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Studi sulla formazione 2009

2009

La pedagogia è impegnata da tempo in un accanito dibattito sui metodi della ricerca. Forse perché imbarazzata dei suoi ritardi epistemologici, forse perché ancora preoccupata di un passato di forte sudditanza nei confronti della filosofia e in particolare, qui in Italia, della filosofia idealista e personalista, da molti (troppi?) anni appare affannata a dotarsi di una identità metodologica (sia nell'ambito della ricerca che degli strumenti operativi) il più possibile scientificamente legittimata. Mentre tutto cambia, intanto che paradigmi, visioni, corpi e collettività si avvicendano, muoiono e si accatastano gli uni sugli altri, la guerriglia tra epistemologi e ermeneuti, tra idiografici e nomotetici, tra clinici e sperimentali, tra filosofi e metodologi, si consuma senza sosta, in un curioso e a volte un po' estenuante siparietto fondamentalmente accademico. Tutto ciò è comprensibile, così come è comprensibile ed anche encomiabile lo sforzo della disciplina "minore", da una parte di non smarrire radicalmente il suo statuto anfibio, la sua costitutiva e irriducibile composizione teorico-pratica, e dall'altra il suo impegno a fondare vie di affermazione che, pur alla ricerca di una benedizione scientifica, neppure vengano meno alla preoccupazione etica e trasformatrice agli indirizzi della persona, delle istituzioni formative, della società. La sensazione tuttavia è quella di una rincorsa talora troppo dispersiva e spesso ritardataria nei confronti di modelli scientificamente sorpassati o largamente in crisi. Penso in particolare a certe tendenze di stampo neopositivistico o positivistico tout courtche purtroppo riemergono anche altrove, magari rivestite dei panni di qualche nuova neuro…scienzaassetate di fatti, di dati, di verificabilità e standardizzazione, per quanto corrette da un popperismo anch'esso francamente un po' stantio, oppure a un certo eclettismo privo di radicamento e di orientamento politicoconoscitivo, tutto legittimato dalle urgenze della pratica e dei "bisogni" educativi. Negli ultimi tempi, accanto a una liquidazione abbastanza generalizzata, almeno qui in Italia, del suo volto teoretico e speculativo (che forse però è quello che ha tentato, almeno negli ultimi decenni, di emanciparla dalle sue costitutive arretratezze nella maniera più tenace), sembrano affermarsi le prospettive più orientate da un impegno di piccolo cabotaggio, di microricerca e soprattutto della rincorsa di un'utilità e spendibilità immediata che, francamente, pare troppo facilmente assorbibile da un'impostazione pragmatista e specialistica oggi davvero molto compromessa con le esigenze di un potere politico tutt'altro che favorevole nei confronti della sopravvivenza e della difesa della multiformità della cultura (e si veda in particolare l'esplosione delle ricerche sulla teledidattica e l'e-learning). E' vero che una parte significativa di questo fronte di ricerca ha trovato nell'incontro delle filosofie di genere (con particolare riferimento alle opere di Hanna Harendt, Maria Zambrano e di altre filosofe "imperdonabili" che qui in Italia hanno avuto come fulcro di gravitazione ed elaborazione la Libreria delle Donne di Milano e la comunità Diotima di Verona) e del repertorio delle epistemologie della complessità batesoniane, un nucleo interessante e sicuramente innovativo di sperimentazione nel "piccolo" e nel concreto di buone pratiche trasformative ed esportabili. Tuttavia resta il sospetto anche qui che, accanto ad un'apertura e novità innegabili, specie se legate ad un'effettiva integrazione di ragione ed emozione, non si riesca ad evitare il risorgere di una componente irenica che fa perno sulla centralità della relazione e di una conoscenza complessa ma bonificatrice che ancora una volta sembra nascondersi la crudezza strutturale e le innumerevoli violenze implicate da ogni pratica educativa in quanto tale. E inoltre, all'elogio del piccolo, di cui non si vuole disconoscere possibilità emancipative nel tessuto (apparentemente) frantumato della postmodernità, sembra mancare cognizione del livello di compromissione a monte dei meccanismi di potere che richiederebbe un'attenzione alle articolazioni tra "flussi" e "segmenti", tra livelli

Ricercare oltre di Paolo Mottana Vecchie pedagogie e nuove emergenze La pedagogia è impegnata da tempo in un accanito dibattito sui metodi della ricerca. Forse perché imbarazzata dei suoi ritardi epistemologici, forse perché ancora preoccupata di un passato di forte sudditanza nei confronti della filosofia e in particolare, qui in Italia, della filosofia idealista e personalista, da molti (troppi?) anni appare affannata a dotarsi di una identità metodologica (sia nell’ambito della ricerca che degli strumenti operativi) il più possibile scientificamente legittimata. Mentre tutto cambia, intanto che paradigmi, visioni, corpi e collettività si avvicendano, muoiono e si accatastano gli uni sugli altri, la guerriglia tra epistemologi e ermeneuti, tra idiografici e nomotetici, tra clinici e sperimentali, tra filosofi e metodologi, si consuma senza sosta, in un curioso e a volte un po’ estenuante siparietto fondamentalmente accademico. Tutto ciò è comprensibile, così come è comprensibile ed anche encomiabile lo sforzo della disciplina “minore”, da una parte di non smarrire radicalmente il suo statuto anfibio, la sua costitutiva e irriducibile composizione teorico-pratica, e dall’altra il suo impegno a fondare vie di affermazione che, pur alla ricerca di una benedizione scientifica, neppure vengano meno alla preoccupazione etica e trasformatrice agli indirizzi della persona, delle istituzioni formative, della società. La sensazione tuttavia è quella di una rincorsa talora troppo dispersiva e spesso ritardataria nei confronti di modelli scientificamente sorpassati o largamente in crisi. Penso in particolare a certe tendenze di stampo neopositivistico o positivistico tout court – che purtroppo riemergono anche altrove, magari rivestite dei panni di qualche nuova neuro…scienza- assetate di fatti, di dati, di verificabilità e standardizzazione, per quanto corrette da un popperismo anch’esso francamente un po’ stantio, oppure a un certo eclettismo privo di radicamento e di orientamento politicoconoscitivo, tutto legittimato dalle urgenze della pratica e dei “bisogni” educativi. Negli ultimi tempi, accanto a una liquidazione abbastanza generalizzata, almeno qui in Italia, del suo volto teoretico e speculativo (che forse però è quello che ha tentato, almeno negli ultimi decenni, di emanciparla dalle sue costitutive arretratezze nella maniera più tenace), sembrano affermarsi le prospettive più orientate da un impegno di piccolo cabotaggio, di microricerca e soprattutto della rincorsa di un’utilità e spendibilità immediata che, francamente, pare troppo facilmente assorbibile da un’impostazione pragmatista e specialistica oggi davvero molto compromessa con le esigenze di un potere politico tutt’altro che favorevole nei confronti della sopravvivenza e della difesa della multiformità della cultura (e si veda in particolare l’esplosione delle ricerche sulla teledidattica e l’e-learning). E’ vero che una parte significativa di questo fronte di ricerca ha trovato nell’incontro delle filosofie di genere (con particolare riferimento alle opere di Hanna Harendt, Maria Zambrano e di altre filosofe “imperdonabili” che qui in Italia hanno avuto come fulcro di gravitazione ed elaborazione la Libreria delle Donne di Milano e la comunità Diotima di Verona) e del repertorio delle epistemologie della complessità batesoniane, un nucleo interessante e sicuramente innovativo di sperimentazione nel “piccolo” e nel concreto di buone pratiche trasformative ed esportabili. Tuttavia resta il sospetto anche qui che, accanto ad un’apertura e novità innegabili, specie se legate ad un’effettiva integrazione di ragione ed emozione, non si riesca ad evitare il risorgere di una componente irenica che fa perno sulla centralità della relazione e di una conoscenza complessa ma bonificatrice che ancora una volta sembra nascondersi la crudezza strutturale e le innumerevoli violenze implicate da ogni pratica educativa in quanto tale. E inoltre, all’elogio del piccolo, di cui non si vuole disconoscere possibilità emancipative nel tessuto (apparentemente) frantumato della postmodernità, sembra mancare cognizione del livello di compromissione a monte dei meccanismi di potere che richiederebbe un’attenzione alle articolazioni tra “flussi” e “segmenti”, tra livelli molecolari e molari delle pratiche di trasformazione, alle subalternità inevitabili di ogni pratica di buon governo circoscritta e separata. Ancora, non sempre l’effettiva pratica di una “ragione poetica”, per dirla con Maria Zambrano, sembra essere seguita fino in fondo nei linguaggi, nelle logiche di ricerca, nell’assunzione di un paradigma che accetti la radicalità di una cognizione intuitiva, immaginativa, cioè, come direbbe la filosofa spagnola, una cognizione che faccia perno sull’organo del “cuore”, sulle “entrañas”. Nel tempo in cui le politiche arroganti dei poteri che contano sembrano davvero porre in discussione la vita dei saperi nella loro ricchezza, complessità e problematicità e appaiono viceversa impegnate nello smantellamento di qualsiasi eterogeneità e pluralità in direzione di una torsione tutta produttivistica e aziendalistica delle istituzioni e dei servizi culturali (compresi quelli educativi), lottare per una ricerca di natura micro e fondata sullo slogan dell’utile (non sempre meglio circostanziato) può (ma sottolineo può) correre il rischio di restare una illusione autoreferenziale. Essere all’altezza dell’attacco sempre più disinibito alle uniche istituzioni che possano garantire una diffusione democratica del sapere oggi, una sua coltivazione assidua e appassionata, significa muoversi in un’ottica globale, capace di far davvero interagire piccolo e grande, individuale e generale e soprattutto capace di affrontare con durezza e intransigenza ogni violazione al corpo vivente e molteplice del sapere. Così come anche un’ottica capace di ospitare, in una ricca contaminazione, i volti anche molto sfaccettati delle epistemologie della ricerca. E da questo punto di vista debbo anche ribadire lo sconcerto per le prevenzioni e la rigidità di una cultura, mi riferisco sempre a quella pedagogica nel nostro paese, che rifiuta con troppo sussiego prospettive conoscitive e di ricerca che includano l’alea dell’irrazionale, dell’immaginativo e del contraddittoriale. I modelli di razionalità che la pedagogia nostrana esibisce ancora come vessilli non vengono praticamente mai meno ad una impostazione unilateralmente di natura razionalistica (critica quando va bene, ma comunque asserragliata nella cittadella di un problematicismo assai cauto che guarda alla radicalità dell’esperienza sempre con un certo sussiego distanziatore e moralistico), magari condita di una ermeneutica timida e di un’apertura ad una interpretazione della fenomenologia esistenziale posta a presidio di un’intersoggettività buonista e pacificatrice. Troppo raramente, a mio giudizio, si avverte la presenza di posizioni incisive, disinibite e autenticamente trasformative in merito sia, da una parte, ad un’identità del pedagogico che finalmente ne scarichi la maschera bonificatrice e super partes, sia ad un affacciarsi senza timore sui terreni davvero urgenti e sanguinanti di un’esperienza della vita e dell’educazione contemporanee segnate da un potere totalizzante che mai è stato così pervasivo, capillare e distruttivo. E questo sia in relazione a questioni cruciali come quella dei nuovi e tragici processi di soggettivazione, delle questioni inerenti la violenza non solo fisica e ideologica intorno alle differenze di genere, di razza, di cultura ma anche a quelle più sommerse nella manipolazione dei corpi, dei desideri, dei linguaggi al di qua e nello spazio stesso dei conflitti culturali, di sesso e di etnìa. La pedagogia, sempre impacciata dal suo super io “educativo” ( che qui in Italia risente in modo diffuso del peso della religione cattolica, anche nei settori laici), difficilmente riesce a produrre una ricerca autenticamente e crudelmente “genealogica” nella scia di Foucault, nonostante venga citato ad ogni piè sospinto, (e men che meno di un Nietzsche). Così come assai rara appare una ricerca che aggredisca, con il taglio profondamente antiideologico e etnografico in senso consapevole che possiedono i Cultural Studies e gli studi postcoloniali, o con una radicale disinibizione critica, l’educazione sessuale e il travagliato mondo della sessualità in genere, compresa quella infantile e adolescenziale (si pensi al pressocchè totale silenzio sui lavori di Schérer), la dinamica dei desideri e delle passioni, la manipolazione delle menti, l’oblìo del mondo delle cose e della natura e la demolizione accelerata del loro volto e della loro interiorità, l’ingresso sempre più massiccio e arrogante della tecnologia in tutte le sue forme, anche quelle manifestamente più violente e abusanti (della vita e della linfa emozionale del sapere…) nei processi micro e macroeducativi. Ma la rassegna dei temi sarebbe davvero interminabile. Alla ricerca con l’immaginazione simbolica A me pare sia giunto il tempo per produrre invece una ricerca realmente teorico-pratica (però, anche quest’espressione, in fin dei conti, non è un po’ mummificata nel tempo dei rizomi e delle disseminazioni?, anzi, oltre il tempo dei rizomi e delle disseminazioni, in quello che è con sempre più evidenza uno scenario post-umano…), diciamo meglio, una ricerca che sia anche “prassi simbolica”, capace di integrare nel suo profilo un’identità metodologica agguerrita e determinata, segnata dall’incontro con le lezioni più radicali della filosofia del ‘900 (che è sempre stata anche grande pratica culturale e politica) che, dal mio punto di vista vanno cercate sulle frontiere che la pedagogia guarda sempre con troppo sospetto oppure con la preoccupazione di domarle e renderle metabolizzabili alla sua pars giudicante. Una ricerca che, della sua vocazione teorico-pratica, sappia riconoscere fino in fondo la concretezza prassica delle idee e la vocazione trasformatrice di simboli, immagini, forme allo stesso modo in cui impari a riconoscere la componente generativa e simbolica dei dispositivi, delle pratiche, delle materie e dei corpi in azione sulla scena educativa. Questa pedagogia che resta invece per lo più sempre murata nella sua vocazione enciclopedica e troppo poco battagliera, fosse anche dal fronte della tradizione e della reazione. Timida perfino in questo. Attanagliata dal sussiego di non far mai torto a nessuno e finendo così per farlo a tutti. Una pedagogia in cui, salvo qualche sporadica eccezione (e penso a Riccardo Massa e a pochi altri), non si sente mai fare un nome fuori posto se non per reinscriverlo subito in qualche filone predigerito, dove quando qualcuno prova anche solo a introdurre riferimenti davvero altri (mi permetto di citare il mio caso con il tentativo di introdurre la tradizione ermetica (ahi, pura demonologia!) (Jung, Durand, Bonardel), una razionalità di tipo anfibologico e contraddittoriale (Lupasco, Wunenburger, Cazenave), l’irrazionale (Feyerabend, Corbin, Bonardel), l’immaginazione simbolica (Bachelard, Durand, Hillman) oppure la centralità dell’eros in educazione) ottiene solo di essere estromessa a vita dal dibattito interno perché ha osato sporgersi oltre la “cortina di ferro” (la nostra è l’unica che non cade mai…) a cercare stimoli “inattuali” non per ricondurli all’ovile di una razionalità cartesiana appena corretta da un pizzico di ermeneutica… Per conto mio in questi anni ho infatti cercato, nell’isolamento più totale, di aprire una via di conoscenza immaginativa in campo educativo. Una ricerca di frontiera che tenta di restituire alle immagini, pressocchè da sempre defraudate come fonti di sapere e considerate forme di una “gnoseologia inferior” (Baumgarten), il loro autentico potere conoscitivo. Le immagini simboliche, frutto di una ponderazione e di una riformulazione figurale tra il fatto, l’esperienza e lo sfondo ideale e intelligibile. Le immagini simboliche, rincorse attraverso una faticosa genealogia o forse meglio una archeologia fondatrice, che ha trovato nella filosofia presocratica (con la suggestione di un sapere di carattere allusivo e enigmatico piuttosto che discorsivo e concettuale) e poi in pochi affioramenti medievali e rinascimentali (tra gnosticismo e neoplatonismo, tra filosofie ermetiche e mistica teosofica), fino al romanticismo e alle voci di un dibattito novecentesco che, da Bergson e Bachelard, attraverso Gilbert Durand, Walter Benjamin e Carl Gustav Jung, e, nel contemporaneo, da Gilles Deleuze a James Hillman a Jean Jacques Wunenburger e a Georges Didi-Huberman, sembra permettere una loro riconsiderazione come veicoli di una conoscenza anfibologica, plurale, non valutativa né prescrittiva, non ideologica né categorizzante. Una conoscenza che si fonda sulla ricerca di una materia sottile, quella appunto delle immagini, capace di connettere l’espressione vivente dell’esperienza, perché l’immagine simbolica è un essere vivente, con uno sfondo di forme mitico-archetipiche, di “figure” dialettiche in cui il reale si riscopre multiforme e indecibile. La pratica delle immagini come fonte di sapere, sovverte l’idea che si debba sempre produrre rischiaramenti e distinzioni mentre al contrario una conoscenza di natura simbolica deve imparare a cedere alla costitutiva struttura ambigua e inesauribile dei significati dell’esperienza. Così sottoporre grandi temi, vere e proprie invarianti dell’esperienza e della discorsività educativa, come la mancanza, la cura, la ferita, il male, l’infanzia e l’adolescenza e così via ad una esposizione al rispecchiamento in opere simboliche che lavorano questi temi nella direzione di una loro riformulazione immaginale, significa far scontrare qualsiasi scorciatoia concettuale o pragmatica contro il tessuto fittissimo di una proliferazione di possibili vie interpretative tutte parimenti percorribili e prive di centro. Così ad esempio considerare il tema del deficit, della mancanza o della mutilazione attraverso la meditazione di opere che esprimono figuralmente il volto dello straniamento e del portare la ferita su di sé, come i clown tragici di Rouault o certi lavori di Kokocinski, significa penetrare, o meglio, rendersi ricettivi ad una dimensione invisibile e persistente dell’essere al mondo, che riguarda tutti in quanto mancanti e tutti, anche se in alcuni casi in maniera più evidente, portatori di una frantumazione passibile di rinascita, di una passione che mira al contempo la morte e la trasformazione, in cui gli archetipi di Dioniso e di Cristo affiorano nella loro potenza di simboli aperti e ogni volta riattivati in una singolare e dialettica composizione con le forme dell’ora e del qui. Oppure meditare l’infanzia, l’infanzia non solo come fatto anagrafico e psicologico ma soprattutto come simbolo di inizio e fine, di totalità e di intreccio di un approccio erotico e immaginativo al mondo, intrattenendosi lentamente e ripetutamente con l’intensità aurorale eppure quintessenziata di una raccolta di haiku giapponesi, o ancora attraverso la difficile equilibrazione di colore, materia e figura che impariamo immergendoci negli ultimi, incandescenti dipinti di Nicolas De Stael, è cosa ben diversa dal condizionamento che interiorizziamo dal discorso presunto scientifico e certamente portatore di prescrizioni e di imputazioni valoriali delle psicologie e spesso anche dei modelli filosofici. E’ un modo di vedere gli stessi soggetti intrisi di una materialità che li fa vibrare oltre la loro letteralità, in un reticolo di corrispondenze e di analogie che li radica nel tessuto dell’esperienza. Non più i bambini come oggetto separato di cura e di considerazione teorica ma i bambini come stagione permanente dell’essere, che si riverbera ad ogni livello dell’esperienza del mondo e che di questo mondo, nella sua dimensione d’infanzia, infanzia vegetale e perenne, diceva Bachelard, si fanno testimoni e mediatori. O ancora la simbolica della morte e del morire rivissuta e lavorata attraverso un video come The Passing di Bill Viola o le incisioni di Käthe Kollwitz o ancora i dipinti di Zoran Music. O ancora con le opere musicali di Krzystof Penderecki, di Sofia Gubaidulina o di Fausto Romitelli. E ancora e ancora. Avendo a disposizione un giacimento sterminato di “presenze viventi” (sciami d’immagini simboliche che costellano, secondo una riconoscibile “risonanza semantica”, il crogiolo del bacino immaginale, il nucleo archetipico) capaci di trasmutare, riorientare ed emancipare la nostra sensibilità, ai fini di una vera e propria gnosi (da intendersi come conoscenza integra, non separata e non separatrice, che fa convivere pensiero, emozione e immaginazione e oggetto di conoscenza) del mondo e della sua fisionomia viva e dotata di interiorità (il Weltinneraum di Rilke). L’immagine simbolica è infinitamente aperta e sufficientemente oscura e ambigua da non consentire di accumulare alcuna certezza. Al contrario, essa decostruisce e contemporaneamente arricchisce il nostro immaginario di figure attraverso le quali imparare a ri-vedere l’esperienza del reale nella sua costitutiva e inestirpabile contraddittorialità, nella sua irriducibile e però anche coinvolgente materialità significante che non si lascia inchiodare ad alcuna definizione. Lavorare attraverso le immagini ad una conoscenza complessa, significa mettere in campo uno sguardo partecipativo e non distanziatore, una postura non giudicante, richiamare ad una responsabilità nei confronti del volto inesauribile del reale in cui convivono necessariamente le ombre e le luci, il male e il bene, la mancanza ad essere e l’impulso a non cedere sul proprio desiderio (come dice Lacan che, peraltro, ha importato nel mondo del sapere e non solo, un’idea dell’immagine patologizzata e alienante che conferma uno stereotipo iconoclasta fin troppo presente nella cultura filosofico-scientifica). Questo filone di ricerca, certamente anomalo, inattuale e difficilmente componibile con i canoni di una razionalità illuministica allergica all’ambiguità delle rivelazioni propiziate dalla collisione vorticosa della lontananza dei simboli con il manifestarsi anacronistico delle forme (per dirla attraverso Benjamin rivisitato da Didi-Huberman), ha la pretesa di far interagire il sedimento tellurico della cultura (il suo patrimonio di forme originarie e il suo archivio mitico-archetipico, che è fondamentalmente transculturale) con l’espressività sempre rinascente del gesto simbolico. Pretende altresì di restituire a questa materia composita una potenzialità conoscitiva, di una conoscenza radicalmente alternativa a quella misurabile e confrontabile o anche solo concettuale e razionale che ancora sembra dominare, nonostante i molti richiami, anche in ambito scientifico. Per un’apertura alla complessità che includa fonti siffatte, se non altro con un ruolo equilibratore e compensatorio, (e si pensi a Feyerabend o Cazenave), nell’ambito di un ricercare che non può più dimostrare l’infallibilità di alcuna procedura. Confidare nelle immagini, nelle immagini simboliche, a me pare una buona strada per decantare quel fondo di ingenuo attaccamento a paradigmi che hanno dimostrato la propria inabilità a comprendere l’inesauribile molteplicità dell’esistere in tutte le sue forme e soprattutto la sua solidarietà o continuità invisibile che invece lo sguardo tenace, appassionato e sofferto dell’artista ci restituisce e ci consente di sperimentare in forma partecipativa. E oltre Ma al di là di quella che può apparire una posizione di ricerca tra altre (come mi auguro, un giorno o l’altro, sarà riconosciuto), ricerca anche proprio come desiderio di trovare, di capire, oltre i limiti di ciò che si considera troppo unanimemente un benpensare in educazione, resta la necessità, a mio avviso, di una riconsiderazione profonda del profilo della ricerca educativa. Questa pedagogia ha bisogno di aria ( e anche di un po’ di fuoco!). Ha bisogno di trovare (pensando con e oltre il mio maestro Massa ad altri che ispirino da altrove, in ogni senso, da Artaud a Benjamin, da Bataille a Deleuze, da Rilke a Bousquet), le ragioni di prese di posizione che siano davvero coraggiose sul piano culturale, sul piano epistemologico, che lacerino e contundano, ma anche scavino, senza timore di sporcarsi le mani là dove il terreno frana, dove i riferimenti si fanno più deboli, dove le ragioni progressive si oscurano e affiora la bestia o, se si preferisce, il Reale, come lo chiamava Lacan (si pensi alla retorica moraleggiante e miope che si mobilita, anche sul fronte pedagogico, quando si tratta di questioni come la pedofilia, la sessualità adolescenziale, la violenza giovanile e dunque il male come controparte simbolica del bene e non solo come l’impensabile da rimuovere e cancellare). Così pure nel suo specifico, sulla scuola, sull’educazione, sulla famiglia, sventolando la bandiera dell’utile, bisogna essere ben consapevoli della posta in gioco. Niente può essere più equivoco che impugnare lo slogan dell’utilità nel tempo in cui è diventato finalmente non più solo la religione ideale del mondo anglosassone, ma il DNA del mondo. Occorre chiedersi con sovrana radicalità anzitutto utili a chi e poi in che contesto, per quali fini, non solo quelli immediati, ma quelli sovraordinati, per quale forma di potere, per quale politica della cultura, dei servizi, dell’esserci, qui ed ora e in questa congiuntura gravissima (non quella della crisi, che certo può essere un’occasione che probabilmente si perderà, per cambiare qualche fondamentale paradigma intorno al senso e alla direzione di marcia di questo Occidente), che è tanto più grave perché l’inconsapevolezza di questo livello dei problemi (quello che richiederebbe un’autentica epistemologia della complessità) si diffonde come un virus. Oggi le politiche della manipolazione e dell’influenzamento fin da piccolissimi (il potere che ci abusa ormai si è accampato in neonatologia e prima ancora) intorno al modo di stare nel mondo sono così pervasive, capillari e potenti che una ragion critica non basta più. Occorre una vigilanza più sottile, una captazione a livello della trasmissione digitale e invisibile, oppure forse fin troppo visibile, delle biopolitiche e delle cosmopolitiche dei prossimi e dei futuri. La pedagogia dovrebbe sentire qui, in questa congiuntura davvero drammatica, tutto il peso della sua responsabilità, e trovare nella sua debolezza l’arma propria (nella sua debolezza che le consente di dischiudere una sensibilità più ricettiva e meno ostacolata dalle ragioni stesse di sopravvivenza castale dei saperi separati), per far valere una ragione molteplice, globale, complessa, capace di leggere l’archeologia dell’episteme, come quella di ogni agire sociale, da parte a parte, per istituire un’azione di radicale decondizionamento, di risveglio, di eviscerazione e di esibizione della corruzione avanzata prodotta dai dispositivi disciplinari diffusi nel nuovo millennio e dei loro veicoli immaginari e perfino simbolici. Occorre una pedagogia risvegliata, che lavori la nostra storia ( e soprattutto la stessa cultura dell’educazione)“a contropelo”, come diceva Benjamin, che produca pensatori con il martello e non decoratori e piccoli ingegneri dell’istruzione su misura, o maieuti delle buone intenzioni, anche perché non è più tempo per gingillarsi con le antinomie e la partita doppia dell’Altro e del Medesimo. Oggi, persino oltre l’istituzione di un tertium differenziatore, di una terzietà indispensabile per fuggire monismo e dualismi (quella che persegue ogni autentica “ragione contraddittoriale”), occorre aprirsi a un sapere davvero transdisciplinare, un sapere plurale che però investa con decisione e con l’ispirazione di maestri radicali e immoralisti le trappole di un sistema di coartazione che si è infuso come un cancro nell’organismo sociale e che ci lavora dal di dentro. A mio giudizio devono anche rientrare in gioco le grandi visioni, le ottiche sovvertitrici sul piano globale e le epistemologie radicalmente altre (come quella costruita sull’immagine simbolica). Occorre una trasformazione non di piccola lena degli sguardi sul reale e sul possibile perché se ci restringiamo sul piccolo e sul vicino rischiamo solo di finire come Giona nella balena, quella balena da cui probabilmente già siamo stati inghiottiti e che ha l’aspetto più di Behemoth o della balena bianca che di un pacifico cetaceo in via di estinzione. Ed anche questo, ancora ed ancora, non deve portarci solo a demonizzarla, deve permetterci di stanarla dentro e sotto e intorno...per interrogarla senza sosta fino al termine della notte. E oltre. Bibliografia di riferimento: Bachelard Gaston (1995) La formazione dello spirito scientifico(1938), tr.it. 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