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PALERMO
2013
IL «SICULO ARABIC»
E GLI ARABISMI MEDIEVALI E MODERNI DI SICILIA*
0. Il Taṯqīf al-Lisān di Ibn Makkī detto il “Mazarese”
Nell’ambito degli studi sulla complessa vicenda storico-linguistica del periodo arabo-normanno in Sicilia, si inserisce il saggio di Agius (1996), dal titolo
Siculo Arabic. In esso, l’autore richiama, tra l’altro, l’attenzione sull’esistenza
di una sorta di Appendix Probi per l’arabo usato in Sicilia nei primi decenni
della conquista normanna. Si tratta del lavoro di Ibn Makkī1, rientrante nel filone dei “lahn works” (lahn = ‘errore’), opere con intenti prescrittivi, volte a
segnalare e correggere gli errori (di pronuncia, di lettura, di scrittura) ricorrenti
tra gli utenti delle diverse varietà (prevalentemente diatopiche) di arabo, errori
intesi come devianze dal modello classico, codificato nel Corano e nella produzione letteraria.
Osserva in proposito Rizzitano (1956: 194) che, basandosi su una copia
microfilmata di un manoscritto del XII sec., aveva richiamato l’attenzione
sull’opera del “Mazarese” già dieci anni prima della sua edizione2:
come oggi nell’Oriente arabofono – soprattutto nei Paesi culturalmente più progrediti – parallelamente a questioni che investono il problema della diglossia,
della semplificazione del lessico arabo e della grammatica, della coniatura di
nuovi vocaboli rispondenti alle nuove esigenze ecc., il “rigorismo ufficale” cerca
di porre una remora contro l’indulgenza alla facile accettazione di neologismi e
modi dialettali, così anche in passato si cercò di vigilare nel Masriq e nel Mag˘rib
sulle infiltrazioni esterne al fine di mantenere alla lingua araba la purezza delle
origini. La letteratura sull’argomento è vasta, come è vasta quella moderna, e
* Ringrazio i Professori Giovanni Ruffino e Salvatore C. Sgroi per i preziosi suggerimenti.
1
Tradizionista, filologo e poeta vissuto in Sicilia per buona parte della sua esistenza – cfr. Rizzitano (1971).
2
Il Trattato sarà edito nel 1966 (cfr. bibliografia) sulla base di due manoscritti del XIII secolo.
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Roberto Sottile
comprende opere eterogenee – spesso eccessivamente cruscheggianti – fra cui
hanno particolare rilievo quelle relative alle locuzioni dialettali.
Il Tat-qīf al-lisān wa talqīh al-ǧanān («Emendamento della lingua e fecondazione dello spirito») di Ibn Makkī, che può essere posto in parallelo con
altre quattro opere analoghe riguardanti l’arabo andaluso [cfr. Agius (1996:
132-133)], resta l’unico esempio finora noto di “lahn work” presumibilmente
dedicato all’arabo di Sicilia3. Che il suo autore fosse siciliano sembra assodato,
nonostante i dubbi di Amari (1854-1872: II, 579). Per Rizzitano è, infatti, da
escludere che fosse cordovano, come si legge in alcune fonti, altrimenti resterebbe inspiegabile l’inclusione dei suoi frammenti poetici nell’“Antologia di
poeti siciliani” di Ibn al-Qatִִtā [cfr. Rizzitano (1956: 202, note 56 e 57)]. Ma
sulla sicilianità della varietà oggetto della sua «opera dialettologica» permangono ancora molte incertezze. In effetti, nell’intento «di raccogliere in uno
scritto normativo tutti gli errori che correvano all’epoca per la bocca del volgo
e che fatalmente scivolavano anche nelle opere degli scrittori» (ivi: 206), Ibn
Makkī ritiene che i lavori analoghi dei suoi predecessori siano ormai arretrati
in quanto basati su materiale linguistico raccolto all’epoca e nel paese in cui
erano vissuti i rispettivi autori. Ora – nota Rizzitano (ibidem) – secondo l’estensore del Trattato, sfuggirono ai suoi predecessori
gli errori che si fanno “nel nostro Paese”, e questa espressione suscita la nostra
curiosità senza tuttavia appagarla: infatti ignoriamo se lo scrittore volesse alludere
alla Sicilia od in generale al Mag˘rib, di cui l’isola fu certamente figlia anche spirituale. Come già si è visto, opere relative al dialetto mag˘ribino erano già state
abbondantemente scritte in passato, quindi il fatto che egli lamenti una lacuna
fa pensare che volesse riferirsi non già al Mag˘rib in generale, ma alla Sicilia, sulle
cui inflessioni dialettali non esisteva all’epoca nessuno scritto. La questione rimane comunque incerta né ci sentiamo autorizzati, con i pochi elementi di cui
disponiamo, di dichiarare apoditticamente, come Hasan Husnī Abd a-Wahdāb,
che il Tat-qīf al-lisān “è uno studio sul dialetto del volgo della Sicilia musulmana”.
Secondo Agius (1996: 134), invece, il Tat-qīf di Ibn Makkī costituisce
senz’altro «the product of the divergent regional dialects of immigrants pouring into the island of Sicily and their intimate contact with the new Sicilian
converts to Islam, who were attempting to learn Arabic for religious and commercial purposes». L’attenzione dell’autore del Trattato si sarebbe dunque appuntata su una specifica varietà del Siculo Arabic, etichetta, questa, sotto la
quale Agius ricomprende diversi “tipi” (socio)linguistici di arabo siciliano
3
Si confronti Caracausi (1983: 39, nota 18): «Sull’uso scorretto che della lingua araba si faceva
in Sicilia da parte di persone che pur si sarebbero dovute ritenere di media cultura (per esempio i
maestri di scuola) sono assai significative le testimonianze di viaggiatori del tempo come Ibn H
ִ awqal
[…]. Un’opera intera fu dedicata, verso la seconda metà del sec. XI, da Ibn Makkī detto il “Mazarese”, alla illustrazione di “tutta la molteplice varietà delle corruzioni che dilagavano presso i conterranei”, come ricorda Rizzitano».
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
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dell’epoca, in rapporto alle differenti caratteristiche strutturali e alla diversa
stratificazione sociale dei rispettivi utenti (cfr. § 1).
Partendo dal presupposto che passare, criticamente, in rassegna un lavoro
di medioarabistica, come quello di Agius (1996), che dedica ampio spazio al
trattato di Ibn Makkī, possa essere utile anche per chi si occupa di dialettologia
siciliana, saranno qui presentate brevemente le linee guida della ricerca sul Siculo Arabic e sulle sue varietà. Ciò anche nel tentativo di rintracciare qualche
ulteriore elemento utile alla comprensione delle dinamiche di contatto all’interno del complesso quadro sociolinguistico medievale già illustrato da Vàrvaro
(1979; 1981). Inoltre, la possibilità di disporre di una discreta quantità di dati
presumibilmente “siciliani” (dati “interferiti” e “sgrammaticati”, possibilmente
riconducibili a una “varietà ponte” tra l’arabo e gli arabismi dialettali correnti),
come quelli traibili dal lavoro di Ibn Makkī e “filtrati” da Agius (1996), potrebbe permettere da un lato una comparazione (per verificarne la effettiva similarità) tra i mutamenti fonetici e morfologici ricavabili dal Trattato e quelli
osservabili negli arabismi di Sicilia (medievali e moderni) e dall’altro di avviare
una modesta e provvisoria, ma pur sempre utile, rassegna su un ulteriore manipolo di possibili continuatori di voci arabe nei dialetti siciliani.
1. Il «Siculo Arabic»
Senza mai richiamare Vàrvaro (1979; 1981), Agius (1996) perviene alla
descrizione di un quadro sociolinguistico della Sicilia arabo-normanna costituita dal già ben noto assetto plurilingue latino/greco/arabo ma con quest’ultimo caratterizzato da tre (macro)varietà, che assieme costituiscono, appunto,
il Siculo Arabic (cfr. supra e infra)4.
Lo scenario prospettato si fonda su alcuni assunti storico-sociolinguistici
che si richiamano schematicamente e assai sommariamente nei punti riportati
di seguito (cfr. Agius 1996: 101-122):
1) Quando gli arabi giunsero in Sicilia, i loro accampamenti, situati al di
fuori delle città, costituirono il primo elemento di livellamento linguistico tra
i diversi immigrati (con al seguito le rispettive famiglie). Questi provenivano
da diverse tribù e parlavano diverse varietà di arabo, senza considerare i gruppi
arabofoni L2, appartenenti alle tribù berbere (ma di certo, avverte, poi, l’autore, molti berberi potevano anche non essere affatto arabofoni). Il “mescolamento” (anche coniugale) al quale furono indotti dalla vita d’accampamento
determinò lo sviluppo di una varietà araba “inter-dialettale”, dotata di caratteristiche proprie.
4
Cfr. anche nota 7.
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Roberto Sottile
2) L’arabo, parlato all’inizio nella parte occidentale della Sicilia, gradualmente si diffuse nell’area orientale, linguisticamente grecofona.
3) Poco a poco, gli immigrati (arabofoni – “livellati” – e berberofoni), vennero a contatto con la popolazione urbana della Sicilia, i cui membri divennero
in parte mawālī (= ‘CLIENTES’), assumendo un nome tribale arabo e adottando
la lingua dei musulmani che, nel giro di una generazione, divenne il loro unico
idioma. In altri casi, i siciliani, pur abbracciando la fede islamica, mantennero i
loro usi e la loro lingua (greca o neolatina), divenendo bilingui e rimanendo tali
per due o tre generazioni (questi ultimi sarebbero stati ri-cristianizzati in epoca
normanna, mentre i primi, gli arabofoni monolingui, avrebbero abbandonato
l’isola per “rifugiarsi” nei paesi islamici del nord Africa).
4) Oltre ai siciliani di lingua romanza, che usarono l’arabo – in molti casi
imperfettamente acquisito – come L2, occorre considerare la presenza di colonizzatori musulmani andalusi, in larga parte provenienti da un ambiente romanzofono. Questo gruppo avrebbe agito come meccanismo di rinforzo tanto
della “fisionomia romanza” del siciliano di base latina5, quanto del bilinguismo
degli utenti di quest’ultima varietà, utenti bilingue in quanto tendenti all’uso
dell’arabo, a sua volta impiegato all’interno di una comunità linguistica (arabofona) sostanzialmente diglossica (Agius propugna l’esistenza di una varietà
alta di arabo, usata da una minoranza di persone istruite, ben distinte dalle
masse, portatrici, al contrario, di una varietà bassa).
Si osservi il seguente schema di sintesi, proposto dall’autore:
5
Questo «Sicilian latin based dialect» (Agius 1996: 105) corrisponderebbe, in sostanza, al «mozarabico siciliano», il neolatino parlato in Sicilia nel periodo anteriore alla conquista normanna, per
cui cfr. Vàrvaro (1981: 115-116): «Quest’ultima zona [la Sicilia occidentale] era ormai, dopo l’831, il
settore più dinamico dell’isola […]. Ma quale la lingua degli indigeni in questa parte dell’isola? Abbiamo visto […] che prima dell’827 essa era, probabilmente e prevalentemente, un dialetto romanzo;
tale può essere diffusamente rimasta anche più tardi. […]. Devo però aggiungere subito che non intendo in nessun modo insinuare che questo dialetto romanzo, che sospetto abbia cominciato a prevalere
definitivamente sul greco, sia pure in ambiti diatopici e diastratici ristretti, nell’ultimo periodo del dominio musulmano, fosse semplicemente una sorta di proto-siciliano, cioè una forma arcaica dello stesso
dialetto che appare alla luce più tardi. Al contrario. Esso doveva essere uno sviluppo del tardo latino
dell’isola che giova distinguere dal successivo siciliano, il quale nasce dalla grande crisi demografica,
etnica, sociale e culturale della Sicilia normanna. Assai difficile è però dire, oggi, quali siano stati i caratteri di questo primo volgare neolatino dell’isola, che propongo di chiamare, in analogia a quello
della penisola iberica, mozarabico siciliano (mozarabi erano detti i cristiani che vivevano tra i musulmani)» [sulle poche caratteristiche note del primo volgare neolatino siciliano e sui suoi possibili continuatori lessicali nel siciliano moderno, cfr. Vàrvaro (1981: 116-124) e Trovato (2013: 25-34)].
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali moderni di Sicilia
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5) I parlanti non arabofoni comunicavano tramite interpreti o mediante
l’uso di una «pidgin language» (p. 105).
6) I punti 3) e 4) implicano la presenza di tre comunità linguistiche, una
diglossica e bilingue (composta da una élite di utenti); una diglossica ma non
bilingue; una monolingue (romanzofona o grecofona), con un assetto sintetizzato nello schema seguente:
7) I siciliani, estrinsecamente motivati all’apprendimento dell’arabo per
ragioni di prestigio, si sarebbero potuti trovare, nonostante gli sforzi, nella
condizione di utenti di una «“broken” version» (varietà pidginizzata) della lingua appresa, possibilmente per assenza di scolarizzazione. Questa «broken
down version» si sarebbe creolizzata/standardizzata nei parlanti delle due generazioni successive, impossibilitate a udire «the correct model» (vedi punto
8, sub b).
8) Il contatto tra siciliani e arabi diede luogo a due distinte varietà, come
conseguenza di altrettanti scenari sociolinguistici:
a) Il gruppo subordinato fu indotto ad apprendere la lingua del gruppo
dominante a seguito dei matrimoni misti o della volontà di integrarsi
culturalmente nel mondo islamico; questi neo-musulmani abbandonarono la loro lingua originaria tendendo all’arabo classico, se appartenenti alla élite e se dotati di istruzione, mentre, nei contesti informali,
avrebbero parlato, come la maggior parte dei neo-musulmani non
istruiti, una varietà caratterizzata dai tratti del Maġribī, il dialetto prevalente delle tribù nord africane stabilitesi nell’isola. L’arabo di questi
neo-musulmani, che, nei suoi due registri (formale e informale),
avrebbe sviluppato caratteristiche proprie anche in dipendenza del sostrato romanzo, sarebbe il focus del “lahn work” di Ibn Makkī. Si tratta
di una varietà (con un registro alto e un registro basso), usata oltre che
dai neo-musulmani anche dai parlanti arabi e berberi, alla quale Agius
dà il nome di «Siculo-Lahִ n Arabic».
b) Parallelamente al «Siculo-Lahִ n Arabic», si sviluppò un’altra varietà
(pidginizzata e creolizzata e risultante dall’ibridizzazione tra l’arabo,
136
Roberto Sottile
il romanzo e, in misura minore, il greco), usata dai siciliani per comunicare tra di loro6. I parlanti di questa varietà potrebbero anche essere
stati quei commercianti cristiani e giudei i cui contatti con i musulmani
e i neo-musulmani erano di carattere «practical, ephemeral and infrequent» (p. 109). Questa varietà, alla quale Agius dà il nome di «SiculoArabic» (col trattino), sarebbe stata usata dai cristiani che si erano
integrati con i costumi islamici senza averne necessariamente abbracciato la fede. Chi si fosse invece eventualmente convertito all’islam
avrebbe appreso e usato una varietà di arabo (più “distante” dal Siculo-Arabic e più vicina all’arabo classico), alla quale sarebbe pervenuto dopo aver attraversato, linguisticamente, un processo di
decreolizzazione.
9) Una terza varietà, altra dal «Siculo-Lahִ n Arabic» e dal «Siculo-Arabic», è il «Siculo-Middle Arabic». Con questa etichetta Agius si riferisce alla
lingua delle giaride, documentata nei Diplomi del Cusa, considerata come il
risultato di processi di compenetrazione e livellamento tra arabo classico, diverse varietà di arabo dialettale/medievale ed elementi romanzi. Si tratta della
lingua che emerge dai documenti scritti, redatti da scribi arabi, ma anche cristiani, i quali, pur tendendo al modello di arabo classico, produssero una varietà risultante dal mescolamento tra elementi classici e medievali.
10) Tenendo presente che a queste tre varietà si aggiunge l’arabo giudaico,
lo studioso perviene, infine, al seguente quadro sociolinguistico per la Sicilia
arabo-normanna:
6
Cfr. Agius (1996: 109): «Parallel to this Siculo-Lahִ n Arabic variety there grew another one
[…]. The Sicilians started to use the newly discovered means of communication among themselves
thus resulting in a pidginized from which possibly became the mother tongue of the next generation,
i.e. a creolized version of the target language».
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
137
Lo scenario proposto da Agius (1996) – che in parte coincide con quello
prospettato da Vàrvaro (1979; 1981)7 – pur presentandosi assai suggestivo,
suscita non pochi dubbi, con particolare riguardo alle varietà del «Siculo
Arabic»8.
Anzitutto, non è certo che Ibn Makkī si riferisse, nel suo Trattato, a una
varietà araba effettivamente siciliana (cfr. § 0). Certo, l’autore del Tat-qīf nacque
e visse per buona parte della sua vita in Sicilia. Non è, tuttavia, provato che
l’arabo “corrotto/scorretto” (il «Siculo-Lahִ n Arabic» secondo la prospettiva
di Agius) al quale egli si riferisce nel suo lavoro fosse quello usato in Sicilia.
Certamente la varietà presenta alcune caratteristiche proprie dell’arabo occidentale e dell’andaluso, e alcuni tratti sembrano essere “propriamente” siciliani
(e possibilmente di base romanza, cfr. in partic. § 4), ma l’assenza di specificazioni diatopiche sull’arabo oggetto del Trattato attenua la certezza della sua
presunta “sicilianità”.
In secondo luogo, quanto al «Siculo-Arabic», l’autore ipotizza che si
tratti di una varietà pidginizzata e in seguito creolizzata che rimane testimoniata solo (!) nelle forme lessicali emerse dagli spogli dei documenti medievali9
[in particolare, quelli riportati in Caracausi (1983)]. Tali forme ne costituirebbero le uniche vestigia («remnants») e, quindi, rappresenterebbero la so7
Si cfr. l’assetto sociolinguistico proposto dal Vàrvaro con l’esistenza di tre varietà principali
(latino, greco, arabo), la presenza di «una situazione diglottica e per di più con bilinguismo integrale
proprio dei soli membri del tenue ceto colto», la presenza dei galloromanzi, «che costituivano il ceto
di più alto prestigio sociale», e di immigrati liguri, piemontesi, lombardi. In questo quadro, e in relazione al fortissimo impatto della conquista araba della Sicilia, va anche considerato il problema
della neoromanizzazione della Sicilia in epoca normanna, posto da Gerhard Rohlfs. Si tratta di «uno
dei problemi più complessi e dibattuti della dialettologia italiana: […] mentre nelle altre regioni meridionali il processo di romanizzazione si sarebbe sviluppato senza interruzione, in Sicilia questo processo sarebbe stato interrotto in coincidenza con la dominazione araba. Durante questo periodo
l’antica latinità sarebbe stata praticamente cancellata ad eccezione della estrema parte nord-orientale
intorno a Messina, dove si parlava il greco; in pratica l’arabo di Sicilia sarebbe diventato “lingua di
popolo”. Con l’avvento dei Normanni (popolazione di lingua romanza) avrebbe avuto inizio un nuovo
processo di romanizzazione, una nuova ondata di latinità, che avrebbe determinato il decadimento
dell’arabo, lasciando un’impronta più moderna nelle parlate dell’Isola» (Ruffino 1991: 65-66). Ma
l’ipotesi della neoromanizazione, basata sulla presa in esame di una trentina di parole siciliane che,
raffrontate con quelle della Calabria settentrionale, mostravano la mancanza «di un fondo latino originario», venne contestata con argomenti talmente convincenti al punto da indurre più tardi lo studioso tedesco ad attribuire la sua ipotesi «alla semplice e cruda ingenuità che è particolare alla vivezza
giovanile». E in effetti, l’attento esame del patrimonio lessicale siciliano, condotto da studiosi come
Antonino Pagliaro e Giovanni Alessio, permise di dimostrare che assieme alle numerose innovazioni
sono presenti in Sicilia moltissime parole riconducibili all’antica latinità, sicché l’impronta indubbiamente moderna del siciliano non è da ricercare nelle cause individuate dal Rohlfs.
8
Alcuni di questi dubbi vennero, in verità, sollevati dallo stesso studioso, undici anni dopo, in
un articolo del titolo Who spoke Siculo Arabic? [Agius (2007)].
9
Cfr.: «Remnants of the Siculo-Arabic variety is based on the notarial documents found in the
archives of Sicilian towns and cities. Most of these are public documents and private acts, such as
deeds of tranfer of exchanges of land, property ecc., allocation of villeins, property or possession,
dowry transactions, lawsuit regarding borders, boundaries etc. and dispositions of goods, property
according to wills» [Agius (1996: 110)].
138
Roberto Sottile
pravvivenza soltanto lessicale di una varietà a sé stante (che doveva “funzionare” a tutti i livelli dell’analisi linguistica), come se non fosse possibile ipotizzare che questi «arabismi medievali di Sicilia» costituiscano semplicemente
un corpus di termini tecnici, di larga diffusione, che gli estensori dei documenti medievali utilizzarono in qualità di prestiti adattati (e non è un caso
che i presunti “relitti” del «Siculo-Arabic» siano essenzialmente – e quasi
esclusivamente – dei tecnicismi).
Infine, l’ipotesi dell’esistenza di un «Siculo-Middle Arabic» con il suo
specifico profilo di varietà araba siciliana, tendente al modello classico ma non
priva di elementi dialettali, si basa sulla presentazione e la discussione di soli
17 esempi [cfr. anche Agius (2007)].
Oltre ai tre elementi di criticità appena evidenziati, resta sullo sfondo il
problema cronologico. Le tre (macro)-varietà arabe proposte e schematizzate
in Agius (1996) sono varietà sincroniche? Come si dispongono lungo l’asse
temporale dei diversi secoli interessati dal dominio arabo e dalla conquista
normanna? Può il presunto arabo di Sicilia richiamato nel Trattato di Ibn
Makkī, che doveva essere usato nell’XI secolo (il grammatico muore nel 1107),
essere posto sullo stesso piano della varietà che emerge dalle giaride, la cui documentazione risale al XII secolo?10 Ma il problema cronologico riguarda
anche la diacronia interna alle singole varietà. Per esempio, con riferimento al
Siculo-Arabic, Agius (1996) ne analizza le caratteristiche fonologiche e morfologiche (cfr. infra) utilizzando le voci tratte dai documenti medievali che abbracciano un arco di tempo di circa tre secoli [XII-XV, cfr. anche Agius
10
A proposito della situazione (socio)liguistica del periodo normanno (seconda parte del regno
di Ruggero II e fino a Guglielmo II) Vàrvaro (1981: 143-144) osserva che «l’arabo rimaneva la lingua
liturgica e di cultura (si pensi a Edrisi) e conservava prestigio e vigenza legale, come provano gli atti
conservati (Cusa 1868-82) […] nonché l’esistenza di una regia cancelleria araba ed il fatto stesso che
ancora Guglielmo II, come probabilmente i suoi predecessori, parlasse questa lingua». Ma «nel complesso, se prima la tendenza era stata a favore della progressiva assunzione di un profilo culturale
omogeneo, per cui chi era musulmano o si convertiva tendeva ad assorbire i modi di vita musulmani
(a cominciare dal nome) ed a parlare arabo, adesso questa pressione veniva a mancare, l’identità omogenea poteva senza difficoltà scindersi: nello sfaldamento di una struttura integrata, fattori come la
religione, gli usi e la lingua si comportavano ognuno a suo modo, in base al grado di accettazione
della società circostante, e potevano verificarsi casi di forte dissociazione, come quello del musulmano
che già parlava romanzo ed arabo e che adesso era portato a confinare questa lingua nel dominio religioso o del convertito al cristianesimo che conservava una lingua che ancora non aveva del tutto
perduto prestigio sociale, ma la escludeva naturalmente proprio dal dominio della religione, che era
stato tipicamente suo». A poco più di quarant’anni dalla morte di Ibn Makkī il quadro sociolinguistico
appare, dunque, “capovolto”. Sembra invece che le varietà proposte in Agius (1996), nonostante
siano riferite a momenti storico-socio-linguistici diversi, siano varietà poste su in’ideale linea continua
e stabile che congiunge il periodo islamico con quello post-islamico. Solo nella parte conclusiva del
suo lavoro l’autore sottolinea che «by the mid-twelth century many Siculo-Muslims had left Sicily
and settled mainly in North Africa carrying with them this variety [il «Siculo-Lahִ n Arabic»]. Those
who stayed continued to speak this variety until it may have gradually merged with the variety of the
third speech community [il «Siculo-Arabic»] [Agius (1996: 431)]. Il «Siculo-Lahִ n Arabic», l’arabo
di Sicilia di Ibn Makkī, si sarebbe, dunque, gradualmente “dissolto” nell’altra varietà, ormai «creolizzata», tipica di una comunità linguistica bilingue (romanza e siculo araba).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
139
(2007)] e quelli registrati nella lessicografia pre-piccittiana11. Ma, come nota
lo stesso Agius (2007: 28), a proposito degli arabismi rintracciati nei documenti
medievali redatti in greco, latino e volgare, «how representative are these
examples of a Siculo-Arabic variety? It is difficult to answer this question because firstly, who used these terms? Only a small group: scribes, legal officials,
merchants, traders, agents etc.», mentre, d’altra parte, «some of the terms belong to an administrative corpus, other to a commercial repertoire, and though
of Arabic origin, they may have entered in the Sicilian registers and deeds via
a European or Andalusi route» (ibidem).
Quanto alla prospettiva diatopica, anche la localizzazione delle varietà arabe
ipotizzate resta poco chiara. Se è vero che lo stesso Agius suppone che il «SiculoLahִn Arabic» dovesse essere usato nelle maggiori città e a Palermo (v. infra), chi
e, soprattutto, di dove erano i parlanti «siciliani» che avrebbero dato vita all’altra
varietà (pidginizzata e in seguito creolizzata), cioè al «Siculo-Arabic»?
Infine, riguardo all’arabo delle giaride, come già notato da Metaclaffe [citato in Agius (2007)], chi e di dove erano gli scribi che ne hanno fatto uso nei
documenti medievali? Erano (tutti) di provenienza siciliana?
Questi dubbi non impediscono, tuttavia, di (ri)considerare criticamente
alcune questioni circa l’impatto della lingua araba sulla Sicilia medievale e il
suo scontro/incontro con le varietà indigene. In particolare, una disamina del
rapporto tra le corrispondenze fonetiche arabo classico/«Siculo-Lahִn Arabic»
e arabo/arabismi medievali [come quella qui proposta in § 3, sulla base del
raffronto tra i materiali forniti in Agius (1996) e in Caracausi (1983)], permetterà di evidenziare quanti e quali cambiamenti fonetici individuabili negli ara11
In sostanza, gli arabismi medievali, quali presunti relitti lessicali del «Siculo-Arabic», sono
posti accanto, senza soluzione di continuità, a quelli moderni, con la sola osservazione che «also SiculoArabic includes the vast corpus of words and idioms in the Sicilian dialect of Arabic origin recorded in
dictionaries and used by Sicilians in the every day language» [Agius (1996: 110)]). Questa tesi è strenuamente – ma forse anche un po’ fantasiosamente – sostenuta dall’autore; in un altro passo del volume
si legge addirittura: «Siculo-Arabic exists at two levels: early and modern. The early period is illustrated
by data recorded in notarial documents, the vocabulary of which is static and therefore not used anymore while the modern period refers to the Siculo-Arabic which is alive and used in modern Sicilian
though some usages may have now become archaic [si noti che i «data recorded in notarial documents»
altro non sono che i lessemi di origine araba – prestiti adattati – rinvenibili nei «testi latini e volgari del
periodo che va dall’età normanna a tutto il ’400 e di testi mediogreci della Sicilia e della Calabria» (Caracausi 1983: 40): «diplomi e documenti ufficiali, atti privati in greco, latino e volgare» (ibidem), nonché
«alcune migliaia fra documenti pubblici e atti privati» (ibidem)]. The medieval documents made references to usages we indentified by their hybridized forms of Arabic roots with Latin and Greek intereferences. Much of the data we analysed belongs to a synthetic type. A spoken version of some of the
written data was undoubtedly used in the daily speech of the Islamic and post-islamic periods, though
Latin or Greek endings were dropped (except for the nominative case [eg Lat. /-us/ or /-um/ > Sic /u/]) thus making this level into an analytic type. Nonetheless, not all Siculo-Arabic words came from
early documents, many were used in the daily language the survival of which has been handed down to
us by words of mouth and then recorded in dictionaries and vocabularies. Lexicographers coined these
Siculo-Arabic words as loan words» [Agius 1996: (396-397)]. L’autore, dunque, propugna l’esistenza
nella Sicilia medievale di una varietà di arabo ibridizzata che sarebbe residualmente testimoniata/rispecchiata, esclusivamente per il livello lessicale, negli arabismi di Sicilia medievali e moderni.
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Roberto Sottile
bismi medievali e moderni si fossero già compiuti nell’arabo (“scorretto”) parlato in Sicilia e descritto nell’opera di Ibn Makkī. Quanto maggiore sarà il
grado di similarità tra i cambiamenti (“errori”) individuati nel Trattato e quelli
descritti dal Caracausi, tanto più verosimile potrà apparire la presunta sicilianità dell’arabo “corrotto” del Tat-qīf.
2. Il «Siculo-Lahn Arabic»
Come già osservato, con il suo Trattato, Ibn Makkī intende segnalare gli
errori commessi nell’uso della lingua araba innanzitutto da parte della “gente
comune”. Partendo dal presupposto che il grammatico siciliano si riferisca a
una varietà usata in Sicilia, Agius (1996) dà ad essa il nome di «Siculo-Lahִ n
Arabic» e ne individua due registri: uno tipico degli utenti istruiti (xāssa), tendenti all’uso “corretto”, l’altro tipico di utenti collocati nei gradini meno alti
della scala sociale (‘āmma) e portatori di una varietà (più) substandard. Mentre
i primi, in quanto tendenti alla fasaha “eloquence”, avrebbero usato una lingua,
che pur deviante dal modello classico, si sarebbe configurata come alta e prestigiosa (tendenzialmente corretta e risultante dal mescolamento tra elementi
classici ed elementi “turbati”, tipici del «Siculo-Lahִ n Arabic»), i secondi, in
quanto tendenti all’uso di una lingua comunque distante da quella corretta,
avrebbero usato un registro basso (ma pur caratterizzato da qualche elemento
cristallizzato di arabo classico):
La distinzione tra i due registri riposa sul fatto che Ibn Makkī, nel suo
Trattato, richiama le forme errate prodotte da entrambi i gruppi12. E, in effetti,
il Tat-qīf si configura come una di quelle «raccolte normative, di guide ortofoniche ed ortografiche sia per il volgo, al-‘ammah, che per l’élite intellettuale,
al-h≠ āssa h» [Rizzitano (1956: 196)]. Quest’ultima, nel caso specifico della Sicilia,
corrisponderebbe, secondo Agius (1996: 136), alla «élite of professionals who
12
«The Muqaddima [prefazione] contains reflections on the corruption and admixture of Arabic
through the alhān (ie. the mistakes) committed by two different social class of people, the ‘āmma and the
xāssa , though the main bulk of the treatise is aimed particularly at the ‘āmma» [Agius (1996: 134-135)].
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
141
could read and write, a very selected group in cities and towns – Palermo in
particular»13.
Eppure, nonostante l’istruzione e l’alto prestigio sociale della h≠ āssa,
«fatte poche eccezioni» – si legge nella premessa del Tat-qīf – «tutti si trovano impaludati nell’errore, nel deprecato lahn, e solo chi è riuscito a rimanerne miracolosamente immune […] cerca di non lasciarsi travolgere dall’oscurantismo linguistico.
Ma i suoi sforzi sono limitati al settore della lingua scritta in quanto appena fuori
dall’ambito di quel che va leggendo o scrivendo, si trova, nei rapporti quotidiani
con la massa, a scivolare nuovamente negli errori che caratterizzano la parlata del
volgo, né riesce praticamente a sottrarsi alla corrente» [Rizzitano (1956: 205)].
Nel Trattato di Ibn Makkī le forme “errate” sono elencate accanto a
quelle corrette, esemplificate, queste ultime, da forme dal Corano e dalla poesia. L’opera rientra dunque nell’ambito di quegli scritti che «si proposero il
compito di evitare le evasioni dalla purezza linguistica, col sistema di indicare,
accanto al vocabolo corrotto, quello castigato» [Rizzitano (1956: 196)]. In questo gioco di comparazioni si ricava, relativamente alla varietà oggetto del Trattato, una condizione di vistoso allontanamento dal modello classico,
condizione che investe effettivamente tanto il volgo, quanto l’élite, come si
nota dai seguenti esempi [tratti da Agius (1996: 137-138)]:
ar. cl.
’ahada ‘ašara ‘eleven’
dag˘al ‘badness, corruptness, unsoundness’
dirham ‘a certain silver coin’
ru’iya ‘he/it was seen’
zukma ‘a cold in the head’
sic.-lahִ n ar.
[‘āmma]
hida‘š.r
dug˘l
dirhim
ruwiya
zikma
[h≠ āssa]
hada‘šar
dig˘l
darham
’ariya
zakma
Curiosamente, gli esempi di seguito [cfr. Agius (1996: 138-140)] mostrano, invece, la produzione di forme errate (ipercorrettismi?) solo da parte
del gruppo diastraticamente meno marcato (h≠ āssa ), mentre quello più marcato
(‘āmma) mostra di produrre forme uguali a quelle dell’arabo classico:
ar. cl.
‘arsa ‘court; open area’
farrūǧ ‘the young of the domestic hen’
laban ‘milk; fresh milk’
rahba ‘court of a mosque or a house’
za‘farān ‘saffron’
sic.-lahִ n ar.
[‘āmma]
‘arsa
farrūǧ
laban
rahba
za‘farān
[h≠ āssa]
‘arasa
furrūǧ
labn
rahaba
za‘furān
13
Ma, di certo, «most of the new recruits came to speak the language, but only the educated
wrote it and, in spite of the many religious institutions, there would not have been too many converts
in Sicily who could read and write» [Agius (1996: 141)].
142
Roberto Sottile
Dunque, si ravvisa una condizione di forte turbolenza linguistica a tutti i
livelli sociali. Essa sembra dare ragione dello sconforto con cui nella premessa
al suo Tat-qīf, l’autore rileva che «le improprietà […] hanno intaccato perfino
il campo della Tradizione, quello della recitazione coranica, hanno travolto gli
scrittori di fiqh, senza che nessuno pensasse di arginare la marea del lahn che
travolge tutti» [Rizzitano (1956: 205-206)].
La variazione linguistica diventa, quindi, serio motivo di allarme e preoccupazione per Ibn Makkī che si aggiunge così alla schiera di quei puristi
«desiderosi di riportare l’arabo allo splendore delle origini e di porre una remora agli evasori, certamente più abbondanti nel Maghrib, lontani dalla culla
della civiltà arabo-islamica» (ivi: 196).
3. Convergenze e divergenze fonetiche nel Siculo-Lahִ n Arabic e negli arabismi
medievali (e moderni)
3.1. Nel concludere la sua presentazione del testo di Ibn Makkī, Rizzitano
(1956: 213) osserva che
anche dal semplice sommario dei 50 capitoli appare chiaro il carattere di compiutezza dello scritto: Ibn Makkī non è un improvvisatore e desidera che il
Tat-qīf al-lisān – forse l’unica sua opera – comprenda tutti gli aspetti di quelle corruzioni linguistiche che dilagavano presso il popolo ma anche nella lingua delle
persone colte. Annota quindi, nel manuale, i vari passaggi da dentale a interdentale, da consonante chiusa in aperta e viceversa, rileva i fenomeni di metatesi, di
aspirantizzazione e sonorizzazione, di geminazione e sdoppiamento, segnala gli
errori nella formazione del diminutivo, del nome di relazione o nisbah, del plurale […], e tutto ciò con un rispetto per la precisione e la catalogazione, nonché
il richiamo all’autorità di famosi linguisti che fanno del Tat-qīf al-lisān un prezioso
“prontuario delle incertezze”.
Sulla base dell’edizione del trattato pubblicata nel 1966 (cfr. nota 2), Agius
ricostruisce le corrispondenze fonetiche tra l’arabo classico e la varietà “corrotta”, presumibilmente siciliana, al centro del Tat-qīf14. Quest’ultima presenta,
talvolta, sul piano fonologico, esiti poi riscontrabili anche negli arabismi dei
dialetti siciliani, sicché molti dei cambiamenti fonetici evidenziabili per il «Siculo-Lahִn Arabic» si rilevano anche nella voci di origine araba della Sicilia postislamica. Questa condizione è resa esplicita laddove una certa parola assunta
da Ibn Makkī come esempio del cambiamento (dell’errore, nella sua prospettiva) si è “conservata” nel lessico siciliano. In questi casi, i termini dell’arabo
“corrotto” segnalati nel trattato si configurano, effettivamente, come forme “an14
Nel suo lavoro, l’autore ricostruisce anche le corrispondenze fonetiche del «Siculo-Arabic»
e del «Siculo-Middle Arabic» (cfr. § 1).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
143
ticipatorie” degli arabismi di Sicilia15. Quando ciò accade, si aggiunge un nuovo
indizio alla presunta sicilianità dell’arabo descritto nel Trattato.
Si confrontino i seguenti esempi16:
1) a → i
ar. cl. tāǧan → sic.-lahִ n ar. tāǧin ‘a frying pan’ (IM 155/Agius 210) →
arabismi siciliani mediev. tangile [Caracausi (1983: 366)], cfr. sic. tancinu/tanginu ‘scaldino di rame o di latta’17 (VS).
2) u → a18
ar. cl. zu‘rūr → sic.-lahִ n ar. za‘rūr ‘the fruit of a tree, of which there is a
red species and a yellow, having a round hard stone; a fruit of the desert, in
make resembling the fruit of the lote-tree, and in the taste of which is acidity’
(IM 144/Agius 225) → sic. ażżalora ‘lazzeruolo’ (VS)19.
3) i → a20
ar. cl. xizāna → sic.-lahִ n ar. xazāna ‘a small chamber within a large chamber; a place in which things are reposited, stored, laid up, kept preserved, or
15
Ovviamente, molte di queste voci, in quanto proprie dell’arabo medievale/volgare, coincidono con quelle che gli studiosi hanno individuato come etimi degli arabismi siciliani moderni. D’altra
parte, in alcune altre voci tra quelle presenti nel Taṯ qīf al-Lisān potrebbero rintracciarsi gli etimi di
ulteriori arabismi di Sicilia (cfr. § 6).
16
Agius (1996) riporta in script latino le forme del Taṯ qīf ponendovi accanto il numero di
pagina dell’opera di Ibn Makkī seguite dal relativo significato. Quando quest’ultimo non sia facilmente ricavabile dal Trattato, Agius (ibidem) ricorre ai dizionari arabi citandoli di volta in volta.
Negli esempi presentati in questo paragrafo e tratti dal lavoro del linguista maltese viene fornita
tra parentesi la sigla IM, seguita dal numero di pagina del Trattato in cui ricorre la forma citata;
segue una barretta obliqua dopo la quale è riportato anche il riferimento ad Agius (1996), da cui
è tratto il materiale.
17
Per sic. med. tangile/cangile/cangire e sic. mod. tancinu/tanginu (cfr. VS), Caracausi (1983:
367), dopo aver evidenziato che il Gioeni riconduce queste voci all’ar. tāǧin o tayǧan ‘padella, padella
per friggere, piatto di terra ove si fanno cuocere le gallette, casseruola’, e il D’Aleppo / Calvaruso
ad ar. tānǧarah ‘marmitta, pignatta, pentola, paiuolo, caldano, vaso di rame’, rileva che «nessuna
delle due voci è ritenuta propriamente araba al pari dell’affine tinǧīr ‘vas in quo cibus habīs miscetur’
˘
(Freytag III 74a)» e ne propone quest’ultima come etimo. Alla forma tinǧīr «più decisamente
ci indirizza la -í- tonica delle voce siciliana, presumibilmente attribuibile anche alle forme medievali
citate, nelle quali la -r- originaria appare conservata o mutata in -l- per influsso di un suffisso romanzo». Ma le forme con -r- sono due (all’interno dello stesso documento) contro le sei con -l- (che
ricorre anche nell’attestazione più antica); inoltre, mentre il passaggio di l → r è ben documentato
in Caracausi (1983: 65), non sono invece segnalati molti casi di r → l. Lo spostamento di accento,
che induce il Caracausi a rifiutare tāǧin, potrebbe forse spiegarsi con la reinterpretazione di -in(u)
come suffisso per la formazione di nomi di strumento. I suffissati in -inu presentano effettivamente
lo spostamento dell’accento della base sulla prima vocale del suffisso, come dimostrerebbero le
forme, documentate in Emmi (2011: 126), pizzínu (< pizzu + inu) e bbicchínu ‘campanaccio adatto
ai becchi’ (< bbíeccu + inu).
18
Ben documentato anche in Caracausi (1983).
19
Si noti come per l’etimo della voce, Pellegrini (1972: 185) fornisca un’alternativa tra az-zu‘rūr,
proposto dal D’Aleppo / Calvaruso, e az-za‘rūra, proposto dallo Steiger.
20
Oltre ai numerosi esempi riportati in Agius (1996: 219-221) per il Siculo-Lahִn Arabic, anche
Caracausi (1983: 75-76) osserva, per gli arabismi medievali, come i, in molti casi, sia divenuta a, specialmente dopo q-
144
Roberto Sottile
guarded; a repository’ (IM 154/Agius 221) → sic. gażżana ‘armadio a giorno
ricavato nello spessore di un muro’ (VS).
4) mC [+ dentale/alveolare] → nC (assimilazione della nasale)
ar. cl. mimtִar → sic.-lahִ n ar. mintִar ‘raincoat’ (IM 111/Agius 198) → sic.
mantarru ‘pesante mantello di lana tessuto anticamente in casa’ (VS)21.
Di contro, non si registrano nel sic.-lahִ n ar. casi di nC [+ labiale] → mC
[+ labiale], che, invece, occorrono negli arabismi medievali e moderni: zinbīl
‘cabas en feuilles de palmier’ → simbile (ma anche sinbile), cimbile, zimmile
[Caracausi (1983: 349)], cfr. sic. żżimmili ‘ciascuna delle due grandi sporte o
bisacce, di palma nana, vimini, altri vegetali intrecciati, o anche di olona, di
varia forma, per il trasporto sull’asino o sul mulo di prodotti agricoli e/o di
stallatico’ (VS); tanbūr ‘especie de lira o bandurria hecha con una piel tendida
sobre un cuerpo hueco’ [Pellegrini (1972: 52)] → sic. tammuru ‘tamburo (strumento musicale)’ (VS).
Esistono, invece, esempi di alternanza n/m che non sembrano però
condizionati da ragioni coarticolatorie: ar. cl. barāṯ in → sic.-lahִ n ar. barāṯ im
‘(I) guessed’ (IM 111/Agius 198); xammant → xammamt ‘claws of a beast
of prey’ (ibidem). Per esse – ma (invero!) anche per gli esempi (di coarticolazione) relativi a mC [+ dentale/alveolare] → nC (cfr. 4) e a nC [+ labiale] → mC [+ labiale] (cfr. sopra) – Agius (1996: 200) suggerisce di
considerare se tale fenomeno di alternanza sia «an internal influence, ie.
among Arabic and Berber tribes or external through Romane influence.
Molan suggests that the loss of /m/ in spoken Latin and instability of /n/
may have led Romance speakers to the uncertainty of selecting /m/ or /n/
in word or syllable-final position in their use of Arabic (Molan 1978, 101).
Our S[iculo-]L[ahִ n ]A[rabic] data is sparse in order to support this statement».
Da parte loro, anche gli arabismi di Sicilia presentano casi di scambio
tra le due consonanti in fine di parola (analogamente all’esempio, riportato
sopra, ar. cl. barāṯ in → sic.-lahִ n ar. barāṯ im). Il fenomeno è evidenziato da
Caracausi (1983: 65), quando per m avverte che «incostante è però l’esito
del fonema in posizione finale» e fornisce gli esempi maranus ‘marrano’ (cfr.
ivi: 279), Huedmarran, huedmarram, (= Tumarrano, toponimo) < wādī
muharram o mahram (cfr. ivi: 207, nota 227); tanda (cfr. ivi: 366), tanna ‘imposizione, balzello’ (VS) < tanzīm ‘arrangement, readjustement, reorganization, reform’ (Wehr 1147b). Anche n mostra un certo grado di instabilità,
presentando talvolta esempi di raddoppiamento o scempiamento (quanto
21
Per il passaggio m → n, cfr. anche ar. cl. mamqūr → sic.-lahִ n ar. manqūr ‘salted fish’ (IM
111/Agius 198) e ar. simsār ‘sensale, cozzone, agente di affari, intermediario’ → arabismi siciliani mediev. sansarius, senzali (Caracausi 1983: 333), cfr. sic. sanzali ‘mediatore, sensale’ (VS).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
145
meno sul livello grafematico): alfanectus/fannecta ‘falcone tunisino’ < (bāz)
al-fanak ‘falcone del fanak’22; chanaca/channaca ‘collana’ < hannāqah ‘col˘
lana d’oro e di perle’.
5) Epentesi e sincope vocalica
ar. cl bakra → sic.-lahִ n ar. bakara ‘pulley’ (IM 133/Agius 215)] → sic.bàcara ‘specie di carrozza a due posti, senza il posto del cocchiere [Traina, cit.
in Pellegrini (1972: 154)], bbàcara ‘sorta di barroccio’ (VS)23.
L’inserimento di una a epentetica è testimoniata anche nei seguenti
esempi:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
baql → baqal (IM 133/Agius 214)
‘herbs’.
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
maqlūb ‘turned over, turned about,
inverted, inverse, reverse(d)’ → machaluba ‘nome di un Casale’ [Caracausi (1983: 272)], cfr. sic. macalubba
e varr. ‘maccaluba, eruzioni di fango,
acqua salata e gas vari, che si trovano
numerosi nell’altipiano centrale della
Sicilia, soprattutto in provincia di
Agrigento’ (VS).
In altri casi, invece, alla a epentetica del sic.-lahִ n ar. corrisponde una vocale anteriore o posteriore negli arabismi siciliani medievali e moderni con
struttura fonologica simile (cfr. anche nota 23):
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
baṯr → baṯ ar (IM 133/Agius 215)
‘pimples’.
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
sitr ‘veil; screen; curtain, drap,
window; covering; cover’ → sytir24
‘id.’ [Caracausi (1983: 356-357)].
22
Si noti che per questo termine Caracausi (1983: 93) avverte che si tratterebbe di prestito non
diretto, ma di mediazione iberica.
23
Si confronti anche l’inserimento di una e epententica nell’arabismo medievale βουγkέρις
[Cusa, cit. in Caracausi (1983: 79)] → Buccheri (cognome ) < Abū Bakr (cfr. DOS).
24
Ma qui, in effeti, il timbro della vocale epentetica potrebbe dipendere da un processo assimilatorio.
146
Roberto Sottile
samn → saman (IM 133/214)
‘ghee’.
ṯūmn ‘ottava parte; misura di capacità’ → tu(m)minus [Caracausi (1983:
383-385)], cfr. sic. tùmminu ‘unità di
misura per aridi o di superficie, di valore diverso nelle varie zone dell’Isola;
recipiente per aridi’ (VS).
Si veda anche ar. cl. raṭ l → sic.-lahִ n ar. ratal ‘measure of capacity’ (IM
133/Agius 214) → arabismi siciliani mediev. rotulum [Caracausi (1983: 321322)], cfr. sic. rròtulu ‘antica misura di peso equivalente a 800 grammi circa’;
habl → habal ‘rope’ (IM 133/Agius 215) → arabismi siciliani mediev. habel in
Habel edarge [cfr. Caracausi (1983: 368-369, s.v. targia)].
Nel sic.-lahִn ar. sono comunque rilevabili anche diversi casi di sincope vocalica [cfr. Agius (1996: 215-216)], che però non si ritrovano negli arabismi siciliani: ar. cl. hafar → sic.-lahִn ar. hafr ‘a well that is widened beyond measure’
(IM 139/Agius 216) → sic. càfaru ‘cavità, buco, vuoto’ e càfuru ‘vuoto internamente, cavo, gen. di legno o di pietra’ [cfr. anche Pellegrini (1972: 253-254)]25 e
forse ar. cl. taraf → sic.-lahִn ar. tarf ‘extremity, end’ (IM 140/Agius 216) → sic.
rraffu ‘sperone roccioso; ornamento di parete’ [cfr. anche Pellegrini (1972: 270)].
3.2. In aggiunta agli esempi considerati in § 3.1, il trattato di Ibn Makkī
mostra come anche molti dei mutamenti (vocalici e consonantici) individuati
in Caracausi (1983 – in particolare pp. 57-83) per i prestiti arabi dei documenti
medievali (e, in parte, per gli arabismi moderni) si fossero “stabilizzati” già nel
primo/secondo secolo della conquista araba. Il “lahn-work”, se effettivamente
riferito all’arabo di Sicilia, permette dunque di retrodatare di circa un secolo
molti dei cambiamenti fonetici osservabili negli arabismi medievali siciliani.
Tra i diversi mutamenti, con riguardo al vocalismo, si nota in entrambi i
sistemi la tendenza del dittongo ay «alla monottongazione in i» [Caracausi
(1983: 77)], sebbene nella lingua descritta da Ibn Makkī la vocale si mantenga
ancora lunga:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
rayta → rīta ‘any garment or piece
of cloth’ (IM 145/Agius 206).
ar. → arabismi siciliani mediev.
šuǧayra → ‘little tree’, ‘shrub,
bush’ → chugiria ‘tipo di ornamento
o ricamo per biancheria’ [Caracausi
(1983: 190)].
25
Ma cfr. anche l’esempio di sincope, rilevato da Caracausi, ar. za‘farān ‘zafferano’ → arabismi siciliani mediev. czafrana, per il quale non si può però escludere, quantomeno in questa attestazione trecentesca con -fr-, una mediazione iberica, se cz- annota qui un’affricata sorda [cfr.
Caracausi (1983: 398-399)]. Si noti, tuttavia, la forma siciliana zafrano ‘hic crocum ci’, riportata
dal Valla (cfr. ibidem).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali moderni di Sicilia
qayh → qīh ‘thick purulent matter
unmixed with blood’ (IM 150/Agius
206).
147
šayh ‘anziano, capo tribù’ → sichus
˘
‘capo spirituale,
magister delle aljame’
[Caracausi (1983: 346)]26.
D’altra parte, la vocale ī dittonga in ay tanto nel sic.-lahִ n ar. quanto negli
arabismi medievali, dove le forme con o senza dittongo spesso co-occorrono
per uno stesso prestito o alternano in voci etimologicamente affini:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
mīṯ ara → mayṯ ara ‘saddle-cloth’
(IM 147/Agius 206)
ar. → arabismi siciliani
wādī at-tīn ‘fiume del fango’ →
Dittaino (oronimo)27.
Sempre riguardo al vocalismo, i probabili casi di imāla ā → ī (tipica del
maltese e dell’andaluso), registrati per il sic.-lahִ n ar., trovano corrispondenza
anche negli arabismi medievali (e moderni):
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
hummād → hummīd ‘sorrel; a certain plant having a red flower; a herb’
(IM 90/Agius 206).
wādī ‘fiume’ → Guid(d)a ‘corso
d’acqua’ [Caracausi (1983: 206, n.
227)].
nāb → nīb ‘canine tooth; an old
she-camel’ (ibidem).
‘ušārī ‘barque, esquif, chaloup’ →
xirium, accanto a uxerium (ivi: 388389), cfr. sic. usceri ‘antica nave da trasporto o da tonnara, una specie di
tartana’; ‘grande nave da trasporto’;
‘nome di nave in Egitto’ (VS).
Riguardo al consonatismo, tra le tendenze fonetiche mostrate in Caracausi
(1983), si può anzitutto richiamare il dileguo di hamza – che scompare in tutte
le lingue romanze e, quanto alla Sicilia, non è mai annotata nelle giaride – che
appare abbondantemente documentato anche nel sic.-lahִ n ar.:
26
Si noti come, nel discuterne l’etimo, Caracausi (1983) ritenga di poterlo ricondurrre alla voce
šīh, data l’abbondante ricorrenza nelle platee della forma š.yh.
˘
˘
27
Contro il toponimo Caniccattini < handaq at-tīn ‘vallone
del fango’ che mantiene invece la i
[Caracausi (1983: 379)]. Anche il toponimo˘ Darbus Elucayli ‘vicolo del procuratore’ (?), in un documento del 1287, si contrappone a una serie di forme in vocale rilevabili nei Diplomi del Cusa e in
altre carte di epoca normanna: al-wakīl, al-waqīl, Rahalukyl (cfr. ivi: 208).
148
Roberto Sottile
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
ša’ama → šam ‘he brought bad
luck (on his fellows)’ (IM 86/Agius
163).
qā’id ‘comandante, condottiero →
Gaytus, Caytus [Caracausi (1983: 238240)], cfr. sic. caìtu28 ‘capo di truppe,
condottiero’, ‘caporione’; rā’is / ra’īs
‘capo’ → raysius (ivi: 315-317), cfr.
sic. rràisi ‘capociurma della tonnara,
coordinatore e responsabile di tutte le
operazioni di pesca’ (VS).
mir’ā → mirā ‘mirror’ (IM
185/Agius 163).
al-qur’ān ‘corano’ → alcuranu
[Caracausi (1983: 104, nota 154)].
zi’nī → sīnī ‘small dog’ (IM
222/Agius 163).
_______
Quanto, invece, alla perdita di ‘ayn, ampiamente testimoniata per gli arabismi medievali, in alternativa al suo avanzamento verso il livello velare [cfr.
Caracausi (1983: 73)], non sono presenti nel sic.-lahִ n ar. esempi di dileguo.
Sono tuttavia rinvenibili diversi casi di spostamento verso il luogo di articolazione uvulare29: ar. cl. ‘abta → sic.-lahִ n ar. g˘ibta ‘(he died) of young age’ (IM
80/Agius 191), ‘abīt → g˘abīt ‘pure and fresh (blood)’ (ibidem), ‘amīq → g˘amīq
‘deep (sea)’ (IM 79/Agius 191).
E a proposito di avanzamento, nel lessico del sic.-lahִn ar., come negli arabismi medievali, appare largamente diffuso il passaggio di q a k30:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
tarquwa → tarkuwa ‘collar-bone’
(IM 109/Agius 194).
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
barqūq ‘prugna’ → barkoku, barcocu [Caracausi (1983: 125)], cfr. sic.
varcocu e varr. ‘albicocco’ (VS); marqad ‘bed’, ‘couch’, ‘resting place’ →
marcatus (ivi: 280-281), cfr. sic. màr-
Per la posizione dell’accento, cfr. Caracausi (ibidem).
g˘, però, non avanza mai verso la regione velare; nel sic.-lahִ n ar. non sono infatti presenti
esempi di passaggi g˘ → g, mentre in un (solo) caso si registra l’arretramento g˘ → ‘ayn, cfr. nag˘aq →
na‘aq ‘(the crow) cried’ (IM 79/Agius 193).
30
Sebbene nel sic.-lahִ n ar. sia anche diffuso il passaggio opposto k → q: maks → maqs ‘toll’,
‘duty’ (IM 108-109/Agius 195); rakka → raqq ‘to be weak, poor’ (IM 109/Agius 195).
28
29
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
149
catu ‘ovile’, ‘capanna dei pastori’,
‘fabbricato murale dove si manipola il
formaggio’ (VS).
huqqa → hukka ‘a receptacle of
wood’ (ibidem).
saqqā ‘portatore d’acqua’ → saccarius [Caracausi (1983: 326-327)],
cfr. sic. saccaru ‘venditore d’acqua’
(VS).
baqīra → bakīra ‘sleeveless shirt’
(ibidem).
baštināq(a) ‘carota’ → bastunaca
[Caracausi (1983: 128-129)], cfr. sic.
vastunaca ‘pastinaca’, ‘carota’ (VS);
qubbayt(a) ‘una qualità di dolce, specie
di confettura, sorta di confettura secca
preparata con succo d’uva mischiato a
diversi ingredienti’ → cubayta [Caracausi (1983: 194-195)], cfr. sic. cubbàita ‘torrone di mardorle, di sesamo
o anche di ceci abbrustoliti’ (VS).
Relativamente all’ampia «tendenza delle fricative posteriori verso un’articolazione occlusiva (ḫ, g˘, hִ ; ‘, h > c/k, g)» [Caracausi (1983: 74)], essa trova
già riscontro nel sic.-lahִ n ar., sebbene nel Trattato sia stato possibile rilevare
un unico esempio31:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
xuškār → kuškār ‘brown bread’
(IM 94/Agius 176).
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
harrūb(a) ‘frutice legnoso’ → car˘ garruba [Caracausi (1983: 161ruba,
16232)], cfr. sic. carrubba33 ‘pianta e
frutto del carrubo’ (VS); mahzan
˘
‘deposito, ufficio’ → magazenu,
ma(g)asenu [Caracausi (1983: 27227334)], cfr. sic. magażżenu e varr.35
‘granaio, magazzino in cui si conservano le masserizie’ (VS).
31
Ma cfr. Agius (1996: 176): «One may speculate that the shifting of / x / to / k / was more
frequent in SLA because of their proximity in articulation». D’altra parte, non sembrano rintracciabili
nel Trattato analoghi passaggi per le controparti sonore (g˘ → g).
32
Sono anche riportate numerose varianti con consonante fricativa.
33
Cfr. anche la variante harrubba (VS).
34
Cfr. anche le numerose varianti con -h- e -ch-.
35
Cfr. anche la variante mahażżenu (VS).
150
Roberto Sottile
zaġāya ‘venabulum’ [Pellegrini
(1972: 52)] → zagaya [Caracausi
(1983: 399)]36, cfr. sic. żżagagghja ‘zagaglia’, ‘pungiglione delle api o delle
vespe’ (VS).
tarha ‘velo lungo che discende sino
ai piedi’ → targa (anche tarcha) [Caracausi (1983: 367-368)], cfr. sic. tarca
‘velo nero di seta con cui le donne riscoprivano il capo in segno di lutto’
(VS).
haniyyah ‘arc, voûte, arcade’ →
Canea (anche χανέα, Chanea) [Caracausi (1983: 171-172)], cfr. sic. hanèia
‘arco che mette in comunicazione due
abitazioni, sovrastato anch’esso da
vani abitati, sotto il quale, in genere,
passa una strada’ (VS).
qā‘ah ‘sala, aula, loggia a terreno’
→ caha (anche kaa e chaa) [Caracausi (1983: 146-147)].
Riguardo, invece, al più generico «avanzamento a livello velare» dei
«punti di articolazione retrovelare (uvulare, faringale, laringale)», osservato
dal Caracausi per gli arabismi siciliani con specifico riguardo alle fricative h,
˘
g˘, h, h, esistono nel sic.-lahִ n ar. non pochi casi di avanzamento del luogo di
articolazione all’interno della serie delle fricative posteriori arabe (che “si arrestano”, in ogni caso, al livello uvulare). Si nota, ad esempio, il passaggio h
→ x (da faringale a uvulare, quest’ultima annotata in Caracausi col grafema
h)37, in analogia a quello delle rispettive controparti sonore (cfr. sopra, il cam˘
biamento ar. cl. ‘→ sic.-lahִ n ar. g˘):
ar. cl. haršaf → sic.-lahִ n ar. xaršaf ‘an artichoke’ (IM 60/Agius 174); ar.
cl. ihtalata → sic.-lahִ n ar. ixtalat ‘to get angry’ (ibidem).
36
Le forme siciliana e italiana sono di probabile mediazione iberica (cfr. ibidem); altre forme
con g˘ sono rese, nei documenti medievali, con <ch> e <γ> (cfr. ivi: 236).
37
Esiste, in verità, anche un (solo) caso di arretramento h → h (da faringale a laringale): yahdur
→ yahdir ‘he reads swiftly’ (IM 93/Agius 174).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
151
La laringale h, invece, non mostra nel sic.-lahִ n ar. casi di avanzamento
all’interno dell’area di articolazione delle fricative posteriori, mentre appare
coinvolta nello spostamento verso il livello occlusivo che riguarda esclusivamente il passaggio (ampiamente documentato) h → t38.
Quanto al «passaggio dall’articolazione fricativa alla spirante (h, h, h >
˘
š)» [Caracausi (1983: 74)], questo cambiamento non sembra testimoniato
nel
trattato di Ibn Makkī, mentre appare ben documentato per gli arabismi medievali, dove la resa delle fricative posteriori con il grafema x (ma non solo) alterna spesso con l’impiego dei simboli della velare sorda (cfr. anche § 4):
hannāqah, hannāka ‘collana d’oro e di perle’ → channaccam, hannakam,
˘cannaca, channacam,
˘
xannacam [Caracausi (1983: 173-174)], cfr. sic. çiannaca e varr. ‘collare’; ‘collana di perle o di coralli’; ‘capestro, corda per
impiccare’ (VS).
hirbah ‘locus vastationis’, ‘ruine, masure’, ‘(site of) ruins’, ‘ruin, disinte˘grating structure’ → chirba, xirba [Caracausi (1983: 187-188)], cfr. sic.
scirba ‘luogo scosceso, dirupo’ (VS).
halaqa ‘ambivit, cinxit’, ‘arctius torsit (funem)’ → chilica, xilka ‘mazzo
(di canne)’ [Caracausi (1983: 395-396)].
haǧīrah ‘lapidibus conferta (terra)’ / haǧrah ‘lapidibus abundans (terra)
→ chagira, Xangirotta (anche Sangirotta) ‘località del territorio di Calatafimi’ (ivi: 168-169).
tahara ‘circoncidere’→ tachariari, tahariari, taxariari (ivi: 359-360), cfr.
sic. taciarïari ‘tagliare intorno: circoncidere’ (VS).
Il «passaggio delle fricative interdentali ad occlusive alveolari (ṯ, ḏ > t,
d)», documentato in Caracausi (1983: 74) per gli arabismi medievali, si presenta invece ampiamente diffuso anche nel sic.-lahִ n ar., come mostrano i seguenti esempi:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
ṯ ā’r → tār ‘blood revenge’ (IM
53/Agius 163); ṯ afina → tifna ‘the
ar. cl. → arabismi siciliani mediev.
e moderni
ṯ ūmn ‘ottava parte; misura di capacità’ → tu(m)minus [Caracausi (1983:
38
Esempi: šiyāh → šiyāt ‘sheep’ (IM 59/Agius 200); ‘idִ āh → ‘idִ āt ‘any great trees having thorn’
(IM 58/Agius 200); miyāh → miyāt (ibidem) ‘waters’. Questo shifting sembra trovare la propria controparte sonora nel passaggio ‘ (‘ayn) → d, riportato in Caracausi (1983: 73): ar. ‘ayn bārid ‘fonte
fredda’ → arabismi siciliani mediev. Dainbert accanto a Heymberd ‘nome di una sorgente’; ar. ‘ayn
ar-rūm ‘fonte dei Greci’ o ‘dei Cristiani’ → arabismi siciliani mediev. Dayniruma accanto a Aynirrumi
‘nome di una sorgente’; ar. ‘ayn al-murād/al-marād ‘monticule de sable/sol dur où l’eau n’étant pas
absorbée demeure stagnate’ → arabismi siciliani mediev. Dynlimrady ‘nome di una sorgente’ (cfr. ivi:
114)]. Il cambiamento ‘→ d potrebbe inoltre essere stato alla base della reinterpretazione paretimologica nei dialetti siciliani di ‘ayn ‘sorgente, fonte’ come ‘Donna’ [Vàrvaro (1981: 91)], cfr. Donna
Sisa (toponimo palermitano) < ‘ayn ‘azīzah ‘sorgente eccellente, preziosa’ [Caracausi (1983: 114)].
152
Roberto Sottile
joint between each thigh and leg,
internally of a horse’ (IM 567/Agius
170).
383-385)], cfr. sic. tùmminu ‘unità
di misura per aridi o di superficie, di
valore diverso nelle varie zone dell’Isola; recipiente per aridi’ (VS).
duxr → duxr ‘treasure’ (IM
ˉ
69/Agius
179); g˘adā → g˘ada ‘to nourish’ (IM 72/Agiusˉ 179); zumurrud →
ˉ
zumurrud ‘emerald’ (IM 68/Agius
180).
dukkār ‘(fico) caprifico’ → dukˉ 39 [Caracausi (1983: 216)], cfr.
kyara
sic. dduccara e varr. ‘fico selvatico,
caprifico’ (VS); ahdiya ‘(pair of) leaˉ → chadi(e) ‘calther boots or shoes’
zature, pantofole’ [Caracausi (1983:
168)].
Anche la «confusione» enfatiche/non enfatiche, t, d, s, z > t, d, s, d [Caracausi (1983: 74)], rilevata per gli arabismi medievali, appare già ben documentata nel sic.-lahִ n ar., sebbene nell’“arabo siciliano” non siano presenti
esempi di cambiamenti di z con d (cfr. zufr → zifr ‘nail, talon, claw’, IM
144/Agius 227, unico esempio riscontrato):
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
mintaqa → mantaqa ‘zone, field;
region; district”40 (IM 92/Agius 190)
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
tābiya ‘specie d’impasto duro
come una roccia, ottenuto mescolando la malta o calcina con pietruzze’
→ tabia [Caracausi (1983: 357)], cfr.
sic. tàbbia ‘sottile parete divisoria realizzata con mattoni murati a coltello o
con conci di calcaree sovrapposti a
coltello o di legno o costituita di
canne con rivestimento in gesso’ (VS);
balāt ‘solum complanatum ac pavimentum laeve’ → balata [Caracausi
(1983: 116-118)], cfr. sic. bbalata
‘grossa lastra di pietra lavica o calcarea, lavorata o non, adibita a vari usi
in muratura’ (VS); mistah ‘eau qui
39
«Nei pochi casi nei quali figura in termini mutuati nel siciliano, l’ar. d mostra le stesse vicende
¯ barda‘ah e barda‘ah, turgrafiche di d, con cui del resto tende a confondersi nella lingua d’origine (cfr.
¯
bad e turbad)» [Caracausi (1983: 60)].
¯ 40 Unico esempio riscontrato (per cui si veda anche § 6 per un suo possibile continuatore nel
siciliano); si consideri anche il passaggio tt → dd, mulitt → mulidd ‘one who hides the truth’ (IM
94/Agius 190).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
153
reste au fond d’un abreuvoir ou qui
coule et se mêle aux ordures’; ‘puits
dont l’eau bonne est gâtée par une
autre eau mauvaise qui s’y introduit’;
‘mastic’; ‘valée où il y a peu d’eau’ →
Musta (toponimo, località presso Caltanissetta) [Caracausi (1983: 343);
DOS, s.v.].
ġurdūf → g˘urdūf ‘a cartilage’ (IM
95/Agius 189).
al-qādi ‘giudice’ → Archadius
‘nome proprio’ [Caracausi (1983: 9899)]; mahdar ‘luogo in cui si abita’,
‘abitazione’, ‘dimora fissa, riunione,
luogo di riunione’ [Pellegrini (1972:
158)] → machadariu- [Caracausi
(1983: 271)], cfr. sic. macadaru ‘ritrovo, luogo frequentato per conversazione o divertimento’ (VS).
saqalliyya → siqilliyya ‘Sicily’ (IM
99/Agius 187); xurs → xurs ‘earring’,
‘a ring of gold, and of silver’, ‘an earring with one bead’ (IM 98/Agius
187).
salīb ‘croce’ oppure salīb(ah) ‘incrocio, crocicchio’ → salib- [Caracausi (1983: 331-332)], cfr. sic. salibba
‘solco che serve a ricevere l’acqua
degli altri solchi e a condurla fuori dai
campi; ‘striscia di terreno risultante
dal terrazzamento di un pendio’ (VS);
qasr ‘castello’ → cassarum [Caracausi
(1983: 165-166)], cfr. sic. càssaru
‘corso, via principale’ (VS).
_______
nazīr as-samt / nazīr ‘opposto ‘allo
zenit’ → nadir ‘id.’ [Caracausi (1983:
304)]; nazzār ‘ispettore’→ nadarus
(ivi: 302-303), cfr. sic. nadaru ‘ufficiale
preposto alla verifica dei pesi e delle
misure adoperate dai venditori’ (VS);
tanzīm ‘arrangement, readjustement,
reorganization, reform’ → tanda [Caracausi (1983: 366)], cfr. sic. tanna
‘imposizione, balzello’ (VS).
Per converso, quanto alle sibilanti, il Trattato di Ibn Makkī presenta una
straordinaria abbondanza nel sic.-lahִn ar. di passaggi s → s, che sembrerebbero
“adombrare” l’esito affricato del siciliano. Agius nota che questo shifting è at-
154
Roberto Sottile
testato nell’antico spagnolo, con un fenomeno analogo a quello rilevabile negli
arabismi siciliani: «Old Spanish had another dorso-alveolar affricate /ts/ becoming a dorso-alveolar sibilant /s/ and identified with arabic /s/, a phenomenon known in S[iculo-]A[rabic] [eg. CA sikka > SA zicca / cicha, CA ִtās(a)
> tazza, taç(ç)a]. It is possible that /s/ had a higher point of articulation that
rendered it emphatically as is the case of S[iculo-]L[ahִ n ]A[rabic] /s/ because
of the retraction caused in the tongue position by velarization» [Agius (1996:
185-186)]41. Ma la documentazione nel sic.-lahִn ar. del passaggio surra → surra
‘belly button’ (IM 103/Agius 184) che nel siciliano post-islamico si presenta
come surra ‘pancia del tonno, sorra’ non permette di documentare il cambiamento /s/ → /s/ → /dz/ o /ts/.
A proposito della «mutuazione di sin e di sad con l’affricata dello spagnolo (ant., poi si passerà, com’è noto, alla fricativa interdentale) ed in italiano
(specie in siciliano)» Pellegrini (1972: 468) fornisce una serie di esempi siciliani (e meridionali) nei quali gli esiti affricati tanto di s quanto di s sembrerebbero abbastanza bilanciati. Pare però interessante il caso del passaggio,
documentato nel sic.-lahִ n ar., di surra → surra ‘purse’ (IM 103/Agius 188),
voce che nel siciliano esita in sirruni ‘sacca da pastore’ (cfr. anche pantesco
surruni ‘sacchetto, stretto di forte tela tessuta una volta in casa’), ma che presenta anche una variante żżirruni ‘cesta, paniere di forma particolare adibito
a usi diversi’ [cfr. Pellegrini (1972: 468-469)]. In rapporto alla “continuità”
arabo-arabo (scorretto) di Sicilia-arabismi siciliani, abbiamo, dunque, da un
lato il passaggio ar. s → sic.-lahִ n ar. s → sic. s (surra → surra ‘belly button’ →
surra ‘pancia del tonno, sorra’), dall’altro il passaggio ar. s → sic.-lahִ n ar. s →
sic. s/żż (surra → surra ‘purse’ → sirruni/żżirruni). L’interscambiabilità del
sic.-lahִ n ar. tra sin e sad [che è anche dell’Andaluso: qāris : qāris ‘bitter’, surra:
surra ‘navel’, cfr. Agius (1986: 185)], potrebbe essere stata alla base degli esiti
sia sibilianti che affricati di sin e sad, riscontrabili negli arabismi siciliani medievali e moderni42.
Il Trattato del grammatico siciliano mostra per il sic.-lahִ n ar. anche molti
passaggi t → ṯ , come avviene in numerosi dialetti arabi [cfr. Colin (1930), citato
in Agius (1996)]:
ratam → raṯ am ‘(Spanish broom); type of plant (peculiar to the Sahara
used medicinally as a hallucinogen)’ (IM 54/Agius 169); rutaylā → ruṯ aylā
41
Si consideri Sgroi (1986: 123, nota 154) quando richiama l’attenzione su un saggio di Alonso
(1946) che «mette in rilievo l’identificazione da parte degli Spagnoli del sin arabo [s] “siseante” e fricativo con la frizione della loro affricata ‹ç› [ts], mentre lo zay [z] veniva costantemente tracritto con
‹ç› [dz]. L’A. fa riferimento anche al siciliano, ricordando che la particolare energia articolatoria e il
«siseo» apico-dentale del sin [s] fricativo venivano assimilati dai Siciliani con le affricate malgrado la
presenza di [s] dentale».
42
Un esempio di alternanza enfatiche/non enfatiche riguarda anche la voce del sic.-lahִ n ar.
zi’nī → si’nī ‘small dog’ (IM 222/Agius 163).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
155
‘tarantula; venemous spider’ (ibidem); tafl → ṯ afl ‘spittle’ (IM 52/Agius
169); tawiya → ṯ awa ‘to settle, reside in’ (IM 56/Agius 169).
Di contro, negli arabismi medievali e moderni ar. t appare piuttosto stabile,
ma in un caso Caracausi (1983: 381-382) documenta un esempio di resa grafica
con th per la voce tharcassius, cfr. tarcassu ‘guaina dove una volta si portavano le
frecce: turcasso’ [Pasqualino (1785-1795: s.v.)] < tarkāš < pers. tirkäš [da tīr
‘freccia’ e käš ‘tirare, cfr. Pellegrini (1972: 29)]. La forma con th (tharcassios) –
che per la sua altezza cronologica potrebbe testimoniare residualmente il fenomeno di shifting documentato da Ibn Makkī per il sic.-lahִn ar. – è la più antica
e si trova, con due attestazioni, in un documento del 1124; le altre forme, tutte
con t, sono registrate dal ’300 al ’500, mentre quella che ci è giunta nello script
greco, λου τορκάσυ, con il grafema <τ>, viene dubitativamente fatta risalire a un
periodo compreso tra XIII e il XV sec. [cfr. Caracausi (1983: 381-382)].
L’esito ṯ si ritrova nel sic.-lahִ n ar. anche come risultato della fricativizzazione di b (b → ṯ 43). La bilabiale non presenta, dunque, casi di passaggio alla
fricativa labiodentale, come invece accade negli arabismi medievali, butana e
vutana, e moderni, bbutana, vutana (e mutana) ‘fodera di abiti’44 < bitāna,
butāna ‘pelle di montone’, ‘fodera di vestito’ (dunque con fricativizzazione
dell’occlusiva bilabiale, tipica di molti dialetti romanzi). Si noti però la presenza nel sic.-lahִ n ar. di un esempio di fricativizzazione labiodentale dell’interdentale sorda: ar. cl. aṯ ram → sic.-lahִ n ar. afram ‘applied to a man having
one of his incisors broken’ (IM 92/Agius 171).
Riguardo al «cedimento di z (> s, z) e w» [Caracausi (1983: 74)], Agius
(1996) non riporta per il sic.-lahִ n ar. descritto da Ibn Makkī casi riguardanti
z, mentre sono documentati diversi mutamenti di w → y – spesso condivisi,
per altro, con l’andaluso e il maltese – di cui non sembra, però, esservi traccia
nei documenti medievali45.
Per l’«uso incostante del tratto di sonorità (d > t; hִ , h, h > g; ecc.)» [Ca˘
rilevaracausi (1983: 74)], anche nell’opera di Ibn Makkī sono effettivamente
bili numerosi esempi di assordimento delle dentali:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
43
Unico esempio del Trattato: muxibb(ūn) → muhiṯṯ (īn) ‘those who quicken the pace’ (IM
83/Agius 168).
44
Cfr. VS, s.v., per gli ulteriori numerosi significati.
45
Cfr. ar. cl. ’arwāh → sic.-lahִn ar. ’aryāh ‘winds’ (IM 112/Agius 202), cfr. maltese rjieħ (Agius ivi);
ar. cl. manāwir → sic.-lahִn ar. manāyir ‘(s. manāra) lighthouse’, ‘minaret’, ‘lamp stand’ (IM 112/Agius ivi),
cfr. maltese mnâra ‘rustic candlestick made of clay, often glazed’ (Agius: ivi). Si veda anche ar. cl. ǧaw‘ān
→ sic.-lahִn ar. ǧay‘ān ‘hungry’ (IM 112/Agius 202), cfr. andaluso ǧay‘ān e maltese g˘ewhan, g˘ewgħan e
g˘uhan (Agius: ivi). Negli arabismi medievali w tende invece a presentarsi «con riflessi incostanti» anche
«in varianti dello stesso prestito»: si trovano β e ου, nello script greco, v, u, o, in quello latino.
156
Roberto Sottile
dastīǧa → tastīǧa ‘portable vessel’
(IM 91/Agius 177).
marqad ‘bed’, ‘couch’, ‘resting
place’ → marcatus [Caracausi (1983:
280-281)], cfr. sic. màrcatu ‘ovile’, ‘capanna dei pastori’, ‘fabbricato murale
dove si manipola il formaggio’ (VS);
ǧadīda ‘femm. di ǧadīd ‘nuovo’ → gidida, gidita, gitida ‘nome della cannamela nel primo dei suoi tre anni di
vita’ [Caracausi (1983: 242-243)].
badraqa → batraqa ‘guard, watch;
ˉ that accompany caravans)’
(guards
(IM 96/Agius 181).
Si confronti anche:
ar. cl. rabad → sic.-lahִ n ar. rabat ‘outskirts’ (IM 104/Agius 189) → arabismi siciliani mediev. e moderni rabatus, rab(b)ato [Caracausi (1983: 308309)], cfr. sic. rràbbatu ‘sobborgo, borgo’ (VS).
Nel sic.-lahִ n ar. non si registrano, però, le sonorizzazioni delle fricative
retrovelari, diffuse negli arabismi siciliani, se non nel caso (testimoniato da un
unico esempio) di x (h) →g:˘
˘
ar. cl. xifāra → sic.-lahִ n ar. ġifāra ‘guard watch’ (IM 94/Agius 175).
Tra gli altri cambiamenti descritti in Caracausi (1983: 57-83) per gli arabismi medievali, e rilevabili anche nel sic.-lahִ n ar., si noti lo shifting ar. cl. l →
sic.-lahִ n ar. r:
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
zaǧala → zaǧar ‘to bring forth
young’ (IM 97/Agius 196); mufaltah
→ mufartah ‘a cake of bread (expanded and made broad or) wide’ (ibidem).
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
al-qādi ‘giudice’ → Archadius
‘nome proprio’ [Caracausi (1983: 9899)]; ǧulǧulān ‘seme di coriando o di
sesamo’ → iuriulena [Caracausi
(1983: 261-262)]; cfr. sic. ggiurgiullana, ggiurgiulena, accanto a ggiggiulena, ggiuggiulena ‘la pianta e
soprattutto i semi del sesamo (Sesamum indicum) che si mettono sul
pane o sui dolci e con i quali si fa
anche il torrone; il torrone stesso’
(VS, s.v. ggiuggiulena).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali moderni di Sicilia
157
E si confronti infine anche il cambiamento ar. cl. š → sic.-lahִ n ar. s, richiamato in Caracausi (1983)46; il passaggio, per altro, è documentato da Corriente [1977: 50 – citato in Agius (1996: 186-187)] anche per l’andaluso: šarīf
→ serife ‘noble’, mušrif → almosarife ‘tax collector’, cfr.
ar. cl. → sic.-lahִ n ar.
šalǧam → salǧam (IM 76/Agius
186) ‘turnip’; šarraǧt → sarraǧt ‘(IM
75/Agius 186) ‘(I) tacked; basted (the
saddle)’,
46
47
ar. → arabismi siciliani mediev. e
moderni
marašša, mirašša ‘fiaschetta a collo
stretto per aspergere d’acque odorose i
visitatori’, marašš ‘fiala’ → marassium
accanto a marascia, maraxium, maraxus
[Caracausi (1983: 279-280)], cfr. sic.
marascia ‘orciolo’, ‘caraffa di vetro’
(VS); šabaka ‘rete’ → sabaca, accanto a
shabaca/shabica, xabaca/xabica [Caracausi (1983: 324-325)], cfr. sic. sciàbbica ‘ rete a strascico, costituita da due
lunghe ali e da un sacco, impiegata per
la pesca in prossimità della costa; può
essere tirata dai pescatori sulla spiaggia
o su piccole barche’; ‘piccola barca da
pesca’ (VS); šāri‘ ‘ad via pertranseuntem situs, de domo’, šara‘ah ‘tectum;
toit terrasse’ → Sera accanto a
Shera/xera «in Sicilia tale voce indicava
esattamente una strada costruita sul
piano superiore delle mura di cinta
della città» [Caracausi (1983: 342); cfr.
anche ivi: 343 per le numerose forme
toponimiche con il primo elemento derivante da šāri‘ – šāri‘ al-qādī ‘lo sceri del
giudice’, šāri‘ (a)bū ‘alī ‘sceri di Buali’
ecc. – nelle quali la consonante iniziale
oscilla costantemente tra s e ch/x ];
šurtah ‘truppa che comincia un attacco,
un combattimento, guardia; soldato
della guardia, agente di polizia’ → surta
accanto a xurta/schurta47 (ivi: 353-355).
Il passaggio non è però “pacifico”: si osserva sempre un’alternanza tra forme in s e forme in š.
Con un’attestazione in s- anche in un documento del 1470.
158
Roberto Sottile
4. Una digressione: gli arabismi medievali e l’esito delle “fricative arabe retrovelari”
Nel discutere il cambiamento nel sic.-lahִ n ar. di h a x48 (rilevabile anche
nell’andaluso), Agius (1996: 175) osserva che «in SA [nei documenti analizzati
in Caracausi (1983)], the CA [arabo classico] pharingealized /hִ / was graphemically represented as /h/, /ch/, /xh/ and Greek /χ/ which suggests a uvular
spirant unvoiced correspondence [e.g. CA hִ asīra > SA xhaseria]» e un po’
oltre aggiunge «in SA, CA /x/ is represented as /h/, /ch/, /sc/ and /yh/ which
may suggest a slight uvular spirant sound [e.g. CA xirba > SA hyrba, chirbu,
scirba, CA xalig > chalici, yhalici». Su base grafematica (si noti che l’autore
impiega le barre oblique anche per indicare i grafemi), Agius suppone,
dunque, da un lato l’avanzamento della faringale verso la zona uvulare, dall’altro la presenza, al tempo della stesura dei documenti contenenti i prestiti
arabi, di un fono spirante “leggermente uvulare”. Di conseguenza, mentre
Caracausi (1983) propende per un rilevante avanzamento di queste consonanti verso il livello velare (cfr. infra), per Agius (1996) tale avanzamento si
sarebbe “arrestato” all’area di articolazione uvulare. Ora, resta poco chiaro
il nesso che dovrebbe intercorrere (e perché eventualmente un tale nesso
dovrebbe intercorrere) tra i grafemi impiegati dagli estensori dei documenti
medievali e il luogo di articolazione uvulare della consonante annotata.
Nel suo «quadro sinottico delle consonanti arabe, greche e latine»
Caracausi (1983) posiziona i grafemi in questione nelle aree articolatorie
velari e palatali49: <h> e <ch> (in corsivo, corrispondenti a greco <χ>) sono
dati come i simboli impiegati per annotare la fricativa velare sorda, mentre
<c> e <k> (con quest’ultimo che compare però sporadicamente), corrispondenti a greco <k>, sono segnalati come simboli che annotano l’occlusiva
velare sorda; <x> è dato come grafema della spirante palatale sorda, mentre,
infine, <ch> e <c> sono segnalati anche come i simboli per l’annotazione
delle affricate palatali50.
Si confronti nella pagina seguente lo schema da Caracausi (1983) (come
nel «quadro sinottico», in tondo i caratteri arabi e greci, in corsivo quelli latini).
Considerando lo schema, lo studioso propende, in effetti, per un
conguaglio delle tre “fricative arabe” (h, h, h), quando e se annotate con <c>
˘
e <h/ch>, all’interno dello spazio articolatorio
velare (occlusivo – se rese con
<c> e <k> –, fricativo – se rese con <h> e <ch>).
Che la serie delle fricative retrovelari (uvulare, faringale, laringale) abbia
subito (anche) un processo di convergenza in un solo fono fricativo è fenomeno
<h>, nelle annotazioni degli studi di tradizione romanza.
E˘ così, del resto, lo stesso Agius (1996: 246).
50
Nelle carte spogliate dal Caracausi, il digramma <ch>, a partire dall’ultimo quarto del XIII
sec., annota anche arabo /š/.
48
49
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
159
**
richiamato già da molti studiosi, innanzitutto per il dialetto di Pantelleria. Nota
Sgroi (1986: 113), riprendendo Pellegrini (1973): «al momento del trasferimento lessicale dall’arabo al pantesco si è verificata una convergenza – o secondo la terminologia weinreichiana una ipo-differenziazione – preliminare dei
tre fonemi arabi: fricativo uvulare sordo /h/ (= I.P.A. /χ/), fricativo faringale
sordo /hִ/ e fricativo laringale sordo /h/ che˘ sono tutti confluiti nel fonema fricativo laringale sordo /h/». Tale condizione può essere osservata nei numerosi
esempi panteschi di alternanza /k/ ~ /h/ in posizione iniziale di parola [e certamente la resa più frequente e più antica deve essere stata quella fricativa, come
mostrerebbe l’opposizione rilevata da Tropea (1988: XVIII) per il pantesco tra
la pronuncia occlusiva, tipica del centro di Pantelleria, e quella fricativa, tipica
del contado. Inoltre, quanto al siciliano, si noti come Trovato (1995: 287) rilevi
per il dialetto di Racalmuto (AG) un’analoga differenziazione legata alla variabile età, con la pronuncia fricativa tipica dei parlanti anziani].
Che la pronuncia fricativa si risolva (sempre e soltanto) in una fricativa
laringale sorda resta però in dubbio. Lo stesso Tropea (1988: IX), nel presentare «l’inventario fonetico del dialetto di Pantelleria», indica nel grafema
<h> una consonante «laringale (o comunque post-velare)», prefigurando,
dunque, un ampio range articolatorio compreso tra il luogo laringale e
quello pre-uvulare e, in ogni caso, non esclusivamente laringale. Passando
dal pantesco alle varietà siciliane, Sgroi (1986: 113, nota 132) osserva che
Rohlfs «segnala “nell’estremo sud dell’Italia” l’esistenza della fricativa velare
sorda [h˘] (< ar. [hִ ]). Dei tre esempi che egli cita, due, h˘arara ‘grande caldo’
(< ar. harara) e h˘ama ‘fango (< ar. hama), sono attestati nel pantesco, con
fricativa laringale anziché velare, da Tropea (1975)». D’altra parte, VS (II:
XV) assegna al grafema <h> il valore di fricativa laringale sorda, «come, ad
esempio, [...] nel pantesco hama ‘fango’ o mahotu ‘moccio’, ecc., sostanzial** Qui annotata con <k>.
160
Roberto Sottile
mente identica alla pronunzia fiorentina della velare sorda ad. es. di fico
[pronunziato fiho] o del sintagma la casa [pronunziato la hasa]»51.
Per il siciliano, Ruffino (1991: 19) osserva che «in alcuni centri interni
della provincia di Agrigento (Bivona, Alessandria della Rocca, Cianciana), si
può ancora sentire l’antica fricativa laringale dell’arabo in parole come hama
che vuol dire ‘fango’, hamiari che significa ‘riscaldare il forno’, hanea che indica
un passaggio ad arco sotto un’abitazione».
Trovato (1995) richiama l’attenzione sul triplice/quadruplice esito delle
“retrovelari” arabe, individuando una pronuncia fricativa sorda per le regioni
labiodentale e laringale e una pronucia occlusiva sorda e fricativa sonora per
l’area velare, ammettendo, dunque, una convergenza nella laringale (tanto
nel pantesco, quanto nel siciliano) per uno dei due possibili esiti fricativi
sordi di h, h, h:
˘
Matranga (2011: 90), al contrario, sembrerebbe prendere le distanze da
una visione esclusivamente orientata verso l’esito fricativo glottidale di h, h, h.
˘
Egli osserva, infatti, a proposito della parlata di un centro dell’agrigentino,
come accanto (e forse al di là) della possibile pronuncia laringale esista quella
velare, oltre all’esito labiodentale: «possiamo notare però, a questo proposito,
come a Caltabellotta siano presenti altri possibili esiti siciliani delle fricative
arabe in questione [cioè h, h, h]. Qui si ha infatti, per la stessa faringale araba,
˘ [x], ma anche la labiodentale [f], come in famiari
non soltanto la velare sorda
‘riscaldare il forno’». L’alternanza fricativa laringale/velare delle “retrovelari”
arabe è implicitamente postulata anche in Matranga (2007: 75) in relazione
alla messa a punto di un sistema di trascrizione «fono-ortografica» delle varietà
siciliane: «la fricativa velare [x] (o laringale [h]) sorda, esito residuale in parole
arabe e francesi di epoca normanna, continuerà a essere trascritta con {h}.
Dunque, per esempio: hamiari [xaˈmjaːɾi] (oppure [haˈmjaːɾi]) ‘riscaldare il
forno’, hàia [ xaːja] (oppure [ haːja]) ‘siepe’, ecc.».
Lo spazio articolatorio delle tre “fricative arabe” appare, dunque, conteso tra due posizioni: da un lato Pellegrini, Tropea, Ruffino, Sgroi, Trovato
i quali, oltre all’esito occlusivo velare sordo, fricativo/occlusivo velare sonoro
51
Si noti però come la gorgia toscana non determini esclusivamente il passaggio /k/ > /h/;
«Un’altra divergenza rilevata tra il pisano e il fiorentino riguarda l’esito di /k/: a Firenze prevale /ɦ/,
ovvero fricativa glottidale sonora, laddove a Pisa si ha per lo più la cancellazione oppure l’esito allofonico /x/, ossia fricativa velare sorda» (Sorianello 2010).
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
161
e fricativo labiodentale sordo, si orientano sulla confluenza di h, h, h nella
pronuncia laringale (IPA [h]), come effetto della sopravvivenza ˘di un relitto
fonetico della fase araba; dall’altro lato la linea Rohlfs, Caracausi, Matranga
che propendono per una pronuncia (anche) fricativa velare (IPA [x]) delle
“retrovelari” dell’arabo.
In effetti, la pronuncia fricativa velare di h, h, h sembrerebbe verosimile
˘
quanto quella laringale. A giudicare dal già richiamato
«quadro sinottico» – e
quindi in base a una valutazione di ordine anzitutto grafematico – per il Caracausi la pronuncia fricativa velare doveva essere quella diffusa ai tempi della
stesura delle carte medievali (cfr. sopra). Queste, qualora non presentino i grafemi <c/g> come simboli dell’esito occlusivo velare delle “fricative arabe”, mostrano l’impiego dei simboli <h> e <ch>, che per Caracausi, come abbiamo
osservato, trascrivono, appunto, una fricativa velare sorda. Ora, che gli scribi
volessero annotare con <h> e <ch> una consonante fricativa sembrerebbe evidente dalla corrispondenza grafica con greco <χ>52 (preferito a κ, usato quest’ultimo per gli eventuali esiti occlusivi velari tanto delle “fricative arabe”,
quanto di altre consonanti realizzate come occlusive velari – per es. ar. k e q)53.
Il problema resta, invece, connesso alla “rappresentazione” del punto di articolazione. Alcuni indizi, riconducibili tanto a questioni grafematiche, quanto
a problemi articolatori, potrebbero aiutare a confermare la plausibilità degli
esiti fricativi sordi (eventualmente accanto a quelli laringali).
Cominciamo dagli aspetti grafici. Nota Caracausi (1983: 62): «la resa dei
grafemi arabi di h, h e h confluisce nella scrittura greca indiscriminatamente
˘ invece in una gamma di varianti che spesso si alternano
in χ54, in quella latina
nelle diverse testimonianze di uno stesso prestito: h, ch, c, x, xh, g, y, yh, 0».
Caracausi parla, dunque, di alternanza grafica (che potrebbe rispecchiare
un’alternanza fonetica) all’interno di uno stesso prestito, ma non nell’ambito
di una stessa altezza cronologica. Una considerazione sul piano diacronico
delle alternanze grafemiche permette, in effetti, di rilevare che i prestiti che
annotano con <x> e <xh> le “fricative arabe” non compaiono mai nelle attestazioni più antiche e in genere fanno il loro ingresso nei documenti solo a partire dal ’300-’400: è come se i diversi esiti fonetici possibilmente rispecchiati
in questi grafemi non fossero conosciuti nel XII e nel XIII secolo (ovvero, se
l’alternanza fosse di ordine esclusivamente grafematico, è come se in questi
52
Certo, il problema dell’annotazione degli arabismi nello script latino o greco non è per gli
scribi medievali solo una questione di resa simbolica delle caratteristiche articolatorie di una certa
consonante, ma, spesso, anche di traslitterazione.
53
Talvolta, in effetti, il grafema k può alternare con χ nell’annotazione delle fricative retrovelari:
Rocco (1980), citato anche in Sgroi (1986), richiama l’attenzione sull’antroponimo Ibrāhīm, trascritto
in un caso, nei Diplomi del Cusa, con k, Βρakήμ, in alternativa a χ, Βρaχήμ, Βράχιμος. Cfr. anche
Caracausi (1983: 63).
54
Ma cfr. nota precedente.
162
Roberto Sottile
due secoli gli scribi non fossero soliti annotare con tali grafemi gli esiti delle
“retrovelari”).
Un rapido controllo della distribuzione dei simboli utilizzati permette di
rilevare che:
– le poche testimonianze del XII secolo presentano solo casi con <ch>, <h>
e <0> (con <h> che comincia a assere usato verso la fine del secolo);
– <ch> resta il grafema più “costante” dal XII al XV sec. e presenta il numero maggiore di occorrenze, in assoluto e per ogni secolo;
– <c> compare nel ’200 con un buon numero di attestazioni anche nel
’300 – nei due secoli la quantità delle sue occorrenze corrisponde pressappoco a quello di <h>55;
– <g> compare a partire dal ’200;
– <x> appare solo nel ’300 e nel ’400 alterna con xh, y e sch
– <h>, già in crisi nel ’300, non compare mai nel ’400.
Assumendo, con il Caracausi, che i grafemi <ch> e <h> fossero impiegati
per rappresentare il valore fricativo velare nelle parole contenenti i continuatori delle “retrovelari arabe”, è utile ricordare che questi stessi simboli sono
usati (non esclusivamente, ma in buona misura) anche per trascrivere gli esiti
dell’occlusiva uvulare q. Per essa, resa generalmente con <c> nello script latino
e con <k> in quello greco, Caracausi nota, infatti, che è «non raro» l’uso di
<ch> e <h> (oltre che di <k, g, e j>56). Sporadicamente i due grafemi sembrano
anche impiegati per annotare gli esiti della fricativa uvulare sonora g˘57.
Lo stesso non può dirsi per i riflessi dell’occlusiva velare sorda [k]: il
grafema <h> non è quasi mai usato58; si registra invece sporadicamente la presenza del digramma <ch> (che non ricorre soltanto davanti a vocale palatale,
ma anche davanti ad a): charuya (in un’attestazione del 1444) accanto a caruya
[Caracausi (1983: 163)] < karawīya ‘comino dei prati’; chacholo (1312) accanto
a kahalo e cahalo ‘nome di un colore’ < kuhlī ‘bleu foncé, tirant sur le noir’
(ivi: 147-148)59.
55
Con <c> è qualche volta annotato anche l’esito di una fricativa retrovelare, ma possibilmente
si tratta di prestiti indiretti, come nel caso di Buccaranus < Buhārā ‘nome di una città del Turchestan
˘ vengono individuate le città di Gerusso’ (annotato sempre con <cc> dal 1240 al 1380), per il quale
nova e Venezia come centri di diffusione. Si cfr. anche barbacanum < barbah ‘canalis per quem aqua
˘ opere frigulino’ [Carafluit … foramen mediae domus per quod expurgatur cloacalis colluvies ex
causi (1983: 121-122)], che presenta sempre c (in una attestazione del 1159, tre del ‘200, una del
’300 e una del ’400).
56
Si tratta degli stessi grafemi che annotano le “fricative arabe”.
57
Se Galka, γάλκα e chalca ‘nome della parte più occidentale del Cassero di Palermo’ sono riflessi di ar. g˘alqah ‘enclos, jardin entourée d’un mur’; ‘ortus’ [Caracausi (1983: 236).
58
Esiste, in effetti, un solo esempio di annotazione di arabo k con <h>, in un documento in
volgare del 1461: sihia < sikkah ‘typus monetalis’, ‘ferrum quo dirhemis typus incuditur’ [cfr. Caracausi (1983: 347)].
59
Caracausi richiama anche l’attenzione sull’alternanza occlusiva/fricativa velare per i riflessi
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
163
In linea generale, sulla base dei grafemi impiegati nelle trascrizioni, già
per il periodo medievale sembrerebbe emergere, dunque, una variazione occlusiva/fricativa, in dipendenza dalla loro corrispondenza con una fricativa/occlusiva “retrovelare”, h, q, h, h (e meno probabilmente con l’occlusiva velare
˘ 59). Se, come sostiene Caracausi, i grafemi <ch> e, sodell’arabo, ma cfr. nota
prattutto, <h> nei documenti medievali servono ad annotare una fricativa velare, l’alternanza grafematica <c/k/k> vs. <h/ch/χ> per le “retrovelari arabe”
sembrerebbe dunque specchio di un’alternanza fonetica che configura il livello
velare come uno spazio articolatorio partagé tra esiti occlusivi e fricativi per
uno stesso fonema60.
Che le “fricative arabe” potessero anche esitare in fricative velari sembrerebbe confermato (e qui veniamo agli indizi articolatori) dalla loro “possibilità” di avanzare (certamente in una fase cronologicamente posteriore) verso
lo spazio articolatorio immediatamente contiguo, con uno spostamento, cioè,
dall’asse velare a quello palatale. Si tratta di un fenomeno che appare documentato tanto sul piano grafemico (si pensi ai casi, già richiamati, di impiego
tardivo dei grafemi <x> e <xh> per annotare i riflessi di h, h e h), quanto su
˘ che un possibile
quello fonetico. Riguardo a quest’ultimo, è bene considerare
ulteriore esito “(medio)palatale” delle fricative arabe è oggi testimoniato da
un piccolo numero di lessemi del VS:
hiannaca anche çiannaca ‘collana di perle e di coralli’ < hannāqah ‘collana
˘
d’oro e di perle’;
hiarera anche carera e çiarera ‘tessitrice’ < harār ‘tessitore di seta’ o hārīri
‘tessitore/venditore di seta’61.
A queste voci potrebbe, poi, aggiungersene una terza nella quale la consonante derivante da una delle “fricative posteriori” è seguita da una vocale
palatale, quella, cioè, che può aver favorito l’avanzamento del luogo di articolazione:
di arabo k, riferita comunque ai dialetti siciliani moderni, avvertendo che «non sempre [la fricativa velare
sorda] corrisponde ad una fricativa originaria. È il caso delle voci harbu (Pantelleria) ‘irrequietezza, smania
causata da digestione laboriosa o da abbondanti bevute», harbïari/carbiari ‘aver le caldane, avvampare
per febbre o per forte commozione dell’animo’ (VS I, 581), arbi (Bisacquino) ‘caldane’, considerate tutte
varianti di carba (pl. carbi) ‘caldana, vampata di calore dovuta ad indisposizione o a forte turbamento’ e
ricondotte ad ar. karb, etimo che Pellegrini individua per sic. charbia/harbia ‘sete ardente’. Tuttavia il digramma <ch> per la notazione dello sviluppo di arabo k non sembra necessariamente indizio di pronuncia
fricativa, poiché in greco l’occlusiva velare araba è sempre annotata con <κ>, con uno scarto significativo
rispetto alla rappresentazione delle fricative, dove il corrispondente simbolo greco è invece <χ>.
60
In ciò senza che si possa escludere che gli esiti fricativi sordi potessero anche essere “localizzati” nell’area laringale, in una sorta di alternanza libera tra esiti fricativi velari ed esiti fricativi laringali, con una dinamica di forte variabilità, forse sociolinguisticamente differenziata, analoga a quella
che oggi si riscontra per la gorgia toscana, cfr. nota 51.
61
Alle quali si aggiungono le varianti, riportate anche in Trovato (1995), farera ‘operaia che
preparava il lavoro alla tessitrice’ e farièri ‘chi dietro pagamento accetta di fare lavori che gli vengono
commissionati privatamente, come ad es. tessere o filare’.
164
Roberto Sottile
hirbu ‘terreno argilloso’, anche çirbi ‘luogo scosceso e dirupo’ e chirbu
‘sterpaia, terreno sterile’ < hirbah ‘locus vastationis’, ‘ruine, masure’, ‘(site
˘ structure’ [cfr. Caracausi (1983: 188)].
of) ruins, ruin, disintegrating
Lo spostamento verso l’asse palatale sarebbe (stato) possibile ammettendo che il “luogo di partenza” della consonante che avanza sia (stato) quello
immediatamente contiguo: da un punto di vista (co)articolatorio, è più probabile immaginare che [çiaˈnːaka] (con consonante mediopalatale) sia il risultato di un avanzamento da [xaˈnːaka] (con consonante velare) piuttosto che
da [haˈnːaka] (con consonante laringale). E nel caso di [x] seguito da [i], come
per [ˈxirbu], ragioni di coarticolazione avrebbero potuto determinare lo shifting verso la pronuncia del tipo [ˈçirbu]. Del resto, che una consonante velare
possa avere un allofono palatale davanti a vocale anteriore alta è tipico di molte
lingue, ivi compreso l’italiano con il passaggio [k] → [c] davanti a consonante
palatale: [il ˈfiːko] ‘il fico’ → [i ˈfiːci] ‘i fichi’.
A riprova di questo avanzamento esisterebbero altre voci caratterizzate
da un esito palatale delle “fricative arabe”:
çiamiari ‘riscaldare il forno’ < hamma ‘scaldare il bagno’, ‘aver la febbre’.
çiannaca < hannāqah ‘collana d’oro e di perle’.
˘
taciariari ‘tagliare
intorno, circoncidere’ [cfr. Rocco (1980)] < tahara ‘circoncidere’.
Non mancano, poi, nel siciliano alcuni toponimi e antroponimi recanti
un esito palatale, spesso accanto a quello occlusivo velare [cfr. DOS; De Angelis (2012: 191, n. 14)]:
Scibbarrasi, Sciabarrà, Sciabarra (cognome) < habbar-ra’s «da cui deriva
sic. cabbarasi, cabburasi ‘erba che cresce in luoghi umidi e uccide i pidocchi» (DOS, s.v. Sciabarrà);
Sciadiddi (toponimo) < hadīdī ‘ferruginoso’ (DOS, s.v. Sciadà);
Scilanga, Scialanga (cognome) < halanǧān «cfr. sic. ant. calanga, galanga
˘
‘pianta aromatica d’origine orientale’»
(DOS, s.v. Scialanga);
Scialdone (cognome) < *Haldūn «cfr. il patronimico Ibn Haldūn, storico
˘
della Sicilia» (DOS, s.v.);˘
Scialfa, Galfo (cognomi), Galafi (toponimo) < halaf ‘successore’, da cui
deriva anche halfah ‘nome personale’ (cfr. DOS,˘ s.v.).
˘
Gli esempi qui mostrati non hanno la pretesa di richiamare l’attenzione
su un quarto/quinto esito (palatale) delle fricative retrovelari arabe62. Servirebbero soltanto a considerare come essi – o anche solo alcuni di essi – possano
62
Sulla plausibilità di un esito palatale si è espresso Pellegrini (1989: 41), a proposito dell’etimo
di taciariari: «la resa di h con c, cioè ś [IPA ʃ], non offre alcuna difficoltà». Un altro esempio di anno-
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
165
essere stati il risultato seriore – certamente non esteso e diffuso, data l’esiguità
delle testimonianze – di un avanzamento coarticolatorio di precedenti e/o concorrenti esiti fricativi velari63. Se così non fosse, e se essi rappresentassero solo
una pronuncia alternativa a quella laringale64, si configurerebbero come realizzazioni motivate da ragioni percettive – piuttosto che articolatorie –, come
crediamo sia (stato) il caso degli esiti in /f/65.
In ogni caso, tenuta sullo sfondo la possibilità che le fasi di conguagliamento fonetico delle fricative arabe possano aver seguito tempi diversi
rispetto a quelle del loro conguagliamento grafico, la complessità che
emerge dalle soluzioni di trascrizione impiegate nei documenti medievali (e
post-medievali, cfr. n. 64) meriterebbe ulteriori approfondimenti a partire
da alcune possibili direttrici di indagine: il tardivo impiego dei grafemi <x>
e <xh> per l’annotazione dell’esito delle fricative arabe, rispecchierebbe
un’alternanza fonetica (libera) tra esiti velari/laringali e esiti palatali (fricativi). L’alternanza, provata dalle voci siciliane moderne che conservano un
esito palatale delle retrovelari arabe, non sarebbe stata, però, come vuole
tazione trecentesca di una delle fricative arabe con lo stesso grafema è ciameloctu, cfr. sic. camillottu
‘drappo di pelo, cambellotto’ (VS) < hamlāt, pl. di hamlah ‘stratum villosum; vestimentum vel stratum
˘ Caracausi˘ (1983: 151)].
villosum incis fimbriis instructum’ [cfr.
63
La scarsa fortuna di queste realizzazioni potrebbe spiegarsi alla luce della sovrapposizione
con gli esiti di lat. FL.
64
Così ritiene Rocco (1980: 446), quando osserva (per alcuni documenti arabi della seconda
metà del ‘400 trascritti in ebraico) che «i suoni h / h / h da un lato e š dall’altro si presentano pure in˘ ci siamo imbattuti in un caso del genere, che
terscambiabili per un orecchio non aduso. Recentemente
prova come anche per gli arabofoni, al limite, h e š erano talmente vicini da essere scambiati l’uno per
l’altro. In tre brevi documenti arabi nella seconda metà del sec. XV, redatti dal medesimo scriba forse
lo stesso giorno, l’espressione corrispondente a ‘figli suoi’ è scritta due volte awlāduh e una volta
awlāduš». Ma resterebbe da considerare se in questo caso si sia in presenza di un’alternanza fonetica
o grafemica. In proposito, è utile notare che nello stesso momento in cui, sul côté dello script latino,
vengono utilizzati i grafemi <x> e <xh> per notare l’esito palatale, ancora oggi presente nei dialetti,
delle fricative arabe, compare il digramma <ch> per la trascrizione degli esiti di š: o si ammette un’interscambiabilità fonetica biunivoca – come h/h/h potevano esitare in š, anche š, da parte sua, poteva
˘
esitare in un fono fricativo velare o retrovelare
– o lo scambio deve aver coinvolto soltanto il piano
della notazione. In questo senso, resterebbe anche da chiarire, se le abbondanti trascrizioni tardoquattrocentesche degli esiti di h/h/h con <y/j> “rappresentino” effettivamente una «semivocale palatale
˘
sonora» (Caracausi 1983: «quadro
sinottico») [si noti, inoltre, che questa consonante viene anche segnalata come uno dei possibili esiti di lat. FL, cfr. Ruffino (1991: 107)]. Infine, si consideri come <x>,
generalmente utilizzato per annotare la fricativa palatale, nei registri parrocchiali di Caltavuturo trascriva, nel ’500 e nel ’600, anche gli esiti delle “fricative arabe” (come, a partire dal Trecento, avviene
nei documenti spogliati dal Caracausi): Barraxato, barraxhatu, Barraxyato, accanto a Barracato (XVI
sec.), Barraxatu, Barraxiatu, barraxata, Barraxhato (XVII sec. < Bū rahādah (DOS: 217); Juxa, Jucha,
Juha, Juya, accanto a Juca (XVI sec.) < ǧuha ‘nome personale arabo’. Ma di questi cognomi non si conoscono in sincronia esiti palatali della fricativa araba contenuta nella rispettiva base.
65
Trovato (1995: 286) spiega la convergenza delle “fricative arabe” nella fricativa labiodentale
sorda /f/ considerandola, tra quelle della lingua ricevente, la consonante «più vicina, per il modo di
articolazione, alle tre fricative arabe». Il modo di articolazione più vicino alle fricative retrovelari dell’arabo è forse però da individuare nella fricativa palatale e postalveolare. L’allofono f potrebbe essere
risultato, più che da condizioni articolatorie, dalla percezione del tratto fricativo delle consonanti
arabe, recuperato, e preservato, nella pronuncia della consonante fricativa meno marcata (più diffusa)
del sistema linguistico di arrivo.
166
Roberto Sottile
Rocco [(1980), cfr. nota 64], una condizione spalmabile su tutto il periodo
medievale, ma si sarebbe attivata soltanto intorno al ’300. All’alternanza fonetica, e alle condizioni di forte instabilità, che da essa sarebbe derivata, si
sarebbe affiancata un’alternanza solo grafematica (non risultando foneticamente dimostrabile in sincronia) che, per converso, avrebbe determinato
da un lato l’uso di <ch> per annotare, oltre alle retrovelari, anche arabo š,
e dall’altro l’uso di <x> per annotare, oltre a š, anche gli esiti velari/laringali
(e non – soltanto – palatali) di h, h e h:
˘
Sul piano strettamente fonetico, potrebbe, poi, essere interessante indagare se l’eventuale pronuncia fricativa velare sia (stata) anzitutto favorita da
quelle parole arabe contenenti una fricativa uvulare, la quale, rispetto alle articolazioni faringali e laringali si caratterizza per un grado minore di arretratezza.
Resta, infine, la possibilità che le numerose varianti fonetiche siciliane
per le “retrovelari” arabe (ivi comprese quelle palatali) rappresentino, anche
in questo caso, il riflesso dell’assetto sociolinguistico della Sicilia medievale,
in cui il polimorfismo linguistico (per Vàrvaro [1981] soprattutto lessicale,
qui anche fonetico) sia stato la conseguenza della mancanza di una norma.
Ma, con il venir meno dell’ampia e variegata composizione etnica e linguistica della Sicilia medievale, le numerose varianti si sarebbero ridotte e fissate, con una nuova rideterminazione sull’asse diastratico e diatopico e, in
alcuni casi, anche su quello semantico [come nel caso, per esempio, della
polarizzazione semantica del pantesco hábba ‘seme di qualsiasi frutto’ vs.
aviri i kábbi ‘imitare l’inflessione di pronunzia di una parlata forestiera’ (cfr.
Tropea 1988)].
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
167
5. Il lessico del «Siculo-Lahִ n Arabic» e i metaplasmi di genere
Assumendo che la varietà di arabo oggetto del trattato di Ibn Makkī (cfr. §§
0, 1, 2, 3) sia effettivamente quella usata in Sicilia, quanto le sue “scorrettezze/corruzioni” rispetto al modello classico possono essere state connesse al contatto con
le parlate indigene? Quali spie di elementi locali (in particolare del mozarabico
siciliano) sono evidenti (se ve ne sono) nelle devianze di questa varietà? Un’opera
che tratti della “corruzione” dell’arabo usato presumibilmente in Sicilia, corruzione eventualmente connessa (anche) alle lingue di sostrato dell’area in cui è
usato, costituisce un’occasione troppo ghiotta per non tentare di individuarvi indizi di “romanità”. Ma l’opera di Ibn Makkī è il lavoro di un purista e pertanto
nessuno dei suoi dati fa riferimento, per esempio, a eventuali forme lessicali di
matrice altra da quella araba. Tuttavia, come nota Agius (1996), in relazione al
contatto dell’arabo di Sicilia con le lingue isolane, il Trattato del grammatico siciliano permette di ragionare sulla morfologia delle forme arabe, con particolare
riguardo alla categoria del genere. Se alcune parole presentano – come presentano,
e come lo stesso Ibn Makkī nota – un genere diverso rispetto a quello dell’arabo
classico, sarebbe possibile ipotizzare la pressione da un lato del berbero e dall’altro
del mozarabico siciliano, se il genere assegnato alle parole dell’arabo di Sicilia corrispondesse a quello presente in queste lingue per designare lo stesso referente.
La questione dei metaplasmi di genere come effetto del contatto tra la lingua
araba e le varietà romanze di Sicilia è stata studiata per il dialetto di Pantelleria,
dalla “prospettiva semitica”. Sgroi (1986: 132-133) osserva che «tra i numerosi
metaplasmi morfologici segnalati dal pantesco da Tropea (1975: 240-241) ce ne
sono alcuni per i quali il genere del termine pantesco, diverso dalla altre varietà
del siciliano, coincide con quello del corrispondente termine arabo. In questi casi,
cioè sembra essersi verificato un trasferimento del grammema (maschile/femminile) dal lessema arabo al corrispondente lessema pantesco». Lo studioso fornisce gli esempi di bbuttuna ‘bottone’ e denta ‘dente’, notando come il genere di
questi nomi sia invece maschile nel «siciliano comune».
Se rovesciamo la prospettiva, lo stesso fenomeno di shifting del genere si
rileva quando si osservano alcuni nomi dell’arabo descritto nel trattatto di Ibn
Makkī. Qui, in effetti, gli esempi di sostantivi con genere diverso da quello
dell’arabo classico non sono irrilevanti. In essi il cambiamento determina la
corrispondenza del genere con quello delle lingue romanze e in alcuni casi con
quello del berbero (lingua che può aver concorso all’attivazione del metaplasmo) come nei seguenti esempi:
ar. cl.
’isba‘ f.
‘aqib f.
sinn f.
sic.-lahִ n ar.
isb.‘ m.
‘.q.b m.
sinn m.
berb.
sbā‘
m.
swerz m.
akus m.
itu/ìditu
carcagnu
denti
sic.
m. ‘dito’
m. ‘tallone’
m. ‘dente’
168
Roberto Sottile
In un caso, il genere femminile dell’arabo classico, e di molte sue varietà,
coincide con quello del berbero, ma diverge dall’arabo “siciliano”:
ar. cl.
qadam f.
sic.-lahִ n ar.
q.d.m m.
berb.
tabašilt f.
pedi
sic.
m. ‘piede’66.
Negli esempi che seguono, invece, i nomi arabi di genere maschile sono
femminili sia nel sic.-lahִ n ar. che nel berb.:
ar. cl.
bāb m.
bayt m.
sarǧ m.
hasīr m.
g˘adīr m.
sic.-lahִ n ar.
berb.
sic.
bāb
f.
tiflūt
f.
porta
f.
‘porta’.
b.yt
f.
tigenmi
f.
casa
f.
‘casa’.
s.rǧ
f. tarikt/tassrižt f. vardedִ dִ a f.
‘sella’.
h.s.yr f.
tegertilt
f. (g)assina f.
‘stuoia’.
g˘.d.yr f.
tanda(te)
f. cciotta f. ‘pozzanghera’.
Ma i nomi seguenti appaiono al femminile solo nell’arabo “siciliano” (e
negli arabismi di Sicilia), laddove nell’arabo classico e nel berbero sono di
genere maschile [cfr. anche Agius (2007: 31)]:
ar. cl.
sayf m.
qamar m.
matar m.
sic.-lahִ n ar.
s.yf
f.
q.m.r f.
m.t.r f.
berb.
ahriš
m.
ayyūr
m.
anzar
m.
spata
luna
acqua
sic.
f. ‘spada’.
f. ‘luna’.
f. ‘pioggia’.
Dunque, «the SLA data on gender variation points out to the fact that
specific nouns were influenced by Romance and Berber in the west» [Agius
(1996: 148)]. La questione è molto interessante e i dati relativi al cambiamento
di genere dall’ar. cl. al sic.-lahִ n ar. non sono effettivamente di numero esiguo
pur non essendo numerosissimi. Agius osserva che il cambiamento grammaticale dal femminile al maschile nei nomi non marcati è un fenomeno antico e
piuttosto comune, ma il caso inverso (dal maschile al femminile), come negli
esempi ar. cl. batn (m.) → sic.-lahִ n ar. (f.) (IM 154/Agius 150), cfr. sic. panza,
it. pancia, fr. panse, sp. panza, port. barriga e ar. cl. ra’s (m.) → sic.-lahִ n ar. (f.)
(IM 206/Agius 150), cfr. sic./it. testa, fr. tête, sp. cabeza, port. cabeça, potrebbe
indurre a considerare la rilevanza dell’interferenza romanza nei nomi del sic.lahִ n ar., mentre in altri casi (come quelli visti sopra, relativi a ar. cl. sarǧ, m. →
sic.-lahִ n ar. s.rǧ, f., e ar. cl. hasīr, m. → sic.-lahִ n ar. h.s.yr, f.) il cambiamento
di genere potrebbe anche essere stato connesso alla co-influenza del berbero.
E così, nota lo studioso maltese,
despite the paucity of material, the data retrieved from Ibn Makkī treatise could
66
Sgroi (1986: 133) ricorda che «nell’arabo classico i sostantivi indicanti parti doppie del corpo
umano sono in genere femminili».
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
169
help us in recostructing some morphological rules of S[iculo-]L[ahִ n]A[rabic],
the result of which could bridge some kind of patterning in the assignment of
gender with the many Sicilian words of Arabic origin, though a closer semantic
synchronic and diachronic investigation of Romance and Berber words with
S[iculo-]L[ahִ n ]A[rabic] and S[iculo-]A[rabic] is desirable [Agius (1996: 150151)].
A questi esempi potrebbero aggiungersi, infine, alcuni altri casi ricavabili
dagli arabismi medievali e moderni nei quali il genere appare opposto a quello
dell’arabo, con ulteriori passaggi dal maschile al femminile:
ar.
arabismi sicil. mediev.
arabismi sicil. moderni
hām
˘
m.
‘crudum
sericum’
chumia f. [Caracausi
(1983: 191)]
chiumìa f. ‘benda, fascia’
(VS).
dag˘al
m.
‘forêt’
dachala f. (ivi: 199)
dàgala f.
‘striscia di
terreno
alluvionale
coltivato
lungo i
margini di
un torrente
o le
sponde di
un fiume’
(VS).
‘pozza
d’acqua’
menaha f. (ivi: 287)
bbunaca f.
‘maceratoio
per il lino
o per la
canapa’
(VS).
manca f.
‘fossa per la
macerazione
della canapa
o del cotone’
[Pantelleria,
Pellegrini
(1972:
266)].
manqa‘ m.
170
Roberto Sottile
e dal femminile al maschile, come nei seguenti due esempi:
ar.
ǧumma
sukkarah
f. ‘fiocco di
lana’
f ‘serrure
de bois’
arabismi sicil. mediev.
arabismi sicil. moderni
jummu m. [Caracausi
(1983: 257)]
suquaru m. (ivi: 352)
ggiummu m. ‘nappa’
(VS)
sùcchiaru m. ‘saliscendi,
paletto,
stanghetta
per
fermare
porte e
finestre’
(VS).
All’interno del sic., il genere degli arabismi trova una sua giustificazione,
a livello fonologico, per le voci femminili, nella presenza di /-a/ propria dei
femminili e nella presenza di /-u/ propria dei maschili. Per fenomeni analoghi
nel transfer interlinguistico cfr. per es. Sgroi (2009).
6. Un manipolo di “nuovi” arabismi
Nel concludere la sua «disamina sugli studi lessicali arabo-italiani ed in
particolare arabo-siculi dopo il 1972», Pellegrini (1989: 50) notava che «i nostri
orientalismi lessicali sono ora, nel complesso, bene individuati e spiegati»,
mentre la lacuna relativa alle auspicate ricerche sulla toponomastica sarebbe
stata indirettamente colmata poco dopo col Dizionario onomastico del Caracausi (DOS 1993). Il 1986 aveva poi visto l’uscita del primo volume del “Vocabolario Etimologico Siciliano” di Alberto Vàrvaro, all’interno del quale
venivano registrati ulteriori arabismi, passati sotto silenzio nei lavori precedenti, come nel caso, eclatante, di fesi (cfr. VES, s.v.). Intanto, la sopravvenuta
disponibilità dei cinque volumi del VS può consentire oggi ulteriori esplorazioni dello «strato arabo siciliano» che quanto meno darebbero l’opportunità
di aggiungere varianti diatopiche, derivazioni lessicali [sembrerebbe, per esempio, possibile ricondurre le voci accannari ‘estenuare, affaticare’, boccheggiare,
bruciare dalla sete’, ‘accalorarsi’, ‘accanirsi’, accannàrisi ‘scalmanarsi, darsi gran
da fare, affaticarsi’, accannatu ‘trafelato, ansimante’ a formazioni parasintetiche
derivate da una base canni, documentata in Caracausi (1983: 154-155), via VS,
nell’espressione siciliana fari la facci canni canni ‘arrossire’ e, via NDDC, in
quella calabrese va u sangu canni canni ‘fila sangue a rivi’ < ar. qānī ‘rosso acceso’]; controllare qualche etimo precedentemente fornito in forma dubitativa;
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
171
fornire nuovi spunti per rintracciare etimi direttamente o indirettamente connessi al periodo arabo. Per quest’ultimo aspetto, per esempio, un interessante
lavoro, basato sull’integrazione tra la documentazione toponomastica (DOS)
e quella lessicografica (VS) è il recente articolo di Ruffino (2011) sull’origine
paretimologica/analogica del toponimo Fìmmina morta ‘sorgente estinta’, ricondotta ad una reinterpretazione semantica di donna, a sua volta rifatta paretimologicamente su arabo ‘ayn ‘sorgente’ (cfr. anche nota 38).
Le pagine del VS, con la loro ampia documentazione del patrimonio lessicale siciliano, inducono spesso a considerare e riconsiderare come la portata
dell’impatto arabo sulla Sicilia dialettale sia (stata) di gran lunga superiore rispetto a quella finora documentata (e documentabile). Ma le possibili ipotesi
investono spesso voci di non facile lettura. Per esempio, la ricca documentazione lessicografica, di cui oggi si dispone, sui nomi di alcuni pani/dolci, spesso
devozionali, rifatti su cosa (cosi duci ‘dolce, n.’, cosa minuta ‘piccolo pane che
può avere varie forme’), documentazione ulteriormente arricchita dalle inchieste alimentari dell’“Atlante Linguistico della Sicilia” (cusuzzi ‘piccoli pani’, cosi
chini ‘dolci natalizi’), potrebbe spingere ad ammettere la plausibilità di una
base paretimologica riconducibile ad arabo hubz ‘pane’67; ma l’altrettanto ricca
documentazione di forme come cosi di culu˘‘avversità, pene, guai’, cosi di Ddiu
‘devozioni’, cos’î chiesa ‘conforti religiosi’, cosi di scola ‘compiti assegnati a
scuola che gli alunni devono fare a casa’, cosa fatta ‘fattura, maleficio, stregoneria’, lasciano in tutta evidenza la possibilità che si tratti invece di un genericismo. Questa stessa ricchezza di documentazione, tanto attenta al patrimonio
lessicale arcaico, talvolta permette anche di valutare in prospettiva diacronica
le ragioni di qualche “assenza eccellente”, come nel caso della voce mafisci
‘non ce n’è, non ne ho’ (< ar. māfīš), tuttora assai vitale nelle parlate locali. Su
di essa si sofferma Caracausi (1983: 34-35) che richiama l’attenzione sull’«uso,
a Palermo e in altri centri della Sicilia, di un gergale mafiš ‘non ce n’è, non ne
ho’ (sic. pìcciuli mafiš ‘denari niente’, napol. filusi mafiš ‘id’)». Proprio la sua
mancata registrazione in VS induce a concordare col Caracausi nel considerarla forma recente, «introdotta in seguito alla guerra libica» (ibidem).
Ma se l’abbondanza di fonti lessicografiche orienta a valutare preventivamente la plausibilità di certe ipotesi, essa, allo stesso tempo, fa emergere talvolta alcuni delicati problemi come quelli connessi alla presenza di significati
fantasmi. È il caso della voce fursivu che Tropea (1988) registra per il dialetto
di Pantelleria con il valore di ‘obbligatorio’ riportando anche la frase ki è-ffursívu k-a-ffari sta kosa? ‘è forse obbligatorio che io debba fare questa cosa?’.
Lo studioso connette correttamente fursivu con la voce fórsa ‘forza, vigoria fisica’, all’interno della quale registra anche le forme fraseologiche fari na kósa
67
Cfr. anche Burgio (2012: 80-81).
172
Roberto Sottile
pi-ffórsa ‘fare una cosa dietro costrizione, per assoluta necessità’ e i kosi fatti
pi-ffórsa ‘contro volontà, mal volentieri’.
Ma nel VS fursivu è invece registrato, sempre (e solo) per Pantelleria, con
il significato (opposto) di ‘probabile, possibile’, con un rimando al pansiciliano
forsi. Che fursivu possa essere derivato da forsi appare morfologicamente possibile poiché si tratta di un caso di derivazione secondo lo schema avverbio →
aggettivo68. Ma un’apposita inchiesta sul campo ha permesso di escludere con
certezza l’esistenza nel pantesco della voce fursivu col significato fornito in VS,
che si configura quindi come significato fantasma. Se fursivu fosse attestato
col significato antonimico (‘possibile’) registrato nel VS, si potrebbe anche
ipotizzare un etimo diacronico arabo, ovvero si potrebbe individuare in *fursivu (2) un aggettivo relazionale, basato sul sostantivo arabo fursa, presente
nell’elenco di Ibn Makkī quale forma corrotta di ar. cl. fursa ‘opportunity,
chance’ (IM 98/Agius 187). Ma il possibile etimo arabo non è confermato
dall’esistenza di tale significato in nessuna varietà diatopica del siciliano.
Tenuti sullo sfondo i problemi qui evidenziati, si presentano in questo
paragrafo alcune proposte di ricondurre all’influenza araba un piccolo gruppo
di voci dialettali presenti in VS e in alcuni casi collegabili a lessemi unicamente
documentati nel Trattato di Ibn Makkī.
bbabbu
In VS, s.v. porta, è documentata l’accezione figurata di ‘culo’ e la locuzione mèttisi mporta ‘del feto che sta per uscire’. Emerge dunque per i dialetti
siciliani l’esistenza di una relazione metaforica porta/deretano-organo genitale
femminile. Questa relazione, del resto, è evidente nell’etimo del siciliano stìcchiu ‘vulva’ (anche ‘culo’, cfr VS, s.v. culu), rifatto su lat. ūstium ‘uscio’, ‘porta’,
‘uscita’ (REW 501 e Faré 296), al quale si riconduce la voce siciliana mediante
la forma diminutiva *osticulu(m). «Diminutivo perché ‘piccolo ingresso, porticciola, fessurina’ […]; e tramite i normali esiti fonetici, si ha usticchiu, che,
per discrezione dell’articolo, diventa u sticchiu» (Del Popolo 2007: 529). Il
collegamento semantico con la porta viene rintracciato dal Del Popolo anche
nella letteratura dialettale, con un riferimento all’ode A Filiddi, di Domenico
Tempio: «Chistu n’è sticchiu, o Filiddi / si chiama purticatu». In effetti, la relazione metaforica tra la porta e le parti intime presenta una vasta casistica
anche nella produzione letteraria italiana: da Jacopone e Dante a Caproni, attraverso l’Aretino, Veniero, Belli, Settembrini, Malerba e tanti altri, il motivo
della porta, come riferimento figurato (Io sono qua che aspetto con la Porta
spalancata, sempre per parlare anch’io figurata, Malerba, Il protagonista, 1973)
ai genitali femminili, appare assai diffuso (cfr. DE). E, a proposito di Dante,
Sgroi (1998: 123), riferendosi al passo del XI canto del Paradiso (1317-1321)
68
Cfr. Emmi (2011: 202-203): tardi → tard-ivu, con -ivu allomorfo di -tivu.
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
173
– dove è rappresentato il matrimonio di San Francesco con la Povertà, «che
nessun voleva come se si trattasse della morte» (ibidem)69 – osserva che, «a
giudizio del grande filologo e critico Erich Auerbach [1944], “sembra molto
opportuno intendere l’apertura della porta del piacere nel senso più proprio,
come fatto sessuale, spiegando quindi porta come la porta del corpo femminile” (trad. it. 1963, p. 228). […] L’interpretazione auerbachiana non è stata
tuttavia ben accolta dai dantisti» (ibidem)70; eppure, la lettura in chiave «sessuale del passo dantesco riceve ora piena conferma, a nostro giudizio, dal recente Dizionario storico del lessico erotico italiano di V. Boggione- G.
Casalegno [1996]» (ivi: 124)». Tra le quattro ragioni che autorizzano la lettura
in chiave sessuale (cfr. Sgroi 1998: 124-125), spicca il soccorso di «un confronto inter-linguistico tra l’italiano e il dialetto siciliano. Gli autori del Dizionario [ ... ] erotico, nella sezione dedicata ai genitali femminili, ricordano
la voce siciliana sticchiu, immortalata in un famosissimo componimento del
poeta catanese Domenico Tempio (1750-1821), La monica dispirata. La voce
è stata italianizzata in sticchio da V. lmbriani (1877). E appare usata più volte
(aggiungiamo noi) anche da A. Camilleri». Ma «secondo i due co-autori del
Dizionario, sticchio sarebbe “di etimo oscuro” (p. 494). In realtà, il termine
risale al latino *osticulum “porticina”. Il siciliano sembra cioè essere andato
linguisticamente ben oltre l’italiano, in quanto ha cristallizzato la metafora
della porta. Il traslato non è infatti più sentito come tale dal parlante dialettofono, là dove in italiano il significato letterale di porta coesiste ancora con
quello metaforico legato al contesto».
Quanto all’uso di porta come forma scherzosa o eufemistica di ‘sedere’,
ancora DE (555) documenta un’ampia gamma di impieghi letterari (Pulci,
Cammelli, Grazzini, Belli, Settembrini Papini), che riguardano anche la voce
uscio (ibidem)
La straordinaria ricorrenza della relazione metaforica porta/genitali
femminili-deretano potrebbe dunque orientare a rintracciare nel siciliano
bbabbu (VS; Genchi / Cannnizzaro 2000) ‘pudende femminili’ un ulteriore
continuatore di ar. bāb ‘porta’, che si aggiungerebbe così ai numerossissimi
riflessi siciliani della voce araba, abbondantemente documentata in ambito
toponomastico (cfr. per es. DOS, I: 94). La voce, nell’accezione di ‘deretano’, andrebbe, poi, accostata alla forma pantesca bàbisi ‘il deretano vistoso
di una ragazza’, con la rispettiva locuzione llisciari i b. ‘conciare per le feste,
ridurre a mal partito’ (Tropea 1988).
69
«ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta
del piacer nessun diserra; / e dinanzi a la sua spirital corte / et co ram patre le si fece unito; / poscia
di dì in dì l’amò più forte». (vv. 58-63).
70
Per es. «Umberto Bosco [1966] “non ved[e] francamente che ci sia alcuna seria ragione di
accogliere l’interpretazione grottesco-carnale” di Auerbach (p. 324 n. 9)» (ibidem).
174
Roberto Sottile
bbiarera / bbiariera
VS (s.v.) pone le voci bbiarera e bbiariera ‘vasca in cui si raccoglie l’acqua
portata dalla gora, nel mulino ad acqua’ in connessione con abbiari/bbiari
‘avviare, gettare, buttar giù, continuare a metter fuori un liquido, della botte, di
una fontana, ecc’. La voce bbiarera è invece da ricondurre, più plausibilmente,
ad ar. bi’r ‘pozzo’, che in Sicilia sopravvive nel dialetto di San Vito Lo Capo [cfr.
Trovato (2013: 40)]. Esistono nel maltese le forme bjar, birien [Aquilina (19871990, I, 124)], rifatte su ar. ’ab’ār (pl. di bi’r), voce che, a sua volta, viene segnalata nel trattato di Ibn Makkī (88) come corrotta nella forma ’abyār (con il
passaggio, ben documentato nell’“arabo di Sicilia“, ’ → y). La voce sic. bbiarera
< ’abyār + -era, suffisso particolarmente produttivo per la formazione di nomi
di strumento [cfr. Emmi (2011: 118-119); Vàrvaro (1988: 724)], specialmente
di “recipienti“, costituirebbe, dunque, un arabismo di ambito idraulico che in
Sicilia sembra però essere rimasto di diffusione limitatissima.
mina / minàita
Per i dialetti siciliani sono registrate la voce mina ‘condotto sotterraneo
attraverso il letto di un fiume’ e la locuzione (del catanese) siminari a mmina
‘seminare a solchi alterni’ (VS)71. La voce siciliana mina, se accostata a maltese
mina ‘water gallery’ [cfr. Agius (1996: 163)], può essere ricondotta all’arabo
minā’ ‘harbour’ che mostra un continuatore anche nel portoghese alminar
‘porto’. Forma “intermedia” tra ar. minā’ e sic. mina potrebbe essere mīna, riportata da Ibn Makkī per l’arabo medievale di Sicilia, dove si nota lo spostamento di accento, quale conseguenza della caduta di hamza: «The loss of final
hamza in pre-long vocalic position becoming a short vowel is attested to be
normal in dialects (Molan 1978: 155) [eg. CA minā? > SLA mīna]; hence the
shift of stress from second sillable minā́? in CA to the fist syllable mī´na in SLA
is also the case of Maltese» [Agius (1996: 166)]. A questa famiglia lessicale
potrebbe appartenere anche sic. minàida/minàita (con la seconda forma diffusa nel catanese, nel messinese e nel palermitano) ‘solco artificiale per convogliare le acque ad una cisterna’. Le forme restano però problematiche in
quanto non è facile spiegarne la parte finale -àita, a meno di non volerla considerare come risultato di una formazione analogica sul modello di finàita
(‘confine fra due appezzamenti di terreno’).
mantaçiscu
Sic. mantaçiscu, in a-mmantaçiscu ‘concessione di terreno a maggese ad
un contadino per lavoralo: il prodotto veniva diviso in due o tre parti al pro71
VS riporta anche il significato (registrato nell’agrigentino, Ravanusa) ‘semina compiuta da
due contadini, di cui uno avanti spinge l’aratro e l’altro sparge le sementi’.
Il «Siculo Arabic» e gli arabismi medievali e moderni di Sicilia
175
prietario e una al contadino’ (VS) e mantaçiscaru/mantahiscaru (voci dell’agrigentino) ‘chi prende in concessione il terreno a maggese’ (VS) sembrerebbero
riconducibili ad ar. mintaqa → sic.-lahִ n ar. mantaqa ‘zone, field; region; district” (IM 92/Agius 190). Tale significato, documentato dallo stesso Ibn Makkī
nel suo Taṯ qīf, è ben presente anche nei diversi dizionari arabi, spesso accanto
a quello di ‘cintura’: ‘belt, girdle’, ‘zone, vicinity’, ‘range, sphere, discrict, area,
territory’, ‘sector’ (Wehr); ‘cingulum, zona’ (Freytag); ceinture balteus (hominis vel equi) et cingulum (equi vel pueri) (Dozy); ‘ceinture’ (Kazimirski). La
congruità semantica della voce araba con quella siciliana e i passaggi fonetici
t → t e, soprattutto, a → i (cfr. § 3) rendono le forme siciliane straordinariamente simili a quella araba sulla quale potrebbero essere state rifatte con l’aggiunta del suffisso, assai produttivo, -iscu, la cui vocale iniziale avrebbe
determinato la palatalizzazione della consonante uvulare/velare della base (cfr.
§ 4).
ROBERTO SOTTILE
Università di Palermo
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