stretta somiglianza tra la Maddalena di Antonello Gagini e l’analoga figura bonanniana di Seminara, che egli imita in modo così profondo quale difficilmente potrebbe spiegarsi con la circolazione di disegni»). 49 274 più minuti dettagli d’ornato della veste e dei capelli del Bambino,50 della cosiddetta Madonna della Lica o dell’Alìca che la bottega antonelliana spedì intorno al 1506 a Pietrapennata di Palizzi (RC, fig. 104); delle due Vergini, anch’esse compiute per altrettante località del reggino, vale a dire Vito Inferiore (firmata e datata 1587, fig. 101) e Podargoni (RC, documentata al 1589, fig. 105),51 ed esemplate sulle statue, di analogo soggetto, che il Gagini aveva realizzato per Palermo e Corleone, nello specifico la Madonna della Scala (1503, fig. 106) conservata nella sacrestia del Duomo di quella città, e l’altra (anch’essa 1503, fig. 102) attualmente trasferita nella Galleria Regionale ma proveniente dalla chiesa corleonese del monastero della Maddalena.52 Infine, l’unica Vergine, in questo gruppo, realizzata per la Sicilia: commissionata nel 1575 ma consegnata soltanto nell’86, nella Madonna delle Grazie di Ficarra (ME, fig. 107) Bonanno ripropose il modello di quella che a tutt’oggi deve ritenersi la prima scultura, raffigurante la Vergine, eseguita da Antonello Gagini, vale a dire quella ancora oggi ospitata nella Chiesa Madre del casale messinese di Bordonaro (fig. 108).53 Nel caso specifico, Rinaldo recuperò addirittura una tipologia risalente al 1498, ripetendone l’impostazione, così staticamente assiale, ma anche il rigido andamento del panneggio, dalle pieghe taglienti e affilate come mai s’era visto prima nei suoi lavori. Sebbene nel rogito relativo alla Madonna di Ficarra non vi sia alcuna indicazione in tal senso, è difficile pensare che dietro ad una tale palese imitazione non risieda un’espressa richiesta della committenza, la quale potrebbe essere intervenuta anche nel caso dell’Isodia di Bova. Identica supposizione potrebbe farsi per la Maddalena, firmata dal siciliano, e custodita a Seminara (RC) nella chiesa della Madonna dei Poveri (fig. 109), simile per tipologia e iconografia alla figura che il Gagini aveva compiuto allo scadere degli anni venti del Cinquecento per la chiesa di San Leoluca a Monteleone (attuale Vibo Valentia, fig. 110).54 Nella Vergine inviata a Oppido Mamertina (chiesa di Santa Maria Assunta, fig. 97), opportunamente restituita alla responsabilità bonanniana da Alessandra Migliorato,55 egli dovette invece mutuare l’esempio della Madonna di Taurianova (la datazione, infatti, sarebbe di poco posteriore all’82), aggiungendovi però un’aura di austerità che rende questo marmo quasi classico nella sua astrazione e nell’inespressività del volto. Anche questo Bambino, come quello di Taurianova, protende una delle due gambe verso l’esterno, dando perciò un senso di moto cui l’artista non era affatto estraneo; la 50 Ibidem, pp. 314-318. Ibidem, pp. 318-319 e 322-323. 52 Per il marmo di Ficarra cfr. la scheda n. 11; per il modello di Antonello Gagini si veda H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., p. 386, figg. 9-10 e p. 102, figg. 11-12. 53 Ibidem, pp. 369 e 441, fig. 4. 54 Per queste due sculture si vedano rispettivamente: M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 312-313; e H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 423-424 e 486-487, doc. CIII, figg. 342343. 55 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 300-301. 51 275 visuale laterale sinistra svela effettivamente la bella serpentina compiuta dall’anca sporgente e dalla conseguente ondulazione del drappeggio, ma il punto di vista centrale in un certo senso delude, perché mostra un’opera estremamente rigida e avvolta in quelle secche pieghe che dalla vita scendono, con una forma a cannula, fino ai piedi (figg. 97-98). Senza trascurare il dettaglio della larga falda del mantello che, ricadendo al di sopra del ginocchio, vi rimane appollaiata con un’innaturalezza tale da potersi assimilare solamente all’analogo particolare del panneggio che, nella Madonna di Petilia Policastro, si affastella all’altezza della vita, generando una serie di grosse e pastose pieghe altrettanto ricercate (fig. 48). A completare la disamina delle sculture bonanniane, si aggiunge la piccola Vergine a mezzo busto posta nella facciata della chiesa dedicata a Santa Maria dei Giardini nel casale messinese di Santa Stefano Medio (fig. 93), assegnata dalla De Marco alla bottega calamecchiana, e qui invece ricondotta all’attività di Rinaldo sulla metà degli anni ottanta,56 proponendo il diretto parallelo con la statua, di analogo soggetto, custodita ad Oppido Mamertina; ed infine la Santa Lucia, richiesta pervenuta al maestro il 16 febbraio 1589 dalla confraternita della Beata Vergine Maria di Fiumedinisi (ME, fig. 111), che in prima istanza si era affidata ad Andrea Calamecca.57 Venuto però nel frattempo a mancare l’anziano maestro, si presentò la necessità di sostituirlo nel più breve tempo possibile, e così il raccuiese fu chiamato in causa dopo pochi giorni dalla scomparsa del suocero (che il 5 febbraio dello stesso ’89 dettò il testamento). Nel febbraio successivo, all’età di soli quarantacinque anni, anche Bonanno moriva, e pertanto la Santa Lucia è la sua ultima fatica: egli si confrontava con il legno, scolpendo, per questa Santa vergine e martire, un’immagine ritagliata sulle tante analoghe che aveva confezionato il solito Antonello Gagini, e tra le quali si possono annoverare le autografe Sante Oliva (1511 circa, Alcamo, chiesa omonima, fig. 112), e Lucia (1526 circa, Siracusa, Duomo, fig. 113).58 La carriera di Rinaldo, insomma, inauguratasi con il traboccante michelangiolismo delle primissime prove, e continuata, sebbene più pacatamente, sulla scia manieristica, si chiudeva con l’ennesimo ritorno al Gagini, indiscusso dominatore della scultura siciliana. 56 Cfr. la scheda n. 10. Cfr. la scheda n. 12. 58 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini cit., pp. 367, 418-419 e 491-92, doc. CXIV, figg. 322-323 e 328329. 57 276 VI.4 SCHEDE 277 1. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Giovane con anfora 1563 circa Marmo Altezza 138 cm Messina, Museo Regionale (da Piazza San Sebastiano) Questa figura di giovane che sostiene sulla spalla destra un’anfora (figg. 1, 2, 4), frammento scultoreo destinato ad una fontana di già menzionata da Vasari fra i lavori eseguiti a Messina da Giovann’Angelo Montorsoli,59 è stata per la prima volta ricondotta all’attività di Rinaldo Bonanno da Francesco Susinno nella Vita da questi dedicata al maestro nativo di Raccuia (ME).60 La forte matrice montorsoliana che caratterizza il manufatto, opportunamente rilevata dallo studioso, non fece desistere quest’ultimo dall’attribuzione al Bonanno, dal momento che, a suo parere, in questa circostanza Rinaldo aveva imitato talmente bene i modi espressivi del fiorentino da generare confusione tra le rispettive maniere.61 Pur tuttavia, è probabile che il Susinno fondasse la propria ipotesi attributiva anche sulle notizie fornite nel 1606 da Giuseppe Buonfiglio e Costanzo, il quale, segnalando la presenza di una fontana nei pressi del monastero di Santa Caterina Valverde (nell’attuale Piazza San Sebastiano), riportò, oltre alla data (1563) iscritta nella cornice del marmo, i nomi dei cinque senatori committenti.62 59 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, pp. 617-618, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it, pp. 619-620: «…e vi fece di sua mano un putto di marmo grande che versa in un vaso molto adorno e benissimo accomodato, che fu tenuta bell’opera…». 60 F. SUSINNO, Le vite dei pittori messinesi e degli altri che fiorirono in Messina, ms. 1724, testo, introduzione e note bibliografiche a cura di V. MARTINELLI, Felice Le Monnier, Firenze 1724, pp. 90-93. 61 Ibidem, p. 92: «Vedesi altra fontana a S. Caterina Valverde, di una architettura toscana, con suo basamento e colonne con capitelli, fregio e cornice con second’ordine, con in mezzo i nomi dei senatori che l’hanno comandata. In questa si scorge accomodata una figura di un giovane ignudo in piè, di marmo di sette palmi in circa, con in spalla un gran vaso. Può dirsi una bella statua di tondo rilievo, perché tutta traforata, così nelle braccia come nelle gambe; le sole spalle sono attaccate alla tavola del marmo. È così morbido e carnoso questo lavoro che par di mano di fra Giovanni Agnolo, per la tanta somiglianza alla quale giunse Rinaldo nell’imitare quell’eccellentissimo artefice fiorentino. Diè con ciò a divedere come sapesse maneggiare i ferri; bastando di lui sol dire che arrivò ad avvivare i marmi con farli divenire figure che spirano; e non esser stato favoloso che Deucalione cangiasse i macigni al par di esso». 62 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, p. 20: «…et nello spuntone delle due vie, delle quali a man destra si va a Santa Caterina di Valverde, si vede al dirimpetto l’altro fonte con lettere di sù intagliate in tavola di marmo di questo tenore: NICOLAO SOLLIMA, D. THOMASIO MARULLO, D. BARTHOLOMÆO SPATHAFORIO, ANTONELLO ACCIARELLO, D. FRANCISCO SACCANO, MATTHÆO CASALAYNA. P. G. S. P. Q. M. MDLXIII». Effettivamente i senatori che 278 Come infatti Francesco Susinno sapeva, il 1563 non poteva conciliarsi con la permanenza in città del Montorsoli,63 il quale doveva, per forza di cose, escludersi dal novero dei probabili responsabili dell’opera. La tesi bonanniana è stata d’altronde quella che, nel corso del tempo, ha riscosso i maggiori consensi,64 venendosi ad assestare anche grazie al recente contributo di Alessandra Migliorato, la quale per la prima volta ha tentato di restituire a questa statua un verosimile contesto culturale d’appartenenza.65 Va riconosciuto alla studiosa il tentativo di ampliamento del ventaglio delle possibili fonti figurative da ritenere valide per la scultura oggi custodita nel Museo Regionale della città peloritana. La sua proposta di confronto con il celebre bozzetto in cera (fig. 3) da riconnettere ad un’idea di Michelangelo giovane per una figura in cui alcuni riconoscono il perduto Ercole compiuto entro il 1495, e che invece secondo altri è da identificare con il David marmoreo di poco successivo,66 compaiono nell’iscrizione ricordata dal Buonfiglio ricoprirono tale carica nell’anno 1561-62 (cfr. G. GALLUPPI DI PANCALDO, Nobiliario della città di Messina, F. Giannini editore, Napoli 1877, p. 341). Tra i cinque uomini politici responsabili della commissione della fonte al Bonanno, Francesco Saccano è lo stesso che il 31 agosto del 1569 si rivolse nuovamente al medesimo scultore chiedendogli l’esecuzione di uno scudo marmoreo (cfr. la carta d’archivio, trascritta da Domenico Puzzolo Sigillo, e sunteggiata da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [129, doc. n. 6]). 63 Egli rientrò definitivamente in Toscana nel 1557, come ricordò anche Vasari (Vite de’ più eccellenti pittori cit., p. 403). 64 P. SAMPERI, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio, Giacomo Matthei, Messina 1644, p. 623; C. LA FARINA, Messina e i suoi monumenti, Stamperia G. Fiumara, Messina 1840, p. 40; G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia” Palermo 1880-84, I, p. 804: «una bella fonte in Piazza di San Sebastiano, con la figura forse d’un Ganimede, ma assai sciupata dagli anni»; E. MAUCERI, Il Museo Nazionale di Messina, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Belle Arti – Le guide dei musei italiani, La Libreria dello Stato, Roma 1929, p. 82, con l’indicazione generica “scuola del Montorsoli”; M. ACCASCINA, Tre inediti di Rinaldo Bonanno, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», XLVIII-XLIX, 1965, pp. 80-81; G. CONSOLI, Messina, Museo Regionale, Calderini, Bologna 1980, pp. 94-95, fig. 273; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, p. 70; F. ZERI, F. CAMPAGNA CICALA, Messina. Museo Regionale, Novecento, Libreria dello Stato, Palermo 1992, p. 101; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 106, fig. 132; F. ABBATE, Intorno alla Natività di Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 114, che però riporta la data errata del 1561. L’unica voce fuori dal coro, che ha fortemente dubitato dell’autografia bonanniana di quest’opera, è B. SACCONE, Rinaldo Bonanno cit., pp. 117-180 [113], secondo la quale Rinaldo (all’epoca quasi diciannovenne) era ancora troppo giovane. La studiosa era peraltro convinta che la fonte fosse andata dispersa. 65 A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 120-121, fig. 2; EADEM, La produzione scultorea di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina, in «Messenion d’oro. Trimestrale di cultura e d’informazione», 12, 2007, pp. 17-37 [27-28], fig. 21. 66 Il primo a sostenere con forza il diretto collegamento tra questo modello in cera e il colossale Ercole compiuto tra il 1492 ed il 1494 da Michelangelo, verosimilmente per i Medici, fu C. DE TOLNAY, L’Hercules de Michel-Ange à Fontainebleau, in «Gazette des Beaux Arts», LXI, lugliodicembre 1964, pp. 125-140. Lo studioso infatti aveva rinvenuto, nel Gabinetto dei Disegni del 279 porta dritto alla comprensione di questi primissimi anni di attività dello scultore siciliano. Ciò nondimeno, è necessaria una parziale eppur determinante rettifica alla disamina della Migliorato. L’evidente marca michelangiolesca esibita dal frammento messinese, che trova nel bozzetto di Casa Buonarroti un perfetto riferimento figurativo, è stata motivata dalla studiosa o con la conoscenza, da parte di Rinaldo, di un disegno del Montorsoli (cui egli si sarebbe «attenuto scrupolosamente»), oppure con il preliminare intervento dell’allievo di questi, Martino Montanini, il quale, sempre secondo la Migliorato, avrebbe sbozzato il marmo, lasciandolo poi al Bonanno per il completamento.67 Insomma, il quadro che emerge da questa ricostruzione è che il raccuiese sia stato coinvolto soltanto in una fase avanzata del lavoro, la cui invenzione deve certamente ricondursi allo stretto entourage montorsoliano. Ciò che, al contrario, s’intende proporre in questa sede è non soltanto la piena e autonoma responsabilità bonanniana dell’opera, ma anche, e soprattutto, la diretta conoscenza, da parte del suo autore, dei manufatti del Buonarroti, ammirati e studiati con zelo durante quello che ormai deve ritenersi un più che verosimile viaggio di studio in Toscana da collocarsi proprio negli anni a cavallo tra il 1561 ed il 1563. Infatti, quella che alla Migliorato sembrava una sporadica, anzi unica incursione (operata attraverso il filtro montorsoliano) del Bonanno nella plastica buonarrotiana, precede di poco la Natività (1569, fig. 5),68 che concentra in sé una quantità di prelievi michelangioleschi tale da potersi spiegare soltanto ipotizzando una frequentazione diretta del siciliano con quei modelli (figg. 10-18). Che Rinaldo si sia recato in Toscana a prendere diretta visione di quanto, nel campo delle arti figurative, si produceva nella terra d’origine della grande maggioranza degli scultori che, nel corso del Cinquecento, erano giunti a Messina, non è solo un’ipotesi credibile; è anche, in un certo senso, quella più verosimile, per un Louvre, un disegno, in quell’occasione attribuito a Rubens, raffigurante appunto un Ercole, che a suo parere rifletteva l’Ercole marmoreo del Buonarroti: la sua conclusione era perciò che il modellino in cera ancor oggi conservato in Casa Buonarroti fosse un probabile modello per l’Ercole michelangiolesco, o un calco coevo tratto dall’originale. Per il celebre marmo di Michelangelo, donato nel 1529 da Filippo il Giovane Strozzi a Francesco I, passato quindi a Fontainebleau, infine forse distrutto nel 1713, per un utile sunto dello stato degli studi e per una nuova fonte documentaria che lo riguarda direttamente, si veda F. CAGLIOTI, Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, Olschki, Firenze 2000, pp. 262-265. 67 A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi cit., p. 11: «…seppure sia da assegnare al Bonanno la responsabilità esecutiva, è probabile che egli, ancora molto giovane, si sia attenuto scrupolosamente ad un disegno del Montorsoli, o che il marmo sia stato già sbozzato in bottega dal Montanini prima della sua partenza. A suffragare questa ipotesi va detto che il modello adottato riprende alla lettera un bozzetto in cera di Michelangelo, conservato a Firenze in casa Buonarroti, modello che Montorsoli doveva conoscere di persona, ma certamente non il messinese, almeno a quelle date». 68 Il pregevole manufatto marmoreo, oggi custodito nel Museo Regionale di Messina, fu commissionato dal barone di Ucria Gabriele Abbate per la cappella di famiglia eretta nella chiesa di Sant’Agostino. L’atto notarile relativo a quest’opera, rintracciato da Domenico Puzzolo Sigillo, è stato pubblicato dopo molti anni, seppure non integralmente, da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno cit., pp. 117-180 [118, 129, doc. n. 4, fig. 5]. 280 maestro che aveva dimostrato le proprie qualità già durante il breve periodo di apprendistato presso la bottega del Montanini. Anzi, la considerazione che Martino lasciò la città dello Stretto nel 1561,69 e che la “piazza” messinese a quel punto fosse rimasta priva di uno scultore di riferimento, potrebbe addirittura far pensare ad una partenza del sedicenne Bonanno alla volta di Firenze assieme allo stesso Montanini. 69 Un documento rintracciato e trascritto da Domenico Puzzolo Sigillo testimonia che il 15 ottobre 1561 Martino Montanini rinunciò alla carica di capomastro scultore del Duomo detenuta da quando, nel 1557, il maestro Montorsoli aveva lasciato Messina per tornare alla volta della Toscana (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [124-125]). 281 2. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Natività 1569 Marmo Altezza 122 cm, larghezza 101 cm Messina, Museo Regionale (da Sant’Agostino) L’attribuzione a Rinaldo Bonanno di questa pregevole pala marmorea, sebbene fosse stata di già avanzata dallo storico gesuita Placido Samperi nell’opera scritta alla metà del Cinquecento e pubblicata postuma un secolo più tardi,70 ha subito una brusca frenata d’arresto a seguito della decisa espunzione dal catalogo di questo artista operata da Gioacchino di Marzo allo scadere del XIX secolo. L’abate palermitano, autore dell’ancor oggi, per certi aspetti, fondamentale fatica letteraria sull’arte scultorea del Rinascimento in Sicilia, rigettava infatti perentoriamente l’opinione del Samperi, stranito anche dalla mancata segnalazione della statua da parte di Giuseppe Buonfiglio e Costanzo; contemporaneamente, egli ne evidenziava il «fare alquanto michelangiolesco», lasciando intendere che, a suo parere, il manufatto doveva risalire ad un’epoca più tarda.71 Il giudizio del Di Marzo influenzò successivamente il più insigne storico dell’arte siciliano nella prima metà del Novecento, vale a dire Stefano Bottari, il quale rifiutò la responsabilità bonanniana della Natività con la stessa decisione con la quale sostenne, invece, la propria personale ascrizione al medesimo scultore di un marmo di difficile lettura, sulla quale ancora oggi la storiografia rivela alcune non trascurabili perplessità.72 70 Messana S.P.Q.R. regumque decreto nobilis exemplaris et Regni Siciliae caput duodecim titulis illustrata opus posthumum r.p. Placidi Samperii Messanensis Societatis Jesu in duo volumina distributum augustissimae magnae dominae Deiparae Virgini a sacris literis dicatum, ms. 1653-54, typis rev. cam. archiep. d. Placidi Grillo, Messanae 1742, I, p. 623, n. 293, II, p. 550, n. 297. Lo stesso autore, nella precedente opera Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio, Giacomo Matthei, Messina 1644, p. 242, pur ricordando la tavola e la cappella nella quale essa era conservata, non aveva espresso alcun giudizio in merito al suo probabile autore: «nella cappella della parte destra si vede il Parto della Beata Vergine marmoreo di mezzo rilievo, scolpito molto artificiosamente, et è dell’antico casato degli Abbati». Cfr. anche A. BUSACCA, Guida per la città di Messina, Tipografia del Commercio, Messina 1873, p. 38: «Sull’altare della cappella della famiglia Abate vi è una tavola di marmo scolpita a tutto rilievo la Natività del Signore, lavoro squisito di Rinaldo Bonanno messinese, eseguito nel 1670 (sic). Un pastore nudo è scolpito con tutto il magistero dell’arte. La figura degli angeli è bellissima. Ai lati della cappella vi sono due mausolei di belle forme». 71 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del “Giornale di Sicilia” Palermo 1880-84, I, pp. 804-805. 72 S. BOTTARI, Nota sul Busto di F. Maurolico e su Rinaldo Bonanno, in «Archivio storico messinese», XXXIII-XXXV, 1933, pp. 125-135 [128]. L’opera in questione è il busto del celebre umanista messinese Francesco Maurolico, morto nel 1575. Il monumento funebre, di cui il busto 282 Mancava veramente poco perché la validità del giudizio del Samperi trovasse finalmente riscontro, assestandosi definitivamente, in una preziosa carta d’archivio rintracciata dall’infaticabile Domenico Puzzolo Sigillo, e di cui lo studioso nel 1938 forniva un sunto.73 Dalla lettura, seppur frammentaria, di questo documento, si evince che il 9 agosto 1569 il Bonanno si impegnava con il barone di Ucria Gabriele Abbate «…ad laborandum et sculpendum quoddam sepulchrum eius persone marmoreum petre albe ut dicitur ad menzo relevo et quoddam Presepium sive Nativitatem Domini marmoream iuxta desinnum…», da destinare alla cappella di famiglia all’interno della chiesa messinese di Sant’Agostino.74 Tra le voci bibliografiche che, a vario titolo, dalla seconda metà del secolo scorso fino ai nostri giorni, si sono occupate dell’altorilievo, compare anche Francesco Abbate, che preme qui ricordare per l’inedita e, a parer mio, quanto mai fuorviante, lettura stilistica dell’opera nella quale lo studioso si è avventurato con grande determinazione.75 Rispetto infatti alla tesi, sostenuta concordemente dalla restante storiografia,76 dell’inquadramento della Natività entro la cultura montorsoliana, Abbate ha proposto un dirottamento «…verso ben altri lidi, verso faceva parte, era stato eretto nella chiesa di San Giovanni di Malta, ma è stato distrutto dal terremoto abbattutosi in città nel 1908. Le uniche riproduzioni del sepolcro risalgono al periodo anteriore al sisma, e documentano la collocazione del ritratto del Maurolico entro una nicchia, incorniciata da paraste, e sovrastante un’iscrizione che sembra posticcia; al di sotto vi è un semplice sarcofago a sua volta retto da un piccolo basamento cui si aggiungono alcuni elementi (due zampe leonine e un dado marmoreo su cui è incisa la testa di un cherubino) che sembrano il frutto di un tardivo assemblaggio di pezzi erratici provenienti da altri contesti. Attualmente il busto è custodito presso il Museo Regionale di Messina, ma è difficile sostenerne l’autografia bonanniana (fig. 14). 73 D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte per la Calabria in atti notarili messinesi e lo ignoto scultore sincrono Giuseppe Bottone rivelato (con documenti inediti), in Omaggio degli Archivi Provinciali di Stato al comm. A. Tripodi consultore capo. Studi storici e artistici, Casa Editrice Tipografica Teramana del cav. Luigi d’Ignazio, Teramo 1938, pp. 107-142 [115-116], n. 1. Il Puzzolo Sigillo, in questa stessa sede, annunciava la pubblicazione di un ricco contributo su Rinaldo Bonanno, che però non vide mai la luce. Qualche tempo dopo, i documenti da lui trascritti dai volumi dei banchi dell’Archivio di Stato messinese furono pubblicati da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [113-138]. 74 Ibidem, pp. 118, 129, doc. n. 4, fig. 5. 75 F. ABBATE, Intorno alla Natività di Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 113-118. 76 Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, pp. 354, 358, segnalò che, fra le molte opere ricoverate nel periodo immediatamente successivo al sisma nella chiesa di Santa Maria Alemanna, risultava anche la nostra tavola. Pur facendo il nome del Bonanno, si è riportata la datazione errata del 1670; G. CONSOLI, Messina, Museo Regionale, Calderini, Bologna 1980, p. 94, fig. 274; M. P. DI DARIO GUIDA, La Calabria del XVI secolo, in Itinerari per la Calabria, collana Itinerari de “l’Espresso”, 13, Roma-Vicenza 1983, p. 202; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, pp. 70-71, figg. 47-48; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 105, fig. 131; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 57; EADEM, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 121-122. 283 Napoli precisamente. E, per di più, verso la Napoli scultorea del primo Cinquecento, verso Ordoñéz e Santacroce».77 Le affinità che il manufatto siciliano condivide con vari esempi prodotti nella capitale del Viceregno entro la forbice temporale compresa tra il secondo decennio e gli anni sessanta del secolo XVI sono così evidenti che, a detta dello studioso, possono motivarsi solamente ammettendo un soggiorno di Rinaldo a Napoli databile tra il 1567 ed il 1569. Il messinese insomma, che nella città dello Stretto iniziava a muovere i primi passi (1559) entro l’entourage montorsoliano, e al quale quella medesima “piazza” offriva anche largamente l’occasione di aggiornarsi sui nuovi sviluppi dell’arte scultorea colà degnamente rappresentati dai lavori che lo stesso Giovann’Angelo vi aveva lasciato, si sarebbe recato a Napoli, dove sarebbe «rimasto folgorato…dall’eccellenza della scultura di primo Cinquecento».78 Come vedremo, sono ben altri i “lidi” verso cui si dirigerà il Bonanno. La ricostruzione abbatiana di questa prima fase dell’attività dello scultore nativo di Raccuia risulta poi ancor meno chiara e convincente a causa della fin troppo varia e per certi aspetti discordante messe di “modelli”, la conoscenza dei quali, secondo lo studioso, avrebbe consentito al maestro, appena rientrato in città, di dar vita a questo marmo che evidentemente Abbate, sebbene non lo espliciti, percepisce come una sorta di unicum nel catalogo bonanniano. Lo studioso infatti ha chiamato in causa per primi, come si è visto, Bartolomè Ordoñéz e Girolamo Santacroce, poi Giovanni da Nola, infine Annibale Caccavello; anzi, è proprio la presunta conoscenza dell’opera caccavelliana a spingere Abbate ad immaginare che Rinaldo possa essersi fermato, lungo la strada per Napoli, in Calabria (come se il messinese non potesse accontentarsi delle tante sculture compiute dal partenopeo per la propria città, ma avesse addirittura avvertito l’esigenza di scovare le poche spedite dalla bottega nella provincia calabra). Ora, l’orizzonte culturale verso il quale il siciliano si orientò, imprescindibile punto di partenza per la comprensione delle sue primissime prove, non fu, al contrario di quanto asserito da Francesco Abbate, Napoli, ma la Toscana. Quella stessa Toscana che, nel breve volgere di tre decenni (dal 1535 al 1565), aveva “consegnato” alla città peloritana Domenico Calamecca, Giovann’Angelo Montorsoli, Martino Montanini, Paolo Tasso, Andrea Calamecca, solo per citare i più noti, nonché quelli i cui nomi più di frequente ricorrono nelle carte d’archivio di quest’epoca. Sembra pertanto, se non scontato, quanto meno comprensibile che il poco più che quattordicenne ma di già promettente Rinaldo, affidato dal padre, per un periodo di apprendistato, a Martino Montanini,79 avesse deciso di recarsi nella 77 F. ABBATE, Intorno alla Natività di Rinaldo Bonanno cit., pp. 114-115. Ivi. 79 Si tratta dell’allievo che Montorsoli portò con sé da Genova. Il solito Puzzolo Sigillo aveva trascritto una carta d’archivio datata 2 gennaio 1559 la quale attestava che «Petrus Bonanno de terra Raccudie» lasciava il proprio figlio Rinaldo «etatis annorum quatordecim vel circa» in qualità di apprendista presso la bottega di Martino Montanini per un periodo di cinque anni (cfr. D. 78 284 terra dalla quale erano provenuti e continuavano a provenire anche ai suoi giorni i maestri da lui stesso inizialmente studiati a casa propria.80 Il messinese compì dunque il salto di qualità: non si limitò, come la storiografia ha sostenuto sino a questo momento, a quanto di Michelangelo e della sua possente e dinamica plastica era giunto, filtrato, in città, attraverso il Montorsoli, ma puntò a Michelangelo stesso. La serie di confronti che qui si propone, riguardanti per lo più la produzione grafica del Buonarroti, vuole giustappunto porsi come la testimonianza più lampante della tesi della giovanile, tanto rapida quanto effimera, folgorazione bonanniana per Michelangelo. Nei due pastori collocati a destra in primo piano, i cui volumi paiono per un verso fuoriuscire dalla materia, sebbene per altri siano ancora in essa intrappolati, e le cui ostentate e nervose masse muscolari sono interessate da forti e contrastati trapassi chiaroscurali (là dove Abbate vedeva un chiaro rimando a Ordoñéz), s’intravvedono alcuni dei più celebri studi michelangioleschi per la Battaglia di Cascina (in due occorrenze) e per la volta della Cappella Sistina (figg. 10, 13, 14-16); la serpentina tracciata dalla Vergine, che non è seduta a terra, com’è usuale in composizioni di analogo soggetto, ma non è neanche raffigurata in piedi, connotata perciò da una posizione decisamente innaturale, sembra il frutto dell’unione tra due diverse immagini mariane del Buonarroti, quella raffigurata in un disegno del 1505 circa, parte di una più ampia rappresentazione che prevedeva anche Sant’Anna e il Bambino, e la Madonna del Tondo Doni, dalla quale Bonanno dovette trarre anche l’idea del contrapposto manifesto nella dinamica posa della donna che, pur guardando il Figlio davanti a sé, inarca le braccia giunte all’indietro (figg. 11-12);81 il pastore dal viso tondo, e dalla folta e riccia capigliatura che nasconde in parte la fronte, la quale risulta così essere molto bassa e stretta, trova in almeno due analoghe figure buonarrotiane PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., p. 107-142 [115], n. 1; B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [117, 128, doc. n. 1]). Com’è noto però, il Montanini dopo due anni rientrò definitivamente in Toscana, morendovi l’anno successivo. Stando così le cose, potrebbe addirittura azzardarsi l’idea che il giovane Rinaldo fosse giunto proprio in questi anni a Firenze al seguito del suo primo maestro. D’altronde, tra il 1559 ed il 1565, si nota un buco documentario nella biografia dello scultore che bene potrebbe conciliarsi con una sua effettiva assenza dalla città dello Stretto. Bonanno potrebbe dunque aver trascorso anche un periodo piuttosto lungo lontano da casa, rientrandovi comunque entro il 1563, data che compariva nell’iscrizione incisa nella fontana un tempo eretta in Piazza San Sebastiano, e della quale rimane, custodito nel Museo Regionale di Messina, il Giovane con anfora che la maggioranza della storiografia gli attribuisce, e che anche in questa sede viene accolta senza indugio (cfr. la scheda n. 1). 80 Per uno sguardo d’insieme sulla massiccia presenza, non solo a Messina, ma invero in tutta la Sicilia, di scultori e lapicidi toscani, cfr. anche C. KLAPISCH-ZUBER, Carrara e i maestri del marmo (1300-1600), Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, Modena 1973, e N. ARICÒ, La diaspora dei carraresi in un censimento del tempo di Alberico I. Sulla diffusione dei linguaggi decorativi nell’architettura del Cinquecento, in «Rassegna di architettura e urbanistica», 94, 1999, pp. 7-16. 81 In essa Abbate ravvisava tangenze con gli esempi di Giovanni da Nola (Intorno alla Natività di Rinaldo Bonanno cit., pp. 114-115). 285 validi riscontri tipologici: l’Angelo reggicandelabro eseguito tra il 1494 ed il 1495 per l’Arca di San Domenico nell’omonima basilica bolognese, e un Fanciullo arciere, di recente restituito al giovane Michelangelo (secondo Abbate il riferimento per questo personaggio è Annibale Caccavello).82 Vi è però ancora un ultimo punto, individuato sempre da Abbate, sul quale è bene soffermarsi: al di là dei già citati e generici rimandi a Ordoñéz, al Nolano e al Caccavello, egli si è imbattuto nella Natività compiuta allo scadere degli anni venti del XVI secolo da Girolamo Santacroce per la chiesa napoletana di Santa Maria la Nova. Ebbene, lo studioso ha ravvisato nel «gruppo divino e nella scena dell’annuncio angelico sullo sfondo» dell’altorilievo siciliano una «citazione puntuale» proprio dell’analogo manufatto di Santacroce. Direi che la differenza tra i due marmi è talmente profonda, nella loro composizione generale e nell’impostazione dei personaggi, da farci comprendere anche i diversi se non addirittura opposti approcci dei due maestri alla rappresentazione scultorea: nella Natività napoletana la Vergine e San Giuseppe sono raffigurati, secondo l’iconografia classica, inginocchiati in adorazione del Bambino, uno di fronte all’altro, al centro della scena, che inquadra i protagonisti entro un’architettura ben scandita prospetticamente e incorniciata da due eleganti colonne ioniche; ai modesti pastori è riservato il secondo piano della composizione, collocati come sono alle spalle della Madonna, in posizione marginale rispetto alla centralità della Sacra Famiglia; infine, sullo sfondo, oltre al paesaggio e alle mura fortificate di una città, compare una coppia di uomini (pastori?), i quali sembrano aver appena ricevuto l’annuncio della nascita di Cristo dai tre angeli avvolti dalle nubi che lasciano scoperti soltanto i busti. Nella pala bonanniana, invece, identico spazio e importanza sono riservati sia alla Sacra Famiglia che ai pastori: la Vergine e Giuseppe non sono più affrontati, ma disposti uno a fianco all’altro (con la preminenza concessa ovviamente alla Madre), così che lo spazio lasciato vuoto sulla destra della tavola viene interamente occupato dalla presenza dei due nerboruti pastori, i cui corpi sono più consoni a degli atleti in procinto di una gara (uno di loro è completamente nudo, rispettando a pieno il modello michelangiolesco tratto dalla Battaglia di Cascina). Sono proprio questi ultimi personaggi, con le loro esibite anatomie dalle quali traspare una tensione dinamica senza precedenti nella coeva (ma a dire il vero anche nelle successive) produzione marmorea messinese, assieme alle torsioni della Vergine sulla sinistra, a rappresentare il fulcro visivo dell’opera di Rinaldo. Inoltre, la quinta architettonica che fungeva da scena nella Natività di Santacroce, è qui ridotta alle sole colonne vagamente addossate ad un semplice muricciolo e delle quali la parte sommitale è completamente nascosta dalle nubi sulle quali si 82 K. WEIL GARRIS, A marble in Manhattan: the case for Michelangelo, in «The Burlington Magazine», 138, 1996, pp. 644-659; Giovinezza di Michelangelo, catalogo della mostra a cura di K. WEIL-GARRIS BRANDT, C. ACIDINI LUCHINAT, J. DAVID DRAPER, N. PENNY, Firenze, Artificio Skira, Firenze-Milano 1999, pp. 84-97, 300-307. 286 stagliano i vivaci angioletti dalle forme generose e arrotondate, tradotte con un rilievo molto pronunciato, che non hanno nulla che vedere con l’appiattimento delle analoghe figure partenopee. Allo straordinario pittoricismo del Santacroce, insomma, Bonanno ha sostituito un virulento plasticismo di stampo profondamente michelangiolesco, il quale, proprio perché non così distante dal soggiorno fiorentino (il raccuiese doveva ancora tenere ben a mente le tante “primizie” colà ammirate), non si ripropose più (almeno con la stessa forza e immediatezza).83 83 Risulta molto interessante osservare come la Natività bonanniana sia stata presa in considerazione dal pittore napoletano d’origine, ma naturalizzato messinese, Deodato Guinaccia, il quale nel 1580 firmò un dipinto, di identico soggetto, da destinare alla chiesa di Santa Maria di Basicò (oggi nel Museo Regionale, fig. 6). Sinora i riferimenti individuati dalla critica per questa pala erano stati quelli a Polidoro (fig. 7) e a Marco Pino (figg. 8-9). Il primo, secondo Giovanni Previtali, poté avere un ruolo nella formazione del giovane Guinaccia, nel senso che Deodato poté frequentarne a Napoli la bottega nei primissimi tempi (si veda G. PREVITALI, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel vicereame, Einaudi, Torino 1978, p. 82 nota 21). Col secondo, invece, il Guinaccia si confrontò più volte nel corso della sua non lunga carriera (è attestato nella città dello Stretto dalla fine degli anni sessanta circa al 1585): un esempio di tale riflessione di Deodato sulle opere del Pino riguarda proprio la medesima Natività, da leggersi in parallelo con le due compiute dal senese per altrettante chiese napoletane (figg. 8-9). Per uno sguardo d’insieme sul Guinaccia, si veda T. PUGLIATTI, Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia Orientale, Electa Napoli, Napoli 1993, pp. 205-239; F. CAMPAGNA CICALA, Riflessi di Marco Pino e Pedro Campaña sull’attività di Deodato Guinaccia: confronti e ipotesi, in La cultura degli arazzi fiamminghi di Marsala tra Fiandre, Spagna e Italia, atti del convegno internazionale, S.T. ASS., Palermo 1988, pp. 109-123. 287 3. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Monumento funebre di Francesco Marchese e Anna Staiti 1572 circa Marmo Basamento: altezza 168 cm, larghezza 364 cm; sarcofago: altezza 158 cm, larghezza 236 cm Messina, Museo Regionale (da Santa Maria di Gesù Inferiore) Iscrizioni: D. O. M. FRANCISCO MARCHISIO SALIMBENII FILIO VIRO OPTIMO ET ANNÆ STAITIÆ CONIUGI EIUS AMANTISSIMÆ GENERE AC VIRTUTE CLARISSIMÆ PRENTIBVS BENEMERENTISSIMIS ANTONIVS MARCHISIVS SCALETTÆ BARO FILIVS PIENTISSIMVS MONVMENTVM HOC POSVIT ANNO MDLXXII VNVS ERAT THALAMVS TVMVLVS DATVR VNVS VTRIQVE. VT CINIS VNVS HIC EST, SIC AMOR VNVS ERAT. Monumento funebre di Antonino Marchese e Antonina Barrese 1572 circa Marmo Basamento: altezza 168 cm, larghezza 364 cm; sarcofago: altezza 158 cm, larghezza 236 cm Messina, Museo Regionale (da Santa Maria di Gesù Inferiore) Iscrizioni: D. O. M. DOMINÆ ANTONINÆ BARRESIÆ DOMINI ANTONII BARRESII MILITELLI VALLIS NOTI BARONIS FILIÆ UXORI AMANTISSIMÆ ET SIBI ANTONINVS MARCHISIVS BARO SCALETTÆ VIR MESTISSIMVS PIETATIS ET AMORIS MONVMENTVM HOC FIERI CVRAVIT ANNO MDLXXII. JVNXIMVS HIC VNA CORPVS COR NOMEN AMOREM. VIXIMVS VNAMINES, CONDIMVR EXANIMES. Un documento rintracciato all’inizio del secolo scorso dall’infaticabile Domenico Puzzolo Sigillo, direttore dell’allora Archivio Provinciale di Messina, ha consentito a Beatrice Saccone nel 1960 di fugare ogni dubbio circa l’intervento diretto, nella realizzazione dei due sepolcri, dello scultore messinese Rinaldo Bonanno (figg. 34-35).84 Infatti, sebbene entrambe le tombe avessero ricevuto, da parte dei 84 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [119 e 131, doc. n. 13, tav. XXXIX, fig. 6]. 288 principali rappresentanti della letteratura periegetica locale, significative menzioni e, in qualche caso, anche dettagliate descrizioni, esse continuavano a rimanere orfane del proprio artefice.85 Soltanto alla fine dell’Ottocento l’erudito palermitano Gioacchino di Marzo, nell’ancor oggi fondamentale opera I Gagini e la scultura in Sicilia, si sbilanciò nell’attribuire i due monumenti al toscano Andrea Calamecca, operoso a Messina dal 1565 fino alla morte, occorsa nel 1589.86 Dal citato atto notarile sappiamo che il 16 ottobre 1572 il «nobilis Renaldus Bonanno scultor lapidum, no[bilis] Joseph Vanelli et Andreas Doro, etiam scultores, […] se obligaverunt […] spettabili don Antonino de Marchisio, baroni terre Scalette, […] laborari et sculpire quandam lapidem marmoream»; lo stesso rogito prescriveva anche che «…ditti Joseph et Andrea […] debent dictam lapidem squadrarla, et dittus nobilis Renaldus sculpire bene et perfecte». La cifra che, a fronte dell’impegno, sarebbe stata corrisposta ai tre maestri ammontava a ventiquattro once, di cui quattordici destinate a Bonanno e le restanti dieci divise equamente fra gli altri due. La lettura del documento non è totalmente risolutiva: ad esempio, in esso si parla soltanto di una «lapidem», la quale potrebbe identificarsi con la lastra marmorea che ancora oggi ospita l’iscrizione commemorativa, oppure con la fronte del sarcofago egregiamente incisa con fini decorazioni. Inoltre, sebbene nella carta d’archivio compaia il nome del committente, in esso non si specifica con precisione quale fosse il lavoro per il quale il barone Antonino Marchese richiedeva i servigi dei tre scultori. A dispetto di queste incertezze, emerge però un dato incontrovertibile: al Bonanno, evidentemente maestro “di figura” di già riconosciuto, veniva affidato l’incarico tecnicamente più oneroso, mentre il compito di «squadrare» il marmo, richiesto al Vanello e al Doro, induce a credere che essi fossero dei semplici scalpellini. Ad Andrea Calamecca, chiamato in causa dal Di Marzo che lo credeva l’autore materiale delle due sepolture, deve invece esserne ricondotto il disegno, così come è espressamente indicato nel medesimo strumento notarile, secondo il quale l’opera doveva essere compiuta «…cum illo designo, modo et forma pro ut ordinabit et eis dicet nobilis Andreas Calamec, caput magister scultorum». Così come l’evidente specularità tecnica e architettonica dei due mausolei porta a ritenere che il progetto approntato dal Calamecca dovesse valere per entrambi; allo stesso modo, un’altrettanto coerente analogia stilistica e formale spinge ad 85 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, p. 10; C. D. GALLO, Apparato agli Annali della città di Messina, capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua formazione fino ai tempi presenti, a cura di G. MOLONIA, G. B. M., Messina 1985, p. 193; G. GROSSO CACOPARDO, Guida della città di Messina scritta dall’autore delle Memorie de’ pittori messinesi, presso Giuseppe Pappalardo, Messina 1826, pp. 97-99. 86 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Palermo 1883-84, I, p. 789. Ma G. LA CORTE CAILLER, Andrea Calamech scultore e architetto del secolo XVI, in «Archivio storico messinese», 1903, p. 150, ricusava l’attribuzione del monumento al Calamecca proposta dal Di Marzo. 289 assegnarne la diretta esecuzione, specie delle parti più propriamente “figurative”, a Rinaldo. In mancanza di ulteriori testimonianze documentarie, spero che i confronti con altri manufatti del messinese siano sufficienti a suffragare tale tesi, sulla quale d’altronde si è trovata concorde anche la bibliografia più recente.87 Viene a delinearsi la vicenda di un’unica commessa, facente capo al nobile Antonino Marchese, che negli stessi anni (i basamenti di entrambe le opere riportano la data 1572) decise di far erigere ben due sepolcri, uno per onorare la memoria dei propri genitori, Francesco Marchese ed Anna Staiti, ed un altro, identico al primo, destinato ad accogliere le sue proprie spoglie e quelle della moglie Antonina Barrese. L’operazione voluta e finanziata dal Marchese, già di per sé particolarmente onerosa per le dimensioni delle tombe, i quali, completi di tutti gli elementi che li componevano in origine, dovevano superare i cinque metri d’altezza, acquista anche significativo rilievo se se ne considera la destinazione, vale a dire la tribuna della chiesa francescana messinese di Santa Maria di Gesù Inferiore. I complessi marmorei dovevano occupare lo spazio liturgicamente più rilevante dell’edificio di culto, giustificando così anche la fortuna storiografica di cui esse hanno goduto,88 ed il loro committente si rivolse ai due più eminenti 87 E. MAUCERI, Il Museo Nazionale di Messina, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Belle Arti – Le guide dei musei italiani, La Libreria dello Stato, Roma 1929, pp. 8283: indicati come “bottega di Andrea Calamech”; G. CONSOLI, Messina, Museo Regionale, Calderini, Bologna 1980, pp. 98-99; M. P. DI DARIO GUIDA M. P., La Calabria del XVI secolo, in Itinerari per la Calabria, collana Itinerari de “l’Espresso”, 13, Roma-Vicenza 1983, p. 202; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, p. 72-73, figg. 51, 53-53a; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 105; A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 119-134 [122]; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 86-87. 88 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima cit., p. 10: «…la tribuna di questo tempio fu di nuovo rifabbricata et ornata con spesa di Antonio di Marchese barone della Scaletta, dove giace sepellito, e nella tavola di marmo sopra il sepolcro si legge intagliato quest’epitafio: ANTONIUS MARCHESIUS SCALETTÆ BARO TRIA HAC UNO, EODEMQUE TEMPORE MONUMENTA EGREGIO APPARATU CONDI JUSSIT. PARENTIBUS EIUS UNUM, SIBI ET UXORI ALTERUM, POSTERIS VERO SUIS TERTIUM HOC VIVENS IPSE DICAVIT. PROVIDENTIA, PIETATIS ET AMORIS ERGO MDLXXII. UT PIUS, UT PRUDENS, UT PROVIDUS ISTA PARENTI, ET SIBI, ET UXORI CONDIDIT; ATQUE SUIS». Da questa terza iscrizione, tramandataci dal solo Buonfiglio, e che, in quanto dispersa, è impossibile verificare, si deduce che Antonino Marchese, ancora in vita, aveva pensato anche ai suoi posteri dedicando una terza “tomba”. Poiché in effetti tutte le fonti successive parlano di due sepolcri (vedi infra), e non ricordano questa terza iscrizione, si potrebbe ipotizzare che nella «tavola di marmo sopra il sepolcro» citata dallo scrittore debba riconoscersi non già un terzo monumento funerario, in tutto simile agli altri due, quanto piuttosto una semplice lastra tombale, corredata di epigrafe, destinata alle spoglie degli eredi del Marchese. C. D. GALLO, Apparato agli Annali della città di Messina cit., p. 193: «nella tribuna vi si veggono due ragguardevoli sepolcri marmorei con statue di singolar manifattura, l’uno della casa Barresi de’ baroni di Noto, e l’altro della casa Marchese dei baroni della Scaletta». 290 rappresentanti, in quel momento, dell’arte scultorea nella città peloritana: il Calamecca, appunto, e il genero Rinaldo Bonanno.89 Le sepolture constano di due basamenti che esibiscono ai lati gli stemmi delle rispettive famiglie (per i genitori di Antonino soltanto quelli dei Marchese, per Antonino e la moglie anche le insegne della casata dei Barrese) e, al centro, le iscrizioni commemorative; questi alti zoccoli reggono due pregevoli sarcofagi che, finemente decorati con protomi leonine, scudi, trofei e testine di cherubini, si animano anche grazie alla presenza, nei lati, di due putti reggiface stanti, e, sui bordi dei coperchi, di un’altra coppia di allegri puttini, muniti di cornucopia (fig. 38, 40). In cima alle arche sono ancora ben visibili le piccole basi rettangolari sulle quali in origine s’innestavano altrettanti bassorilievi di forma ellittica scolpiti al centro con Storie della vita di Gesù; infine, le formelle ellittiche sostenevano a loro volta due sculture allegoriche, a grandezza naturale, raffiguranti la Vittoria e la Fortezza (figg. 40, 46), in origine culmine dei mausolei. Questi ultimi elementi (bassorilievi e Allegorie) non compaiono nelle fotografie scattate al Museo Regionale peloritano qualche tempo fa, nella cui nuova sede, ancora non aperta al pubblico, i sepolcri sono stati nel frattempo allestiti; essi, infatti, soltanto dal 2008 sono stati correttamente restituiti all’arredo delle due Tombe Marchese grazie ad un’attenta rilettura, operata da Giampaolo Chillè,90 della dettagliatissima descrizione fornita nel 1826 dall’erudito locale Giuseppe Grosso Cacopardo, il quale ne ricordava proprio l’originaria collocazione sommitale.91 89 Che Rinaldo si fosse sposato con la figlia di Andrea Calamecca si deduce da una testimonianza archivistica rintracciata dal solito Puzzolo Sigillo e pubblicata da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno cit., pp. 117-180 [133-134, doc. n. 23], nella quale Francesco Calamecca, altro figlio di Andrea, e come questi scultore, veniva definito «sororio» del Bonanno, vale a dire suo cognato. 90 G. CHILLÈ, Il patrimonio scultoreo di età moderna della chiesa di San Francesco all’Immacolata di Messina, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Messina, atti del Convegno di studio, a cura di C. MICELI e A. PASSANTINO, Biblioteca Francescana di Palermo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, pp. 43-58 [55-56]. La medesima ricostruzione proposta da Chillè è stata poco dopo replicata anche da A. MIGLIORATO, in Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. BARBERA, Magika, Messina 2009, nella scheda, compilata dalla studiosa, dedicata proprio a questi pezzi erratici provenienti dalla chiesa di Santa Maria di Gesù Inferiore e ricoverati al Museo. La Migliorato, che in tale occasione ha pubblicato anche una ricostruzione virtuale di uno dei monumenti funebri (nello specifico quello di Antonino Marchese e di Antonina Barrese), non ha stranamente menzionato il precedente contributo di Chillè. Elvira Natoli è invece convinta che tutti e quattro i pezzi (formelle e figure allegoriche) debbano ricondursi all’attività messinese di Martino Montanini: E. NATOLI, Nuove attribuzioni a Martino Montanini, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Messina», 11, 1987, pp. 19-32 [19-23], [28-32]; EADEM, Montanini e Montalto, in Scritti in onore di Alessandro Marabottini, De Luca, Roma 1997, pp. 139-142 [139]; EADEM, Due bassorilievi di Montanini nel Museo Regionale di Messina, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 109-112; EADEM, Martino Montanini e la committenza francescana a Messina, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Messina, atti del Convegno di studio, a cura di C. MICELI e A. PASSANTINO, Biblioteca Francescana di Palermo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, pp. 207-212. 91 G. GROSSO CACOPARDO, Guida della città di Messina cit., pp. 97-99: «…quello che rende singolare questa chiesa sono i due sepolcri fatti innalzare da Antonino Marchese barone della 291 Le formelle, raffiguranti il Miracolo del paralitico (nel monumento MarcheseStaiti, fig. 56) e la Presentazione di Gesù al Tempio (in quello Marchese-Barrese, fig. 55), assieme alla Fortezza e alla Vittoria (fig. 46, 40), costituiscono validi punti di partenza per l’analisi formale delle due opere in oggetto. Essi esibiscono una delle due componenti stilistiche che contraddistingue le sepolture, vale a dire quella più vicina al Calamecca, “creato” di Bartolomeo Ammannati,92 che dal 1561 lo ingaggiò per un aiuto nell’esecuzione della Fontana del Nettuno eretta in Piazza della Signoria a Firenze.93 La frequentazione, da parte di Rinaldo, della bottega messinese allestita da Andrea per esaudire le numerose commesse pervenutegli durante il più che ventennale soggiorno nella città peloritana, pur non suffragata dalla documentazione archivistica, si deduce comunque da alcune testimonianze indirette. Fra queste deve innanzitutto annoverarsi il sodalizio professionale formato dai due e che li vide protagonisti diretti delle medesime imprese scultoree almeno in un altro caso (oltre naturalmente a quello di cui qui si discute): il compimento, nel maggio del 1565, di una coppia di monumenti funerari, commissionati dal nobile messinese Giovanfilippo La Rocca, e destinati alla locale chiesa di San Francesco.94 Anche in questa circostanza, il modello e il disegno cui lo scultore toscano Paolo Tasso e il Bonanno avrebbero dovuto far riferimento era stato fornito dal Calamecca, stavolta coadiuvato dal carrarese Giovandomenico Mazzolo.95 Scaletta alla consorte e a’ suoi genitori: essi sono situati nel coro, uno di rincontro all’altro, tutti di bianchissimo marmo lunense, tutti e due dello stesso disegno. La base serve per contenere l’iscrizione, parto rarissimo dell’abate Maurolico, e le armi gentilizie. Su di essa posa l’urna di gentilissima forma; vi stanno lateralmente due putti in atto mestissimo, e in un profondo dolore concentrati. L’urna è cinta sotto il coperchio da un elegante fregio rappresentante in bassorilievo scudi, elmi, corazze ed altre armi; oltre il descritto fregio l’urna stessa è ornata di bassorilievi ricchi di figure in vari piani disposte: sul coperchio posa una base ellittica anch’essa ripiena di bassirilievi figurati, e sopra questa base s’innalza una statua al naturale di una Virtù». Segue la trascrizione delle due epigrafi e l’identificazione delle quattro scenette scolpite dal Bonanno (due per ciascuno): nella tomba che Antonino fece erigere per sé e per la moglie, il Grosso Cacopardo riconobbe la Discesa di Cristo nel Limbo e la Presentazione di Gesù al Tempio (rispettivamente nella fronte del sarcofago e nella base ellittica su cui s’innalzava la Virtù); la Creazione ed il Miracolo del paralitico risanato ornavano invece il monumento dei genitori del Marchese. 92 Così Giorgio Vasari definisce il Calamecca nella Vita di Bartolomeo Ammannati (cfr. Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, p. 566, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it). 93 H. UTZ, The Labors of Hercules and other works by Vincenzo de’ Rossi, in «The art bulletin», 1971, LVIII/3, pp. 344-366 [p. 362, doc. 2, n. 1]; IDEM, A note on Ammannati’s Apennine and on the chronology of the figures for his Fountain of Neptune, in «The Burlington Magazine», 1973, 115, 842, pp. 295-300 [295]. 94 L’atto notarile è pubblicato da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno cit., pp. 117-180 [117, 128, doc. n. 2]. Vedi anche Appendice documentaria, nn. 1-3. 95 Probabilmente non fu casuale che Rinaldo venisse coinvolto, se pur in minima parte, nell’incarico per le Sepolture La Rocca, per le quali Andrea elaborò il progetto: il Bonanno, infatti, era da poco rientrato da un viaggio in Toscana, dove aveva avuto modo di aggiornarsi sulle novità artistiche, studiando su modelli michelangioleschi ma anche su quelli di Bartolomeo Ammannati (maestro del Calamecca). È dunque verosimile che fu lo stesso Andrea a veicolare la scelta della committenza 292 Figure come le Virtù, concepite da Andrea quale coronamento sommitale dei Sepolcri Marchese, dipendono direttamente, nella tipologia e nell’impostazione, dai tanti analoghi personaggi femminili ideati e portati a compimento da Bartolomeo Ammannati e dalla sua bottega, fra cui si possono ricordare, in particolare, la Vittoria facente parte della Tomba di Mario Nari (1542 circa, già nella chiesa dell’Annunziata, oggi al Museo Nazionale del Bargello); la Fama della Sepoltura di Marco Mantova Benavides agli Eremitani di Padova (metà anni quaranta); l’Atena svettante sul Sepolcro di Fabiano del Monte (entro il 1553, fig. 41) nella chiesa romana di San Pietro in Montorio; la Giunone dell’omonima fontana, conclusa entro il 1563 per la testata sud della Sala dei Cinquecento dell’allora Palazzo Ducale, oggi al Bargello; infine, le allegorie della Pace e della Giustizia ai lati del Monumento di Giovanni Boncompagni (1572 circa) nel Camposanto di Pisa (figg. 44-45). Le quattro scene (due per ogni tomba) rappresentate nei rilievi, rispettivamente collocati nella fronte dei sarcofagi e in cima ai coperchi, se stilisticamente devono riferirsi al siciliano, e a questo riguardo i confronti più parlanti possono istituirsi con la Natività (1569, fig. 5), conservata nello stesso Museo Regionale ma proveniente da Sant’Agostino;96 da un punto di vista strettamente tipologico rimandano invece alle uniche prove scultoree sino a questo momento riconducibili all’attività messinese del Calamecca.97 Trattasi di due pannelli marmorei, oggi custoditi nei depositi del museo (figg. 57-58), ed in origine posti ad ornamento del Monumento funerario del capitano Visconte Cicala (seconda metà anni sessanta), di cui oggi rimangono soltanto pochi frammenti.98 L’attribuzione ad Andrea di quest’opera, destinata alla Cappella Cicala nella chiesa di San Domenico, ha trovato, dal Samperi in poi (1644), largo seguito nella storiografia erudita messinese, ed è stata accettata anche dagli studi recenti.99 La Presentazione di Gesù al Tempio, ad esempio, nella quale i numerosi personaggi sono assiepati entro gli esigui spazi offerti dalla formella, propone inediti paralleli con i Prigionieri turchi in catene raffigurati su uno delle lastre Cicala (figg. 55, 58): colpisce in particolare l’adozione di un rilievo poco pronunciato, che, schiacciando quasi le figure, ne aumenta verso il promettente raccuiese, che, tra l’altro, di lì a poco sarebbe diventato anche suo genero (Rinaldo sposò infatti Veronica, la figlia del carrarese, entro il 1574: cfr. ibidem, p. 132, doc. n. 17). 96 Cfr. la scheda n. 2. 97 Cfr. supra, nota 97. 98 Assieme ai due pannelli, i depositi del Museo Regionale di Messina ospitano cinque formelle quadrangolari rappresentanti le imprese del capitano, tre busti che ritraggono, oltre al già citato Visconte, il fratello cardinale Giovambattista, e Visconte II, duca di Castrogiovanni, nonché nipote del Capitano; infine una mensola raffigurante due galee, legate ovviamente alle molteplici attività marinare del defunto. 99 Per questo monumento, cfr. da ultimo A. MIGLIORATO, Andrea Calamech, formelle del monumento a Visconte Cicala, scheda in La navigazione nel Mediterraneo, catalogo della mostra a cura di M. L. FAMÀ, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione, Dipartimento dei Beni Culturali, Ambientali ed Educazione Permanente, Palermo 2005, pp. 29-32; EADEM, Il monumento a Visconte Cicala, corsaro e imprenditore, in «Karta», 1, 4, 2006, pp. 6-7. 293 considerevolmente il volume, ottenendo pertanto un’impressione di notevole imponenza. Assieme a quella ammannatiana-calamecchiana, la seconda componente culturale che emerge a chiare lettere nelle due Tombe Marchese è quella facente capo a Giovann’Angelo Montorsoli, indiscusso protagonista della produzione scultorea nella città dello Stretto a cavallo del sesto decennio del secolo XVI. La permanenza decennale del toscano, primo e principale latore, a Messina, della moderna cultura manieristica (almeno in scultura), non ha influito soltanto sui locali rappresentanti dell’arte del marmo, ma ha inciso evidentemente anche sull’affermato e aggiornato Calamecca, se quest’ultimo si è rivolto anche ad illustri esempi di Giovann’Angelo per il concepimento delle casse funebri commissionategli da Antonino Marchese. Mi riferisco, in particolar modo, al sarcofago del Monumento di Jacopo Sannazaro (1537-42 circa, fig. 60) compiuto in collaborazione da Montorsoli, Ammannati e Silvio Cosini per la chiesa napoletana di Santa Maria del Parto, e all’analogo manufatto, in un certo senso replica del primo, più tardi eseguito dallo stesso Giovann’Angelo per il Sepolcro di Andrea Doria in San Matteo a Genova (tra il 1543 ed il 1545, fig. 61). A questi due può ancora aggiungersi un terzo modello, quello della Tomba di Bindo Altoviti (1570) a Firenze nella chiesa dei Santi Apostoli, realizzato da Bartolomeo con il largo aiuto della bottega (fig. 36). Tutte e tre queste arche hanno in comune con quelli Marchese i putti, poggiati sui bordi dei coperchi (al Parto), reggenti fiaccole spente (a Firenze e a Genova), nonché al centro lo spazio adibito ad accogliere un diverso elemento scultoreo che doveva concludere l’architettura dei mausolei stessi (il busto-ritratto del defunto per il Monumento Sannazaro; un tempietto quadrato per la Sepoltura Doria; una figura allegorica a Firenze, così come ricorrono le allegorie nelle Tombe Marchese). 294 4. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Madonna col Bambino Metà anni settanta del Cinquecento Marmo Altezza 161 cm Larderia Inferiore (Messina), chiesa di San Giovanni Battista La statua, ancora inedita, s’inserisce in quella parte della produzione bonanniana che palesa un chiaro ritorno a schemi e moduli del passato, facenti capo alla fortunatissima tradizione figurativa gaginiana che aveva letteralmente dominato il panorama ed il mercato artistico scultoreo siciliano nella prima metà del Cinquecento (figg. 66, 68). Così forte si rivela tale cultura, inaugurata, come noto, dal capostipite Domenico, e poi portata avanti dal figlio Antonello, che gli episodi di persistenza, anche a larga distanza temporale, di certi modelli inventati e diffusi da quella bottega, non sono esigui, e rappresentano ancora oggi una delle connotazioni più chiare della produzione marmorea isolana del XVI secolo. Talora la riproposizione, da parte di alcuni artisti, di tipologie e stilemi antichi può corrispondere a precise richieste di una committenza, pubblica e privata, per la quale l’opera d’arte non è soltanto uno strumento di affermazione e rafforzamento del proprio prestigio all’interno della comunità (specie nei piccoli centri); in molti casi essa viene considerata anche un “oggetto” di devozione religiosa, e per ciò stesso il suo originario ed intrinseco pregio estetico finisce col cedere il passo alla valenza prettamente religiosa riconosciutale dal popolo. Il carattere per così dire “conservatore” della committenza isolana ha molto spesso innescato meccanismi di ripetizione a catena di tipi iconografici la cui fortuna figurativa si è estesa a macchia d’olio sull’intero territorio siculo e, talora, anche nella dirimpettaia Calabria. Nella fattispecie, ci si trova davanti ad un caso veramente emblematico: la Vergine, custodita nella Chiesa Madre di uno dei casali meridionali di Messina, ricalca quasi fedelmente una tipologia, molto fortunata, di marmi di soggetto analogo licenziati da Antonello Gagini entro il primo decennio del Cinquecento. Si tratta di immagini mariane che il celebre artista portò a compimento durante la permanenza nella città dello Stretto, prima dunque del suo trasferimento a Palermo. Madonne come quelle di Nicotera (1498-99), Mesoraca (1504-05), Amantea (1505, fig. 64), Morano Calabro (1505) e Messina (dalla chiesa di san Francesco, 1506 circa, fig. 67),100 tutte vicine fra di loro non solo per la cronologia 100 Per queste opere, cfr. H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980. 295 ma anche, evidentemente, per il “punto di stile”, devono considerarsi i prototipi cui Rinaldo, o per scelta personale, o per espressa indicazione della committenza, fece riferimento nel confezionare il proprio manufatto.101 Non è un caso, in effetti, che l’unica menzione degna di rilievo che riguardi la scultura sia quella di Giuseppe Foti, il quale, in un testo sulla storia dei casali messinesi, pubblicandone anche la foto, la indicò in didascalia come prodotto di “scuola del Gagini”.102 L’attribuzione al Bonanno si spiega facilmente se si confronta questa Madonna a quella da lui spedita nel casale settentrionale di Massa San Giorgio (firmata alla base, figg. 69, 70). La matrice culturale gaginiana, presente anche in quest’ultima opera, sembra essere il trait d’union fra le due immagini: Rinaldo riuscì ad interpretare e ad assorbire i modi e gli stilemi degli archetipi con cui di volta si è confrontato così profondamente che le sue “repliche”, partorite talora dopo sei, sette decenni, sembrano annullare in alcuni casi tale distanza. D’altronde, se la Vergine di Larderia non presentasse analogie così evidenti con l’altra figura, di soggetto analogo, di Massa San Giorgio, il nome del Bonanno sarebbe, probabilmente, l’ultimo cui si penserebbe per un’attribuzione. Ed invece, la morbidezza dei panneggi, dalle pieghe dolcemente ondulate, i visi tondi e paffuti (il Bambino di Massa San Giorgio si distanzia tipologicamente perché l’esempio che lo scultore ha in mente in questo caso è un altro)103 rimandano proprio a Rinaldo, ed in particolare alla sua produzione degli anni settanta. Un altro indizio spinge altresì a datare l’opera entro l’ottavo decennio: dal 1569 al 1573 sono documentati tre marmi (due fonti battesimali ed un’acquasantiera) destinati al vicino casale di Castanea, ed un fonte battesimale disperso per la stessa Massa San Giorgio;104 così come ha resistito alle distruzioni prima sismiche poi belliche una bella Annunciazione custodita nella chiesa dell’Annunziata nel villaggio Salice, anch’essa per ragioni stilistiche da ricondursi a questi stessi anni (fig. 54). Da questi piccoli centri spesso le commesse, per concorrenza e spirito di competizione, si susseguivano una dietro l’altra generando così automaticamente una vera e propria sequela di richieste di prodotti talora simili. 101 Per queste Madonne, appartenenti alla fase aurorale dell’attività di Antonello, e per il loro carattere derivativo dalla Madonna della Neve che Benedetto da Maiano inviò a Terranova Sappo Minulio intorno al 1491-92, cfr. F. CAGLIOTI, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. VALTIERI, Gangemi Editore, Roma 2007, pp. 977-1042 [990-1004]. 102 G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle chiese dei casali di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina 1992?, pp. 153-154, fig. 67. 103 Cfr. supra, nota 103. 104 Prova che il messinese ebbe una certa dimestichezza con la committenza dei borghi situati nei dintorni di Messina. 296 5. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Madonna col Bambino Seconda metà anni settanta del Cinquecento Marmo Altezza 82 cm Tropea (VV), Museo Diocesano (dal Duomo) L’inedita scultura, in origine collocata entro una nicchia sulla facciata della Cattedrale della cittadina calabrese dedicata alla Madonna di Romania, è da qualche tempo custodita all’interno del Museo allestito negli spazi del Palazzo Vescovile tropeano (fig. 51). Il carattere poroso del marmo è chiaramente dovuto alla sua lunga esposizione alle intemperie, che ha causato una lenta, ma costante abrasione dello strato superficiale del materiale. L’opera, a mio avviso, palesa precise e puntuali rispondenze stilistiche con alcuni manufatti licenziati allo scadere dell’ottavo decennio del Cinquecento dallo scultore Rinaldo Bonanno, di stanza a Messina ma molto richiesto anche dalla dirimpettaia Calabria. Essa trova validi riscontri con almeno due analoghe immagini che con certezza possono ricondursi al messinese, vale a dire la Vergine scolpita nella formella raffigurante la Presentazione di Gesù al Tempio (fig. 81), parte del Monumento funebre di Antonina Barrese e Antonino Marchese (1572 circa, Messina, Museo Regionale, fig. 34),105 e la statua a grandezza naturale compiuta qualche tempo dopo per la chiesa del Rosario a Petilia Policastro (fig. 48). Come in queste ultime sculture, anche nella Madonna di Tropea, sebbene in modo più dimesso, si nota l’attenzione prestata dal maestro nello svolgimento dei panneggi, sempre gonfi, svolazzanti, che generano, col loro fluido andamento, delle ampie parabole, come se l’autore, in questa fase, volendo dimostrare le proprie qualità, volesse “strafare”. In questo quadro rientra anche il Bambino, che, a dispetto dell’abrasione del marmo, esibisce un’attenzione lenticolare nella definizione dei boccoli ed un forte pittoricismo del viso che lo accomunano all’identica figura facente parte del gruppo della Madonna dell’Isodia eseguito dal medesimo artefice per Bova (firmato e datato 1584, figg. 63, 65). Malgrado la modestia delle dimensioni, il marmo tropeano palesa una sicurezza d’impianto ed un’ampiezza di modellato tale da farlo ritenere una sorta di anticipazione delle monumentali e dinamiche immagini scolpite dal Bonanno all’inizio degli anni ottanta. Mi riferisco in particolare alla Madonna del Soccorso di Taurianova (firmata e datata 1582, fig. 95), e al successivo San Leo inviato a Bova 105 Cfr. la scheda n. 3. 297 nella chiesa intitolata al Santo (fig. 96)106. Il carattere, evidenziato anche dagli studi più recenti sull’artista,107 di accentuato dinamismo, ed il forte risalto plastico presente in queste due statue, erano stati espressi dal siciliano soltanto in un’epoca precedente, quella giovanile, quando era ancora vivo in lui il ricordo degli esempi michelangioleschi frequentati durante un qui supposto viaggio di studio in Toscana. È interessante infatti rilevare come Rinaldo, che verosimilmente aveva ricevuto l’espressa richiesta di una mezza figura, non si sia limitato propriamente al “mezzo busto”, ma abbia deciso di presentarci anche la parte superiore della coscia della Vergine, piegata al fine di consentire un comodo appoggio al Figlio. In tal modo egli ottiene anche un discreto effetto di movimento, contrapposto alla spalla destra che, leggermente rotante, sporge verso l’esterno, dando perciò vita ad un’immagine bilanciata ma nel contempo dinamica, che troverà piena definizione nelle opere a grandezza naturale di qualche anno più tarde. 106 Per l’attribuzione di questa scultura, vedi, da ultimo, G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella a Pazzano: le testimonianze artistiche recenti, contributi storico-artistici e iconografici, in L’eremo di S. Maria della Stella nell’area bizantina dello Stilaro. Storia, arte, spiritualità, atti del convegno, Arti Grafiche GS, Ardore Marina 2000, pp. 140-141; IDEM, Culto e iconografia dei santi italo-greci nell’area reggina, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 62-63, figg. 3-4. 107 A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 119-134; M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 83-92, con relative schede delle opere. 298 6. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Madonna col Bambino Seconda metà anni settanta del Cinquecento Marmo Altezza 165 cm Massa San Giorgio (ME), chiesa di San Giorgio Iscrizioni: ARNALDUS BONANN⁹ FACIEBAT Entro la produzione cosiddetta “classicheggiante” di Rinaldo Bonanno, licenziata dalla bottega del maestro raccuiese a partire dalla metà degli anni settanta, la statua custodita nella Chiesa Matrice del piccolo casale nei dintorni di Messina costituisce, a ben vedere, una sorta di unicum (fig. 70).108 È certamente vero, infatti, che in essa si manifestano, al pari che nelle opere coeve, precisi e puntuali richiami ad un fortunatissimo marmo lavorato dall’instancabile scalpello di Antonello Gagini (trattasi della Madonna degli Angeli, 1506, attualmente esposta nel Museo Regionale di Messina ma proveniente dalla chiesa del monastero di San Francesco, fig. 67); è però d’altro canto inconfutabile che essa rappresenti un duplicato dell’altrettanto celebre Madonna del Popolo commissionata nel 1554 dal Capitolo della Cattedrale di Tropea al toscano Giovann’Angelo Montorsoli (fig. 71).109 Nessun altro manufatto bonanniano di questi anni (penso ad esempio alla Maddalena conservata a Seminara, alla Vergine dell’Isodia di Bova, alla Santa Lucia lignea ospitata nella Chiesa Madre di Fiumedinisi, figg. 103, 111)110 108 A segnalare l’opera per la prima volta è stata CATERINA CIOLINO nel catalogo Opere d’arte restaurate 1980-1985, a cura di F. CAMPAGNA CICALA, G. BARBERA, C. CIOLINO, P. & M., Messina 1986, p. 72. Poco dopo ORNELLA D’ANGELO, in Osservazioni in margine ad un gruppo di opere inedite di scultura del XVI secolo, in Arte e storia nella provincia di Messina: prima parte, catalogo della mostra a cura di T. PUGLIATTI, Tipografia Samperi, Messina 1986, pp. 27-28, sostenne che «la statua di Massa San Giorgio si colloca nel periodo di passaggio (1570-75) fra una sensibilità manieristica riscontrabile nella sua prima produzione, ed una eleganza formale classicheggiante raggiunta in seguito e mai abbandonata». C. NOSTRO, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, p. 26, male interpretando l’iscrizione posta nello scannello con la firma dello scultore, pensava che l’autore sia un certo “Arnaldus Bonanno”. 109 La prima a notare la forte derivazione della statua di Massa San Giorgio dall’esemplare montorsoliano di Tropea è stata A. MIGLIORATO, in Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 126. Come precedentemente sostenuto (Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 64), la studiosa pensa però che il coinvolgimento dei collaboratori di bottega sia stato piuttosto cospicuo. 110 Per la Santa Lucia, cfr. la scheda n. 12. 299 condivide una tale sorprendente e dissonante compresenza di motivi figurativi così lontani tra loro e per cronologia e, soprattutto, per dimensione culturale. Nella scultura di Massa San Giorgio e nell’analoga figura montorsoliana la coincidenza degli elementi iconografici e compositivi è così stringente da lambirne la sovrapposizione, sebbene esse siano separate da una distanza di almeno vent’anni. Mi chiedo pertanto se una ragione esterna allo stile e al sentire di Rinaldo abbia potuto spingere il maestro a lavorare su questo marmo dando vita ad una sorta di “ibrido” unico nel suo genere. Credo sia questo uno di quei molteplici casi in cui è la committenza ad indicare uno specifico modello cui lo scultore deve attenersi. Tale consuetudine era particolarmente diffusa nella Sicilia del Cinquecento, dove lo scarso rinnovo dei modelli figurativi da un lato, ed una committenza troppo spesso ancorata a tali attardati schemi compositivi dall’altro hanno favorito (anche nel secolo precedente) la produzione seriale delle botteghe scultoree.111 D’altronde, il manufatto spedito dal Montorsoli a Tropea costituisce l’unica immagine mariana ad oggi nota compiuta dal toscano durante la sua decennale permanenza nella città dello Stretto, e la prova della fortuna che essa ha riscosso tra la committenza, non solo isolana ma anche calabra, è il numero piuttosto cospicuo di Vergini che ad essa si rifanno in maniera più o meno vincolante: penso, ad esempio, alla Madonna della Candelora di Pentedattilo (RC, 1564, chiesa di San Domenico), prodotto della bottega del messinese Giuseppe Bottone, e alla Madonna delle Grazie conservata a Dipignano (RC), datata nello scannello 1578 e attribuita di recente a Francesco Calamecca.112 Sebbene nei casi appena citati, così come in quello della scultura di cui qui si discute, non possiamo basarci su alcuna traccia documentaria a sostegno dell’ipotesi di un’espressa richiesta da parte della committenza, tuttavia il confronto tra queste opere e quella montorsoliana di Tropea è talmente rivelatore da risultare, a mio parere, oltremodo probante. La Vergine di Massa San Giorgio deve pertanto essere considerata una rivisitazione bonanniana della fortunata immagine di Giovann’Angelo attuata con lo sguardo rivolto al passato e puntato su un preciso riferimento gaginiano.113 A distanza di ben sette decenni, infatti, il maestro di Raccuia mostrò chiaramente di avere ancora presenti alcuni modelli di 111 Un’interessante analisi degli attardati meccanismi entro i quali si muoveva la committenza non solo in Sicilia, ma più in generale nel Mezzogiorno d’Italia, è quella di GIOVANNI PREVITALI in Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, Centro Di, Firenze 1986, p. 9). 112 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, p. 104, fig. 119. All’interno del corpus di Rinaldo Bonanno troviamo un’altra Madonna, questa volta documentata, il cui rimando alla figura montorsoliana è evidente, seppure non così esplicitamente come in questa di Massa San Giorgio: si tratta della Vergine oggi custodita nella Badia di Ficarra, commissionata nel 1575 e consegnata nel 1586. Per quest’opera, cfr. la scheda n. 11. 113 È evidente che questa ipotesi di lettura dell’opera bonanniana si discosta da quella che ne dà M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 71 e 85-86, fig. 82, secondo la quale «…in essa più che nelle altre si coglie il retaggio dell’esperienza maturata nella bottega di Martino Montanini». 300 Antonello Gagini, ripresi talora alla lettera, talora invece (come in questo caso) sentiti ed espressi più celatamente. A confermare tale asserzione è la natura stessa di questo marmo, che, pur essendo sfacciatamente una “copia” della statua montorsoliana, ciò nondimeno (e a dispetto di ciò) palesa una latente marca gaginiana, nel chiaro rimando alla Madonna degli Angeli (1506) di Antonello.114 D’altro canto, la persistenza, nella statua di Massa San Giorgio, della matrice culturale gaginiana, perfettamente leggibile sebbene offuscata dalla spudorata riproposizione della fatica montorsoliana di Tropea, non soltanto ci dà contezza di quanto il nostro scultore dovette sentire forte e vincolante il peso della fortunata tradizione figurativa di Antonello e dei suoi epigoni, ancora attivi nei tardi anni settanta del Cinquecento; ma costituisce anche un ulteriore, illuminante argomento a favore di una lettura della seconda parte dell’attività di Rinaldo in senso marcatamente “arcaizzante”, in netta contrapposizione con le opere giovanili, tutte al contrario testimoni sincere del nuovo orientamento culturale dettato dall’affermarsi della “maniera moderna”. 114 H.-W. KRUFT, Antonello Gagini und seine Söhne, F. Bruckmann KG, München 1980, p. 380, figg. 29-30. Il rogito relativo a questo marmo, rintracciato da Gaetano La Corte Cailler, è stato pubblicato da G. MOLONIA, La “Madonna degli Angeli” di Antonello Gagini e il suo documento, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 9, 1999, pp. 71-79. 301 7. Rinaldo Bonanno, Francesco Bergamini, Andrea di Tommaso Pietro d’Avenza, Alessandro Rossi Altare della Madonna del Portello 1579-1586 Marmo Altezza 750 cm, larghezza 430 cm Carrara, Duomo La permanenza carrarese di Rinaldo Bonanno è attestata da una carta d’archivio, datata 8 novembre 1580, con la quale il marchese di Massa e principe di Carrara Alberico Cybo ingaggiò il siciliano e il maestro locale Alessandro Rossi per il completamento del Canale della Grondine.115 Dopo poco più di un anno (14 novembre 1581), lo stesso Rinaldo ricevette un incarico più allettante e prestigioso: sostituire lo scultore Andrea di Policleto Pelliccia, che non aveva adempiuto all’incarico precedentemente affidatogli, nell’esecuzione dell’Altare di Santa Maria, detto del Portello, all’interno del Duomo cittadino (fig. 75). Al Bonanno, incaricato della realizzazione delle figure previste per la decorazione del retablo, vennero affiancati, per l’opera di quadro e d’intaglio, altri due artisti del luogo, Francesco Bergamini e Andrea di Pietro d’Avenza.116 Il messinese non dovette però protrarre il soggiorno molto a lungo, se già nel luglio 1582 era nuovamente di stanza nella propria città, dove si apprestava a vendere, lasciando di questa operazione una traccia documentaria, ben centottantasette pezzi di marmo al cognato Francesco Calamecca, anch’egli scultore.117 Per capire meglio le fasi di costruzione dell’opera e l’alternarsi dei maestri incaricati del suo completamento, non si può prescindere dal sunteggiare quello che a tutt’oggi sembra essere il primo atto di questa un po’ confusa vicenda: un rogito del luglio 1579 con cui gli operai del Duomo affidarono l’erezione dell’Altare di Santa Maria del Portello al già citato Andrea Pelliccia, al quale si aggiunse, per l’esecuzione delle sculture, sia grandi che piccole, l’emiliano Prospero Clemente. L’impresa, particolarmente gravosa, era da compiere entro cinque anni, e doveva essere conforme all’Altare del Corpo di Cristo, già esistente sulla parete di fondo della navata destra della Chiesa Madre di Carrara.118 Da quanto riportato sinora, si 115 G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori…nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 285. 116 Ibidem, pp. 27, 285; C. RAPETTI, Storie di marmo. Sculture del Rinascimento tra Liguria e Toscana, Electa, Milano 1998, pp. 54, 358. 117 Il rogito relativo alla vendita di questi marmi, rintracciato dall’archivista messinese Domenico Puzzolo Sigillo, è stato pubblicato da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [133-134, doc. n. 23]. 118 C. RAPETTI, Storie di marmo cit., pp. 54, 358. 302 evince che Andrea Pelliccia e Prospero Clemente, chiamati in causa per primi, o non iniziarono affatto i lavori, oppure li abbandonarono poco dopo aver accettato l’incarico, spingendo pertanto gli Operai al nuovo atto in cui comparve il nome del Bonanno. Se dunque si esclude l’intervento del Clemente, tesi d’altronde di già sostenuta da Caterina Rapetti,119 si può ipotizzare che quando Rinaldo ottenne l’incarico, col suo intervento egli avesse “inaugurato” almeno la Vergine, la prima, per importanza, delle statue da destinare all’ancona (fig. 77). Ci viene in soccorso, come sempre in questi casi, l’analisi stilistica dei tre manufatti che, posti entro nicchie, costituiscono la parte mediana della grandiosa macchina marmorea. Ad essersi accorta per prima dell’autografia bonanniana della Madonna Assunta è stata qualche anno fa Alessandra Migliorato in un contributo dedicato proprio al maestro messinese: in particolare, a detta della studiosa, deve attribuirsi al siciliano solamente la parte superiore della raffigurazione, quella corrispondente alla Vergine e ai due angeli che l’affiancano (figg. 77, 82, 84). Il rilievo con il groviglio di nuvole e teste di cherubini, scolpito su un altro blocco di marmo chiaramente diviso da quello da cui si è ricavata la Madonna, deve invece imputarsi alla mano di altri autori (fig. 76).120 A riprova della sua ipotesi attributiva, la Migliorato proponeva opportuni paralleli fra l’Assunta carrarese e altre figure femminili compiute dal Bonanno, quali la Vergine (fig. 78, 80) scolpita nell’altorilievo con la Natività (1569, fig. 5), già nella chiesa di Sant’Agostino ed oggi custodita nel Museo Regionale della città peloritana,121 e la Maddalena (1584-85, fig. 109) spedita a Seminara nella chiesa della Madonna dei Poveri. Il tratto ampio e disinvolto col quale Rinaldo dà svolgimento ai morbidi e ondulati panneggi, ed il contrapposto, evidente nella Madonna, che ruota verso sinistra il busto e le braccia dalle mani giunte mentre volge in direzione opposta lo sguardo enfaticamente assorto, vengono esibiti dall’artista anche in alcuni dei personaggi dei bassorilievi ultimamente restituiti all’arredo scultoreo dei monumenti funebri commissionatigli nel 1572 da Antonino Marchese (figg. 55-56).122 I due angioletti, sui quali la Vergine si appoggia per accompagnare la propria elevazione al cielo, trovano nel catalogo del messinese numerosi termini di paragone: in primis si possono ricordare le analoghe immagini che partecipano alla gioia scaturita dalla nascita di Gesù nel già citato rilievo del Museo Regionale (fig. 83), ma anche gli angeli muniti di cornucopie seduti sui coperchi dei Sepolcri Marchese (figg. 38, 40). La medesima generosa e dilatata corporatura, dalla quasi ostentata muscolatura, e gli stessi volti dai lineamenti 119 Ivi. A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 119-134 [124-125]. 121 Cfr. la scheda n. 2. 122 Cfr. la scheda n. 3. 120 303 addolciti ma decisi, si trovano anche in alcuni putti di poco successivi a questi: mi riferisco alle due sculture che affiancano la Madonna del Soccorso (1582, figg. 95, 99) oggi ospitata nella chiesa dell’Immacolata di Radicena di Taurianova, e ad un altro Bambino (fig. 49) inviato dallo scultore in Calabria, quello della Vergine di Petilia Policastro, anch’essa risalente agli anni ottanta (fig. 48). Oltre che nell’Assunta, la proposta che qui s’intende avanzare è che Rinaldo sia intervenuto, se pur in minima parte, nella Santa Caterina d’Alessandria collocata alla destra della Vergine (fig. 86): il volto della Santa martire sembra infatti preannunciare quello di alcuni dei personaggi che l’artista eseguì al rientro in patria. Ad esempio, quello della stessa Madonna di Taurianova (fig. 87), ma anche quello delle analoghe immagini custodite a Oppido Mamertina,123 a Tropea124 e a Santo Stefano Medio (figg. 90, 53, 93).125 I visi, molto idealizzati, quasi classici nella loro compostezza, si distinguono tutti per gli occhi larghi, dai contorni ben marcati, per il naso alla “greca” e per il leggero doppio mento; dal centro della fronte, molto ampia, si diramano i capelli dalle lunghe e strette ciocche. Un discorso a sé merita invece il resto del corpo della Martire, che non trova alcun riscontro nella maniera bonanniana. Si può pertanto ipotizzare che, dopo aver concluso l’Assunta, il Bonanno abbia messo mano alla seconda statua da destinare all’altare, ma che, sopraggiunto il momento di partire, egli abbia a sua volta abbandonato l’impresa, riuscendo a portare a compimento soltanto una figura intera (la Vergine appunto) più un altro pezzo della seconda. Il resto di quest’ultima e l’intera terza scultura devono perciò verosimilmente ascriversi all’intervento di un ennesimo autore, del quale abbiamo una notizia, purtroppo priva di alcuna indicazione cronologica, riportataci da almeno due fonti.126 Si tratterebbe di quello stesso Alessandro Rossi con cui in precedenza il messinese aveva collaborato per i lavori al Canale della Grondine: è a lui che si affida il San Bernardo Abate, con l’impegno di lavorarlo seguendo il modello fornito dallo scultore Prospero Antichi da Brescia. Mancando, al momento, altri manufatti noti di questo maestro con i quali operare confronti, si rinuncia qui ad esprimere alcun giudizio in merito ad una sua eventuale responsabilità nei riguardi di questo marmo. Sembra nondimeno interessante aggiungere che l’ultimo episodio relativo all’Altare del Portello ci è noto grazie ad un rogito, con data 20 marzo 1586, nel quale si attesta il sorgere di una controversia nata in occasione delle stima dell’opera: in tale atto notarile si precisa che l’ancona fu conclusa da Francesco Bergamini. 123 Per questi due manufatti: M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 90, 300-301, 304-307. 124 Cfr. la scheda n. 5. 125 Cfr. la scheda n. 10. 126 G. CAMPORI, Memorie biografiche cit., p. 285; F. BUSELLI, S. Andrea apostolo duomo a Carrara, Sagep, Genova 1972, p. 78. 304 8. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Angeli reggiface, dal distrutto Monumento funebre dell’arcivescovo Giovanni Retana 1582 circa Marmo Altezza 75 cm Messina, Duomo La fortuna critica di cui ha goduto quest’opera, cui questi due Angeli ancor oggi rimasti in loco appartenevano (figg. 72, 74), è piuttosto ampia, e risale al 1606, anno in cui Giuseppe Buonfiglio e Costanzo diede alle stampe la sua Messina città nobilissima: lo storico, giunto alla descrizione della parete di fondo del transetto sinistro della Cattedrale dedicata a Santa Maria Assunta, dedicò largo spazio al sepolcro del prelato, a capo della chiesa di Messina dal 1569 al 1582.127 Il monumento funerario era posto accanto alla Cappella della Madonna della Pace, eretta in anni precedenti da un altro arcivescovo, Antonio La Lignamine, e di essa il Buonfiglio ricordava in particolare la «meza statoa al naturale», e intorno al busto «alcuni angioli con le mitrie pontificali in mano, et altri con le trombe della fama poste giù in atto mestissimo». Il terremoto abbattutosi in città il 28 dicembre del 1908 ed i successivi bombardamenti alleati del 1943, distruggendo quasi interamente il Duomo, hanno ridotto in frantumi larga parte della sepoltura, della quale, oltre ai due Angeli qui presentati, si conosce, ma solo grazie ad una fotografia scattata prima della rovina bellica, il busto-ritratto dell’arcivescovo (fig. 73). 127 G. BUONFIGLIO E COSTANZO, Messina città nobilissima descritta in VIII libri, presso Gio. Antonio & Giacomo de Franceschi, Venezia 1606, p. 26: «…et nell’istesso muro nel cantonale della sacrestia si vede l’altro sepolcro di don Giovanni Retana con la sua meza statoa al naturale, opra di Rinaldo Bonanno cittadino, scultore et architetto messinese, di sotto a cui si leggono intagliati questi versi: SI UT VULTUM EXPRIMERET LAPIS INTIMA CREDERE POSSES, CŒLESTEM INTER NOS, DELITUISSE VITAM. Et poco più di sotto si legge intagliato questo motto: RESURRECTURUS CUM PRIMIS. Intorno della statoa si veggono scolpiti alcuni angioli con le mitrie pontificali in mano, et altri con le trombe della fama poste giù in atto mestissimo, et nel più basso del tumulo si leggono quest’altri versi: SPES INOPUM, CURA ALTA GREGIS, DE CARNE TRIUMPHUS, RELIGIO, INTEGRITAS HIC TUMULATA IACENT. D. O. M. JOANNES RETANA CANTABER ISPANUS OLIM TRINACRIÆ INQUISITOR, DEMUMQUE MESSANENSIS ANTISTES, CUM PER ANNOS FERE 12 ECCLESIAM ÆQUITER PIEQUE REXISSET EXTERIUS, IN PACE REQUIEVIT. MDLXXXII. HIC PATRIA EMISSUM VICTORIA, AB HOSTE PEREGIT GRATIA, VICTOREM NOMINE JUNCTA DEI»; F. SUSINNO, Vita di Rinaldo Bonanno, in Le vite dei pittori messinesi e degli altri che fiorirono in Messina, Messina 1724, pp. 90-91; A. BUSACCA, Guida per la città di Messina, Tipografia del Commercio, Messina 1873, p. 51; G. DELIA, La scultura decorativa interna del Duomo di Messina, in Messina ieri e oggi, Collana di studi storico-religiosi, a cura della Compagnia di S. Placido, 3, 1966, pp. 66-67; Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. OLIVA, G. Principato, Messina 1914, p. 218. 305 A dispetto dell’interesse che il complesso marmoreo suscitò fra la storiografia erudita dei secoli scorsi, esso è stato invece trascurato dagli studi più recenti, sebbene abbia costituito, per il maestro nativo di Raccuia, una delle commesse più prestigiose del periodo maturo, prova dell’ormai consolidata posizione di scultore di riferimento per una larga parte della committenza.128 Non era certo la prima volta che il Bonanno si cimentava nella realizzazione di un sepolcro monumentale: già nel 1565 infatti, poco più che ventenne, egli collaborò, assieme al meno noto Paolo Tasso, all’esecuzione di ben due sepolture, commissionate dal nobile Giovanfilippo La Rocca (figg. 20-21);129 mentre nel 1572, sotto la guida del suocero Andrea Calamecca, che ne fornì il disegno, Rinaldo si apprestò a portare a compimento altre due tombe, stavolta fatte erigere per la memoria dei propri cari dal messinese Antonino Marchese (figg. 34-35).130 Non potendoci basare su alcuna dettagliata descrizione del Monumento Retana, possiamo soltanto ipotizzare che, alla luce della presenza, pur frammentaria, dei due Angeli reggiface in esame, anche questo sepolcro, così come quelli Marchese, doveva in origine prevedere una cassa funebre (sostenuta forse da un basamento), ai lati della quale i due tristi angioletti piangevano la scomparsa del defunto.131 Tipologicamente essi possono accostarsi alle analoghe 128 Inconsapevolmente il contributo di S. BOTTARI, Nota sul Busto di F. Maurolico e su Rinaldo Bonanno, in «Archivio storico messinese», XXXIII-XXXV, 1933, pp. 125-135 [128], ha generato un grosso equivoco in merito al Monumento Retana: il Bottari, ricordando l’opera bonanniana, ha infatti menzionato solamente il busto (che allo studioso è servito per suffragare la sua proposta di attribuzione al medesimo maestro anche del Busto di Francesco Maurolico, unico frammento della tomba del celebre letterato e umanista messinese), trascurando totalmente i due Angeli che pur sono gli unici superstiti della distruzione. Egli non poteva però certo immaginare che, a partire da quel momento, anche gli altri interventi strettamente riguardanti lo scultore avrebbero dimenticato le due sfortunate figure angeliche. Così infatti è stato per S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, p. 70, e B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [122]. Le uniche che escono dal coro, menzionando anche gli Angeli, sono A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 125, e M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, p. 137. 129 L’atto notarile è stato pubblicato da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno cit., pp. 117-180 [117, 128, doc. n. 2]. Per un’inedita proposta d’identificazione di questi mausolei, si veda supra, pp. 253-258). 130 Cfr. la scheda n. 3. Il rogito relativo alla commissione dei Sepolcri Marchese, rintracciato e trascritto da Domenico Puzzolo Sigillo, è stato pubblicato da B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [131, doc. n. 13]. L’ultimo monumento funebre bonanniano documentato dalle carte d’archivio sembra essere stato quello commissionatogli nel 1587 da Stefano de Patti per la propria cappella di famiglia entro la chiesa di San Francesco (ibidem, p. 135, doc. n. 27). L’opera, distrutta dall’incendio scoppiato nell’edificio di culto nel 1884, era collocata sulla parete della controfacciata, entrando a destra (cfr. G. CHILLÈ, Il patrimonio scultoreo di età moderna della chiesa di San Francesco all’Immacolata di Messina, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Messina, atti del Convegno di studio a cura di C. MICELI e A. PASSANTINO, Biblioteca Francescana di Palermo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, p. 47). 131 Nei due Monumenti Marchese-Staiti e Marchese-Barrese, eseguiti attorno al 1572, gli Angeli si trovano esattamente ai lati dei sarcofagi, e sono raffigurati stanti con in mano le fiaccole capovolte (cfr. la scheda n. 3). 306 figure scolpite nel 1533 da Giovann’Angelo Montorsoli ad Arezzo per la Tomba di Angelo Aretino, generale dell’ordine servita (fig. 59). D’altronde lo stesso Montorsoli a Messina eseguì almeno un monumento funebre, quello commissionatogli nel 1556 dagli eredi di Giovanni Leonardo Testa.132 Il ductus scultoreo che il Bonanno esibisce in queste belle figure angeliche, caratterizzate da un tratto morbido che ne delinea le ampie e generose corporature, si ritrova facilmente negli analoghi personaggi presenti nella Natività (1569, fig. 33), conservata al Museo Regionale di Messina ma proveniente dalla chiesa di Sant’Agostino,133 così come in quelli dei già citati Sepolcri Marchese (fig. 32, 38, 40). Riguardo al busto dell’arcivescovo, fornire eventuali confronti al momento risulta impossibile, vista la modesta qualità dell’unica riproduzione fotografica sinora reperita, e vista anche la mancanza di altri possibili marmi cui fare riferimento. Un’osservazione può invece farsi in merito al periodo in cui l’opera sarebbe stata realizzata, che per le fonti antiche come per gli studiosi moderni dovette coincidere con l’anno di morte del prelato (il 1582 appunto). Premesso che, come noto, è spesso molto difficile risalire precisamente agli anni d’esecuzione dei monumenti funebri, in questo caso il compito diventa ancora più arduo se si aggiunge che mancano anche altri indizi che, direttamente o indirettamente, talora aiutano a determinare una probabile datazione. Sappiamo però che dal novembre 1580 Rinaldo Bonanno è documentato a Carrara, dove rimase per un periodo di circa due anni:134 la prima attestazione archivistica che lo riguardi successiva al rientro dalla Toscana risale al luglio 1582, e dopo meno di un mese (il 7 agosto) egli assunse il modesto incarico di scolpire un fonte battesimale da inviare ad una chiesa di Tortorici, piccolo paese della provincia peloritana. La stessa data, assieme alla firma, è inoltre incisa su due splendide statue compiute dal maestro per altrettante località calabre, vale a dire la Madonna del Soccorso oggi custodita nella chiesa dell’Immacolata a Radicena di Taurianova (RC, figg. 95, 99), ed il San Leo di Bova (RC, fig. 96), da poco 132 Lo strumento notarile che attesta la commissione di questo monumento è stato solamente sunteggiato da D. PUZZOLO SIGILLO in Una statua ignorata di Martino Montanini: la Santa Caterina di Forza d’Agrò, in «Archivio storico messinese», XVI-XVII, 1925-26, pp. 306-311 [307]. In tale contributo l’erudito messinese annunciò la pubblicazione di una serie di carte d’archivio da lui stesso rintracciate nell’Archivio di Stato di Messina e riguardanti i principali rappresentanti dell’arte figurativa del Cinquecento nella città dello Stretto, ma questa fatica editoriale non è mai stata data alle stampe. 133 Cfr. la scheda n. 2. 134 All’8 novembre 1580 risale la prima attestazione documentaria relativa al periodo carrarese di Rinaldo: trattasi di un ingaggio, chiuso col marchese di Massa e principe di Carrara Alberico I Cybo Malaspina, per il completamento dei lavori del Canale della Grondine. Ancora nel novembre dell’anno successivo al messinese si affidò l’incarico di alcune sculture per l’Altare di Santa Maria del Portello nel Duomo di Carrara (per quest’opera, cfr. la scheda n. 7). Per i rogiti carraresi: G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori…nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, pp. 27, 178-179, 285). 307 felicemente restituito al messinese.135 Queste notizie suggerirebbero che, seppure lo scultore avesse ricevuto la commessa della Tomba Retana entro lo scadere del 1582, l’opera sia stata completata almeno nel corso dell’anno successivo. 135 G. LEONE, La grotta di S. Maria della Stella a Pazzano: le testimonianze artistiche recenti, contributi storico-artistici e iconografici, in L’eremo di S. Maria della Stella nell’area bizantina dello Stilaro. Storia, arte, spiritualità, atti del convegno, Arti Grafiche GS, Ardore Marina 2000, pp. 140141; IDEM, Culto e iconografia dei santi italo-greci nell’area reggina, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 62-63, figg. 3-4. 308 9. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Madonna del Soccorso 1582 Marmo Altezza 170 cm Radicena di Taurianova (RC), chiesa dell’Immacolata Iscrizioni: VAT [1582] RIN BON FACIE La lettura critica della personalità di Rinaldo Bonanno, probabilmente il più valente scultore siciliano del XVI secolo, e la disanima dei suoi esordi, così decisamente orientati verso la Toscana della “svolta manieristica”, che l’ancora acerbo raccuiese avrebbe conosciuto durante un viaggio giovanile condotto forse al seguito del suo primo maestro Martino Montanini, mi spingono a riconsiderare quanto proposto di recente da Monica de Marco (2010)136 in merito a questa pregevolissima opera a ragione considerata il più maturo raggiungimento dell’arte bonanniana (fig. 95, 99). Schedando la Madonna del Soccorso nel volume sulla scultura marmorea del Rinascimento in Calabria, e ricostruendone la lunga e fortunata vicenda critica, iniziata già con Alfonso Frangipane,137 la studiosa ha meritoriamente offerto una prima, organica analisi del manufatto calabro,138 sottolineando l’emergere, in 136 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 88-89, 304-307. L’incassatura dello scannello nella muratura (seguente al trasferimento, post terremoto 1783, del marmo dalla chiesa del vicino casale di Vatoni) non consente più di leggere la data (1582), iscritta nella faccia laterale sinistra della base. 137 A. FRANGIPANE, Calabria. Provincie di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria (Ministero dell’Educazione Nazionale. Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II), Libreria dello Stato, Roma 1933, p. 310. 138 A dispetto delle numerose segnalazioni ricevute e del cospicuo interesse che questa statua ha da sempre suscitato nella bibliografia di settore, infatti, nessuno finora si era addentrato in un approfondito esame delle sue componenti figurative e del suo inquadramento stilistico. Dopo Frangipane, e prima del volume della De Marco, gli autori che si sono occupati, spesso con annotazioni fugaci, di quest’opera, sono stati: B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [123]; C. NOSTRO, Rinaldo Bonanno in Calabria e l’Isodia di Bova, in «Calabria sconosciuta», 1981, 13, pp. 67-71; F. NEGRI ARNOLDI, Due schede e un’ipotesi per Pietro Bernini giovane, in «Bollettino d’arte», LXVIII, 1983, p. 105; S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, pp. 7071, figg. 47-48; M. P. DI DARIO GUIDA, Rinaldo Bonanno, in Segni figurativi del culto Eucaristico e mariano nell’Archidiocesi di Reggio Calabria-Bova, Roma 1988, p. 202; E. NATOLI, Scultura di ambito messinese in Calabria nei secoli XVI e XVII, in Messina e la Calabria dal basso Medioevo all’età contemporanea, atti del I colloquio calabro-siculo, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1988, pp. 23-24; C. NOSTRO, Nuove acquisizioni sull’opera di Rinaldo Bonanno in Calabria. Il monumento di Gaspare dal Fosso, in Gaspare del Fosso e la riforma tridentina in Calabria, atti del convegno, Laruffa, Reggio Calabria 309 questa più che in altre immagini bonanniane, di stilemi tipicamente manieristi quali l’impianto chiastico e la brusca torsione del capo rispetto al resto del corpo – che determinano una disarticolazione dell’intera figura – e il generale assetto compositivo, possente e monumentale. Quella che la De Marco ha interpretato come una «improvvisa virata in chiave più vigorosamente manieristica riscontrabile nelle opere immediatamente successive al rientro a Messina»,139 e leggibile anche nel (non a caso) coevo San Leo di Bova, scaturirebbe, a sua detta, da una sosta a Napoli “carpita” da Rinaldo durante il suo rientro dalla Toscana, dove egli è attestato dal novembre 1580 all’estate del 1582.140 Nella capitale del Viceregno il siciliano avrebbe avuto modo di entrare in contatto con il collega partenopeo Giovandomenico d’Auria, anch’egli partecipe diretto della temperie manieristica, e nel cui linguaggio la studiosa riscontrava alcuni caratteri comuni allo stile di Bonanno. La De Marco annoverava infatti «affinità considerevoli rispetto a certa produzione dello scultore messinese, specie nel vigore plastico e nella possanza fisica delle figure, ma anche, e forse soprattutto, nella salda interpretazione del contrapposto michelangiolesco», pur ammettendo tra i due artisti l’esistenza di «sensibili divergenze stilistiche che tradiscono la reciproca appartenenza a un diverso orizzonte culturale».141 Nessun accenno, insomma, alla preponderante matrice culturale toscana cui il marmo calabro afferisce, e che in questa sede si intende rafforzare, precisandone i confini, non limitati alla sola ascendenza buonarrotiana, ma estesi a ricordi dell’arte di Jacopo Sansovino e a richiami all’opera di Bartolomeo Ammannati. La studiosa sostiene semmai non soltanto che la Madonna di Taurianova rappresenti l’esito più alto dell’acquisizione e della successiva, immediata elaborazione degli 1997, pp. 327-353; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 105; C. NOSTRO, Pietro Bernini in Calabria. Ipotesi attributive e puntualizzazioni cronologiche, in «Calabria sconosciuta», 1998, 77, p. 40; G. LEONE, Culto e iconografia dei santi italo-greci nell’area reggina, in Sacre visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI-XVII secolo), catalogo della mostra, a cura di R. M. CAGLIOSTRO, C. NOSTRO, M. T. SORRENTI, Edizioni De Luca, Roma 1999, p. 63; C. NOSTRO, ivi, p. 120; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, p. 60; F. ABBATE, Intorno alla Natività di Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, pp. 113-118; A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, ivi, p. 125; EADEM, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Magika, Messina 2011, p. 337. 139 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., p. 89. L’idea era già stata espressa, sebbene non con la medesima determinazione, da F. ABBATE, Intorno alla Natività cit., p. 116. 140 G. CAMPORI, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori…nativi di Carrara e di altri luoghi della Provincia di Massa, con cenni relativi agli artisti italiani ed esteri che in essa dimorarono ed operarono, e un saggio bibliografico, Vincenzi, Modena 1873, p. 285; B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [133-134, doc. n. 23]. Francesco Abbate, ad esempio, lo fa risalire agli anni giovanili, fra il 1567 ed il 1569, arrivando in questo modo a motivare la straordinaria “pelle” michelangiolesca esibita dalla Natività del Museo Regionale (cfr. F. ABBATE, Intorno alla Natività cit., p. 116). 141 M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., p. 89. 310 esempi statuari partenopei attuate da Rinaldo l’indomani della tappa napoletana; ma anche che essa si ponga come la più concreta e tangibile manifestazione di quella «conversione stilistica» che coinvolse il suo autore proprio in questi primi anni ottanta.142 Ciò che suscita maggiormente il mio disaccordo nei confronti di una siffatta tesi non è l’eventuale conoscenza, da parte del maestro siculo, della produzione scultorea napoletana coeva,143 sulla quale anzi un giovane di talento come lui dovette certamente aver riflettuto, e che molto probabilmente dovette anche aver visto di persona, magari durante un passaggio a Napoli (sebbene non nello stesso periodo immaginato dalla De Marco); quanto piuttosto la convinzione, da ella manifestata, che Bonanno abbia aderito al nuovo linguaggio della maniera moderna così tardivamente (soltanto a partire dai primi anni ottanta e soltanto a seguito dell’incontro col D’Auria), pertanto deprimendo, o meglio, non riconoscendo affatto, quanto egli aveva di già espresso con forza nelle prove aurorali. Mi riferisco al Giovane con anfora (1563 circa, fig. 1, 4) e alla Natività (1569, fig. 5), che palesano diretti prelievi da idee michelangiolesche, ma penso anche ai Monumenti funebri Marchese (1572 circa, figg. 34-35) e alle Vergini di Petilia Policastro (metà anni settanta, fig. 48) e di Tropea (fine anni settanta, fig. 51), nelle quali i richiami all’arte ammannatiana sono lampanti.144 Gli innegabili legami che lo stile dell’illustre raccuiese esprime, specie nella prima parte della sua attività, con la cultura toscana, in una parola con quanto di più aggiornato e moderno vi fosse al momento nel campo della produzione artistica, contraddistinguono anche la Madonna del Soccorso, i cui echi sansovineschi non a caso rimandano alla straordinaria cera, di analogo soggetto, modellata da Jacopo tra il 1515 ed il 1518, ed oggi custodita a Budapest nel Museum of Fine Arts (fig. 100). Nella statua calabra la grazia e l’eleganza della figura, la fluidità naturalissima del morbido panneggio, e la dolcezza del volto della Vergine (caratteri tipicamente sansovineschi), convivono felicemente, trovando anzi una giusta compensazione, con una monumentalità, un’ampiezza ed una saldezza di forme ottenuta dal suo artefice grazie alla oramai matura introiezione dei tanti stimoli recepiti in gioventù (tra cui, per ovvie ragioni, quello ammannatiano 142 L’incontro tra Bonanno e le opere del D’Auria viene addirittura ritenuto dalla De Marco come una «sconvolgente folgorazione sulla via di Damasco» (Ivi). 143 Ricordo anche che Francesco Negri Arnoldi (Scultura del Cinquecento cit., p. 185) ha sostenuto, per via dell’evidente comunanza tipologica, che la scelta bonanniana di questo impianto compositivo per la Madonna del Soccorso fosse il frutto dell’elaborazione dello schema figurativo della Madonna della Neve oggi custodita nella chiesa di San Leoluca a Vibo Valentia, di recente ricondotta da Riccardo Naldi proprio a Giovandomenico d’Auria (e comunque oscillante tra quest’ultimo autore e il suo “sodale” Annibale Caccavello). Per la nuova attribuzione al D’Auria, cfr. Giovanni da Nola, Annibale Caccavello, Giovan Domenico D’Auria. Sculture ‘ritrovate’ tra Napoli e Terra di Lavoro, a cura di R. NALDI, Università degli Studi di Napoli l’Orientale, Dipartimento di Filosofia e Politica, Electa Napoli, Napoli 2007, p. 104, figg. 166-122. 144 Cfr. rispettive schede nn. 3, 5. 311 è forse preponderante),145 e verosimilmente consolidatisi a seguito della permanenza carrarese. Potrebbe dunque non essere una casualità la collocazione dei due capolavori calabresi (la Madonna di Taurianova ed il San Leo di Bova, fig. 96), entrambi datati nello scannello 1582, proprio al rientro da Carrara, avvenuto nell’estate dello stesso anno. A questo riguardo, è interessante notare che, leggendo con attenzione i documenti d’archivio finora noti riguardanti la vita e l’attività bonanniane, il 19 luglio 1582 Rinaldo vendeva allo scultore Francesco Calamecca (figlio di Andrea, nonché suo stesso cognato, visto che ne aveva sposato la sorella Veronica)146 ben centottantasette «pectia marmorum diversorum mensurarum signatorum cum duobus literis R. et B. pro eius medietate»: c’è da immaginare che queste centottantasette “carrate” di marmi fossero arrivate a Messina direttamente da Carrara, imbarcate, com’era usuale, su una nave sulla quale doveva trovarsi anche il Bonanno, in questa circostanza mediatore dell’acquisto. Ciò costituirebbe un argomento, credibile benché indiretto, a favore dello scarso credito che riscuote l’ipotesi, avanzata appunto da Monica de Marco, di un passaggio del siciliano da Napoli proprio sulla via del ritorno dalla Toscana (d’altronde un ritorno “pedestre” in patria, per un messinese, da Carrara, doveva considerarsi decisamente antieconomico, per tempi e modalità, e per ciò stesso improbabile).147 145 Oltre alle evidenze stilistiche, vi sono alcuni riscontri documentari dai quali emerge che già dal 1565 Rinaldo Bonanno collaborava ad alcune imprese avviate, almeno in fase progettuale, da Andrea Calamecca, “creato” di Bartolomeo Ammannati (cfr. G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Edizione Giuntina, Firenze 1568, II, p. 566, edizione digitale a cura di R. BETTARINI-P. BAROCCHI, nel sito www.memofonte.it). È questo il caso dei due sepolcri commissionati nel maggio 1565 dal nobile messinese Filippo La Rocca e Bonfiglio e da destinare alla chiesa di San Francesco di Paola: il disegno era stato fornito da Andrea Calamecca e dal carrarese Giovandomenico Mazzolo, le parti di “figura” erano affidate a Paolo Tasso, scultore gravitante nella bottega di Giovann’Angelo Montorsoli, e dal Bonanno (cfr. B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [117 e 128, doc. n. 2]). 146 Ibidem, p. 132, doc. n. 17. 147 Il porto di Carrara era Avenza, ma le coste in quella zona sono basse e paludose, perciò da Avenza partivano più che altro imbarcazioni di piccola taglia che alloggiavano modeste quantità di marmi, i quali, giunti nei porti che potevano accogliere navi di grosso tonnellaggio (Genova, La Spezia, Pisa, Livorno), venivano trasbordati su queste ultime e prendevano quindi la via del mare (cfr. C. KLAPISCH-ZUBER, Carrara e i maestri del marmo (1300-1600), Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, Modena 1973, pp. 266-317). 312 10. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Madonna col Bambino Metà anni ottanta del Cinquecento Altezza 65 cm Marmo Santo Stefano Medio (ME), chiesa di Santa Maria dei Giardini Questa mezza figura di Vergine col Bambino è collocata entro una nicchia sovrastante il portale della chiesa settecentesca del casale a sud di Messina (fig. 93), ma proviene dall’antico edificio di culto dedicato a San Nicola di Bari, situato in contrada Bruca, e andato completamente distrutto dal terremoto del 1687. Eretta subito dopo la nuova Matrice, si decise di ospitarvi le opere scampate alla rovina del sisma, fra cui il bel dipinto di Girolamo Alibrandi raffigurante Santa Maria dei Giardini (1516 circa), due acquasantiere, un tabernacolo risalente alla metà del XVI secolo, e questa Madonna. Lo stesso portale entro cui essa è posta vi è stato trasportato dalla precedente fabbrica religiosa: non è difficile notare le numerose sovrapposizioni di elementi, sia architettonici sia scultorei, appartenenti anche ad epoche diverse, che il successivo assemblaggio settecentesco ha determinato. Fra i pezzi erratici un po’ arbitrariamente ricomposti sulla facciata della Matrice compare anche una targa marmorea su cui è incisa la data 1613,148 anno cui Monica de Marco fa risalire il portale della chiesa. Dando inoltre per scontata la coerenza cronologica fra il portale stesso e l’immagine mariana, la studiosa finisce col datare anche quest’ultima alla medesima epoca.149 Ma, trattandosi di una ricomposizione successiva, e in virtù del fatto che la chiesa di contrada Bruca doveva risalire ad un periodo di molto precedente al 1613,150 nulla vieta di pensare innanzitutto che l’iscrizione non sia pertinente al portale (che a quella data doveva essere ampiamente compiuto); in seconda istanza, che la Vergine provenga da un altro luogo della medesima fabbrica religiosa. 148 S.M. INTERC D PRO NOBIS AD MDCXIII. M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento all’ultima Maniera. Marmi del Cinquecento nella provincia di Reggio Calabria, Esperide, Lamezia Terme 2010, pp. 110-111, 126. 150 Non si hanno notizie certe in merito all’epoca in cui fu costruita questa prima chiesa, ma si sa che l’abitato di Santo Stefano Medio, sviluppatosi proprio nei pressi della contrada da cui poi prese nome il borgo posto qualche chilometro più a settentrione, risale al XII secolo, e che nella contrada esisteva una chiesa di rito ortodosso dedicata ai Santi Maria e Costantino. Cfr. G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle chiese dei casali di Messina, Grafo Editor s.r.l., Messina [1992], p. 105; F. CHILLEMI, I casali di Messina. Strutture urbane e patrimonio artistico, con saggio introduttivo di A. AMATO ed un contributo di L. PALADINO, EDAS, Messina 1995, nuova edizione a cura di G. MOLONIA, FBP (fondazione Bonino-Pulejo), Messina 2004, p. 308. 149 313 Relativamente all’ambito culturale cui questo pezzo marmoreo fa riferimento, in questa sede si esclude la tesi sostenuta dalla De Marco, secondo la quale esso dovrebbe ascriversi all’operato della bottega calamecchiana di seconda generazione, vale a dire quella afferente a Lorenzo, figlio di Domenico, attivo a Messina allo scadere del Cinquecento.151 La studiosa istituisce un confronto tra la Madonna di Santo Stefano e il gruppo, datato 1604, raffigurante la Visitazione, custodito nella semidiruta chiesa della Madonna della Pace a Castanea delle Furie, altro villaggio del messinese (fig. 94); ma a mio avviso sono davvero esigue le affinità fra le due opere, che, pur facenti capo alla medesima temperie culturale, quella tardo-manieristica formatasi più o meno direttamente sugli esempi toscani a metà fra Giovann’Angelo Montorsoli e Andrea Calamecca, divergono stilisticamente palesando ciascuna l’intervento di un maestro diverso. La proposta che s’intende avanzare è che questa piccola ma vivace scultura sia da ricondursi alla fase matura dell’attività di Rinaldo Bonanno, il quale, dopo un breve iniziale apprendistato nella bottega di Martino Montanini, recepì, verosimilmente grazie ad un viaggio di studi in Toscana, la lezione michelangiolesca poi stemperatasi al rientro in patria. Da quanto emerge per un verso dalla documentazione d’archivio, per l’altro dai tanti manufatti firmati e datati dallo scultore nativo di Raccuia, il nono decennio del secolo ha costituito per lui il periodo di maggiore prolificità, e proprio agli anni compresi tra il 1582 ed il 1585 risalgono le tre immagini mariane che più si accostano a questa di Santo Stefano. Si tratta dei marmi conservati a Radicena di Taurianova (firmato e datato, 1582, fig. 95, 99), a Oppido Mamertina (fig. 97-98) e a Petilia Policastro (anch’esso firmato, fig. 48),152 tutti compiuti per piccoli borghi calabresi, a testimonianza dell’ampia fortuna che il maestro aveva oramai acquistato al di fuori dei confini strettamente isolani. In essi Rinaldo, alla dolcezza e alla delicatezza tipiche del proprio ductus scultoreo, unisce un’imponenza nella costruzione e nell’impostazione delle figure che, malgrado le dimensioni modeste, traspare anche nella Vergine siciliana. I volti bonanniani di questi anni si caratterizzano per i tratti austeri, tendenti al classico, ma non per questo perdono in espressività, e le chiome, specie quelle dei Bambini, sono fluenti, distinte in morbide ciocche ondulate in cui è talora visibile il segno lasciato dal trapano. 151 In effetti la De Marco non si è espressa precisamente in merito all’attribuzione a Lorenzo di quest’opera, limitandosi a riferire la figura all’ambito calamecchiano. Ciò perché le fonti menzionano due figli di Domenico, Lorenzo e Lazzaro, ma, secondo quanto sostenuto di recente da Alessandra Migliorato (Un misterioso caso di sdoppiamento, in «Karta. Periodico di cultura arte e spettacolo», I, 0, Messina, giugno 2005, p. 10), la personalità di Lazzaro, che non è attestata né per via documentaria né dall’esistenza di alcuna opera che con certezza gli si possa attribuire, sembra di fatto il frutto di una confusione generata dalle medesime fonti. Lazzaro, pertanto, non sarebbe mai esistito (questa è almeno la conclusione cui è arrivata la Migliorato). Dal canto suo, dunque, la De Marco ha riportato la tesi della Migliorato, senza approfondire la questione, indicando nella didascalia che accompagna la Madonna di Santo Stefano la dicitura “L. Calamech”. 152 Per queste sculture, si veda M. DE MARCO, Dal primo Rinascimento cit., pp. 87, 300-301, 304307. 314 11. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Madonna col Bambino (Madonna della Fierezza) 1575-1586 Marmo Altezza 168 cm Ficarra (ME), chiesa del Sacro Cuore (Badia) Iscrizioni: TEMPORE ABBATISSATVS REVERENDÆ ARCÃGILÆ PAGANO SORORIS D. La scultura è ancora oggi custodita nella chiesetta annessa al monastero benedettino di Santa Maria delle Grazie; dismesso il monastero, l’edificio di culto ha cambiato intitolazione, e la Vergine bonanniana, che s’innalza al centro della parete di fondo, è l’unica opera rimastavi dopo le rovine e le dispersioni verificatesi tra la fine dell’Ottocento e il principio del secolo scorso (fig. 107). Spetta a Benedetta Saccone il merito di aver rintracciato questa statua, grazie alla lettura di un prezioso atto notarile trascritto da Domenico Puzzolo Sigillo col quale, nel giugno 1575, Arcangela Pagano, badessa del sopradetto monastero, commissionava a Rinaldo Bonanno, per la cifra di trentasei once, «…quandam imaginem marmoream albam…et deoratam, que imago erit gloriosissima Virgo Maria de Gratia cum suo Filio in brachiis, conformis ac iuxta formam desinnj dandi et consignandj».153 Al di sopra dello stemma campeggiante sulla faccia laterale destra dello scannello154 è ben leggibile la data 1586, che induce a pensare ad una tarda consegna del manufatto da parte dell’artefice.155 La Madonna di Ficarra s’inserisce a pieno titolo nel cospicuo novero di marmi bonanniani che, più o meno apertamente, ricalcano schemi figurativi introdotti all’inizio del Cinquecento da Antonello Gagini, e negli anni successivi continuamente riproposti dai suoi figli e dai tanti epigoni. L’ultimo periodo di attività 153 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [123 e 132, doc. 18]. 154 Lo scannello è scolpito al centro con una Natività, ai lati con due testine di cherubini. Specie la scena con la Natività palesa l’intervento di un aiuto di bottega. 155 Non sono ancora riuscita ad identificare questo stemma, anche a causa del deterioramento della pittura che ne rende indecifrabile una parte. In un secondo scudo gentilizio, collocato alla sinistra della base, possono facilmente riconoscersi le insegne della famiglia della committente, la badessa Arcangela Pagano. A leggere per prima la data è stata Caterina Ciolino, in Opere d’arte restaurate 1980-1985, a cura di F. CAMPAGNA CICALA, G. BARBERA, C. CIOLINO, P. & M., Messina 1986, p. 73. L’opera è ancora ricordata da A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. BARBERA, in «Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina», 13, 2003, p. 123; M. P. DI DARIO GUIDA, La Calabria del XVI secolo, in Itinerari per la Calabria, collana Itinerari de “l’Espresso”, 13, Roma-Vicenza 1983, p. 202. 315 del Bonanno, approssimativamente dal 1583 fino alla morte, avvenuta nell’89, è in effetti caratterizzato da un deciso ritorno agli esempi della tradizione gaginiana, che tanto successo avevano riscosso specie nella prima metà del secolo XVI. Un’evidente marcia indietro nell’espressione linguistica si riscontra anche in qualcuna delle sculture licenziate negli anni settanta (penso in particolare alle Madonne di Larderia e di Massa San Giorgio, entrambe risalenti agli anni settanta, figg. 66, 70),156 che contrastano fortemente con le numerose prove “moderne” con le quali il maestro raccuiese aveva esordito al principio del settimo decennio del secolo, e con le straordinarie statue, raffiguranti un San Leo ed una Madonna del Soccorso, inviati nel 1582 rispettivamente a Bova e a Taurianova (figg. 96, 95);157 ma è negli ultimi sette anni d’attività che si ha la più alta percentuale di lavori per così dire “alla maniera gaginiana”, per i quali anzi il rimando a paradigmi antichi è talmente lampante da consentire addirittura di individuare con precisione, caso per caso, l’esemplare scelto da Rinaldo.158 Nell’occorrenza specifica della Vergine di Ficarra, mi sembra che il modello preso in considerazione dallo scultore possa identificarsi nella Madonna col Bambino (1498) custodita nella chiesa parrocchiale del casale messinese di Bordonaro, ad oggi prima rappresentazione mariana realizzata da Antonello Gagini (fig. 108). Uno statico impianto compositivo accomuna le due immagini, piuttosto rigide nel fermo assetto assiale, ed anche l’andamento dei panneggi segue le medesime linee, con l’assieparsi di falcature al centro; l’unico elemento discordante è il Bambino, la cui postura cambia sensibilmente, rendendo la figura bonanniana molto simile ad un’altra opera, di analogo soggetto, ben nota agli studiosi delle vicende scultoree siculo-calabre del Cinquecento. Mi riferisco alla Madonna del Popolo che Giovann’Angelo Montorsoli portò a compimento tra il 1554 ed il 1555 per la Cattedrale di Tropea (fig. 71), marmo dall’immediata e larga fortuna tra la committenza, come ci testimoniano le numerose derivazioni sparse tra i vasti territori della provincia peloritana e della dirimpettaia Calabria. Già nella Vergine (firmata) destinata da Bonanno alla Chiesa Madre di Massa San Giorgio, l’artista siciliano aveva replicato il celebre esemplare montorsoliano, tanto da indurre chi scrive a pensare che una siffatta specularità possa spiegarsi solamente accettando l’ipotesi di una diretta richiesta del committente. Se, a proposito di quella scultura, la mia idea è che in essa la fedele ripresa del 156 Per queste due statue, cfr. le rispettive schede nn. 4, 6. Per la Madonna del Soccorso, cfr. la scheda n. 9. 158 Su dodici incarichi ottenuti (alcuni documentati, altri attestati dalla firma dell’autore, e un ultimo attribuito per la prima volta in questa sede) tra il 1583 ed il 1589, ben nove vedono protagoniste figure femminili (fra le quali sette su nove sono mariane, le restanti due rappresentanti una Santa Lucia ed una Maddalena), tutte riprese da analoghi modelli di Antonello. Per completezza d’informazione, le altre tre imprese che mancano all’appello riguardavano la commissione di tre cappelle all’interno del Duomo messinese, e di due monumenti funebri, rispettivamente eretti per commemorare la memoria di Stefano de Patti nella chiesa di San Francesco e di Francesco lo Giudice in una non specificata chiesa di Catania. 157 316 manufatto di Tropea non abbia impedito al suo autore di filtrare quest’operazione “emulativa” attraverso la lente gaginiana, facendo così di essa una chiarissima rivisitazione della statua di Giovann’Angelo alla luce del latente legame con Antonello; nel caso di Ficarra mi sembra che l’analisi possa essere letteralmente invertita, considerando quest’opera, dal dominante “sapore” gaginiano, l’ennesima, sfacciata riproposizione, da parte di Rinaldo, del precedente antonelliano effettuata, però, con uno sguardo a quel maestro, il Montorsoli appunto, il cui influsso sullo sviluppo dell’arte scultorea nella Sicilia orientale è stato tanto profondo quanto duraturo. 317 12. Rinaldo Bonanno (Raccuia, 1544/45 – Messina, 1590) Santa Lucia 1589 Legno dipinto Altezza 124 cm Fiumedinisi (ME), chiesa dell’Annunziata La scultura, che nei primi anni ottanta del secolo scorso è stata interessata da un restauro che ne ha riportato in luce le cromie originali,159 è collocata sull’ultimo altare destro della Chiesa Matrice del piccolo borgo siciliano, ed è oramai priva dello scannello pentagonale nelle cui facce erano incise le scene del Martirio della Santa (fig. 111). Essa è stata segnalata per la prima volta da Stefano Bottari, il quale nel 1934 pubblicò un breve contributo sul maestro messinese Rinaldo Bonanno, e nell’occasione sunteggiò in appendice una serie di atti notarili trasmessigli da Domenico Puzzolo Sigillo che li aveva rintracciati nell’allora Archivio Provinciale di Messina.160 Fra questi documenti, ve ne era uno, datato 16 febbraio 1589, attestante la commissione, da parte di Antonio La Barbera, rappresentante della confraternita dell’Annunciazione della Beata Vergine Maria di Fiumedinisi, di una Santa Lucia «di lignami di chiuppu seu di tiglio staxunatu…con soi colori necessarii et lavori di oro con ditto suo scabello etiam colorato et lavorato in oro con cinque facchi…».161 Qualche tempo dopo (1960) Beatrice Saccone diede alle stampe il primo studio monografico su questo artista, cui ella aveva dedicato la propria tesi di laurea, usufruendo anche delle numerose notizie tratte dalle tante carte d’archivio rimaste nella biblioteca privata del Puzzolo Sigillo al momento della morte di questi. Così la studiosa, oltre a trascrivere per intero il già citato rogito, estrapolò da un documento (che nell’occasione non fu pubblicato) un’ulteriore, rilevante notizia correlata all’opera di Fiumedinisi: essa in precedenza era stata (il 2 dicembre 1588) affidata al suocero di Rinaldo, Andrea Calamecca, il quale però morì dopo soli due mesi.162 Sembrò pertanto naturale alla confraternita dell’Annunciazione passare l’incarico a colui che, legato da stretti legami familiari con il maestro originariamente scelto, si era anche molto distinto nell’arte scultorea, divenendo 159 Opere d’arte restaurate 1980-1985, a cura di F. CAMPAGNA CICALA, G. BARBERA, C. CIOLINO, P. & M., Messina 1986, p. 73. 160 S. BOTTARI, Nota sul Busto di F. Maurolico e su Rinaldo Bonanno, in «Archivio storico messinese», XXXIII-XXXV, 1933, pp. 125-135 [129-130]. 161 B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, pp. 117-180 [137, doc. n. 34]. 162 Ibidem, p. 125 n. 1. 318 uno dei principali artefici operosi nella città dello Stretto. La sorte volle peraltro che questo legno abbia costituito per Bonanno l’ultima fatica, dal momento che anch’egli morì, probabilmente entro lo stesso 1589, o al massimo nei primi giorni dell’anno successivo.163 Entrata pertanto di diritto nella storiografia occupatasi, negli anni successivi, della figura di questo maestro, la scultura è stata opportunamente letta come un ritorno, da parte del suo autore, ai tanto fortunati e perciò stesso diffusi prototipi licenziati da Antonello Gagini nei primi anni del Cinquecento e poi continuamente replicati, entro la bottega di questi, sino a lambire l’ottavo decennio dello stesso secolo.164 Effettivamente, l’intera carriera di Rinaldo Bonanno è scandita da diversi momenti “d’ispirazione” che, ad intervalli piuttosto regolari, oscillano tra la palese predisposizione dello scultore ad accogliere le deflagranti novità partorite dalla Maniera moderna, e l’altrettanto suo manifesto radicamento nella tradizione figurativa gaginiana. Il riferimento più diretto e puntuale per la Santa Lucia deve identificarsi nelle tante immagini di sante martiri compiute da Antonello, fra le quali possono di certo annoverarsi la Santa Oliva (1511 circa, fig. 112) eseguita per l’omonima chiesa di Alcamo, e la Santa Lucia (1526 circa, fig. 113) ancor oggi custodita nel Duomo di Siracusa.165 Paradossalmente, nel riproporre l’antico modello, Rinaldo diede vita ad una figura per certi aspetti ancora più vetusta, caratterizzata dal paralizzato impianto assiale sul quale le vesti, aderendovi, si rinsecchiscono, e dall’accentuato pietismo espresso dalla Santa e di cui l’artista aveva d’altronde già dato prova nella Maddalena (metà anni ottanta, fig. 109) inviata a Seminara, a sua volta mutuata da un altro, celebre, esempio gaginiano.166 163 Il 2 gennaio 1559 il padre, lasciando Rinaldo per un periodo di apprendistato presso la bottega di Martino Montanini, lo definì di anni «quatordecim vel circa»; perciò normalmente se ne colloca la nascita intorno al 1544 o al più tardi nel ’45 (cfr. D. PUZZOLO SIGILLO, Ordinazione di opere d’arte cit., p. 115, n. 1; B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore cit., pp. 117-180 [117, 128, doc. n. 1]). Un altro documento, tratto dalle carte della parrocchia di San Luca, e datato 23 febbraio 1590, ne attesta invece la morte: «È statu mortu Renaldu Bonannu marmuraru confessatu, et è sepultu alo conventu di lo Carmino, henniru di mastro Andria Calamecca» (cfr. ibidem, pp. 126, 137, doc. n. 35). 164 S. LA BARBERA BELLIA, La scultura della Maniera in Sicilia, Edizioni Giada, Palermo 1984, p. 80, fig. 58; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Electa Napoli, Napoli 1997, p. 105; A. MIGLIORATO, Tra Messina e Napoli: la scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria, Messina 2000, pp. 35, 62, fig. 46; A. MIGLIORATO, Revisioni e nuovi contributi su Rinaldo Bonanno, in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. 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Messina, biblioteca privata di Domenico Puzzolo Sigillo (dagli atti del notaio Nicolò de Celio, registro 1564/65, f. 669r/v) Edizione: B. SACCONE, Rinaldo Bonanno scultore e architetto messinese, in «Commentari», XI, 1960, p. 128. 1. Messina, 7 maggio 1565 «…fareli et laborarili dui depulturi mamorii conformi a lo disingno et a talentamento di li nobili Andrea Calamecca et Joanne Dominico Mazzolo…» 2. Messina, 20 novembre 1565 «…die venti novembris 1565 prefatus magister Paulus Tasso…confessus est habuisse a prefato dominus Philippo la Rocca…oncias duas hoc modo, videlicet: scutos duos datos de ordine ipsius Pauli magistro Rinaldo de Bonanno». 3. Messina, 1 dicembre 1565 «…die primo dicembri 1565 prefatus magister Paulus Tasso…confessus est habuisse…tarenos ventuno datos de eius ordine magistro Rinaldo de Bonanno». 321 BIBLIOGRAFIA Il criterio adottato per la bibliografia è alfabetico. 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