12
ISLAM E OCCIDENTE NEL NOME
DELL’UMANESIMO
Carmela Baffioni *
RESUMO – O presente artigo compara algumas
características bem conhecidas do humanismo
ocidental com aquelas do assim chamado “humanismo muçulmano” dos séculos X-XII. A
“idade de ouro” muçulmana, em suas várias
facetas (filosofia, ciência, literatura, política, etc.),
construiu-se sobre uma consistente, apesar de
multifacetada, base religiosa. Razões históricas e
culturais demonstram sempre que a ética não é
suficiente a fim de estabelecer uma base comum
para o diálogo com o Islã, e que é preciso aproximar-se dele principalmente pelo viés do pensamento religioso. O re-pensar do Livro Sagrado
sobre um novo fundamento, proposto por diversos membros da intelligentzia muçulmana, e que
realça, assim, o antigo humanismo, deve, pois,
ser levado em consideração pela contraparte
ocidental. Já o Ocidente, pelo contrário, não pode
cometer o erro de ler o texto do Islã de acordo
com suas (ocidentais) próprias atitudes históricas
e/ou ideológicas.
PALAVRAS-CHAVE – Humanismo islâmico.
Humanismo ocidental. Diálogo de culturas.
Religião.
ABSTRACT – The article compares some wellknown features of Western humanism with those
of the so-called Muslim humanism (X-XII
centuries). The Muslim “golden age” in its
various aspects (philosophy, science, literature,
politics, etc.) is built on a consistent, though
multifarious, religious basis. Even cultural and
historical reasons demonstrate, then, that ethics
is not sufficient for establishing a common
ground for dialogue with Islam, and that Islam
has to be approached mainly in its religious
meaning. A re-thinking of the Sacred Book on a
new basis, proposed by many of contemporary
Muslim intellighenzia, who also often emphasize
the importance of ancient humanism, should be
taken into account also by their Western
counterpart. West should not, on the contrary,
make the mistake of reading Islam according to
its own historical and/or ideological attitudes.
KEY WORDS – Muslim humanism.
humanism. Intercultural dialog. Religion.
West
L’ideale dell’umanesimo, basato sulla centralità dell’uomo e della sua libertà,
viene oggi considerato una fra le vie possibili per sfuggire alla profonda crisi –
morale, di identità, economica e sociale – in cui versa l’Europa, in quanto portato*
Professore ordinario di Storia della filosofia islamica, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”,
Dipartimento di Studi e Ricerche su Africa e Paesi Arabi, Palazzo Corigliano, Piazza San Domenico
Maggiore 12, 80134 Napoli. Questo studio rielabora parte della relazione “L’humanisme islamique
dans l’âge d’or”, da me tenuta alla Conférence Thématique su “Universalité de l’Humanisme” (Séminaire de contact Comenius, L’action de réseau pour l’Europe de la connaissance), svoltasi a Napoli, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dal 14 al 18 novembre 2006.
VERITAS
Porto Alegre
v. 52
n. 3
Setembro 2007
p. 159-169
re di una nuova forma di solidarietà fra gli uomini. A fronte di dolorosi squilibri, di
confusioni e violenze a tutti i livelli, a fronte persino del paventato rischio di una
catastrofe globale – nucleare o causata da irreparabili squilibri ecologici –, ai “nuovi umanisti” appare infatti soprattutto preoccupante lo scontro in atto fra le diverse
culture, ingigantito negli ultimi anni da celebri intellettuali e dai media, dopo il
forse troppo esaltato libro di Samuel Huntington, del 1996.1 Non essendo ammissibile infatti, per il “nuovo umanesimo”, alcuna gerarchia fra le diverse civiltà, si può
legittimamente aspirare ad un’osmosi fra culture, in quanto da ogni cultura, e non
solo da quelle occidentali, è asserita la centralità dell’essere umano con la sua
dignità. Dunque, anche se a tale enunciazione si giunge per vie diverse dalle nostre, se ne potranno individuare modelli, personali e sociali, secondo i quali realizzare quelle istanze, oggi calpestate, di libertà, di fratellanza, di pace, e ne scaturiranno, si pensa, il riconoscimento dell’uguaglianza di tutti, la valorizzazione delle
diversità personali e culturali, l’esigenza di sviluppare le conoscenze al di là di
quanto sinora accettato come verità assoluta, la libertà di professare qualunque
idea o credenza, il totale ripudio della violenza. In ultima istanza il convincimento
umanista, secondo cui ogni cultura e civiltà, ciascuna con la sua propria identità,
può contribuire alla formazione di una nuova “nazione umana universale”, ambisce
a confutare la recente convinzione che, in un mondo in cui tutte le culture interagiscono, diventa difficile riconoscere cosa è bene e cosa è male e tutto – si dice
con un’espressione di moda – si “relativizza”.
Sempre sulla base dell’idea che non possono esserci fratture nello sviluppo di
una civiltà, nulla osta a che anche l’Islam sia accolto all’interno del progetto dei
“nuovi umanisti”. D’altro canto nessuno oggi, neo-umanista o non, può negare
l’assoluta necessità dell’Occidente di confrontarsi col mondo islamico, con
un’urgenza sconosciuta fino a pochi anni fa. Vale dunque la pena di indagare se e
in quale misura l’Islam condivida, o abbia condiviso, gli ideali dell’“umanesimo”.
Di solito, il terreno comune fra Occidente e Islam sembra essere individuato
nell’etica, e di fatto il Corano è ricco di suggestioni che illustrano il rapporto
dell’uomo non solo col Creatore, ma anche con i suoi simili e persino con
l’ambiente e le creature non umane. Perciò, non c’è dubbio che sia ben possibile
evidenziare idee condivisibili sulle quali lavorare, come il rifiuto dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, dell’oppressione economica o politica, dell’emarginazione del
diverso. È dunque su tali basi che si immagina che Islam e Occidente possano
entrambi affrontare le sfide della modernità, non per farsene assorbire, ma per
discernerne e potenziarne gli elementi positivi.
***
Questo, almeno, il punto di vista dell’Occidente laico, che oggi va ricordando
costantemente i caratteri basilari dell’umanesimo del ’400, quali la collocazione
1
Cf. S.P. Huntington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, New York, Simon
and Schuster.
160
dell’uomo al centro della realtà in aperta opposizione al modello teologico medievale o il ritorno alla civiltà classica come alla più alta, attraverso uno studio approfondito del latino e il grande impulso alla ricerca filologica e storica. Ma, soprattutto, viene enfatizzato lo svincolamento dello studioso dall’autorità tradizionale, nel
nome del senso storico e dell’autonomia critica che gli sarebbero assicurati dalla
sua alta cultura: nell’umanesimo, lo studio dei classici prescinde totalmente da
quella riduzione a schemi morali di cui, in ossequio alle esigenze della religione,
era stato fatto oggetto nel Medioevo.
In verità, sotto l’urgenza della lotta contro le eresie, nel Medioevo erano state
tentate conciliazioni della filosofia (sia pure come ancilla theologiae) con i testi
sacri, per cercare giustificazioni razionali ai dogmi religiosi. Ma si trattava soprattutto di filosofia aristotelica, dalla quale era scaturita la sussunzione dell’idea di un
universo finito, e della teoria del geocentrismo. L’umanesimo ripropone invece il
platonismo, che meglio dell’aristotelismo sembra favorire l’idea della centralità
dell’uomo nella riflessione, così come nella realtà; afferma, contro l’ipotesi tolemaica, un universo infinito privo di centro; e sviluppa il principio della libertà, sia
morale sia intellettuale. Di conseguenza, viene spezzata l’unità enciclopedica medievale, per la quale tutte le scienze non erano che gradi successivi necessari per
attingere, alla fine, la verità religiosa; le singole discipline cominciano a godere di
autonomia, appunto per consentire all’uomo di conoscere e dominare le leggi della
natura e della storia.2 Tutto ciò determina anche un enorme sviluppo delle scienze
esatte e applicate, che va ad aggiungersi alla fioritura delle grandi biblioteche,
come pure delle nuove figure professionali variamente connesse alla produzione e
alla diffusione del libro.
Com’è ben noto, tutti questi elementi indussero a parlare di “Rinascimento”,
perché si ritenne di essersi liberati dalle diverse forme della “barbarie”. L’interesse
per l’individuo nella sua totalità implicò, d’altra parte, che non venisse neppure
tralasciato il problema religioso. Mentre, con Machiavelli, la morale si svincolava
dalla politica, la polemica contro la corruzione del clero e la formulazione di una
nuova religiosità fondata sull’esperienza interiore3 portavano alla Riforma protestante.
***
2
3
Tuttavia – è stato pure notato – l’ideale umanista non fu esente da contraddizioni: mentre si affermava la dignità e l’autonomia dell’uomo, gli studiosi diventavano dei cortigiani al servizio delle signorie, che consideravano la cultura per lo più come un’elegante forma di pubblicità, o come un
mezzo di evasione; il fondamentale individualismo si scontrava con i propugnati ideali di rinnovamento socio-culturale; nonostante l’esistenza di condizioni che andavano favorendo la nascita di
una nuova economia capitalistica, si ravvisavano nel contempo le prime gravi avvisaglie di decadenza; e al grande progresso economico corrispondeva lo sfruttamento di contadini e artigiani.
D’altra parte, l’umanesimo non avrebbe potuto non riconoscere la funzione dei monasteri dell’“età
di mezzo” quali scrigni delle vestigia della cultura classica.
L’ideale della renovatio, che implicava la lettura diretta dei testi sacri e l’indifferenza verso il formalismo del culto.
161
Quali di questi elementi possono, in un modo o nell’altro, essere riconosciuti
nell’Islam? Questo studio verterà sull’Islam classico, quello del cosiddetto “periodo
aureo”, anzitutto per la sua ricchezza culturale, che può quindi più facilmente
giustificare la nostra indagine, ma anche perché è in gran parte con l’Islam classico che si misura pure l’intellighenzia islamica di oggi, tanto nella riflessione sul
proprio passato quanto nelle sue varie posizioni nei confronti dell’Occidente; e,
infine, perché sono quelli dell’Islam classico gli aspetti maggiormente enfatizzati
dai nuovi umanisti.
Tuttavia, non foss’altro che perché tale periodo si estende dal X al XII/XIII secolo, e corrisponde perciò in pieno al nostro Medioevo, le caratteristiche fondamentali dell’umanesimo originario non possono essere del tutto adattate alla civiltà
islamica, anzitutto per quanto concerne la posizione di radicale alterità che esso
assunse nei confronti di quella che volle chiamare l’“età di mezzo”. Ma che dire
allora della “knowledge triumphant” di quest’epoca, che – a illustrazione del prestigio in cui l’Islam tenne le conoscenze filosofiche, scientifiche, letterarie, artistiche
– ha dato il titolo a un celeberrimo libro di Franz Rosenthal?4
In questi secoli si dispiega, in effetti, la parte più feconda della civiltà islamica, quella a proposito della quale alcuni studiosi – il più noto dei quali è Joel Kraemer5 – hanno ritenuto di poter legittimamente spendere le categorie di “umanesimo” e di “rinascimento”. Varrà dunque la pena di segnalarne alcuni elementi
caratterizzanti, per porre questi secoli a confronto con quelli che furono caratterizzati dall’umanesimo occidentale.
Il grande sviluppo intellettuale dei “secoli d’oro” dell’Islam fu anch’esso favorito dalle fiorenti condizioni economiche, assicurate dai commerci e dalla tassazione. Il grado di urbanizzazione era altíssimo,6 né ci fu in Islam opposizione fra la
cultura urbana ed altre culture come, ad esempio, quella che si determinò in Europa fra gli abitanti dei monasteri e quelli dei castelli feudali; gli stessi teologi vivevano nelle città.
Gli Abbasidi, in opposizione agli Umayyadi, avevano promosso un universalismo basato non più sull’appartenenza tribale, ma su quella religiosa. Ciò
contribuì all’integrazione, nella comunità musulmana, di vaste popolazioni dalle
origini più diverse, tra le quali particolare rilevanza per lo sviluppo della filosofia e
delle scienze ebbero quelle iraniche e centroasiatiche. A tale integrazione fa ris4
5
6
Cf. F. Rosenthal, Knowledge Triumphant. The Concept of Knowledge in Medieval Islam, Leiden,
Brill, 1970.
Cf. J.L. Kraemer, Philosophy in the Renaissance of Islam: Abū Sulaymān al-Sijistānī and his Circle,
Leiden, Brill, 1986; id., Humanism in the Renaissance of Islam. The Cultural Revival during the
Buyid Age, Second Revised Edition, Leiden – New York – Köln, Brill, 1992.
Nelle tre maggiori città della Mesopotamia e nelle due più grandi dell’Egitto abitava quasi il 20% di
tutta la popolazione. Per percentuale di abitanti di città con più di centomila abitanti, la Mesopotamia e l’Egitto dei secoli VIII e X superarono paesi dell’Europa occidentale del secolo XIX quali i Paesi Bassi, l’Inghilterra o la Francia. Baghdad poteva avere quattrocentomila abitanti e Fustat, Cordova, Alessandria, Kufa e Bassora fra i cento e i duecentomila.
162
contro la promozione di incontri-dibattito fra dotti di diversa provenienza e ideologia, i cosiddetti majālis, che si tenevano al cospetto del califfo.7 Anche la cultura
islamica fu strettamente legata alla vita di corte: letterati, filosofi e scienziati sono
molto spesso appoggiati dai vari regimi, magari con alterne fortune.
Naturalmente, per l’intellighenzia tale universalismo non mancò di assumere
una connotazione razionalistica – una sola è la verità che si rivela alla ragione
umana –, al punto che alcuni pensatori approdarono addirittura allo scetticismo
religioso.8 Il termine adab, che ora caratterizza la classe di dotti, indicava in origine
le norme di comportamento dei beduini, ma assume un significato in senso “umanista” allorché il califfato diventa il centro di interrelazione fra diverse tradizioni,
culturali e confessionali. Esso allude dunque alla raffinatezza e all’esprit della vita
cittadina.
Tutta questa fioritura culturale era stata, naturalmente, preparata dal periodo
precedente, che aveva visto il recupero della filosofia e delle scienze straniere,
soprattutto greche. Tale periodo culminò nel IX secolo, sotto il califfato abbaside,
ma era già stato avviato nell’VIII, sotto gli Umayyadi – benché le testimonianze al
riguardo siano tutt’altro che numerose. Gli studiosi preposti a tali attività ebbero
modo di dimostrare una grande acribia filologica – ampiamente documentata dai
bio-bibliografi – tanto nella fase delle traduzioni come pure nel corso della ricerca
e della collazione dei manoscritti. Anche in Islam nacquero biblioteche e centri di
studio, e si formò una nutrita classe di scribi e di addetti alla produzione del libro.
Ed è in questi decenni che si sviluppa anche la Mu‘tazila, ovvero la corrente
teologica più razionalista dell’Islam. Vale la pena di segnalare, in questo contesto,
la sua teorizzazione del libero arbitrio, fondata sul principio della “giustizia” divina:
contro l’ortodossia ash‘arita, la quale attribuisce a Dio una libertà e un volontarismo che sfociano nell’arbitrio più assoluto, si ritiene cioè che Dio fa qualcosa perché è giusta, e non che qualcosa è giusta perché Dio la fa.
7
8
Cfr. H. Lazarus-Yafeh, M.R. Cohen, S. Somekh, S.H. Griffith eds., The Majlis. Interreligious
Encounters in Medieval Islam, Wiesbaden, Harrassowitz, 1999.
Cfr. D. Urvoy, Les penseurs libres dans l’Islam classique, Paris, Michel, 1996 e S. Stroumsa,
Freethinkers of Medieval Islam, Leiden, Brill, 1999. Mi piace tuttavia ricordare l’interesse che già
negli anni trenta del secolo scorso il nostro Francesco Gabrieli dimostrò per autori quali Abū ’l-‘Alā’
al-Ma‘arrī o Ibn al-Muqaffa‘, che si potrebbero in qualche modo considerare “liberi pensatori”. Cfr.
ad esempio L’opera di Ibn al-Muqaffa‘, in “Rivista degli Studi Orientali”, 13, 1931-32, pp. 197-247;
er
La «zandaqa» au I siècle abbasside, in L’élaboration de l’Islam, Colloque de Strasbourg 12-13-14
juin 1959 (Travaux du Centre d’Études Supérieures spécialisé d’Histoire des Religions de
Strasbourg), Paris, Presses Universitaires de France, 1961, pp. 23-38 ; Imâmisme et littérature sous
les Bûyides, in Le Shî‘isme imâmite, Colloque de Strasbourg 6-9 mai 1968 (Travaux du Centre
d’Études Supérieures spécialisé d’Histoire des Religions de Strasbourg), Paris, Presses Universitaires
de France, 1970, pp. 105-113. Tuttavia, ad onta della sua ben nota ammirazione per la civiltà persiana, lo studioso non sembra aver avuto alcuna predilezione per la letteratura araba “eretizzante” di
origine sciita (cfr. ad esempio La tradizione iranica nella civiltà musulmana, in “La parola del passato”, 27, 1972, pp. 89-99).
163
Bisogna tuttavia anche ricordare che il recupero dei classici avvenne inizialmente per preoccupazioni o religiose (apologetiche, sia interne che esterne) o
politiche; per questo secondo aspetto soprattutto con gli Abbasidi, che attraverso
il collegamento alla Grecia classica speravano di marcare ulteriormente la loro
opposizione agli Umayyadi, fortemente legati invece, e influenzati, dalla Grecia
bizantina e cristiana.9 Quanto ai contenuti di tale recupero – del quale non va
dimenticato che fu, per secoli, la nostra sola fonte di conoscenza dei classici antichi –, essi hanno in genere una corrispondenza quasi assoluta agli “originali” dei
quali disponiamo oggi. I pochi “adattamenti” si spiegano soprattutto con la Weltanschauung religiosa dei nuovi fruitori, che portò alla strategica sostituzione di
alcuni termini chiave: più che di “causa” o di “principio primo” si parlò, ad esempio, di “bene puro”; l’eimarmène fu letta in termini di pronoia, e così via.10 Per
quanto riguarda la Mu‘tazila, d’altra parte, nella sua teorizzazione del libero arbitrio è del tutto assente l’idea della libertà morale: l’uomo deve adeguare il suo
comportamento ai dettami della Legge divina.
Può essere anche interessante accennare alla politica. Grandissima parte del
pensiero politico dell’Islam classico si fondò su un principio attribuito ad Ardashīr
ibn Bābak, il primo re sasanide (III sec. a.C.). Nella sua forma originaria, esso recitava: “giustizia e regno sono fratelli gemelli”, ma l’adagio islamico recita che “religione e regno sono fratelli gemelli”. È evidente in questa sostituzione il peso
dell’idea islamica in cui potere religioso e potere politico sono, fin dalle origini,
riuniti in una sola persona, il Profeta, e dunque, di fatto, l’inscindibilità della politica dalla religione.11
E per tornare ai “secoli d’oro”, la tanto decantata verità razionale era destinata
ad un’assoluta minoranza di “eletti”, cui veniva contrapposta la “massa”, per la
quale la verità era attingibile solo tramite la Rivelazione. E mentre a una conciliazione fra fede e ragione lavorò costantemente la filosofia islamica, non va dimenticato che l’ortodossia, sempre in nome dell’assoluta libertà e volontarismo divini,
rifiutò persino il concetto di filosofia come scienza delle cause, e dunque
l’aristotelismo (anche se ciò non impedì il progresso degli studi scientifici e tecni-
9
10
11
Cfr., per questa tesi, soprattutto D. Gutas, Greek Thought, Arabic Culture. The Graeco-Arabic
Translation Movement in Baghdad and Early ‘Abbāsid Society (2th-4th /8th -10th centuries),
London-New York, Routledge, 1998.
Ben lungi dal configurarli come fraintendimenti o, peggio, come falsificazioni, tali adattamenti
risentono comunque in primo luogo delle interpretazioni dei commentatori tardo-antichi, talora cristiani, e di quelle dei primi traduttori, che volgevano i testi greci in siriaco, e poi dal siriaco all’arabo,
ed erano nestoriani o monofisiti. Mi permetto di rinviare, al riguardo, al mio recente studio Trasmissione e ricezione dei testi filosofici nel mondo arabo e latino, in M. Capaldo, F. Cardini, G. Cavallo,
B. Scarcia Amoretti (edd.), Lo spazio letterario nel Medioevo, 3. Le culture circostanti, vol. II, La cultura arabo-islamica, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 499-529.
Cfr. F. Rosenthal, Political Justice and the Just Ruler, in J.L. Kraemer and I. Alon eds., Religion and
Government in the World of Islam. Proceedings of the Colloquium held at Tel-Aviv University 3-5
June 1979 (Israel Oriental Studies X), Tel-Aviv, Tel-Aviv University, 1983, pp. 92-101.
164
ci, sia per esigenze pratiche o connesse proprio all’esecuzione di determinati doveri religiosi,12 sia perché tali studi erano considerati, dal punto di vista religioso,
meno “pericolosi” che non quelli di metafisica).
I circoli di filosofia e scienze fiorirono dunque soprattutto attorno alle corti del
X e dell’XI secolo, che erano corti sciite. A fronte dell’assenza di culto e di magistero ufficiale nell’Islam ortodosso (ad eccezione di quello dei ‘ulema), gli Sciiti una
docenza ce l’hanno, e per di più estremamente vincolante: si tratta della docenza
dell’imām, del “califfo” (= vicario) del Profeta, che per loro dev’essere un discendente diretto da Muhammad, in quanto destinato ad ereditarne la conoscenza
esoterica del Libro sacro.13 L’esplicitazione dei significati esoterici apre la via a
un’indagine razionale del Corano, e spesso le interpretazioni razionali vengono
dagli Sciiti radicalizzate in direzione allegorico-simbolica. Ciò offrì la più gran parte
della materia propria delle filosofie sciite.
Naturalmente, se il punto di partenza continua ad essere il Libro sacro, anche
per le élites filosofeggianti il maestro supremo continua ad essere Dio, e ancora
Dio è l’obiettivo finale della ricerca filosófica.14 Per gli Ismailiti, addirittura – i più
radicali degli Sciiti –, nonostante le loro ricche elaborazioni teoretiche, la salvezza
(che già per i filosofi coincide con la conoscenza di Dio) non si ottiene se non con
l’aiuto dei Profeti, degli imām e di “coloro che ne prendono il posto”. E resta pure
da segnalare l’enfasi data dall’ismailismo alle diverse figure professionali, fino a
costituirle in vere e proprie gilde.15 Ma si tratta di un aspetto solo in apparenza
dissonante: in realtà, determinate competenze tecniche – quelle, ad esempio, dei
fabbri, degli orefici, dei tintori, dei lavoratori del vetro – erano la base imprescindibile per lo sviluppo di scienze esoteriche, prima fra tutte l’alchimia.
12
13
14
15
Si pensi anche soltanto all’esigenza di volgersi alla Mecca durante la preghiera, allo stabilimento
delle fasi lunari e al rilevamento della luna nuova per dare inizio al digiuno del Ramadān, agli spostamenti per adempiere al pellegrinaggio.
Tale significato esoterico si ritiene comunicato da Dio anche al Profeta – il che ne garantisce la
superiorità rispetto all’imām –, il quale però non ebbe il mandato di rivelarlo agli uomini.
Viene talora anche sviluppata un’ideologia dell’amore (cara, pur nei termini loro propri, anche ad
alcuni celebri esponenti del Rinascimento, come Marsilio Ficino). Al-Āmirī, ad esempio, propugna
l’ideale dell’amore, con riferimento al rapporto del governante con i sudditi, del padre con i figli, del
marito con la moglie, e, infine, dell’essere umano con i suoi concittadini, con l’umanità e con gli esseri viventi in genere; al-Tawhīdī osserva da parte sua che il dualista o il materialista sentono il bisogno di agire bene, anche senza aspettarsi quel tipo di ricompensa suggerito dalla rivelazione religiosa. Su Abū ’l-Hasan al-Āmirī e Abū Hayyān al-Tawhīdī cfr. ora C. D’Ancona (ed.), Storia della
filosofia nell’Islam medievale, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005, vol. I, rispettivamente alle pp. 317ss. e
322-23. E per venire a un pensatore ben più celebre: nell’Islam andaluso Averroè si esprime anch’egli contro il jihād: la pace è a tutto preferibile, e comunque, secondo il diritto, durante una
guerra non si possono assassinare donne e bambini.
Cfr. F. Daftary, The Ismā‘īlīs. Their history and doctrines, Cambridge, Cambridge University Press,
1990, pp. 124; cfr. anche B. Lewis, An Epistle on Manual Crafts, in “Islamic Culture”, 17, 1943, pp.
141-151; Y. Marquet, La place du travail dans la hiérarchie ismā‘īlienne d’après L’encyclopédie des
Frères de la Pureté, in “Arabica”, 8, 1961, pp. 225-237.
165
Vorrei anche ricordare la tesi per cui proprio l’elitarismo è stato considerato
fra le principali cause della lontananza dei filosofi dalla militanza política:16 gli
studiosi ritengono che, in genere, i modelli di “città ideale” che fioriscono in ambiti sciiti – come quelli di al-Fārābī e dei “Fratelli della Purità” – siano puramente
teorici, allegorie, cioè, di “città della conoscenza” che possono essere anche considerate “città di Dio” se, come ho detto, l’obiettivo finale della filosofia è la conoscenza divina.17
E che Dio sia il vero obiettivo dell’intera ricerca filosofica lo dimostra l’assetto
enciclopedico di grandissima parte dei sistemi filosofici islamici, e soprattutto la
raccolta delle cinquantuno epistole attribuite agli Ikhwān al-Safā’ (o “Fratelli della
Purità”), una vera e propria enciclopedia sciita (se non addirittura ismailita) delle
scienze. Alla base dello studio delle singole discipline sta infatti il convincimento
che nei vari aspetti della natura vadano rintracciati i “segni” per comprendere
Colui che l’ha creata. Tutte le scienze sono dunque considerate come gradi successivi per giungere alla verità religiosa; e “segni” in arabo si dice ayāt, con lo
stesso termine che designa i versetti del Corano. Almeno fino ad Avicenna, inoltre,
anche la filosofia islamica sostenne l’idea della finitezza dell’universo e, con qualche eccezione, la dottrina del geocentrismo. In tal quadro, sono importanti i versetti coranici in cui si dice che “Dio insegna ad Adamo i nomi delle creature” (Sura
II, vv. 30-31): nel momento in cui si riconferma come maestro supremo, il Creatore
fa con ciò nello stesso tempo di Adamo il “primo profeta”, ponendolo quale depositario di una conoscenza profonda delle vere nature delle cose, nature che, com’è
ben noto, ai nomi sono sottese.
Anche il sufismo considera il creato come il mezzo per arrivare a Dio, e proclama a sua volta una forma di universalismo (quando la verità è raggiunta, le
differenze fra religioni perdono significato) e, insieme, di umanesimo religioso:
come i filosofi avevano rivestito dell’abito del pensiero greco i concetti tradizionali
della fede islamica (fede, cioè, in un Dio unico e creatore, nell’esistenza di angeli e
jinn, nella profezia e nel Libro, nel particolare destino ultraterreno dell’uomo, che si
concretizzerà nel giudizio e della ricompensa finale), così i sufi enfatizzano al massimo l’importanza di hadīth come quello che attribuisce a Dio il detto: “Ero un
tesoro nascosto e volli essere rivelato”.18 Ogni cosa nell’universo riflette uno dei
nomi di Dio, cioè uno degli aspetti dell’Assoluto; prese nel loro insieme, le creatu16
17
18
Cfr. J.L. Kraemer, The jihād of the falāsifa, in “Jerusalem Studies in Arabic and Islam”, 10, 1987, pp.
288-324 e, più recentemente, S. Stroumsa, Philosopher-king or philosopher-courtier? Theory and
reality in the falāsifa’s place in Islamic society, in C. de la Puente (ed.), Identidades marginales
(Estudios onomástico-biográficos de al-Andalus, XIII), Madrid, Consejo Superior de Investigaciones
Cientificas, 2003, pp. 433-59.
Nell’occidente andaluso – ove regimi religiosamente più restrittivi impediscono lo sviluppo della
filosofia, tale elitarismo sfocia nel dramma del “solitario” (mutawahhid) di Ibn Bājja – che rischia di
optare addirittura per il suicidio –, o in modelli “politici” che, fino ad Averroè, hanno esiti soltanto
negativi.
“Per questo”, sembra sottintendere Dio, “ho creato il mondo”.
166
re costituiscono un intero che corrisponde alla coscienza di quell’Assoluto. Ma
senza l’essere umano l’universo non può rappresentare un intero: solo l’uomo è
colui che sintetizza tutte le forme dell’essere, egli è la causa dell’apparizione del
mondo: “Se non fosse per te, non creerei il cielo”, dice il Signore. Per il sufismo,
dunque, vale il concetto del mondo come “macrantropo”: il mondo vi si rivela
infatti come riflesso dell’uomo.
I riferimenti al Libro sacro ci danno occasione di rimarcare che anche il culto
della lingua araba (sia pur talora avvicinato a quello del latino presso gli umanisti)
ha, in Islam, radici religiose: l’arabo è la lingua di Dio, e il Sacro Corano il Dio “inlibrato” (come per i cristiani si parla di un Dio “in-carnato”), l’altro modo cioè,
accanto alla Natura, col quale il Creatore si fa conoscere agli uomini. E se è vero
che anche dopo la disintegrazione dell’Impero musulmano i fedeli continuarono ad
essere accomunati – in modo sia pur relativo – da una sola lingua letteraria comune, da una sola legge, da una sola cultura, ciò è sempre assicurato dal fatto che
l’arabo è “lingua sacra”, e che la storia è in genere19 una “ierostoria”.
***
La nostra disamina dovrebbe, a questo punto, aver evidenziato che il carattere
di base della grande cultura islamica, pur nella sua varietà, è la sua strettissima e
costante interrelazione con la religione. Insomma, credo si possa ben dire che per i
filosofi e gli scienziati musulmani l’essere umano è al centro di tutto, ma sempre in
quanto anch’esso è “califfo di Dio sulla terra” o, per dirla in termini filosofici, un
“microcosmo”, cioè una riproduzione dell’intera opera divina, un compendio della
creazione. E quando – ma solo nell’Ottocento – l’Islam ritenne di poter parlare
esso stesso di un suo “rinascimento”, concetto che espresse col ben noto termine
di nahda, lo spirito di tale rinascimento venne ancora ravvisato in un ritorno alla
religione delle origini, in un riallacciarsi alla purezza iniziale a fronte delle corruttele allora esistenti. Proprio questo, si riteneva, avrebbe riportato l’Islam alla primitiva grandezza; e sulla stessa linea Muhammad ‘Abduh enfatizzò il ruolo giocato,
per il progresso europeo, dal Protestantesimo, con la sua reazione ad un Cattolicesimo decaduto e corrotto.20
Ora, se i modelli islamici, anche quelli filosofici, sono eminentemente religiosi
(e sebbene, naturalmente, ciò non privi l’uomo della sua grandezza come privilegiato destinatario del messaggio – del sapere – divino, né i vari sistemi filosofici
della loro rilevanza teoretica), parecchi dei concetti contrabbandati ultimamente
dai “nuovi umanisti” per fondare un dialogo, un’apertura all’Islam, non appaiono
del tutto condivisibili né dal punto di vista storico né da quello ideologico e/o
dottrinale.
19
20
Con la parziale eccezione di Ibn Khaldūn, che vive tuttavia nella Spagna del XIV secolo.
Cfr. Muhammad ‘Abduh, Trattato sull’unicità divina. Risalat at-Tawhid, a cura di G. Soravia, Bologna, il Ponte, 2003, p. 165.
167
Soprattutto, non sembra che possa essere l’etica il piano sul quale giocare il
dibattito fra Islam e Occidente, che grande parte dell’intellighenzia islamica – non
solo i fondamentalisti – considera oggi come il nemico assoluto. Si tratta di intellettuali di varia provenienza, che ritengono che il XXI secolo vedrà la fine della
supremazia occidentale e, conseguentemente, la rinascita dell’Islam; secondo loro,
nel vuoto lasciato in Occidente da Ebraismo e Cristianesimo l’Islam può entrare e
vincere la partita, non subendo la modernità, bensì islamizzandola; vogliono far
emergere valori di matrice islamica ma con vocazione universale, che prenderanno
il posto di quelli, ormai decaduti, dell’Occidente. Per questi intellettuali, che talora
non disdegnano neppure l’ideale del dialogo interreligioso, il vero umanesimo ha la
sua base nella rivelazione coranica, e sia direttamente, sia attraverso la mediazione di tale umanesimo, la “città islamica” potrà instaurarsi sulla terra. Tali intellettuali insistono d’altro canto anche sulla ricchezza, troppo a lungo ignorata, dei
grandi pensatori del loro passato, così come ravvisano nel razionalismo laico di
matrice illuministica una delle principali cause dell’attuale decadenza
dell’Occidente.
Gli studiosi occidentali, da parte loro, rimproverano all’intellighenzia musulmana di non collocare i grandi pensatori islamici nel loro inscindibile rapporto col
pensiero, non solo greco, ma anche ebraico e cristiano – il che solo consentirebbe
di ravvisare in essi, ad onta della netta impronta teologizzante che ho sopra illustrato, una delle fonti dell’umanesimo del ’400. Peraltro, si deve con amarezza osservare che sebbene la consapevolezza dell’immenso debito che noi abbiamo
verso il mondo islamico per il recupero e la trasmissione dei testi classici dovrebbe
essere ormai un dato acquisito, probabilmente non è più così per le più giovani
generazioni, bombardate dai media e dai pronunciamenti di quegli intellettuali la
cui importanza è spesso vergognosamente enfatizzata, e che nella foga polemica
arrivano a negare persino l’evidenza. Ma anche dove la grandezza filosofica e
scientifica del passato siano riconosciute all’Islam, l’Occidente laico tende a negargli importanza dal punto di vista religioso e morale.
Una posizione così ambigua non ci aiuta certo a capire l’Islam, e riperpetua,
ancora una volta, gli antichi stereotipi che ebbero origine nel Medioevo, ma ai
quali certo non rinunciò l’umanesimo del ’400. Naturalmente, non si può sottacere
che la “città islamica” auspicata da taluni esponenti di quell’intellighenzia è in
realtà una teocrazia, si rifà cioè a un modello ormai irrimediabilmente estraneo
all’Occidente, anche ove volesse essere instaurato da parte cristiana.
In realtà, bisognerebbe prendere atto del fatto che il razionalismo greco che
ha integrato le matrici semitiche del Cristianesimo non è quello degli umanisti,
come non lo è il “razionalismo” dell’Islam del periodo aureo, mentre è proprio con
questo razionalismo che molti intellettuali musulmani fanno oggi i conti, alla ricerca di una sua nuova interpretazione che li ponga in grado di affrontare le sfide
della modernità, nei confronti della quale essi lasciano spesso intravedere – ad
onta delle indicazioni e delle fatwe dei ‘ulema – un approccio di tipo “selettivo”.
168
Mi sento dunque di condividere la linea di quegli studiosi musulmani che ritengono che un ripensamento del passato islamico, alla ricerca di una sua nuova
interpretazione confacente alla modernità, non possa prescindere da una nuova
ermeneutica del Libro sacro. Tale ermeneutica, naturalmente, non è certo destinata a rispondere all’interrogativo dell’Occidente, se l’Islam si presterà ad evolversi
in senso razionalista e modernista. Una simile ricerca mira piuttosto, da caso a
caso, a ripensare storicamente l’origine dell’Islam e del messaggio coranico, a
riconsiderarne i contenuti alla luce delle nuove scienze antropologiche e sociali, ad
enuclearne un messaggio universale al di là delle impostazioni strettamente confessionali.21
Mi auguro di essere riuscita a indicare alcune linee guida, storicamente e ideologicamente fondate, per ricostituire un dialogo con l’Islam di oggi nel rispetto
delle sue istanze specificamente religiose e spirituali. La conclusione più feconda
che a mio parere i “nuovi umanisti” potrebbero recepire, sulla base di una valutazione informata e intellettualmente onesta della storia e della civiltà islamica, e che
può essere condivisa dall’Occidente, laico e non, è che soltanto l’Islam ha il diritto,
dal suo interno, di formulare (o eventualmente riformulare) un ideale umanistico
conciliabile con i propri valori religiosi, che consenta al contempo di fruire di alcuni aspetti del “progresso” della modernità.
Il “nuovo umanesimo”, peraltro, non sottovaluta affatto il rapporto con la religiosità e la trascendenza, e le comunità musulmane si sono spesso poste esse
stesse quali possibili interlocutrici in tale processo di integrazione. Una migliore
conoscenza reciproca, attraverso gli universali valori dell’intelligenza e della cultura, comporterà di certo un mutuo arricchimento dei rappresentanti delle diverse
religioni. Ma, in nome della grandezza dell’uomo, riusciremo forse insieme pure a
scoprire un modo per comporre la varietà delle diverse “ragioni”. Nel Corano, del
resto (Sura XXXVIII, v. 73 ss.), gli angeli, a parte Iblis,22 adorano l’uomo. E ciò può
essere interpretato – anche – come un riconoscimento dell’alto valore della ragione
umana.
21
22
Al di là delle pionieristiche posizioni di Mohammed Arkoun, si veda la recente disamina di R.
Benzine, Les nouveaux penseurs de l’islam, Paris, Michel, 2004. Per certi versi, le posizioni di molti
pensatori islamici di oggi potrebbero essere accostate alle preoccupazioni, espresse dal Pontefice
cattolico, sui rischi connessi al culto assoluto della tecnica, senza aperture alla spiritualità.
Per questo, secondo alcuni mistici, Lucifero è il supremo teorizzatore dell’assoluto monoteismo.
169