Ricercare oltre
di Paolo Mottana
Vecchie pedagogie e nuove emergenze
La pedagogia è impegnata da tempo in un accanito dibattito sui metodi della ricerca. Forse
perché imbarazzata dei suoi ritardi epistemologici, forse perché ancora preoccupata di un passato di
forte sudditanza nei confronti della filosofia e in particolare, qui in Italia, della filosofia idealista e
personalista, da molti (troppi?) anni appare affannata a dotarsi di una identità metodologica (sia
nell’ambito della ricerca che degli strumenti operativi) il più possibile scientificamente legittimata.
Mentre tutto cambia, intanto che paradigmi, visioni, corpi e collettività si avvicendano,
muoiono e si accatastano gli uni sugli altri, la guerriglia tra epistemologi e ermeneuti, tra idiografici
e nomotetici, tra clinici e sperimentali, tra filosofi e metodologi, si consuma senza sosta, in un
curioso e a volte un po’ estenuante siparietto fondamentalmente accademico.
Tutto ciò è comprensibile, così come è comprensibile ed anche encomiabile lo sforzo della
disciplina “minore”, da una parte di non smarrire radicalmente il suo statuto anfibio, la sua
costitutiva e irriducibile composizione teorico-pratica, e dall’altra il suo impegno a fondare vie di
affermazione che, pur alla ricerca di una benedizione scientifica, neppure vengano meno alla
preoccupazione etica e trasformatrice agli indirizzi della persona, delle istituzioni formative, della
società.
La sensazione tuttavia è quella di una rincorsa talora troppo dispersiva e spesso ritardataria
nei confronti di modelli scientificamente sorpassati o largamente in crisi. Penso in particolare a
certe tendenze di stampo neopositivistico o positivistico tout court – che purtroppo riemergono
anche altrove, magari rivestite dei panni di qualche nuova neuro…scienza- assetate di fatti, di dati,
di verificabilità e standardizzazione, per quanto corrette da un popperismo anch’esso francamente
un po’ stantio, oppure a un certo eclettismo privo di radicamento e di orientamento politicoconoscitivo, tutto legittimato dalle urgenze della pratica e dei “bisogni” educativi.
Negli ultimi tempi, accanto a una liquidazione abbastanza generalizzata, almeno qui in
Italia, del suo volto teoretico e speculativo (che forse però è quello che ha tentato, almeno negli
ultimi decenni, di emanciparla dalle sue costitutive arretratezze nella maniera più tenace), sembrano
affermarsi le prospettive più orientate da un impegno di piccolo cabotaggio, di microricerca e
soprattutto della rincorsa di un’utilità e spendibilità immediata che, francamente, pare troppo
facilmente assorbibile da un’impostazione pragmatista e specialistica oggi davvero molto
compromessa con le esigenze di un potere politico tutt’altro che favorevole nei confronti della
sopravvivenza e della difesa della multiformità della cultura (e si veda in particolare l’esplosione
delle ricerche sulla teledidattica e l’e-learning).
E’ vero che una parte significativa di questo fronte di ricerca ha trovato nell’incontro delle
filosofie di genere (con particolare riferimento alle opere di Hanna Harendt, Maria Zambrano e di
altre filosofe “imperdonabili” che qui in Italia hanno avuto come fulcro di gravitazione ed
elaborazione la Libreria delle Donne di Milano e la comunità Diotima di Verona) e del repertorio
delle epistemologie della complessità batesoniane, un nucleo interessante e sicuramente innovativo
di sperimentazione nel “piccolo” e nel concreto di buone pratiche trasformative ed esportabili.
Tuttavia resta il sospetto anche qui che, accanto ad un’apertura e novità innegabili, specie se legate
ad un’effettiva integrazione di ragione ed emozione, non si riesca ad evitare il risorgere di una
componente irenica che fa perno sulla centralità della relazione e di una conoscenza complessa ma
bonificatrice che ancora una volta sembra nascondersi la crudezza strutturale e le innumerevoli
violenze implicate da ogni pratica educativa in quanto tale. E inoltre, all’elogio del piccolo, di cui
non si vuole disconoscere possibilità emancipative nel tessuto (apparentemente) frantumato della
postmodernità, sembra mancare cognizione del livello di compromissione a monte dei meccanismi
di potere che richiederebbe un’attenzione alle articolazioni tra “flussi” e “segmenti”, tra livelli
molecolari e molari delle pratiche di trasformazione, alle subalternità inevitabili di ogni pratica di
buon governo circoscritta e separata. Ancora, non sempre l’effettiva pratica di una “ragione
poetica”, per dirla con Maria Zambrano, sembra essere seguita fino in fondo nei linguaggi, nelle
logiche di ricerca, nell’assunzione di un paradigma che accetti la radicalità di una cognizione
intuitiva, immaginativa, cioè, come direbbe la filosofa spagnola, una cognizione che faccia perno
sull’organo del “cuore”, sulle “entrañas”.
Nel tempo in cui le politiche arroganti dei poteri che contano sembrano davvero porre in
discussione la vita dei saperi nella loro ricchezza, complessità e problematicità e appaiono viceversa
impegnate nello smantellamento di qualsiasi eterogeneità e pluralità in direzione di una torsione
tutta produttivistica e aziendalistica delle istituzioni e dei servizi culturali (compresi quelli
educativi), lottare per una ricerca di natura micro e fondata sullo slogan dell’utile (non sempre
meglio circostanziato) può (ma sottolineo può) correre il rischio di restare una illusione
autoreferenziale.
Essere all’altezza dell’attacco sempre più disinibito alle uniche istituzioni che possano
garantire una diffusione democratica del sapere oggi, una sua coltivazione assidua e appassionata,
significa muoversi in un’ottica globale, capace di far davvero interagire piccolo e grande,
individuale e generale e soprattutto capace di affrontare con durezza e intransigenza ogni violazione
al corpo vivente e molteplice del sapere. Così come anche un’ottica capace di ospitare, in una ricca
contaminazione, i volti anche molto sfaccettati delle epistemologie della ricerca.
E da questo punto di vista debbo anche ribadire lo sconcerto per le prevenzioni e la rigidità
di una cultura, mi riferisco sempre a quella pedagogica nel nostro paese, che rifiuta con troppo
sussiego prospettive conoscitive e di ricerca che includano l’alea dell’irrazionale, dell’immaginativo
e del contraddittoriale. I modelli di razionalità che la pedagogia nostrana esibisce ancora come
vessilli non vengono praticamente mai meno ad una impostazione unilateralmente di natura
razionalistica (critica quando va bene, ma comunque asserragliata nella cittadella di un
problematicismo assai cauto che guarda alla radicalità dell’esperienza sempre con un certo sussiego
distanziatore e moralistico), magari condita di una ermeneutica timida e di un’apertura ad una
interpretazione della fenomenologia esistenziale posta a presidio di un’intersoggettività buonista e
pacificatrice.
Troppo raramente, a mio giudizio, si avverte la presenza di posizioni incisive, disinibite e
autenticamente trasformative in merito sia, da una parte, ad un’identità del pedagogico che
finalmente ne scarichi la maschera bonificatrice e super partes, sia ad un affacciarsi senza timore
sui terreni davvero urgenti e sanguinanti di un’esperienza della vita e dell’educazione
contemporanee segnate da un potere totalizzante che mai è stato così pervasivo, capillare e
distruttivo. E questo sia in relazione a questioni cruciali come quella dei nuovi e tragici processi di
soggettivazione, delle questioni inerenti la violenza non solo fisica e ideologica intorno alle
differenze di genere, di razza, di cultura ma anche a quelle più sommerse nella manipolazione dei
corpi, dei desideri, dei linguaggi al di qua e nello spazio stesso dei conflitti culturali, di sesso e di
etnìa.
La pedagogia, sempre impacciata dal suo super io “educativo” ( che qui in Italia risente in
modo diffuso del peso della religione cattolica, anche nei settori laici), difficilmente riesce a
produrre una ricerca autenticamente e crudelmente “genealogica” nella scia di Foucault, nonostante
venga citato ad ogni piè sospinto, (e men che meno di un Nietzsche). Così come assai rara appare
una ricerca che aggredisca, con il taglio profondamente antiideologico e etnografico in senso
consapevole che possiedono i Cultural Studies e gli studi postcoloniali, o con una radicale
disinibizione critica, l’educazione sessuale e il travagliato mondo della sessualità in genere,
compresa quella infantile e adolescenziale (si pensi al pressocchè totale silenzio sui lavori di
Schérer), la dinamica dei desideri e delle passioni, la manipolazione delle menti, l’oblìo del mondo
delle cose e della natura e la demolizione accelerata del loro volto e della loro interiorità, l’ingresso
sempre più massiccio e arrogante della tecnologia in tutte le sue forme, anche quelle
manifestamente più violente e abusanti (della vita e della linfa emozionale del sapere…) nei
processi micro e macroeducativi. Ma la rassegna dei temi sarebbe davvero interminabile.
Alla ricerca con l’immaginazione simbolica
A me pare sia giunto il tempo per produrre invece una ricerca realmente teorico-pratica
(però, anche quest’espressione, in fin dei conti, non è un po’ mummificata nel tempo dei rizomi e
delle disseminazioni?, anzi, oltre il tempo dei rizomi e delle disseminazioni, in quello che è con
sempre più evidenza uno scenario post-umano…), diciamo meglio, una ricerca che sia anche “prassi
simbolica”, capace di integrare nel suo profilo un’identità metodologica agguerrita e determinata,
segnata dall’incontro con le lezioni più radicali della filosofia del ‘900 (che è sempre stata anche
grande pratica culturale e politica) che, dal mio punto di vista vanno cercate sulle frontiere che la
pedagogia guarda sempre con troppo sospetto oppure con la preoccupazione di domarle e renderle
metabolizzabili alla sua pars giudicante. Una ricerca che, della sua vocazione teorico-pratica, sappia
riconoscere fino in fondo la concretezza prassica delle idee e la vocazione trasformatrice di simboli,
immagini, forme allo stesso modo in cui impari a riconoscere la componente generativa e simbolica
dei dispositivi, delle pratiche, delle materie e dei corpi in azione sulla scena educativa.
Questa pedagogia che resta invece per lo più sempre murata nella sua vocazione
enciclopedica e troppo poco battagliera, fosse anche dal fronte della tradizione e della reazione.
Timida perfino in questo. Attanagliata dal sussiego di non far mai torto a nessuno e finendo così per
farlo a tutti. Una pedagogia in cui, salvo qualche sporadica eccezione (e penso a Riccardo Massa e a
pochi altri), non si sente mai fare un nome fuori posto se non per reinscriverlo subito in qualche
filone predigerito, dove quando qualcuno prova anche solo a introdurre riferimenti davvero altri (mi
permetto di citare il mio caso con il tentativo di introdurre la tradizione ermetica (ahi, pura
demonologia!) (Jung, Durand, Bonardel), una razionalità di tipo anfibologico e contraddittoriale
(Lupasco, Wunenburger, Cazenave),
l’irrazionale (Feyerabend, Corbin, Bonardel),
l’immaginazione simbolica (Bachelard, Durand, Hillman) oppure la centralità dell’eros in
educazione) ottiene solo di essere estromessa a vita dal dibattito interno perché ha osato sporgersi
oltre la “cortina di ferro” (la nostra è l’unica che non cade mai…) a cercare stimoli “inattuali” non
per ricondurli all’ovile di una razionalità cartesiana appena corretta da un pizzico di ermeneutica…
Per conto mio in questi anni ho infatti cercato, nell’isolamento più totale, di aprire una via di
conoscenza immaginativa in campo educativo. Una ricerca di frontiera che tenta di restituire alle
immagini, pressocchè da sempre defraudate come fonti di sapere e considerate forme di una
“gnoseologia inferior” (Baumgarten), il loro autentico potere conoscitivo. Le immagini simboliche,
frutto di una ponderazione e di una riformulazione figurale tra il fatto, l’esperienza e lo sfondo
ideale e intelligibile. Le immagini simboliche, rincorse attraverso una faticosa genealogia o forse
meglio una archeologia fondatrice, che ha trovato nella filosofia presocratica (con la suggestione di
un sapere di carattere allusivo e enigmatico piuttosto che discorsivo e concettuale) e poi in pochi
affioramenti medievali e rinascimentali (tra gnosticismo e neoplatonismo, tra filosofie ermetiche e
mistica teosofica), fino al romanticismo e alle voci di un dibattito novecentesco che, da Bergson e
Bachelard, attraverso Gilbert Durand, Walter Benjamin e Carl Gustav Jung, e, nel contemporaneo,
da Gilles Deleuze a James Hillman a Jean Jacques Wunenburger e a Georges Didi-Huberman,
sembra permettere una loro riconsiderazione come veicoli di una conoscenza anfibologica, plurale,
non valutativa né prescrittiva, non ideologica né categorizzante. Una conoscenza che si fonda sulla
ricerca di una materia sottile, quella appunto delle immagini, capace di connettere l’espressione
vivente dell’esperienza, perché l’immagine simbolica è un essere vivente, con uno sfondo di forme
mitico-archetipiche, di “figure” dialettiche in cui il reale si riscopre multiforme e indecibile.
La pratica delle immagini come fonte di sapere, sovverte l’idea che si debba sempre
produrre rischiaramenti e distinzioni mentre al contrario una conoscenza di natura simbolica deve
imparare a cedere alla costitutiva struttura ambigua e inesauribile dei significati dell’esperienza.
Così sottoporre grandi temi, vere e proprie invarianti dell’esperienza e della discorsività educativa,
come la mancanza, la cura, la ferita, il male, l’infanzia e l’adolescenza e così via ad una esposizione
al rispecchiamento in opere simboliche che lavorano questi temi nella direzione di una loro
riformulazione immaginale, significa far scontrare qualsiasi scorciatoia concettuale o pragmatica
contro il tessuto fittissimo di una proliferazione di possibili vie interpretative tutte parimenti
percorribili e prive di centro.
Così ad esempio considerare il tema del deficit, della mancanza o della mutilazione
attraverso la meditazione di opere che esprimono figuralmente il volto dello straniamento e del
portare la ferita su di sé, come i clown tragici di Rouault o certi lavori di Kokocinski, significa
penetrare, o meglio, rendersi ricettivi ad una dimensione invisibile e persistente dell’essere al
mondo, che riguarda tutti in quanto mancanti e tutti, anche se in alcuni casi in maniera più evidente,
portatori di una frantumazione passibile di rinascita, di una passione che mira al contempo la morte
e la trasformazione, in cui gli archetipi di Dioniso e di Cristo affiorano nella loro potenza di simboli
aperti e ogni volta riattivati in una singolare e dialettica composizione con le forme dell’ora e del
qui. Oppure meditare l’infanzia, l’infanzia non solo come fatto anagrafico e psicologico ma
soprattutto come simbolo di inizio e fine, di totalità e di intreccio di un approccio erotico e
immaginativo al mondo, intrattenendosi lentamente e ripetutamente con l’intensità aurorale eppure
quintessenziata di una raccolta di haiku giapponesi, o ancora attraverso la difficile equilibrazione di
colore, materia e figura che impariamo immergendoci negli ultimi, incandescenti dipinti di Nicolas
De Stael, è cosa ben diversa dal condizionamento che interiorizziamo dal discorso presunto
scientifico e certamente portatore di prescrizioni e di imputazioni valoriali delle psicologie e spesso
anche dei modelli filosofici. E’ un modo di vedere gli stessi soggetti intrisi di una materialità che li
fa vibrare oltre la loro letteralità, in un reticolo di corrispondenze e di analogie che li radica nel
tessuto dell’esperienza. Non più i bambini come oggetto separato di cura e di considerazione teorica
ma i bambini come stagione permanente dell’essere, che si riverbera ad ogni livello dell’esperienza
del mondo e che di questo mondo, nella sua dimensione d’infanzia, infanzia vegetale e perenne,
diceva Bachelard, si fanno testimoni e mediatori. O ancora la simbolica della morte e del morire
rivissuta e lavorata attraverso un video come The Passing di Bill Viola o le incisioni di Käthe
Kollwitz o ancora i dipinti di Zoran Music. O ancora con le opere musicali di Krzystof Penderecki,
di Sofia Gubaidulina o di Fausto Romitelli. E ancora e ancora. Avendo a disposizione un
giacimento sterminato di “presenze viventi” (sciami d’immagini simboliche che costellano, secondo
una riconoscibile “risonanza semantica”, il crogiolo del bacino immaginale, il nucleo archetipico)
capaci di trasmutare, riorientare ed emancipare la nostra sensibilità, ai fini di una vera e propria
gnosi (da intendersi come conoscenza integra, non separata e non separatrice, che fa convivere
pensiero, emozione e immaginazione e oggetto di conoscenza) del mondo e della sua fisionomia
viva e dotata di interiorità (il Weltinneraum di Rilke).
L’immagine simbolica è infinitamente aperta e sufficientemente oscura e ambigua da non
consentire di accumulare alcuna certezza. Al contrario, essa decostruisce e contemporaneamente
arricchisce il nostro immaginario di figure attraverso le quali imparare a ri-vedere l’esperienza del
reale nella sua costitutiva e inestirpabile contraddittorialità, nella sua irriducibile e però anche
coinvolgente materialità significante che non si lascia inchiodare ad alcuna definizione. Lavorare
attraverso le immagini ad una conoscenza complessa, significa mettere in campo uno sguardo
partecipativo e non distanziatore, una postura non giudicante, richiamare ad una responsabilità nei
confronti del volto inesauribile del reale in cui convivono necessariamente le ombre e le luci, il
male e il bene, la mancanza ad essere e l’impulso a non cedere sul proprio desiderio (come dice
Lacan che, peraltro, ha importato nel mondo del sapere e non solo, un’idea dell’immagine
patologizzata e alienante che conferma uno stereotipo iconoclasta fin troppo presente nella cultura
filosofico-scientifica).
Questo filone di ricerca, certamente anomalo, inattuale e difficilmente componibile con i
canoni di una razionalità illuministica allergica all’ambiguità delle rivelazioni propiziate dalla
collisione vorticosa della lontananza dei simboli con il manifestarsi anacronistico delle forme (per
dirla attraverso Benjamin rivisitato da Didi-Huberman), ha la pretesa di far interagire il sedimento
tellurico della cultura (il suo patrimonio di forme originarie e il suo archivio mitico-archetipico, che
è fondamentalmente transculturale) con l’espressività sempre rinascente del gesto simbolico.
Pretende altresì di restituire a questa materia composita una potenzialità conoscitiva, di una
conoscenza radicalmente alternativa a quella misurabile e confrontabile o anche solo concettuale e
razionale che ancora sembra dominare, nonostante i molti richiami, anche in ambito scientifico. Per
un’apertura alla complessità che includa fonti siffatte, se non altro con un ruolo equilibratore e
compensatorio, (e si pensi a Feyerabend o Cazenave), nell’ambito di un ricercare che non può più
dimostrare l’infallibilità di alcuna procedura. Confidare nelle immagini, nelle immagini simboliche,
a me pare una buona strada per decantare quel fondo di ingenuo attaccamento a paradigmi che
hanno dimostrato la propria inabilità a comprendere l’inesauribile molteplicità dell’esistere in tutte
le sue forme e soprattutto la sua solidarietà o continuità invisibile che invece lo sguardo tenace,
appassionato e sofferto dell’artista ci restituisce e ci consente di sperimentare in forma
partecipativa.
E oltre
Ma al di là di quella che può apparire una posizione di ricerca tra altre (come mi auguro, un
giorno o l’altro, sarà riconosciuto), ricerca anche proprio come desiderio di trovare, di capire, oltre i
limiti di ciò che si considera troppo unanimemente un benpensare in educazione, resta la necessità,
a mio avviso, di una riconsiderazione profonda del profilo della ricerca educativa. Questa pedagogia
ha bisogno di aria ( e anche di un po’ di fuoco!). Ha bisogno di trovare (pensando con e oltre il mio
maestro Massa ad altri che ispirino da altrove, in ogni senso, da Artaud a Benjamin, da Bataille a
Deleuze, da Rilke a Bousquet), le ragioni di prese di posizione che siano davvero coraggiose sul
piano culturale, sul piano epistemologico, che lacerino e contundano, ma anche scavino, senza
timore di sporcarsi le mani là dove il terreno frana, dove i riferimenti si fanno più deboli, dove le
ragioni progressive si oscurano e affiora la bestia o, se si preferisce, il Reale, come lo chiamava
Lacan (si pensi alla retorica moraleggiante e miope che si mobilita, anche sul fronte pedagogico,
quando si tratta di questioni come la pedofilia, la sessualità adolescenziale, la violenza giovanile e
dunque il male come controparte simbolica del bene e non solo come l’impensabile da rimuovere e
cancellare).
Così pure nel suo specifico, sulla scuola, sull’educazione, sulla famiglia, sventolando la
bandiera dell’utile, bisogna essere ben consapevoli della posta in gioco. Niente può essere più
equivoco che impugnare lo slogan dell’utilità nel tempo in cui è diventato finalmente non più solo
la religione ideale del mondo anglosassone, ma il DNA del mondo.
Occorre chiedersi con sovrana radicalità anzitutto utili a chi e poi in che contesto, per quali
fini, non solo quelli immediati, ma quelli sovraordinati, per quale forma di potere, per quale politica
della cultura, dei servizi, dell’esserci, qui ed ora e in questa congiuntura gravissima (non quella
della crisi, che certo può essere un’occasione che probabilmente si perderà, per cambiare qualche
fondamentale paradigma intorno al senso e alla direzione di marcia di questo Occidente), che è
tanto più grave perché l’inconsapevolezza di questo livello dei problemi (quello che richiederebbe
un’autentica epistemologia della complessità) si diffonde come un virus.
Oggi le politiche della manipolazione e dell’influenzamento fin da piccolissimi (il potere
che ci abusa ormai si è accampato in neonatologia e prima ancora) intorno al modo di stare nel
mondo sono così pervasive, capillari e potenti che una ragion critica non basta più. Occorre una
vigilanza più sottile, una captazione a livello della trasmissione digitale e invisibile, oppure forse fin
troppo visibile, delle biopolitiche e delle cosmopolitiche dei prossimi e dei futuri.
La pedagogia dovrebbe sentire qui, in questa congiuntura davvero drammatica, tutto il peso
della sua responsabilità, e trovare nella sua debolezza l’arma propria (nella sua debolezza che le
consente di dischiudere una sensibilità più ricettiva e meno ostacolata dalle ragioni stesse di
sopravvivenza castale dei saperi separati), per far valere una ragione molteplice, globale, complessa,
capace di leggere l’archeologia dell’episteme, come quella di ogni agire sociale, da parte a parte,
per istituire un’azione di radicale decondizionamento, di risveglio, di eviscerazione e di esibizione
della corruzione avanzata prodotta dai dispositivi disciplinari diffusi nel nuovo millennio e dei loro
veicoli immaginari e perfino simbolici.
Occorre una pedagogia risvegliata, che lavori la nostra storia ( e soprattutto la stessa cultura
dell’educazione)“a contropelo”, come diceva Benjamin, che produca pensatori con il martello e non
decoratori e piccoli ingegneri dell’istruzione su misura, o maieuti delle buone intenzioni, anche
perché non è più tempo per gingillarsi con le antinomie e la partita doppia dell’Altro e del
Medesimo.
Oggi, persino oltre l’istituzione di un tertium differenziatore, di una terzietà indispensabile
per fuggire monismo e dualismi (quella che persegue ogni autentica “ragione contraddittoriale”),
occorre aprirsi a un sapere davvero transdisciplinare, un sapere plurale che però investa con
decisione e con l’ispirazione di maestri radicali e immoralisti le trappole di un sistema di
coartazione che si è infuso come un cancro nell’organismo sociale e che ci lavora dal di dentro. A
mio giudizio devono anche rientrare in gioco le grandi visioni, le ottiche sovvertitrici sul piano
globale e le epistemologie radicalmente altre (come quella costruita sull’immagine simbolica).
Occorre una trasformazione non di piccola lena degli sguardi sul reale e sul possibile perché se ci
restringiamo sul piccolo e sul vicino rischiamo solo di finire come Giona nella balena, quella balena
da cui probabilmente già siamo stati inghiottiti e che ha l’aspetto più di Behemoth o della balena
bianca che di un pacifico cetaceo in via di estinzione. Ed anche questo, ancora ed ancora, non deve
portarci solo a demonizzarla, deve permetterci di stanarla dentro e sotto e intorno...per interrogarla
senza sosta fino al termine della notte. E oltre.
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