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L'umanesimo di Omero

2012, L'umanesimo di Omero

il giogo 43 «ıpou gàr 'scùV suzugoüsi kaì díkh, poía xunwrìV tÖnde karterwtéra;» Eschilo, Frammento 267. «tòn páqei máqoV qénta kuríwV êcein» Eschilo, Agamennone, 177. «xumjérei swjroneïn Îpò sténei» Eschilo, Eumenidi, 520. «oûpw swjroneïn "pístasai» Eschilo, Prometeo, 982. Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada. Eraclito ISBN 978-88-7588-061-3 In copertina: Scena dal libro XXIV dell'Iliade: Il corpo di Ettore riportato a Troia, rilievo su sarcofago romano (180-200 ca.). Museo del Louvre (Ma 353 o MR 793), dalla collezione Borghese. petite plaisance L' umanesimo di omero A Bene «Tu sai quale sia il mio animo, saldo e non avvezzo a cedere; ebbene, io resisterò come sa resistere una roccia dura, o un blocco di ferro». Odissea, XIX, 494-495.

il giogo 43 Collana diretta da Luca Grecchi «ıpou gàr ’scùV suzugoüsi kaì díkh, poía xunwrìV tÖnde karterwtéra;» Eschilo, Frammento 267. «tòn páqei máqoV qénta kuríwV êcein» Eschilo, Agamennone, 177. «xumjérei swjroneïn Îpò sténei» Eschilo, Eumenidi, 520. «oûpw swjroneïn ”pístasai» Eschilo, Prometeo, 982. In copertina: Scena dal libro XXIV dell'Iliade: Il corpo di Ettore riportato a Troia, rilievo su sarcofago romano (180-200 ca.). Museo del Louvre (Ma 353 o MR 793), dalla collezione Borghese. In quarta di copertina: Francesco Primaticcio, detto il Bologna, Ulisse e Penelope, Fointainebleau, Galleria di Ulisse. Luca Grecchi, L'Umanesimo di Omero. ISBN 978-88-7588-061-3 Copyright  2012 editrice petite plaisance Associazione culturale senza fini di lucro Via di Valdibrana 311 – 51100 Pistoia Tel.: 0573-480013 C. c. postale 1000728608 www.petiteplaisance.it e-mail: [email protected] Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada. Eraclito Luca Grecchi L' umanesimo di omero petite plaisance A Bene «Tu sai quale sia il mio animo, saldo e non avvezzo a cedere; ebbene, io resisterò come sa resistere una roccia dura, o un blocco di ferro». Odissea, XIX, 494-495. Prefazione «Per essere stato tante volte ripetuto, non è comunque meno vero che la civiltà europea nasce dalla civiltà greca, e da questa ha ricevuto le forme essenziali del pensiero e dell’espressione». Così inizia la sua notevole Letteratura greca Dario Del Corno (Principato, Milano, 1988). Ed è veramente così. E tuttavia, queste verità devono essere sempre “rammemorate”, perché vengono sistematicamente dimenticate. Il lettore mi perdonerà se, all’inizio di questa prefazione al saggio di Grecchi, mi concederò un piccolo ricordo personale. Verso la metà degli anni Sessanta ero ad Atene con una borsa di studio, per fare studi di cultura, storia, filosofia e lingua greca antica, ma soprattutto di neoellenistica, e cioè di greco moderno, quello che oggi si parla nell’agorà di Atene (che non è più la vecchia agorà socratica, luogo oggi archeologico ben conservato, ma è assai più la moderna Piazza della Costituzione, in cui si incontrano gli ateniesi per le loro proteste politiche). Il nostro insegnante insisteva sul fatto che la conoscenza dei dialetti antichi dorico, ionico ed eolico era importante solo per i professori di greco antico, mentre il vero punto cruciale che doveva entrarci in testa ad ogni costo era la continuità e l’unicità della lingua greca da Omero a Kavafis. Questa continuità e questa unicità faceva da base linguistica espressiva all’umanesimo greco, e questo dato era messo in luce quando un signore chiamato Luca Grecchi non era neppure ancora nato, ma esistevano già Otto, Stenzel, Jaeger, senza contare le decine di studiosi che avevano già sostenuto questo nel corso dei secoli (sebbene, effettivamente, Grecchi svolga il proprio discorso con modalità proprie). Come ha scritto giustamente Del Corno, una cosa non è meno vera per essere stata tante volte ripetuta, dal momento che ogni generazione storica ed ogni individuo sensibile non riceve una eredità per magica empatia, ma deve coscientemente riappropriarsene. Il nostro insegnante, ora morto da tempo, sosteneva che l’eterna, unica ed immortale lingua greca era passata attraverso cinque principali stadi: il primo, quello omerico; il secondo, quello classico di Socrate, Platone e Tucidide; il terzo, la koinè ellenistico-romana, matrice diretta del greco bizantino e di quello moderno; il quarto, il greco bizantino, 9 costanzo Preve paradossalmente chiamato “romano” (romeyka, romyosyne); il quinto infine, il greco moderno propriamente detto, a partire dal Quattrocento circa e dalla occupazione turca (turcokratia). E per farci capire la continuità umanistica ci leggeva insieme brani dell’Iliade e l’immortale poesia di Odisseas Elitis intitolata Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania (1940). Omero si sarebbe commosso, diceva, e si commuoveva anche lui, con le lacrime che gli scendevano sul viso, perché anche suo fratello era caduto nella guerra del 1940-1941. Ricordo ancora con commozione alcuni versi a memoria: «Ma il sorriso si è bruciato, ma la terra ha taciuto, ma nessuno ha ascoltato il grido ultimo, tutto il mondo si è svuotato con l’ultimo grido […] così dunque un attimo, così dunque un attimo dall’altro si è staccato, ed il sole di sempre, così a un tratto si è staccato dal mondo!». Ed anche Omero avrebbe pianto, diceva, citandoci a memoria versi omerici di questo tipo, scritti (o meglio pronunciati, e solo dopo scritti) oltre duemila e cinquecento anni prima. Si tratta di ricordi di gioventù, indelebili. Come è noto, ogni evento storico, e quindi anche poetico e letterario, è sempre per sua intima natura una unione dialettica di continuità e di rottura, di tradizione e di novità. Come ha rilevato Giulio Guidorizzi, autore di una stupenda Storia ed antologia della letteratura greca (Einaudi Scuola), la principale differenza fra la letteratura latina e quella greca, al di là della priorità temporale della seconda, sta nel fatto che la cultura latina è stata fin dall’inizio codificata nella scrittura, mentre quella greca ha avuto un inizio legato all’oralità ed alla sua funzione direttamente paidetica, e cioè educativa. Il carattere paidetico della poesia omerica è addirittura palese, e non è che uno dei tanti elementi trasmessi nella posteriore cultura greca “classica”, il cui carattere paidetico mi sembra difficilmente contestabile. Qui stiamo parlando, ovviamente, dell’annoso problema della dialettica di continuità e discontinuità, permanenza e rottura fra la cultura omerica e la cultura greca “classica”. Omero stesso è stato un “personaggio di transizione”, perché parla di un’epoca in cui non aveva personalmente vissuto (quella micenea), e nello stesso tempo è vissuto prima della costituzione di quella forma non solo storico-politica, ma anche culturale, chiamata polis greca classica. È impossibile stabilire una volta per tutte se siano prevalenti i momenti di rottura o quelli di continuità per una semplice ragione, che pur essendo semplice sfugge quasi sempre all’interprete frettoloso, e cioè che l’enfatizzazione degli elementi di rottura (o viceversa, di continuità) dipende fortemente dal 10 Prefazione clima culturale e generazionale e dallo «spirito del tempo» (Zeitgeist) degli studiosi. La grande maggioranza degli studiosi universitari di oggi in Europa Occidentale (ed in Italia particolarmente), ivi compresi gli antichisti ed i filologi classici (Luciano Canfora e Mario Vegetti sono in proposito esempi pertinenti), si è formata a cavallo degli anni Sessanta e degli anni Settanta, un periodo storico caratterizzato dalla “fuga in avanti” del futurismo rivoluzionario e delle sue illusioni palingenetiche, condite con un marxismo a volte storicista, a volte strutturalista (o entrambe le cose), che dava luogo ad un clima culturale soffocante incentrato sulla retorica della “rottura” (pensiamo alla epistemologia di Bachelard o al marxismo di Althusser, con le sue “rotture epistemologiche” tendenti a cancellare la solare evidenza della continuità fra Hegel e Marx). Questo clima culturale era soprattutto anti-tradizionalista, anti-classicista, ed anche (sia pure con oscillazioni) anti-umanistico. Foucault serviva “ideologicamente” per detronizzare i baroni accademici precedenti, spesso idealisti, gentiliani e crociani. In questo modo, anche i Greci ne hanno fatto le spese. Nessuno aveva mai contestato l’esistenza di un lato “irrazionalistico” della civiltà greca antica (pensiamo a Mario Attilio Levi, ed al suo notevole Il senso della storia greca, Rusconi, 1979). Ma questo lato irrazionalistico fu enfatizzato in forma addirittura grottesca. Sembrava che i Greci non fossero stati anche e soprattutto il popolo del logos, ma soltanto dei portatori furbacchioni della metis. A fianco di questa orgia di irrazionalismo paranietzscheano, che oggi sappiamo essere stato soprattutto funzionale al post-moderno filosofico, siamo stati soffocati da una politicizzazione senza precedenti della stessa ricostruzione storiografica della civiltà greca e della stessa filosofia greca. Luciano Canfora ci ha dottamente spiegato nei dettagli che non ci fu mai una democrazia greca, e tantomeno un potere del popolo (laokratia), ma sempre e solo una dittatura della famiglia degli Alcmeonidi attraverso manipolazioni demagogiche e populistiche (una sorta di Berlusconi con maggior gusto estetico). Mario Vegetti è giunto a ricostruire le vicende della filosofia greca attraverso la polarità Destra/Sinistra, ovviamente filtrata simbolicamente nel linguaggio del tempo, in cui alla Destra eterna della cultura dell’akropolis (spiritualista, religiosa, aristocratica, ecc.) si opponeva la Sinistra eterna della cultura dell’agorà (materialistica, scientifica, dialogica, razionalistica, ecc.). In questa riscrittura “antifascista” del mondo antico Pitagora era ov11 costanzo Preve viamente collocato “a destra”, dimenticando un piccolo particolare, e cioè che la stessa riforma ultra-democratica di Clistene di Atene, vero inauguratore della polis propriamente detta, era ispirata a modelli apertamente pitagorici (Leveque, ecc.). Mi vergogno a dirlo, ma per anni, da professore di filosofia, mi sono ispirato a questa impostazione antistorica. Ma non si sfugge, purtroppo, ai luoghi comuni della propria generazione, ed io vengo dalla generazione più confusionaria della storia universale, quella dell’estremismo sessantottino anti-borghese nelle intenzioni ed ultra-capitalistico nei risultati finali. L’impostazione di Luca Grecchi (i cui difetti – pochi – ed i cui pregi – molti – devono essere discussi a parte) annuncia un possibile nuovo periodo storico, in cui (forse) la critica anti-crematistica alla illimitatezza della produzione capitalistica globalizzata non sarà più (forse) necessariamente accompagnata dalla retorica futuristica e dalla apologia delle “rotture” (filologiche, epistemologiche, generazionali, di costume, ecc.). Ho scritto due volte “forse” non certo per l’approccio di Grecchi, che in tal senso non lascia dubbi, ma perché in generale non ne sono affatto sicuro. L’egemonia soffocante dei “discontinuisti” dura infatti tuttora, per il semplice fatto che dal 1960 al 1990 essi si sono impadroniti “egemonicamente” della stragrande maggioranza degli apparati giornalistici, accademici, editoriali e mediatici. Le cose stanno lentamente cambiando, ma per ora è meglio non dimenticare l’aristotelico detto secondo cui «una rondine non fa primavera». E passiamo ora allo “specifico” del libro di Grecchi, che parla opportunamente dell’umanesimo di Omero. Dal momento che condivido, nell’insieme e nei particolari, le sue argomentazioni, la strada mi è spianata, e non c’è alcun bisogno che io ripeta e parafrasi qui quanto egli dice con grande sobrietà e chiarezza. Mentre la koinè foucaultiananegrista troverà forse “ingenuo” e soprattutto “antiquato” il suo punto di vista, io invece ne sottolineo la radicale “inattualità”, osservando (per una volta d’accordo con Nietzsche) che il termine di “inattualità” è forse negativo nella moda, ma in filosofia ha un’accezione largamente positiva. In un momento storico in cui l’attualità è miserabile, solo il “radicalmente inattuale” è interessante e degno di studio e considerazione. Il libro di Grecchi è diviso in due parti, la prima dedicata al pensiero omerico nel suo complesso, e la seconda ad una analisi dei miti omerici che dovrebbe “dimostrare” la tesi di fondo della prima parte, quella di Omero umanista ed educatore dei Greci. Anziché riassumerli e para12 Prefazione frasarli, ritengo più utile evidenziarne il significato profondo, partendo dalla prima parte e passando poi alla seconda. Se il nostro amico Luca Grecchi disponesse di una macchina del tempo e potesse “sbarcare” nella Atene di Socrate, e cominciasse a sostenere la tesi di un Omero “umanista” e pedagogo dei Greci, gli verrebbe certamente risposto, in modo educato, con la nota parrhesia (sincerità) degli Ateniesi: «Caro ospite Celta (Grecchi è lombardo), tu ci stai insegnando ciò che ogni bambino greco sa già perfettamente, e cioè che Omero è un pedagogo umanista dei Greci! Siamo contenti che anche nella valle dell’Eridano questo sia noto, ma sappi che da noi questo equivale alla scoperta dell’acqua calda!». Ciò merita un approfondimento. È noto (Dodds, ecc.) che esiste una differenza fra cultura della vergogna (aidòs) e cultura della colpa, e che la cultura omerica è una cultura della vergogna. Ettore si vergognerebbe di mostrare ai suoi concittadini che ha paura di affrontare Achille, ed infatti lo affronta, con le note conseguenze. La cultura della vergogna è una cultura comunitaria, almeno tanto quanto la cultura della colpa è una cultura individualistica. Guidorizzi chiarisce bene l’evoluzione semantica del termine virtù (areté), e sottolinea come questa areté è da un lato una virtù individuale, e soprattutto del guerriero valoroso (non importa se sconfitto, purché sia morto valorosamente), e dall’altro lato un riconoscimento comunitario (il valoroso non perde mai la “faccia”, perché vive immerso in una cultura della vergogna, aidòs). Quando progressivamente la virtù diventò un concetto morale con cui si indicava una qualità interiore, vale a dire la virtù di un “uomo buono” nel senso di uomo saggio, temperante e giusto, non ci fu una rottura con la concezione precedente (come sostengono i “discontinuisti”), ma una integrazione, una estensione della società guerriera alla società politica (che peraltro restò sempre anche una società guerriera, visto che chi discuteva nell’agorà combatteva anche a Maratona ed a Salamina). Si ha qui (ma gli esempi potrebbero essere moltiplicati) un esempio di continuità progressiva, assai più che di radicale discontinuità. Ho fatto prima scherzosamente notare che se l’Ospite Celta Grecchi avesse potuto approdare nella Atene di Socrate, le sue tesi sull’umanesimo di Omero sarebbero state accolte come ovvie. Ho però anche rilevato che l’atmosfera culturale e politica “anti-umanistica” del periodo storico 1956-1989 (e non parlo qui solo della tradizione marxista) ha potuto “silenziare” queste ovvie tesi, in nome di un parossismo futuristico 13 costanzo Preve ed “agonale” che concepiva il socialismo come “lotta continua” contro il “conformismo piccolo-borghese”. Devo in ogni caso “complicare” questo schema interpretativo perché lo considero io stesso insufficiente ed ispirato ad una polemica esistenziale di breve respiro. È bene infatti andare più in profondità, e cercarne le radici genetiche originarie. Hegel ha scritto che «l’uomo colto d’Europa, al nome Grecia, si sente a casa propria». Magnifica espressione. Il segreto del nostro rapporto con i Greci, che non possono e non potranno mai più ritornare perché nel frattempo c’è stato in mezzo il cristianesimo, sta nel modo in cui ci sentiamo a casa nostra con i Greci. Personalmente, non mi sono mai sentito a casa mia nella Grecia allucinata di Nietzsche, e tantomeno in quella sua caricatura che la riduce ad “agonalità”. Spieghiamoci meglio. Il carattere di contesa connesso a tante manifestazioni pubbliche greche ha portato alla definizione (enunciata estesamente nella Storia della civiltà greca di Jacob Burckhardt pubblicata nel 1902) dell’uomo greco come di un “uomo agonale”, tutto proteso verso la sfida, in perenne lotta contro se stesso e contro gli altri. Burckhardt si muove sull’onda della visione superuomistica nietzscheana dei Greci, tenendo conto che Nietzsche è stato una “porta girevole” sia verso il Superuomo (di destra) sia verso l’Oltreuomo (di sinistra), accomunati entrambi dalla negazione radicale del concetto di verità comunitaria. Una simile Grecia ha la caratteristica di essere del tutto vuota di Greci, e di essere riempita a piacere di turisti ospitati dal Club Mediterranée o di intellettuali decadenti ostili sia alla borghesia classica sia a quella caricatura subalterna della borghesia classica formata dagli “intellettuali radicali di sinistra”. In una simile Grecia è impossibile sentirsi a casa, per il semplice fatto che una simile Grecia, inventata da Nietzsche e da Burckhardt, non è mai esistita. Non intendo affatto negare la presenza di componenti agonali nella cultura greca, sia omerica che classica. L’agone sportivo (i Greci furono i fondatori delle Olimpiadi) si estendeva ad agoni poetici, letterari, teatrali ed anche filosofici (sebbene io preferisca la dizione di “teatro del logos” per la filosofia dialogico-platonica). Questo però era caratteristico di quasi tutte le civiltà umane. Persino i pellerossa americani avevano agoni poetici e retorici, e le scuole filosofiche cinesi ed indiane, del tutto estranee alla tradizione greca, si confrontavano in modo agonale. Ma di qui ce ne passa per giungere ad una parossistica concezione agonale di tutta la cultura greca. 14 Prefazione Se proprio devo cercare “l’essenza” dell’uomo greco (ma personalmente sconsiglio fortemente questo approccio definitorio-limitativo), allora la troviamo semmai in Esiodo (Opere e giorni, 277-279): «Ai pesci, agli uccelli ed alle fiere è prescritto di divorarsi, perché non esiste giustizia (dike) fra di loro. Ma agli uomini Zeus diede giustizia, cosa di gran lunga migliore». Guidorizzi fa notare correttamente che la Giustizia appare come il principio che deve regolare la società umana, nonché il solo codice di comportamento degno di un essere umano. Nel pensiero di Aristotele, di cui in un altro libro Grecchi aveva già mostrato il carattere umanistico1, la giustizia (dike) sta alla base del carattere normativo attribuito al concetto di «natura umana», per cui l’uomo per «natura» (physis) è un animale politico, sociale e comunitario (politikon zoon), ed un animale dotato di linguaggio, ragione e soprattutto capacità di calcolo di giusta distribuzione comunitaria di oneri e di onori (zoon logon echon). È anche importante notare (sempre Guidorizzi) che in Esiodo, per la prima volta nel pensiero greco, il principio di giustizia viene collegato ad un sistema divino. La dike è infatti il prodotto della volontà degli dèi, che la assegnano agli uomini come norma di civiltà. Certo, l’uomo è anche preda della insensatezza (e cioè Ate, figlia maggiore di Zeus: Iliade, XIX, 86-91, Ate che tutti fa errare). Ma l’insensatezza feroce apre uno squarcio nell’ordine divino del mondo, e deve essere seguita dalla riconciliazione (esemplare è il colloquio fra Achille e Priamo, che “pedagogicamente” conclude l’Iliade). Se seguissimo gli “agonali a tutti i costi”, l’Iliade dovrebbe terminare con Achille che trascina il cadavere di Ettore intorno alle mura di Troia. Per consolare gli “agonali a tutti i costi”, si dovrebbe dimostrare che tutto il resto dell’Iliade è una interpolazione umanistica posteriore. Viene da ridere, ma purtroppo c’è poco da ridere: i discontinuisti agonali, “partiti” a destra con Nietzsche e Burckhardt, sono infine “approdati” a sinistra con Vegetti e Vattimo. Il giusto approccio della impostazione di Grecchi costringe quindi ad un doloroso, ma necessario, riorientamento gestaltico di tutto il modo di percepire l’insieme dello spirito greco. Limitarci a ripetere che la società omerica era molto diversa dalla società della Grecia classica (ma quale? Forse che Atene e Sparta, pure contemporanee, non erano due modi diversissimi di convivenza sociale e politica?) non ci fa avanzare di un millimetro nella comprensione dei problemi. Anche uno studioso non specialista potrebbe elencare 1 L. Grecchi, L’umanesimo di Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia, 2008. 15 costanzo Preve almeno dieci differenze importanti fra la società omerica e quella ateniese dell’età di Pericle. Vale invece la pena, se vogliamo prendere sul serio le tesi “continuiste” di Grecchi, riesaminare la semantica delle due complementari definizioni aristoteliche di natura umana, per vedere meglio dove sta esattamente la “normatività” che le si può legittimamente attribuire. Il significato fondamentale di politikon zoon non è quello di animale politico o di animale sociale, ma di animale comunitario. Qui il diavolo – come sempre – si nasconde nel dettaglio. Animale “politico” porta a pensare che l’uomo, in quanto animale politico, debba necessariamente occuparsi di politica, la qual cosa oggi è di fatto ridotta al voto. Noi saremmo animali politici perché, essendo membri di un corso elettorale, scegliamo il solito “meno peggio” invece dell’astensione. Dire che l’uomo è un animale “sociale” è giustissimo, ma in definitiva si limita a ristabilire una ovvietà storica ed antropologica assoluta contro i teorici dello scontro “agonale” di tutti contro tutti, e contro le varie forme di individualismo che Marx chiamò “robinsoniano” e che oggi sono ideologicamente dominanti, perché l’attuale capitalismo finanziario globalizzato ha distrutto la maggior parte delle forme sociali vetero-borghesi ed ha promosso su larga scala una figura antropologica sradicata ed intimamente a-sociale, e cioè di fatto anti-sociale. Dire invece che politikon zoon si traduce semanticamente come “animale comunitario” permette di impostare meglio la questione “normativa” della natura umana. Perché la comunità esista sono necessari tre elementi, tutti indispensabili: la giustizia (dike), secondo la definizione di Esiodo precedentemente riportata; la misura (metron), che non è altro che l’applicazione pratico-sociale del concetto di giustizia, sia a livello sociale che a livello individuale; ed infine appunto il logos, come anello di congiunzione fra la giustizia e la misura, e cioè fra la dike ed il metron. E come tradurre allora zoon logon echon? Dire soltanto che l’uomo è un animale linguistico, come afferma gran parte della filosofia contemporanea, è del tutto fuorviante. Se così fosse i chiacchieroni sarebbero gli uomini per eccellenza; e se il chiacchierone praticasse la dismisura (apeiron), allora il retore ed il buon conservatore sarebbero gli uomini per eccellenza! Inoltre, il linguaggio serve soprattutto per dire sciocchezze, e tutti gli etologi sanno che anche gli animali “parlano”, sia pure generalmente in modo non verbale. Dire che l’uomo è un animale razionale è anch’esso insufficiente, e non soltanto perché quasi sempre si dimostra un animale irrazionale assai più che razionale, ma perché 16 Prefazione la definizione non ci fa fare un solo passo avanti nell’individuazione di che cosa propriamente vuol dire “ragione” (logos). Fate incontrare prima Kant e Hegel, e poi Marx e Nietzsche, e toccherete con mano che ognuno di loro è portatore di una concezione di “ragione” (logos) del tutto incompatibile. Dire invece che zoon logon echon si traduce semanticamente come «animale capace per natura di calcolo sociale comunitario ispirato alla giustizia ed alla misura», permette in buona parte non solo di ribadirne concretamente il carattere comunitario, ma di essere più vicini al termine greco logos (da cui loghizomai, calcolare). L’uomo non ragiona e non parla “a ruota libera”, ma si muove all’interno di un contesto storico e sociale comunitario, che lo modella attraverso una particolare educazione (paideia), ben diversa dall’”addomesticamento” animale. Il tiranno addomestica, il cittadino si educa. Ma l’educazione non è che un lungo calcolo del giusto e dell’ingiusto, il cui fine individuale è la buona vita (eu zen), ed il cui fine sociale è l’equilibrio (isorropia) e la concordia (omonoia). Grecchi ha già analiticamente articolato questa impostazione nei suoi numerosi libri dedicati alla filosofia greca. Mancava un bilancio filosofico e non solo letterario di Omero, e Grecchi oggi ha colmato questa lacuna. Sarebbe del resto stato difficile da spiegare il passaggio da un Omero nietzschiano e burckhardtiano, consegnato alla individualità agonale feroce, ad una miracolosa Grecia successiva pienamente “umanistica”. Questa grecità sarebbe stata appunto un “miracolo” (il “miracolo greco” dei retori), che spunta come un fungo dopo la pioggia. In realtà le “radici” della classicità sono pienamente omeriche, come i Greci del tempo di Socrate sapevano già benissimo, e come Grecchi ha correttamente riproposto. Passiamo ora alla vexata quaestio del rapporto fra mythos e logos. Non scendo qui volutamente nei dettagli delle analisi di Grecchi sui miti omerici, che ho già detto di condividere. Preferisco riservare lo spazio che mi resta ad una riflessione sul modo tradizionale con cui questa questione è generalmente impostata, e cioè il cosiddetto “passaggio” dal mythos al logos. Si tratta di una deformazione che chiamo della “staffetta”. Nella civiltà umana, vista come stadiale e lineare, sulla base dell’ideologia super-borghese del progresso (del tutto ignota ai Greci), si corre una staffetta, il cui primo corridore si chiama mythos, che passa il “testimone” al secondo corridore, chiamato logos. A sua volta il logos passa anche lui attraverso due stadi: il primo è quello delle inconclu17 costanzo Preve denti chiacchiere filosofiche, interminabili ed indimostrabili, ed il secondo è quello definitivo del pensiero scientifico, in cui l’umanità si riconcilia con sé stessa all’interno di un laboratorio. È la storia umana riscritta da Archimede Pitagorico, personaggio dei fumetti di Paperino. Il lettore dirà che sto esagerando. Certo che sto esagerando, e me ne sono accorto da solo. Ma qui ho messo in caricatura una concezione che definirò di “fondamentalismo illuministico” (niente a che vedere con l’illuminismo, di cui continuo a dare una valutazione complessivamente positiva – non mi si scambi per Horkheimer o Adorno!), che proietta nel mondo dei Greci la concezione post-settecentesca di «ragione» (raison, reason, verstand) e così li uccide una seconda volta, dopo la prima grande uccisione degli esagitati “agonali” Nietzsche e Burckhardt. Spieghiamoci meglio. Secondo questa concezione anti-greca ci fu prima il mythos, tipico modo primitivo e fanciullesco di ragionare, residuo della mentalità primitiva incapace di distinguere fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale; poi finalmente arrivò il logos, e cioè la ragione, per cui non si ripeterono più le favolette della Teogonia, ma si cominciò a fare “scienza scientifica”, per cui la terra deriva dall’acqua, o dall’aria, ecc.. Meraviglioso! Non siamo ancora alla fisica, chimica e biologia moderne, ma siamo già sulla buona strada! Ancora un passetto, chiamato “progresso”, ed arriveremo finalmente ai premi Nobel ed al regno del “pensiero scientifico”! Peccato però che le cose non siano mai state così. Platone, che pure in teoria vuole sostituire il logos (concepito in senso rigorosamente geometrico-pitagorico, sia pure nella forma dialogica dell’agorà ateniese – non si poteva essere pitagorici ad Atene nello stesso modo in cui lo si era ad Elea o a Crotone) al racconto mitico, deve necessariamente passare al mito quando vuole veramente far capire quanto intende comunicare (ricordo qui soltanto il notissimo mito della caverna della Repubblica). E questo non è un caso. Da sempre, i manuali di filosofia non fanno iniziare il pensiero filosofico da Solone o da Esiodo, ma da Talete e dalla sua acqua, per il semplice fatto che nella sua breve storia della filosofia a lui precedente Aristotele usò il metodo espositivo della classificazione delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale), e dal momento che volle cominciare dalla prima, quella materiale, iniziò appunto con Talete, Anassimene, ecc.. Avesse cominciato con la causa formale anziché materiale, avrebbe cominciato con Pitagora e con Platone. Ma perché insisto su questo pittoresco equivoco? 18 Prefazione Vi insisto perché sfugge completamente il fatto storico-sociale che i primi filosofi, erroneamente definiti presocratici (erroneamente perché Socrate, rivolgendosi direttamente ai suoi concittadini, era in realtà l’ultimo dei presocratici), non erano se non in seconda battuta dei naturalisti, e cioè precursori artigianali di Galilei, Newton, Lavoisier e Darwin, ma erano soprattutto legislatori comunitari, che per rendersi autorevoli e credibili davanti ai loro concittadini dovevano necessariamente porsi come indagatori della natura (physis), perché solo in questo modo potevano poi passare dalla “natura naturale” del macrocosmo alla “natura sociale” dell’individuo e della comunità. Questo, e solo questo, significa il detto delfico e socratico «conosci te stesso» (gnothi se autòn). Non potevano certo fare come i profeti ebraici, che diventavano autorevoli nella loro comunità facendosi interpreti dei voleri divini e criticando la rottura peccaminosa della “alleanza”. Dovremmo forse sprecare carta per spiegare che, in assenza di una religione monoteistica rivelata attraverso libri sacri sottratti alle opinioni umane, i Greci non potevano produrre profeti, ma solo poeti e filosofi? Non esiste quindi rottura fra mythos e logos. Entrambi sono assai più complementari e coesistenti che segmenti in successione temporale. Nella corretta concezione comunitaria contemporanea di Alasdair Mc Intyre gli uomini si collocano dentro una “narrazione” storica, ed il termine greco mythos significa appunto “narrazione”. È nel corso di questa necessaria narrazione che gli uomini sviluppano e concretizzano progressivamente il concetto di giustizia (dike), che resterebbe del tutto astratto ed inapplicato se non venisse nutrito della capacità “logica” (loghistikè) di calcolo sociale comunitario e solidale. Criticando il concetto di «grande narrazione» (grand récit) il pensatore post-moderno francese Lyotard ha gettato via il bambino con l’acqua sporca. L’acqua sporca era sicuramente la grande narrazione storicistica a lieto fine prefissato, in cui un «soggetto pieno« (il proletariato salvifico) realizzava nella continuità della sua identità la realizzazione finale (il comunismo) del suo progetto originario (il comunitarismo primitivo unito allo sviluppo delle forze produttive). Questa grande narrazione effettivamente cominciò a diventare «incredibile« verso la metà degli anni Settanta in Europa. Ma con questa acqua sporca fu anche gettato via il bambino della narratività filosofica del progetto di emancipazione storica dell’umanità. Si dirà che i Greci non potevano avere una filosofia della storia nel senso moderno del termine (che nasce con Vico, e si sviluppa con Fichte, 19 costanzo Preve Hegel, Marx ed i loro migliori successori novecenteschi), e neppure nel senso necessariamente post-cristiano della secolarizzazione della escatologia giudaico-cristiana (Löwith, ecc.). Si tratta dello sviluppo delle osservazioni che io stesso feci a Grecchi in un saggio a commento del suo notevole libro intitolato La filosofia della storia nella Grecia classica (Petite Plaisance, Pistoia, 2011). A quei tempi, però, non avevo ancora letto questo suo saggio sull’umanesimo di Omero. Continuo a pensare che una vera e propria filosofia della storia necessita di presupporre due elementi fondanti (la secolarizzazione del monoteismo cristiano e l’autoaffermazione della borghesia come classe dialetticamente contraddittoria, universalistica nel pensiero e sfruttatrice nei fatti economici). Ma alla luce della analisi di Grecchi dei miti e del loro rapporto con il logos sono diventato maggiormente possibilista. L’uomo è inserito in una narrazione comunitaria continua, anche in assenza di monoteismo e di borghesia dialettica, e questa narrazione comunitaria continua può essere chiamata «filosofia della storia» anche in assenza di un lessico specialistico apposito. Per concludere, direi che il lettore si trova di fronte ad un saggio filosofico piano, documentato e convincente. Come ho già detto ripetutamente, non si tratta solo di ribadire il carattere “umanistico” della poesia e del pensiero di Omero (nome collettivo per indicare un’intera civiltà, come già perfettamente compreso da Gian Battista Vico) contro i vari discontinuisti più o meno ferocemente conflittuali ed agonali, in quanto questa tesi era già una ovvietà presso i veri Greci. Si tratta di radicare più e meglio la nascita del pensiero occidentale, oggi messo in pericolo da una «globalizzazione occidentalistica» che è infinitamente nemica dell’Occidente2. In definitiva, si tratta sempre e solo di essere «ospitati» dai Greci e di sentirsi da loro come a casa propria. Personalmente, ho cercato di farlo durante una intera vita, imparando la loro lingua nelle cinque versioni storiche successive. Non ho mai smesso di imparare e di voler imparare. Devo dire che Luca Grecchi qualcosa è riuscito ad insegnarmi. Costanzo Preve 2 Grecchi stesso, peraltro, lo ha messo in evidenza nel libro L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova, 2009. 20 introduzione Questo libro vuole essere, come già annunciato altrove3, un ulteriore tassello della complessiva interpretazione umanistica degli antichi Greci che abbiamo sviluppato in questi anni4. Si tratta di una interpretazione che ha ricevuto una sostanziale approvazione da parte di alcuni importanti studiosi (come ad esempio Enrico Berti)5, e che si caratterizza, come ha ben notato recentemente Costanzo Preve, per una caratterizzazione dell’umanesimo greco in termini anticrematistici6; gli antichi Greci, infatti, ritenevano la «dismisura» insita nei processi sociali incentrati sul denaro, sulla merce e sulla proprietà privata, come il massimo male, ed al contempo ritenevano la «misura» insita nei processi sociali comunitari, fraterni e libertari, come il massimo bene. Si tratta però di un tema che, per quanto assente in tutti gli altri umanesimi finora esistiti7, abbiamo appunto sviluppato altrove, sicché non ci pare opportuno insistervi anche qui. Ciò che è importante rimarcare, in questa introduzione, è non tanto il generale umanesimo greco, quanto il particolare umanesimo di Omero, ovvero del più antico pensiero pervenutoci dalla antica Grecia. È sicuramente eccessivo accostare il nome di Omero alla filosofia8, in L. Grecchi, L’umanesimo di Plotino, Petite Plaisance, Pistoia, 2010. Rinviamo, in particolare, a L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia greca; L’umanesimo di Platone; L’umanesimo di Aristotele (Petite Plaisance, 2007-2008), e ad altri lavori che saranno citati nel testo. 5 E. Berti – L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, Il Prato, Padova, 2009, pagg. 28-30. 6 C. Preve, postfazione a C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, con introduzione di E. Berti. 7 Rinviamo, in merito, a C. Preve, Lettera sull’umanesimo, di prossima pubblicazione. 8 Ci siamo espressi, in merito, in L. Grecchi, Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia?, Il Prato, Padova, 2008, con introduzione di G. Casertano, pagg. 93-98; per una tesi differente dalla nostra si può invece consultare A. Lo Schiavo, il quale ha sostenuto che «Omero costituisce un inizio anche per la filosofia» (D. Musti, introduzione ad A. Lo Schiavo, Omero filosofo, Le Monnier, Firenze, 1983, pag. 1). Più precisamente, però, dobbiamo rimarcare che, per la sostanziale unità e continuità del pensiero greco, che argomenteremo anche in queste pagine, contenuti “prefilosofici”, ovvero veritativo-umanistici, sono indubbiamente ravvisabili anche in Omero. 3 4 21 Introduzione quanto nella poesia epica mancano i tratti dialettici della ricerca socratica della verità dell’intero; tuttavia, come mostreremo, vi è sicuramente una continuità fra Omero, i poeti, i presocratici, i sofisti, i tragici, gli storici, gli scienziati ed i classici, e questa è appunto una continuità umanistica (intendendo per umanesimo un pensiero in cui vi è la centralità di una cura dell’uomo rispettosa del cosmo). Il particolare umanesimo omerico si delinea dunque non sul piano propriamente filosofico, e nemmeno su quello politico (pur contenendo spunti in tal senso), bensì sul piano etico-educativo; i personaggi descritti da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, e soprattutto i contenuti che emergono dai loro discorsi e dalle loro azioni, costituiscono cioè il principale modello educativo che per secoli gli antichi Greci hanno – pur con alcune varianti dovute ai differenti contesti storico-sociali – seguito, fino appunto alla proposta di paideia filosofica di Platone9. Come i grecisti sanno, la letteratura critica su Omero è pressoché sterminata, ed è cresciuta negli ultimi anni in maniera imponente. È lecito dunque domandarsi se un libro su Omero abbia ancora ragione di essere scritto, ed è lecito cercare di rispondere a questa domanda, almeno per chi non ha la finalità di scrivere esclusivamente per arricchire il proprio curriculum accademico, bensì per incidere mediante l’elaborazione culturale sulle modalità sociali (almeno idealmente: è chiaro infatti che, nel nostro tempo, chi si pone questa finalità, nella migliore delle ipotesi, sta “lavorando per il futuro”…). Ebbene: la risposta a questa domanda può essere positiva solo se si ritiene di avere qualcosa di realmente originale ed importante da dire, ovvero se la interpretazione di Omero proposta è davvero nuova e necessaria nel panorama complessivo degli studi classici. Nel nostro caso, la “originalità” sta nell’inserimento dell’opera omerica nel quadro umanistico ed anticrematistico della grecità che abbiamo delineato nei nostri libri, in quanto ciò conduce ad interpretare in maniera radicalmente differente La tesi della sostanziale continuità etico-educativa della cultura greca fu propria anche, a nostro avviso, di Werner Jaeger, che nel celebre libro Paideia, cui poi ancora accenneremo, descrisse come tappe di un unico processo di formazione dell’ideale greco di umanità il sorgere del concetto di areté nei poemi omerici, lo sviluppo del concetto di dike nei poemi esiodei, l’ideale del cittadino difensore della patria in Tirteo, l’autoformazione dell’individuo nella poesia ionico-eolica, la fondazione dello Stato di diritto nella Atene di Solone, la esposizione dell’ordine cosmico operata dal pensiero presocratico, la elaborazione pedagogica dei sofisti, l’insegnamento morale di Socrate ed il supremo ideale educativo formulato da Platone. 9 22 Introduzione alcuni luoghi comuni della modernità sul pensiero omerico (pensiamo all’episodio di Tersite, alla solo presunta centralità di Achille nell’Iliade, alla distorta immagine di Odisseo nell’Odissea, ecc.: tutti temi su cui ci soffermeremo ampiamente). La “importanza” di questo approccio sta invece nel fatto che, interpretando Omero in questo modo, lo si fa rivivere imputandogli un ruolo etico-educativo che è sempre pure, come i Greci insegnano, un ruolo politico caratterizzato in più da uno stabile valore classico; questa era del resto anche la tesi di una grande studiosa recentemente scomparsa, J. De Romilly, quando affermava che «la letteratura greca è molto più che un semplice fenomeno di civiltà: la bellezza delle opere ed il loro significato possono parlare con forza a ciascuno di noi come hanno parlato ad altri nel corso dei secoli»10, proprio in quanto possiedono contenuti di verità validi per ogni uomo in ogni tempo. Un testo come il presente si giustifica anche col fatto che, per l’ormai imperante specialismo accademico, sono sempre più rari testi che si rapportano ad una tematica ampia come quella omerica in modo unitario, ovvero, come ha affermato W. Klug, col fatto che «nelle bibliografie scientifiche [...] è difficile trovare per l’Iliade e l’Odissea di Omero una pubblicazione che offra un quadro generale di questi due poemi epici, e che favorisca una loro comprensione complessiva»11. Come ha sottolineato inoltre J. Latacz – mostrando che Omero è ancora associato, nel cinema e nella letteratura, prevalentemente ai combattimenti sanguinosi dell’Iliade ed alle avventure fantastiche dell’Odissea – «oggi, fra le giovani generazioni, è difficile trovare chi sappia ancora collegare Omero ad immagini concrete»12; per questo cercheremo appunto di collocare Omero nel proprio contesto storico-sociale, per valutare, mediante il metodo della analogia, se la sua opera possa dare utili indicazioni anche al nostro tempo. Omero non fu un semplice “poeta”, nella maniera disimpegnata in cui siamo abituati oggi a pensare queste figure13; la poesia epica, di cui J. De Romilly, Compendio di letteratura greca, Zanichelli, Bologna, 1987, pag. X. W. Klug, Anregung, 27/1, 1981, pag. 30. 12 J. Latacz, Omero. Il primo poeta dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 1990, pag. 3. 13 Dice bene M. Durante che in Omero «la rievocazione del passato è in funzione delle esigenze di una società arcaica: non funge soltanto da strumento di evasione dalle realtà quotidiane, ma serve a progettare paradigmi di comportamento idealizzati e valori etici, e fare in modo che l’individuo assuma consapevolezza del passato suo e dell’ethnos di cui fa parte. Questa poesia arcaica [...] è semplicemente la forma di cultura che si addice ad una fase di storia del pensiero che ancora non ha assunto consuetudine col sapere 10 11 23 Introduzione Omero fu il “rappresentante” più insigne, fu infatti innanzitutto una poesia “educativa”. Non, certo, che questa poesia non possa essere raccontata anche ai bambini, data la presenza di immagini simboliche particolarmente adatte ad attrarre l’attenzione dei piccoli; tuttavia, non è facendo leva sull’aspetto “allegorico”, bensì sull’aspetto etico-educativo, che la letteratura omerica mostra tutta la propria rilevanza. Cosa ci si può aspettare, dunque, dalla lettura di questo libro? Non ci si può aspettare un approccio ad Omero in termini meramente filologici, o eruditi, o letterari14; ci si può invece aspettare un approccio ad Omero in termini filosofici, ovvero insieme etici, educativi ed in senso ampio “politici”. Il carattere classico del pensiero omerico non è determinato infatti semplicemente dal suo valore o dalla sua antichità, bensì, semmai, dalla sua non modernità; dato che il pensiero moderno si caratterizza per l’approccio (Moore, Hume, Weber, ecc.) in base a cui si può al più comprendere la realtà, ma non valutarla in base a fondati criteri assiologici, nel suo poema Omero mostrò che la condizione più naturale per l’uomo è insieme quella del comprendere e del valutare, dunque anche del giudicare. Occorre in ogni caso chiedersi: quando questi criteri, e dunque questi giudizi, possono essere definiti come chiari e corretti? Ebbene, così è quando essi si conformano a ciò che è insito nella natura umana, ovvero a quei contenuti razionali e morali che costituiscono l’essenza dell’uomo e che, se realizzati, pongono in atto ciò che egli è in potenza, rendendolo un uomo compiuto15. Omero, dunque, comprese, descrisse e valutò bene i modelli etici da proporre per guidare i comportamenti umani; i criteri omerici, a differenza di quanto accade alle teorie morali moderne, non sono costituiti da regole formali, bensì da “tipi umani”, da “personaggi”, i cui pensieri e astratto, con la filosofia e con la scienza» (M. Durante, Sulla preistoria della tradizione greca, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1971, vol. I, pag. 145). Questo lo compresero bene anche diversi autori classici (Platone, Apologia di Socrate, 41 a; Aristofane, Rane, 1030-1036), che considerarono Omero, Esiodo, Orfeo e Museo non semplicemente come poeti, bensì come maestri di civiltà. 14 L’atteggiamento che utilizzeremo è quello di chi non vuole fare, come diceva Aristotele con riferimento ai Pitagorici, come «quegli antichi interpreti di Omero, che riescono ad evidenziarne le minuzie, ma si lasciano poi sfuggire le cose rilevanti» (Metafisica, 1093 a 26). 15 Per una trattazione generale di questo argomento, rinviamo a L. Grecchi, L’anima umana come fondamento della verità, Petite Plaisance, Pistoia, 2002; Il necessario fondamento umanistico della metafisica, Petite Plaisance, Pistoia, 2005; Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, con Introduzione di Mario Vegetti. 24 Introduzione comportamenti generano approvazione o disapprovazione, in maniera talvolta evidente e talaltra, invece, problematica (di una problematicità, comunque, sempre favorente la riflessione). Per questo motivo ci soffermeremo, nella seconda parte, ad analizzare i miti omerici (Odisseo, Achille, Agamennone, Ettore, ecc.), evidenziando il carattere etico-educativo delle loro parole e delle loro azioni; come ha scritto infatti il recentemente scomparso Mario Zambarbieri, delle cui traduzioni spesso ci avvarremo, «l’uomo antico concentra nel valore paradigmatico del mito l’esperienza morale dei singoli e delle generazioni»16. Aggiungiamo, per concludere, che dopo aver ben compreso e valutato, il comportamento più conseguente è sempre quello di agire con coerenza, in base appunto a ciò che si è compreso e valutato. Ciò è vero sia sul piano etico-personale (quello su cui prevalentemente rimase Omero), sia sul piano politico-sociale; poiché agire con coerenza significa non solo operare per l’oggi, ma anche progettare per il domani, Omero si situò a nostro avviso all’inizio di quella catena di «filosofi della storia» che caratterizza l’intero pensiero greco, in particolare quello classico; ci siamo soffermati altrove su questa tesi17, per cui non ci ripeteremo qui, ma è evidente come Omero non si limiti a dare generici consigli etici, ma delinei, in controluce, i valori su cui una società deve strutturarsi per essere armonica e felice. Senza la comprensione di questo approccio “politico-sociale” presente in Omero, non lo si può a nostro avviso comprendere compiutamente, e si può solo giungere ad ammirarlo come espressione culturale di un’epoca passata. Non ci constano, come dicevamo, molte letture complessive di Omero simili a quella che andremo qui delineando; tuttavia, vi sono stati diversi studiosi che hanno favorito una interessante interpretazione di questo autore, contribuendo a tenerne viva la memoria. Costoro hanno mostrato che Omero non è solo uno dei tanti “cibi” presenti nella millenaria cultura occidentale, ma è proprio il “primo cibo”, quello più essenziale; come ebbe infatti a scrivere in merito Senofane, Omero è «colui dal quale tutti gli uomini hanno imparato, sin dall’inizio» (B 10). M. Zambarbieri, L’Iliade com’è, Cisalpino, Milano, 1988, vol. II, pagg. 494-495. L. Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica, Petite Plaisance, Pistoia, 2011. In merito, L. Canfora ha correttamente sostenuto che «nei poemi omerici nel loro insieme [...] vi è anche, in germe, una nozione del passato (e quindi del tempo) e della storia [...]. L’idea di passato coincide con l’ambito fin dove si spinge il ricordo [...] e si concentra sui fatti degni di racconto: in genere sulle sofferenze degli uomini» (L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Roma-Bari, 1986, pag. 14). 16 17 25 Introduzione Omero è un cibo, sicuramente, “ideale” (i suoi personaggi sono modelli ideali di nobiltà, dignità, coraggio), e non solo “effettuale”; contrariamente infatti a quanto molti antichisti sostengono, il merito maggiore dei poemi omerici non fu quello di aver costituito una sorta di “enciclopedia” dei secoli oscuri (vale a dire dal XII all’VIII), bensì quello di aver espresso per la prima volta i valori più alti della vita umana. Non è un caso che la metafora del banchetto sia stata utilizzata, per descrivere i poemi omerici, anche da uno dei maggiori studiosi esistiti della letteratura greca, ossia C. R. Beye, il quale non poté che auspicare quanto meno un ritorno al modo del XIX secolo di leggere gli antichi: «Fino al XIX secolo la letteratura greca non era considerata un abbellimento, un semplice contorno nel banchetto della vita, bensì il piatto forte, il centro, la garanzia di soddisfare le più profonde esigenze dello spirito. Oggi tutto ciò è cambiato»18, a causa soprattutto dei mutamenti avvenuti nelle modalità sociali, le quali hanno sempre più condotto a considerare la cultura, nelle sue varie forme, come un semplice passatempo, e non come qualcosa di necessario per comprendere, valutare ed appunto – se doveroso – modificare le modalità sociali medesime; per Omero, e per una parte dei suoi interpreti (il riferimento è, principalmente, ai “neoumanisti” tedeschi, Werner Jaeger e Max Pohlenz), la cultura serviva invece proprio per incidere sulla realtà. Solo in quanto si trascura questo punto fondamentale, come ricorda sempre Beye, oggi «ci è difficile immaginare che per secoli gli uomini abbiano studiato in tutta serietà la letteratura della Grecia antica perché essa conferiva loro le fondamentali basi culturali e spirituali; noi abbiamo ripudiato il nostro passato letterario [...] con l’arma micidiale dello sbadiglio»19. Il presente libro cerca dunque di opporsi ad uno dei luoghi comuni più diffusi del nostro tempo, ovvero quello per cui la cultura si associa necessariamente alla irrilevanza ed alla chiacchiera; i poemi omerici, del resto, furono già nelle loro prime formulazioni recitati in pubblico e per il pubblico, per favorire l’unità comunitaria e l’armonia sociale. I poemi omerici non furono, sin dai loro esordi, dei pur magnifici “monumenti”, bensì delle “guide” affinché gli uomini potessero condurre, tramite essi, la migliore esistenza possibile. Per questo motivo ci pare utile chiudere questa introduzione con le parole di uno dei maggiori 18 C. R. Beye, Letteratura e pubblico nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari, 1979, vol. I, pag. V. 19 Ibidem, pag. VI. 26 Introduzione antichisti italiani contemporanei, ovvero F. Montanari, per il quale un popolo che non possiede «un passato da conservare e che non lo sa valorizzare adeguatamente, non ha un buon futuro da consegnare ai propri figli»20. 20 F. Montanari, a cura di, Omero 3.000 anni dopo, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2002, pagg. XI-XII. 27 Parte Prima Il pensiero omerico La questione omerica Non è oramai più possibile – almeno dal 1664, ossia da quando l’abate D’Aubignac scrisse le sue Conjectures academiques ou dissertations sur l’Iliade – comporre un libro su Omero, senza fare almeno qualche cenno alla cosiddetta «questione omerica»21, ovvero a quella serie di problemi di cui i principali sono sicuramente i seguenti: “chi fu Omero”, “quando e dove è vissuto”, “che ruolo ha avuto nella composizione dell’Iliade e dell’Odissea”; migliaia di libri ed articoli sono stati scritti su queste tematiche e su altre ad esse collegate, giungendo a davvero poche certezze22. Per questo motivo, più che disquisire, ad esempio, sulla tesi se la «questione omerica» possa ritenersi nata con la Poetica di Aristotele, col già citato testo di D’Aubignac oppure con i Prolegomena ad Homerum di F. A. Wolf (1795), riteniamo utile anche stavolta – per utilizzare le parole che Mario Vegetti ha attribuito al nostro peculiare approccio filosofico – «andar diritti verso il cuore del problema [...], tentando di raddrizzare e spianare percorsi che la tradizione ha reso labirintici ed impervi»23; si tratta peraltro di un approccio che, sul piano storico, è condiviso anche da uno studioso come G. Murray, per il quale «Omero è un’ipotesi, e neppure troppo chiara. L’Iliade e l’Odissea sono fatti conosciuti, ed è dai fatti che noi dovremmo cominciare. L’Iliade e l’Odissea sono due poemi che trattano una materia antica ed eroica, destinati ad essere recitati in pubblico ad Atene in occasione delle grandi feste Panatenee, più o meno all’epoca in cui Pisistrato istituì quelle feste, e dopo di allora recitati regolarmente ogni 4 anni durante il periodo classico. Questo è Come ha sostenuto G. Scarpat, «[…] la questione omerica non è una semplice, sia pur importantissima, questione che riguarda soltanto la filologia classica: la sua storia è, molto spesso, la storia della cultura occidentale» (R. Caut – G. Scarpat, Breve introduzione a Omero, Società Dante Alighieri, Milano, 1961, pag. 9). 22 Non entreremo peraltro nel merito, pur avendone lette diverse ricostruzioni, della evoluzione testuale dei due poemi che ha portato dagli antichi papiri, per via di emendazione (soprattutto alessandrina), ai successivi più brevi testi, da quello di Aristarco fino alla edizione di Oxford, ancora oggi utilizzata. 23 M. Vegetti, Introduzione a L. Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., pag. 9. 21 31 iL Pensiero omerico quanto possiamo dire con ragionevole sicurezza, senza andare al di là di quanto ci autorizzano ad affermare le prove che abbiamo»24. Per non apparire troppo semplicistici però, pur senza riportare tutte le varie risposte offerte dagli studiosi agli interrogativi che costituiscono la “questione omerica”25, cercheremo comunque di fornire gli elementi più assodati circa la figura di Omero. Innanzitutto, concordemente agli “unitaristi”, ci pare verosimile sostenere, per vari motivi storici, linguistici e letterari, che un autore di nome Omero sia esistito e che abbia svolto un ruolo centrale nella composizione dell’Iliade e dell’Odissea26; diversa è invece la tesi dei “pluralisti”, che ritengono Omero poco più che un nome di fantasia, e che considerano i due poemi opera appunto di una pluralità di autori. Da quelli che sono i dati più verosimili che si possono evincere dalle sette biografie antiche su Omero (tutte poco significative in quanto appartenenti all’epoca imperiale, ma alcune riportanti citazioni di scrittori più antichi, come tali più affidabili), egli fu un aedo nato in Ionia nell’VIII secolo a.C., che condusse la propria esistenza vagando per larga parte della Grecia e del Mediterraneo orientale, recitando i propri poemi composti elaborando una vasta tradizione popolare. Riteniamo che, in questo senso, avesse pienamente ragione M. Durante ad affermare che Omero – nonostante della sua esistenza non sia possibile dubitare – non deve essere tanto interpretato come «autore di opere, una nozione impropria ed irrilevante in regime di poesia orale e tradizionale, ma come sigillo che conferiva una garanzia di qualità, e nello stesso tempo simboleggiava l’origine comune e la sostanziale omogeneità della prima epica greca»27. Tutto ciò è verosimile ma storicamente, come detto, sono molti i punti oscuri. Il luogo di nascita di Omero, ad esempio, è stato fatto oscillare fra Itaca e Colofone, così come la sua data di nascita è stata fatta variare fra il 1159 ed il 686; tuttavia, i dati che abbiamo poc’anzi riassunto paiono essere i più condivisi dalla comunità degli studiosi G. Murray, Le origini dell’epica greca, Sansoni, Firenze, 1964, pag. 388. Per una analisi chiara e particolareggiata della “questione omerica” è possibile rifarsi, fra gli altri, al libro di F. Codino, Introduzione a Omero, Einaudi, Torino, 1965. 26 Su questo punto siamo pienamente concordi con B. Marzullo, secondo il quale la poesia omerica «ha una rigida fissità, una formularità e una meccanicità lessicale, sintattica, metrica, quasi sconcertante» (B. Marzullo, Il problema omerico, La Nuova Italia, Firenze, 1952, pag. X), tanto da far ritenere improponibili tesi quali quelle di F. A. Wolf, secondo il quale mancherebbe qualunque forma di univocità per i poemi omerici. 27 M. Durante, Sulla preistoria…, op. cit., vol. II, pag. 204. 24 25 32 La questione omerica omerici. Quanto alla notizia della sua cecità, caratteristica comune anche agli aedi narrati nei poemi stessi (Iliade, II, 594 ss.; Odissea, VIII, 62 ss.), essa può essere fatta risalire all’epoca dell’Inno omerico ad Apollo (172), e parrebbe confermata da molti ritratti antichi di varie epoche. La descrizione della “questione omerica” potrebbe davvero occupare decine di pagine; la massa di studi su di essa infatti, come ha giustamente sostenuto G. Broccia, «non ha eguali in nessun altro campo di ricerca»28. In questa sede può essere più interessante rimarcare come Omero non sia stato verosimilmente un innovatore, bensì il pur elevato punto di approdo di una tradizione plurisecolare29; tale tradizione non è però ricostruibile nel suo sviluppo, poiché abbiamo troppi “buchi” nella conoscenza di quell’epoca. Poco conosciamo infatti, ad esempio, della coeva cultura cretese30, così come di quella cipriota, che pure furono importanti mediatrici con la Grecia delle influenze vicinoorientali, mesopotamiche, siro-palestinese ed egizie; altra grave lacuna è che non conosciamo l’opera letteraria di quegli ambienti anatolici che ebbero stretti rapporti con la Grecia, come la Lidia, la Caria, la Frigia e la Licia. È stato inoltre più volte argomentato un rapporto fra l’Odissea ed il poema di Gilgamesh: allo stato attuale degli studi esso non è però ancora venuto completamente in luce. Su tutte queste cose interessanti 28 G. Broccia, La questione omerica, Sansoni, Firenze, 1979, pag. 5. La “questione omerica” fu fatta oggetto di canzonatura già da Luciano di Samosata (Var. Hist., II, 50). 29 Come ha correttamente sostenuto M. Durante, «i poemi omerici sono il punto di arrivo di una lunga vicenda di esperienze poetiche. Molti indizi lo rivelano, ma la testimonianza fondamentale [...] è nel linguaggio, dove l’antico coesiste col nuovo» (Sulla preistoria, op. cit., vol. I, pag. 17). Come ha confermato anche L. Canfora, «una metrica raffinata e matura, quale quella che regola la poesia epica, ci fa capire in modo diretto ed inequivoco che abbiamo a che fare, al cospetto dei poemi omerici e di Esiodo, con artisti che costituirono il culmine di una tradizione culturale che durava quanto meno da decenni; del resto, l’esperienza di varie civiltà dimostra che si conservano solo i prodotti delle età colte» (L. Canfora, Storia…, op. cit., pag.V). 30 I più antichi documenti della Grecia risalgono alla fine della età della pietra, e testimoniano di una civiltà esistita a Creta e nelle isole Egee. La nostra conoscenza di questa civiltà è basata su materiale abbondante ed abilmente selezionato, ma la sua interpretazione rimane problematica soprattutto in quanto si basa su monumenti e sculture, non su testi letterari. I costruttori degli antichi palazzi cretesi parlavano comunque una lingua diversa dal greco, ma questa civiltà aveva «ben pochi o nessuno di quei tratti che noi associamo con la grecità [...]. Tra i palazzi preistorici di Creta, Troia o Micene, e le civiltà che conosciamo sotto il nome di civiltà greca, intercorre una età oscura che si estende per svariati secoli. È in questa età oscura che dobbiamo ricercare le origini prime della Grecia» (G. Murray, Le origini…, op. cit., pag. 43), ed in questo senso i poemi omerici sono una delle fonti più utili. 33 iL Pensiero omerico e su molte altre, che mostrerebbero gli originari legami fra Oriente ed Occidente, non sarà possibile soffermarci31, dovendo, per l’approccio stesso del nostro libro, e per ragionevoli impegni editoriali, limitarci all’essenziale. Diciamo allora che va sicuramente abbandonata la tesi vigente ancora nel V secolo a.C. (messa in crisi per la prima volta, come noto, da Aristotele nella Poetica, 1459 a-b), in base a cui si riteneva che Omero fosse non solo l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche dell’intero ciclo epico, degli inni e di altre opere minori32. Dobbiamo inoltre diffidare – nonostante il credito attribuitogli in parte da Erodoto e Tucidide – di Omero come storico, valutando sempre con attenzione ciò che egli dice delle istituzioni politiche, giuridiche e culturali dei vari popoli. Tuttavia, dobbiamo tenere in debito conto la lezione ermeneutica di G. B. Vico, che nella sua Scienza Nuova (1730-1744), nel capitolo dedicato alla Discoverta del vero Omero, ben comprese che la struttura della poesia omerica è collettiva, ovvero che le figure morali, positive e negative, degli eroi e degli anti-eroi, dovevano costituire per Omero dei modelli storico-sociali di riferimento, secondo i casi da seguire o da evitare. Questo, come mostreremo, il contenuto più importante, ed ancora attuale, del pensiero omerico. Potremmo dilungarci molto sulla presumibile etimologia del nome Omero, nonché sulle numerose sviste che costellano i poemi omerici (come ad esempio il famoso muro difensivo eretto davanti alle navi greche, che a volte c’è ed a volte non c’è, o la ricomparsa in canti successivi di personaggi morti in canti precedenti: tali sviste condussero, in epoca latina, ad elaborare il famoso motto secondo cui «anche Omero, talvolta, dormicchia …»), sulla presenza di interpolazioni successive che così tanto rafforzano le convinzioni dei pluralisti. Ciò che più conta 31 Molto utile, su tutte queste questioni, l’opera del comparatista P. Boitani, Le orme di Ulisse. Figure di un mito, Il Mulino, Bologna, 1992. 32 Pur relegando l’osservazione in nota, non essendo le questioni letterarie l’oggetto specifico di questo testo, va comunque ricordato che Iliade ed Odissea furono due poemi di un complesso molto più grande, il cosiddetto «ciclo troiano» (kyklos), composto di 8 epe i quali si allacciavano con precisione l’uno all’altro. Cinque epe, di cui l’Iliade era il secondo, narravano le vicende della guerra di Troia, dalle cause della guerra fino alla presa della città; il sesto narrava i nostoi, ovvero i ritorni in patria dei vincitori (escluso Odisseo); il settimo era l’Odissea, mentre l’ottavo trattava degli ulteriori viaggi di Odisseo e della sua morte. Iliade ed Odissea erano i testi più voluminosi, ma è evidente, anche solo da questa breve nota, che abbiamo perso molto (e non menzioniamo qui nemmeno il cosiddetto «ciclo tebano», che ancora Callino, nel VII secolo, attribuiva ad Omero). 34 La questione omerica affermare però, in un libro come questo, è che se anche i poemi omerici non furono opera, dall’inizio alla fine, di una sola mano, essi furono comunque opera di un solo spirito, quello greco, tutto volto alla ricerca del «bene comune» (Iliade, IX,101); questo il messaggio che sarà più volte ripetuto in queste pagine. Prima di entrare nel merito di questo messaggio, cercheremo in ogni caso di delineare con un minimo di chiarezza il contesto storico-sociale dell’epoca omerica, poiché solo così – dato il nesso imprescindibile fra contesto storico-sociale ed espressione culturale di un’epoca – se ne potrà comprendere con maggiore profondità l’opera. 35 iL contesto storico-sociaLe omerico Come ha scritto correttamente C. Miralles, «i poemi omerici si situano a cavallo tra la civiltà aristocratica, che ha per centro la casa o il palazzo (oikos) del nobile, ed una nuova forma di aggregazione umana, la polis»33. Queste poche parole illuminano bene i cinque secoli (dal XII all’VIII) che, ad avviso pressoché unanime, sono in vario modo presenti nella descrizione dei poemi omerici. Inutile rimarcare che è la civiltà aristocratica ad occupare il ruolo più importante: tutto ciò si evince dai contesti, dalle storie e dai personaggi principali dell’Iliade; nell’Odissea soprattutto, però, cominciò a farsi strada l’idea della polis come luogo cardine della comunità sociale, come avamposto simbolico della centralità delle leggi, in cui le decisioni più importanti venivano prese insieme. M. Finley ha correttamente sostenuto che il modo in cui si svolse il passaggio dalla aristocrazia alla polis fu un processo che, nei dettagli, «non siamo in grado di delineare, ma la fase decisiva deve essere vista nella creazione di istituzioni che sottomettano anche gli uomini più potenti ad organismi ed a leggi provviste di una autorità formalmente legittima»34. Se i poemi omerici, in ogni caso, descrissero ancora in prevalenza una società aristocratica, la successiva società democratica, descritta soprattutto dalla filosofia classica, espresse valori etici che si situarono – a differenza di quanto sostiene, come mostreremo, la maggioranza degli interpreti – su un piano di sostanziale continuità. Trattando però più propriamente del contesto storico-sociale omerico, nelle sue linee generali (all’interno delle quali occorre rimanere, data l’ampiezza del periodo considerato e la scarsità delle conoscenze in merito), possiamo affermare che l’economia omerica attribuì un ruolo preminente – come accadde ancora, in Grecia, per alcuni secoli35 – alla agricoltura ed alla pastorizia, mentre l’artigianato fu di modesta entità; il commercio, poi, fu poco o nulla praticato dai Greci, in quanto C. Miralles, Come leggere Omero, Rusconi, Milano, 1992, pag. 14. M. Finley, La Grecia dalla preistoria all’età arcaica, Laterza, Roma-Bari, 1975, pag. 117. 35 Rinviamo, per la descrizione del contesto storico-sociale dell’epoca classica, alla prima parte di L. Grecchi, L’umanesimo di Plotino, op. cit. . 33 34 37 iL Pensiero omerico considerato attività disonorevole36 (assai più di quanto fosse considerato disonorevole il lavoro manuale: ricordiamo che la mitologia greca conobbe un dio-fabbro, Efesto, e che né Odisseo né altri aristocratici disprezzarono il lavoro manuale, se effettuato per libera scelta). La priorità dell’agricoltura – simboleggiata anche dal fatto che, in una economia non monetaria come quella omerica, il calcolo dei valori di scambio si svolgeva ancora prevalentemente in buoi ed in unità di grano – rappresentava la priorità della produzione di quanto più era necessario per la sussistenza della comunità sociale37; se le modalità di tale produzione possono essere definite “aristocratiche” (in quanto la produzione fu effettivamente lasciata, in larga parte, a lavoratori salariati ed a servi domestici)38, è comunque da ritenere “democratica”, ovvero comunitaria, la ricerca primaria dei valori d’uso (ossia della utilità sociale) rispetto ai valori di scambio (ossia al vantaggio individuale). Come ha sintetizzato molto bene un attento studioso del contesto storico-sociale omerico quale A. Mele, il fatto che i personaggi aristocratici dei poemi omerici privilegiassero il divino sull’umano, è significativo di come in generale la cultura omerica privilegiasse il sociale sull’individuale, ossia i valori comunitari rispetto a quelli crematistici, poiché questo era l’unico modo per mantenere l’armonia sociale complessiva39. Rispetto, dunque, a tutti quegli studiosi (sia di impianto marxista che liberale) che ritengono l’economia omerica come prevalentemen- «Il commercio di quest’epoca appare concentrato nelle mani di naviganti stranieri, in particolare Fenici, e si presenta con qualche connotato sociale e morale negativo» (D. Musti, Introduzione alla storia greca, Laterza, Roma-Bari, 2003, pag. 37). Concorde con questa interpretazione anche E. Cantarella, per la quale il mondo omerico «riprovava eticamente e socialmente il commercio» (E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, Giuffré, Milano, 1978, pag. 202). 37 Come ha rimarcato L. Bottin, nell’epoca omerica «il principio della cooperazione viene privilegiato e collocato in posizione dominante, fino a organizzare le coscienze, le rappresentazioni collettive» (L. Bottin, Reciprocità e redistribuzione nella antica Grecia, Clesp, Padova, 1979, pag. 27). 38 La parola «schiavitù», come abbiamo mostrato nella prima parte del nostro L’umanesimo di Plotino, non si addice bene a questa realtà. Scrive bene in merito, peraltro, L. Canfora, affermando che «il quadro di insieme che emerge dall’Odissea è oramai quello di un oikos autarchico, ossia in sostanza una unità economica di produzione e consumo»; è corretto infatti parlare di «rapporto paternalistico vigente nell’oikos odissaico», in cui «servi e padroni si sono di molto avvicinati» (L. Canfora, Storia…, op. cit., pagg. 16-17). 39 A. Mele, Società e lavoro nei poemi omerici, Università Statale di Napoli, 1968, pag. 8. 36 38 Il contesto storico-sociale omerico te caratterizzata da guerre e saccheggi, e dunque come una economia predatoria, occorre a nostro avviso opporre, attraverso un radicale riorientamento, l’immagine di una economia agricola gestita – nonostante la presenza di regimi aristocratici – in modo sostanzialmente comunitario. Nei poemi omerici, del resto, fu assai frequente il reciproco rimando fra agricoltura e vita civile. Pensiamo ad esempio al modo in cui Odisseo, in vari luoghi dell’Odissea, definì gli uomini come «mangiatori di pane» (VIII, 222; IX, 89, 191; X, 101; ecc.), ossia come quegli esseri che, come caratteristica principale, hanno quella di vivere della produzione, lavorazione e distribuzione comunitaria del grano coltivato, e non quella di essere brutali cacciatori di carne (come ad esempio i Lestrigoni). Inoltre, il fatto che l’agricoltura sia il più importante segno di civiltà è segnalato anche dalla circostanza, non casuale, che il primo gesto che Odisseo – sempre attento alla sacralità dei riti – si trovò a compiere quando tornò ad Itaca fu di baciare il «fertile campo» (XIII, 354), e che quando egli cercò un segno di umanità non ricercò mura o fortificazioni, bensì campi coltivati, segno del comune lavoro umano40; l’agricoltura infatti, finalizzata al bene comune, era ritenuta segno di civiltà nella medesima misura per cui il commercio, finalizzato al vantaggio individuale, era ritenuto segno di inciviltà: in questo, come mostreremo, i poemi omerici ci offrono le prime testimonianze anticrematistiche della cultura greca. Uno dei fini principali che questo libro si pone è del resto proprio quello di sottolineare la continuità umanistica fra Omero ed i filosofi classici41, laddove quasi sempre gli interpreti – sia ponendo innanzi una presunta centralità “agonale” dell’etica omerica, sia ponendo innanzi addirittura una presunta assenza di umanità nei personaggi omerici – ravvisano una frattura ed una distanza. Mostreremo tra poco, analizzando i poemi, come questi luoghi comuni ermeneutici siano da ritenere errati; sintetizziamo però ora, per concludere la descrizione del contesto storico-sociale omerico, i motivi per cui esso non fu radicalmente differente da quello dell’epoca classica, e come dunque anche i valori etici non furono così differenti. Innanzitutto, la preminenza dell’agricoltura sull’artigianato, e la marginalità del commercio, furono tratti comuni sia all’epoca omerica che all’epoca classica; la gestione comunitaria (per quanto lasciata, nella sua dinamica fondamentale, alla iniziativa di singole persone)42 40 Un atteggiamento opposto gli attribuisce invece Euripide nel Ciclope (115-116). 39 iL Pensiero omerico dell’attività produttiva, svolta da proprietari, salariati e servi che lavoravano fianco a fianco, fu anch’essa tratto comune all’epoca omerica ed all’epoca classica43, così come l’assenza di centralità della schiavitù44. Questi tratti comuni lasciano pensare che anche le idee ed i valori delle due epoche non poterono essere in così radicale opposizione, contrariamente a quanto sostiene la maggioranza degli interpreti. La «aristocrazia» omerica non escludeva infatti la «democrazia», come provano sia la struttura dialettica delle istituzioni giuridiche e delle assemblee politiche, sia il fatto che sovente, nei poemi omerici, i meno potenti si trovavano a criticare duramente i più potenti senza patirne gravi conseguenze. A parte infatti il famoso episodio di Tersite (su cui torneremo), percosso da Odisseo non tanto per le sue critiche ad Agamennone – che neanche Odisseo infatti, per quanto meno potente di Agamennone, risparmia (ad esempio Iliade, IV, 349 ss.) – quanto per il suo continuo disturbo demoralizzante per l’esercito greco45, nell’Iliade assistiamo anche alla critica del meno potente Achille al più potente Agamennone, e nell’Odissea a servitori che si rivelano dotati di maggiore dignità e coraggio rispetto ai nobili (pensiamo al porcaro Eumeo in rapporto ai Come ha ricordato infatti M. Detienne, anche in Omero «il poeta [...] è un maestro di verità» (M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari, 1983, pag. 13). 42 Corretta, in merito, la sintetica affermazione di A. Mele, il quale ha ricordato che, in epoca omerica, vi fu un «regime di proprietà individuale che convive con la proprietà collettiva» (Società…, op. cit., pag. 66), come nella società micenea. 43 Dice bene ancora A. Mele che, nelle case aristocratiche come quella di Odisseo, è corretto parlare «di mitezza della schiavitù omerica, di assimilazione ai liberi, di vita comune e di lavori comuni con i padroni, di rispetto e di affetto dei padroni per gli schiavi [...], di relativa autonomia ed indipendenza economica» (Società…, op. cit., pag. 150). Questa tesi ci pare molto ben più sostenuta rispetto a quella opposta di A. W. Adkins, per il quale l’economia omerica era invece ritagliata su quella dei Ciclopi. 44 Per la argomentazione di quanto qui asserito dobbiamo ancora una volta rinviare, per evitare ripetizioni, alla prima parte del nostro L’umanesimo di Plotino, citato. 45 L’episodio di Tersite, a nostro avviso, è stato frainteso dalla quasi totalità degli interpreti, fra i quali A. Magris, secondo cui Tersite subisce «un sopruso [...] perché ha detto qualcosa di non gradito ai capi» (A. Magris, L’idea di destino nel mondo antico, Del Bianco, Trieste, 1984, vol. I, pag. 263). Secondo Magris, «nella visione del mondo codificata dai poemi omerici, la hybris definisce il comportamento scorretto nei confronti di un membro della stessa classe [...]. Generalmente in Omero non si parla di hybris quando l’oltraggio colpisce un appartenente alle classi inferiori» (ibidem, pag. 264). Con questa tesi non ci è però possibile, come mostreremo meglio in seguito, concordare, sia in quanto l’episodio di Tersite è uno dei pochissimi rapporti conflittuali fra persone di classi sociali diverse presenti nei poemi omerici (il che non rende possibile generalizzare), sia soprattutto in quanto l’etica omerica, con il connesso tema della hybris, non è restringibile a classifi41 40 Il contesto storico-sociale omerico Proci). Non vi fu dunque, nei poemi omerici, alcun incontrastato dominio di un’etica aristocratica, competitiva ed agonale; in essi anzi, come mostreremo meglio in seguito, per la prima volta in Grecia si affermò che la vera nobiltà è quella dell’animo, e che dunque le virtù sono più importanti delle ricchezze, le quali, per dare onore, possono solo essere acquisite con merito. Concetti, come evidente, molto diversi anche da quelli imperanti oggi nel moderno capitalismo globalizzato. cazioni “sociologiche”, possedendo una portata universale. In questo senso, possiamo affermare che l’umanesimo omerico possiede una consistenza onto-assiologica “interclassista” molto maggiore di quanto comunemente si ritiene. 41 omero, esiodo e La fiLosofia In un testo probabilmente composto dal sofista Alcidamante, è attestato un presunto certame poetico fra Omero ed Esiodo, che avrebbe visto la vittoria di Esiodo. Gli studi storici hanno mostrato che è impossibile che Omero ed Esiodo possano essersi incontrati, in quanto il primo è collocabile nell’VIII secolo, ed il secondo nel VII. Ciò che importa comunque, per i nostri fini, non è tanto rilevare se tale incontro ci sia stato o meno, quanto rilevare se i contesti storico-sociali dell’epoca omerica ed esiodea siano stati simili, e soprattutto se lo siano stati i contenuti etici delle relative opere. Il fatto, poc’anzi rimarcato, che nel contesto omerico assunse priorità una agricoltura gestita in modo comunitario, e che ciò accadde anche nel contesto esiodeo (come rimarcato appunto da Esiodo in Opere e giorni), pone, a nostro avviso, nella giusta direzione; occorre però non indulgere in semplicistiche assimilazioni. Molti studiosi infatti, come ad esempio recentemente A. Jellamo, hanno affermato che «il mondo di Esiodo è assai diverso dal mondo di Omero»46, essendo quello di Esiodo un mondo in cui il diritto si era oramai stabilizzato, ed essendo invece il mondo di Omero un mondo in cui la guerra la faceva ancora da padrona. Le argomentazioni di questi studiosi, solitamente basate sulla assenza nei poemi omerici di termini come nomos, isonomia, ecc., non convince però molto; una analisi adeguata del contesto storico omerico ed esiodeo, quale quella che abbiamo cercato di svolgere nel nostro Diritto e proprietà nella Grecia classica (Petite Plaisance, Pistoia, 2011), mostra infatti che le istituzioni giuridiche erano molto attive anche in epoca omerica (pur utilizzando ancora prevalentemente termini legati ad un contesto di pensiero mitico-religioso), così come mostra che le guerre non furono assenti neppure in epoca esiodea47. In sostanza, le argomentazioni sulla presunta radicale diversità dell’epoca e dell’opera omerica rispetto a quella esiodea non sono molA. Jellamo, Il cammino di Dike, Donzelli, Roma, 2005, pag. 44. Senza entrare nel merito della questione filologica, ci pare avesse ragione M. Gigante (Nomos basileus, Glaux, Napoli, 1956) a contestare alcuni dati di fondo sottostanti a queste interpretazioni. 46 47 43 iL Pensiero omerico to convincenti, in quanto i contesti economico-sociali omerici ed esiodei furono storicamente e geograficamente molto vicini; in Omero infatti, così come in Esiodo, assunsero centralità sia l’agricoltura, sia la comunità, sia la giustizia. È nota, in merito, l’affermazione di Esiodo (Erga, 202-212) in cui si sostiene che, mentre fra gli animali vige la legge del più forte, fra gli uomini deve vigere la legge del diritto; assai meno noto (o meglio, assai meno compreso) è che questo principio fu già presente in Omero, come quando nell’Iliade emersero in modo evidente il biasimo per il «leone» Achille e la sua disumana ferocia, ed al contempo l’elogio per «l’uomo» Ettore e la sua composta civiltà. Non soltanto i temi del diritto e della giustizia furono compresenti nelle opere di Omero ed Esiodo, ma anche i più originari temi etici della «misura» e del «limite». In Omero, infatti, si afferma in più di una occasione che «la giusta misura, in ogni cosa, è meglio» (Odissea, VII, 308-310; XV, 70); Omero elogia, ad esempio, sia il fatto di parlare es meson (in pubblico, apertamente) ponendosi al centro, in maniera equidistante dagli ascoltatori (Iliade, XXIII, 685 ss.), sia il fatto di porre i beni del bottino di guerra al centro dell’assemblea, a distanza uguale da tutti coloro che hanno diritto a prenderne parte (Iliade, XVIII, 497 ss.). Chi si pone “in mezzo” si pone, nei poemi omerici, in una posizione super partes: nella terra di nessuno che separa i due eserciti opposti, infatti, si pongono gli dèi, così come fra le pretese dei contendenti si pone il giudice, arbitro tra le parti (Iliade, III, 69; XXIII, 574). Ebbene: queste tematiche furono indubbiamente presenti anche nell’opera di Esiodo, come risulta chiaramente, fra l’altro, dalla ottima introduzione di C. Cassanmagnago alle sue opere. Lo studioso italiano ha infatti correttamente sostenuto che «Omero ed Esiodo [...] promossero il senso dell’uomo, del soggetto, del terreno, del terrestre, elementi così tipicamente greci [...]. In particolare i poemi omerici portano in sé alcuni di quei caratteri dello spirito greco che hanno reso possibile la nascita della mentalità speculativa: il senso della misura e dell’armonia, l’arte della motivazione, per cui il poeta ricerca, sia pure a livello fantasticopoetico, la ragione dei fatti; la realtà è presentata nella sua interezza, ed è permanente la ricerca della posizione dell’uomo nell’universo»48. Ancora correttamente, Cassanmagnago afferma che in Grecia «l’idea dell’uomo è dominante, a partire dall’antropomorfismo degli dèi che 48 C. Cassanmagnago, introduzione a Esiodo. Tutte le opere e i frammenti, Bompiani, Milano, 2010, pag. 36. 44 Omero, Esiodo e la filosofia ci è familiare da Omero»49. Con Omero ed Esiodo siamo già «all’epoca dell’uomo, della responsabilità, della giustizia sempre disattesa, eppure necessaria per sé e per gli altri, cioè di una condotta conforme all’ordine del mondo ed atta a costruire un ordine corrispondente»50; per questo i versi di questi poeti «hanno in sé una carica rivoluzionaria indubitabile»51. Un altro tratto comune ad Omero ed Esiodo che caratterizza anche il contesto sociale classico, è la centralità della famiglia. Ci siamo già soffermati in altri libri a rimarcare come, in epoca classica, la famiglia svolgesse un ruolo molto importante nella comunità greca, e come la necessità di avere cura della famiglia di origine (genitori e nonni) sia più volte sottolineata, soprattutto da Platone52. Ebbene: la centralità della comunità famigliare è a più riprese ribadita, e con forza, anche nei poemi omerici. Nell’Iliade, infatti, pure il «duro» Achille, ogni volta che parla con la madre Teti, si commuove (I, 357; XVIII, 35; XXIV, 95); celeberrimo è anche l’episodio con cui Ecuba, madre di Ettore, cerca in ogni modo dalle mura di Troia di convincere il proprio figlio a non combattere con Achille rinunciando a tutti i propri valori etici, pur di non perderlo (XXII, 78 ss.). Nell’Odissea poi, come dimostra il fatto che tutto il viaggio di ritorno di Odisseo fu guidato dalla ferma volontà di riabbracciare la moglie Penelope ed il figlio Telemaco, la centralità dei rapporti famigliari emerge con anche maggiore rilevanza; Odisseo afferma infatti più volte, ricordando i propri genitori, di essere «nato né da quercia né da pietra» (IX, 163), e mostra nell’Ade un incontro particolarmente toccante con la madre Anticlea, che riprenderemo nel secondo capitolo. Come ha ricordato anche A. Mele, «la famiglia appare in Omero partecipe di una Ibidem, pag. 37. Ibidem, pag. 77. 51 Ibidem, pag. 85. Cassanmagnago fa bene a lamentare che oggi ci si perde nei dettagli, ossia che «di fatto, come rivela la produzione critica più recente, l’attenzione sia meno portata all’uomo ed alla interpersonalità e di più al formale, allo stilistico, allo strutturale, al testuale; ciò è rivelatore di un’epoca, quella contemporanea, che pare fatichi a passare dal segno all’idea immanente nel testo, struttura di segni. Ebbene, in tal modo non si capirà l’idealità di quei tempi lontani» (ibidem, pag. 86). In Omero, ed in Esiodo, emerge invece un messaggio importante anche per l’oggi, ossia che «la giustizia è garanzia per tutti, ma soprattutto – grande conquista speculativa che fonda l’umanesimo classico – è il carattere distintivo dell’uomo» (ibidem, pag. 88). 52 Rinviamo, in particolare, a L. Grecchi, Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici greci, per la buona vita, Petite Plaisance, Pistoia, 2008, pagg. 7-9. 49 50 45 iL Pensiero omerico comunità di culto [...] e di una comunità di cultura, di cui è specchio la circolazione dei miti e la formazione dell’epos stesso; essa è al centro di una serie di relazioni extrafamiliari, di cui l’ospite, i compagni, lo Stato, la terra patria [...] sono manifestazioni evidenti»53. Il tratto comune più importante fra epoca omerica ed epoca esiodea (e classica) fu però la centrale distinzione fra pubblico e privato (Odissea, II, 42-49; III, 82 ss.; IV, 314 ss.; XX, 264 ss.), provata appunto dal frequento uso, nei poemi omerici, dei termini opposti demion (pubblico) ed idion (privato). La Grecia arcaica è stata infatti, a nostra conoscenza, la prima civiltà antica54 a sviluppare apertamente il senso di una comune appartenenza ad una entità collettiva (la polis). In contrapposizione alla sfera del privato, la sfera del pubblico si delinea in effetti chiaramente, in primo luogo, come la sfera delle cose appartenenti alla comunità, ovvero delle cose che hanno una destinazione di comune interesse; il bottino di guerra, ad esempio, è pubblico (Iliade, I, 118 ss.), sia in quanto appartenente alla comunità, sia in quanto destinato ad una finalità di comune interesse, tanto che solo l’assemblea può disporne. La stessa cassa di guerra è finanziata da beni privati che vengono destinati all’utilizzo comune (Iliade, XVII, 248-251); da notare che, in epoca omerica, rientrava nella sfera del pubblico anche lo svolgimento di alcune attività lavorative considerate di interesse sociale. Contrariamente a quanto si è soliti ritenere, già con Omero la polis, luogo per eccellenza del «pubblico», risulta essere molto più importante della casa (oikos), luogo per eccellenza del «privato». Ricordiamo infatti che sin dalle famose incisioni sullo scudo di Achille, nell’Iliade, sono rappresentate delle poleis, ovvero organizzazioni comunitarie di uomini riunite attorno alla consapevolezza che prima degli interessi privati sta un interesse collettivo, su cui si basa appunto la sopravvivenza della collettività55; la centralità del diritto e della politica fu in effetti, a partire dall’epoca omerica, il tratto caratterizzante di tutta la civiltà greca. A. Mele, Società…, pag. 42. Rinviamo, in merito, a L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia cinese; L’umanesimo della antica filosofia indiana; L’umanesimo della antica filosofia islamica, tutti editi da Petite Plaisance nel 2009. 55 Questo punto è stato ottimamente chiarito da E. Cantarella: «Le città dello scudo sono delle poleis. Sono organizzazioni in cui esistono persone istituzionalmente abilitate ad esercitare la giurisdizione, ed alle quali [...] spetta anche il compito di rappresentare la collettività nei rapporti internazionali» (E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano, 2009, pag. 101). 53 54 46 Omero, Esiodo e la filosofia Il mondo che i poemi omerici rispecchiano fu in effetti tutt’altro che primitivo. Il vivere sociale era retto da chiare norme etiche e politiche, affidate alla comunità che si faceva custode severa della morale collettiva. Spesso si afferma essere ancora mancante, nell’epoca omerica, una sviluppata cultura giuridica, in quanto la punizione sociale di colpe pure molto gravi, come l’omicidio, era lasciata sostanzialmente alla vendetta privata; tuttavia, anche là dove latitava la sanzione giuridica, era comunque presente la sanzione sociale, e spesso anche quella religiosa (che di quella sociale costituiva una dichiarazione più severa: Zeus, e gli dèi in genere, punivano infatti proprio quelle colpe che non avrebbero avuto vendicatore in terra, specie quelle contro i genitori, gli ospiti e i supplici). Questo, nelle sue grandi linee, il contesto storico-sociale che emerge dai poemi omerici, e che qualcuno (sia in campo “liberale” che in campo “marxista”, dato che ambedue queste scuole sono abituate a vedere nella antichità prevalentemente arretratezza, e nella modernità prevalentemente progresso) potrebbe ritenere “idealizzato”, per l’assenza di centralità della guerra nei rapporti esterni, e di autoritarismo nei rapporti interni. Questa descrizione è però condivisa da molti studiosi (Canfora, Cantarella, Mele, Zambarbieri, ecc.), ed è inoltre suffragata anche da quanto Omero ci racconta essere accaduto ad Itaca durante la ventennale assenza di Odisseo, in cui la vita – eccezion fatta che nella casa di Odisseo, dove comunque i Proci, pur violando molte norme etiche non osarono sovvertire il potere famigliare – trascorse normalmente anche senza la convocazione della assemblea politica; dall’Odissea in particolare emerge che i motivi schiettamente monarchici furono solo il riflesso di una età lontana nel tempo, quando Micene era al centro della potenza che promosse l’impresa contro Troia56. Come ha correttamente sostenuto E. Ciccotti, già dall’Iliade si ha lo «specchio di una società largamente sviluppata; nelle forme politiche semplicemente abbozzate già spuntano i rudimenti del più complesso posteriore ordinamento dello Stato», oltre che «concetti progrediti del diritto e della convivenza civile»57. Per il pensiero greco, fin da Omero, l’uomo ideale fu in effetNon è casuale, in merito, che anche nell’isola dei Feaci, caratterizzata da istituzioni apparentemente monarchiche (vi sono un re Alcinoo ed una regina Arete), la decisione di dare ospitalità ed aiuto ad Odisseo sia presa dai dodici basileis, ovvero da un consiglio di aristocratici che coadiuvava nelle decisioni Alcinoo, ed il cui peso deliberativo pare determinante (Odissea, VIII, 390 ss.). 57 E. Ciccotti, Storia greca, Vallecchi, Firenze, 1952, pag. 61. 56 47 iL Pensiero omerico ti colui che non mirava esclusivamente ad eternare la propria gloria, ma pensava soprattutto alla realizzazione del bene comune, in maniera che possiamo già definire “politica”. Come ha correttamente sostenuto N. Bardelli, «nei poemi di Omero (Iliade, I, 91; IX, 166; ecc.) si possono constatare [...] delle prove non dubbie che nella coscienza del popolo incominciava a farsi strada una tendenza a riflettere sulla condotta dei re ed a discuterla [...] che era il segno precursore dei tempi nuovi. Nel VII secolo a.C. è ben difficile trovare un angolo di terra ellenica dove non si levassero proteste contro l’iniquità, la corruzione degli antichi costumi e la cattiva amministrazione della giustizia»58; in quest’epoca «il periodo delle costituzioni, per così dire, incomincia, il che significa che si inaugura anche per l’Attica l’era del diritto umano»59. Sono stati pochi gli interpreti che hanno colto non tanto la continuità fra Omero ed Esiodo, quanto la continuità dei due poeti con la successiva tradizione filosofica. Fra questi pochi vi è sicuramente R. Mondolfo, secondo cui «la formazione dell’ideale filosofico [...] forma il vincolo più intimo ed essenziale di continuità tra la riflessione morale più antica dei poeti epici [...] e l’umanesimo di Socrate»60. Eppure, tale continuità è presente, e passa attraverso il rapporto fra mythos e logos. Ricordiamo, in merito, l’atteggiamento ambivalente del primo grande “storico della filosofia”, ossia Aristotele. Da un lato, infatti, egli (come Platone) affermò che la filosofia nasce dalla meraviglia, e che dunque fra la filosofia ed il mythos («un insieme di cose meravigliose»)61 vi è un rapporto di continuità, in quanto appunto «la meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza, e desiderio di sottrarsi a questa, cioè di apprendere, di conoscere, di sapere»62; dall’altro lato, su Omero, Esiodo e gli altri “teologi” narratori di mythoi, Aristotele (così come, ancora una volta, Platone)63 assunse un atteggiamento di grande distacco, affermando esplicitamente che «non vale la pena di prendere seriamente in N. Bardelli, La giurisdizione in Atene, L’erma di Bretschneider, Roma, 1972, pag. 17. Ibidem, pagg. 23-24. 60 R. Mondolfo, Moralisti greci, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, pag. 7. Mondolfo ha anche rimarcato che «nei poemi omerici – e non soltanto nelle parti più recenti – appare spesso implicito il pensiero che più tardi Esiodo esprimerà esplicitamente: è artefice del proprio male l’uomo che è artefice del male altrui; il cattivo consiglio è pessimo per chi lo delibera» (ibidem, pag. 47). 61 Aristotele, Metafisica, 982 b 17-21. 62 E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. VI. 63 Emblematico, in merito, Repubblica, III, 387 b. 58 59 48 Omero, Esiodo e la filosofia considerazione queste elucubrazioni mentali. Bisogna, invece, cercare di imparare da coloro che dimostrano ciò che dicono» (Metafisica, 1000 a 9-20), ossia dai filosofi attenti al logos, in quanto solo questi ultimi ricercano realmente la verità64. La posizione ambivalente di Aristotele, se considerata nella sua interezza, è solo apparentemente contraddittoria; il mythos infatti, nel primo pensiero greco, non si pose affatto in contrapposizione al logos, ma ne costituì per alcuni aspetti la necessaria integrazione, come Aristotele ben comprese65. Solo o soprattutto nella modernità, studiosi desiderosi di opporre – e far prevalere – i contenuti simbolici rispetto a quelli razionali (pensiamo a Nietzsche, Heidegger ed ai loro epigoni contemporanei)66, hanno contribuito a radicalizzare la opposizione fra mythos e logos, che in epoca greca non era affatto sentita come tale; si sono dovuti attendere interpreti contemporanei particolarmente intelligenti, come J. De Romilly, per rimarcare – data la grande presenza, anche nella poesia arcaica, di riflessioni di carattere generale – che anche Omero ed Esiodo «amavano ricorrere a principi generali sulla vita umana»67, e dunque ad avvicinare il mythos al logos. Pur, dunque, senza indulgere con le tesi di chi – come Teagene di Reggio nel VI secolo a.C. – giunse a parlare di un «Omero filosofo», Come ha infatti sostenuto J. P. Vernant, rimarcando la rilevanza dello Stagirita in merito a questa tesi, «nella tradizione di pensiero che ci viene dai Greci, caratterizzata com’è dall’impronta del razionalismo, il mythos, malgrado il suo posto, il suo impatto e la sua importanza, quando non è puramente e semplicemente rifiutato in nome del logos, viene svalutato nei suoi aspetti e nelle sue funzioni specifiche» (J. P. Vernant, Mito e società nella antica Grecia, Einaudi, Torino, 1981, pag. 112). 65 Come ha correttamente sostenuto C. Cassanmagnago, «a prima vista, invero, il mondo del mito pare del tutto altro da quello filosofico successivo, che ha nel logos (la cui essenza è dimostrativa) il suo strumento, il suo modello, la sua guida, il suo fine. Ma non è così» (C. Cassanmagnago, Introduzione a Esiodo. Tutte le opere, op. cit., pag. 29). 66 Circa il rapporto fra pensiero razionalistico e pensiero simbolico – un rapporto a nostro avviso di solidarietà antitetico-polare – ci siamo soffermati in un saggio recente, ricompreso nella raccolta: G. Pasquale, a cura di, Miscellanea di studi in onore di Umberto Galimberti, Carocci, Roma, 2012. 67 J. De Romilly, La costruzione della verità in Tucidide, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pag. 36. Un altro interprete intelligente è stato E. Paci, per il quale «tra l’epos omerico [...] e la ricerca filosofica non c’è un netto distacco, ma soltanto una differenza di grado» (E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Ed. Radio Italiane, 1959, pag. 21). Nella medesima direzione N. Abbagnano (Storia della filosofia, Utet, Torino, 1991, vol. I, pag. 13), G. Reale (Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, 1991, vol. I, pag. 25) e J. Stenzel (Platone educatore, Laterza, Roma-Bari, 1966, pag. 24). 64 49 iL Pensiero omerico non si può negare che, nella Grecia arcaica (come ha ben rimarcato, fra gli altri, W. F. Otto)68, il mito abbia costituito una forma di sapere organizzato, tanto da poter parlare tranquillamente di una corrente ideale prefilosofica che giunse da Omero fino a Socrate. In Omero, infatti, fu presente non solo un abbozzo di “dialettica” (si è giunti a calcolare che il 45% dei passi dell’Iliade sia costituito da dialoghi, e che tale quota salga al 68% nell’Odissea)69, ma anche una ricerca delle ragioni per cui i fatti accadono, e dunque della verità70, nonché un tentativo di comprensione generale del senso dell’intero71. Questo è stato colto da diversi interpreti, fra cui ancora J. De Romilly, per la quale «in un certo senso tutto parte da Omero, dal suo desiderio di arrivare all’essenziale, all’universale: Omero lascia da parte le differenze nazionali ed i tratti individuali»72, per giungere appunto ad una riflessione generale, come fecero poi in somma misura i filosofi classici. Fra gli interpreti italiani che hanno colto questa continuità vi è anche S. Accame, il quale ha sottolineato come il concetto di verità, «che avrà così grande rilievo in seguito per l’indagine critica, rivela già in Omero [...] una importanza ed una pregnanza di significato che testimonia l’elaborazione travagliata del concetto»73. Nella medesima direzione pure A. Magris, il quale ha rimarcato come in Omero vi sia già «la tipica ricerca del principio, che raccoglie in sé la totalità significativa delle cose, il problema del logos [...] Il sapere umano può guadagnare una comprensione unitaria solo nella visione retrospettiva dei fatti, perché la coscienza è nel tempo»74, ossia nella storia; fu presente infatti 68 W. F. Otto, Gli dèi della Grecia, La Nuova Italia, Firenze, 1944, pag. 15, ha parlato di «razionalismo» della mitologia omerica. Omero fu inserito nella corrente del razionalismo greco anche da W. Nestle, Storia della religiosità greca, Sansoni, Firenze, 1973, pag. 29. 69 Come ha scritto correttamente E. Auerbach, «nei poemi omerici accadono molte cose orribili, ma accadono raramente senza che gli uomini parlino» (E. Auerbach, Mimesis, Einaudi, Torino, 1956, pag. 7). 70 Come ha ricordato anche Aristotele, «chi dice le cose come stanno è sincero e, come dice anche Omero, assennato; e, in generale, quest’ultimo è amico della verità» (Etica Eudemia, 1234 a 1-2). 71 Come ha scritto correttamente R. Mondolfo, «il primo apparire di una nozione di legge universale e permanente [...] si ha coi poemi omerici» (R. Mondolfo, Gli albori della filosofia in Grecia, Petite Plaisance, Pistoia, 2009, pag. 18). 72 J. De Romilly, La costruzione…, op. cit., pag. 35. 73 S. Accame, Gli albori della critica, Esi, Napoli, s.d., pag. 10. 74 A. Magris, L’idea…, op. cit., pag. 171. 50 Omero, Esiodo e la filosofia in Omero «l’esigenza universalmente umana di dare un senso alla vita frantumata in istanti, cogliendo la nascosta, unitaria logica dell’essere»75. La tesi della continuità fra poemi omerici e filosofia classica non ha annoverato solo sostenitori; essa, anzi, ha forse addirittura avuto più avversari. Tra i critici più noti di questa tesi si annovera peraltro uno studioso del calibro di H. Frankel, per il quale «in Omero non è contenuto pressoché nulla della filosofia greca e dei suoi stadi preliminari»76; a suo avviso, «l’antico epos eroico assume un atteggiamento sostanzialmente non filosofico: le cose vengono accettate senza discussione [...]. Ciò non impedisce tuttavia che esso abbia alla base, consapevolmente o meno, delle premesse di carattere filosofico»77. Oltre agli argomenti che abbiamo in precedenza esposto, questa stessa ammissione di “inevitabilità” della filosofia nell’opera omerica mostra quanto siano fragili gli argomenti volti a separare Omero dalla filosofia classica; ciò emergerà in maniera forte soprattutto nelle pagine seguenti, in cui l’umanesimo sarà argomentato essere contenuto centrale e costante sia della poesia omerica, sia della filosofia classica. Ibidem. Tesi simili furono condivise anche da K. Kerenyi. H. Frankel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Il Mulino, Bologna, 1997, pag. 32. 77 Ibidem, pag. 108. 75 76 51 L'umanesimo omerico In passato si è sostenuto che, a causa della indeterminatezza nella concezione dell’uomo in Omero (descritto prevalentemente, in modo non unitario, in base alla pluralità delle proprie funzioni psicofisiche)78, e della elevata presenza del divino nella sua opera, l’Iliade e l’Odissea fossero da considerare testi non umanistici, bensì «teologici, mitici»; come ha scritto in merito, ad esempio, G. Reale, «fin dai tempi di Omero, ed ancor prima, era stata ferma convinzione del Greco che la buona e la cattiva fortuna, il buon successo ed il cattivo successo degli uomini, dipendessero formalmente dagli dèi, dal loro favore e dalla loro avversione»79. Senza ripetere qui gli argomenti generali che abbiamo altrove utilizzato contro la tesi del teocentrismo greco80, e prima di sviluppare gli argomenti specifici inerenti Omero, è opportuno rimarcare che la tesi di un presunto teocentrismo omerico è stata confutata da diversi interpreti, fra cui R. Mondolfo (secondo cui almeno nell’Odissea «l’uomo, non gli dèi, è responsabile del suo operare»81) e W. Jaeger (secondo cui già in Omero è chiarissimo «il carattere umanistico del pensiero greco»82). F. Codino poi, come mostreremo ampiamente, ha argomentato come fosse forte la sovrapposizione fra divino ed umano nel pensiero omerico, dove il ruolo di fondamento e di riferimento fu sempre svolto dall’uomo («in Omero l’umanizzazione della società divina tende a diventare completa»83). Abbiamo, per il momento, solo accennato ai tre contenuti che caratterizzano l’umanesimo omerico: la concezione dell’uomo, la responPer una sintetica descrizione della mancanza di unitarietà nella descrizione omerica dell’uomo, è possibile consultare U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano, 2001, pagg. 19-24. 79 G. Reale, Storia…, op. cit., vol. III, pag. 227. 80 L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia greca, op. cit., pagg. 24-31. 81 R. Mondolfo, Problemi del pensiero antico, Zanichelli, Bologna, 1936, pag. 4; nella stessa direzione, fra gli altri, anche E. Bignone, Il libro della letteratura greca, Sansoni, Firenze, 1942, pag. 28. 82 W. Jaeger, Paideia, Bompiani, Milano, 2004, pag. 114. 83 F. Codino, Introduzione a Omero, op. cit., pag. 165. 78 53 iL Pensiero omerico sabilità etica, il rapporto fra umano e divino. Nelle pagine seguenti cercheremo di affrontare questi argomenti nel dettaglio, ponendoci in opposizione a quelle che sono generalmente, in merito, le interpretazioni più diffuse. a. La concezione omerica dell’uomo Come ricordato, la tesi prevalente circa la concezione antropologica omerica è quella per cui, data la rilevanza attribuita alla molteplicità delle funzioni psico-fisiche dell’uomo (il pensiero, il respiro, la vista, l’udito, ecc., e dunque ai vari organi preposti allo svolgimento di quelle funzioni: il cervello, i polmoni, gli occhi, le orecchie, ecc.)84, non ancora teoricamente unificate da un concetto universale di natura umana, «la coscienza della unitarietà della vita spirituale e dell’io sembra ancora mancare»85. La presunta mancanza di tale unità, secondo questa interpretazione prevalente, risulta essere una carenza di non poco conto, in quanto è evidente che un uomo privo di coscienza unitaria è in sostanza un uomo privo di personalità, dunque anche un uomo privo di responsabilità, e pertanto di etica (intesa come norma comportamentale condivisa finalizzata al bene)86; basterebbe questo, se la tesi fosse vera, per negare al pensiero omerico la qualifica di “umanistico”, retroponendolo come pensiero “mitico” o “teologico”, in cui cioè l’uomo non assume ancora centralità. La prima domanda da porsi, per valutare la correttezza di questa interpretazione, è allora la seguente: realmente, nell’opera omerica, l’uomo fu pensato solo come una pluralità non unificabile di funzioni psico-fisiche, come un mero fascio di attività e di organi, e dunque come privo di coscienza, di personalità e quindi di responsabilità? Seguendo una interpretazione filologica molto stretta, sembrerebbe di dover ri84 Rinviamo in merito, per un approfondimento, a P. Manuli-M. Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, Petite Plaisance, Pistoia, 2009. In questo testo si chiarisce, in modo analiticamente argomentato, che almeno fino al V secolo a.C., ovvero alle ricerche di anatomia e fisiologia del medico Alcmeone di Crotone, la sede dell’intelletto era posta non nel cervello, ma nel cuore; ancora Aristotele, peraltro, ricercava il centro della vita spirituale nel cuore. 85 M. Pohlenz, L’uomo greco, Bompiani, Milano, 2009, pag. 4. 86 Dato che, in epoca omerica, la «virtù» coincide con la «buona vita», affermare che esistono solo, concettualmente, singoli organi e non l’uomo nella sua compiutezza, equivale ad affermare che possono esistere, al più, «virtù» di singoli organi, ossia il loro buon funzionamento, ma non la «virtù» dell’uomo nella sua compiutezza; il che cancellerebbe – ma in maniera arbitraria – ogni concezione etica all’interno del mondo omerico. 54 L'umanesimo omerico spondere di sì; la parola «uomo» compare infatti assai raramente nei poemi omerici, spesso sostituita dal termine «mortale» (sostituzione tipicamente greca, come mostreremo), ma soprattutto rimpiazzata appunto dalla indicazione specifica delle varie funzioni ed organi. Gli studiosi, specie nel novecento, si sono molto soffermati a rimarcare questo punto, per vari motivi: gli studiosi “materialisti” per mostrare l’assenza, nell’originario pensiero greco, del concetto unitario di “anima” (da loro inteso come illusorio, e pertanto in modo negativo); gli studiosi “simbolici” per mostrare la presenza, anche nell’originario pensiero greco, di una ambivalenza di significati legata alla instabilità delle passioni corporee; gli studiosi “cattolici” – gli unici che non hanno mai voluto “appropriarsi” di una vicinanza col pensiero omerico – per mostrare che una compiuta concezione dell’uomo come “persona”, si ebbe solo nel cristianesimo87; i filologi accademici per il semplice fatto che, in generale, una “molteplicità” di funzioni consente molti più spazi di discorso rispetto alla “unitarietà” della essenza umana, la quale obbliga anzi ad un discorso univoco (accademicamente poco produttivo). I dati testuali, ovvero i poemi omerici, sembrerebbero come detto dare ragione a questi studiosi. Tuttavia, per lo stesso motivo per cui ne L’umanesimo della antica filosofia greca abbiamo sostenuto che l’umanesimo – pur essendo tale concetto mancante – costituiva implicitamente il centro del pensiero greco, riteniamo che la stessa cosa valga per il concetto di “uomo” che, pur sostanzialmente mancante nell’opera di Omero, ne costituisce comunque implicitamente il centro; non si comprenderebbe, del resto, la molteplicità delle funzioni psicofisiche, così come la molteplicità delle espressioni etiche nelle figure omeriche, se alla base delle stesse non vi fosse una concezione unitaria e tendenzialmente universale di uomo. Andiamo tuttavia con ordine, cercando dapprima di delineare le ragioni dei maggiori interpreti; solo in un secondo momento, ed in opposizione ad esse, riporteremo le nostre ragioni. Fra gli studiosi cattolici, che costituiscono la componente più importante fra gli antichisti, e su cui pertanto ci soffermeremo in misura maggiore, la tesi della assenza di un concetto unitario di “uomo” nel pensiero omerico è stata sostenuta nella maniera più ampia, a nostro avviso, da Giovanni Reale. Quest’ultimo ha infatti rimarcato, in manieTale concezione è smentita però anche da uno studioso cattolico quale G. Beni, per il quale anche nel pensiero greco «l’essere umano è persona fin dalla prima concezione» (G. Beni, La persona umana. Origine e metafisica, Signorelli, Roma, 1966, pagg. 12-13). 87 55 iL Pensiero omerico ra filologicamente piuttosto corretta (anche se non del tutto, come fra breve mostreremo), che nei poemi omerici non risulta né una rappresentazione unitaria del corpo umano, né una rappresentazione unitaria dell’anima (la psyché è solo, in Omero, una sbiadita copia dell’uomo vivente, presente esclusivamente nell’Ade dopo la sua morte, incapace di conoscere, di sentire e di volere), per cui a fortiori non risulta nemmeno una concezione unitaria dell’uomo; nei poemi omerici ricorre certo più volte il termine greco soma, ma esso non indicava né il corpo né l’anima, bensì – come per primo notò Aristarco – esclusivamente il cadavere. Del corpo vivente, sempre secondo Reale, Omero esplicita solo la molteplicità delle funzioni psicofisiche; per questo, a suo avviso, l’uomo omerico non seppe nemmeno pensarsi come «corpo»: ciò accadde, per Reale, «solo a partire dal VI e soprattutto dal V secolo a.C.»88, in quanto «solo con la nascita del pensiero filosofico si è imparato a considerare la molteplicità delle cose e dei loro vari aspetti nell’ottica dell’unità concettuale»89. Quanto Reale afferma non è però, come anticipato, pienamente corretto, nemmeno in termini filologici. Pensiamo infatti, ad esempio, al termine demas, utilizzato più volte da Omero per indicare il corpo vivente, e rappresentante la figura umana nella sua interezza; esso compare più volte nell’Odissea: III, 464-469; X, 233-243; XXIV, 502 ss. Pensiamo inoltre al termine chros, che significa «pelle» nel senso di «superficie del corpo, involucro» (non come semplice derma); anche esso compare più volte nell’Iliade: VIII, 41-46; XIV, 170-189; XIX, 29-39; XXIV, 411-415. I termini del problema che più ci interessano non sono però quelli filologici, bensì quelli filosofici. Ora: se è indubbio che la consapevolezza teoretica del rapporto fra unità e molteplicità si ebbe solo con la filosofia, ci pare comunque eccessivo eliminare ogni consapevolezza di questo genere da un pensiero come quello omerico, che ha parlato innanzitutto dell’uomo, e che ha costituito il principale riferimento90 proprio dell’universalistico pensiero filosofico classico sull’uomo (l’universalismo richiede sempre la unificazione concettuale della molteplicità). Il fatto che la consapevolezza teoretica del rapporto fra unità 88 G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano, 1999, pag. 15. 89 Ibidem, pag. 17. 90 Come noto, non vi è quasi dialogo platonico che non riporti, direttamente o indirettamente, brani omerici. 56 L'umanesimo omerico e molteplicità sia storicamente stato il primo compito della filosofia, non esclude che questa consapevolezza, in potenza presente in ogni uomo, fosse presente anche nella poesia omerica; del resto, nel contesto storico-sociale omerico, gli scambi economici erano gestiti, in assenza di moneta, da «unità di misura» – buoi, grano o altro –, che avevano appunto il compito di unificare, in termini di valore, la molteplicità delle merci. È del resto difficile sostenere che l’uomo, in grado di identificarsi unitariamente in morte (soma), non lo sapesse fare in vita. Ed ancora: se gli uomini omerici non fossero stati in grado di comprendersi in modo unitario, come avrebbero potuto distinguersi fra loro, chiamarsi per nome, delineare discendenze e proprietà, tutte cose che invece fecero quotidianamente? È evidente che per Reale, come per qualunque altro studioso volto a sostenere l’assenza di una concezione unitaria di uomo nel pensiero omerico, sia assai difficile rispondere a queste domande. Tuttavia, se questi studiosi volessero realmente essere coerenti con le loro tesi, dovrebbero affermare che, senza una almeno implicita concezione unitaria di uomo, Omero avrebbe solo potuto parlare delle braccia di Achille, del battito cardiaco di Odisseo, della respirazione di Agamennone, della testa di Tersite, ovvero delle membra (melea, gyia) dei loro corpi, o al più dei loro movimenti funzionali; il fatto però che possediamo l’Iliade e l’Odissea, e che questi due poemi si caratterizzino per la ricchezza del loro contenuto etico-educativo, mostra che la tesi della assenza di una concezione unitaria dell’uomo in Omero non è corretta, e che risulta pertanto errata la tesi di chi sostiene che Omero non avrebbe saputo comprendere l’uomo «come una identità che si esplica nelle differenziazioni di organi e funzioni di vario genere»91. Ci pare in particolare che Reale cada vittima, nella critica ad Omero, di una sorta di errato “filologismo” (mentre ciò non gli capita, ad esempio, interpretando Platone)92; il fatto cioè che l’antico aedo nominasse più frequentemente 91 G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 18. Riteniamo invece corretta la tesi di H. Frankel, per cui «l’uomo omerico non è un uomo ottuso e confuso, ma è un uomo limpido e consapevole, intrattiene rapporti sociali raffinati, parla con talento straordinario» (H. Frankel, Poesia…, op. cit., pag. 84). 92 La medesima tesi vale anche per B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino, 1963, pag. 28. 57 iL Pensiero omerico mani, avambracci, piedi, ecc., non deve indurre a ritenere che egli non sapesse unificare quelle parti, e le loro funzioni, come parti di un tutto93. Il punto è – come lo stesso Reale, contraddittoriamente, rimarca – che «Omero fa riferimento ad organi particolari del corpo [...] per esprimere mediante essi un senso assai più ampio»94; Omero sapeva bene infatti che, quando ad esempio nei combattimenti un eroe veniva colpito in una parte del corpo, era comunque l’uomo intero che veniva colpito. Il discorso omerico non ha certo nulla a che vedere con la descrizione dell’uomo come dualisticamente composto da anima e corpo, che si avrà solo nella filosofia del V secolo; l’uomo omerico fu infatti una unità psico-fisica, ed in questo senso rappresentò, per la propria unitarietà, una descrizione dell’uomo più corretta rispetto a quella successiva di Pitagora e di Platone95. Per questo motivo riteniamo errata anche la tesi di E. Havelock, per il quale «miriadi di cose non possono essere espresse nel discorso metrico»96 (sola forma espressiva della cultura omerica), fra cui appunto una concezione unitaria di uomo; ci pare infatti, in generale, che non si possa affermare che ciò che non è espresso in maniera esplicita, debba essere necessariamente mancante in una cultura. Per Reale, in sostanza, essendo il discorso mitico-poetico meramente «narrativo, dispiegantesi in una successione di eventi scanditi nel tempo [...] con l’emergere in primo piano di una gran quantità di personaggi, di fatti e di episodi presentati in una molteplicità di aspetti»97, è impossibile che in esso si delinei un discorso unitario e stabile sull’uomo, quale fu poi quello platonico. Tuttavia, pur concordando con la tesi della maggiore rilevanza umanistica del discorso platonico, non ci pare che il fatto che nei poemi epici siano presenti «una molteplicità Il fatto che nell’arte arcaica le parti furono raffigurate più dell’intero (tema su cui Reale insiste alle pagg. 18-27 di Corpo, anima e salute), ci pare prova non dirimente, perché comunque anche l’intero era rappresentato. Il fatto che «l’uomo viene rappresentato nella articolazione delle sue membra», non esclude infatti che egli fosse anche «rappresentato come unità organica» (ibidem, pag. 27). 94 Ibidem, pag. 32. Ed ancora, in modo anche più chiaro: «Nel linguaggio omerico il riferimento alla parte specifica del corpo fa rimando all’intero dell’organismo fisico, e addirittura anche all’intero dell’uomo in senso sia fisico sia spirituale» (ibidem, pag. 34). 95 Ciò nonostante, come faceva giustamente notare H. Frankel, il problema della struttura psico-fisica dell’uomo non era certo un problema omerico. Egli, peraltro, rimarcava che «l’uomo omerico [...] era anche un io unitario» (H. Frankel, Poesia, op. cit., pag. 84). 96 E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari, 1995, pag. 122. 97 G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 51. 93 58 L'umanesimo omerico di aspetti», possa condurre a negare che in essi non sia anche presente una concezione unitaria e stabile dell’uomo, con l’indicazione di precise norme etiche da seguire per poter condurre una buona vita. Omero in effetti, contrariamente a quanto Reale, Havelock e la maggioranza degli interpreti sostengono, non si limitò a “narrare”, ma volle descrivere e valutare98, quindi in un certo modo “unificare” il senso della vita umana, sulla base di un implicito principio onto-assiologico: la natura razionale e morale dell’uomo. Non è possibile infatti non vedere come nell’opera di Omero, nella quasi totalità degli episodi, sia premiato chi si comporta in modo ragionevole e buono, e sia punito chi si comporta in modo opposto; tutto ciò non può essere passato sotto silenzio riflettendo sulla concezione omerica dell’uomo. Indubbiamente, Omero non operò ancora, sul piano teoretico, la riduzione metafisica della molteplicità alla unità in base alle essenze dei concetti, come faranno in seguito Socrate e Platone; in un certo senso però, costituendo modelli univoci di personalità, è come se lo facesse: sta alla intelligenza dell’interprete infatti non fermarsi ai dati testuali, bensì fare emergere soprattutto ciò che rimane nascosto, sebbene costantemente presente, nell’opera stessa. Anche se Reale si associa, su questo tema, al Platone dei libri V-VII della Repubblica, non riteniamo possa essere correttamente riferita ad Omero la critica di essere solo «attaccato al sensibile», e di non sapere, per questo, cogliere la realtà delle cose con uno «sguardo di insieme»; la dimensione «pre-filosofica» di Omero, su cui concordiamo con Reale99, non sta infatti nella assenza di unità e stabilità di contenuti razionali e morali nei suoi poemi, bensì nel fatto che questi contenuti rimangono per larga parte non esplicitati e pertanto non chiariti: per questo parliamo di una “pre-filosofia”, e non di una vera e propria “filosofia”. Ci sembra comunque poco corretto sostenere che i poemi omerici, i testi su cui si basa la filosofia greca e con essa l’intera civiltà occidentale, altro non siano se non una rappresentazione sconnessa di emozioni, sentimenti e passioni; questo è tuttavia quanto viene sostenuto dalla quasi totalità degli interpreti, che si basano più sulla effettiva molteplicità dei termini utilizzati da Omero per descrivere la vita psichica e spirituale, che non sulla struttura unitaria del sostrato umanistico sottostante ai poemi stessi. Come ha scritto correttamente W. Jaeger, «il poeta non narra soltanto fatti; egli vanta e loda ciò che vi è al mondo degno di lode e di vanto» (W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 85). 99 G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 56. 98 59 iL Pensiero omerico Omero aveva in effetti addirittura tre termini per indicare il «cuore» (kradie, ker, etor), ed allo stesso modo, con significati analoghi, parlava di thymos (animo), phren (mente), noos (pensiero), psyché (anima dell’uomo morto), ecc.. Come noto, la traduzione di questi termini è controversa, non essendo essi sovrapponibili ai loro analoghi moderni. Tuttavia, a ciascuno di questi termini corrisponde una funzione che, se non proprio precisa e ben determinata, è comunque sostanzialmente costante nell’Iliade e nell’Odissea; si tratta, per comprendere il reale significato di questa molteplicità di termini (largamente inferiore, comunque, a quella utilizzata ad esempio dalle moderne scienze cognitive), di entrare nel corretto “circolo ermeneutico” con i poemi omerici: in questo modo risulterà chiaramente la struttura unitaria della natura razionale e morale dell’uomo che Omero pose implicitamente alla base della propria opera. Come ammette infatti lo stesso Reale, nei poemi omerici «non poche volte il cuore è quella parte che esprime l’intero, ossia l’uomo stesso con la sua configurazione etica»100; ed anche il termine thymos, che compare in alcune centinaia di passi, «abbraccia per intero tutta quanta la sfera delle emozioni», fino ad esprimere «un concetto di vita a largo raggio»101. Reale viene ancora contraddittoriamente a convergere con la nostra posizione quando è costretto ad affermare, dopo una lunga disamina di passi omerici, che in Omero «quella che noi chiameremmo unità della persona, anche se non viene teorizzata ed espressa concettualmente, di fatto non viene mai compromessa, almeno a livello di concretezza empirica»102. Ciò accade anche quando egli afferma che «qualsiasi sia la parte dell’uomo chiamata in causa, è sempre l’insieme dell’uomo che entra in gioco: la parte è sempre, in larga misura, espressione di tutto l’uomo»103; la stessa cosa si verifica quando egli sostiene che, in Omero, «ciascun organo rappresenta la persona»104. In effetti, nell’Iliade e nell’Odissea le tesi ed i valori esposti sono sempre i medesimi, così come la conoscenza e l’azione sono sempre consequenziali. Il fatto che conoscenza ed azione siano consequenziali non è certo elemento secondario, in quanto, in poemi “prefilosofici” in cui l’aspetto “conoscitivo” è trascurato, è l’azione a fornire i principali Ibidem, pag. 64. Ibidem, pag. 65. 102 Ibidem, pag. 69. 103 Ibidem. 104 Ibidem, pag. 95. 100 101 60 L'umanesimo omerico contenuti alla conoscenza; la natura dell’uomo omerico si esprime infatti nel suo agire, ed esso è sempre derivato dalla sua comprensione delle cose del mondo e del loro senso. Questo ci consente di apprezzare soprattutto il tratto “progettuale” dei vari personaggi omerici, ed in particolare di Odisseo che, come mostreremo, fa della “pianificazione” razionale e morale l’essenza delle proprie azioni; questo il suo vero “essere”105, e questa dunque anche quella che oggi definiremmo la sua “personalità”. È però proprio questo il punto in cui vi è il maggiore attrito con gli studiosi cattolici: costoro infatti, come ricordato, solitamente negano che al pensiero omerico, ed in generale a tutto il pensiero greco, possa farsi risalire il concetto di “persona”, a loro avviso attribuibile solo al pensiero cristiano106. Nonostante infatti l’aver ricordato alcuni passi omerici (Iliade, V, 124-126; VI, 123-127; XI, 264-272; XIV, 414-418; Odissea, II, 270-273) in cui il termine menos «esprime addirittura il carattere essenziale della persona, e quindi rivela la natura dell’uomo in una certa ottica»107, Reale afferma subito dopo che «in Omero non ci può essere un concetto di persona in senso forte», ma solo «una immagine metaforica che può, sia pure in misura limitata, essere ricondotta a questo significato»108; questo, però, è già un notevole passo avanti rispetto alla tesi della presenza di una mera molteplicità di funzioni ed organi a caratterizzare l’uomo omerico. Come ha in merito sostenuto anche A. Cancrini, «costante e tipico motivo della storiografia sul mondo classico è l’idea che il concetto di coscienza morale sia una scoperta del cristianesimo, assente nella tradizione greca più antica. L’estraneità dell’idea di coscienza al mondo greco è stata infatti asserita in modo perentorio da più parti, fin da quando Hegel, nella sua nota interpretazione, considerò il mondo greco antico come il mondo della oggettività»109. Tale idea, Per inciso, riteniamo errata la affermazione di Reale secondo cui «la natura dell’uomo omerico si manifesta non nel suo essere ma nelle sue azioni» (G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 93); si tratta dell’ennesimo tentativo di negare consistenza onto-assiologica all’uomo omerico, che però non regge alla prova dei fatti, ossia ai dati testuali ed alle conseguenti riflessioni. 106 Un altro esempio di questa tendenza è B. Mondin, Storia della metafisica, Esd, Bologna, 1998, vol. II, pagg. 10-12. 107 G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 96. 108 Ibidem, pag. 98. 109 A. Cancrini, Syneidesis. Il tema semantico della Con-scientia nella Grecia antica, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1970. Hegel però aveva anche, nelle sue Lezioni di storia della filosofia, attribuito ai Greci la scoperta della interiorità e della coscienza morale. 105 61 iL Pensiero omerico tuttavia, non è corretta, e poco importa che molti siano stati gli studiosi che l’hanno sostenuta. Fra essi si può anzitutto segnalare W. Jaeger, il quale, pur convinto sostenitore dell’umanesimo greco, ha affermato che «nel pensiero greco antico manca un concetto paragonabile alla nostra [cristiana; L. G.] coscienza personale»110; della stessa idea anche J. Stenzel: «parlare di coscienza [...] presso i Greci significa introdurre qualcosa di estraneo, anche per Platone»111. Tesi molto simili si ritrovano pure in M. Pohlenz112. Si tratta di tesi, a nostro modo di vedere, non corrette, in quanto spesso scaturiscono dalla assunzione preliminare di un concetto predeterminato di coscienza (quello cristiano), che, effettivamente assente nel mondo greco, conduce questi studiosi a negare per il mondo greco l’esistenza di qualunque concetto di coscienza, come se esso non potesse assumere anche forme e modalità differenti. Ciò è stato invece ben compreso da Rodolfo Mondolfo il quale, con riferimento al «rimprovero fondamentale rivolto all’etica greca» per la presunta mancanza di una «nozione di coscienza morale», ha ampiamente fornito, in un libro purtroppo non più recentemente ristampato, «una estesa dimostrazione documentata» dello «sviluppo di teorie della coscienza morale nell’etica antica»113, da Omero in poi. Dopo aver analizzato la questione se un concetto di uomo unitariamente inteso sia stato o meno presente nei poemi omerici, si apre la questione, ad essa connessa (purché alla prima si giunga ad una risposta positiva), se in essi sia presente un concetto di «coscienza». Anche tale questione può essere affrontata in diversi modi, uno dei quali è sicuramente quello lessicale. Non vi è dubbio che il termine più simile al latino conscientia (ossia syneidesis) compaia per la prima volta, in Grecia, per esteso, solo nel frammento 297 di Democrito. Gli studi di C. Del Grande hanno però riscontrato temi analoghi già in Omero; significativa è in proposito la argomentazione anche della sua tesi secondo cui, nel mondo omerico, Aidos è «la dea simbolo della coscienza individuale»114. Molteplici sono inoltre i passi omerici (ad esempio Odissea, X, 515; XV, 526; XVII, 152; XX, 92) in cui è evidente il riflettere, il pensare tra sé, W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 68. J. Stenzel, Platone educatore, op. cit., pag. 33. 112 M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 658; egli però, in modo ambivalente, attribuisce la presenza di questa tematica ai Pitagorici. 113 R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, La Niuova Italia, Firenze, 1953, pag. X. 114 C. Del Grande, Hybris, Ricciardi, Napoli, 1967, pag. 27. 110 111 62 L'umanesimo omerico il meditare nella propria intimità, i quali implicitamente (e fors’anche esplicitamente) segnalano la presenza di una coscienza, sebbene spesso in forme perifrastiche o mitiche. Rimanendo sempre sul piano lessicale, va ricordato come il termine kephale (testa) in Omero, come ha ricordato anche H. Frankel, può ben assumere il significato di «persona» che noi rendiamo col nome proprio dell’individuo (Iliade, XVIII, 79-82; 112-114; XXIII, 94 ss.); tuttavia, in base a quanto abbiamo argomentato in queste pagine, riteniamo che in Omero si possa parlare di «persona» non tanto in senso empirico, quanto in senso concettuale, e con una certa consistenza onto-assiologica. La tesi della assenza di un concetto di «persona» nei poemi omerici è stata sostenuta anche da un altro grande studioso cattolico del pensiero greco, ossia Enrico Berti. In un recente libro-dialogo con noi realizzato, egli ha infatti affermato – opponendosi in questo modo, fra gli altri, ad un grecista come G. Pasquali, che nella Enciclopedia italiana, alla voce Omero, aveva invece definito gli eroi omerici come «uomini» caratterizzati da precise «qualità d’animo» – che «il concetto di persona può nascere solo dove si insista sulla singolarità, sulla irripetibilità di ogni specifica esistenza», e che «ciò si verifica soprattutto nella religione cristiana»; solo nella Bibbia infatti, e non nel pensiero greco, «il singolo uomo è davvero considerato come unico, insostituibile, e la insostituibilità è alla base del concetto di persona»115. La argomentazione di Berti, come quella di Reale (ma davvero molti altri importanti studiosi potrebbero essere citati), è paradigmatica del pensiero cattolico; essa si basa infatti sul carattere propriamente «personalistico» di tale pensiero116, poggiando sulle famose affermazioni evangeliche secondo cui il nome di ciascuno di noi è scritto nel Regno dei Cieli, in quanto perfino i capelli di ognuno sono contati (pensiamo anche alla famosa parabola della “pecorella smarrita”, che il pastore si mette a cercare proprio per la sua unicità, anche ponendo a rischio la sicurezza dell’intero gregge). Ora: è indubbiamente vero che queste tematiche furono affrontate dal pensiero cristiano assai più che dal pensiero greco, come hanno miraE. Berti - L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, op. cit., pag. 59. «Personalismo» è definito, in Italia, soprattutto l’approccio filosofico di un pensatore cattolico attento anche al pensiero classico quale fu L. Stefanini, per il quale «le Confessioni di Agostino sono la mirabile esecuzione, senza precedenti nella storia del pensiero, di un programma personalistico», dato che «il conosci te stesso di Socrate non fu un programma personalistico» (in AA.VV., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2011, pagg. 8529-8530). 115 116 63 iL Pensiero omerico bilmente mostrato, fra gli altri, A. Rosmini, E. Mounier e J. Maritain; tuttavia, ancora una volta, il fatto che esse siano state maggiormente trattate dal pensiero cristiano (ma soprattutto, significativamente, da quel pensiero cristiano più impastato di classicità), non può condurre ad affermare che esse furono assenti nel pensiero greco, o che comunque non raggiunsero in Omero quella “consistenza qualitativa” tale da poter parlare, anche per la antica Grecia, di un concetto di “persona“. Ebbene: per esplicitare il tema in esame sul piano teoretico, può essere utile cercare di delineare le principali caratteristiche che consentono di definire il concetto di persona. Ci viene in aiuto la storia della filosofia, in particolare quella del periodo medievale. In quest’epoca, ancor prima della nota definizione di Severino Boezio (personae est naturae rationalis individua substantia), vi fu una definizione meno nota ma a nostro avviso ancor più importante, ovvero quella di Giovanni Damasceno: «Persona è quell’ente che, esprimendo se stesso per mezzo delle sue azioni e proprietà, porge di sé una manifestazione che lo distingue dagli altri della sua stessa natura»117. Ora: queste «azioni e proprietà», ovvero le qualità razionali e morali che caratterizzano l’uomo in generale e che si ritrovano, specificamente declinate, in tutti gli uomini, non furono affatto assenti negli uomini descritti dal pensiero omerico118. Se così fosse infatti, ovvero se nel pensiero omerico fosse assente il concetto di persona, ci troveremmo di fronte ancora una volta ad aporie inspiegabili: perché ad esempio Odisseo volle tornare proprio dalla amata Penelope, e non si accontentò di Calipso o di Nausicaa, che pure erano bellissime? Perché Achille decise di tornare a combattere, pur dopo la morte di tanti compagni, solo dopo che venne ucciso l’amico Patroclo? Perché Priamo, dopo tanti lutti fra i suoi concittadini, fu disposto a rischiare la vita solo per riavere il corpo del figlio Ettore? È evidente che l’amata Penelope, l’amico Patroclo, il figlio Ettore, possedevano per Odisseo, Achille, Priamo qualità umane personali insostituibili119; e davvero gli esempi, nei poemi omerici, potrebbero moltiplicarsi. Per questo motivo reputiamo davvero scandaloso che ancora oggi, sulla scia anche delle tesi di E. Zeller, si possa sostenere, nelle Dialect., c. 43: in Migne, PG 94 col. 613. In questo senso anche Diego Fusaro in D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, Il Prato, Padova, 2012. 119 Come ha scritto correttamente S. Accame, «il concetto-sentimento dell’io-persona esiste in Omero, a farne l’unità della vita spirituale, l’unità della coscienza» (S. Accame, Gli albori…, op. cit., pag. 58). 117 118 64 L'umanesimo omerico più importanti enciclopedie filosofiche, che «la filosofia dei Greci [...] manca del concetto di persona»120, e che ciò sia imputato ad un presunto «intellettualismo classico», il quale avrebbe impedito ai Greci ogni «personalismo», ovvero «ogni filosofia che rivendichi la dignità ontologica, gnoseologica, morale e sociale della persona»121. Avendo scritto oramai diversi libri sull’umanesimo greco, riteniamo di dover evitare, in questa sede, ripetizioni circa la argomentazione della centralità dell’uomo – inteso anche come persona – nelle varie fasi del pensiero greco; ci limitiamo a rimarcare, per evitare ogni polemica, che il peculiare “personalismo cristiano” potrebbe essere sostenuto anche senza togliere al pensiero greco ciò che gli fu proprio ed originario (ovvero una adeguata concezione dell’uomo), mostrando in modo maggiore la continuità dei due pensieri. Se infatti nei confronti di Omero, agli inizi del pensiero cristiano, furono frequenti le parole di biasimo122, col trascorrere del tempo «anche per gli apologeti cristiani più inesorabili, Omero fu il primo, il sapiente, il più antico di tutti i poeti»123. Clemente Alessandrino lo considerò infatti «il venerabile anziano fra i poeti» (Stromata, V, 1, 2), e cose analoghe si possono sostenere per San Gerolamo, che visse nel III secolo (Ep. Ad Nep., 52, 3). I padri della chiesa latini poi, che conobbero peraltro Omero non nel testo originale ma solo nelle manchevoli traduzioni antiche, lo definirono come poeta «dolce» («dolcissimo inutile» lo chiamò ad esempio Agostino nelle Confessioni, I, 14); ciò vale anche per Severino Boezio, che cantò «il labbro stillante miele di Omero» (De cons. phil., V, 2), e per Cassiodoro, che esaltò la «nobiltà» dell’opera omerica (Variarum, I, 39). Questi giudizi positivi proseguirono – passando ad esempio per San Basilio, per il quale «l’intero poema di Omero è tutto un unico inno alla virtù» (Ad adolescentes, 4) – almeno sino a Dante Alighieri ed alla sua epoca, a riprova di una sostanziale «condivisione di orizzonti» antica del tratto umanistico del pensiero omerico; questa «condivisione di orizzonti», L. Stefanini nella voce Persona, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, op. cit., pag. 8519. Ibidem, pagg. 8527-8529. 122 Pensiamo, ad esempio, a Minuccio Felice: «Platone fece benissimo ad escludere il famoso Omero – tanto illustre e lodato e incoronato – dalla città che egli costruiva nel suo dialogo» (Octavius, 23, 2). Tertulliano chiamò Omero «dedecorator deorum» (Apologeticus, XIV, 4), ma lo definì anche «principe dei poeti, e di tutti i poetanti fonte primigenia e oceano» (Ad nationes, I, 10). 123 H. Rahner, Miti greci nella interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna, 1971, pag. 364. 120 121 65 iL Pensiero omerico rifiutata nella modernità dal pensiero facente riferimento al cristianesimo, dovrebbe a nostro avviso essere ripresa. Rimarcavamo all’inizio di questo lungo paragrafo che la tesi di una presunta «mancanza di unità» nella concezione dell’uomo omerico, è stata sostenuta con diverse motivazioni non solo da pensatori cattolici, ma anche da pensatori “materialisti”, “simbolici” o semplicemente “filologici”. Di queste tre categorie la più interessante è forse costituita dai “materialisti” che, per quanto oramai non più maggioritari, hanno soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in Francia ed in Italia, occupato il centro della scena; questi studiosi sono molto interessanti perché, lungi da qualsivoglia pregiudizio nei confronti di Omero, provano anzi – come del resto i “simbolici” ed i “filologici” – simpatia verso quest’ultimo. Il motivo di questa simpatia è da ricondurre al fatto che, rimarcando la pluralità delle funzioni psico-fisiche degli uomini omerici (ed al contempo sottolineando la presunta assenza di una unità spirituale degli stessi), i “materialisti” possono realizzare una “strategia di appropriazione” del pensiero greco “originario”, mostrando come già in esso si parlasse dell’uomo – a differenza di quanto farà poi il cristianesimo – in maniera “scientifica”, secondo le modalità che saranno poi, nella modernità, proprie di Marx e del marxismo. Limitandoci all’Italia, è possibile citare in merito uno studioso come Mario Vegetti, il cui approccio è in effetti paradigmatico di un certo prevalente marxismo (prevalente, si intende sempre, fin verso gli anni Settanta del secolo scorso)124. Egli infatti, oltre a sostenere la tesi della pluralità irriducibile delle funzioni psico-fisiche dell’uomo omerico, tende in pratica ad attribuire priorità all’Iliade ed a leggere Omero come il poeta degli scontri di potere e dei rapporti di forza, in cui la ragione e l’etica occupano un ruolo marginale. Pur fornendo un importante “vaccino” contro i rischi di una errata lettura classicistica del mondo greco, ci pare però che la Per quanto riguarda il pensiero “marxista”, è doveroso citare almeno due fra i maggiori esponenti della cosiddetta Scuola di Francoforte, ovvero M. Horkheimer e T. W. Adorno (Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1974, pagg. 56-57). Costoro hanno anch’essi parlato di «composizione ancora labile ed effimera del soggetto» in Omero, facendo riferimento al fatto che spesso l’epos descrive un contrasto tra il soggetto ed alcune parti del suo corpo (ad esempio il cuore); in realtà la ragione di questo contrasto, a nostro avviso, è più legata alle modalità della poesia orale. Concordiamo in questo senso con l’opera di B. Williams (Shame and Necessity, University of California Press, 1993), che mette in evidenza l’esistenza di una compiuta umanità nelle figure omeriche, dotate pressoché sempre di autocontrollo e di autonomia di deliberazione. 124 66 L'umanesimo omerico interpretazione complessiva del pensiero omerico posta in essere da Vegetti rischi di perdere, nello stesso, proprio l’essenziale, ovvero la centralità dell’uomo e della sua progettualità razionale e morale125; e quando si perde l’essenziale, si perde molto (quasi tutto), col rischio di appiattirsi su alcuni luoghi comuni, quale è appunto quello della assenza di una concezione unitaria dell’uomo nel mondo omerico. Nel suo citato L’etica degli antichi, Vegetti ha infatti sostenuto che «nell’uomo omerico, la vita, l’emozione, l’azione appaiono disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato, ad un complesso psicosomatico unitariamente governato»126; il testo prosegue poi con una serie di argomentazioni volte a negare, o comunque a ridimensionare, l’umanesimo omerico, di cui ci occuperemo però poco oltre. Per concludere questo lungo paragrafo, ed introdurre il prossimo, ci pare invece utile citare, contro la tesi di un uomo omerico talmente scisso al proprio interno da risultare una sorta di marionetta nelle mani degli dèi, Eva Cantarella; la studiosa infatti, rimarcando la sostanziale unitarietà dell’uomo omerico, ha giustamente sottolineato che «in Omero esiste già il concetto [...] di responsabilità. Di questo concetto gli uomini e le donne omerici hanno una coscienza ancora essenzialmente empirica, ma non del tutto irriflessa [...]. L’individuo omerico distingue chiaramente l’atto volontario dall’atto involontario [...] I poemi ci ponSe un senso deve essere colto nella “evoluzione” che conduce dall’Iliade all’Odissea, è proprio che l’ira, la forza incontrollata delle passioni tipica di Achille, si muta nella forza controllata della ragione tipica di Odisseo (esemplari i versi XX, 13-30 dell’Odissea). In questo sta infatti il senso più pregnante dell’umanesimo omerico: nel dirigere in modo razionale le passioni, in modo che esse sfocino verso il bene e l’armonia anziché verso il male e la distruttività. La prima libertà infatti, per i Greci, sta nel non soggiacere agli impulsi che si agitano nell’anima umana, che se non controllati fanno soffrire; per questo l’etica greca ripete così spesso – Eschilo è in ciò maestro (rinviamo in merito a L. Grecchi, La filosofia politica di Eschilo, Alpina, Torino, 2006) – che dal dolore e dalla sofferenza si imparano le cose più importanti. 126 M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari, 1989, pag. 26. Concorde con la tesi di M. Vegetti ci pare A. Lo Schiavo, per il quale «l’uomo omerico non dispone di un criterio di razionalità in grado di conferire unità e coerenza al suo mondo intellettuale; egli difetta di un criterio superiore di giudizio in base al quale possa sistemare e valutare la varia esperienza, individuale e sociale, che viene acquisendo» (A. Lo Schiavo, Omero filosofo, op. cit., pag. 112). Più caute, ma sostanzialmente nella stessa direzione dei due studiosi, anche le affermazioni di L. Zoja: «a differenza dell’uomo di culture successive, l’uomo omerico non abbraccia ancora la dimensione interiore come territorio unitario» (L. Zoja, Storia dell’arroganza, Moretti e Vitali, Bergamo, 2003, pag. 48). 125 67 iL Pensiero omerico gono di fronte al momento della prima apparizione dei concetti etici moderni nel mondo greco. Ed è un’apparizione che rivela un lungo travaglio di pensiero, di cui i poemi riportano al tempo stesso le posizioni più tradizionali e le acquisizioni più avanzate»127. Nella medesima direzione Albin Lesky, per il quale sostenere che l’uomo sia «una semplice marionetta, mossa dall’impulso divino [...] fraintenderebbe completamente la struttura del mondo omerico, introducendo una distinzione che per quel mondo è completamente estranea»128. Il problema “umano” dunque, nel pensiero omerico, ci conduce direttamente al problema “etico”, per lo stesso motivo per cui il problema della “coscienza” ci conduce direttamente al problema della “responsabilità”. Proprio a questo nesso sarà dedicato il prossimo paragrafo. b. Coscienza e responsabilità Il rapporto che vi è fra ciò che è umano e ciò che è etico, fra coscienza e responsabilità, esprime mutatis mutandis lo stesso rapporto che vi è fra conoscenza ed azione, fra teoria e prassi: quello stesso rapporto che si stabilirà, in epoca classica, fra filosofia e politica. Si tratta di un rapporto lineare, diretto, conseguente, già presente in epoca omerica; come ha infatti rimarcato anche R. Mondolfo, «il concetto di una infrangibile concatenazione tra l’azione e le conseguenze di essa – prima radice [...] con cui il pensiero greco salirà all’idea di legge universale – è concetto già raggiunto nell’etica omerica»129. Ciò che è umano, infatti, deve tradursi in adeguati comportamenti etici; ciò che è fatto con coscienza è ciò che consente di rispondere di quanto si è fatto, e che dunque rende responsabili130; ciò che si conosce con verità è ciò che conduce l’azione umana verso il bene, ossia ciò che consente di passare da una buona teoria ad una buona prassi. Questi, in sintesi, i nessi principali su cui si costituì la E. Cantarella, Itaca, op. cit., pagg. 185-187. A. Lesky, Storia della letteratura greca, Il Saggiatore, Milano, 2005, vol. I, pag. 80. 129 R. Mondolfo, Moralisti greci. La coscienza morale da Omero ad Epicuro, Ricciardi, MilanoNapoli, 1960, pag. 13. 130 Come ha ricordato S. Maso, «nel mondo antico responsabile è colui che mette in campo la propria autorità per sostenere la difesa di qualcuno, o che si fa garante di qualcosa» (S. Maso, Lingua philosophica graeca. Dizionario di greco filosofico, Mimesis, Milano, 2010, pag. 178). Il concetto di «responsabilità», che effettivamente fece il proprio ingresso nel linguaggio filosofico solo in avanzata età moderna, deriva dal latino spondeo, che significa sia «garantire», che «vaticinare». 127 128 68 L'umanesimo omerico filosofia greca, la quale fu sempre, insieme, etica e politica; ciò accadde a nostro avviso, pur con diverse declinazioni, già a partire da Omero, ed almeno fino ad Epicuro. In questo senso, siamo pienamente concordi con quanto ha affermato uno studioso, B. Snell, pur solitamente poco incline a riconoscere l’umanesimo greco, ed in particolare omerico131; a suo avviso, infatti, i Greci «hanno creato proprio ciò che noi chiamiamo pensiero: l’anima umana, lo spirito umano venne da loro scoperto, e base di questa scoperta fu una nuova concezione dell’uomo. Questo processo, la scoperta dello spirito, ci si manifesta attraverso la storia della poesia greca e della filosofia, da Omero in poi: le forme poetiche dell’epica, della lirica, del dramma, i tentativi di un intendimento razionale della natura e della essenza dell’uomo, rappresentano le tappe di questo cammino»132. È indubbiamente vero che fu la matura etica aristotelica (Etica Nicomachea, III, 1-3) a tracciare esplicitamente la distinzione tra azione volontaria ed involontaria, assegnando solo alla prima la responsabilità morale; non è però corretto sostenere che Omero abbia assegnato sempre la responsabilità delle azioni umane agli dèi, al destino o allo thymos incontrollabile133. Prendiamo ad esempio Odisseo quando, pur correndo il rischio di rimanere accerchiato dalle schiere nemiche, decide comunque di portare in salvo Diomede senza indietreggiare; in questa decisione – come in molte altre – non entrarono né gli dèi, né il destino, né lo thymos, bensì solo la sua etica umanistica, ovvero il suo ethos, il suo carattere. Quei personaggi omerici che talvolta si chiamano fuori dal processo di causazione – come ad esempio Agamennone, quando affermò in assemblea che un dio aveva prodotto in lui l’accecamento della ragione (ate) nell’atto di oltraggiare Achille – sono di solito i peggiori, in quanto sono proprio coloro che scansano le responsabilità, e che si rivelano pertanto poco etici. «In Omero non troviamo mai un vero atto di riflessione, né un colloquio dell’anima con se stessa» (B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino, 1963, pag. 29). Ed ancora: «È ignoto a Omero il vero e proprio atto della decisione umana» (ibidem, pag. 44). Tuttavia, con la già ricordata ambivalenza sull’argomento di questi grandi interpreti tedeschi, egli pare ammettere che un’idea di coscienza fosse presente nel mondo greco anche prima che specifici termini la designassero in modo esplicito. 132 B. Snell, La cultura greca…, op. cit., pag. 10. 133 Come ha giustamente sottolineato A. Da Re, «l’essere responsabili verso altri è l’etica stessa, anzi la radice del nostro essere» (A. Da Re, Filosofia morale, Bruno Mondadori, Milano, 2008, pag. 259); questa dimensione non poteva mancare in Omero. 131 69 iL Pensiero omerico In generale infatti, quando gli eroi omerici tendono ad attribuire la responsabilità delle loro azioni negative alle divinità o al fato, non fanno in realtà che trasferire su “soggetti” esterni la responsabilità, per evitare in questo modo, almeno in parte, la “vergogna”. La civiltà omerica è stata da molti studiosi definita proprio come la «civiltà della vergogna», in cui cioè l’adeguamento alle regole sociali condivise non era ottenuto attraverso l’imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento, non adeguandosi ai quali si incorreva in un forte biasimo sociale. Come ha scritto giustamente E. Cantarella, «aidos è la sanzione interna, quella che fa vergognare di sé chi non è all’altezza delle sue e delle altrui aspettative; elencheie è la sanzione sociale, quella che, attraverso la voce popolare, colpisce dall’esterno l’atto che, in chi lo ha compiuto, ha provocato aidos. Agendo insieme, esse danno vita ad un potentissimo, quasi invincibile meccanismo di coercizione psichica»134. Oggi, nell’epoca della “svergognatezza” (anaideia), in cui la società pare quasi premiare chi pratica le azioni peggiori135, tutto ciò pare incredibile; tuttavia, nell’Iliade, Ettore sembra proprio temere, ancor più della morte, la riprovazione popolare, la demu phemis che riverserebbe elencheie su di lui, e che gli farebbe provare aidos di se stesso (XXII, 100-107), rendendogli la vita impossibile. Queste tesi sarebbero probabilmente state condivise da Rodolfo Mondolfo, per il quale l’idea della responsabilità dell’uomo non apparve in Omero «in piena luce»136, ma fu comunque presente; egli affermò infatti che anche in Omero «l’uomo è responsabile del suo operare, e diventa così creatore del proprio destino»137. A suo avviso, da Omero ad Anassagora vi fu sì un processo di sviluppo critico, ma all’insegna della continuità; i pensatori greci, fra cui Omero, sarebbero in effetti E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 34. Su questo aspetto della contemporaneità, e sulle sue origini ellenistiche, ci siamo soffermati in C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, op. cit., pagg. 49-53. 136 R. Mondolfo, Moralisti greci, op. cit., pag. 47. 137 Ibidem, pag. 40. La polemica di Zeus contro gli uomini del I libro dell’Odissea (I, 32 ss.), «suppone già la preesistenza di una viva discussione sulla responsabilità dell’operare, le cui radici (come ci appare anche dalle parti più antiche dei poemi omerici) sono germinate tra la visione e gli interessi dell’accusatore e quelli dell’imputato di atti dannosi ed ingiusti» (ibidem, pag. 41). 134 135 70 L'umanesimo omerico stati mossi principalmente dalla considerazione del mondo umano, e da questo soltanto sarebbero poi partiti per interrogare la natura138. Nonostante l’evidente presenza di concetti analoghi a quelli di “coscienza” e “responsabilità” nei poemi omerici, la tesi prevalente nella letteratura rimane ancora quella sostenuta ad esempio da A. Jellamo, secondo cui «dall’orizzonte etico di Omero rimane esclusa l’idea di responsabilità: i personaggi omerici possono essere colpevoli, ma non responsabili»139, in quanto appunto privi di personalità. Per confutare questa tesi rimarremo a lungo, in continuità col paragrafo precedente, a rimarcare come l’uomo omerico desiderasse conoscere con verità, pur sapendo che ciò avrebbe in lui comportato una responsabilità sul piano etico; così fu fin dall’Iliade, in quanto le strutture sociali ed istituzionali della Grecia arcaica indussero da subito nell’uomo il desiderio di autonomia, anche dagli dèi. Pensiamo ad esempio alla poc’anzi citata «apologia di Zeus» (Odissea, I, 32-43); proprio a partire da questo episodio A. Magris ha giustamente sostenuto che «è il concetto che l’uomo porta la responsabilità dei suoi atti [...], a dare il la a tutta l’Odissea»140. Il commento iniziale sull’episodio di Egisto non fu in effetti estrinseco all’Odissea, ma centrale, e riferito ad Odisseo in almeno due modi: il primo rimarcando che chi, come l’eroe, non ha commesso alcuna azione sconveniente, merita il favore degli dèi (come Atena ribadirà poco dopo); il secondo rimarcando che chi, come i Proci, ha commesso azioni sconvenienti, deve pagare con la sofferenza. Si tratta di un insegnamento etico che fu ripreso ancora dagli Stoici141, e che rimase costante in pressoché tutto il pensiero greco. Pur riconoscendo sia i limiti fissati alla vita umana, sia l’esistenza di un destino cui non si può fuggire, l’uomo greco desiderava conoscere con verità ed agire di conseguenza, proprio per essere, nella sua coscienza, massimamente libero; come scrisse correttamente M. Pohlenz, 138 In questo senso anche B. Farrington, Lavoro intellettuale e lavoro manuale nella antica Grecia, Milano, 1977, pagg. 163-182. Inutile rimarcare come questa tesi contrasti con la tesi, tuttora maggioritaria, che parla di un «naturalismo di fondo» del pensiero greco; contro questa tesi ci siamo soffermati nei nostri L’umanesimo della antica filosofia greca, pagg. 17-23, e La filosofia della storia nella Grecia classica, pagg. 107-120. 139 A. Jellamo, Il cammino di Dike, op. cit., pag. 41. È evidente, però, la ambiguità di questa tesi, poiché ad ogni colpa si accompagna inevitabilmente la responsabilità. 140 A. Magris, L’idea…, op. cit., vol. I, pag. 248. 141 Epitteto, III, 1, 38; Crisippo, frr. 999 e 1000 Arnim. 71 iL Pensiero omerico «gli dèi possono mandare sull’uomo mortale la morte ma, in ogni caso, non possono rubargli una cosa: il diritto e la forza di agire così come egli decide, dal fondo della sua propria volontà»142. La coscienza individuale prima, e la comunità sociale poi, furono in effetti le due principali coordinate della libertà greca, una libertà che fu sempre guidata dalla ragione e dalla morale, e che non si trasformò mai – almeno nelle sue espressioni ideali – in egoismo e licenziosità. Essere realmente liberi richiede infatti innanzitutto l’essere pienamente coscienti e responsabili; già nell’Iliade, nei pochi casi in cui compare la parola «libero» (eleutheros), vi fu in effetti «la consapevolezza che la libertà individuale era collegata alla libertà collettiva»143. Si potrebbero certo porre delle distinzioni fra i due poemi, sostenendo, come ha fatto ad esempio S. Accame, che nell’Odissea rispetto all’Iliade vi fu «un più marcato senso di responsabilità nella decisione, la quale rivela una umanità più matura e consapevole, che corrisponde all’accentuarsi del processo per cui il sapere tende a significare qualità morali»144; la scena finale dell’Odissea in effetti, con Odisseo che si erge a giudice e giustiziere dei frequentatori della propria casa, poté svolgersi solo grazie alla presenza già sviluppata di concetti razionali ed etici come quelli di volontarietà o involontarietà dell’azione, di presenza o assenza di colpa, e dunque alla fine, in sostanza, di responsabilità o irresponsabilità. Tuttavia, è la continuità dell’opera omerica quanto ci sta più a cuore rimarcare. Una prova che gli uomini omerici furono caratterizzati da una coscienza responsabile ed unitaria, è quella per cui sia nell’Iliade che nell’Odissea tyche (ovvero la fortuna, il caso) fu sostanzialmente assente; contrariamente, infatti, a quanto accadde in Pindaro, che la considerò come la più potente delle Parche, e soprattutto a quanto accadde in epoca ellenistico-imperiale (in cui la ragione e la morale persero di rilevanza, a causa del fatto che la stessa vita umana perse di rilevanza, preda di strutture ed eventi sempre più incontrollabili dalla comunità), gli uomini omerici non contarono sulla fortuna, ma confidarono solamente in se stessi, ovvero su una stabile ragione e su una solida M. Pohlenz, La libertà greca, Paideia, Brescia, 1963, pag. 6. La tesi per cui il pensiero occidentale sarebbe pervenuto alla concezione della libertà e responsabilità morale proprio con Omero, era comunque stata esposta alcuni anni prima da G. Pasquali (La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima, Civiltà moderna, 1928). 143 M. Pohlenz, La libertà greca, op. cit., pag. 19. 144 S. Accame, Gli albori, op. cit., pag. 80. 142 72 L'umanesimo omerico morale145. Indubbiamente, si potrebbe affermare che gli uomini greci credettero anche nel destino e negli dèi; questo è indubbiamente vero, ma sia il destino che gli dèi vanno correttamente interpretati all’interno del contesto greco, essendo null’altro – come mostreremo nel prossimo paragrafo – che espressioni dell’umano. Tutto in Omero (il destino, gli dèi, la natura) è funzione dell’umano; questo il tratto generale dell’umanesimo omerico e greco. Si potrebbe certo obiettare che non solo nel pensiero omerico, ma in tutto il pensiero greco è sempre mancato il concetto di “umanesimo”. Oltre però alle considerazioni da noi già svolte, riteniamo, con F. Codino, che «è vero che nella lingua omerica mancano i termini che esprimono aspetti generali, per noi essenziali, della personalità umana; non è tuttavia detto che anche se manca la sintesi concettuale, elaborata più tardi, debba necessariamente mancare ogni nozione della cosa e la rappresentazione politica di essa»146. Anche A. Lesky ha del resto giustamente sostenuto, nella sua Storia della letteratura greca, che gli uomini omerici furono uomini completi, e che pertanto anche l’epoca omerica può definirsi “umanistica”: non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui il messaggio educativo omerico si sia potuto trasmettere fino a noi. È questa la tesi, in sostanza, pure di L. Storoni Mazzolani, secondo cui «Omero non aveva una filosofia sistematica, ma certo questo poema bimillenario contiene una vasta meditazione sull’uomo»147. Rimane ancora da chiarire, per confermare la tesi della “unitaria coscienza responsabile” dell’uomo omerico, l’intreccio fra divino ed umano proprio dei poemi, che lascia spesso pensare – data la priorità gerarchica del divino – che le decisioni umane fossero sempre subordinate alla volontà divina, quando non propriamente prese dagli dèi al posto degli uomini148. Come ha scritto correttamente M. Pohlenz, molti autori hanno da questa tesi «tratto la conclusione che l’uomo omerico ignori nel modo più assoluto il libero atto di volontà, facendo risalire le proCirca Odisseo, scrive correttamente E. Cantarella che le sue gesta sulla via del ritorno sono «le gesta di un soggetto – contrariamente a quanto spesso si afferma – già intero e compatto, capace di autodeterminarsi e di agire non solo indipendentemente, ma a volte addirittura contro la volontà degli dèi» (Itaca, op. cit., pag. 15). 146 F. Codino, Introduzione ad Omero, op. cit., pag. 134. 147 L. Storoni Mazzolani, Profili omerici, Rizzoli, Milano, 1978, pag. 150. 148 Per uno studioso del calibro di W. F. Otto, ad esempio, in Omero «gli dèi sono i veri attori», non gli uomini (W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, Il Melangolo, Genova, 1983, pag. 57). 145 73 iL Pensiero omerico prie decisioni ad una potenza soprasensibile. In realtà, nemmeno in tali momenti [ovvero quando intervengono le divinità; L. G.], egli si sente uno strumento privo di volontà in mano agli dèi»149. Quando infatti, ad esempio, Atena viene a placare la collera di Achille, ed egli accetta di farsi da lei calmare, nulla nei testi omerici lascia pensare che Achille debba essere considerato come un fantoccio nelle mani di Atena; egli infatti decide di ascoltarla e di non affrontare direttamente Agamennone di sua spontanea volontà. Questo episodio – ma molti altri se ne potrebbero citare – mostra la centralità della coscienza umana nei poemi omerici. Lo stesso destino (che nell’epica arcaica, come mostreremo, assume rilevanza maggiore rispetto a quella degli stessi dèi) risulta infatti nei poemi omerici essere subordinato a condizioni “umane”, come quando si afferma che se Odisseo raggiungerà Scheria allora è destino che egli sfuggirà alla morte, oppure quando si afferma che se Troia accoglierà il cavallo di legno allora è destino che essa soccomberà. L’uomo può insomma sempre ribellarsi al destino ed alle divinità, e spesso nei poemi omerici decide di comportarsi in questo modo per rivendicare la propria libertà (Iliade, III, 59; VII, 487; XVII, 321; XX, 30; XXI, 517; Odissea, IX, 352; XIV, 509), salvo poi, coraggiosamente, pagarne il fio. L’uomo omerico possiede infatti tutte quelle qualità di autonomia razionale e morale che caratterizzano il cosiddetto “libero arbitrio” (ovvero la capacità, tipica dell’uomo, di essere arbitro, cioè padrone, delle proprie azioni) 150, scegliendo tra varie possibili condotte di vita; come ha scritto correttamente R. Mondolfo, fu presente in Omero «un destino che non esclude la responsabilità dell’uomo, cui spetta determinarne con la sua azione il corso»151. Poiché il libero arbitrio è presente nei personaggi omerici152, e poiché esso si ha solo all’interno di orizzonti filosofici non dominati dal destino, dagli dèi o dalla natura, possiamo sostenere anM. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 21. Per questo motivo non possiamo concordare con molti interpreti tradizionali, fra cui ad esempio B. Mondin, per il quale la cultura greca sarebbe affetta da «servo arbitrio», ossia da «fatalismo», ovvero da una «concezione della realtà che fa dipendere eventi ed azioni del mondo e dell’uomo unicamente da una causa assoluta più o meno consapevole, cui comunemente si dà il nome di Fato» (B. Mondin, Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale, Massimo, Roma, 1993, pag. 253). 151 R. Mondolfo, Moralisti greci, op. cit., pag. 49. 152 Come ha scritto correttamente A. W. H. Adkins, «i personaggi omerici agiscono sempre di loro propria libera volontà» (A. W. H. Adkins, La morale dei Greci, Laterza, Roma-Bari, 1964, pag. 58). 149 150 74 L'umanesimo omerico che alla luce di questo elemento che molti luoghi comuni sul pensiero greco, ed in particolare omerico, sono da ritenere falsi; primo fra tutti, appunto, quello per cui il mondo divino dominerebbe il mondo umano. c. Fra umano e divino Come hanno scritto molti interpreti, fra mondo umano e mondo divino, in Grecia, non si deve leggere una opposizione, bensì una compenetrazione; il mondo divino esprime infatti, il più delle volte, ciò che accade nel mondo umano, solo ad un livello più alto e solenne. Per riagganciarci al tema della responsabilità, possiamo partire da una domanda: la responsabilità delle proprie azioni, per gli uomini omerici, è da attribuire a loro stessi od agli dèi?153 Abbiamo già risposto a questa domanda argomentando come, a nostro parere, la responsabilità sia da attribuire agli uomini154. Tuttavia, la maggioranza degli interpreti sostiene tuttora – come si è accennato155 – la tesi opposta, ritenendo che solo con Platone si sia realmente realizzata una completa libertà degli uomini; è celebre in merito il passo del libro X della Repubblica, in cui si afferma che, nelle varie decisioni della vita, «ciascuno è responsabile della propria scelta: il dio non ne ha colpa» (X, 617 E). In realtà, ancor prima di Platone, ci furono diversi precedenti in tal senso; pensiamo ad esempio al frammento 3 di Solone156, in cui l’antico poeta-legislatore affermò che la responsabilità del bene e del male non Un ruolo rilevante agli dèi è stato attribuito ad Omero da J. Svenbro, per il quale l’antico poeta avrebbe avuto «una concezione del canto [...] esclusivamente religiosa» (J. Svenbro, La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca, Boringhieri, Torino, 1984, pag. 8). «Secondo questa concezione, all’origine del canto vi era la Musa: Omero considerava se stesso come servitore della Musa» (ibidem). 154 Come ha rimarcato in merito R. Mondolfo, anche quando la responsabilità delle azioni è più smaccatamente attribuita agli dèi, essa non cancella la responsabilità umana; anzi, «la coscienza della responsabilità della colpa [...] si deve riconoscere, necessariamente, anche dove si presenta la più esplicita negazione di essa» (R. Mondolfo, Moralisti greci, op. cit., pag. 45). 155 Emblematica la tesi riassuntiva di A. M. Storoni Piazza, la quale ha sostenuto che «per Omero la possibilità di indagare se stesso, indipendentemente dagli altri, non è completa: egli non ci presenta personalità autosufficienti, responsabili delle proprie azioni, dei propri giudizi, ma attribuisce agli dèi la responsabilità delle colpe degli uomini» (A. M. Storoni Piazza, Ascoltando Omero, Carocci, Roma, 1999, pag. 31). 156 «La nostra città non perirà per volontà di Zeus: non è questo il destino, non è questo il disegno degli dèi. Una dea dal grande animo ci protegge, Pallade Atena, figlia di altissimo padre, e tiene la sua mano su di noi. Ma sono i cittadini stessi che vogliono distruggere la grande patria – ciechi! – sedotti dal denaro, e dalla mente ingiusta dei capi: ma li attende certo, per la loro violenza, immenso male». 153 75 iL Pensiero omerico è mai da attribuire agli dèi, ma sempre e solo agli uomini. Quanto più conta rilevare però, per la nostra tesi, è che la affermazione della prevalenza della responsabilità umana su quella divina si ritrova già in Omero; pensiamo infatti ancora alla «apologia di Zeus» («Ah, quanto ingiustamente i mortali incolpano gli dèi! Ci dicono infatti causa delle loro disgrazie, ma sono loro con la loro empietà, che si attirarono quelle stesse sventure»)157, nonché alla triste sorte occorsa ai Proci per il loro cattivo comportamento: in questi casi Omero volle porre in evidenza che la infelicità degli uomini si deve principalmente alla loro ignoranza e prepotenza, non al destino o agli dèi. Prima di parlare del tratto “umanistico” degli dèi greci, può essere utile spendere qualche parola sulla concezione greca del destino, nei confronti del quale nemmeno gli dèi hanno potere. Diciamo innanzitutto che l’intreccio di rapporti fra destino e divino nella Grecia arcaica è reso complesso dal fatto che «la parola destino contiene in sé un groviglio davvero straordinario di concetti e di problemi», non ultimo quello per cui questa parola indica «la forma pura della trascendenza e la cellula originaria della esperienza religiosa»158. Si può comunque sin da subito chiarire che il destino, nel pensiero omerico, non è paragonabile ad una sorta di “superdivinità”, di fronte alla quale ciascuno è costretto ad inchinarsi (con conseguente soppressione del libero arbitrio); come ha scritto infatti correttamente ancora Magris, il destino, nella Grecia omerica, è di tipo “umanistico”, ovvero «di regola non impedisce al soggetto di ponderare ed eseguire autonomamente le sue scelte [...]. Esso non toglie libertà all’agire»159. Nei poemi omerici, in effetti, non esiste un unico destino in cui tutto risulti già segnato; la Moira disegna per ciascuno una pluralità di trame, ovvero una serie definita di possibilità buone o cattive, fra le quali è possibile esercitare la propria scelta Come ha notato giustamente in merito M. Zambarbieri, «lungi dall’essere un motivo ornamentale, il messaggio di Zeus all’inizio del poema sembra il nuovo metro per giudicare l’azione dei personaggi dell’Odissea» (L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 188). 158 A. Magris, L’idea…, op. cit., vol. I, pagg. 7-8. Il grande merito di Magris, oltre a quello di avere posto in essere una analisi intelligente del concetto, è avere sin da subito distinto, «sia nel pensiero antico sia nel pensiero moderno [...] l’antitesi basilare di due concezioni ontologiche, delle quali l’una [...] pessimistica e tragica, che concepisce l’essere come una totalità già da sempre compiuta, in cui l’uomo altro non può fare se non riconoscerne la fatalità; l’altra [...], illuministica e moralistica, lo concepisce come un processo aperto, in cui l’uomo esercita un ruolo almeno parzialmente creativo». La prima concezione è di tipo «religioso», la seconda di tipo «umanistico» (ibidem, pag. 8). 159 In AA.VV., Enciclopedia filosofica, op. cit., pag. 2742. 157 76 L'umanesimo omerico in base alla intelligenza ed alla saldezza del proprio animo. La Moira, dunque, appare nei poemi omerici come un intreccio di possibilità, assai difficili da comprendere per gli uomini (Iliade, XVI, 849); si può in ogni caso con certezza affermare che in Omero la credenza nel destino non comportò affatto una deresponsabilizzazione dell’uomo (Iliade, XIX, 187; Odissea, XXII, 303), il quale rimase sempre il principale riferimento onto-assiologico. Il destino può dunque essere presentato come la cornice entro cui operò la libertà degli uomini, in cui poté prendere forma il loro progetto di vita; come ha scritto giustamente A. Ferrari, «la mitologia propone attraverso le vicende esemplari dei suoi eroi l’ipotesi che ciascuno generi da sé il proprio destino, e che si renda in parte artefice di ciò che gli succederà, nel bene come nel male, nel momento stesso in cui compie in piena libertà e per propria volontà una scelta che provocherà però conseguenze ineludibili»160. Se il destino può porre all’uomo solo dei limiti e delle alternative, e gli dèi possono fornire solo dei pareri consultivi e non vincolanti, è evidente che la responsabilità ultima delle decisioni spetta, nei poemi omerici, solo all’uomo; ciò mostra chiaramente come l’uomo omerico fosse di necessità dotato di “coscienza”, e pertanto di “personalità”, il che conferma ulteriormente l’interpretazione umanistica che si sta qui sviluppando. Tale interpretazione però, oltre a sottolineare il carattere autonomo, etico, progettuale dell’uomo omerico, per essere completa deve anche analizzare la sofferenza insita nella consapevolezza dei limiti della vita umana, che costringe a decidere anche quando non si vorrebbe; solo con una attenta analisi della stessa in tutta la poesia omerica e postomerica, si potrà avere una più compiuta comprensione dell’umanesimo greco. Abbiamo in precedenza rimarcato come l’uomo narrato da Omero, dopo la morte, finisse pressoché sempre nell’Ade (o meglio, come vi finisse la sua psyché, il suo io che non è più in quanto incapace di comprendere, di valutare, di agire); solo alcuni uomini privilegiati – come ad esempio Menelao – finirono infatti nei Campi Elisi, ma questa è sorte non comune, riservata al più a chi aveva rapporti di parentela con gli dèi. Proprio per questo suo rapporto consapevole con la morte, l’uomo greco, ed in particolare quello omerico, fu portato ad esprimere forti accenti pessimistici, in quanto tutta la sua vita si giocava nella limitata e contingente esperienza terrena. Realmente numerose sono le citazio160 A. Ferrari, Dizionario di mitologia, Utet, Torino, 1999, pag. 320. 77 iL Pensiero omerico ni che potremmo portare come esempi, ma, per brevità, ci limitiamo a menzionare le principali: «Tale e quale la stirpe delle foglie, è la stirpe degli uomini» (Iliade, VI, 146)161. «Non c’è niente di più miserevole dell’uomo tra tutti gli esseri, quanti respirano ed arrancano sulla faccia della terra» (Iliade, XVII, 466-467)162. Il medesimo tema, quasi alla lettera, è ribadito nell’Odissea: «Nessun essere nutre la terra di più meschino dell’uomo, fra quanti respirano e vi si aggirano» (Odissea, XVIII, 130-131). Questa consapevolezza tragica della finitezza della vita umana non condusse però mai la riflessione omerica, ed in generale greca, ad un nichilistico pessimismo163. Ciò fu correttamente colto anche da E. Rohde, per il quale «non viene in mente a nessun uomo omerico di volgere in tutto e per tutto le spalle alla vita»164; non per questo, comunque, i Greci accettarono consolazioni ultraterrene alla morte. In questo senso, se qualche speranza è presente in alcune correnti filosofico-religiose di epoche successive, ve ne è comunque solo una traccia minimale nell’opera di L’immagine delle foglie è più volte ripresa nell’Iliade ma anche, come noto, in autori di secoli successivi pure molto diversi fra loro, da Mimnermo (fr. 2 Diehl) a Pirrone (fr. 20 Decleva-Caizzi). 162 Potremmo citare, per l’Iliade, anche i passi XXI, 461-468.; XXIV, 518-533 ed altri ancora. 163 Lamentazioni sulla dolorosità del destino di morte furono presenti, fra gli altri, in Mimnermo («Brevi istanti, come foglie, godiamo di giovinezza il fiore», fr. 6 DK), Simonide («Degli uomini [...] dolore su dolore è la breve vita. Su tutti ugualmente pende l’inevitabile morte: i vili e i forti ugualmente l’hanno in sorte», fr. 9 DK), Solone («Nessun mortale è beato, disgraziati tutti quanti vivono sotto il sole», fr. 15 DK), Sofocle («Non nascere è il destino migliore», Edipo a Colono, 1224), Euripide («Tutta dolore è la vita degli uomini», Ippolito), ed altri ancora. Ha scritto comunque correttamente, in merito, L. Zoja, che «proprio la consapevolezza di dover contare solo su se stesso darà all’uomo greco la forza di affrontare le mortali lotte coi Persiani, e gli stimoli per prolungare la sua esistenza nel passato con la ricerca storica, e nel futuro con la comprensione filosofica» (L. Zoja, Storia dell’arroganza, Moretti e Vitali, Bergamo, 2003, pag. 53). 164 E. Rohde, Psyche, Laterza, Roma-Bari, 1970, vol. I, pag. 2. Nella medesima direzione anche Max Pohlenz: «Pessimisti i Greci? Il popolo dalle cui opere si irradia ancora oggi tanto entusiasmo per la bellezza, tanta pienezza di vita? Contro questa teoria il nostro intimo non tarda a ribellarsi. Con buona pace del Nietzsche, l’esperienza ci attesta che il pessimismo è qualcosa di paralizzante» (M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 141). 161 78 L'umanesimo omerico Omero, in cui chiaramente i morti sono solo ombre (schiai), sogni (oneiroi), fumo (kapnos); emblematiche sono le parole di Achille nell’Ade: «Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Preferirei da bracciante servire un altro uomo, un uomo povero e senza podere, piuttosto che dominare tra tutti i defunti» (Odissea, XI, 488-491). Alla luce di queste e di altre citazioni, su cui i manuali di letteratura greca si soffermano spesso, Reale si chiede «in che modo sia possibile all’uomo omerico restare, in concreto, così attaccato alla vita»165; egli risponde affermando che può riuscirvi solo per il proprio stabile e profondo rapporto col divino: «l’uomo omerico intrattiene un rapporto costante con gli dèi, in funzione del quale cerca di spiegare sia il bene sia il male che compie, e di conseguenza di rendersi conto del senso della propria vita»166. Reale sostiene in pratica che nella vita dell’uomo omerico gli dèi risultano essere centrali, e che è proprio da questa presenza che egli trae la propria vitalità. Ora: è indubbio che i poemi omerici descrivano in vario modo questa “presenza” (pensiamo, ad esempio, ad Iliade, XIII, 71-73; XV, 490492, ecc.)167; è però dubbio che i Greci abbiano realmente creduto ai loro dèi (nel senso in cui noi oggi siamo abituati, dopo secoli di monoteismo, ad intendere la parola “credere”)168, ovvero che questi dèi costituissero qualcosa in più di una immagine simbolica pur necessaria ad una migliore comprensione della esistenza. Avremmo infatti a che fare, se così fosse, con una società teocentrica, quale invece l’antica Grecia non fu (come conferma anche l’assenza in essa di libri sacri rivelati). La compresenza di dèi ed uomini nell’opera omerica fu invece determinata, a nostro avviso, non dalla “onnipotenza” ed “onnipresenza” degli dèi, bensì, al contrario, dalla loro “umanità”169, espressa in primo luogo dai loro tratti antropomorfi; gli dèi omerici furono in effetti simili agli uomini, solo immortali e (quindi) più felici. G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 105. Ibidem. 167 In questo senso Reale si associa a W. F. Otto, per il quale in Omero «gli dèi sono presenti ovunque accada, si faccia o patisca qualcosa di decisivo» (Theophania, op. cit., pag. 56). 168 P. Veyne, I Greci hanno creduto ai loro miti?, Il Mulino, Bologna, 2005. 169 Come ha scritto correttamente A. Magris, «in Omero è già presente la tendenza razionalistica a pensare che un certo evento sia stato provocato non da un essere divino, bensì da una ben individuabile causa naturale ed etica» (A. Magris, L’idea…, op. cit., vol. I, pag. 44). Alcuni esempi di ciò sono in Iliade, V, 82; XVII, 418; Odissea, XI, 61; XXII, 413. 165 166 79 iL Pensiero omerico Alla luce di queste considerazioni, e di quelle che svolgeremo fra breve, riteniamo errata la tesi secondo cui, in Omero, vi sarebbe una «radicale dipendenza degli uomini dalle forze divine»170, tanto che gli dèi sarebbero «causa determinante per quanto concerne il pensiero (noos) ed il valore o virtù (aretè) degli uomini, sia in positivo che in negativo»171; nonostante alcuni passi facciano propendere verso questa interpretazione (ad esempio Iliade, XX, 242-243; Odissea, XVIII, 136-142), anche essa, come già abbiamo rimarcato, deve essere esaminata entrando nel corretto circolo ermeneutico con l’umanistico pensiero omerico. Il divino, in Omero, fu infatti prevalentemente immagine metaforica dell’umano, per cui è errato sostenere che «l’azione esercitata dalle forze divine sugli uomini risulta essere capillare in maniera sorprendente»172. Sono i moti dell’animo umano (o meglio, l’ethos) a produrre in Omero le immagini divine, e non, viceversa, le immagini divine a produrre i moti dell’animo umano; per lo stesso motivo, sono i moti dell’animo umano, non le divinità, a produrre le decisioni degli eroi omerici: Achille, Odisseo, Ettore, Aiace, decidono di parlare o di tacere, di combattere o di fermarsi, di agire in un modo anziché in un altro, in base ad una loro scelta cosciente e responsabile, non in base ad una decisione degli dèi. Allo stesso modo, come ricorda Lesky, «l’accecamento dei Proci non è stato mandato dagli dèi, ma è dipeso da loro stessi. Altrettanto va detto dei compagni di Odisseo che uccisero i buoi di Elios, e di Egisto»173. Il ruolo centrale del divino teorizzato da Reale, Rohde, Otto e da molti altri interpreti del pensiero omerico, è inoltre poco compatibile col fatto – poc’anzi rilevato – che il divino non assicura agli uomini omerici alcuna forma di immortalità, come è invece nella maggioranza delle antiche religioni; nell’epoca omerica, come scrive giustamente Eva Cantarella, «la vera, la sola eternità sta nel ricordo dei vivi, nella memoria conquistata in vita con le gesta eroiche, e coltivata dalle generazioni a venire, da altri mortali che ricorderanno. Donde l’ideale della bella morte, quella che coglie sul campo di battaglia, nel momento in cui il corpo è ancora nel pieno del suo splendore, e nel momento in cui, dando la vita per la patria, si incarna l’ideale eroico e si diventa, G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 111. Ibidem. 172 Ibidem. 173 A. Lesky, Storia…, op. cit., pag. 80. 170 171 80 L'umanesimo omerico per sempre, parte di esso»174. Storicamente, gli dèi occuparono un posto centrale nelle varie culture solo quando furono ritenuti in grado di garantire agli uomini l’immortalità, cosa che in Omero non avvenne; la religione omerica fu infatti una religione totalmente immanente, anche in quanto gli dèi non potevano in genere salvare gli uomini dalla morte. Bandita ogni trascendenza, è evidente come l’immanenza si renda trascendentale, ovvero si carichi del senso onto-assiologico dell’intero, il che comportò il fatto che la coscienza degli uomini omerici non si rinchiuse nella individualità, bensì si aprì alla universalità, ovvero alla collettività175; l’Iliade stessa del resto, pur partendo da un episodio particolare, argomentò temi di portata universale. Significativa, per rimarcare ancora l’umanesimo omerico, è poi l’origine terrena di quelle figure “semidivine” che furono gli eroi omerici. Come ha scritto A. Brelich, gli eroi greci furono verosimilmente «personaggi – sia pure eccezionali per origini e per carattere – realmente vissuti sulla terra, come confermato anche da determinate fonti di ordine culturale. Una gran parte dei culti eroici si accentrava intorno alla tomba dell’eroe»176; importa inoltre rilevare che questi eroi furono ritenuti importanti non tanto per il carattere “semidivino” della loro stirpe (Achille, e diversi altri miti, ebbero un genitore fra gli immortali), quanto perché spesso considerati fondatori di città e culti pubblici, dunque delle prime istituzioni, le quali possedevano in Grecia una importanza rilevante. In Omero la vita si svolge tutta sulla terra, ed è per questo che diventa necessario per gli eroi, per dare un senso alla loro esistenza, ricercare una gloria che ne immortali il ricordo177, così come, per gli uomini E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 149. È bene ribadirlo anche per confutare un altro luogo comune, quello del particolarismo greco; rinviamo, in merito, a L. Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica, Petite Plaisance, Pistoia, 2011. 176 A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Ed. Ateneo e Bizzarri, Roma, 1978, pag. 9. 177 Come ha scritto correttamente F. Hartog, «per i Greci la morte vince sempre. Ogni parola umana ha a che fare con la morte [...]. Gli uomini raccontano perché sanno di essere mortali» (F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, Il Saggiatore, Milano, 1992, pag. 6). In maniera analoga J. P. Vernant: «L’epopea non è soltanto un genere letterario; è anche, come i funerali e nella stessa linea dei funerali, una delle istituzioni che i Greci hanno elaborato per dare una risposta al problema della morte, per acculturare la morte» (J. P. Vernant, L’individu, la mort, l’amour, Paris, 1989, pag. 6). Dall’epopea poi, grazie soprattutto ad Erodoto, il campo si allargò alla storia, che fu sempre un tentativo di conservare la me174 175 81 iL Pensiero omerico comuni, è necessario condurre una esistenza esemplare; si tratta degli aspetti educativi dell’etica omerica su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. In ogni caso quanto sosteniamo, ovvero il carattere immanente della religione greca, emerge anche dal fatto che è assente, in tutta l’epica e la cultura del periodo, ogni accenno ad un culto organico dei defunti che andasse al di là dei riti funebri; ciò appunto in quanto, dopo la morte, i Greci ritenevano che il vero io della persona non esistesse più, né sarebbe più esistito. Proprio in questa riflessione sul filo sottile della vita tessuto dalle Moire (un filo che appunto, oltre che finito, era lieve, dunque portato anche a spezzarsi anzitempo), come ha scritto correttamente M. Zambarbieri, nacque però «la premessa dei grandiosi sviluppi del pensiero greco nella tragedia e nella filosofia»178. La tesi che stiamo discutendo, ovvero che nei poemi omerici gli dèi determinassero la vita degli uomini, è solitamente argomentata dagli interpreti citando casi in cui gli dèi sono incolpati di provocare le azioni degli uomini (ad esempio Iliade, III, 154-165; XIX, 85-97; ecc.), o sono descritti nell’atto di causare queste azioni (ancora ad esempio Iliade, III, 390-420; XVIII, 310-313; XIX, 85-97; ecc.); tuttavia gli dèi che, volta per volta, illuminano o accecano la mente degli uomini, devono essere interpretati come “miti”, ossia come simboli della ragione morale che, se presente, illumina gli uomini, e se assente li acceca. In questo senso concordiamo pienamente con S. Accame quando afferma che «l’antropomorfismo degli dèi omerici è una forma di razionalismo»179, ossia di quella ricerca di verità propria anche della Grecia omerica. Così come gli Ittiti, i Fenici, i Sumeri, i Babilonesi e gli Egizi, i Greci «non ammettono un contrasto tra dio e mondo, perché gli dèi olimpici hanno la stessa madre degli uomini»180; la stessa cosa scrisse anche Pindaro nella VI Nemea. Per questo motivo non è possibile concordare con chi, come W. F. Otto, ritiene che una presenza poetica così importante degli dèi sia sufficiente ad annullare, nell’uomo omerico, «ogni autonomia e libertà nel senso che noi diamo a queste parole»181; al contrario, hegelianamente, gli dèi esprimevano proprio la necessità della presenza di moria delle cose umane più nobili, di tutti gli uomini. In effetti, «dall’epopea alla storia si ritrova la medesima scelta e opera la stessa matrice normativa. Ciò che hanno fatto gli uomini richiede di essere raccontato» (F. Hartog, Lo specchio…, op. cit., pag. 6). 178 M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 535. 179 S. Accame, Gli albori…, op. cit., pag. 123. 180 Ibidem, pag. 126. 181 W. F. Otto, Theophania, op. cit., pag. 61. 82 L'umanesimo omerico principi insieme razionali e morali, il rispetto dei quali costituiva per l’uomo la vera libertà. Questi principi erano “necessari” da seguire per una buona vita, ma l’uomo era “libero” di seguirli o meno; l’uomo li seguiva infatti – quando li seguiva – volontariamente, e pertanto è errato sostenere (come fa sempre Otto nel seguito del passo poc’anzi citato) che l’uomo omerico non disponesse nemmeno del concetto di «libera volontà», a suo avviso presente solo dopo Kant: si tratta di una visione davvero riduttivamente “modernistica” della grecità! Il fatto poi che l’epoca omerica fosse maggiormente disponibile alla tolleranza rispetto a quella moderna non fu certo, a nostro parere, il frutto della credenza nel fatto che le forze divine operassero in ogni atto umano, ma il contrario; proprio infatti in quanto si sapeva che la verità era difficile da raggiungere, l’uomo omerico fu maggiormente disposto a comprendere l’errore e la colpa. Gli dèi greci furono tanto vicini agli uomini in quanto furono “umani”, e non in quanto determinarono le loro decisioni ed azioni, a meno appunto di pensare l’uomo omerico come una marionetta nelle mani degli dèi, in maniera però – come detto – contrastante con quanto scritto nell’Iliade e nell’Odissea (le quali, come molti interpreti intelligenti hanno colto, «concentrano il loro interesse prevalentemente sul mondo umano»)182. Se i poemi omerici sono letti da quasi tremila anni, del resto, è perché si tratta di testi classici che parlano agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, ovvero che si occupano delle questioni più importanti inerenti il senso ed il valore della vita umana; se si fossero occupati prevalentemente degli dèi greci, data la decadenza storica del paganesimo, i due poemi non avrebbero l’attualità che pure tuttora possiedono. Nel mondo omerico, dunque, non vi fu quella priorità gerarchica del mondo divino su quello umano cui ci hanno abituato da secoli le religioni monoteistiche; come ha scritto correttamente J. Latacz, nel mondo omerico vi fu un «Olimpo con dèi singolarmente vicini agli uomini, che parlano con i mortali»183. La prossimità fra uomini e dèi è sottolineata anche da Anna Ferrari, la quale ha ricordato come «nella mitologia classica le divinità si presentino con prerogative peculiari a ciascuna, M. Zambarbieri, L’Iliade com’è, op. cit., vol. II, pag. 942. Zambarbieri aggiunge inoltre, sempre correttamente, che «Omero rappresenta la vita in tutte le sue forme, nel bene e nel male» (ibidem, pag. 943). 183 J. Latacz, Omero, op. cit., pag. 3. 182 83 iL Pensiero omerico e con personalità ben distinte e marcate»184, simili a quelle umane. La pariteticità fra dèi ed uomini è provata anche dal fatto che le dèe non disdegnavano di sposare mortali; che i guerrieri si battevano con gli dèi talvolta con esiti favorevoli (come Diomede nel libro V dell’Iliade), e che un uomo ed una dea potevano anche conversare amabilmente fra loro (come Odisseo ed Atena in Odissea, XIII, 72 ss.; vedi anche Iliade, I, 194; XX, 291; XXIV, 128). Vi è stato poi addirittura chi, come R. Beye, è giunto ad affermare che in epoca omerica «l’uomo è superiore al dio, cosa che i greci accennano, sottintendendolo, ma non affermano mai espressamente»185; Beye ha sostenuto inoltre che la letteratura omerica «era un fondamento naturale della società quanto la religione. Anzi, data l’assenza di una casta sacerdotale e di un dogma costituito, ed in virtù della sorprendente tendenza dei Greci a collocare le cose divine in un ambiente terrestre, a misurare dio dall’uomo, la letteratura ha forse come istituzione sociale una importanza maggiore»186. Queste affermazioni di Beye possono certo sembrare eccessive, ma è indubbio come la prossimità, e non la gerarchia, costituisse la caratteristica principale dei rapporti fra dèi ed uomini nella Grecia omerica; come ha ricordato del resto L. Pareti, al tempo di Omero «accanto ai carmi epici ne circolavano molti altri, specie di carattere sacrale, che narravano, umanizzandole, le vicende degli dèi, sia di quelli considerati tali da tutti i greci, sia di quelli minori decaduti ad esseri semidivini, ad eroi localizzati sulla terra»187: gli uomini si sentivano rassicurati dalla umanità degli dèi. Le idee morali umanistiche ebbero dunque, sugli uomini omerici, ancor più presa della influenza degli dèi188. Prova ne è il fatto che nemesis, la divinità che si sdegna e punisce il peccato di hybris, «rappresenta la personificazione di idee morali astratte [...] In Omero la parola indica un’idea etica, assai più che una vera e propria personalità divina»189. I A. Ferrari, Dizionario di mitologia, op. cit., pag. 232. R. Beye, Letteratura…, op. cit., vol. I, pag. 66. 186 Ibidem, pag.VII. 187 L. Pareti, Omero e la realtà storica, Garzanti, Milano, 1959, pag. 12. 188 Gli dèi peraltro, specialmente nell’Odissea, avevano vere e proprie personalità morali “umanistiche”, ossia intelligenti e benevole verso gli uomini, tendenti in generale ad apprezzare la giustizia (ad esempio XV, 485 ss.); pensiamo solo – caso emblematico – all’affetto provvido con cui Atena seguì le vicende dell’uomo a lei per senno e costumi più vicino, ossia Odisseo. 189 A. Ferrari, Dizionario di mitologia, op. cit., pag. 493. 184 185 84 L'umanesimo omerico Greci antichi, col termine hybris, designarono la tracotanza, la violenza smodata di chi, incapace di porsi con misura, non rispetta i diritti altrui; come ha giustamente scritto C. Del Grande, «questa tracotanza prende a bersaglio un uomo o degli uomini; ma, al di sopra del fine malvagio, offende direttamente gli dèi, custodi dell’ordine sociale e del mutuo diritto d’amore tra gli uomini. Perciò contro la hybris sta sempre nemesis»190. In merito al tema della hybris, Del Grande ha sostenuto una tesi molto diffusa, in base a cui «hybris è tracotanza di un uomo contro un suo simile della medesima classe sociale»191. Tuttavia questa logica – come già rimarcato – appare troppo restrittiva. Essa sarebbe valida solo se non fosse esistito, in epoca omerica, alcun contesto comunitario prepolitico. Questa non è però l’immagine corretta della Grecia omerica; Odisseo, certo, fu molto duro nei confronti di Tersite (II, 211-277), ma non certo per un pregiudizio “classista” – che infatti appunto non aveva verso concittadini e compagni –, bensì solo per il mantenimento dell’ordine comunitario. Non ci pare per questo che si possa affermare che l’episodio di Tersite sia il «riconoscimento che chi si ribella all’ordine costituito merita di esservi costretto dalla forza»192; se così fosse, ci troveremmo non solo in una società classista, ma addirittura ultratotalitaria, il che però – a parte lo «stato d’eccezione», nell’Iliade, costituito dalla guerra – non pare compatibile col contesto storico-sociale descritto dall’opera omerica. Il concetto di hybris fu universale, e non tenere conto di ciò porta, a nostro avviso, a conclusioni contraddittorie; Del Grande, per rimanere fedele alla sua tesi “classista”, deve infatti ad esempio sostenere che, nonostante lo strazio del cadavere di Ettore, «in Achille hybris nel senso deteriore del termine non ce n’è»193, il che è palesemente contrario alle norme etiche omeriche. Per quanto, comunque, riguarda le altre idee incarnate da personalità divine, il discorso rimane lo stesso: la metafora mitica era il modo, tipico dell’epoca omerica, di trasmettere le proprie concezioni etiche C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 1. Hybris è termine che, nell’Iliade, ricorre solo due volte (I, 202; 214) riferito ad Agamennone, anche se più volte, ad esempio nel canto XIII, compare l’aggettivo hybristes (infetto di hybris). Il termine però compare un gran numero di volte nell’Odissea, in cui appunto si mostra che ad hybris si oppone nemesis (XVII, 431 ss.; XVIII, 112-157; XX, 345-386; ecc.). 191 C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 10. 192 Ibidem, pag. 11. 193 Ibidem, pag. 18. 190 85 iL Pensiero omerico ed educative. Come ha scritto giustamente F. Codino, «gli dèi omerici [...] compaiono per spiegare l’origine di una azione umana [...] la società divina si eleva di poco al di sopra del mondo umano, e conserva con esso molteplici legami pratico-sentimentali [...] Al tempo di Omero l’antropocentrismo della religione greca era avviato alle conseguenze estreme»194, ovvero ad un completo umanesimo. Gli dèi omerici non furono certo ancora, come lo saranno invece in epoca classica, dei modelli ideali di perfezione cui adeguarsi; proprio per questo, però, essi furono molto umani, forse “troppo”, come avrebbe detto Nietzsche. L’umanità di questi dèi si coglie anche dal fatto – quasi impensabile nel monoteismo ebraico – che la loro beatitudine è messa a repentaglio dai “mortali”, i quali ad esempio li fanno preoccupare (Iliade, II, 1-4), o litigare fra loro (Iliade, I, 574; VIII, 428; XXI, 380; XXI, 463). La prova maggiore dell’umanesimo omerico è costituita però dalla possibilità di descrivere quasi sempre le divinità in termini umanistici. L’esempio più eloquente è costituito dalla coppia concettuale aidos/nemesis. Abbiamo già rimarcato in precedenza come nemesis, ancor più che una divinità, esprimesse nei poemi omerici un concetto morale; come si evince dalla sua stessa radice (da nomos, legge), essa rappresenta uno stato d’animo risentito per il mancato rispetto della legge, ed in generale esprime un sentimento di giustizia che respinge tutto ciò che si pone con hybris, nei confronti degli uomini e degli dèi, per favorire il ripristino di un più armonico stato originario. La stessa cosa accade per aidos, che indica la vergogna che si prova davanti alla propria comunità quando si commette ingiustizia, e dunque al contempo il ritegno che impedisce di commettere tale ingiustizia; l’aidos, nell’etica omerica, costituì uno dei maggiori freni contro la decadenza morale che Omero, ed ancor più Esiodo, sentirono incombere sulla loro epoca. Questo il fulcro del messaggio educativo omerico, che affronteremo nel prossimo paragrafo. È possibile comunque concludere questa breve trattazione dei rapporti fra mondo naturale, umano e divino affermando, con A. Lo Schiavo, che nella concezione di Omero questi tre mondi «si corrispondono vicendevolmente, si distinguono ma non si separano; natura, umano e divino hanno strutture comuni»195. Si tratta di un punto necessario da tener presente per la corretta comprensione dell’etica omerica. 194 195 F. Codino, Introduzione…, op. cit., pag. 164. A. Lo Schiavo, Omero filosofo, op. cit., pag. 215. 86 La centraLità deLL'etica omerica In questi ultimi due paragrafi di questa prima parte parleremo, rispettivamente, di etica e di educazione omerica. Pressoché tutti gli interpreti, del passato e del presente, hanno infatti riconosciuto Omero come pensatore di tematiche etiche ed educative; nella maggior parte dei casi, però, questi interpreti hanno colto una prevalente discontinuità nell’etica greca, che riguarderebbe soprattutto l’etica omerica e quella classica. Cogliere una continuità o una discontinuità, in un arco temporale così vasto quale è quello della antica cultura greca, dipende spesso dalle inclinazioni dell’interprete; vi è infatti chi è più portato a rimarcare le comunanze, e chi le differenze. Tuttavia, almeno per quanto concerne l’etica, vi è a nostro avviso una prevalente continuità nel pensiero dei grandi autori greci, da Omero ad Epicuro, caratterizzata dalla centralità di alcune importanti tematiche (l’umanesimo e l’anticrematistica). Per valutare se davvero vi sia stata una prevalente continuità dell’etica greca, procederemo dapprima con una descrizione dell’etica omerica e poi, col consueto metodo dialettico, effettueremo una sintetica analisi comparata con l’etica classica; anticipiamo subito che, anche in questo caso, le conclusioni cui perverremo si oppongono a quelle dominanti. La tesi maggioritaria è infatti, come detto, quella per cui fra etica omerica ed etica classica vi sarebbe una forte discontinuità. Molti autori ritengono peraltro che di una etica vera e propria si possa parlare solo a partire da Aristotele, in quanto, come ha sostenuto ad esempio M. Vegetti, «fino a Platone l’etica non ha alcuna autonomia dalla sapienza e dalla filosofia»196; si può in effetti affermare, come hanno giustamente rimarcato vari studiosi (fra cui K. Polanyi), che in epoca omerica l’etica, la politica, l’economia ed in generale la cultura furono fuse insieme nel modo di produzione sociale antico, sicché è estremamente difficile astrarre da questo contesto l’etica per analizzarla. Il fatto che questa operazione sia difficile non la rende però, a nostro avviso, impossibile; 196 M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 182. 87 iL Pensiero omerico è infatti possibile affermare innanzitutto che esiste un’etica omerica, e poi che questa etica fu in sostanziale continuità con quella classica. Cominciamo, dunque, dall’inizio. Quale è, secondo gli studiosi, la caratteristica principale dell’etica omerica? Come già abbiamo accennato, la interpretazione prevalente dell’etica omerica rimane ancora oggi quella di S. Weil, che indicò l’Iliade come «il poema della forza»197, e che considerò tale opera come la più rappresentativa fra quelle di Omero; si tratta di un approccio condiviso sia da parte liberale che da parte marxista, come dimostra ad esempio la lettura di Mario Vegetti. Lo studioso milanese è infatti portato ad evidenziare, nell’etica omerica, soprattutto il rapporto antagonistico derivante dallo scontro oppositivo fra diversi uomini e ceti; nonostante Vegetti colga un aspetto indubbiamente presente nei poemi omerici, nel ritenerlo come il principale egli compie però, a nostro avviso, un errore grave, che gli fa perdere la corretta comprensione umanistica dell’etica omerica. Alcune sue argomentazioni possono aiutare a chiarire meglio questo punto. Vegetti anzitutto sostiene che la «virtuosità», in Omero, «si esprime soprattutto ed essenzialmente nell’agone guerriero, nella capacità di far prevalere la propria forza su nemici e rivali»198; a suo avviso, nell’Iliade aretè è connessa essenzialmente con bia. Ebbene: nonostante ciò sia talvolta vero (ad esempio IX, 498; XIII, 277; XV, 642), sostenere questo in generale equivale a descrivere il mondo omerico come una società animalesca199, descrizione che è invece fortemente contraria al vero. Se è infatti corretto sostenere che il coraggio è la grande virtù dei mitici personaggi omerici (Achille, Odisseo, Diomede, ecc.), è ancor più corretto rimarcare che il poeta elogia implicitamente questi personaggi quando essi fanno buon uso di questa virtù, mentre li biasima quando ne fanno cattivo uso, ovvero ad esempio quando trasformano l’eroismo in prevaricazione (pensiamo, in positivo, all’elogio della moderazione di Odisseo, ed in negativo alla critica della efferatezza di Achille). Le virtù, in generale, sono sempre tali, ma solo finché mantengono, nel rapporto con la situazione, la giusta misura; smarrendo questa, esse si trasformano in vizi, quali sono, in quanto tali, tutti gli eccessi. Per S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Torino, 1967, pag. 31. M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 17. 199 Come lo stesso Vegetti ammette, infatti, «il carattere fondamentalmente agonale della virtù eroica, la difesa ad oltranza della propria time, non possono accettare i vincoli [...] della stessa condizione umana [...]. L’affermazione di sé richiede la negazione dell’altro» (L’etica degli antichi, op. cit., pag. 18). 197 198 88 La centralità dell'etica omerica questo motivo discordiamo dalla tesi di Vegetti secondo cui in epoca omerica areté sarebbe da identificare principalmente con bia, ovvero dalla tesi per cui «nella società omerica non esistono [...] presupposti di una concezione morale collaborativa, fondata sulla comunanza dei valori»200; tale tesi si scontra infatti con molte descrizioni della società omerica presenti sia nell’Iliade che nell’Odissea. Pensiamo ad esempio, tanto per cominciare, alla più grande comunità descritta dall’Iliade, vale a dire la città di Troia. Si tratta di un contesto in cui regna grande armonia fra governanti e cittadini, dato che la città resiste, nella descrizione omerica, a dieci anni di assedi e privazioni senza sommosse interne. Ettore in effetti, figlio del re Priamo e designato erede al trono, decise di affrontare la probabile morte in battaglia con Achille proprio per amore della propria gente, con la quale condivise una evidente «comunanza di valori»; come ha rimarcato in merito anche B. Snell, «la società omerica sta insieme perché nel suo complesso gli uomini hanno una concezione unitaria di ciò che è buono e cattivo. I Greci, e allo stesso modo i Troiani, sanno che cosa sia un uomo buono. Per loro, non è dubbio in cosa consiste la virtù»201. Prendiamo inoltre ancora, sempre nell’Iliade, l’altra grande comunità di riferimento, ovvero l’unione di popoli “greci” riunita in esercito: ebbene, pur composta da popoli fino a pochi anni prima anche in guerra fra loro, seppure con qualche mugugno tale unione riuscì a rimanere compatta per dieci anni, rivelando un forte spirito collaborativo. Tutto ciò deve essere posto sul conto della «virtù violenta» di Agamennone, capo della spedizione, oppure del fatto che questi popoli, che pure ancora non si identificavano compiutamente come Elleni, si sentivano comunque vicini per lingua, tradizione, costumi, e dunque anche per “comunanza di valori”? Riteniamo che la seconda ipotesi sia la più verosimile202. Vegetti in sostanza, con la sua interpretazione, coglie una parte della verità (la «virtù agonale» presente nell’Iliade), ma tende indebitamente, sulla scia di una tradizione consolidata, a farla diventare l’intera verità, ossia a trascurare i valori umanistici presenti nell’opera omeriIbidem, pag. 20. B. Snell, Poesia e società, Laterza, Roma-Bari, 1971, pag. 26. 202 Come scrisse S. Mazzarino, sottolineando il carattere comunitario della società omerica, «l’epos è innanzi tutto una testimonianza di amore alla terra di origine, alla Grecia continentale» (S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, Rizzoli, Milano, 1989, pag. 89). 200 201 89 iL Pensiero omerico ca203; il giudizio di Vegetti è talmente negativo che egli giunge perfino ad affermare che, oltre agli eroi, anche «gli dèi sono privi di qualità morali che non consistano nella virtù della loro forza»204. È infatti agli dèi, ed in particolare ad Apollo (offeso per la sottrazione compiuta da Agamennone della figlia Criseide al sacerdote Crise), che Vegetti imputa proprio l’inizio della catena delle violenze per la time offesa, la quale avrebbe informato tutta l’etica conflittuale omerica. Ebbene: nonostante dèi ed eroi, come notò anche Platone, non sempre si distinsero per la loro etica nei poemi omerici (in particolare nell’Iliade, poema che non a caso la Weil e Vegetti prendono come pressoché unico riferimento), non è corretto a nostro avviso affermare che il loro timbro identificativo fu costituito dalla violenza205; nell’Iliade furono infatti preponderanti valori etici di condanna della bia (la quale, se eccessiva e mal rivolta, fu considerata hybris anche nei poemi omerici), e furono primariamente proposti valori comunitari, come prova il ruolo di primo piano della figura di Ettore su cui poi ci soffermeremo. Pensiamo ad esempio al tema della difesa dei deboli, più volte ribadito soprattutto dall’Odissea (e presente anche negli Erga di Esiodo, 327 ss., ma poi pressoché scomparso dall’umanesimo rinascimentale e moderno); come ebbe giustamente a scrivere G. Murray, «qualsiasi lettore sensibile alla poesia greca antica noterà l’importanza, o addirittura la santità, che viene considerata come caratteristica di tre categorie di esseri umani: stranieri, supplici e persone anziane. Cosa c’è in comune tra queste tre categorie? [...] Nient’altro che il fatto di essere indifese»206. Ebbene: può essere questa l’etica di una società che si incentra sulla forza? A noi pare che questa lettura tradizionale debba essere rivista. Riteniamo che, su questo punto, avesse ragione – sebbene forse idealizzando un po’ – M. Zambarbieri, nel sostenere che «dire che l’Iliade è il poema della forza (Weil) è cedere all’amarezza di un profondo dolore, ed applicare all’antico carme di Omero criteri di giudizio validi per i nostri tempi feroci» (L’Iliade com’è, op. cit., vol. II, pag. 991). 204 M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 27. 205 Contrariamente a Vegetti, riteniamo infatti che avesse in merito ragione G. De Sanctis ad affermare che, pur essendo estraneo ad Omero «il concetto che gli dèi amino l’umanità in generale» (G. De Sanctis, Per la scienza della antichità, Borea, Torino, 1907, pag. 7), in lui fu comunque presente il concetto per cui «la divinità si fa portatrice dell’ordine sociale, ed anziché operare senza legge, interviene regolarmente a difesa dell’oppresso, e a danno dell’oppressore e dell’ingannatore» (ibidem, pag. 18). Sulla stessa linea anche L. Zoja, il quale ha rimarcato che «nell’Odissea la divinità comincia a presentare qualche aspetto equo e quasi provvidente. Odisseo può contare sulla protezione di Atena e su un embrionale interesse per la giustizia dello stesso Zeus» (L. Zoja, Storia…, op. cit., pag. 55). 206 G. Murray, Le origini… op. cit., pag. 114. 203 90 La centralità dell'etica omerica Per questi motivi riteniamo non corretto affermare, come invece fa Vegetti, che l’Iliade «canta ed elogia la vendetta e il massacro, l’accumulo di bottini infiniti, gli interminabili banchetti, l’uso dei corpi femminili»207; occorre rimarcare in merito che l’Iliade descrive effettivamente «l’eccesso e le passioni», come «l’ira, la collera, l’avidità di ricchezza, la brama dei piaceri del cibo e del sesso»208, ma non le elogia. Al contrario, vi sono molti passi in cui questi contenuti sono esplicitamente deprecati! Pensiamo ad esempio ai versi, che citeremo nel secondo capitolo, con cui nell’Iliade Achille insulta Agamennone proprio accusandolo di avidità; o pensiamo ancora, nell’Odissea, a quando Odisseo, nell’isola dei Feaci, si sdegnò proprio quando venne provocatoriamente sospettato di essere un mercante. Circa poi il presunto elogio della vendetta, se essa fu nei poemi omerici tollerata ed in alcuni casi ritenuta giusta209, va ribadito che essa fu comunque duramente criticata quando eccessiva, smisurata, e dunque sfociante in massacro; in questo senso, nella disfatta finale dei Proci, anche Odisseo non pare esente da biasimo, pur impedendo ad Euriclea di esultare sui nemici uccisi. Circa invece gli «interminabili banchetti», essi (rari) sono accettati solo come momenti conviviali e ristorativi, mentre sono deprecati (pensiamo ai banchetti dei Proci) quando predatori e dissoluti. Circa, infine, «l’uso dei corpi femminili», se pure esso (raro) pare comprovato con serve ed ancelle, è comunque in generale precluso con mogli e donne libere non consenzienti; in epoche in cui certo la presenza della donna non era centrale, in alcune magistrali figure femminili (pensiamo nell’Odissea ad Arete, a Nausicaa, ad Elena ed a Penelope) Omero rappresentò un atteggiamento di grande stima e rispetto per l’altro sesso, evidentemente auspicando che esso potesse diffondersi. Come mostreremo anche nel prossimo capitolo, Omero assegnò alle donne un posto di rilievo, sebbene non ancora quella sostanziale parità auspicata da Platone nella Repubblica; si trattò comunque di una delle molte tematiche su cui Omero e Platone risultarono essere in continuità. M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 33. Ibidem. 209 In merito al tema della vendetta, ci pare sostenga bene M. Zambarbieri che «prima di Solone e delle sublimi fantasie tragiche di Eschilo, il poeta dell’Odissea chiude il poema con una novità [...] la scena celeste del colloquio tra Zeus ed Atena (XXIV, 472-6) sancisce la necessità che l’antica legge della vendetta, fonte di interminabili lutti all’interno delle famiglie, delle tribù, delle città, venga sostituita con una legge più umana e civile, fondata sul valore morale della giustizia tutelata dalla polis nascente» (M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. II, pag. 750). 207 208 91 iL Pensiero omerico Mostrata l’etica omerica come “comunitaria” anziché “conflittuale”, occorre ancora sottolineare come essa si sia posta come il passo iniziale dell’etica classica, con la quale dunque avanzò in continuità. La continuità del resto era ritenuta un valore anche da Omero, che nella Odissea rimarcò più volte l’importanza di conoscere molte cose antiche (II, 188; VII, 156; IX, 281; XII, 188), dato che esse conducono ad avere pensieri onesti (XIX, 248), amichevoli (III, 277), giusti (II, 231; V, 9; XIV, 433), saggi (IV, 696; IV, 711; VIII, 586), benevoli (XIII, 405; XV, 557); lo stesso valore – sebbene con la giusta criticità platonica, su cui fra breve ci soffermeremo – fu rivendicato dall’etica classica nei confronti dell’etica antica. La continuità maggiore presente nel pensiero greco fu comunque la chiara comprensione che all’interno delle modalità sociali vi sono forze che tendono a realizzare la natura razionale e morale dell’uomo (e che dunque favoriscono la felicità), ed altre che tendono invece a derealizzare tale natura. Come ha ben colto W. Jaeger, ponendo l’accento sull’Odissea più che sull’Iliade, emerge nella Grecia antica il senso di una quotidiana umanità, tanto che anche “l’eroe” non è principalmente il guerriero coraggioso e violento, quanto «l’uomo colmo di saggi consigli, che in ogni situazione sa trovare le parole opportune»210; “eroe”, dunque, non fu solo Odisseo, ma anche, ad esempio, il porcaro Eumeo. Nell’Odissea Omero rivelò pure, come ricordato, la propria vicinanza agli ultimi, mostrando di conoscere bene – le famose parole di Eumeo – che «Zeus toglie all’uomo metà della propria virtù, quando lo pone come servo» (XVII, 321-323), in quanto la privazione della libertà e della autonomia furono sempre, sin dall’epoca omerica, percepite come la maggiore privazione di dignità ed umanità. Rimarcare la continuità dell’etica greca equivale a rimarcare, in questo libro dedicato all’umanesimo omerico, come proprio in Omero nascano i primi concetti etici e politici, nonché le prime riflessioni sulla giustizia, sulla uguaglianza, sulla virtù211. Per questo motivo abbiamo ritenuto importante sottolineare la distanza da tesi che, presentando l’etica omerica come agonale-conflittuale, oltre a “falsificare” una cultuW. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 60. Concordiamo in merito, stavolta, con M. Vegetti, il quale, contrariamente ad Aristotele che riconosceva a Socrate il merito di «avere per primo indagato intorno alle virtù etiche» (Metafisica, 1078 b 17-18), ha invece sostenuto che «la discussione e la riflessione sui valori e le norme morali sono certamente tanto antiche quanto il primo documento scritto della cultura greca, l’Iliade» (M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 3). 210 211 92 La centralità dell'etica omerica ra, creano nell’immagine della civiltà greca una artificiosa discontinuità, sfavorendo la comprensione di quei valori comuni che possono invece ancora fungere da riferimento per il mondo di oggi. È curioso peraltro – ma significativo – che questa continuità sia in alcuni passi ammessa anche da Vegetti, il quale ha rimarcato come «nella cultura antica le diverse tradizioni permangono tenacemente, senza che né Platone né Aristotele, ma in fondo neppure Omero [...] siano mai in effetti superati da posizioni nuove»212. Ci pare che questa continuità sia in buona parte dovuta al carattere “sociale” e “politico” della cultura greca, che ha sempre mirato in primo luogo non ad essere “astratta”, bensì ad essere “concreta”, ossia utile per la comunità. Si tratta di un tema che è stato sviluppato, fra gli altri, da G. Murray, secondo cui la poesia greca è «una forza che ha contribuito al progresso del genere umano»213, inteso come un arricchimento dei contenuti della buona vita. Per gli antichi, infatti, la poesia è una di quelle arti in cui «l’uomo si rende utile agli altri uomini»214, in quanto «la concezione dell’arte come qualcosa di utile alla comunità era assai più radicata negli antichi Greci che in noi»215. Le riflessioni più note circa la funzione politico-sociale dell’arte furono sicuramente, nel mondo antico, quelle presenti nella Repubblica di Platone; in generale però i Greci, di fronte ad ogni opera letteraria, si chiesero sempre se essa contribuisse a rendere migliore la vita umana oppure no216, e questo fu verosimilmente anche l’atteggiamento di Omero nello scrivere le proprie opere. Ciò vale peraltro non solo per l’arte e per la letteratura, ma anche per i nascenti studi storici: Diodoro Siculo, ad esempio, iniziò il suo scritto facendo riferimento alla lunga catena di storici che «con le loro fatiche hanno aspirato a recar giovamento alla vita pubblica»; Tucidide, poi, pose esclusivamente l’utilità sociale come fine della propria opera (I, 22), e tale fu sicuramente anche l’intento di tutta la tradizione medica e scientifica. Contrariamente a quanto si è soliti credere, infatti, la letteratura greca, sin dall’epoca omerica, fu «una espressione della lotta dello spirito umano per la libertà e la dignità»217; come ha scritto sempre G. Murray, «i Greci non furono un Ibidem, pag. IX. G. Murray, Le origini dell’epica greca, op. cit., pag. 9. 214 Ibidem. 215 Ibidem. 216 Ciò emerge anche in Aristofane, Rane, 1008; 1035. 217 G. Murray, Le origini dell’epica greca, op. cit., pag. 11. 212 213 93 iL Pensiero omerico popolo di schiavisti [...] I greci furono semmai i primi esseri umani che ebbero dubbi e scrupoli davanti allo schiavismo»218. La continuità della cultura greca a partire dall’etica omerica è stata sostenuta anche da M. Zambarbieri, il quale ha rilevato che, per quanto concerne la giustizia, «è possibile trovare in Omero i germi dei futuri sviluppi etici e poetici di una meditazione plurisecolare»219. Dike, nei poemi omerici, non riguardò infatti solo le sentenze dei tribunali, ma soprattutto le valutazioni morali. Eumeo, ad esempio, nell’Odissea ricordò che «gli dèi non amano le azioni scellerate, ma amano la giustizia ed il retto operare degli uomini» (XIV, 83-84), e questa tesi, variamente modulata, rimase costante in tutta la cultura greca, fino all’epoca ellenistica; nell’opera di Omero, infatti, dominarono le riflessioni sui problemi etici (giustizia, felicità, ecc.), e per il pensiero greco questi problemi furono “i problemi”, ovvero le tematiche più importanti da affrontare. Un altro tema etico di tipo umanistico che nacque nell’opera omerica, ma che fu poi presente in tutta la cultura greca almeno fino all’epoca classica, fu quello della ospitalità nei confronti degli stranieri. Abbiamo trattato ampiamente di questo tema, dedicando molte pagine ad Omero, nel nostro Gli stranieri nella Grecia classica, per cui non ripeteremo qui quanto già scritto allora; ricordiamo soltanto, come episodio paradigmatico in quella sede non citato – ci siamo allora soffermati soprattutto sull’accoglienza ricevuta da Odisseo dapprima da Nausicaa nell’isola dei Feaci, e poi da Eumeo nell’isola di Itaca –, la accoglienza ricevuta da Telemaco a Pilo da Nestore (oltre che dai suoi famigliari e concittadini). Quando questi ultimi, infatti, scorsero Telemaco ed i suoi accompagnatori, nonostante stessero partecipando ad una cerimonia sacra, «insieme andarono loro incontro, e li salutarono con grandi strette di mano, e li invitarono a sedere accanto a loro» (III, 33-35); Nestore affermò, in maniera emblematica, che «è necessario dare ospitalità agli stranieri, chiunque arrivi nella nostra casa» (III, 355). Simile fu peraltro, a Sparta, l’accoglienza riservata a Telemaco da Menelao (IV, 30-36), non limitata al mero «dono ospitale»220. Ibidem, pag. 28. M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. II, pag. 769. 220 Come mostreremo più avanti, un altro tema molto importante nei poemi omerici è quello del dono. Come fece giustamente notare E. Benveniste (Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, 1976, vol. I, pag. 47), il greco possiede infatti almeno cinque parole che solitamente si traducono con «donare», le quali corrispondono ad altrettanti modelli diversi di considerare il dono. 218 219 94 La centralità dell'etica omerica Per sottolineare, ancora, la continuità dell’etica greca, occorre rimarcare che anche chi sostiene che l’etica omerica fu sostanzialmente di tipo “eroico” può verificare che questo ideale, pur diversamente declinato nei secoli, fu presente quanto meno anche in tutta l’epoca classica; fecero eccezione infatti, nell’opera letteraria greca, solo affermazioni come quella di Archiloco (fr. 6 DK), il quale si vantò di aver gettato via lo scudo in guerra – azione considerata assai poco dignitosa – per fare salva la vita. L’ideale dell’eroismo si trasformò presto nell’ideale dell’aristocrazia dell’anima, rivolto alla difesa della comunità sociale. Questo il trait d’union di Omero con Platone e l’epoca classica, ottenuto coniugando l’eroismo in chiave umanistica. Per concludere, occorre rimarcare come l’etica omerica si incentri, come già rilevato in precedenza parlando dell’umanesimo omerico, sui concetti di «limite» e di «misura» (in rapporto alla potenziale sfrenatezza degli istinti e delle passioni)221. In questo senso, l’insistito riferimento dell’Iliade e dell’Odissea alla vita armonica degli dèi olimpici, segna la distanza – come hanno rimarcato diversi autori222 - rispetto ad una vita “primitiva” condotta in balìa delle forze della natura. Più volte, come ricordato, i personaggi omerici (in primis Odisseo) affermano che «la giusta misura, in ogni cosa, è meglio» (Odissea, VII, 309-310; XV, 70), e sono pronti a criticare duramente chi non la rispetta. Pensiamo ad esempio, nell’Iliade, alle critiche di Achille ad Agamennone per la propria tracotanza ed avidità di guadagno, oppure, nell’Odissea, alla dura reprimenda verso Ciclopi, Lestrigoni ed altri popoli dediti agli eccessi; la pena inflitta ai Proci da Odisseo rimane, in questo senso, emblematica. Molti studiosi sostengono che il concetto di metron, in Omero, esprimesse ancora solo l’unità di misura, la stecca di riferimento (ad esempio il grano, o i buoi) con cui concludere gli scambi economici, e che esso assunse il significato di «giusta misura» solo in Esiodo. In realtà i versi poc’anzi citati, ma soprattutto i contenuti presenti negli epi- Sul senso del limite che pervade la cultura omerica, si è soffermato in modo particolare K. J. Dover, La morale popolare greca all’epoca di Platone ed Aristotele, Paideia, Brescia, 1983. Rinviamo anche, in merito, a D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, op. cit.. 222 Ad esempio B. Snell, La cultura greca…, op. cit., pag. 47. Il «limite» è centrale anche nel contesto olimpico. Non è infatti lecito neanche a un dio invadere la parte assegnata ad un altro dio. L’Iliade racconta ad esempio l’ira di Poseidone contro Zeus che ha varcato i confini della sua giurisdizione; è una immagine mitica, ma i miti avevano allora una forte valenza sociale. 221 95 iL Pensiero omerico sodi qui menzionati ed in diversi altri, mostrano la centralità del tema della «giusta misura» anche nell’epoca omerica; tale tema, come noto, sarà ripetuto in modo costante nella cultura greca almeno fino all’epoca classica, rappresentando il cardine dell’intero umanesimo greco. Proprio grazie al metron il mondo, da caotico che era in balia delle forze della natura, divenne un tutto bene ordinato: la misura riguarda infatti proprio la giusta proporzione delle parti dell’intero, la armonica composizione degli enti fra loro, l’equilibrato svolgimento della vita (pur all’interno della generale ambivalenza che la caratterizza)223. Il fatto che l’uomo omerico dovesse accettare il limite della propria condizione mortale, e dovesse porre attenzione alla giusta misura negli atti della propria vita, è assolutamente compatibile con la sostanziale libertà e con la dinamica progettualità che caratterizzò la vita degli eroi greci; per questo motivo riteniamo non corretta la tesi espressa da Reale, secondo cui «le regole di base secondo le quali l’uomo omerico cerca di attuare pienamente sé medesimo, sono sostanzialmente due: ascoltare la parola degli dèi, ed inoltre accettare la sorte e il destino che tocca a ciascuno, qualunque esso sia, in quanto esso è voluto dagli dèi»224. Questa doppia regola etica è, con riferimento al contesto omerico, assolutamente inverosimile, e cercheremo qui di spiegare perché. Innanzitutto, per l’uomo omerico, cosa deve intendersi come «ascolto della voce degli dèi»? Dando per scontato che Zeus, Apollo, Atena non parlassero realmente ai mortali, si può al più affermare che fu buona norma etica, per l’uomo omerico, seguire alcune massime di saggezza condivise (talmente condivise da essere attribuite addirittura agli dèi). Ma, ancora una volta, l’indicazione risulta essere troppo vaga, anche a causa della ambivalenza degli dèi omerici che lo stesso Reale, peraltro, a più riprese ha sottolineato225. Se la prima norma etica risulta essere piuttosto fumosa, altrettanto si deve dire della seconda, in quanto sarebbe possibile scegliere di «accettare il proprio destino» solo se esso fosse conoscibile agli uomini; così, però, non è, in quanto la caratteristica principale del destino greco fu proprio quella di essere imperscrutabile. Gli uomini, certo, pur Nei poemi omerici, tale ambivalenza è simboleggiata dalla più importante delle divinità, ossia Zeus (Iliade, VIII, 470-483; IX, 17-25; XIII, 631-635). 224 G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 124. 225 Ibidem, pagg. 119-124. 223 96 La centralità dell'etica omerica volendo realizzare i loro progetti di vita, devono accettare alcuni fatti limitanti per il semplice motivo che essi accadono; tuttavia, non devono necessariamente accettare senza combattere ogni evento, in quanto ciò li condurrebbe ad una sostanziale passività, che è quanto di più lontano dall’uomo omerico vi possa essere. L’uomo omerico dunque – come dimostrò emblematicamente la figura di Odisseo – non si caratterizzò per essere un inerte accettatore del volere degli dèi e del destino, che arranca sulla faccia della terra infelice tra tante sventure; egli fu anche questo ma, se fosse stato solo o principalmente questo, difficilmente potremmo affermare che l’etica omerica fu insieme accettazione dei propri limiti e lotta per la realizzazione di una vita felice, come dimostrò invece, in primo luogo, la ferma volontà di Odisseo di ritornare nella propria casa e fra la propria gente. Nel prossimo capitolo, trattando dei vari miti omerici, troveremo ancora molte conferme di questo atteggiamento etico. Prima di farlo, però, è ancora necessario, a nostro avviso, entrare maggiormente nel merito dell’etica omerica, e dunque entrare propriamente nei suoi contenuti educativi. Solo, infatti, se Omero può ancora essere pensato come un “educatore” per il nostro tempo, vale la pena realizzare uno studio come questo; se invece così non fosse, questo libro sarebbe un semplice documento attestante alcuni errori di epoche passate, di poca utilità per gli uomini di oggi. Ebbene: nonostante la nostra sostanziale vicinanza alle tesi espresse da Platone nella Repubblica, riteniamo non solo che i precetti etico-educativi di Omero siano in larga parte tuttora validi, ma crediamo anche che valga la pena enunciarli chiaramente, in quanto essi forniscono, nella loro sostanziale vicinanza col pensiero greco classico, un modello morale alternativo a quello offerto dalla contemporaneità: l’etica omerica espresse infatti la morale di un modo di vita in cui non il denaro, ma l’uomo, costituì il centro di riferimento dell’intero. 97 omero educatore Come noto, nella Grecia antica l’Iliade e l’Odissea furono non solo i testi su cui i giovani impararono a leggere ed a scrivere, ma anche, grazie alla grande presenza di modelli etici, i testi su cui si educarono; Omero fu dunque unanimemente ritenuto, almeno fino a Platone, l’educatore della Grecia226. Omero peraltro, come ricordato, fu verosimilmente un aedo che recitò le proprie opere in pubblico, e queste opere, per destare interesse, dovettero necessariamente trattare i temi più rilevanti per la vita umana; come ha ben colto fra gli altri M. Valgimigli, «la poesia greca classica [...] è creata entro e per la vita comunitaria, e non elucubrata nelle case o nelle biblioteche [...]. La poesia omerica rientra nella vita all’aria aperta dove tutto accade, dove le genti si trovano, sperano e parlano: la casa non ha valore, ha valore la piazza»227. Proprio il tema della oralità risulta essere di particolare interesse per la pratica educativa228. È vero che la poesia recitata dall’aedo è cosa assai diversa dalla dialogicità del filosofo; tuttavia, indipendentemente da ogni discorso circa il passaggio dalla civiltà orale alla civiltà della scrittura, l’elemento da sottolineare è la comune presenza, nell’opera omerica così come in quella platonica, della dimensione comunitaria, del fatto cioè di argomentare cose in pubblico le quali devono avere una utilità educativa. Tutto ciò crea all’aedo, così come al filosofo, una positiva apertura verso gli altri, che induce insieme ad essere essenziali, ed a dire le cose più importanti nel modo migliore. In queste pagine sarà ancora ribadita la tesi della continuità educativa ideale fra Omero e Platone; questa continuità è stata sostenuta da un esiguo numero di interpreti, fra cui però W. Jaeger, secondo cui Ciò è ricordato, fra gli altri, da L. Napolitano Valditara, per la quale «ruolo pedagogico aveva l’aedo omerico, deputato a cantare ciò che era, è e sarà, ed a trasmetterlo tramite l’oralità ritmica della poesia mandata a memoria, quale sorta di enciclopedia tribale (Havelock). Il mezzo scritturale dell’alfabeto fonetico greco articola la comunicazione pedagogica, favorendo la nascita di nuovi saperi [...] e la loro democratizzazione» (AA.VV., Enciclopedia filosofica, op. cit., pag. 8231). 227 M. Valgimigli, Poeti e filosofi in Grecia, Laterza, Roma-Bari, 1951, pag. 299. 228 In questo senso anche E. Cantarella, che ha parlato di «funzione altamente pedagogica» (Itaca, op. cit., pag. 121) della poesia omerica. 226 99 iL Pensiero omerico già in Omero «il pensiero greco relativo all’uomo ed alla sua areté ci si presenta subito col carattere di uno sviluppo unitario. Ad onta di ogni mutamento ed arricchimento di contenuto nel corso dei secoli seguenti, esso conserva sempre la sua forma stabile, quale venne costituendola nell’antica etica aristocratica. Su questo concetto dell’areté si fonda infatti il carattere aristocratico dell’ideale culturale greco»229, il che rappresenta appunto una aristocrazia dello spirito. Ebbene, tale continuità si ha in quanto sia Omero, sia i presocratici, sia i sofisti, sia i classici, cercarono di fornire un ideale compiuto di uomo come modello educativo. Questo modello ebbe sicuramente una evoluzione anche nei due poemi, che rispecchia la stessa evoluzione del contesto storico e culturale: dal modello infatti di una areté basata sul coraggio e sulla forza presente nell’Iliade, si passa ad un modello di areté basata sulla intelligenza e sulla saggezza presente nell’Odissea. Come scrisse ancora W. Jaeger, «il fattore educativo della nobiltà sta nel destare il sentimento dell’obbligo verso l’ideale [...]. L’Iliade attesta l’alta coscienza educativa della aristocrazia greca arcaica», che ricercava «una immagina nuova dell’uomo perfetto, la quale oltre alla nobiltà dell’azione riconosceva quella della mente»230. Come noto, non solo il libro X della Repubblica, ma anche altri luoghi dello stesso testo, nonché delle Leggi e di altri dialoghi platonici (ad esempio Liside e Ione), si incentrano sulla critica all’opera omerica, con un rigore ed una potenza tali da far apparire Omero, dopo di esse, pienamente spodestato dal ruolo di «educatore dei Greci» che si era fino ad allora visto attribuire231. Pur concordando con pressoché tutte le argomentazioni platoniche232, vorremmo in questo paragrafo evidenziare come le critiche del filosofo ai poeti, specie nel già citato libro X, non colpiscono se non in parte il modello umanistico di Omero; sosteniamo W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 45. Ibidem, pag. 37. 231 Ha scritto correttamente, in merito, M. Vegetti che soprattutto nel libro II e III della Repubblica «l’attacco portato da Platone alla cultura poetica [...] è senza precedenti e senza paralleli nel pensiero antico» (M. Vegetti, Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 48). Secondo Platone infatti, rispetto alla filosofia, «la poesia non è in condizione di insegnare alcunché perché non ha cognizioni sue proprie» (ibidem, pag. 105). 232 Concordiamo, in particolare, con la tesi di fondo del libro X della Repubblica, il quale sostiene che il primato educativo deve esser tolto ai poeti ed assegnato ai filosofi, in quanto dove governa la poesia comandano le emozioni e le passioni, mentre dove governa la filosofia comandano la ragione e la legge. 229 230 100 Omero educatore quindi, in sostanza, che anche sul piano educativo la linea di continuità fra Omero e Platone sia molto più importante della apparente rottura che pure sembra emergere. Andiamo comunque con ordine. Innanzitutto, va ricordato come sia proprio il Socrate platonico della Repubblica ad affermare una sorta di continuità, per quanto concerne il modello educativo, con le pratiche paideutiche «consolidate da tanto tempo» (376 E); come ha ricordato in merito S. Gastaldi, «questa linea di continuità con la tradizione si manifesta anzitutto nell’adozione della scansione canonica, presente ormai stabilmente in tutto il mondo greco, tra la formazione del corpo mediante la ginnastica e la formazione dell’anima tramite la musica»233 (musica da intendere come l’insieme delle arti, quali poi saranno la letteratura e la filosofia). In Omero, abbiamo testimonianza che l’educazione di Achille fu affidata dal padre ad un «precettore» (Fenice), affinché egli diventasse il migliore sia nella parola che nell’azione; ed insieme nella parola e nell’azione primeggiano tutti gli eroi omerici, in particolare Odisseo. La differenza principale con l’epoca classica – o meglio, con la idealizzazione della Repubblica platonica, secondo Hegel comunque rappresentativa di un’epoca – era che, con Platone, il progetto educativo fu posto a carico della collettività, mentre in epoca omerica esso fu lasciato alle singole famiglie aristocratiche; fra i contenuti però, almeno nelle linee generali, la differenza non fu così forte, perché le forme educative delle due epoche puntarono sia alla cura del corpo che dell’anima. L’unica divergenza rilevante fu che Platone esplicitò in modo chiaro che la priorità, nell’uomo, va alla cura dell’anima; questo, in Omero, non fu ancora chiaramente esposto (soprattutto per la assenza di una concezione dualistica anima/corpo), ma fu comunque implicitamente presente. Nell’opera omerica, infatti, è evidente come solo una intelligenza assennata possa poi compiere azioni mirabili, in quanto la brutalità, così come l’astuzia, non conducono a nulla234. 233 In M. Vegetti, a cura di, Platone. La Repubblica, Bibliopolis, Napoli, 1998, vol. II, pag. 336. Con riferimento alla musica ed alla danza in particolare, Platone afferma giustamente che «se l’uomo è più esercitato alla meditazione ed al coraggio, i suoi movimenti sono più ridotti; se, al contrario, egli è vile e non esercitato al controllo di sé, manifesta anche movimenti più accentuati» (Leggi, VII, 816 A). 234 È significativo che, in un momento assai rilevante dell’azione, il vecchio Fenice – il quale peraltro si rifaceva agli “antichi” come modelli – rammenti in questo modo ad Achille il fine per cui da giovane lo aveva educato: «essere, insieme, oratore di discorsi ed operatore di azioni» (Iliade, I, 443). Come ha ricordato in merito W. Jaeger, «i Greci di 101 iL Pensiero omerico Cosa c’è dunque, di comune, fra la educazione “famigliare” dell’epoca omerica, e la educazione “istituzionale” dell’epoca classica? L’elemento comune è che, lungi dall’insegnare nozioni in modo arbitrario, anche in epoca omerica i precettori proponevano ai giovani un percorso educativo che li portava ad interiorizzare i valori comunitari condivisi, da cui dipendeva l’armonia sociale; giustizia e temperanza erano infatti i valori che Omero, come Platone, riteneva necessario far comprendere ai giovani per la loro formazione morale. Come ha ricordato infatti ancora S. Gastaldi, in epoca classica «i testi che fungono da modello per la formazione letteraria sono naturalmente quelli poetici, che si configurano come un inesauribile repertorio di massime gnomiche e di modelli di comportamento. Le grandi figure degli eroi, dei palaioi andres, sono proposti all’imitazione ed all’emulazione: l’educazione rappresenta un processo di conformazione, un processo mimetico che utilizza la forza coinvolgente della parola poetica»235; da evitare era soltanto l’eccesso disordinato delle passioni. I poemi omerici, dunque, furono il primo riferimento della paideia di Platone (Repubblica, 377 D); egli riconobbe l’insostituibile potenzialità formativa della parola poetica (e della musica), ma ritenne necessario intervenire per “purificarla”. Platone affermò infatti, ad esempio nelle Leggi (X, 887 D), che i miti hanno sull’anima delle persone quasi la funzione degli «incantesimi», sicché un controllo sui loro contenuti, con la sostituzione dei buoni ai cattivi miti, è sempre necessario236. Ebbene: anche i miti omerici dovettero ritenersi sotto accusa dalla critica platonica? In parte, sicuramente, sì, sia in quanto Platone lo affermò esplicitamente, e sia in quanto anche in Omero i miti, ovvero gli dèi e gli eroi, furono descritti spesso mostrandone le negatività, il che per Platone era età posteriore ravvisarono in questo verso la più antica formulazione dell’ideale greco della cultura, con la sua aspirazione ad abbracciare l’umano nella sua totalità» (W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 38). 235 In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 339. 236 Ciò è ribadito anche in Repubblica, 377 B; 386 B; 401 B. La filosofia classica non considerò comunque negativamente i miti, come prova il famoso passo della Metafisica di Aristotele in cui si afferma che anche chi ama il mito è in certo qual modo filosofo (in quanto il mito è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia). Come ha ricordato E. Berti, con questa affermazione Aristotele pensava «ai poeti, i quali avevano inventato i miti per spiegare una quantità di cose che destavano in loro la meraviglia. Prima dei filosofi veri e propri, infatti, secondo Aristotele, c’erano stati i poeti, i quali avevano cercato di spiegare a modo loro il mondo» (E. Berti, Invito alla filosofia, La Scuola, Brescia, 2011, pagg. 64-65), costituendo dunque l’antecedente letterario della filosofia. 102 Omero educatore sconveniente (in quanto sugli dèi, per natura perfetti, non si può dire nulla di negativo). Omero, quindi, mostrando gli dèi olimpici come protagonisti di inimicizie e cattiverie (anche se fu poi soprattutto il mito teogonico esiodeo ad amplificare le efferatezze della stirpe di Urano), fu anch’egli per Platone colpevole di “diseducatività”, in quanto il mito ha sempre valore pedagogico, e sostenere che anche gli dèi possano commettere azioni turpi significava, a suo avviso, fornire giustificazioni a comportamenti turpi; a difesa di Omero, però, va detto che sia quando questi comportamenti furono riferiti agli uomini, sia quando furono riferiti agli dèi, l’antico aedo li biasimò apertamente, mostrando in modo chiaro che egli non si limitò a descrivere questi atti, ma li valutò in modo negativo. Questo punto – sottovalutato sia da Platone sia dalla maggior parte degli interpreti moderni – deve necessariamente essere rimarcato per una corretta comprensione dell’etica omerica. Omero, dunque, descrisse (raramente) dèi ed eroi anche nell’atto di compiere azioni riprovevoli, ma dai suoi poemi emerge chiaramente che egli lo fece, come intuì Aristotele nella Poetica, a scopo “catartico”, mostrando cioè il male e la sofferenza conseguenti da quelle azioni; paradossalmente, anch’egli si situò dunque sulla stessa linea dei successivi umanisti critici dei “modelli etici negativi”, di cui Platone fu solo l’ultimo di una lunga serie. Ricordiamo però come, almeno secondo Diogene Laerzio (VIII, 21), Pitagora – reo della stessa incomprensione di Platone – disceso nell’Ade avrebbe visto comminare dure pene ad Omero ed Esiodo, proprio per le loro rappresentazioni negative degli dèi; Eraclito, a sua volta, ritenne che ad Omero queste pene avrebbero dovuto essere impartite anche sulla terra, sia sferzandolo, sia non recitando più i suoi poemi pubblicamente (IX, 1); fu comunque soprattutto Senofane ad affermare che, descrivendo azioni negative degli dèi, Omero si rese involontariamente complice di aver proposto un sistema di valori negativi, e di non aver condotto pertanto gli uomini alla vera areté237. Al di là della incomprensione di questi grandi filosofi dell’elemento catartico presente nei poemi omerici (non è possibile pensare il positivo senza nemmeno rappresentare il negativo), può dal nostro punto Diogene Laerzio, IX, 18. Gli episodi presi in esame sono non a caso gli stessi considerati da Platone, ovvero, nell’Iliade, le violenze reciproche di Zeus e Crono (XIV, 203 ss.), la congiura degli dèi per esautorare Zeus (I, 399 ss.), e la punizione inflitta da Zeus ad Efesto (I, 590 ss.). 237 103 iL Pensiero omerico di vista essere interessante valutare se comunque Pitagora, Eraclito, Senofane e Platone abbiano avuto ragione, ovvero se realmente la attribuzione omerica di cattive azioni agli dèi abbia involontariamente provocato un decadimento morale, oppure se con quelle medesime descrizioni Omero abbia invece messo in guardia proprio contro un decadimento morale potenzialmente insito nelle modalità storico-sociali presenti anche nella sua epoca. Ora: se decadimento morale vi è stato, in Grecia, esso non è stato causato dalla diffusione dei poemi omerici, bensì dalla successiva diffusione di una mentalità egoistica e filocrematistica (dunque antiumanistica), contro cui anzi i poemi omerici misero anticipatamente in guardia; nell’attribuire dunque agli dèi azioni che anche presso gli uomini erano motivo di vergogna e di biasimo, Omero non favorì – né volontariamente, né involontariamente – la diffusione del male, bensì cercò di arrestarla, ponendo innanzi al giudizio di tutti gli effetti negativi dei comportamenti malvagi, dai quali anche i migliori degli uomini (in metafora, gli dèi) potevano essere tentati, ma che dovevano evitare. Questa modalità espositiva “dialettica” sarà ripresa anche dai dialoghi platonici. Aristotele – che nella Poetica comprese la funzione purificatrice dei miti omerici “negativi” –, si rivelò a nostro avviso, nei confronti della poesia e della tragedia, critico molto più acuto di Platone, il quale raccomandò vivamente, nella propria paideia artistica, di rimuovere le azoni negative compiute dagli dèi perché solo pochi uomini avrebbero saputo elaborarle dialetticamente, interiorizzandone la funzione catartica; la maggioranza degli uomini – per Platone – avrebbe potuto recepire solo, nei poemi, dei modelli virtuosi, ispiratori di buoni comportamenti. La preoccupazione educativa platonica viene oggi considerata “totalitaria”, in quanto connessa alla deprecabile questione della censura; se ci caliamo però all’interno del contesto storico-sociale della Grecia antica (omerica e platonica), comprenderemo come la preoccupazione fosse pienamente giustificata: in una società priva di mass media, ed in cui la funzione pubblica dell’educazione era ancora sostanzialmente lasciata all’iniziativa dei singoli, i miti ed i racconti che venivano recitati pubblicamente (con il suadente accompagnamento della musica, peraltro, che ne favoriva l’ingresso nell’animo) svolgevano davvero una centrale funzione etico-politica, specie per i giovani, che sono i più facilmente influenzabili. Su questo punto, però, riteniamo che Platone avesse ragione, e che fosse dunque giustificato il suo scetticismo nei confronti della cosiddetta hyponoia, ovvero della interpretazione tesa a 104 Omero educatore rintracciare il “senso riposto” – che più tardi sarà designato come “allegoria” – nei poemi omerici (pensiamo ad esempio alla interpretazione di Teagene di Reggio, di cui ci dà notizia Porfirio nelle Questioni omeriche)238. Il contenuto del messaggio di Platone è sicuramente valido, e dovrebbe essere tenuto maggiormente in considerazione, nella attuale “società dello spettacolo”; va però ricordato che, senza modelli negativi catartici, la poesia, che ha modalità particolari di presa sull’animo umano, avrebbe difficilmente potuto esprimere tutta la propria forza educativa. Platone, per ben strutturare l’educazione dei giovani, richiese che i miti poetici fossero «i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori alla virtù» (Repubblica, 378 E)239, ed indicò in questo senso, anche nelle Leggi (811 C ss.), due contenuti come imprescindibili. Il primo contenuto fu quello per cui la divinità, essendo buona, può essere descritta solo come causa del bene: le concezioni che qui Platone combatté furono non solo quelle che descrivono comportamenti malvagi degli dèi, ma anche quelle che descrivono assegnazioni di beni e mali agli uomini in modo casuale, ossia indipendentemente dalla condotta tenuta. Qui Platone ribadì la centralità dell’etica umana rispetto ad un imperscrutabile fato passivizzante; tale concezione però, come rimarcato, fu già esposta da Omero nell’Odissea (I, 32 ss.), e da lui verosimilmente condivisa. Il secondo contenuto fu quello per cui la divinità, essendo stabile, non può essere descritta come mutante carattere secondo le situazioni, come invece spesso accade nei poemi omerici (ad esempio Odissea, IV, 417 ss.; Iliade, XXIV, 226 ss.). L’unione di questi due contenuti (bontà e stabilità) mostra chiaramente l’intenzione di Platone: proporre gli dèi solo come modelli positivi, buoni e stabili, così come devono essere gli 238 Da notare che alcuni interpreti hanno colto nella Repubblica e nello Ione un riferimento polemico ad Antistene, il quale aveva utilizzato personaggi della poesia omerica come modelli di vizi e virtù; a nostro avviso, però, più che la “modellizzazione”, la critica platonica riguardava il fatto che Antistene cercava di rendere Omero compatibile con la sua dottrina etica, fortemente avversata da Platone (il che, implicitamente, avvicina ancora le dottrine di Omero e Platone). 239 Come ha giustamente sostenuto M. Vegetti, «la fantasia poetico-mitica non si contrappone alla verità teorica, né rappresenta un’evasione dalla realtà storico-politica. Al contrario, come il linguaggio platonico indica chiaramente, essa è immediatamente produttiva di una realtà viva e tangibile, nel discorso e nel pensiero. Una volta costituita, questa realtà poetico-mitica divenne efficace anche nell’orientare la condotta etico-politica, al modo di un paradigma (Repubblica, V, 472 C)» (in M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 23). 105 iL Pensiero omerico uomini, i quali non devono cadere vittime né di istintive passioni, né di nichilistica arrendevolezza. La “moralizzazione” dei miti avvicinava per Platone alla verità, da lui concepita, almeno implicitamente, come razionale e buona conduzione della vita umana, individuale e sociale; una concezione che ben difficilmente, in base a quanto abbiamo in precedenza argomentato, potremmo negare essere implicitamente presente anche in Omero240. Platone criticò inoltre Omero in quanto a suo avviso, quando descrisse l’Ade come un luogo orrendo e spaventevole (ad esempio Odissea, XI, 489 ss.), oppure quando descrisse gli eroi piangere il loro destino di morte o quello dei compagni più cari (ad esempio Iliade, II, 363 ss.; XVI, 857 ss.), sfavorì quel comportamento coraggioso e misurato di sopportazione del limite che invece deve essere proprio di tutti gli uomini. Pure su questo punto, in ogni caso, è necessario precisare bene: anche Omero, infatti, ritenne che un comportamento coraggioso e misurato fosse necessario proprio per la sopportazione della sofferenza e della morte; non solo, egli ritenne che una “bella morte”, ovvero una morte utile alla comunità sociale, fosse qualcosa di importante, qualora le circostanze lo richiedessero. Omero tenne comunque fermo il presupposto della condizione mortale dell’uomo, e dunque della assenza di “vera vita” dell’uomo dopo la morte; Platone, seguendo influenze orfiche e pitagoriche (e per questo apprezzato, successivamente, dai cristiani), tese invece ad affermare che esiste una vita dopo la morte, la cui bellezza sarà proporzionata alla bontà dei comportamenti tenuti in terra. Pur con modalità e strutture descrittive differenti, il fine di Omero e Platone (favorire comportamenti etici degli uomini) fu comunque, anche nella trattazione del tema del limite e della morte, coincidente. Sia Platone che Omero tentarono infatti di «far bastare la virtù a se stessa», ossia di rafforzare l’uomo facendogli bastare la felicità conseguente dai propri buoni comportamenti241. Fra la morale omerica e quella platonica vi furono comunque anche contenuti effettivamente inconciliabili, come ad esempio la condanna platonica dell’antadikein (ingiustizia ritorsiva) e dell’amynesthai (violenza difensiva con cui si reagisce all’aggressione). Su questi temi si è espresso in particolare il giusgrecista U. E. Paoli, Studi sul processo attico, Cedam, Padova, 1993, pagg. 188-203. 241 Come ha scritto correttamente Aristotele, il filosofo poteva anche fare a meno degli onori, ma non l’eroe del mondo omerico, in cui il riconoscimento sociale – basato sul merito – era necessario. Molto significativa, a tal proposito, la risposta fornita da Achille pregato, da Odisseo e da altri, di tornare in battaglia: «Agamennone non mi persuaderà mai, né credo alcun altro dei Greci, poiché qui evidentemente non c’è nessun pubblico rico240 106 Omero educatore La critica di Platone, ossia della filosofia, alla poesia fu anche, e forse soprattutto, la critica a tutta una serie di comportamenti eccessivi e scomposti, nel dolore come nella gioia, che ne caratterizzava le rappresentazioni; la poesia infatti, nel momento in cui non era guidata dalla ragione e dalla morale (mentre la filosofia, la vera filosofia, lo era sempre), dava luogo proprio a questo genere di comportamenti. Platone deprecava infatti – in quanto l’anima dei giovani si abbandona spesso alla imitazione – tutte quelle opere in cui i personaggi erano rappresentati mediante scene eccessive di riso o di pianto, preda di allegria smodata o di affranta disperazione; anime siffatte sono in effetti fragili, non stabilmente ed armonicamente rivolte alla verità ed al bene, e non sono pertanto modelli positivi, né per i giovani né per alcuno. Qui è indubbio che ad essere oggetto di critica sia ancora una volta Omero con le sue descrizioni, ad esempio, della scomposta angoscia di Achille per la morte di Patroclo nell’Iliade, o dei frequenti pianti di Odisseo per il mancato ritorno nell’Odissea; perfino gli dèi, in Omero, sono spesso colti in atteggiamenti poco equilibrati, come quando sono sorpresi beffeggiare con grandi risa, per la propria deformità, Efesto: un comportamento massimamente diseducativo e sconveniente. Ancora una volta, però, occorre chiedersi se rappresentando queste scene, e mostrandole nella loro deprecabilità, Omero non volesse effettivamente ottenere il medesimo scopo educativo di Platone, ovvero una condanna etica di queste azioni; ciò è compatibile con l’insegnamento etico complessivo che emerge nei poemi omerici, per cui si tratta di una tesi che può essere sostenuta, e che di incerto mantiene solo l’efficacia paideutica (la questione platonica, insomma, se sia o meno conveniente, dato il fine della educazione umanistica, rappresentare anche modelli negativi). Platone criticò poi Omero per aver rappresentato frequentemente casi di insubordinazione, in cui il buon ordine politico veniva messo a dura prova (il caso più emblematico è la dura critica di Achille ad Agamennone, nonché, sempre nell’Iliade, il già citato episodio di Tersite); tuttavia, considerando le critiche che Platone rivolse ai governanti del proprio tempo, nonché la stessa struttura della dialettica platonica, ci pare che si debba dare poco peso a questi episodi, mentre si dovrebbe dare peso maggiore alla critica della rappresentazione di comportamenti sregolati, come eccessi alimentari e sessuali, attribuiti noscimento per un uomo che combatte implacabilmente il nemico» (Iliade, I, 315-322). Da rimarcare in merito che anche gli dèi omerici esigono onore, e godono delle lodi ricevute. 107 iL Pensiero omerico talvolta agli stessi dèi (ad esempio Iliade, XIV, 294 ss.). Anche in questo caso, tuttavia, bisogna ancora una volta rimarcare che Omero descrisse (peraltro raramente) tali comportamenti in modo biasimevole, e dunque tale da allontanare i giovani dai medesimi (giovani che semmai potevano essere attirati ad essi da più generali modalità sociali filocrematistiche). Platone attaccò in effetti duramente soprattutto la brama di denaro e di ricchezza di alcuni eroi omerici, come ad esempio Agamennone ed Achille, che Omero raffigurò spesso come manifestamente venali. Tuttavia, in merito, la critica di Platone fu appunto la stessa di Omero, che criticò esplicitamente di philochrematìa Agamennone per bocca di Achille, e criticò implicitamente la philochrematìa di Achille ponendogli innanzi il più nobile modello di Ettore242. Anche qui, Platone se la prese con Omero per aver “rovinato” l’eroe Achille, rappresentandolo avido, violento, smodato, e propose di emendare tutti i brani dell’Iliade in cui si effettuarono queste rappresentazioni; tuttavia, è impossibile non chiedersi cosa sarebbe rimasto dei poemi omerici se fossero state attuate tutte le emendazioni proposte da Platone. Sarebbe rimasto ben poco, tanto che verosimilmente nemmeno le virtù morali così elogiate da Platone avrebbero potuto elevarsi per contrasto; ciò conferma indirettamente la consapevolezza della contestuale presenza di modelli negativi e positivi nella poesia omerica, come necessaria per una corretta “dialettica morale” volta a combattere, tramite il monito, ogni smodata ricerca di eccessi ed a favorire, tramite il consenso, ogni positiva ricerca di vera umanità. Platone, dunque, avrebbe voluto che i poemi avessero rappresentato solo personaggi eticamente perfetti, in modo che i giovani, caratterizzati come detto dalla tendenza ad imitare, avessero acquisito solo quei comportamenti. Le maggiori critiche platoniche contro i modelli etici negativi nella poesia non riguardarono comunque, come emerge chiaramente da una intelligente lettura dei dialoghi, i poemi omerici; Platone se la prese infatti soprattutto con i protagonisti della letteratura a lui contemporanea (V e IV secolo), in cui tali modelli negativi, lungi dall’essere valutati criticamente come in Omero, assursero a pregiati protagonisti con l’ampio favore della critica. Presi di mira in particolare 242 Su questi temi E. E. Sikes, The Greek View of Poetry, London, 1931, pagg. 64 ss. Come mostreremo meglio in seguito, non concordiamo, in merito, con S. Gastaldi, secondo cui, nell’Iliade, Achille sarebbe «l’eroe per eccellenza, il depositario di tutte le virtù più apprezzate» (in M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 361). 108 Omero educatore furono il teatro euripideo ed i ditirambi di Timoteo; le figure più screditate furono però soprattutto i personaggi della commedia, che intrattenevano il pubblico (ed ahimè lo plasmavano) con battute volgari, e spesso anche con l’imitazione dei versi degli animali. Valutando tutto ciò, come già ricordato, si comprende facilmente come l’uomo metrios, amante della misura, costituisse il modello educativo sia in Omero, sia in Platone; ha scritto correttamente, in merito, S. Gastaldi che con Platone «la multiformità sregolata dei gesti e dei discorsi lascia il posto ad un parlare e ad un agire contrassegnati dalla misura, dall’autocontrollo, dalla fedeltà al proprio modo di essere [...] Il modello letterario più vicino a questo paradigma di correttezza, in cui l’elemento imitativo appare ridotto rispetto all’asse portante della narrazione oggettiva, è rappresentato dai poemi omerici, raccomandabili del resto per il loro carattere di serietà, e per l’assenza di personaggi riconducibili alla categoria dei phauloi»243. Come Platone, anche Omero ritenne infatti non giovevoli, sul piano etico, modelli poetici la cui funzione principale sarebbe stata quella di incantare producendo in modo smodato piacere e dolore, ossia suscitando insane passioni; per ambedue realmente giovevoli furono solo i modelli positivi, volti appunto a favorire, con il loro esempio, rapporti solidali fra gli uomini, finalizzati alla conservazione dell’armonia della comunità. La dura censura platonica nei confronti di larga parte della produzione poetica a lui contemporanea (la cosiddetta “teatrocrazia”) sarebbe stata dunque forse condivisa dallo stesso Omero; l’imputato principale della critica platonica fu infatti la “licenziosità”, l’arbitrio insito nel “fare ciò che si vuole”, che anche Omero giudicò in modo molto negativo. La critica filosofica alla poesia fu in sostanza, per Platone, una appendice della sua critica politica alla crematistica, che Omero, come già ricordato, avrebbe indubbiamente condiviso; anche Omero infatti, come Platone (Leggi, 700 A ss.), avrebbe ritenuto come massimo male una società in cui il soddisfacimento dei piaceri e l’interesse individuale hanno la netta prevalenza sulla realizzazione del bene comune e sull’interesse collettivo. Omero dunque, che nel libro X della Repubblica (606 E ss.) Platone ritenne essere utile soprattutto come fornitore di conoscenze militari244, 243 In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pagg. 369-370. I phauloi, termine reso celebre dalla Poetica di Aristotele, erano i personaggi tipici della commedia. 244 In questo senso anche l’accusa rivoltagli da Aristofane nelle Rane (1034-1036). 109 iL Pensiero omerico se ben interpretato torna anche in Platone a svolgere il ruolo di depositario di conoscenze, di repertorio inesauribile di insegnamenti che gli fu sempre riconosciuto da tutti. Questa coerente valutazione riecheggia del resto più volte nei dialoghi platonici, come nel Liside (213 E) e soprattutto nello Ione (531 B), in cui si passano in rassegna tutti gli argomenti di cui Omero parla, che non sono costituiti appunto solo dalle tecniche belliche, ma soprattutto dal rapporto degli uomini fra loro e con gli dèi, fino a giungere all’astronomia ed al mondo dell’Ade. Come ha sottolineato correttamente ancora S. Gastaldi, che pure non esplicita la continuità culturale fra Omero e Platone, «la crisi della paideia e della città sembra davvero risolversi, nella Repubblica, tramite un potente lavoro di rifondazione certamente attinto ai modelli del passato, al recupero, sebbene in chiave critica, di una cultura che era stata espressione di valori collettivi, dell’ethos di una comunità». La Repubblica si delinea dunque anch’essa «come una operazione di retroguardia, tesa ad esorcizzare i mutamenti oramai da tempo in atto, avvertiti come segno di disgregazione politico-sociale e di decadenza»245, recuperando anche nell’etica umanistica omerica molti contenuti del proprio modello educativo. 245 In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 392. 110 tra etica e PoLitica Cominciamo questo ultimo paragrafo di questo lungo primo capitolo con una osservazione, al contempo particolare e generale; particolare perché riguarda il nostro modo di rapportarci al pensiero greco, generale in quanto possiede una validità che va oltre la sua genesi. Sin da quando abbiamo iniziato ad occuparci di filosofia, abbiamo infatti cercato di farlo in modo sensato; in modo, cioè, che quanto scrivevamo potesse in qualche modo essere utile. Col passare degli anni il pessimismo, in merito, si è fatto sempre più forte; il modo di produzione capitalistico è realmente una «gabbia d’acciaio» che marginalizza, sebbene in maniera sofisticata, ogni messaggio incompatibile con esso. Tuttavia, consapevoli di consegnare, nella migliore delle ipotesi, un messaggio al futuro, abbiamo sempre ritenuto necessario “intercettare” le principali istanze umanistiche presenti nel nostro tempo, per cercare di dare alle stesse la maggiore efficacia. Il fatto, dunque, che tuttora stiamo scrivendo su Omero – e che negli ultimi anni abbiamo scritto su quello che alcuni amici hanno simpaticamente definito come una sorta di “pan-umanesimo” – accantonando testi potenzialmente più importanti che da anni annunciamo, non deve essere visto come un arretramento; la metafisica e la politica nelle loro forme classiche ci pare infatti, per vari motivi, che non facciano più presa direttamente sui giovani, mentre invece ancora fanno presa le tematiche etiche246. Ebbene: Omero, come si è qui lungamente tentato di mostrare, nonostante sia escluso dai manuali di filosofia morale, rappresenta sicuramente il primo grande problematizzatore di tematiche etiche della storia occidentale; nei suoi poemi pulsano la vita, la morte, la passione, il coraggio, la giustizia, la sofferenza, il ricordo, e molto altro ancora: tutte cose che, almeno in chi conserva una dimensione ideale (oggi, ahimè, presente quasi solo nei giovani, e nemmeno nella maggioranza di essi), hanno un interesse preminente rispetto alla filosofia ed alla politica, cui verosimilmente si arriva dopo, quasi “trainati” Si tratta di una impressione propria anche di Carmelo Vigna (C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, op. cit.). 246 111 iL Pensiero omerico dalle tematiche etiche alla ricerca di fondamenti più solidi (la filosofia) e di risposte più universali (la politica). Certo, non ci illudiamo di avere trovato una “bacchetta magica”, ossia una porta di accesso per condurre all’interesse verso la filosofia e la politica nelle loro forme classiche (le più autenticamente rivoluzionarie). Sappiamo bene che, al solo sentir parlare di etica, molti giovani, ed in generale molte persone, associano – con riflesso di origine nietzscheana – la tesi per cui chiunque affermi di sapere cosa è il bene e cosa è il male, è sicuramente totalitario. Anni di frequentazione con filosofi contemporanei e con giovani studiosi ci hanno assolutamente convinto che questa è la tesi maggioritaria; essa, del resto, è la tesi più funzionale al modo di produzione sociale dominante, che senza una solida fondazione onto-assiologica si autoesenta da ogni giudizio, accusando gli eventuali critici di “moralismo” e di “puritanesimo”. Pur sapendo tutto questo, riteniamo che l’etica omerica costituisca – all’interno del pensiero antico – il modo più degno, ed allo stesso tempo forse più fecondo, per “catturare” l’interesse di molti giovani non filosofi conducendolo poi, tramite essa, verso la filosofia e la politica; se non avremo svolto bene, in questo libro, questa operazione, speriamo che altri, dopo di noi, tengano conto di queste nostre parole e la svolgano meglio: della sua correttezza, però, siamo fortemente convinti. Entriamo in ogni caso, dopo questa digressione, in medias res. Abbiamo già descritto la portata etica ed educativa dell’opera omerica. In questo paragrafo cercheremo invece di evidenziare gli spunti politici della stessa, cominciando col rimarcare che, per la già argomentata continuità fra contenuti omerici e classici, anche nell’opera di Omero vi è un riferimento, per quanto indiretto, ad una «natura umana» da realizzare: una natura che si declina in maniera profondamente diversa nei singoli personaggi, ma che è comunque comune nella sua essenza razionale e morale. Ci pare che ciò sia stato colto – sebbene forse non con piena consapevolezza delle conseguenze – da A. M. Storoni Piazza, per la quale «secondo Omero i criteri di opportunità, di equità, di misura ai quali ci si deve ispirare sono in tutto e per tutto naturali [...]. Esiste un modo naturale di vivere gli affetti, le amicizie, i rapporti sociali, un modo naturale di essere fragili ed esposti all’errore [...]: la cultura ha la pretesa di conformarsi alla natura»247; secondo Omero, in particolare, «per l’essere umano è naturale vivere secondo l’ordine ci247 A. M. Storoni Piazza, Ascoltando Omero, op. cit., pag. 65. 112 Tra etica e politica vile, sottoporsi alle norme di convivenza volute da Zeus: proteggere i deboli [...], rispettare i vecchi, amare le donne, educare i figli, offrire ospitalità agli stranieri. La società che si attiene a questo criterio di giustizia naturale è prospera, ordinata, armoniosa»248. Questa descrizione è corretta, ed apre compiutamente il campo al discorso politico implicitamente contenuto nell’umanesimo omerico. A chi ritiene che parlare di “discorso politico” in Omero sia eccessivo, pensiamo possa essere utile ricordare l’incisione, realizzata da Efesto sullo scudo di Achille, descritta nel canto XVIII dell’Iliade (487 ss.). Qui, come noto, è rappresentata una città ordinata riunita a consiglio per risolvere un problema fra due cittadini; gli anziani si alzano a turno, raggiungendo il centro dell’assemblea, ed espongono, pacatamente, il proprio parere: l’assemblea è lo spazio della libera parola messa in mezzo249. Si tratta di una immagine di pubblica civile difesa dei diritti di ciascuno, di comune ricerca della verità, e di armonica partecipazione alla giustizia: l’opposto della società violenta dei Ciclopi, la quale costituisce l’anti-modello della comunità politica. Queste arcaiche assemblee politiche riguardavano solitamente la difesa di interessi comuni, tanto che quando qualcuno portava l’attenzione su temi privati, se ne scusava pubblicamente (Odissea, II, 42; III, 82). Si tratta di un anticipo, come già ricordato, se non proprio di democrazia, quanto meno di condivisione comunitaria dei problemi e delle soluzioni, tanto che nel Cratilo (391 D) Platone affermò che, su queste questioni, «da Omero bisogna imparare». Come ha rilevato ancora A. M. Storoni Piazza, rimarcando che le parole utilizzate da Omero per parlare di verità (aletheia, eté, atrekeia, neménteia, saphèstata) rinviavano non a singole cose ma a proposizioni, in Omero «dire il vero significa mettere l’altro a parte di quanto si conosce, svelare, confidarsi, stabilire una complicità [...], un atto che compromette chi lo compie, non una asettica corrispondenza tra parole e fatti [...], o tra parole e regole»250; non questione di logica, dunque, ma di umanità. Per questo Odisseo, come poi sarà mostrato, non poteva essere nel poema omerico un uomo falso e bugiardo, bensì saggio e prudente; ciò evidenzia come non solo Ibidem, pag. 66. Anche nel IX canto dell’Iliade, quando Agamennone deve riconciliarsi con Achille, Odisseo gli consiglia di portare i doni in mezzo alla piazza, affinché egli venga a prenderseli davanti a tutti; così come, «in piedi in mezzo agli Achei», egli deve giurare di non essersi mai unito a Briseide. 250 A. M. Storoni Piazza, Ascoltando Omero, op. cit., pag. 109. 248 249 113 iL Pensiero omerico la dimensione quotidiana del presente, ma anche quella progettuale del futuro iniziassero ad assumere in Omero quella rilevanza, squisitamente politica, che costituì poi l’asse portante del pensiero greco. Si tratta di un punto molto importante da rilevare, in quanto si è soliti pensare che, per l’onnipotenza del fato e degli dèi, l’uomo omerico sia stato sostanzialmente impotente quanto alla progettazione della propria vita futura, individuale e soprattutto sociale. Il passato rivestì certo una rilevanza forte nel pensiero omerico, racchiudendo le origini della comunità e la memoria collettiva; tuttavia, per quanto si è qui sostenuto, l’uomo omerico possiede una capacità di determinare la propria esistenza molto maggiore rispetto a quella che gli fu generalmente attribuita. Ammesso dunque che l’uomo omerico poteva aspirare ad una progettualità sulla propria vita e su quella della sua comunità, è interessante ricercare in quale direzione egli ha sviluppato tale progettualità; ebbene, la direzione, in base a quanto finora argomentato, fu sicuramente quella della lotta alla hybris dei sovrani e dei ricchi, in favore di una più armonica condivisione comunitaria dei beni. Si tratta di un tema “civico” che si espliciterà poi compiutamente in Esiodo, in cui è davvero forte la critica ai «giudici divoratori di doni», ovvero alla avidità dei potenti. Ci pare su questo punto concorde B. Snell, per il quale «il fatto che le decisioni possano trasformare la vita sociale presuppone che ci si contrapponga liberamente alla tradizione, e che dietro gli ordinamenti convenzionali si scorgano i principi spirituali che danno un senso alla convivenza. In questa direzione la strada fu aperta dai Greci, e vi contribuirono non poco i poeti. I poemi omerici mostrano – evidentemente già come risultato di un lungo sforzo interpretativo – la convivenza umana retta da un ordine sensato»251. Il carattere “politico” dell’umanesimo omerico consisteva, nella sostanza, nel mostrare come l’uomo era e come doveva essere; partendo dall’uomo, si poteva infatti evincere anche come la società era e come doveva essere. In Omero, certo, non appare ancora l’Uomo scritto con la maiuscola, ovvero inteso come universale; tuttavia, proprio per la idealità ed insieme per la concretezza della sua descrizione di una compiuta umanità, non si può non rilevare come comunque, in Omero, B. Snell, Poesia e società, op. cit., pag. 12. Ed ancora: «I poeti greci, da Omero ai lirici ai tragici e fino ai poeti ellenistici, hanno [...] gradualmente portato alla luce e reso cosciente la [...] interiorità connettiva dello spirito» (pag. 25). 251 114 Tra etica e politica venga a crearsi un concetto di uomo che funge da «modello ideale di rivendicazione dei diritti della natura umana»252. Iliade ed Odissea sembrano, ad un osservatore non attento, resistere alle idealizzazioni di tipo umanistico; come ha sostenuto L. E. Rossi, nell’Iliade «Omero non offre tentazioni a chi voglia un modello a cui identificarsi: i suoi dèi sono gli uomini pieni di difetti [...], i suoi eroi sono al di sopra del livello umano [...], la civiltà che viene rappresentata nei poemi ha tutte le caratteristiche di una acerba primitività [...]. Disagevole quindi l’annessione di Omero alla provincia umanistica»253. Tuttavia, leggendo in profondità i poemi, si comprenderà che l’umanesimo si realizza anche per contrasto, sicché le conclusioni di Rossi dovrebbero a nostro avviso essere rovesciate, proprio per tener conto della profondità dialettica dei personaggi omerici. Nel mondo omerico l’individuo non era separato dal resto della società; fra i suoi pensieri e la realtà c’era poca distanza, sicché il poeta non si gettava, come spesso accade oggi, in fantasie assurde, né si ritirava nel privato per trovare concentrazione (se non per lo stretto necessario). Mostri e simboli magici furono lontani dal repertorio omerico, così come la morbosa attenzione contemporanea ai rapporti amorosi, di cui per pudore egli taceva proprio in quanto si trattava di sentimenti intimi, riservati (il contrario, ancora, di quanto accade oggi). Come ha scritto correttamente F. Codino, «solo una società di liberi e di uguali può ispirare una poesia epica, per così dire, pura ed autentica [...]. Questa società esisteva appunto quando sorsero i poemi omerici»254; o, per lo meno, esisteva la base “politica” affinché questa società potesse nascere, come poi in effetti è stato, nella Grecia classica. Utilizziamo qui un virgolettato presente in un libro di C. Preve di prossima pubblicazione, Lettera sull’umanesimo, in cui un intero capitolo è dedicato al nostro discorso. 253 In AA.VV., Storia e civiltà dei greci, op. cit., vol. I, pag. 74. 254 Ibidem, pag. 156. 252 115 Parte Seconda I miti omerici educazione e mito Come abbiamo argomentato nel primo capitolo, il tema principale dei poemi omerici, sul piano etico-educativo (che ne è, a sua volta, il tema principale), fu il fornire indicazioni morali non tanto tramite la argomentazione, quanto soprattutto tramite modelli255; ciò è stato sottolineato da diversi interpreti, fra cui R. Caut e G. Scarpat, per i quali «l’essenza dell’epos omerico» fu quella di costituire «paradigmi di virtù»256. Come noto, questo modo di procedere etico-educativo non fu proprio solo dei poemi omerici, ma di molte altre opere della cultura antica257; rimarca infatti M. Durante che «l’eroe protagonista di imprese gloriose è una istituzione letteraria diffusa nelle più diverse parti del mondo, e si sa bene che essa implica un substrato più o meno remoto di eventi storici [...] idealizzato in funzione di una gerarchia di valori etici»258. La stessa tesi è stata sostenuta da un altro intelligente interprete del pensiero omerico, M. Zambarbieri; ponendo l’accento sui caratteri soggettivi degli eroi omerici, egli ha infatti rimarcato che «i personaggi di Omero non sono figure tipiche, ma individualità inconfondibili, scolpite a tutto tondo nei loro sentimenti, senza nessuna indulgenza verso la ritrattistica [...]. I personaggi dell’Iliade sono creazioni morali»259. Nonostante la sostanziale correttezza di queste interpretazioni, occorre rimarcare come esse siano sempre state piuttosto isolate nelle riprese moderne, e soprattutto contemporanee, di Omero. I motivi sono già stati ricordati in precedenza: il fatto che oggi gli studiosi di cose omeriche siano principalmente eruditi filologi accademici, oppure – nei casi migliori – pensatori cattolici (portati a svalutare l’idea di «persona» Come ha scritto correttamente G. Murray, «gli esseri umani, in Omero, mantengono sempre la dignità ed il rispetto di se stessi» (G. Murray, Le origini…, op. cit., pag. 341). 256 R. Caut – G. Scarpat, Breve…, op. cit., pag. 10. 257 Come ha scritto anche W. Jaeger, «per l’età più antica [...] non esiste per la condotta individuale un punto di orientamento più efficace dell’esempio» (W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 80). 258 M. Durante, Sulla preistoria…, op. cit., vol. I, pag. 121. 259 M. Zambarbieri, L’Iliade com’è, op. cit., vol. II, pagg. 1004-1005. 255 119 i miti omerici nei poemi omerici), liberal-marxisti (portati a sopravvalutare l’idea di «conflitto»), oppure pensatori simbolici (interessati principalmente ai miti ed alla loro funzione poetica), non ha certo contribuito a porre in primo piano i contenuti etico-educativi dell’Iliade e dell’Odissea. I poemi omerici sono infatti stati considerati, da questi studiosi, soprattutto come “enciclopedie” di tipo storico, letterario, culturale, e quasi mai come opere cariche di contenuti di valore anche filosofico260; ed invece certi modelli umanistici, certe strutture etiche, si pongono ancora immutate nel loro valore, un po’ come Odisseo e Penelope che – dopo l’uccisione dei Proci – si ritrovarono pressoché uguali a molti anni di distanza. Si dimentica spesso di rilevare che, tramite i suoi miti, Omero produsse e trasmise in pubblico un patrimonio di saggezza tramandato da secoli, che gli uomini dovevano imparare, custodire e mettere in pratica se volevano almeno conservare quel determinato livello di civiltà. Oggi, che per certi aspetti la civiltà è un po’ tornata ad essere “orale” (solo nel senso che, grazie alla televisione, le persone leggono molto meno e chiacchierano di più), sono ben altri i personaggi presi come riferimento etico dalla nostra cultura; non è un caso che la stessa conservazione di un livello minimo di civiltà stia progressivamente venendo meno. Platone fu il primo, in questo senso, ad evidenziare che la funzione sociale dell’epos omerico fu la trasmissione di una cultura alta. Siamo spesso portati a pensare, da una tradizione plurisecolare (ripresa peraltro dalla produzione cinematografica contemporanea), agli eroi omerici soprattutto come ad eroi guerrieri, figure eccezionali dotate di forza e coraggio sovrumani; indubbiamente, la figura di Achille in particolare ci fa pensare a questo, ad un muscoloso eroe con la spada sguainata pronto a lanciarsi senza timore contro ogni avversario. Eppure, Achille aveva anche tutte le caratteristiche dei mortali, ovvero si adirava, piangeva, cantava, ed in generale faceva le cose che fanno tutte le persone normali. Sembra una banalità, ma esaminando bene il campo dei personaggi omerici, e prendendone Odisseo come esempio paradigmatico, ci accorgeremo facilmente che, contrariamente al mito dell’eroismo guerresco, i famosi eroi omerici risultano in realtà essere caratterizzati da un elevato grado di “normalità” e di “costanza etica” 260 Come ha scritto infatti W. Jaeger, «l’Odissea è un’opera di un’epoca il cui pensiero era già in alto grado razionalmente e sistematicamente ordinato [...] In Omero si trovano spunti di una interpretazione filosofica dei singoli miti» (W. Jaeger, Paideia, op. cit., pagg. 114; 136). Di parere opposto G. Colli (La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975, pag. 46). 120 Educazione e mito nella vita quotidiana (una qualità che oggi sembra “anormale” solo in quanto la quotidianità l’ha smarrita). Ciò è stato ben colto, fra gli altri, da R. Beye, secondo cui «l’eroe greco è normale, ed anche quando si spinge agli estremi, sono gli estremi del comportamento normale. La associazione dell’eroismo alla anormalità in Faust o nel capitano Achab, luogo comune della tradizione occidentale [...], è estranea alla mentalità greca, che celebra continuamente il tipico»261, purché questo tipico sia dotato di valore morale; quando, invece, la poesia greca menziona l’atipico, ossia il mostruoso (come capita appunto, nell’Odissea, con le figure dei Ciclopi o dei Lestrigoni), ciò accade proprio per mostrarne la esemplarità morale negativa. Tesi simili sono state esposte anche da M. Pohlenz, il quale, con riferimento alla ripresa moderna del termine “eroismo” riferito ai Greci, ha tenuto appunto a precisare che «i Greci, finché la loro lingua non fu guastata dalla retorica, non amavano le parole roboanti. Non parlavano di eroismo e di morte eroica; del guerriero caduto combattendo per la patria dicevano solo, in tutta semplicità: si è dimostrato uomo valoroso»262. Questa l’essenza etico-educativa del messaggio omerico, tutta volta al perfezionamento morale dell’uomo all’interno di una condizione di normalità; una normalità, certo, che la condizione della guerra, o del viaggio pericoloso, ci fa ritenere poco «normale» rispetto a parametri consueti, ma che tale è appunto sul piano etico. Cerchiamo allora di entrare maggiormente nel merito dei «miti» omerici, con una precisazione iniziale, inerente un breve excursus ermeneutico proprio sulla parola «mito». Nel primo capitolo si era mostrato che, nei poemi omerici, non è vero che gli dèi dirigono le azioni degli uomini, a meno che appunto non si intendano gli dèi come «miti», nell’originario significato del termine. Ebbene: quale è questo originario significato? Esso, come ha ben chiarito E. Severino, non è tanto quello di «favola, racconto», quanto quello di «espressione di verità», «rivelazione del senso vero delle cose», addirittura «realtà»263. Dobbiamo dunque disabituarci a pensare al «mito» come a qualcosa di “falso”, come pure, almeno da Pindaro in poi, siamo abituati. Gli dèi greci erano «miti» in quanto rappresentavano, in certo modo, la verità intesa come buona C. R. Beye, Letteratura…, op. cit., vol. I, pag. 69. M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 597. 263 E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1987, pag. 19. 261 262 121 i miti omerici conduzione della vita264; in questi senso essi guidarono gli uomini, i quali a loro volta, così guidati, furono “eroi” in quanto rappresentarono la verità come buona conduzione (etica) della realtà. Per questo motivo abbiamo lungamente argomentato, nel primo capitolo, la sostanziale “sovrapponibilità” di dèi ed eroi nel mondo omerico: ambedue rappresentavano figure paradigmatiche, modelli ideali, esempi etici; addirittura, a riprova del grande umanesimo omerico, alcuni uomini risultavano maggiormente virtuosi degli dèi. Non è un caso che ancora oggi ci rimangano impressi i comportamenti morali di Odisseo, di Diomede, di Penelope265, mentre difficilmente prenderemmo come modelli le divinità omeriche, anche le maggiori, come Zeus e Poseidone. Quando Omero descriveva i suoi mythoi egli aveva in mente l’originario significato di «verità, realtà», tanto che nella sua opera (Iliade, II, 164; 180; IV, 256; XXIV, 517) i mythoi non sono solo parole, ma soprattutto «parole di saggezza» (Odissea, III, 23), «parole che raccontano e spiegano» (III, 84; 140), «parole ponderate» (VI, 511)266. J. P. Vernant ha ben mostrato come in origine mythos non avesse un significato diverso rispetto a logos, in quanto ambedue i termini esprimevano il dire razio264 Ricordiamo come Aristotele, nella Metafisica (1074 b1 ss.), sostenga proprio la “veridicità” dei miti, la maggioranza dei quali (certo non tutti) volti a favorire «la assolutezza delle leggi e del bene comune». 265 Come ha correttamente sottolineato A. Magris, «i personaggi omerici [...] possiedono un determinato impianto antropologico che si manifesta in abitudini e comportamenti, e costituisce in senso lato il carattere dell’individuo o, come dicevano i Greci, il suo ethos» (A. Magris, L’idea…, op. cit., pag. 162). In Omero, in ogni caso, non vanno analizzati solo i singoli episodi e personaggi, quanto l’intreccio narrativo nel suo insieme: è questo del resto il significato profondo del mito della filatura, di cui il poeta è il tessitore. È infatti presente in Omero, come ricordato, quella esigenza “pre-filosofica” di arrivare ad una comprensione unitaria degli eventi, di raggiungere quello sguardo complessivo sul tutto, in cui soltanto i fatti e i personaggi assumono il loro vero significato. 266 La parola «mito» assume certo, nei poemi omerici, una pluralità di significati, che spesso muta in relazione ai protagonisti che la pronunciano. «Mito» rimane comunque, principalmente, la morale «detta ed ascoltata», foriera di buoni consigli ed azioni efficaci. Diversamente, per noi moderni, «la funzione storica dei miti [...] è di rappresentare un complesso di idee riunite intorno a una figura, a una vicenda, a un sistema di rapporti interpersonali, che esprimono i valori essenziali in cui un gruppo storicamente qualificato si riconosce, e che hanno una funzione insostituibile per la sua permanenza e la sua riproduzione nel tempo. I Greci hanno creato alcuni di questi miti, che sono stati capaci di condensare i caratteri fondamentali della loro civiltà, riproducendo in modo straordinario a loro natura e la loro cultura» (V. Citti in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo. La metafora infinita, Marsilio, Venezia, 2003, pag. 255). 122 Educazione e mito nale, veritiero267; in Omero, logos inteso come «parola», «discorso», è in effetti già presente, sia nell’Iliade (XV, 193) che nell’Odissea (I, 56-7), come termine che esprime addirittura un dire meno solenne, meno veritiero rispetto a mythos268. Fu estranea dunque ad Omero, come ricordato anche nel primo capitolo, la tipica contrapposizione moderna fra mythos e logos. Dato che i grandi miti della poesia arcaica furono sempre, in vario modo, «miti di fondazione», essi tesero a raccontare, sebbene in modo simbolico, la verità profonda di importanti significati umani. Come ha ricordato anche H. Gardner269, la mitologia greca creò, con le diverse divinità, figure che rappresentavano, in modo simbolico, le diverse facoltà dell’animo umano: Atena rappresentava ad esempio l’intelligenza sociale, che ricercava l’azione efficace rispetto ai fini (per questo aveva Odisseo come proprio protetto); Efesto rappresentava l’intelligenza tecnica; Artemide, dea notturna e lunare, rappresentava la capacità di comprensione delle emozioni nascoste; Apollo rappresentava la ricerca della armonia comunitaria; eccetera. La verità, infatti, è sempre una espressione poliedrica, che deve essere illuminata dal suo fondamento, ovvero dall’anima umana, la quale sa comprenderla nella sua totalità e nella sua essenza solo se sa trascendere le contingenze storiche e culturali, per evidenziare ciò che è più necessario, appunto, ad una vita sensata, fraterna e felice. Gli studi di Mario Untersteiner, ma anche di altri autori, hanno evidenziato bene che vi è una esplicita linea di continuità fra mito e filosofia in rapporto alla ricerca della verità. Il mito esprimerebbe cioè una sorta di atteggiamento originario di svelamento di verità nascoste, provocato dall’esigenza di dare risposte ad alcuni interrogativi fondamentali, inerenti il rapporto degli uomini con la natura e soprattutto con la morte. Nel mondo classico infatti il poeta, non meno del filosofo, era cercatore di verità; il primo è colui che fa (poieo significa fare) la verità con le immagini, mentre il secondo è colui che tenta di svelarla in J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino, 1981, pag. 193. Il logos è giustamente definito da S. Maso, in uno dei suoi significati, come «quell’insieme di proposizioni concatenate logicamente tra loro in modo tale da condurre ad una qualche conclusione» (S. Maso, Lingua philosophica graeca, op. cit., pag. 110). 268 Ciò anche in Teognide (Elegie, I, 437; 254), ed in Esiodo (Opere e giorni, 16, 202), dove sia mythos che logos indicano il discorso veritiero. In questo senso anche A. Capizzi, La repubblica cosmica, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1982, pag. 105. 269 H. Gardner, Intelligenze multiple, Anabasi, Milano, 1994. 267 123 i miti omerici modo chiaro. Come ha ricordato del resto anche E. Berti, «dei principi primi, o delle cause prime del tutto – secondo Platone ed Aristotele – si occuparono non solo i filosofi, ma anche gli antichi poeti, per esempio Omero ed Esiodo»270. Platone ed Aristotele, come accennato, riconobbero questo, pur rimarcando che la narrazione mitica non fu fondata su ragionamenti solidi ed osservazioni accurate, bensì principalmente sulla credenza popolare e sulla invenzione fantastica. Nonostante ciò, i due classici riconobbero spesso al mito un valore di verità non inferiore a quello della filosofia, specie su particolari argomenti in cui il pensiero simbolico risultava essere più adatto alla descrizione della verità stessa; tuttavia essi furono soprattutto critici del mito perché la mitologia, o «teologia» (come la chiamava Aristotele, perché essa parlava soprattutto di dèi), era ben diversa dalla ragione universale filosofica. Non ci addentreremo, in questa sede, in una approfondita analisi dei miti e delle loro funzioni. Non è il fine di questo libro, ed inoltre vi sono altre trattazioni che se ne occupano egregiamente. Pensiamo ad esempio allo studio di J. Campbell intitolato Il potere del mito (Guanda, Parma, 1990), che ha giustamente rimarcato come l’architettura del mito corrisponda a quattro funzioni fondamentali: a) la funzione cosmologica, propria di quei miti che pongono in essere la conoscenza dell’universo e della natura; b) la funzione sociale, propria di quei miti che incorporano i principi di valore dei diversi sistemi sociali; c) la funzione pedagogica, propria di quei miti che elaborano, trasmettono e conservano quadri etici e modelli di comportamento; d) la funzione mistica, propria di quei miti che producono, cercando di rispondere ai principali misteri della vita, la crescita spirituale della umanità. È evidente – al di là della discutibilità di ogni classificazione – come i miti omerici abbiano svolto soprattutto una funzione sociale e pedagogica. In questo senso, è lecito seguire la datata ma pur sempre valida analisi di G. B. Vico, che nella sua Scienza nuova respinse la lettura allegorica dei miti operata ad esempio da F. Bacone nel De sapientia veterum, nonché le teorie cartesiane che interpretavano il mito come una mera distorsione della realtà; concordemente, su questo punto, al pensiero simbolico, riteniamo che la dimensione espressa nei miti sia una dimensione fondamentale dell’umano (come ha mostrato, ad esempio, C. Jung), e che pertanto l’esperienza simbolica non possa essere trascurata, sotto pena di un impoverimento radicale delle capacità espressive del genere umano (im270 E. Berti - F. Volpi, Storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2007, vol. I, pag. 9. 124 Educazione e mito poverimento, peraltro, in atto da alcuni secoli, come ha rilevato in vari libri U. Galimberti)271. Occorre certo stare attenti anche a non cadere nell’eccesso opposto, ovvero a leggere tutta la realtà, anche quella più “materiale” e “sociale”, in termini simbolici, come fanno ad esempio alcuni epigoni di Nietzsche; tuttavia, anche questa dimensione va indagata, ed in questo senso il mito ci viene fortemente in aiuto. Proprio per questo motivo nelle prossime pagine descriveremo alcuni fra i principali miti omerici, operando comunque un’ampia selezione. Non ci interessa, infatti, realizzare una “caratteriologia” completa dei personaggi omerici, né esaltarne le profondità e le ambivalenze psicologiche. Ci interessa principalmente mostrare i contenuti etici, positivi e negativi, che emergono nelle figure più importanti di tali miti. Ci soffermeremo in particolare su Odisseo, poiché egli rappresenta a nostro avviso, meglio di altri, i contenuti principali dell’etica educativa omerica. Ci permettiamo di rinviare, in merito, a L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti, Petite Plaisance, Pistoia, 2006; U. Galimberti - L. Grecchi, Filosofia e Biografia, Petite Plaisance, Pistoia, 2005. 271 125 iLiade La storia dell’Iliade è in sostanza la storia di alcuni episodi della decennale guerra degli Achei contro Troia: l’orgogliosa ira di Achille nei confronti di Agamennone, il suo rifiuto di combattere, la morte di Patroclo ed il ritorno in campo di Achille; l’uccisione feroce di Ettore e la restituzione finale del suo corpo al padre da parte di Achille. Ciascuno di questi eventi è, nella narrazione poetica, altamente carico di significati. Si afferma solitamente come detto, da parte di alcuni studiosi, che l’Iliade sia il poema della forza, e che esso sia tutto incentrato sull’ira di Achille, che ne costituirebbe dunque il personaggio principale. Chi sostiene queste tesi ha certo molte frecce al proprio arco. In effetti, più che la descrizione dell’intera guerra di Troia (trattata dal ciclo epico), l’Iliade fu principalmente la narrazione di una vicenda: l’ira di Achille dapprima nei confronti di Agamennone, reo di avergli sottratto la schiava Briseide, e poi nei confronti di Ettore, reo di avergli ucciso l’amato Patroclo. Achille reagisce a questi “torti” con ira, come noto, e l’Iliade impegna lunghi brani nella descrizione di questa ira e dei suoi effetti. Tuttavia, a nostro avviso, non ci si deve fermare al piano narrativo. I poemi omerici non sono infatti mere descrizioni di accadimenti, bensì, come sempre avviene nelle trattazioni mitiche, rappresentazioni simboliche di valori etici, prese di posizione morali sui comportamenti umani. Se, quindi, non ci si limita a considerare il “metro narrativo”, incentrato sulla “quantità” (il numero dei versi dedicato all’ira di Achille ed ai suoi effetti), ma si passa a considerare il “metro onto-assiologico”, incentrato sulla “qualità” (la trattazione etico-educativa dei personaggi e dei fatti), si potrà leggere nell’Iliade una storia diversa da quella letta finora dai suoi principali interpreti: si potrà leggere la storia dell’inizio dell’umanesimo greco. È possibile effettuare questa differente lettura in più modi; il migliore, a nostro avviso, passa da una valutazione comparata dei tre personaggi principali dell’Iliade (escludiamo, per ora, Odisseo, che ritroveremo indiscusso protagonista dell’Odissea): Agamennone, Achille ed Ettore. Tratteremo specificamente di ciascuno nei prossimi tre para127 i miti omerici grafi, ma è possibile effettuare sin da ora due considerazioni generali. La prima riguarda il rapporto fra Agamennone ed Achille, letto con gli occhi di Omero; ebbene, è evidente che, sia nella scelta iniziale di Agamennone di non restituire Criseide al padre Crise, sia nella scelta successiva di restituirla e prendersi Briseide da Achille come compenso, egli fu fortemente biasimato da Omero. In pressoché tutti gli episodi principali cui prende parte, Agamennone fu del resto descritto come il tipico potente tracotante ed avido, che per questo, ovvero per la sua sostanziale mancanza di etica (che si riflette anche nella mancanza di coraggio: egli seguì sempre i combattimenti dalle retrovie), fu senza dubbio uno dei maggiori modelli negativi dell’Iliade. Achille, in rapporto ad Agamennone, risulta sempre vincente. È vero, certo, che egli fu inferiore quanto a potere, e fu perciò costretto a cedere Briseide, in quanto Agamennone deteneva il comando dell’intero esercito (mentre Achille comandava solo i Mirmidoni); tuttavia, pur mostrando talvolta la medesima tracotanza ed avidità di Agamennone, Achille quanto meno accompagnò tali qualità negative con le qualità positive del coraggio e della fermezza (cedette Briseide ma si rifiutò poi – almeno fino alla morte di Patroclo – di combattere), e soprattutto, nel finale, della pietas mostrata nei confronti di Priamo272. La seconda considerazione da fare riguarda il rapporto fra Achille ed Ettore. Rispetto ad Agamennone, caratterizzato prevalentemente da qualità negative, Achille fu caratterizzato da una sorta di mix di qualità negative e positive, che nei vari casi, di volta in volta, prevalsero. Ebbene: se analizziamo la figura di Ettore, noteremo che invece egli fu caratterizzato prevalentemente da qualità positive. Pur limitandoci a brevi cenni di quanto svilupperemo in seguito, Ettore fu infatti presentato da Omero come uomo buono, giusto, dolce, rispettoso verso concittadini ed avversari, amato dal popolo, dalla moglie e dai genitori; ad Ettore si possono imputare solo piccoli difetti, quali il famoso timore immediatamente antecedente al combattimento con Achille. Tuttavia, così come è evidente che, sul piano etico, nell’Iliade Achille prevalse su Agamennone, è altrettanto evidente che Ettore prevalse su Achille; se, dunque, la nostra lettura umanistica dei poemi omerici è corretta, allora Come ha scritto correttamente, in merito, A. Lesky, «la scena in cui Achille e Priamo, dopo tutte le asprezze della lotta, dopo tutto il dolore e la crudeltà di una vendetta insensata, riconoscono ed onorano l’uno nell’altro l’uomo, rappresenta il punto di arrivo dell’Iliade e l’inizio dell’umanesimo occidentale» (A. Lesky, Storia…, op. cit., vol. I, pag. 47). 272 128 Iliade è Ettore che risulta essere il vero modello, e quindi anche il protagonista, di questo poema: l’uomo che rinuncia alla propria vita per difendere la città, e che si comporta con ciascuno in modo fraterno. Qualora però avessimo ragione, e dunque l’Iliade fosse poema essenzialmente umanistico273, ovvero poema etico-educativo ponente Ettore come modello di riferimento rispetto ad Achille, allora tutte le tradizionali interpretazioni dell’Iliade come «poema della forza» perderebbero larga parte del loro valore274. A nostro avviso, succubi della mentalità dominante che da secoli identifica il vincitore con il migliore, si è abituati a pensare Achille come migliore di Ettore, e dunque come il vero eroe dell’Iliade (in cui peraltro non si fa esplicitamente cenno alla sua uccisione); ed egli lo è, fino a che si batte per conservare il proprio onore nei confronti del tracotante Agamennone. Tuttavia, quando incurante delle sorti del suo esercito rimase chiuso nel proprio orgoglio senza intervenire, ed ancor più quando fece ferinamente scempio del cadavere di Ettore, egli cessò di essere un modello etico positivo. Il biasimo di Omero nei suoi confronti fu, in questa circostanza, davvero evidente, come mostrato dalla cruda descrizione della sua efferatezza. Poteva un aedo viandante, un poeta pensatore, un uomo saggio, esaltare e proporre come modello etico la ferocia di Achille, ed in generale farsi cantore della forza e della violenza? Noi riteniamo di no, e pensiamo che solo secoli di cattive interpretazioni abbiano potuto condurre gli studiosi ad abbracciare, nella loro quasi totalità, questa lettura275. È indubbiamente molto più facile descrivere l’Odissea come il poema dell’uomo (Odisseo), e dunque dell’umanesimo. Tuttavia, anche l’Iliade mostra la centralità dell’uomo, e la priorità dei modelli etici poNota correttamente, in merito, H. C. Baldry che «se è solo dopo Omero che la nozione di specie umana diviene oggetto di una formulazione condotta a livello cosciente, molti dei tratti che le vengono attribuiti sono i medesimi [...] dell’Iliade e dell’Odissea» (H. C. Baldry, L’unità del genere umano nel pensiero greco, Il Mulino, Bologna, 1983, pag. 37). 274 Ci dà in parte ragione anche M. Gigante, secondo cui «l’Odissea è il poema di Ulisse, mentre l’Iliade non è il poema di Achille» (in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo, op. cit., pag. 170). 275 Sottostante a questa lettura, vi può essere al più il fatto che l’unità compositiva dell’Iliade nacque sulla leggenda di un evento remoto, ovvero il tentativo di colonizzazione del litorale asiatico da parte degli Achei operato verso la fine del II millennio a.C. (la caduta di Troia potrebbe risalire al 1183). Troia sorgeva infatti in una posizione strategica, a dominio delle vie di comunicazione marittime e terrestri tra l’Europa e l’Asia. 273 129 i miti omerici sitivi276. Essa non fu infatti – se non per il suo oggetto bellico – il poema della forza, e non fu nemmeno, come mostrato in precedenza, il poema degli dèi; essa non fu neppure il poema della natura, dato che quest’ultima, quando è descritta, lo è sempre in maniera funzionale ad una rappresentazione di sentimenti umani. I paesaggi naturali furono infatti in Omero pervasi di umanità, come accadde ad esempio per le acque del mare percosse dal soffio potente di Zefiro, o per le distese del cielo in cui le stelle scintillano misteriose e lontane; gli animali, poi, quasi rispecchiano qualità umane, giungendo fino al pianto (XI, 558; XII, 167; XVI, 259). La natura, non umanizzata, esprimeva infatti in Omero solo la vita svolta fuori dal consesso della civiltà cittadina; le mura di Troia, simbolo di una comunità, erano in effetti assimilate, nell’Iliade, ad una casa dalle forti pareti (XVI, 212), dalle volte robuste (XXIII, 712), al baluardo che cinge la città intera, con le sue vie (II, 19), le sue piazze (XVIII, 497), i suoi palazzi (VI, 242), i suoi templi (VI, 297) e tutte le altre istituzioni della vita collettiva, ossia le leggi, le cerimonie, le feste, i luoghi ed i momenti della vita artistica, culturale e religiosa (XVIII; XXIII). Ettore fu, in questo senso, l’emblema della vita civile, il modello di quella «etica sociale» (G. Pasquali) che costituirà, nei secoli, l’immagine più rappresentativa dell’intero pensiero greco. Come ha rimarcato anche A. W. H. Adkins, «la giustizia trionfa in molte parti sia dell’Iliade sia dell’Odissea» (A. W. H. Adkins, La morale…, op. cit., pag. 113). 276 130 tracotanza e avidità: aGamennone Agamennone fu il comandante degli Achei nella spedizione a Troia, in quanto re della componente più rilevante del vasto esercito ellenico (Iliade, IX, 69). Quanto importa rimarcare, in questa sede, non sono ovviamente i contenuti narrativi del racconto, che in larga parte devono essere dati per conosciuti; ciò che importa rimarcare sono i comportamenti di Agamennone, e la loro valutazione etica. Ebbene, come poc’anzi ricordato, tali comportamenti si caratterizzarono pressoché sempre per tracotanza ed avidità, tanto che, sin dal primo canto – in una delle molteplici condanne della hybris che improntano i poemi omerici – Achille si rivolse proprio a lui apostrofandolo come «uomo tracotante ed avido di guadagno» (I, 148), oltre che con altri epiteti. Agamennone infatti, dopo aver compreso, grazie al discorso dell’indovino Calcante («che conosceva il passato, il presente e il futuro», I, 70), la necessità di restituire Criseide al padre Crise (I, 115-116)277, chiese in cambio ad Achille la schiava Briseide, che all’eroe era stata assegnata dalla assemblea comune, solo per rivendicare, con questa infantile “compensazione”, il proprio maggiore potere; egli infatti esplicitò apertamente ad Achille di volere ciò «affinché tu sappia quanto sono più forte di te, e tremi anche ogni altro di parlarmi alla pari, o di levarmisi di fronte» (I, 184-187)278. Per questo motivo Achille lo criticò giustamente di «non onorare realmente il dio» (I, 127) e di «non darsi pensiero» (I, Crise, sacerdote troiano di Apollo, era infatti giunto alle navi degli Achei per chiedere il riscatto della figlia, caduta nelle mani di Agamennone, recando molti doni (I, 20). Gli Achei avrebbero voluto onorare il sacerdote di Apollo, ma Agamennone «villanamente lo congedò, e gli ingiunse un ordine minaccioso» (I, 25). Agamennone trattò con insolenza il vecchio padre, ventilando addirittura per Criseide la prospettiva della servitù e di un odioso concubinato (I, 29); Crise «se ne andò in silenzio lungo la riva del mare risonante; poi, ritiratosi in un luogo solitario, intensamente pregò il dio Apollo» (I, 34-39). Fu per questo motivo – consueta metafora mitica – che Apollo scese sull’accampamento degli Achei, portando morte, per tutta la prima parte del poema. 278 Prima ancora aveva dichiarato che avrebbe potuto prendersi i «doni» di qualunque altro, a sua scelta, degli eroi greci (I, 137-139). 277 131 i miti omerici 160) del bene comune279, e di essere la causa del ritiro dalla battaglia del più valoroso guerriero greco280. Ora: è indubbio che in una parte del mondo omerico, la forza e la potenza costituivano ancora contenuti positivi (anche perché spesso confusi con il coraggio ed il valore, virtù fondamentali nei frequenti eventi bellici dell’epoca)281. Non è un caso, in merito, che anche il maggiore fra gli dèi, ossia Zeus, rivendichi proprio sul piano della forza (bia) la propria posizione di superiorità, quando essa venne messa in discussione dagli altri dèi; egli infatti sfidò apertamente – sulla falsariga di quanto visto in precedenza per Agamennone – gli altri numi a contrastarlo, ritenendosi «tanto al di sopra di tutti gli dèi, ed al di sopra degli uomini» (VIII, 18-25). Tuttavia, come la stessa Iliade mostra in abbondanza, nella antica Grecia la forza, separata dall’etica, non consentiva di essere considerato realmente agathos, ovvero di godere di quel riconoscimento sociale che ad Agamennone mancava, appunto, proprio per mancanza di valore morale. Questa manchevolezza umana di Agamennone si rivelò ancor prima della sua permanenza a Troia, ovvero quando, durante la contrastata partenza dell’esercito acheo, più volte rimandata per la assenza di vento provocata dalla dea Artemide, egli si rivelò pronto anche a sacrificare la figlia Ifigenia per ingraziarsi la dea e procurarsi così gloria. La sua non curanza nei confronti degli altri uomini (ed anche un certo nichilismo ante litteram) si rivelarono poi in molteplici episodi dell’Iliade; significativa è in merito una frase, dai più trascurata, che egli rivolse al fratello Menelao: «Che ti importa degli uomini? Nessuno può salvarsi, neppure quello che sta ancora nel ventre della madre, neppure il bambino che piange» (VI, 55-60). Il fatto che gli uomini siano mortali, non conduce però necessariamente a doverli ritenere come strumenti irrilevanti di una più potente volontà individuale; realmente in Agamennone, così come in parte in Achille, furono presenti quelle radici di hybris che caPoco oltre Achille affermò che Agamennone «divora i beni della sua gente» (I, 231); un anticipo della tematica, più specificamente esiodea, dei «re divoratori di doni» (Esiodo, Opere e giorni, 38 ss.). 280 Queste le parole di Achille: «Tornerò a Ftia, perché è molto meglio per me tornare in patria con le ricurve navi [...] che rimanere qui privo di onore, a procurare a te opulenza e ricchezza» (I, 169-171). 281 In alcuni passi dell’Iliade, Agamennone è infatti paragonato, nel capo e negli occhi, addirittura a Zeus, e nel petto a Poseidone. 279 132 Tracotanza e avidità: Agamennone ratterizzano anche le radici dell’Occidente contemporaneo282, e che invece Ettore ed Odisseo negarono nelle parole e nei fatti, avendo cura di ogni essere umano entrato in contatto con loro. Significativo è peraltro che, proprio nello scontro delle hybris, Agamennone accusi Achille di comportarsi esattamente come lui, ma senza la necessaria «autorità»283. Si è infine argomentato, nel primo capitolo, di come, almeno all’apparenza, gli dèi guidino le azioni degli eroi omerici. Agamennone offre una ampia casistica di questa tesi, imputando il proprio «accecamento» (ate), ovvero le proprie errate decisioni, a Zeus (IX, 18), alla Moira (XIX, 86) od alle Erinni (XIX, 136). Ebbene: il fatto che la responsabilità per le proprie decisioni sia fatta ricadere su cause esterne proprio da un personaggio come Agamennone è, a nostro avviso, non la prova che in Omero gli uomini siano burattini nelle mani degli dèi, ma la prova che solo i personaggi poco etici incolpano gli dèi di accecamento, quando in realtà dovrebbero incolpare loro stessi di non avere sufficiente saggezza ed eticità. Non è difficile inoltre notare non soltanto come, nella stessa Iliade, gli dèi (Atena, Era) intervengano a fianco di Achille solo per ben consigliarlo, ma come soprattutto nell’Odissea (ad eccezione di Poseidone, che voleva vendetta) essi intervengano sempre positivamente a fianco di Odisseo; egli infatti disponeva di saggezza ed eticità, ovvero di quegli stessi valori umanistici che gli dèi incarnarono, nei poemi omerici, in misura crescente. Le famose parole, in precedenza riportate, di Platone nel libro X della Repubblica, in cui l’anima di Odisseo scelse il proprio destino affermando che sono gli uomini a fare le proprie scelte e che il dio non ne ha colpa, possono a nostro avviso attribuirsi anche all’età omerica, non rappresentando affatto una «rivoluzione platonica»; ben interpretando i miti, infatti, l’umanesimo emerge anche nell’opera di Omero, non solo nella Grecia classica. Per concludere con Agamennone, va ancora rimarcato che, come accadrà anche ad Achille (che si riscattò parzialmente dall’avere animalescamente infierito sul corpo di Ettore restituendolo alla fine al padre), Omero ne mostrò, nello scorrere dell’opera, un parziale ravvedimento, tanto che fu autore di una sostanziale «ammenda» (XIX, 137-144) della 282 Ci permettiamo di rinviare, in merito, a L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova, 2009, con introduzione di D. Fusaro. 283 «Costui pretende di stare al di sopra di tutti, di dominare su tutti, di imporre a tutti la sua signoria, di dare ordine a tutti» (I, 287-289). 133 i miti omerici propria hybris; egli fu infatti in alcuni episodi mostrato vivere la propria ate con discreto senso di colpa, tanto da sentirsi in dovere di offrire una adeguata riparazione (XIX, 78 ss.). L’ate era infatti, già in Omero, un “errore” che produceva sempre “responsabilità”, tanto che negli autori successivi (ad esempio Esiodo, Opere e giorni, 8, 214) ate divenne vero e proprio sinonimo di “colpa”; fu proprio in Omero però, come ha ricordato A. Magris, che partì «questo movimento di razionalizzazione e moralizzazione, spinto da esigenze di ordine della società [...], che fanno perno sul concetto di hybris»284. Il comportamento di Agamennone nei confronti di Achille e di altri fu sicuramente hybris, tanto che con la sua figura si fece strada, nei poemi omerici, «l’idea di una colpevolezza non desunta dall’esterno ma intrinseca, e perciò suscettibile di una ben precisa connotazione etica e giuridica»285. Mostrando questo processo di autocomprensione etica, in sostanza, Omero volle mostrare che l’esperienza, soprattutto se composta di sofferenza e dolore, reca sempre insegnamento, anche ai più tracotanti; fu verosimilmente questo stesso messaggio, che costituì il cuore dell’etica greca, a muovere Achille al suo finale gesto di pietas. A. Magris, L’idea…, op. cit., pag. 116. La hybris peraltro rappresentava in origine non tanto la violazione del rapposto fra umano e divino, quanto la violazione delle norme che regolavano il rapporto fra pubblico e privato. 285 Ibidem, pagg. 116-117. 284 134 coraGGio e ferocia: achiLLe La figura di Achille, figlio – secondo il mito omerico – del re dei Mirmidoni Peleo e della dea Teti, è emblematica della elaborazione di valori che stava attuandosi nella società omerica. Il valore della forza, verosimilmente ancora legato alla precedente epoca micenea, in cui il territorio della Grecia fu soggetto a molteplici invasioni ed occupazioni, lasciava infatti sempre più spazio a quei contenuti etici di misura, di lealtà, di benevolenza che, in alcuni tratti, anche Achille rivela (pensiamo, ad esempio, al reiterato consiglio di prudenza all’amato Patroclo, od ai teneri dialoghi con la madre Teti); il fatto che la menis, ossia uno stato d’animo in cui si mescolano rancore e sensibilità, fu spesso presente in Achille, non esclude però che sia stata soprattutto la violenza a caratterizzare il personaggio. Assai significativa, in merito, è la ferocia con cui egli affrontò lo scontro finale con Ettore: al principe troiano che gli propose un patto affinché il vincitore restituisse quanto meno il corpo dello sconfitto, Achille si paragonò ad un «leone», come tale impossibilitato a fare patti con «uomini»286; tale egli si sentiva per sua indole, soprattutto dopo la morte dell’amato Patroclo, che aveva «reso selvaggio il suo cuore nel petto» (IX, 628-629). La figura di Achille, nei momenti in cui rivela una presenza di contenuti umanistici, risulta dunque emblematica di una mutazione di valori in corso in epoca omerica. Fin dall’infanzia la madre gli predisse il proprio destino, o meglio – come abbiamo mostrato in precedenza, rimarcando il carattere “non deterministico” del fato greco – lo pose di fronte ad una scelta: raggiungere la gloria ma morire in giovane età, oppure vivere una vita lunga ma anonima. Achille scelse la prima alternativa (II, 681-694; XI, 781-790), e con essa scelse la violenza come tratto prevalente del proprio carattere. In questa originaria scelta di Achille si è sempre letto il fatto che i poemi omerici furono espressione di una società agonale (pensiamo, ad Anche Apollo lo paragonò ad un «leone selvaggio» (XXIV, 40); paragone, a dire il vero, che fu da Omero riferito anche ad Ettore, Aiace ed Odisseo, ma solo per esemplificarne il vigore nella battaglia. 286 135 i miti omerici esempio, alla interpretazione dei Greci di J. Burckhardt)287. Ciò è però solo parzialmente vero. Quando infatti, nell’Odissea, nella sua discesa nell’Ade Odisseo incontrò l’anima di Achille, quest’ultimo affermò chiaramente che, se avesse potuto decidere ora per allora, avrebbe preferito aver condotto una vita da bracciante, servo di un padrone, che non essersi ritrovato così giovane nel regno dei morti. Si tratta di un “ravvedimento” davvero significativo, che mostra come già in epoca omerica la ricerca della buona vita quotidiana, dignitosa e coraggiosa, cominciasse ad essere un valore fortemente riconosciuto. Ettore fu, in questo senso, il personaggio emblematico della bellezza della vita famigliare e cittadina; ma anche Odisseo, la cui scelta di una “vita tranquilla” compiuta nella platonica Pianura della Verità (descritta nella Repubblica) risultò essere una interpretazione davvero intelligente del personaggio288. L’importanza dei legami famigliari segnò anche tutta la vita di Achille, dall’infanzia alla maturità. La madre infatti, avendolo concepito con un mortale, si preoccupò sin dall’inizio di renderlo immortale come lei. La mitologia antica ci offre almeno due versioni di questi tentativi. Nella prima, dopo aver procurato un incendio, Teti lo nascose di notte fra le fiamme, allo scopo di distruggere le parti del suo corpo che aveva ereditato dal padre mortale; Peleo però lo “salvò” affidandolo alle cure del centauro Chirone, che lo allevò – insegnandogli peraltro le arti mediche – nutrendolo di cuori di leone e midollo di orso289. Nella Occorre comunque rimarcare, in merito, che gli agoni greci, in particolare quelli «sportivi» quali quelli indetti da Achille in occasione della morte di Patroclo, ebbero sempre un valore “sacro” ed una funzione sociale. Essi infatti, come poi le rappresentazioni teatrali ateniesi, furono finanziati dai più ricchi, che in questo modo distribuirono continuamente parte delle loro ricchezze. I pericoli insiti in una società agonale vennero esplicitamente evidenziati, per la prima volta, da Solone. 288 Emblematico della differenza fra Achille ed Odisseo fu anche il differente comportamento tenuto dopo la sconfitta degli avversari: come vedremo, Achille oltraggiò in vari modi il cadavere di Ettore, mentre Odisseo impedì addirittura all’ancella Euriclea di esultare sui Proci sconfitti, in quanto «è sacrilego menar vanto sui nemici uccisi» (XXII, 412). Come ha scritto correttamente A. Lesky, «Ulisse è il più deciso opposto di Achille: saggia avvedutezza contro nobile dismisura [...]. È quanto mai significativo che nel canto IX dell’Iliade proprio egli sia fra gli ambasciatori il meno capace di toccare l’animo di Achille» (A. Lesky, Storia…, op. cit., vol. I, pag. 49). 289 L’educazione di Achille fu però affidata, come ricordato, al saggio Fenice (IX, 442-443), in quanto – come ha giustamente rimarcato S. Gastaldi – «il guerriero deve essere, al tempo stesso, capace di pronunciare discorsi e compiere azioni» (S. Gastaldi, Introduzione alla storia del pensiero politico antico, Laterza, Roma-Bari, 2008, pag. 7). 287 136 Coraggio e ferocia: Achille seconda versione, più nota (che è quella della Achilleide di Stazio), la madre cercò di renderlo immortale immergendolo nel fiume Stige, e vi riuscì quasi interamente tranne che per il tallone con cui lo reggeva: fu quello infatti il punto, secondo un altro mito posteriore, in cui egli fu colpito dalla freccia di Paride Alessandro. Non interessa comunque, in questa sede, ripercorrere l’intera mitologia su Achille, che si può tranquillamente consultare nei dizionari di mitologia; ci interessa semmai rimarcare come il suo rapporto con la morte sia stato sin dagli inizi molto stretto, tale da porsi come crocevia delle sue scelte di vita. Originariamente, infatti, egli scelse di affrontare la morte senza timore; giunta la morte, egli parve però di più apprezzare la vita, anche se non immortalata dalla gloria (così, almeno, nell’Odissea). Proprio questo suo difficile rapporto con la morte, in apparenza sprezzante ma in realtà doloroso e sofferto (proprio di chi, per dirla con Ugo Foscolo, non lascia in vita «eredità d’affetti»), fu emblematico della sua ambivalenza; nella Iliade in particolare, infatti, è il giusto rapporto con la morte che si configura come aretè, ovvero come il raggiungimento della compiutezza per ogni eroe. L’ambivalenza del personaggio di Achille, ma soprattutto la sua aggressività, hanno fatto sì che i poeti greci successivi prendessero poco in considerazione la sua figura. Sappiamo che vi fu una trilogia achillea di Eschilo, andata però quasi completamente perduta; abbiamo un ritratto di Achille nella Ifigenia in Aulide di Euripide, ma in generale egli suscitò scarsi interessi nell’antichità, anche rispetto ad eroi a lui inferiori. Achille del resto, oltre che egoista290, non fu nemmeno dotato di una varietà e profondità di moti dell’animo tali da renderlo affascinante, e da facilitare la identificazione; non lo sapremo mai, ma forse questa fu una scelta volontaria di Omero, al fine di non rendere in alcun modo avvincente la tracotanza e la violenza (pensiamo invece a quanto ricco fu l’animo del saggio Odisseo). La hybris, ma soprattutto un forte tratto di individualismo ed asocialità, rimasero il tratto dominante della vita di Achille291. Se infatti Nella perdita di Briseide, in effetti, Achille vide soprattutto un’offesa nei suoi riguardi, e non il distacco da una persona amata; ciò toglie molta dignità a tutto il complesso emotivo dell’episodio. Come ha del resto sostenuto G. Murray, «anche il suo amore per Patroclo ha l’aria di non essere senza un suo fondo egoistico: siamo ben lontani dall’amore di Oreste e di Pilade» (G. Murray, Le origini…, op. cit., pagg. 242-243). 291 «Godrà solitario il proprio valore» (XI, 763), commentò Nestore a proposito del suo orgoglio implacabile. 290 137 i miti omerici può essere considerata “di parte” l’opinione di Agamennone, che lo accusò di essere tracotante (I, 207), va comunque ricordato che anche Patroclo, che pure lo amava, sostenne esplicitamente che Achille era il tipo di uomo che impaurisce gli altri, in grado anche di accusare degli innocenti (XI, 653 ss.). Ricordiamo inoltre che Achille giunse perfino a minacciare il dio Apollo, e che perseverò nel proprio proposito di vendetta pure quando il suo cavallo, Xanto, acquisita la parola, gli avvertì prossima la morte (che in effetti l’Iliade non descrive, così come non descrive la presa di Troia, ma ambedue gli eventi sono chiaramente presagiti nel testo). L’episodio in cui la hybris di Achille fu però più scoperta fu quello in cui egli, paragonandosi ad una belva, non si limitò ad uccidere Ettore, ma infierì crudelmente sul suo cadavere innanzi agli occhi della sua famiglia: come se stesse catturando una preda, sotto le mura di Troia egli forò infatti i talloni di Ettore, vi passò all’interno una cinghia ed appese il corpo al proprio carro, trascinandolo via. Questo gesto, così come le tante spietate uccisioni descritte nel canto XXI (come quella del giovinetto Licaone), sono testimonianze di una profonda hybris, che venne duramente criticata da Apollo, il dio dell’equilibrio spirituale e morale, per il quale «Achille ha smarrito la pietà: egli non ha più pudore» (XXIV, 44-45); come ha giustamente commentato in merito L. Zoja, «Achille fu eroe guerriero, al di fuori della dimensione famigliare. La tradizione antica parla, è vero, di un figlio, ma non di un rapporto fra i due. Il figlio, Neottolemo, è feroce quanto il padre: sarà lui a massacrare il piccolo Astianatte riportando fra i figli l’orrore che aveva unito i genitori»292. Anche in Achille furono tuttavia presenti, come ricordato, alcuni tratti umanistici293. È vero infatti che egli, tramite l’azione guerresca, ricercò soprattutto la gloria e l’onore personali, ma è altrettanto vero – come ha giustamente rimarcato C. M. Bowra – che «la base fondamentale dell’onore è la dignità umana»294, non il semplice prevalere; nella Grecia antica, a differenza che nel mondo capitalistico di oggi, non tutto infatti era permesso, ed il fine non giustificava i mezzi, sicché «essere sempre il migliore», come il padre Peleo gli richiese, voleva dire L. Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, pag. 101. Vi fu anche una sorta di ravvedimento finale di Achille, dopo la morte di Patroclo: «Potesse perire dal mondo degli dèi e degli uomini la contesa (eris), e con essa l’ira, che spinge anche l’uomo saggio ad infuriarsi» (XVIII, 107-109). 294 C. M. Bowra, L’esperienza greca, Il Saggiatore, Milano, 1996, pag. 34. 292 293 138 Coraggio e ferocia: Achille essere in primo luogo una persona leale e giusta: una concezione che assai raramente Achille riuscì ad incarnare, se non appunto nell’episodio finale della restituzione del corpo di Ettore. Qui Omero, con pagine di rara bellezza, pose in evidenza la differente statura morale esistente fra l’umanità di Priamo e la ferinità di Achille, tanto che tutti gli dèi si schierarono in favore di Priamo: Zeus stesso decise che l’anziano re potesse giungere alla tenda di Achille senza ostacoli, e che la sua richiesta di restituzione del corpo avesse esito positivo (XXIV, 22-119; corpo peraltro che, a dieci giorni dalla morte, altri dèi avevano contribuito a far rimanere integro). Priamo accettò di baciare la mano che uccise Ettore ed altri suoi figli, ma la superiorità morale del suo fine, ovvero l’amore paterno, fece sì che questo gesto non fosse mai avvertito, nel tempo, come una umiliazione295. Con questa scena finale, nonostante la sconfitta di Ettore, Omero celebra la vittoria dell’umanità sulla animalità, dell’etica sulla ferocia, della comunità sulla individualità296. Fra il leone e l’uomo, in termini di “animalità” vince il leone, ma in termini di “umanità” vince l’uomo; ed era l’umanità a stare a cuore ad Omero, che dunque fece trionfare, sul piano etico ed educativo (dunque umanistico), Ettore. Si è spesso discusso se Omero, per motivi “etnici”, abbia preferito gli Elleni o i Troiani, Achille o Ettore; si è talvolta sostenuto che egli abbia preferito gli Elleni, indicando come esempi passi in cui sottolinea la compostezza dell’esercito e degli eroi greci, in rapporto alla struttura disordinata dell’esercito troiano. Ci permettiamo però di rinviare, in merito, al nostro Gli stranieri nella Grecia classica, per una argomentata dimostrazione di come questa tesi debba ritenersi errata, ovvero di come motivi “etnici” non abbiano mai influenzato la sostanza “teoretica” del discorso di Omero. In ogni caso, anche senza il rinvio ai brani citati nel nostro libro, basterebbe la considerazione in cui Omero tiene la virtù civica e famigliare di Ettore rispetto alla hybris di Achille, per mostrare come il suo “prendere parte” sia stato sempre di tipo etico, Fu anzi proprio il far ricordare ad Achille che anche lui aveva un padre che lo attendeva trepidante, a far muovere il figlio di Peleo alla pietà (XXIV, 485-517). 296 Ci pare abbia ben compreso la questione C. Del Grande, affermando che «dai tempi omerici ai classici [...], accanto ad una paideia essenzialmente spartana, basata sulla continuità della areté eroica, troviamo un’altra e diversa paideia, espressione di più larghi strati sociali che, senza negare quella areté, la corregge e la sottopone al principio del riconoscimento e della difesa di un diritto uguale per tutti, che non è possibile infrangere senza offendere gli dèi» (C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 1). 295 139 i miti omerici non etnico; ed, in questo senso, non vi è dubbio che nell’Iliade il suo eroe preferito sia sempre stato Ettore, modello di un nuovo tipo di uomo297. Ci pare avrebbe concordato con questa tesi anche C. Diano, secondo il quale «Achille muore per la gloria, Ettore per la patria [...]. L’uno ha la illogicità tempestosa di un’età che non conosce altra legge se non la passione e l’arbitrio individuale [...] Ettore ha la pietà e la giustizia di chi vive in una cerchia di mura; egli idealizzò ed espresse le virtù della nuova civiltà cittadina: il dovere e l’amore della patria» (C. Diano, Delta, 4, 1957, pag. 48). 297 140 comunità ed etica: ettore Il personaggio di Ettore, a differenza di quello di Achille, emerse nella propria grandezza non per le azioni belliche che compì, ma per le relazioni umane che intrattenne; per questo egli fu il personaggio più significativo dell’umanesimo omerico per come esso si manifestò nell’Iliade. Significative furono le sue relazioni col fratello Paride, con la cognata Elena, con la moglie Andromaca ed il piccolo figlio Astianatte, col padre Priamo e la madre Ecuba, coi propri concittadini e perfino col nemico più spietato, Achille. Dall’analisi di queste relazioni emerge tutta la sua umanità. Il primo rapporto che esamineremo è quello col fratello Paride Alessandro. Si tratta di un rapporto molto importante, in quanto proprio a causa di Paride scaturì, almeno secondo il mito omerico, la guerra degli Achei contro Troia. Paride, ospite di Menelao, si rese infatti colpevole della sottrazione della di lui moglie Elena, rapendola nella notte – per un reciproco immediato innamoramento – e portandola con sé sulle navi verso Troia. Questo gesto di Paride, che mosse Menelao a richiedere ad Agamennone di armare un enorme esercito per riprendersi Elena, fu più volte biasimato nell’Iliade; ciò in quanto esso, lesivo al contempo del legame famigliare e della ospitalità, era particolarmente grave. Non è un caso che Menelao, appena giunto a Troia, volle subito duellare con Paride per mettere così immediatamente fine alla contesa, chiedendo direttamente a Zeus di fare giustizia lasciandoglielo uccidere, «affinché ciascuno degli uomini, anche nel tempo futuro, rabbrividisca all’idea di fare del male ad un ospite che gli offra affettuosa accoglienza» (III, 351354)298; nel duello peraltro, indietreggiando nei confronti di Menelao (III, 15-37), Paride mostrò quella biasimevole viltà che, così contraria alla tavola dei valori omerici, indusse il rimprovero anche del pur benevolo fratello Ettore (III, 64-66). L’atteggiamento di Ettore nei confronti di Paride rimase comunque, in linea generale, benevolo ed appunto Simili furono peraltro anche le parole della preghiera a Zeus di Agamennone (II, 412418), che richiesero la vendetta proprio come atto di giustizia, necessaria a ristabilire l’equilibrio morale violato. 298 141 i miti omerici fraterno299, e questo nonostante l’acredine che verosimilmente, per il suo gesto e per il suo disonorevole comportamento, i suoi concittadini e compagni provarono nei suoi confronti (III, 320-322; 453; VII, 350). Lo stesso atteggiamento tenuto nei confronti di Paride, Ettore lo riservò anche alla “cognata” Elena; nonostante, infatti, i suoi errori e le sue colpe, Ettore non le rivolse che parole benevole. Elena è una figura davvero complessa dei poemi omerici, tanto che è stata varie volte considerata dalla letteratura mondiale, moderna ed antica (pensiamo al famoso Encomio di Elena di Ippia, che cercò sostanzialmente di togliere ad Elena la responsabilità delle sue azioni, incolpando gli dèi). L’ambivalenza è la dote che più caratterizza Elena: moglie infedele nell’Iliade (sebbene disposta ad accollarsi ogni responsabilità per il suo gesto; III, 171-180)300, nell’Odissea ella mostra la propria nobiltà; quando infatti Telemaco si recò a Sparta da Menelao per avere notizie del padre, la trovò ricongiunta al marito, bella ed assennata «padrona di casa» allietante i propri ospiti con buone parole e con penetranti racconti (IV, 253-264)301. Quanto ci interessa qui rilevare, di Elena, non è comunque la “profondità” della sua figura, evidentemente utilizzata da Omero come snodo di esperienze, riflessioni e passioni; quanto ci interessa qui rimarcare è che, nell’Iliade, Ettore le riservò un trattamento affettuoso e benevolo, tanto che Elena, legata anche al saggio Priamo, lo descrisse come la persona più gentile dell’intera Troia (XXIV, 767 ss.). Elena infatti, dal momento in cui venne a trovarsi nella rocca di Ilio, si trovò a far parte della stessa comunità di Ettore, famigliare e cittadina; come tale, divenne degna di tutto il suo affetto e la sua protezione. «Il mio cuore soffre dentro il petto, quando sento in giro oltraggi contro di te» (VI, 523). Da notare peraltro che re Priamo, con la medesima dolcezza del figlio Ettore, fece di tutto per lenire il senso di colpa della bella Elena, «tremendamente somigliante nel volto alle dee immortali», giungendo anche a porre il suo gesto sul conto della volontà degli dèi (III, 164-167). Dare la colpa ad una ragazza sola e spaventata in terra straniera sarebbe stata cosa indegna di un uomo della nobiltà d’animo di Priamo; come ha sottolineato correttamente C. Del Grande, nel sostenere ciò Priamo usa una «squisita formula di cortesia [...], ma non possiamo dedurre che lo scrittore ignori il principio di responsabilità» (C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 17). 301 Elena apparve peraltro per la prima volta, nel III libro dell’Odissea, intenta a tessere una grande tela raffigurante le scene della leggenda troiana (121-145). La tela sembra riflettere la consapevolezza del dramma della sua vita e delle sue scelte; Elena appare in un atteggiamento assorto e nobilitato. 299 300 142 Comunità ed etica: Ettore L’aspetto etico e comunitario fu in effetti quello che più caratterizzò Ettore; la città, ed in particolare la famiglia, risultarono essere il centro dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Vi sono, con riferimento ad Ettore, alcune scene dell’Iliade riemerse più volte nella letteratura occidentale, a motivo della loro umana ricchezza; la più celebre è sicuramente quella del commiato dalla moglie Andromaca e dal figlioletto Astianatte, nel canto XXII. Vale la pena riportare la parole di amore rivoltegli, in quella occasione, dalla moglie Andromaca, che rappresentano una delle vette poetiche dell’intero poema: «Infelice, proprio il tuo valore ti ucciderà. Non hai pietà del piccolo ancora in fasce, né di me, che sarò vedova tra poco, quando gli Achei, tutti insieme, ti assaliranno. Ma senza di te, meglio che anche io muoia. Niente di più dolce, se tu muori, io avrò, soltanto dolore. Io non ho più padre, non ho madre [...]. Ettore, tu sei per me sposo, e insieme padre, madre, fratello. Non rendere nostro figlio orfano, e me vedova [...]. Resta con noi sulla torre». Ettore però aveva come priorità, in base al proprio ethos comunitario, la difesa della città, che nella sua scala di valori rivestiva maggiore importanza della salvezza famigliare e personale; così dunque rispose ad Andromaca: «Lo so. So tutto questo. Ma avrei troppa vergogna dei Troiani e delle Troiane se non fossi in battaglia. Da sempre ho imparato a essere forte [...]. In fondo al cuore, so anche che Troia scomparirà, e con lei Priamo e tutto il nostro popolo. Ma non penso al loro dolore, a quello del padre, della madre o dei fratelli: penso a te [...], alle tue grida quando gli Achei ti strapperanno via. Quel giorno sarò già stretto dalla terra» (VI, 369-439). All’interno della stessa scena, molto toccante fu anche l’ultimo saluto al figlioletto Astianatte. Ettore infatti lo prese fra le braccia e lo alzò al cielo, «con gesto che sarà, per tutti i tempi, il marchio del padre»302; il bimbo però, vedendolo vestito di corazza ed elmo, si impaurì e si mise a piangere. Ettore, allora, si tolse l’elmo e finalmente il figlio lo riconobbe. Già nel nome quel figlio – che la tradizione farà morire per mano di Neottolemo303 – portò impresso il marchio del padre; i Troiani infatti lo nominarono con questo epiteto, che significava «difensore della città» (VI, 403; XXII, 307), nella speranza che egli avrebbe potuto seguire in futuro le orme di Ettore. Condividiamo in merito interamente le parole di L. Zoja, che in un libro recente ha nobilitato con grande sensibilità la 302 303 L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 91. Iliade, XXII, 64; XXIV, 735; Euripide, Troiane, 721-723. 143 i miti omerici figura di Ettore: «In tempi in cui si lotta per la fama, per l’onore o per l’oro, un maschio ha l’impudicizia sentimentale di lottare per i bambini. Achille e Ulisse piangono poco decorosamente su se stessi, se vengono d’improvviso confrontati con emozioni che di solito rimuovono (Iliade, I, 357; XVIII, 35; XXIV, 511; Odissea, VII, 86, 522; XVI, 215). Ettore possiede una coerenza nuova per l’eroe antico: coraggio è affrontare con serietà non solo le battaglie, ma i sentimenti e i ricordi. Nel VI libro egli percorre i motivi del proprio dolore e ascolta quelli della sposa, con malinconia ma senza lacrime»304. Ettore fu l’uomo della misura, della famiglia e della città; solo una volta, forse, egli peccò di hybris: quando, nel canto XVII, indossò le armi di Achille strappate a Patroclo morto, compiendo un gesto che gli fu imputato negativamente anche da Zeus305. Tuttavia, appunto, furono sempre il rispetto e la cura per l’uomo le qualità che più lo caratterizzarono; egli fu del resto amatissimo dalla sua famiglia di origine, come mostrarono in modo evidente i richiami strazianti della madre dalle Porte Scee per farlo rientrare nelle stesse evitando Achille, e come mostrò l’atto finale di Priamo, in precedenza descritto, per recuperare il suo cadavere. Anche coi nemici Ettore si comportò sempre con lealtà: significativo è il duello con Aiace nel VII canto, in cui egli affermò sin da subito che, qualora fosse stato il vincitore, si sarebbe tenuto le armi del valoroso avversario da esporre nel tempio di Apollo, ma avrebbe restituito il corpo agli Achei per gli onori della sepoltura306. Un simile patto egli cercò anche nel combattimento finale con Achille ma, data la già ricordata natura ferina del suo avversario, esso non venne accettato. Può essere interessante descrivere proprio questo episodio utilizzando le parole di Luigi Zoja, maestro nell’esprimere le sfumature psicologiche di questo genere di rappresentazioni. Nella pianura antistante le mura di Troia, Ettore rifiutò, come detto, di richiudersi dentro la città, in quanto sarebbe stato vile, secondo il suo codice etico, sottrarsi al confronto con Achille; egli sapeva che era lui L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 94. Una “colpa” Ettore l’ebbe forse anche perché, conscio del torto di Paride, non riuscì a piegare il fratello a riconoscere il proprio errore ed a restituire Elena, il che avrebbe avuto effetti molto positivi per la comunità troiana; la sua morte pagò verosimilmente anche questa sua “debolezza”. 306 Iliade, VII, 74-86. Alla sospensione del combattimento per le tenebre, egli propose addirittura ad Aiace uno scambio di doni. 304 305 144 Comunità ed etica: Ettore che Achille cercava, e che era suo dovere non sottrarsi alla sfida (XXII, 1-91). I genitori, soprattutto la madre, lo pregarono in ogni modo dalle mura di rifugiarsi all’interno delle stesse, ma Ettore, rimasto oramai solo, rifiutò. Nei lunghi istanti precedenti l’impatto con Achille, egli lottò a lungo con il proprio cuore (thymos), attraversato da sentimenti contrastanti (XXII, 96-130). «Achille gli giunge di fronte. A questo punto, confermandosi figura più complessa di quelle soltanto gloriose, Ettore è preso dalla paura. La volontà del padre difensore di tutti cede di fronte all’impulso primordiale della conservazione. Tallonato dal suo rivale, Ettore gira per tre volte intorno a Troia, del cui riparo aveva creduto di potere fare a meno. Se la città con il suo abbraccio protettivo era emblema di madre, fuori dalle sue mura cade nella solitudine anche il padre più forte. Al quarto giro, Zeus pesa con la bilancia d’oro le sorti dei due guerrieri: quella di Ettore precipita verso il regno dei morti. Gli dèi lo abbandonano (XXII, 136-213). Anzi, la dea Atena scende sul campo per l’inganno finale, assumendo l’aspetto del fratello di Ettore, Deifobo (nome significativo: paura degli dèi). Rinfrancato da quella che crede una presenza amica, Ettore decide di combattere. E, ricomparendo in lui l’uomo del dovere, prima di passare alle armi propone un patto al nemico»307. Il patto fu quello di non abbandonare il corpo del vinto in preda a cani ed avvoltoi, ma di restituirlo; Achille però non accettò, affermando appunto che non possono esserci alleanze fra uomo e leone, né patti fra lupo e agnello (XXII, 261 ss.). Quando Ettore chiese l’aiuto del fratello Deifobo, si accorse prontamente di essere stato ingannato dagli dèi, che infatti corazzarono lo scudo di Achille; ed affermò: «Ah, ora capisco: gli dèi mi chiamano a morte [...]. Finito è il tempo in cui ero caro a Zeus e ad Apollo [...]. Ma se morte deve essere, che sia morte con gloria» (XXII, 297-305). Ettore volle lasciare un ricordo onorevole della propria fine, e si avventò con la spada sull’avversario, ma la lancia di Achille trafisse il suo gesto; a terra, nella polvere, Ettore cercò ancora l’accordo con Achille, ma quest’ultimo ripeté che il suo scopo era quello di vederlo fatto a pezzi da cani ed uccelli (XXII, 273-354), cosa che sarebbe accaduta se gli dèi stessi, come detto, non avessero conservato il corpo di Ettore, e se Achille non si fosse mosso a pietas di fronte alle parole di Priamo. Questa la fine di Ettore: una sconfitta, secondo i criteri “eroici” che qualcuno vorrebbe centrali nell’Iliade; una vittoria, secondo i criteri 307 L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 99. 145 i miti omerici umanistici che furono a nostro avviso centrali in tutta l’epoca omerica. L’umanesimo di Omero, nell’Iliade, fu infatti rappresentato soprattutto dai valori prevalenti nella vita di Ettore; nell’Odissea, dai valori prevalenti nella vita di Odisseo. 146 odissea La trama dell’Odissea è, nelle sue linee generali, molto semplice: essa narrò infatti del viaggio di ritorno (nostos) compiuto da Odisseo e dai suoi compagni verso Itaca, intesa insieme come luogo ideale e patria reale. Se le linee generali sono semplici, molto complesse sono invece le trame di significati delle singole tappe di questo viaggio, che comprende eventi e personaggi su cui quest’ultima parte del libro tenderà appunto a far luce. Si sente talvolta affermare che l’Iliade e l’Odissea sarebbero le due gambe con cui avrebbe cominciato a camminare il pensiero greco. In questo quadro, l’Iliade avrebbe rappresentato i temi del’eroismo e della guerra, simboleggiati da Achille, mentre l’Odissea avrebbe rappresentato i temi della astuzia e del viaggio, simboleggiati da Odisseo. Ora: è evidente che nei due poemi omerici vi furono anche questi temi e questi simboli; tuttavia, come si è fino a qui cercato di mostrare, essi non furono gli unici, e verosimilmente non furono nemmeno quelli centrali. Così come infatti, nell’Iliade, i valori etici e comunitari di Ettore furono quelli prevalenti nell’opera omerica, nell’Odissea tali valori etici e comunitari prevalenti furono quelli di Odisseo Egli infatti non viaggiò per fare scoperte, così come non utilizzò la propria intelligenza per prevalere; egli viaggiò per ritornare a casa, ed utilizzò la propria intelligenza principalmente per sopravvivere insieme ai suoi compagni, in un mondo popolato di esseri non sempre ospitali. L’umanesimo omerico, presente anche nell’Iliade, trovò effettivamente nell’Odissea, come diversi interpreti hanno rimarcato, spazi di maggiore ampiezza. Qui il personaggio centrale, pressoché unico, risulta essere Odisseo ma, intorno a lui, anche stavolta furono rappresentati “modelli etici” positivi e negativi: fra i primi è possibile citare Penelope, Eumeo, Nausicaa; tra i secondi è possibile citare i Ciclopi, i Proci, le Sirene. Alcuni di questi personaggi sono stati inseriti nel lungo paragrafo dedicato ad Odisseo, mentre altri hanno avuto uno spazio apposito. Scegliere in questi casi, ancorché necessario per ragioni di spazio, è sempre difficile, perché omettere (o porre in secondo piano) parti di poemi omerici risulta inevitabilmente arbitrario; il criterio cui ci siamo 147 i miti omerici attenuti è stato però, anche stavolta, non quello poetico, bensì quello della significatività umanistica. Ci siamo cioè maggiormente soffermati su quegli episodi, e su quei personaggi, che ci pareva avessero maggiormente da dire, anche in relazione al nostro tempo. L’umanesimo dell’Odissea ruota soprattutto intorno alla figura di Odisseo. Tuttavia, come è stato da più parti fatto notare, questo poema rivela, rispetto all’Iliade, una maggiore attenzione alla gente comune, quando non addirittura agli ultimi. Mentre, cioè, nell’Iliade parlano solo o prevalentemente eroi aristocratici, ed i popolani vengono zittiti (il famoso episodio di Tersite, su cui già ci siamo soffermati), nell’Odissea sono mendicanti, porcari, servitori che spesso occupano il centro della scena, rivelando una umanità che, sebbene diversamente declinata, non ha nulla da invidiare a quella dei potenti dell’Iliade. Anche gli dèi, come gli uomini, furono infatti maggiormente inclini ad indurre il bene ed a favorire la giustizia, a riprova appunto di una maggiore diffusione nell’Odissea dell’umanesimo: un interprete del calibro di W. Jaeger ha sostenuto in merito che tutte le tendenze umanistiche, etiche e politiche del pensiero greco, ritrovano le proprie radici in Omero e soprattutto nell’Odissea. Un altro tema importante dell’umanesimo omerico, che l’Odissea rimarca, è quello costituito dalla rilevanza del ruolo delle donne. Come ha sottolineato in merito S. C. Humphreys, «sia nell’Iliade sia nell’Odissea le donne sono ritratte con una delicatezza in seguito raramente raggiunta nella letteratura greca»308. Gli esempi qui sono davvero numerosi: da quello di Elena a Sparta a fianco di Menelao, passando per Nausicaa nell’isola dei Feaci, fino alla figura emblematica dei valori famigliari costituita da Penelope; e tutto ciò per parlare solo delle figure umane, e non di quelle divine (come Atena) o semidivine (come Calipso). La qualità più evidente, in queste donne, fu indubbiamente la bellezza fisica; ma questa bellezza, in Elena, in Nausicaa, ed in Penelope in modo particolare, non fu disgiunta da una bellezza di tipo spirituale, ovvero dalla saggezza. Come ha scritto correttamente ancora W. Jaeger, «la posizione sociale della donna non fu mai più presso i Greci così elevata come sul declinare del periodo cavalleresco omerico»309. L’umanesimo dell’Odissea – questo tema è stato invece assai poco considerato – emerge anche dal carattere utopico, ovvero insieme idea308 309 S. C. Humphreys, Saggi antropologici sulla Grecia antica, Patron, Bologna, 1979, pag. 401. W. Jaeger, Paideia, op. cit., pagg. 62-63. 148 Odissea le e progettuale, di alcuni miti ivi narrati. Il più famoso di questi miti è costituito dall’isola dei Feaci, in cui il lavoro era ridotto al minimo per il rigoglio delle condizioni naturali, ed in cui era bandito ogni scambio mercantile310. Parleremo poco oltre della ospitalità dei Feaci; può essere invece qui interessante menzionare la assai poco ricordata isola di Siria, anch’essa collocata lontana dal mondo abitato (XV, 403-411), in un luogo mitico. In quest’isola, dove non erano praticati né la produzione né il commercio, gli abitanti avevano vita lunga, senza malattie e senza sofferenze; quando essi giungevano ad una età molto avanzata, venivano trafitti in modo indolore dai dardi di Artemide ed Apollo. Sull’isola di Siria la vita scorreva serena e pacifica, proprio in quanto equa era la divisione di tutte le cose tra gli abitanti delle due poleis (su cui regnava il padre di Eumeo, fido servitore di Odisseo). Il messaggio centrale, in questo mito, era quello per cui equità e buon governo conducono alla felicità; in questo senso l’isola era ancora più concreta e paradigmatica, come modello di buona vita comunitaria, rispetto a quella dei Feaci. A Siria, poco popolata ed in cui pertanto le cose bastavano per tutti (la limitatezza della popolazione fu una costante anche dei progetti politici ideali di Platone ed Aristotele), solo una intrusione dall’esterno – come appunto la schiava fenicia che rapì Eumeo – avrebbe potuto portare disordine ed infelicità. Appare dunque evidente in questo mito che più si è lontani dal mondo umano dei traffici e dei commerci, meglio si sta; anche gli Etiopi in effetti stavano bene sulle rive dell’Oceano, ai confini del mondo, in cui riuscivano perfino ad intrattenere rapporti con gli dèi (I, 23 ss.). In Omero, come ha rimarcato correttamente M. Ghidini Tortorelli, «il modello utopico non consiste in una creazione completamente svincolata dagli elementi reali, ma è proiezione di esigenze etiche maturate nel terreno storico»311; esigenze etiche che mostrano chiaramente il terreno umanistico proprio dell’Iliade, e soprattutto dell’Odissea. Il fatto che queste comunità ideali siano descritte come esistite e raggiungibili (per quanto lontane), mostra a nostro avviso il messaggio progettuale implicito anche nei poemi omerici; conducendo Su questo tema si è particolarmente soffermato P. Vidal Naquet, secondo cui «Scheria può essere considerata come la prima utopia della letteratura greca; ma non è ancora giunto il momento in cui l’utopia politica si separerà dalla rappresentazione della età dell’oro» (P. Vidal Naquet, Il cacciatore nero, Editori Riuniti, Roma, 1988, pag. 33), ossia quanto meno il tempo di Ippodamo di Mileto (Aristotele, Politica, II, 1267 b 30 ss.), in cui cioè l’utopia cominciò ad essere progettuale. 311 M. Ghidini Tortorelli, Miti e utopie nella Grecia antica, Napoli, 1980, pag. 48. 310 149 i miti omerici cioè la vita, individuale e sociale, lungo ben precise direttive etiche e comunitarie, si può giungere ad essere felici anche nella limitatezza della condizione umana. L’uomo insomma, pur coi propri limiti mortali, con la sapienza e la saggezza può anche governare la storia; se questa interpretazione fosse corretta, Omero potrebbe addirittura considerarsi come un parziale anticipatore della “filosofo della storia”312. L’aspetto utopico presente nell’umanesimo omerico è stato rimarcato ancora da M. Ghidini Tortorelli, secondo la quale, con riferimento al viaggio di Odisseo, «la dimensione di questo universo mitico può essere definita giustamente utopica nel senso che, pur stabilendo una contrapposizione tra la realtà umana di Odisseo e la realtà mitica dei popoli che incontra, Omero non tende a confinare nel passato delle origini l’umana esperienza di vita felice, ma, al contrario, si propone di attualizzare l’immagine della società perfetta»313, ponendola su piani storicamente confrontabili; il passato descritto nei popoli mitici visitati da Odisseo, idealizzato dall’epica, agì sempre in Omero come tempo assiologico e progettuale. L’umanesimo dell’Odissea si rivelò però soprattutto, come già accennato, nella saggezza di Odisseo, che con la propria eticità – che a breve descriveremo nei suoi vari tratti – si pose come modello per eccellenza dell’uomo omerico: un modello che si delineò in positivo proprio passando per il «travaglio del negativo», ovvero per il confronto con personaggi quali Ciclopi, Lestrigoni, Proci, modelli di violenza e tracotanza, ma anche con figure come i Lotofagi, le Sirene, Calipso, Circe, modelli di falsità e seduzione. L’etica umanistica di Odisseo, alle prese con le esperienze della vita – questa la particolare “filosofia morale” omerica –, sarà descritta nei prossimi paragrafi e fino alla fine del libro. Emergerà in questo modo compiutamente cosa si intende, in questo testo, per “umanesimo omerico”. Ciò solo nel senso in cui abbiamo dichiarato esistere una “filosofia della storia” nel pensiero greco; rinviamo in merito a L. Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica, citato. 313 M. Ghidini Tortorelli, Miti e utopie…, op. cit., pag. 7. 312 150 vioLenza e disumanità: cicLoPi, LestriGoni, Proci Il lettore potrà provare disagio nel vedere unite, in un unico paragrafo, le figure “mitiche” dei Ciclopi e dei Lestrigoni, e quelle “umane” dei Proci. Tuttavia, se avrà seguito la trama discorsiva di questo testo, capirà che questa assimilazione è funzionale a far emergere il comune carattere etico di queste figure, modelli negativi di violenza e tracotanza, dunque di inumanità; fu proprio nel confronto e nella lotta con queste figure (Ciclopi, Proci), o nel loro evitamento (Lestrigoni), che Omero sviluppò quei contenuti morali tuttora in grado, dopo quasi tremila anni, di essere da guida per gli uomini. Il primo incontro “violento” del viaggio di Odisseo, dopo aver lasciato il territorio dei Lotofagi (solo apparentemente però innocui, come mostreremo poco oltre), fu quello coi Ciclopi; si tratta, come noto, di figure mitiche di giganti con un solo occhio, residenti sulle pendici dell’Etna, i quali, «prepotenti e senza leggi, fidando negli dèi immortali, non piantano alberi con le loro mani, né arano la terra» (IV, 105-108). La prima caratteristica dei Ciclopi è dunque quella di non essere una comunità, né economica, né sociale, né politica; essi non praticano l’agricoltura, come invece fanno i popoli civili, ma, soprattutto, «non hanno assemblee per deliberare, né leggi, ma abitano la sommità di alti monti, in profonde spelonche; ciascuno comanda ai figli ed alla moglie, e non si curano gli uni degli altri» (IX, 112-115)314. La a-nomia, ossia la assenza di leggi dei Ciclopi, li rese nel tempo simpatici ai Cinici (soprattutto ad Antistene), ma non ad Odisseo che, recatosi nella loro isola in cerca di cibo, scoprì che essi erano «prepotenti e selvaggi, senza giustizia» (IX, 174-176), antropofagi e miranti esclusivamente al loro materiale benessere. In realtà, Odisseo non incontrò l’intera popolazione dei Ciclopi, ma solo «un mostro gigantesco, che pascolava le greggi solo, lontano da tutti, e non frequentava gli altri, ma stando in disparte aveva sentimenti selvaggi» (IX, 187-190); era Polifemo, figlio di Poseidone, «rivestito di grande forza, selvaggio, sprezzante di ogni diritto e di ogni legge» (IX, 212-215). 314 Su questo tema si soffermò anche Platone nelle Leggi (680 a-b). 151 i miti omerici Le modalità dell’incontro fra Odisseo e Polifemo (il termine significa «rumoroso, dalle molte voci») sono parte costitutiva di questo mito, e pertanto vanno raccontate. Va detto però innanzitutto che i naufraghi di Itaca sbarcarono nell’isola dei Ciclopi solo in cerca di acqua e cibo, ovvero di quel «dono ospitale» che la cultura greca era solita concedere a viaggiatori e stranieri, strutturalmente in situazione di bisogno315; ebbene: in questo contesto, Odisseo compì l’unico errore di indugiare, poco prudentemente, sugli utensili di dimensione enorme presenti sulla soglia dell’antro del Ciclope, sia perché incuriosito, sia perché desideroso di non comportarsi da predone. Questo errore è stato posto dalla modernità sul conto di un presunto sterminato desiderio di conoscenza di Odisseo, che secondo una interpretazione anche medievale del mito (pensiamo solo a Dante Alighieri, su cui torneremo) sarebbe il tratto più caratteristico della sua personalità. Le cose, però, non stanno affatto in questo modo. Odisseo, certo, fu uomo desideroso di conoscere, ma non certo per il gusto fantastico della scoperta, bensì semplicemente per migliorare la propria saggezza316; egli, poi, fu molto più desideroso di ritornare a casa che di continuare la propria avventura per mare, come l’Odissea ripete pressoché in ogni pagina. Chiarito questo equivoco, che la modernità ha innanzi agli occhi ma fatica a sciogliere, possiamo continuare il nostro racconto. Polifemo giunse alla propria dimora insieme alle capre e, vedendo i forestieri, domandò ragione della loro presenza. Odisseo, astutamente, rispose di essere naufragato lì coi suoi compagni (aveva nel frattempo nascosto la nave), e richiese pertanto al Ciclope acqua e cibo, ovvero appunto il «dono ospitale» che si usava fare in quei casi. Polifemo, però, lo zittì subito, chiarendogli che egli non seguiva norme divine o umane, bensì esclusivamente il proprio capriccio: «Sei uno sciocco, straniero, o sei venuto da lontano, se mi esorti a temere o rispettare gli dèi. I Ciclopi non si curano dell’egioco Zeus, né degli dèi beati [...]. Io non sono disposto a risparmiare te o i tuoi compagni, a meno che la mia voglia così mi ordini» (IX, 273-278). Anziché, dunque, offrire un pasto ai naufraghi ed ospitarli, egli fece degli ospiti il proprio pasto, fornendo ad Odisseo un solo «dono ospitale»: quello di essere divorato per ultimo! Fatto questo, Rinviamo ancora, in merito, a L. Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica, citato. Dante Alighieri, nell’Inferno, ne sintetizzò bene il carattere quando gli attribuì le famose parole: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» (XXVI, 120-121). Prima di Dante, questa qualità di Odisseo fu colta anche da Cicerone, nel De finibus (V, 18, 49). 315 316 152 Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci richiuse Odisseo ed i suoi compagni nella propria caverna, e ne impedì l’uscita apponendo all’ingresso un enorme macigno. Il mito di Polifemo è importante non solo perché i Ciclopi, per la loro assenza di vera socialità, di etica, di politica, rappresentano modalità di vita non del tutto assenti, ad esempio, anche nel pur progredito Nord Italia di inizio millennio (pensiamo alla durezza solitamente riservata agli stranieri); tale mito è importante, per gli interpreti di Omero, perché proprio da esso prende le mosse un’altra falsa credenza su Odisseo, ovvero quella per cui, oltre che un «imprudente esploratore», egli sarebbe anche stato un «astuto ingannatore», iniziando proprio qui, con Polifemo, una lunga serie di menzogne317. In realtà, la serie di bugie di Odisseo è molto corta; essa iniziò col dire a Polifemo di essere naufrago (per non farsi distruggere la nave; IX, 281-286), e finì con la dichiarazione di chiamarsi Nessuno (prevedendo che l’unico modo per liberarsi dalla prigionia imposta dal Ciclope sarebbe stato l’accecamento dello stesso, il quale avrebbe però richiesto aiuto agli altri). È evidente come queste “bugie”, così come altre alterazioni della propria identità – perché di questo principalmente si tratta – operate in seguito, non furono affatto praticate per fini utilitaristici, ma per il semplice scopo di salvare la vita propria e dei compagni318. Odisseo non fu dunque né un «astuto ingannatore», né un «imprudente esploratore»; l’episodio di Polifemo, però, pone in luce un terzo possibile difetto di Odisseo, ovvero la tracotanza. Ricordiamo infatti che fu proprio per l’episodio dell’accecamento del Ciclope che Poseidone, padre di Polifemo, si adirò a tal punto con Odisseo da impedirgli il ritorno; è necessario allora valutare se la tracotanza faccia realmente parte del carattere di Odisseo, almeno in questo episodio, oppure no. Ebbene: come tutti sanno, l’accecamento del Ciclope costituì l’unico modo con cui Odisseo ed i suoi compagni superstiti avrebbero potuto Questa interpretazione, che ha una storia secolare, è stata da ultimo sostenuta da P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse (Longanesi, Milano, 2004). La tesi di Odifreddi, secondo cui Odisseo sarebbe il «mentitore per eccellenza» (pag. 28), e che avrebbe fatto ciò per fini utilitaristici, è però scarsamente argomentata. 318 «Io andavo tessendo ogni specie di astuzie, giacché si trattava della vita» (IX, 421-422). Più che di astuzie fini a se stesse, o di mero istinto di conservazione, tutta la vicenda di Odisseo col Ciclope mostra il carattere “progettuale” della mente di Omero, continuamente impegnata nella ricerca di come ritornare ad Itaca, alla propria casa ed ai propri affetti, evitando i pericoli, avendo cura dei compagni, non contrariando gli dèi e quindi al contempo dotando di senso tutta la propria vita. 317 153 i miti omerici salvarsi; imprigionato da un gigante antropofago, non ci pare che il gesto di Odisseo possa definirsi come tracotante. Vi è tuttavia l’episodio finale dell’abbandono dell’isola dei Ciclopi che potrebbe condurre in questa direzione. Lasciata infatti la caverna in modo rocambolesco319, Odisseo ed i suoi compagni si diressero verso la loro nave; avrebbero potuto allontanarsi in silenzio, ma Odisseo così si rivolse, urlando, al Ciclope: «Poiché non ti guardasti dallo sbranare degli ospiti nella tua dimora, per questo Zeus ti ha punito, e con lui tutti gli altri dèi!» (IX, 476-479). Se analizziamo queste parole, e valutiamo adeguatamente ciò che fece Polifemo, è difficile definirle tracotanti. In ogni caso, dopo averle udite, Polifemo scagliò un enorme masso in mare che fece tornare, per l’enorme onda creatasi, la nave di Odisseo quasi sulla riva; ripreso di nuovo faticosamente, a grandi colpi di remi, il largo, Odisseo volle ancora una volta urlare al Ciclope quanto segue: «Ciclope, se mai qualcuno ti domandasse della sconcia cecità del tuo occhio, rispondi che ti accecò Odisseo [...], figlio di Laerte, che ha la sua dimora in Itaca» (IX, 501-505). Alla luce delle ingiustizie così ferocemente subite, nemmeno queste parole, a nostro avviso, possono supportare l’accusa di hybris; Odisseo sarebbe peraltro stato assolto da ogni tribunale (non solo da quelli greci del VII secolo a.C.) per l’accecamento di Polifemo, atto che fu condannato esclusivamente dalla bia di Poseidone. Solo la terza provocazione, che segue, fu probabilmente eccessiva; così gridò infatti Odisseo: «Oh s’io potessi, dopo averti privato del respiro e della vita, cacciarti nella dimora di Ade, come (sono certo che) il tuo occhio non te lo guarirà neppure lo scuotiterra!» (IX, 523-525). Aristotele, però, fece giustamente notare che con queste parole Odisseo non intese affatto offendere gli dèi; egli cioè non volle alludere, con questa sua affermazione, alla scarsa potenza di Poseidone, quanto alla sua presumibile assenza di volontà di guarire Polifemo, perché il Ciclope non si era per nulla mostrato vicino agli dèi, rifiutando il dono ospitale. Risulta dunque evidente, da un pur rapido confronto fra le parole e le azioni di Odisseo e quelle di Polifemo, che la hybris non accompagnò tanto il re di Itaca, quanto Polifemo, negatore di ogni legge, egoista ed IX, 431-436. Odisseo legò i propri compagni sotto i montoni del Ciclope, in modo tale che, col tatto, Polifemo non ne avvertì la presenza; così come, in molti episodi, egli affrontò per primo il pericolo, in questo caso egli decise di uscire per ultimo dalla caverna, solo dopo essersi accertato che tutti i suoi compagni fossero in salvo. 319 154 Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci incivile per natura320; Odisseo fu in questo caso intelligente, coraggioso e forse un po’ orgoglioso, ma non per questo alla sua figura può essere attribuita, per questo episodio, la qualifica morale negativa della hybris. Al contrario l’episodio dei Ciclopi, così come quello dei Lestrigoni, espresse la condanna umanistica di Omero verso ogni comportamento rozzo e violento; ciò è messo in luce proprio, per antitesi dialettica, dal comportamento etico di Odisseo, che pose la giustizia come criterio discriminante fra umanità e disumanità (dove la giustizia, in questo caso, si concretizzava nell’offerta del dono ospitale). In un momento di nascita delle poleis, caratterizzate da leggi comuni e norme morali condivise, Omero volle verosimilmente porre in evidenza come, se ciascuno vivesse pensando solo a se stesso non curandosi degli altri, si produrrebbe inevitabilmente una società di “mostri” egoisti, inospitali ed incivili. Figure analoghe ai Ciclopi furono i Lestrigoni, anch’essi giganteschi e cannibali. La “geografia mitica”, disciplina che va ovviamente presa con le pinze ma che testimonia della frequenza dei viaggi navali in quell’epoca, li colloca come originari delle coste meridionali della Corsica, così come collocava i Ciclopi fra Posillipo ed i Campi Flegrei, Eolo sull’isola di Stromboli, i Lotofagi sull’isola di Gerba in Africa, i Feaci a Corfù, le Sirene nell’isola Li Galli del golfo di Salerno, eccetera. Non sono questi aspetti però, come il lettore avrà ben compreso, quelli che più ci stanno a cuore nell’opera omerica, in quanto essa fu un’opera soprattutto educativa, in cui quindi gli elementi geografici e storici ebbero a nostro avviso poco peso (Omero, a differenza dello storico Erodoto, non si propose di conservare memoria di uomini e fatti, ma di esporre norme comunitarie condivise, volte a favorire la buona vita); sono più rilevanti per noi gli aspetti etici, ed in questo senso i Lestrigoni, pur possedendo un’agorà (X, 114-120), quanto a crudeltà ed inospitalità non ebbero nulla da invidiare ai Ciclopi, tanto che già nel canto X si affermò che, dalla loro isola, si salvò solo la nave di Odisseo. Né i Ciclopi né i Lestrigoni, comunque, furono propriamente uomini (per entrambi – IX, 106; X, 191 – Omero rimarcò come essi non fossero «mangiatori di pane», tratto che appunto caratterizzava l’umanità); questo ha spesso indotto il lettore moderno a considerarli solo sul piano letterario fantastico, e non sul piano morale. Non fu tuttavia L’insocievolezza, infatti, è nella “natura” dei Ciclopi. Come ha correttamente notato G. Bona, anche quando i giganti accorsero alle urla di Polifemo, non lo fecero perché preoccupati, bensì perché infastiditi (G. Bona, Studi sull’Odissea, Torino, 1966, pag. 76). 320 155 i miti omerici questo l’intento di Omero, come all’epoca dovette essere ben chiaro; il suo intento fu infatti quello della dura condanna della hybris, e del contestuale elogio di dike321; a questo fine una situazione umana, reale, concreta, sarebbe stata molto più partecipata dal pubblico, e per questo Omero la creò, facendo occupare la casa di Odisseo dai Proci. I famigerati Proci (il termine, in latino, significa «pretendenti») non erano altro che un gruppo di giovani aristocratici di Itaca e delle isole vicine che, approfittando della lunga assenza di Odisseo (nonché della vecchiaia del padre Laerte ed al contempo della giovinezza del figlio Telemaco) si insediarono nella sua dimora, consumandone i beni, intrecciando rapporti ambigui con le ancelle, ed anelando la mano di Penelope per ottenere, tramite essa, il potere su Itaca. Anche in questo caso, non ci soffermeremo a parlare delle istituzioni sociali che avrebbero reso ciò possibile; il contenuto più rilevante, per il nostro approccio, è infatti etico-umanistico. Per i loro pensieri, e soprattutto per i loro comportamenti, i Proci furono in effetti condannati da Omero come massimo esempio di tracotanza, superiore ancora, se possibile, agli animaleschi (ma «per natura») Ciclopi e Lestrigoni; costoro infatti, volontariamente e dunque con coscienza, spadroneggiarono senza misura in casa altrui, e con vergognosa prepotenza perpetrarono ogni sorta di malefatte, fino a tramare l’uccisione di Telemaco (I, 386 ss.). Per questo motivo Omero scrisse che i Proci hanno hybrin te bien «che giunge sino al cielo di ferro» (XVII, 565), ossia una tracotanza che giunge perfino alle orecchie degli dèi, e che pertanto grida vendetta. I Proci, come i Ciclopi ed i Lestrigoni, si caratterizzarono per il possesso di pressoché tutte le qualità umane negative: violenza, rozzezza, inospitalità; quest’ultima caratteristica – particolarmente spregevole anche perché si trovavano in casa d’altri (VII, 132 ss.) – era davvero qualificante di una grave inumanità in Grecia. Tuttavia, l’essenza dei Proci risultò come detto essere la hybris, che in un certo senso riassumeva tutte le caratteristiche umane più negative; nello specifico, la hybris dei Proci fu soprattutto violazione della eunomie, ossia – per estensione del verbo nemein (da cui nomos), che significa “distribuire, assegnare” – della giusta distribuzione sociale dei beni nella comunità. I Proci, con i loro comportamenti, furono dunque responsabili di atti che violavano 321 Come ha scritto correttamente M. Pohlenz, «nell’Odissea Dike è l’indicazione dell’ordine universale» (M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 191). 156 Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci l’armonia della comunità, quali erano appunto tutti gli atti che procuravano un arricchimento indebito; tali erano anche i traffici commerciali, soggetti a dura riprovazione nell’Odissea (VIII, 159-164)322. Omero condannò dunque, nei Proci, i comportamenti ed i pensieri; sembra del resto che Aristotele, nella Retorica (1378 b 23), abbia pensato proprio ai Proci affermando che «è causa di piacere per coloro che commettono hybris il pensare che, comportandosi male, essi sono superiori agli altri. Ed è questa la ragione per cui i giovani ed i ricchi sono hybristai. Essi pensano infatti, commettendo hybris, di essere superiori»; tali furono appunto i Proci, giovani, ricchi e presuntuosamente vanesi. Scrive bene L. Zoja, in merito, che «i Proci brulicanti che si inerpicano fino al letto della regina e al trono, sono la massa superflua che subito riempie ogni vuoto di potere nella società. [...] I Proci sono la mancanza di progetto che si insinua [...]. Ciò che di loro Ulisse odia senza scampo non è solo l’arroganza [...], ma l’agire alla giornata, senza scopo: l’atto superfluo»323. Non poteva essere detto nel modo migliore: Odisseo progetta saggiamente, i Proci gozzovigliano; Odisseo pensa alla comunità, i Proci solo a se stessi; Odisseo si mostra responsabile, i Proci non si curano di nulla. Occorre infatti ricordare che Odisseo tornò ad Itaca, dopo il suo lungo viaggio, trasportato dai Feaci; appena riconobbe la propria terra, aiutato dalla dea Atena (che appunto lo “trasformò” in un anziano mendico) decise non di agire di impulso recandosi subito nella sua reggia, bensì di studiare la situazione – di “progettare”, appunto –, servendosi dell’appoggio del fido porcaro Eumeo, e poi del figlio Telemaco (ma, inizialmente, senza nemmeno rivelarsi loro). Solo sotto queste mentite spoglie, Odisseo poté entrare indisturbato nella propria casa, per analizzare il comportamento dei Proci. In generale, con la parziale eccezione di Anfinomo (XVIII, 125-128), tutti costoro si comportarono con il povero ospite all’incirca come i Ciclopi, ovvero rifiutando ogni dono ospitale, ed anzi facendo di tutto affinché costui si trovasse a disagio. Irrispettoso di ogni buona norma, Eurimaco in particolare offese l’anziano mendico proponendogli un lavoro nei campi, ma in realtà affermando che egli sarebbe stato assolutamente incapace di lavorare; Odisseo ribatté che, se fosse stato possibile fare una prova, un confronSignificativo, in merito, A. Mele, Il commercio greco arcaico: praxis ed emporie, Centre J. Berard, Napoli, 1979. 323 L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 116. 322 157 i miti omerici to in duro lavoro o in guerra fra loro due, egli avrebbe cessato di «cianciare a vuoto [...]. Tu sei un grande insolente, e la tua mente non conosce cortesia. E forse credi di essere un grand’uomo, un uomo forte, perché bazzichi sempre tra pochi, e non certo prodi. Ma se venisse Odisseo, se tornasse alla sua patria terra, d’un subito, bada, quella porta, benché così larga, si farebbe stretta alla tua voglia di fuggire» (XVIII, 381-386). Analoghe furono le sue parole di risposta ad Antinoo, che al mendico Odisseo non solo non diede alcun cibo, ma lanciò anzi uno sgabello, colpendolo (XVII, 397-410): «Ti manca sicuramente il senno, a te che delle tue sostanze non daresti nemmeno un granello di sale a chi te lo chiede mendicando, e che, pur stando in una tavola non tua, non hai avuto cuore di prendere un pezzo di pane e di darmelo» (XVII, 454-7). Odisseo mostrò, con queste parole, il consueto coraggio (andreia): egli infatti si scontrò con un gruppo, di numero oscillante fra una ventina (come le oche di Penelope; XIX, 536) ed un centinaio; i Proci furono in effetti nell’Odissea proprio una sorta di “personaggio collettivo”, in cui emergono pochi tratti individuali324. Questo “gruppo” però, anche per il tipo di vita condotto, per quanto tracotante non mise paura ad Odisseo; egli sapeva infatti, per i propri valori etici che incarnavano un più generale senso di giustizia, di avere gli dèi dalla propria parte (XVI, 247 ss.), e gli dèi aiutano sempre, nella antica Grecia, chi ha il coraggio di combattere contro le ingiustizie. Si tratta davvero di ideali nobili dai quali il nostro tempo può ancora imparare molto. La vittoria finale sui Proci segnò, nel poema meno “agonale” fra quelli omerici, la vittoria della dike sulla hybris, sancita dal già citato gesto di misura di Odisseo, che intimò all’ancella Euriclea di non esultare sui Proci uccisi poiché «sacrilego» (XXI, 412), ossia contrario alle norme sacre, che sono sempre norme di umana misura325. Criticando l’egoismo e la prepotenza dei Proci, Omero criticò una intera classe sociale, e Oltre al già menzionato Anfinomo, si distinsero soprattutto, per la veemenza con cui puntarono alla mano di Penelope, Eurimaco ed Antinoo; a quest’ultimo Omero dedicò ben 210 versi, più di tutti quelli dedicati agli altri Proci messi insieme. 325 I morti suscitano in effetti sempre un senso di rispetto nei poemi omerici, anche se la vendetta è giustificata, specialmente quando deriva da comportamenti riprovevoli; dice infatti Odisseo, proprio con riferimento ai Proci: «Costoro li abbatterono il destino e le sciagurate azioni, perché non onoravano nessuno fra coloro che vivono sulla terra, nessun uomo, né vile né nobile, che venisse da loro; perciò, a causa delle loro stoltezze, incapparono in una fine indegna» (XXI, 413-416). 324 158 Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci soprattutto la ricerca di ricchezza e potenza intese come fine ultimo di un modo di produzione sociale. Anche in questa critica anticrematistica consiste l’umanesimo omerico. 159 seduzione e faLsità: LotofaGi, circe, caLiPso, sirene Violenza e seduzione, ad una analisi superficiale, parrebbero antitetiche; la violenza si rapporta alla forza, la seduzione al piacere. Ad una analisi più approfondita, tuttavia, violenza e seduzione si rivelano essere piuttosto simili: ambedue, infatti, puntano a ridurre l’altro in una condizione di “minorità”, per realizzare non certo il suo bene, ma il fine del soggetto agente; differente è soltanto il mezzo che viene utilizzato: più “fisico” nel caso della violenza, più “psichico” nel caso della seduzione. Fino ad ora, trattando dell’Odissea, abbiamo descritto Odisseo in preda ad altrui azioni violente: coi Lestrigoni, coi Ciclopi, coi Proci; in tutti questi confronti, Odisseo reagì sempre con intelligenza, ritirandosi se necessario (come coi Lestrigoni), oppure affrontando coraggiosamente i violenti (come col Ciclope e coi Proci). Di fronte alle malie della seduzione – che a differenza della violenza non rivela immediatamente il proprio fine malvagio, ma solo in un secondo momento –, fu però anche per Odisseo più difficile difendersi; la seduzione, infatti, occulta sempre i propri scopi, lusinga senza amare, finge un rapporto di cura ma in realtà si struttura intorno ad un movente egoistico, non facile inizialmente da cogliere. Nel titolo di questo paragrafo abbiamo citato quattro “incontri”, fra i più significativi, del lungo viaggio di ritorno di Odisseo: coi Lotofagi, con Calipso, con Circe e con le Sirene. Si trattò di incontri molto diversi fra loro ma, ad avviso di chi scrive, accomunati da forme “seduttive” subite da Odisseo che, in una maniera più o meno palese, occultavano in realtà forme di violenza. Ne parliamo, oltre che per dar conto di questi miti dell’umanesimo omerico, anche perché analoghe forme seduttive sono tuttora molto presenti; la modernità non è infatti, almeno in apparenza, l’epoca della violenza, bensì l’epoca della seduzione. Nessuno (o quasi) è tenuto in catene e costretto a lavorare, come in epoca schiavistica; tuttavia nessuno (o quasi) lavora in modo realmente volontario, bensì solo in quanto tenuto nella “minorità” dal bisogno, fisico e soprattutto psico-sociale. Quelli che oggi si chiamano “collaboratori”, “cooperanti”, “autonomi” (ossia lavoratori precari, flessibili, eccetera), 161 i miti omerici sarebbero stati definiti da Marx – che andava sempre alla sostanza dei rapporti – come «schiavi»326, in quanto alla fine costretti a lavorare e consumare solo per sussistere, estraniandosi senza realizzarsi come persone in un contesto comunitario. Procedendo con la trattazione, ci accorgeremo che questi paralleli dell’umanesimo omerico con il nostro tempo (in antitesi al nostro tempo) non sono azzardati. In ogni caso, il primo popolo che esercitò un qualche potere seduttivo nei confronti di Odisseo e dei suoi compagni, fu quello dei Lotofagi. Questo popolo, verosimilmente fantastico ma che alcuni studiosi moderni hanno cercato di identificare con una tribù di abitanti della Tunisia meridionale, dovette il proprio nome al cibo di cui si nutriva; questo cibo (il loto, la cui pianta compare in diversi racconti mitici) fu anch’esso frutto di invenzione, in quanto non corrisponde ad alcuna specie vegetale conosciuta327. Odisseo compì, presso i Lotofagi, il primo sbarco dalla partenza da Troia, dopo dieci giorni di navigazione. Egli trovò, in questo popolo, una società apparentemente mite e benevola: costoro infatti, secondo il suo racconto, «non meditarono alcun male ai danni dei nostri compagni, ma diedero loro da mangiare del loto» (IX, 91-93); tuttavia, «chiunque di loro mangiava il frutto del loto, dolce come il miele, non voleva più tornare indietro recando notizie di sé; voleva rimanere là con i Lotofagi, mangiare il loto e dimenticarsi del ritorno» (IX, 94-97). Chi mangiava il loto, dunque, dimenticava tutto, la propria vita, il proprio passato, e si perdeva in un vano presente senza ricordi, senza domande, senza pensieri. Questa condizione esistenziale, che apparentemente potrebbe ricordare l’atarassia (quindi una condizione di sostanziale assenza di sofferenza), rappresentava in realtà una condizione di vita inumana, ossia innaturale per l’uomo; nessun uomo può infatti realizzarsi come persona semplicemente “vegetando”, ossia privando la propria vita di senso. In epoca omerica, così come in generale nella Grecia antica, non risultano inoltre tracce di dipendenza da sostanze che oggi potremmo assimilare alle droghe; tuttavia, senza attribuire alcuna “preveggenza” ad Omero, appare evidente come i Lotofagi siano in certo senso avviRinviamo, in merito, a D. Fusaro, Marx e la schiavitù salariata, Il Prato, Padova, 2009. Erodoto (IV, 177-178), che collocò questo popolo in Tripolitania, ci diede però una descrizione precisa della pianta, e dei suoi dolci frutti, da cui verrebbe anche ricavato un vino. 326 327 162 Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene cinabili agli attuali fornitori di sostanze stupefacenti. Queste sostanze, infatti, producono gli stessi effetti del loto, ossia una temporanea apparente condizione di benessere caratterizzata da assenza di dolore, indifferenza sociale ed oblio dei problemi; questi fornitori, poi, assomigliano ai Lotofagi perché non si comportano inizialmente in modo violento, ma in modo accogliente, seducente, e tuttavia solo in apparenza benevolo. Come le vittime della droga, le vittime del loto non conducono infatti più, da quando si assuefanno a questa sostanza, una vera vita; non utilizzano più la ragione, non ricercano più il bene, non si emozionano più. Costoro conducono una esistenza che è per molti aspetti assimilabile alla morte, priva com’è di memoria, di volontà e di progetto; come ha ricordato infatti lo pseudo-omerico Inno a Demetra, in cui si accennava all’effetto “vincolante” che aveva il prendere cibo nell’Ade (il luogo dell’oblio), i Lotofagi sono paragonabili ad un popolo di morti viventi, che a loro volta tramortisce ed annichilisce i propri frequentatori. Le metafore qui utilizzate – ovvero quella più “contemporanea” della droga, o quella più “omerica” della morte – sono solo due possibili interpretazioni simboliche di questo mito; ve ne possono però essere diverse altre, poiché molti sono i modi con cui ci si può allontanare “volontariamente” (a causa, in realtà, della seduzione e della propria fragilità) dalla propria umanità, specie in un mondo come l’attuale che produce appunto, al contempo, seduzioni e fragilità. Pensiamo a come spesso i consumi mercificati siano simili alle droghe; pensiamo alla dipendenza dal gioco d’azzardo, o anche dai viaggi-vacanze, solo all’interno dei quali molte persone hanno l’impressione di “essere felici”: si tratta, in realtà, di forme compensative di un disagio interiore, che contribuiscono però ad acuire questo disagio e non a risolverlo, in quanto la sola soluzione di questo disagio si trova in un giusto e sensato rapporto con se stessi e con la comunità sociale. L’uomo è infatti un ente sociale che ricerca un senso per la propria vita, dato che è consapevole della propria morte; la vita apparentemente tranquilla metaforizzata dai Lotofagi può accontentare degli animali, ma non certo degli uomini. Per gli uomini, omerici e non, queste forme seduttive costituiscono soltanto delle modalità, in apparenza non violente, con cui però ci si allontana dalla propria vera umanità. I Lotofagi, certo, rappresentano una forma seduttiva impropria, rispetto al consueto simbolo omerico (e non solo) della seduzione, costituito dal femminile. Ma donne affascinanti certo non mancano nell’Iliade e nell’Odissea. Abbiamo in precedenza parlato di Elena, e della sua 163 i miti omerici “evoluzione” nei due poemi; parleremo fra breve anche di Nausicaa e di Penelope. Tuttavia queste figure – con la parziale eccezione della ambivalente Elena – furono affascinanti più per la loro dolcezza, per la loro costanza e per la loro grazia, che non per l’utilizzo di arti seduttive; viceversa, Calipso, Circe e le Sirene esercitarono un potere seduttivo negativo, in quanto finalizzato o ad irretire ed annichilire, o, nel peggiore dei casi (le Sirene), addirittura ad uccidere il malcapitato. Questi “miti seduttivi”, data la loro diversità, devono essere analizzati separatamente, e così faremo. Calipso, la dea sita nell’isola di Ogigia in cui Odisseo rimase ben sette anni, rappresenta una sorta di “figura intermedia” fra la donna innamorata e la seduttrice. È indubbio, infatti, che ella provasse sentimenti sinceri nei confronti di Odisseo, tanto da proporgli un amore eterno; è indubbio però anche che – oltre al “consueto” uso della voce, col canto328 – la dea pose in essere tutta una serie di “lusinghe” (Omero parla di «parole incantatrici», logoi haimylioisi; I, 56) per mantenere l’eroe un così lungo tempo presso la propria isola. L’episodio di Calipso viene dopo quello di Circe e delle Sirene, in ordine temporale; tuttavia, non è l’ordine cronologico quello che qui interessa, bensì l’ordine onto-assiologico, e sicuramente, cominciando con Calipso e concludendo con Circe e con le Sirene, delineeremo un grado di seduzione (e di pericolosità) crescente. Pur parlando di figure mitiche, anche in questo caso non ci soffermeremo sui contenuti letterari dei miti narrati, già molto analizzati negli studi specialistici (il canto di Calipso, la natura addomesticata, l’isola che si presta a racconti fantastici, eccetera). Diremo soltanto che Calipso, figlia di Atlante, fu una ninfa benefica, che si innamorò realmente di Odisseo e volle tenerlo sempre con sé; per raggiungere il proprio scopo, oltre ad offrire la propria avvenenza, la ninfa promise ad Odisseo la immortalità. Questa «lusinga seduttiva», all’apparenza irresistibile, non era tuttavia priva di pericoli, e l’eroe lo comprese molto bene. Come chiosa correttamente Zoja: «come potrebbe allettare Odisseo la immortalità che Calipso promette? Non è un dono che rafforza, ma una seduzione che indebolisce. Sono le dimissioni dal tempo, il disimpegno dalla continuità del sistema familiare (oikos, da cui oikonomia: governo di questo sistema), il rinvio permanente dei Proci. Sia Calipso, che Circe, che le Sirene contano; Penelope, invece, tesseva e piangeva, ma non cantava. 328 164 Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene Odisseo volta le spalle alle dee, ma soprattutto alle più arcaiche e volatili fantasie maschili. Anche quando racconta al re dei Feaci i travagli del suo viaggio, l’eroe non si tira indietro e dice con schiettezza che cosa Circe e Calipso sono state per lui [...], iniziando l’elenco delle disavventure proprio da quelle due trappole seduttive»329; per un mortale, infatti, abbandonare la propria mortalità significa abbandonare la propria umanità, e con essa tutta la vita interiore, fatta di radici, di ricordi, di affetti, nei cui confronti il desiderio di ritorno di Odisseo era più forte di ogni attrattiva. Per questo motivo, nonostante la generosa offerta della affascinante Calipso, Odisseo decise di interrompere la permanenza sull’isola di Ogigia; Penelope, per quanto mortale, rappresentava infatti per lui – insieme ai genitori, al figlio, alla casa, alla città – il solo unico vero centro di attrazione. Per questo motivo, così come all’inizio dell’Odissea Odisseo fu descritto piangere sulle rive del mare perché trattenuto «a forza» ad Ogigia (così lo descrisse Atena, quando chiese al padre Zeus di consentire che egli potesse finalmente ritornare ad Itaca; V, 13-14) 330, alla fine dell’episodio, ossia quando – grazie alla mediazione degli dèi – egli poté lasciare l’isola su una zattera per ritornare ad Itaca, Odisseo fu felice; ciò nonostante, si accommiatò con dolcezza da Calipso, con la quale il rapporto fu indubbiamente anche di affetto331. Differente, in senso negativo, il rapporto – di circa un anno332 – che egli si trovò a vivere con Circe, in quanto differente fu la sua natura rispetto a quella di Calipso. Più che come una ninfa, infatti, Circe è qualificabile come una «maga» che, nell’isola di Eea in cui viveva (secondo la “geografia mitica”, presso il monte Circeo), aveva l’abitudine di trasformare in animali tutti coloro che giungevano a farle – involontariamente – visita. Questo accadde, ad esempio, ai compagni di Odisseo L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 112. Quando Ermes arrivò ad Ogigia per comunicare a Calipso la decisione di Zeus di liberare Odisseo, lo trovò «seduto a piangere sulla scogliera del mare, là dove stava sempre, con lacrime, sospiri ed affanni straziando il suo cuore; sul mare infecondo spingeva lo sguardo, e piangeva» (V, 81-84). «Ma i suoi occhi gli si asciugavano dal pianto, mai gli si struggeva la dolce vita nel sospiroso desiderio del ritorno» (V, 151-152). Calipso stessa descrisse Odisseo come «desideroso di rivedere la sua consorte, per la quale sempre, un giorno dopo l’altro, sospira» (V, 209-210). 331 Sia la Teogonia di Esiodo (1017-1018), sia il commento di Eustazio alla Odissea (XVI, 118), riportano che la mitologia antica attribuì alla coppia almeno due figli. 332 Anche a questo rapporto la mitologia successiva attribuì una procreazione, quella di Telegono. In effetti, dopo circa un anno, saranno i compagni a dover ricordare ad Odisseo – in uno dei suoi rari momenti di debolezza – la patria e la famiglia lontane (X, 472-474). 329 330 165 i miti omerici che erano andati sull’isola in avanscoperta, in cerca di acqua e cibo; tutti furono mutati in porci tranne Euriloco che, diffidando dei modi suadenti di Circe, decise di non entrare nella sua dimora e poté così avvisare Odisseo. Come i Lotofagi, Circe rispettava solo in apparenza le regole della ospitalità; ella infatti offriva sì cibo (e non solo) ai malcapitati, ma «al cibo mescolava veleni funesti, affinché i compagni di Odisseo dimenticassero del tutto la patria» (X, 235-236). Circe ebbe successo con tutti, ma non, appunto, con Odisseo. Indubbiamente, certo, anche il figlio di Laerte dovette entrare nel suo letto, ma Circe colse correttamente che, a differenza dei suoi compagni che si lasciarono subito andare ai propri impulsi, Odisseo non si lasciò sopraffare dagli stessi, ma anzi costrinse la maga a ritrasformare in uomini i suoi amici. Questo episodio è stato, come noto, variamente commentato, e non sono mancati interpreti, per lo più fra i contemporanei, che hanno rimarcato come questo autocontrollo delle emozioni in Odisseo, questa sua freddezza razionale, rappresentasse un difetto del suo animo: queste doti del carattere precludono infatti, a loro avviso, l’abbandono alla seduzione ed al piacere, e dunque, per i canoni attuali, la felicità. I canoni di Odisseo, così come del mondo omerico, erano però differenti da quelli contemporanei (per ciò abbiamo tanto da imparare da Omero): per questo motivo il saper porre, saggiamente, un freno alle proprie passioni, significò per lui la salvezza. Anche in questo episodio Odisseo rivelò il proprio coraggio, correndo gravi pericoli per andare a salvare i compagni, che pure in altre occasioni – pensiamo alla uccisione delle vacche sacre ad Elio nell’Isola del Sole (XII) – non si mostrarono particolarmente meritevoli333. Egli, certo, fu aiutato dal famoso moly, un «antidoto vegetale» donatogli da Ermes per difendersi dagli incantesimi; tuttavia, non è questo il punto centrale. Il punto centrale è che l’etica umanistica di Odisseo (di Omero) gli impedì, al contempo, sia di volersi elevare al livello degli dèi immortali (la promessa di Calipso), sia di volersi abbassare al livello degli animali (la minaccia di Circe). In ambedue i casi, infatti, egli avrebbe compiuto una scelta fuori misura, contraria alla propria umanità; come ha correttamente commentato P. Vidal Naquet, «in un certo senso l’Odissea I responsabili di questa violazione – vaticinata sia da Tiresia (XI, 106-115) che da Circe (XII, 137-141) – però morirono tutti, in quanto si resero colpevoli di hybris per aver violato il giuramento sacro che Odisseo impose loro di fare (XII, 297-302); alla colpa infatti, nell’epica omerica, seguiva sempre la sanzione. 333 166 Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene può essere letta come il ritorno di Odisseo alla normalità, la vicenda attraverso cui si afferma la sua consapevole adesione alla condizione umana»334. Una condizione in cui il raggiungimento della “normalità” e della “naturalità” richiede spesso molto coraggio. Il più forte esempio di seduzione descritto nella Odissea fu però, verosimilmente, quello delle Sirene. L’episodio è davvero troppo noto affinché lo si debba descrivere nel dettaglio; le Sirene, che nella tradizione medievale erano rappresentate metà donne e metà pesce, nel numero di tre o quattro, in Omero erano raffigurate come due donne con ali di uccello, la cui caratteristica principale era il canto suadente, tale che «chi ignaro approda e ascolta la loro voce, mai più la sposa e i piccoli figli festosi lo attorniano, poiché le Sirene col canto armonioso lo stregano» (XII, 39-46). Odisseo fu avvertito di questo pericolo da Circe (così come più avanti sarà aiutato da Calipso nella costruzione della zattera: a riprova di come la sua etica riuscì sempre a mantenere un buon rapporto anche con queste figure ambivalenti), senza il cui avvertimento egli sarebbe sicuramente perito; le donne infatti, in Omero, si rivelano spesso pericolose, ma anche indispensabili. Il punto centrale di questo mito sta comunque nella pericolosità seduttiva delle Sirene (che la tradizione colloca su tre isolette rocciose vicino a Capri), pericolo che Odisseo, pur preavvisato, decise ugualmente di affrontare in quanto le loro parole erano descritte come parole di verità – le Sirene erano demoni dell’oltretomba, come tali veritiere335 –; per questo motivo egli pose in opera il famoso stratagemma: tappare le orecchie dei propri compagni con la cera, ed al contempo farsi legare stretto all’albero della nave, chiedendo loro di non liberarlo nemmeno se egli li avesse pregati. Così, in effetti, avvenne. Odisseo riuscì ad ascoltare il canto delle Sirene ed, al contempo, ad evitare il triste destino di morte che colpiva gli uditori delle loro parole. L’associazione tipicamente greca fra la seduzione e la morte è, in questo punto, davvero marcata; e per “morte”, in senso figurato, deve intendersi la perdita della umanità, dunque della ragione e della morale, propria appunto di chi si lascia irretire P. Vidal Naquet, Il cacciatore nero, op. cit., pag. 21. Significativo è appunto che le Sirene promettano, a chi accoglie il loro invito, il dono della conoscenza, dato che esse affermano di conoscere «tutto quello che avviene sulla terra», come non è lecito ai mortali sapere. Ciò è ricordato anche da Cicerone (De finibus, V, 48-49), e la ragione si deve al fatto che per i Greci l’Ade era il luogo della massima conoscenza, poiché esso nascondeva l’origine di tutte le cose, la ragione ultima della vita. 334 335 167 i miti omerici dai miraggi della seduzione. Odisseo, comunque, volle correre questo rischio, a riprova del fatto che il pensiero omerico fu un pensiero in cui la ricerca del piacere, sulla via della felicità e della conoscenza, era considerata una componente necessaria, se affrontata con intelligenza e misura. Non resta ora che chiarire per quale motivo il mito delle Sirene risulti anche oggi di grande attualità. Ebbene: così è perché le Sirene, nel nostro tempo, lungi dall’occupare solo tre piccoli isolotti, occupano pressoché tutto il globo; sono molteplici, infatti, le voci che invitano a procurarsi esclusivamente il piacere abbandonando la ragione e la morale. Questo genere di abbandono, però, conduce inevitabilmente alla “morte”, poiché annulla ciò che è più naturale per la vita umana; il piacere non va evitato, ma di fronte ad esso occorre porsi con misura, poiché altrimenti esso non avvicina alla verità ed al bene, bensì ne allontana. Questo il motivo per cui il messaggio etico di Omero, di non farsi irretire dal canto delle Sirene per quanto affascinanti esse possano apparire, risulta tuttora valido. 168 osPitaLità e benevoLenza: feaci L’Odissea, come anticipato, non fu ricca solo di modelli negativi, ma anche di modelli positivi. Oltre ad Odisseo, l’isola dei Feaci offrì in questo senso forse il maggiore esempio, in quanto si rivelò essere l’isola dell’ospitalità, una virtù molto amata dai Greci, ritenuta addirittura necessaria per essere considerati pienamente uomini (ad esempio Odissea, VII, 89 ss.; IX, 287 ss.; XIV, 56 ss.; XVI, 183 ss.; XVIII, 482 ss.)336. Raccontiamo, allora, cosa accadde allo sbarco di Odisseo. Il suo approdo nell’isola dei Feaci – l’ultima tappa prima del suo ritorno ad Itaca, a cui sarà accompagnato proprio da questo popolo che Omero circondò di particolare ammirazione337 – è descritto tra la fine del V e l’inizio del VI canto; il V canto termina infatti proprio col periglioso sbarco di Odisseo a Scheria. Sfinito per la fatica e per la fame, Odisseo giunse nella terra «in cui regnava Alcinoo, che dagli dèi ricevette in dono la saggezza» (VI, 11-12). Qui fu accolto dalla figlia del re, Nausicaa, «simile nella figura e nell’aspetto alle dee immortali» (VI, 15-16), che ispirata da Atena si era recata con le ancelle lungo il fiume laddove era naufragato Odisseo. Egli, che si era addormentato esausto sulla spiaggia, sentendo le grida gioiose della giovane, dopo otto anni in cui non faceva più incontri pienamente umani (Lestrigoni, Ciclopi, Circe, Calipso, ecc.), fu inizialmente preso dal consueto dubbio: «Ahimé, di quali esseri sono ancora una volta giunto alla terra? Sono forse prepotenti e selvaggi, e senza benevolenza, oppure sono ospitali ed hanno una mente timorata degli dèi?» (VI, 117-121). Tuttavia, ben presto si accorse che ospitalità e benevolenza erano caratteristiche dei Feaci, ed in particolare della giovane Nausicaa, che non fuggì alla vista del naufrago, e cui Odisseo poté chiedere aiuto, come nella sua natura, con parole pudiche e riGli stranieri sono così cari agli dèi nella Grecia antica che, quando a Penelope giunge la notizia che tutti i pretendenti sono stati uccisi, ella non pensa ad Odisseo, ma ritiene che un dio per vendetta abbia ucciso tutti i Proci, poiché appunto irrispettosi dei vari stranieri recatisi raminghi a chiedere ospitalità (XXIII, 62 ss.). 337 Significativo è che, pur dichiarando costoro di aborrire la guerra, Omero non svaluti affatto i Feaci rispetto agli eroi dell’Iliade, ad ulteriore riprova di come «l’etica bellica» non fosse centrale nell’opera omerica. 336 169 i miti omerici spettose (VI, 149-183). Nausicaa fu subito conquistata dai modi pacati ed al contempo nobili di Odisseo338, e gli rivolse innanzitutto il «dono ospitale», che gli era stato così crudelmente negato dai Lestrigoni e dai Ciclopi; la giovane gli disse infatti: «Poiché sei giunto alla nostra città ed alla nostra terra, ebbene, non mancherai di una veste né di alcuna altra cosa che si conviene ottenga un uomo che si presenti supplice» (VI, 190-193). «Da parte di Zeus, infatti, vengono tutti i forestieri ed i mendichi, ed ogni dono fatto loro, per quanto piccolo, è caro» (VI, 206208). Nausicaa chiarì inoltre ad Odisseo che i Feaci erano «cari agli dèi» (VI, 203) proprio in quanto si comportavano in modo umano, ovvero ospitale e benevolo. Ad ulteriore riprova della grande rilevanza del mondo femminile nell’umanesimo omerico339, Nausicaa, che accompagnò Odisseo dal padre nella sua reggia, gli consigliò di cercare di ottenere soprattutto il favore della madre (VI, 310-315), Arete (il cui etimo fa riferimento in generale alle «suppliche da accogliere»), le cui parole erano sempre molto ascoltate da re Alcinoo, il quale poteva definirsi come il sovrano dell’isola, caratterizzata dunque – a differenza di quella dei Ciclopi – da un centro politico (VI, 194). Dopo il significativo episodio iniziale della accoglienza di Nausicaa, Odisseo giunse dunque al cospetto di Alcinoo ed Arete, riuniti insieme agli altri nobili dell’isola; qui Odisseo fu rifocillato e poté riposarsi, ma il trattamento che ricevette non può comunque definirsi perfetto. Alcinoo lo fece certo sedere al posto del figlio accogliendolo con tutti gli onori (VII, 165-177), ma gli domandò della sua identità ancor prima di averlo fatto mangiare, violando una antica consuetudine greca nei rapporti coi forestieri340. Subito dopo il di lui figlio, Laodamante, lo spinse Nausicaa capì subito che Odisseo «non è uomo stolto o malvagio» (VI, 187), e presto se ne innamorò: «Oh, se un uomo così potesse chiamarsi mio sposo, abitando fra noi, e gli piacesse restare!» (VI, 244-245). 339 Scrive bene, in merito, M. Zambarbieri che, «per la prima volta nella storia della poesia epica, la vita interiore di una fanciulla diventa oggetto dominante del canto» (M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 494). 340 Una consuetudine confermata, ad esempio, nell’episodio di Mente-Atena nella casa di Telemaco (I, 102 ss.), e poi di Telemaco prima presso Nestore (III, 91 ss.) e in seguito presso Menelao (IV, 1 ss.); perfino il porcaro Eumeo la rispetta (XIV, 45 ss.). 341 «Straniero [...], tu mi sembri uno che, sempre in giro con una nave, al comando di marinai dedito a lucrosi commerci, sia sollecito del carico, intento a sorvegliare i traffici ed i guadagni rapaci. Di un atleta non hai proprio l’aria» (VIII, 158-164). Odisseo rispose con una occhiata sferzante, e con queste parole: «Non hai parlato bene; anzi, hai l’aria di uno 338 170 Ospitalità e benevolenza: Feaci a partecipare controvoglia ai giochi sportivi (VIII, 145-157); la ragione che lo condusse ad accettare fu peraltro la scortesia di un altro giovane, Eurìalo, probabile pretendente di Nausicaa, che offese Odisseo nel modo peggiore, ossia affermando che egli aveva più l’aspetto di un mercante che di un atleta341 (salvo poi alla fine ricredersi, avvedutosi del valore dell’ospite; VIII, 396-412). In tutta questa sequenza Alcinoo non intervenne in difesa dell’ospite, mostrando che anche i Feaci, «vicini di casa» di Giganti e Ciclopi, poco abituati alle umane frequentazioni, erano comunque ancora lontani da un compiuto grado di civiltà. Nell’isola dei Feaci comunque, Odisseo, rimasto senza nemmeno la zattera, fu costretto a chiedere a quel popolo il ritorno, e dunque a svelare la propria identità. I Feaci, mostrando la loro umanità, decisero non solo di riaccompagnare Odisseo con una adeguata scorta navale (VIII, 30-40), ma addirittura di offrirgli un notevole numero di doni, «quanta ricchezza da Troia mai egli avrebbe preso, se incolume fosse tornato con la sua parte di bottino» (V, 39-40). In questa ospitalità dimostrata, e soprattutto in questa benevolenza nel dono ad un ospite che difficilmente avrebbe potuto ricambiare (i Feaci vivevano fuori dalle rotte abituali, e riaccompagnarono Odisseo – come sempre facevano con chi riconducevano a casa – subito dopo avergli fatto bere un vino che procurava sonnolenza, per non fargli ricordare la rotta), si mostrò la natura sostanzialmente serena della vita dei Feaci, lontana dai traffici commerciali che tanto temevano in quanto minaccia all’armonia comunitaria342. Fu proprio nel ritorno di Odisseo alla propria casa che prese corpo il tema centrale dell’Odissea; non a caso Odisseo se ne andò dai Feaci dormendo (come se il suo viaggio fosse stato tutto un sogno), e si svegliò solo ad Itaca, che per lui costituiva appunto il ritorno alla vera vita, stolto. È vero, non a tutti gli dèi concedono doni graditi, né bell’aspetto, né saggezza, né accortezza di parola. Un uomo infatti può essere piuttosto meschino nell’aspetto, ma il dio può incoronare di bellezza le sue parole, e gli altri a lui guardano pieni di diletto; egli intanto parla senza intoppo esprimendosi con misura soave come miele, e spicca nelle assemblee, e la gente lo guarda come un dio mentre incede per la città. Un altro invece è per aspetto simile agli immortali, ma la grazia non orna le sue parole, come nel caso tuo: hai un aspetto eccellente, e neppure un dio avrebbe potuto farti diversamente, ma nella mente sei uno sciocco» (VIII, 166-177). 342 È per questo motivo che Atena, nel VII canto, mise in guardia Odisseo, ricordandogli che i Feaci «non sopportano molto la gente straniera, né con segni di affetto si mostrano amici a chi venga da un altro paese» (VII, 32-33). Questo avvertimento, in realtà, cadrà nel vuoto, poiché una volta compresa l’eticità di Odisseo, i Feaci si rivelarono massimamente ospitali. 171 i miti omerici alla realtà. Odisseo – che come Omero, dopo lungo girovagare, aveva «appreso i pensieri di molti» (I, 3), ossia aveva molto imparato dalle esperienze – ritornò alla sua terra, dopo vent’anni, con immutato il suo stabile atteggiamento etico, insieme di umanità e fermezza contro l’ingiustizia; è proprio sulla figura di Odisseo, ed in particolare sul suo ritorno ad Itaca, che ci soffermeremo nel prossimo lungo ultimo paragrafo. 172 saGGezza e doLcezza: odisseo Il personaggio di Odisseo è stato così variamente interpretato nei secoli, che un buon punto di partenza per una sua descrizione può essere costituito dalla etimologia del suo nome; anche così, però, le notazioni che si potrebbero effettuare sarebbero le più diverse in quanto, come ha giustamente osservato A. Lesky, «il suo nome resiste ad ogni tipo di interpretazione»343. Se restiamo, in ogni caso, a quella che pare essere la base etimologica più accettata del nome di Odisseo, essa dovrebbe fare riferimento al verbo greco che significa «odiare, andare in collera», sicché potremmo pensare che il significato del suo nome sia «colui che odia, che va in collera»; se però analizziamo i poemi omerici, scopriamo che Odisseo non centralizzò mai i sentimenti dell’odio e della collera (i quali, quando emergono, come negli episodi dei Ciclopi e dei Proci, sono semmai conseguenze della sua concezione etica della giustizia), e dunque il suo nome si potrebbe forse meglio interpretare come «colui che è odiato (e di tale odio sopporta il dolore)», alla luce appunto dell’ira di Poseidone, che per anni gli impedì il ritorno. Non fu comunque nemmeno l’odio di cui fu fatto oggetto dal dio del mare, a caratterizzare principalmente la sua figura. L’etimologia, che in molti casi è utile per ben inquadrare i problemi, in questo caso non ci aiuta; e non ci aiuta nemmeno, come si è già ricordato in precedenza, la letteratura successiva, che ha dato nei secoli almeno due immagini di Odisseo che non corrispondono affatto al suo personaggio: quella di astuto ingannatore e quella di imprudente esploratore. Odisseo fu invece, come scrisse già il retore Eraclito nelle sue Allegorie omeriche (70), «strumento di tutte le virtù, che Omero si forgiò per insegnare la saggezza»; si tratta di una interpretazione molto diffusa nella antichità344, alla quale ci associamo pienamente, e che la modernità ha purtroppo smarrito, come in questo ultimo lungo paragrafo argomenteremo. A. Lesky, Storia…, op. cit., vol. I, pag. 49. Ciò è stato ampiamente mostrato da F. Buffière, Les mythes d’Homère et la pensée grecque, Paris, 1956, pagg. 365-391. Per Antistene (fr. 26 Mullach) Odisseo fu il più pio degli eroi, in quanto non fece mai nulla se non con il loro assenso. 343 344 173 i miti omerici Ci siamo già in precedenza soffermati a commentare quanto le due interpretazioni prevalenti della figura di Odisseo siano scorrette: egli, infatti, mentì solo – ed in pochi casi – per salvare la vita a sé ed ai propri compagni (come recita lo stesso proemio dell’Odissea, I, 5 ss.); allo stesso modo, egli non ricercò mai l’avventura fine a se stessa, ma solo in quanto funzionale al suo ritorno a casa o, in subordine, alla conoscenza. Tuttavia, fin dall’antichità, sono prevalenti interpretazioni di Odisseo, come di altri antichi miti (ad esempio Prometeo), che ne stravolgono il contenuto originario presente nei poemi classici; pensiamo soltanto, nella contemporaneità, agli “Ulisse” di D’Annunzio, Gozzano, Malerba, Pound, Joyce, Eliot e molti altri345. Tutte queste interpretazioni “creative” parrebbero costituire, per il lettore contemporaneo abituato alla inconcludente “pluralità” delle letture relativistiche, un arricchimento della tematica classica; la nostra tesi è invece, in merito, differente. I miti classici vanno infatti rispettati per quello che sono, e l’unico modo di rispettarli è riflettere a partire da essi, approfondendoli e non trasformandoli a proprio arbitrio; gli eroi omerici furono certo molto profondi, e non monocordi (come invece ritenne Vico), ma non per questo la loro interpretazione deve essere caratterizzata dalla ambivalenza. Chi, fra i moderni autori, si approccia agli antichi miti con eccessiva originalità, ovvero utilizzandone il nome ma attribuendo poi a questo nome contenuti differenti, non rende a nostro avviso un buon servizio al pensiero classico, in quanto ne stravolge il messaggio in un’epoca in cui, peraltro, tale messaggio – importantissimo – è sempre meno considerato. La cosa curiosa, in merito, è che questi innovatori di antichi miti si credono molto “rivoluzionari” nell’elaborare le proprie interpretazioni postmoderne (che mostrano ad esempio Odisseo preda delle passioni e delle alienazioni della nostra Fra le varie interpretazioni di Odisseo in questo senso, vi è quella – che menzioneremo a titolo esemplificativo – del giornalista Indro Montanelli, scarso conoscitore del mondo greco ma, come tutti i moderni liberali, spesso portato a parlarne male; a suo avviso, infatti, «Ulisse, presentato come esempio e modello, è uno dei più sfacciati mentitori ed imbroglioni della storia», la cui «misura della grandezza è fornita solo dal successo» (I. Montanelli, La storia dei Greci, Mondadori, Milano, 2002, pag. 33). È evidente come qui Montanelli utilizzi i criteri utilitaristici e pragmatici del proprio tempo per spiegare l’antica Grecia, con effetto, però, a metà tra il comico e l’irritante. Non ci si può del resto aspettare molto da chi afferma che «il disprezzo di Eraclito per gli uomini era tale che, di proposito, egli volle scrivere in modo da non farsi capire» (ibidem, pag. 75), e per cui «il tratto fondamentale e permanente dei Greci fu il particolarismo» (ibidem, pag. 43). 345 174 Saggezza e dolcezza: Odisseo epoca); costoro non si accorgono, in maniera comica, di essere in realtà degli ultraconservatori, in quanto interpretano anche gli antichi miti coi codici del proprio tempo. I veri “rivoluzionari”, oggi, sono infatti gli interpreti fedeli dei miti classici, in quanto essi rappresentano contenuti umani in radicale opposizione a quelli dominanti nel nostro tempo; ovviamente, per fare questo – e ciò non è affatto scontato per gli studiosi accademici dediti agli specialismi – occorre essere in grado di saperli ben interpretare sul piano etico e “politico”346. Tutto ciò è molto importante per chiunque voglia leggere in termini filosofici la classicità. Lo svilimento dei miti classici riflette infatti lo svilimento dell’uomo che – per effetto soprattutto delle dinamiche sociali disumane del modo di produzione capitalistico – la contemporaneità sta sempre più rapidamente portando avanti. Rendere gli antichi miti variopinti ed estraniati come gli uomini del nostro tempo ha, da un lato, una funzione “rassicurante” (poiché non pone come modelli degli esempi di umanità, giustizia, coraggio, ai quali è oggi difficile adeguarsi); questa “rassicurazione” tuttavia è tale solo per gli uomini plasmati dalle modalità sociali dominanti, le quali hanno appunto bisogno, per il proprio funzionamento, di strutture della personalità fragili e standardizzate (e non certo di modelli umanistici). L’anticapitalismo più temibile non è infatti quello di chi urla scalmanato in corteo contro il “nemico” – spesso peraltro inveendo contro un “surrogato” del nemico principale, costituito appunto dal modo di produzione sociale nel suo insieme –, ma quello umanistico di chi ricerca “l’amico” nell’uomo, in ogni uomo proprio per la sua umanità, che come tale deve sempre ottenere un livello di vita dignitoso. Senza eccedere in discorsi troppo generali, e tornando dunque ad Odisseo, ci pare che la principale “ideologia” moderna da sfatare intorno alla sua figura sia quella che lo vede come un viaggiatore “centrifugo”, volto cioè a viaggiare solo per conoscere il mondo, anziché come un uomo “centripeto”, volto cioè a viaggiare solo per ritornare alla propria casa. La modernità è spesso portata a pensare la illimitatezza, la mobilità, la sradicatezza; la grecità, invece, era portata a pensare la limitatezza, la stabilità, la comunità: in Omero infatti, come mostrato, le idee di «limite» e di «misura» erano addirittura centrali sul piaCi siamo soffermati su queste tematiche in un saggio a commento di un libro di G. Giorello (Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito, Cortina, Milano, 2004), nel libro Il presente della filosofia italiana, Petite Plaisance, Pistoia, 2007, pagg. 66-78. 346 175 i miti omerici no etico347. Come ha scritto correttamente A. Jellamo, «ad ogni essere è dato di muoversi entro certi confini, e non oltre; ogni violazione di confini costituisce un illecito, perché ogni violazione di confini significa invasione di confini di altri. Questo aspetto emerge già nel mondo omerico»348; per questo è corretto sostenere, come ha fatto giustamente E. Turolla, che i viaggi di Odisseo furono mossi esclusivamente dalla nostalgia del ritorno, tanto che egli rappresentò «lo spirito greco che, posto di fronte all’infinito, allo sconfinato, al senza limiti, tenta di salvarsi, rifugge da esso e reagisce»349. Ciò non fu invece compreso dalla famosa interpretazione di Odisseo di Dante Alighieri, che è all’origine dei molti fraintendimenti della modernità sulla sua figura350. Abbiamo in precedenza ricordato come l’Odisseo dantesco ammonisse gli uomini a non vivere come bruti, bensì a seguire virtù e conoscenza; il suo viaggio, in questo senso, può realmente essere interpretato come metafora della ricerca della buona vita. Tuttavia Dante – che non conosceva direttamente né l’Iliade né l’Odissea351, e che fu dunque influenzato dai commentatori antichi (in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio)352 – errò nell’attribuire ad Odisseo la volontà di oltrepassare ogni limite conosciuto, ossia ad attribuirgli il «folle volo» verso l’ignoto e la morte (Inferno, XXVI, 49-142; il famoso oltrepassamento delle «colonne d’Ercole»)353; Odisseo infatti finalizzò la propria sete di conoscenza e di esperienza al ritorno a casa, ossia alla Ci permettiamo di rinviare, in merito, a D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, op. cit. 348 A. Jellamo, Il cammino di Dike, op. cit., pag. X. 349 E. Turolla, Saggio sulla poesia di Omero, Laterza, Roma-Bari, 1930, pagg. 219 ss. 350 Oltre a Dante Alighieri, anche per Francesco Petrarca Odisseo fu colui che «desiò del mondo veder troppo» (Francesco Petrarca, Trionfo della fama, 17-18), così come per Torquato Tasso Odisseo fu uomo «di veder vago e di saper» (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XV, 25-26). 351 G. Martellotti, Omero, in Enciclopedia dantesca, IV, 1973, pagg. 145-148. 352 Dante pose Omero nel primo cerchio dell’Inferno, il Limbo, ma non fece mancare all’aedo la propria vicinanza, presentandolo come «Omero poeta sovrano», «signor de l’altissimo canto, che sovra gli altri com aquila vola», a capo della «bella scola» dei poeti più grandi (IV, 88, 94-96). 353 Dante cadde peraltro anche nell’ulteriore diffuso pregiudizio su Odisseo, ponendolo, nella bolgia infernale dell’VIII cerchio, tra i «consiglieri di frode», ovvero fra coloro che utilizzarono la propria intelligenza per fini non morali. Dante subì in questo senso, verosimilmente, l’influenza di Pindaro, di Euripide (Ecuba, Ifigenia in Aulide, Troiane), nonché di Sofocle (Filottete, Aiace), in cui Odisseo fu così rappresentato; quanto questa condanna sia ingiusta sarà chiarito nelle prossime pagine. 347 176 Saggezza e dolcezza: Odisseo buona vita, come si è già qui mostrato354. Come ancora mostreremo, peraltro, nelle pagine seguenti, il “vero Odisseo”, ossia l’Odisseo più antico, l’Odisseo di Omero, fu colui che costruì il letto nuziale della propria casa intagliandolo in un ulivo le cui radici costituivano le fondamenta della casa stessa, che egli aveva innalzato pietra dopo pietra, segno di costanza, di stabilità, di continuità dei valori comunitari. Sono davvero molteplici le interpretazioni fuorvianti della figura di Odisseo. James Joyce, in questo senso, pur essendo fra i primi ad avvicinare Omero alla inquietudine moderna, fu fra i pochi che fecero ritornare Odisseo alla propria casa, alla famiglia, ai valori di sempre; per la maggior parte degli altri interpreti moderni (pensiamo ad esempio al romanzo di Lion Feuchtwanger, Ulisse e i maiali, del 1950) Odisseo è destinato a non ritornare, ossia a smarrirsi in quel viaggio della vita che, a loro avviso, può essere solo un nichilistico naufragio. Questa interpretazione postmoderna di Omero, come già rimarcato, risulta non solo lontana dalla reale intenzione dell’antico poeta, ma per molti versi anche dannosa355; molto più corretta risultano essere, in tal senso, l’interpretazione latina di Orazio per il quale Odisseo fu «modello di virtù e saggezza» (Ep. I, 2, 17-18), e l’interpretazione di Cicerone che lo Come ha correttamente sostenuto G. Cerri, «chi non ha sperimentato [e compreso; L. G.], segue la felicità in paesi lontani; chi ha sperimentato e ha saputo elaborare la propria esperienza, sa che non c’è felicità vera fuori dal proprio contesto sociale; il sogno, per chi non ha sperimentato, può essere attrazione fatale; per chi ha sperimentato il sogno è sogno, la realtà è realtà, e vale infinitamente più del sogno» (in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo, op. cit., pagg. 46-47). Per Odisseo, «il trasferimento definitivo è sradicamento, annullamento dell’identità personale; chi lo scegliesse, non costretto dalle circostanze ma in vista di una felicità fantomatica, si trasformerebbe davvero, da uomo, in uno dei maiali ben nutriti di Circe. Odisseo è ora più sapiente [...] perché ha distillato in sé questa verità suprema: l’uomo è le sue radici» (ibidem, pag. 47). 355 Una delle peggiori interpretazioni postmoderne di Odisseo, a conoscenza di chi scrive, risulta essere quella di P. Citati, secondo cui «gli uomini moderni [...] assomigliano ad Ulisse: sono colorati, variegati, molteplici, fatti di mille frammenti e di mille volti, e si volgono da tutte le parti, come il polpo cui Ulisse assomiglia» (P. Citati, La mente colorata. Ulisse e l’Odissea, Mondadori, Milano, 2002, pagg. 20-21). Non molto migliore ci pare essere la descrizione di S. Nicosia, che così lo delinea: «eroe dai molti nomi, dalle molte identità, duttile, versatile, ambiguo, multiforme, non scolpito a grandi tratti [...] ma plasmato e plasmabile, di volta in volta, secondo le circostanze, posto sotto il segno della complessità, capace di inventare e di inventarsi, Ulisse sembra veramente coprire l’intera gamma delle possibilità fra due opposti, ed avere tante individualità quante sono le forme dell’esistenza umana. È ognuno e ciascuno, o nessuno» (S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo, op. cit., pag. 19). Proprio per questa sua ambivalente descrizione – che ha certo delle basi nell’Odissea ma che a nostro avviso non va centralizzata – egli «intraprenderà, dopo Omero, l’ultimo e più straordinario dei suoi viaggi: quello, senza fine e senza oriz354 177 i miti omerici descrisse come il sapientissimus graeciae (De finibus, II, 29, 48), nonché quelle moderne di Shakespeare e Goethe, di analogo tenore. Fra le varie “degradazioni” subìte dal personaggio di Odisseo, in epoca antica, medievale e moderna, può essere interessante segnalare quella di parte marxista, dalla quale anche stavolta prendiamo le distanze356; in base ad essa, non solo Odisseo ma tutta l’opera di Omero sarebbe da condannare in quanto espressione di una “civiltà aristocratica”, pertanto con poco da insegnare, sul piano etico, alle “democrazie sociali moderne”. Questa tesi si basa, sul piano teorico, sullo storicismo relativista tipico del marxismo (per cui ciò che viene dopo è meglio di ciò che viene prima), e sul piano filologico soprattutto su un episodio; si tratta, con le parole di M. Vegetti, «del celebre episodio di Tersite nel libro II dell’Iliade (212 ss.), con il plebeo Tersite che osa prendere la parola nell’assemblea degli eroi e viene irriso e percosso; ciò avviene non perché egli sia incapace di adeguarsi al modello eroico (per la sua condizione sociale questo è impossibile ed impensabile), ma perché non accetta la regola di esclusione insita nel modello»357, ovvero il fatto che i membri del popolo non possano nemmeno prendere la parola nei confronti degli aristocratici. Questa tesi, tuttavia, non può essere ritenuta corretta. Nel nostro Diritto e proprietà nella Grecia classica abbiamo infatti mostrato come la società omerica fosse discretamente aperta alla partecipazione cittadina; molto più verosimile è dunque che Tersite sia stato percosso e zittito da Odisseo, come già abbiamo rimarcato, solo in quanto, con le proprie critiche, egli contribuiva a demoralizzare le truppe, ponendosi – in maniera «priva di misura, continuando a schiamazzare» (II, 212) – contro il bene comune della coalizione greca. Odisseo, scettro in mano, lo redarguì in effetti soprattutto per ristabilire l’ordine (II, 278-332), ovvezonte, nella dilatata dimensione del mondo, attraverso i secoli e le culture più disparate, sempre pronto a mutare fisionomia e identità, aperto ad ogni possibile metamorfosi» (ibidem, pag. 20). 356 Molto spesso siamo stati associati al pensiero marxista, o generalmente “di sinistra”, ad esempio da E. Berti (in E. Berti - L. Grecchi, A partire dai filosofia antichi, citato), e da C. Vigna (in C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, citato; proprio in quest’ultimo libro, su questo punto, ci rende giustizia però la postfazione di C. Preve). 357 M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 15. Le parole di Vegetti riflettono comunque l’interpretazione dominante, in quanto anche G. Pasquali definì Tersite come «un plebeo riottoso, che vuole in qualunque caso ed a qualunque costo opporsi ai notabili, e si serve ai suoi fini di certo spirito di bassa lega» (G. Pasquali, Pagine stravaganti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, vol. II, pag. 114). 178 Saggezza e dolcezza: Odisseo ro per poter così parlare, nel silenzio, alla moltitudine, ricordando che Calcante aveva predetto la vittoria degli Achei al decimo anno, e che dunque era necessario portare ancora un po’ di pazienza e perseverare, poiché le sorti stavano per mutare a loro favore; contrariamente ai nostri contemporanei che ridono per le ingiurie ai potenti dei vari comici alla Beppe Grillo, gli antichi le ascoltavano e le prendevano in considerazione, ma sempre avendo come prioritaria la realizzazione del bene comune. Fu per lo stesso motivo – dunque non per disprezzo, ma per segnalare la sua disutilità sociale – che Omero descrisse Tersite come caratterizzato principalmente da difetti fisici e psichici (II, 217-219), e che Platone, nella Repubblica (620 C), ne immaginò la trasformazione post mortem in una scimmia. Il fatto che Tersite sia percosso, sostanzialmente, per aver mosso ad Agamennone le stesse critiche (viltà, avidità, prepotenza) che prima di lui gli rivolse Achille, e che poi gli rivolgerà Odisseo358, lascia pensare che non sia stato il contenuto, bensì la forma della sua critica, ad essere stata poco gradita ad Odisseo. Non ci convince invece la interpretazione dominante359, secondo cui i poemi omerici distinguerebbero chiaramente fra nobili e popolani, con la attribuzione solo ai primi del diritto di parola; secondo questa interpretazione, infatti, solo i primi sarebbero tenuti all’aidos, mentre i secondi, schiavi del bisogno, avrebbero dovuto non attenervisi (pena la morte per fame), sicché a loro non sarebbe propria alcuna norma etica360. Con questa tesi non ci è possibile concordare, sia in quanto essa pare incompatibile con il tessuto sociale omerico, sia in quanto essa condurrebbe la normativa etica presente nei poemi omerici ad escludere la quasi totalità degli uomini, col risultato – che non poteva non essere noto ad Omero (peraltro non nobile) – di favorire un antiumanistico imbarbarimento generale, ossia l’esatto opposto Quando Agamennone, nel canto XIV, propose agli eroi la fuga da Troia, Odisseo lo chiamò «disgraziato» e lo umiliò: «Taci, che nessun altro degli Achei ascolti queste parole, che non dovrebbero stare sulla bocca di un uomo di senno, capace di fare giuste proposte, munito di scettro ed a cui obbediscono tanti uomini quanti sono gli Argivi su cui tu regni» (90-94). 359 È possibile ancora citare, fra i tanti, M. Detienne, per il quale «quando Tersite alza la voce, Ulisse non cerca di convincerlo a parole: lo batte a colpi di scettro. Tersite è il plebeo» (M. Detienne, I maestri…, op. cit., pag. 74). Plebei erano però anche gli altri guerrieri, eppure Odisseo non si comporta con loro nel medesimo modo. 360 Come ha affermato in merito anche E. Cantarella, «l’uomo in bisogno, il povero, non deve sentire aidos [...]. La vergogna non gli appartiene, dunque non può né commettere né subire hybris» (E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 80). 358 179 i miti omerici di quanto egli verosimilmente si proponeva. L’umanesimo omerico, come già abbiamo rimarcato, volle infatti porsi una portata universalistica molto più ampia, sicché occorre, a nostro avviso, ripensare alla tesi secondo cui Odisseo ed Omero sarebbero espressioni di una civiltà aristocratica in contrapposizione alla classe popolare (contrapposizione che del resto non emerge mai, ad esempio, nei rapporti fra Odisseo e i suoi compagni); l’opposizione centrale, in Omero, non fu quella fra nobili e proletari (che pure c’è ed è sempre esistita, come hanno giustamente sostenuto Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista), bensì quella fra misura e dismisura, giustizia e tracotanza, moralità ed amoralità. Per comprendere questo, però, può essere utile entrare nella dimensione più quotidiana di Odisseo, che fu sempre, sostanzialmente, una dimensione umanistica. Come ha affermato infatti anche W. Jaeger, Omero «va apprezzato quale primo e massimo creatore e plasmatore dell’umanità greca [...]. Infatti, educativa in senso proprio non può essere se non una poesia le cui radici si addentrino negli strati profondi dell’essere umano, nella quale viva un ethos, uno slancio superiore dell’animo, una immagine dell’umano che accomuni e vincoli gli uomini»361. «In tutto Omero si manifesta una larga veduta filosofica della natura umana, e delle leggi eterne che reggono il corso del mondo [...] appare in lui in luce vivissima il carattere antropocentrico del pensiero greco. Omero conferisce nel modo più deciso all’uomo ed alla sua sorte un interesse preminente, ma lo considera sempre secondo la prospettiva delle idee universali e dei problemi della vita più alti»362. Per quanto concerne propriamente Odisseo, la dimensione etica del suo personaggio fu compresa, fra i primi, proprio da Platone. Abbiamo già accennato, in precedenza, al mito di Er presente nel libro X della Repubblica; in questo mito così è descritto il comportamento dell’anima di Odisseo nella Pianura della Verità, in cui essa si trovò a scegliere il proprio destino nella imminente reincarnazione: «L’anima di Odisseo, a cui la sorte aveva riservato proprio l’ultimo posto di tutti, si avviò alla scelta lasciando da parte ogni desiderio di gloria, memore della sofferenza della vita precedente; si aggirò pertanto a lungo, alla ricerca della vita di un uomo qualunque senza preoccupazioni, e la trovò a fatica, relegata in un angolo, trascurata dagli altri. Non appena la scor361 362 W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 88. Ibidem, pag. 114. 180 Saggezza e dolcezza: Odisseo se, la prese di buon grado, dicendo che mai avrebbe fatto altra scelta, neppure se fosse stata sorteggiata per prima» (X, 620 C-D)363. Questa, a nostro avviso, la reale etica quotidiana attribuita ad Odisseo, confermata anche dalla narrazione di Igino nelle Favole (95), in base alla quale Odisseo, da poco padre di Telemaco, non sarebbe voluto affatto partire per Troia; incurante della gloria eroico-aristocratica, egli giunse infatti addirittura a fingersi pazzo pur di continuare a poter vivere, in una dimensione comunitaria, accanto alla moglie, al figlio, ai genitori ed ai concittadini. Se si pongono in secondo piano questi contenuti, non solo non si può ben comprendere la figura di Odisseo, ma non si può nemmeno ben comprendere l’etica umanistica della Grecia omerica, che non fu affatto tutta orientata – come spesso si sente dire – sui valori eroico-aristocratici364. Odisseo fu l’uomo del nostos (Odissea, IX, 37), ovvero colui che soffrì più di ogni altro per la nostalgia del mancato ritorno, e che fece ruotare tutta la propria vita intorno ad Itaca ed alla comunità famigliare365, tanto che descriverlo come un viaggiatore senza meta e senza ritorno costituisce la incomprensione più grande della sua essenza. Odisseo soffrì sempre lontano da casa, e l’esperienza della lontananza gli fece comprendere, specie nell’Odissea, che la vera felicità si trova solo nella stabilità di affetti della comunità, dove sono insieme le radici e la memoria; ciò nonostante egli si mostrò sempre eroico nella propria capacità di sopportare la dimensione passiva dell’esistenza, ovvero di sopportare i tanti dolori che nella vita accadono non voluti; come ha scritto infatti Eva Cantarella, in Omero «Itaca non è una metafora. È un luogo reale, una piccola comunità greca che sta dandosi le strutture fondamentali di quella che verrà chiamata una organizzazione politica. O meglio: è il Si afferma spesso, come ricordato, che Platone fu sempre e solo critico nei confronti di Omero, sostenendo ad esempio che Omero «non si intende della verità, ma solo delle apparenze» (X, 600 E), oppure che egli esaltasse solo gli aspetti emotivi dell’uomo (603 C-605 A). Questo però non impedì a Platone di comprendere correttamente la figura di Odisseo. 364 Sintetizza stavolta correttamente la sua figura S. Nicosia, affermando che «Ulisse è eroe culturale per eccellenza, in quanto ha una straordinaria capacità di superare il dato naturale conferendogli senso all’interno di un sistema di valori» (S. Nicosia, Ulisse nel tempo, op. cit., pag. 19). 365 Lo dice, del resto, lo stesso proemio dell’Odissea: «Molti dolori soffrì nel suo cuore, lottando per salvare la vita ed il ritorno dei compagni» (I, 4-5). «Tutti gli altri eroi, che erano sfuggiti alla morte repentina, erano tornati a casa, scampati alla guerra ed al mare. Lui solo, pur bramoso del ritorno e della sua donna, lo tratteneva la ninfa Calipso» (I, 11-15). 363 181 i miti omerici prototipo di una delle tante comunità di questo tipo realmente esistite in terra greca in un momento che non può essere successivo all’VIII secolo [...]. Una città con i suoi abitanti, le sue case [...], la sua piazza (agore), dove si riunisce l’assemblea del popolo. Il prototipo, insomma, di una comunità che si appresta a diventare una polis, l’organizzazione politica di cui Atene resterà il modello insuperato, o quantomeno più conosciuto, e di cui Itaca presenta già in embrione gli elementi caratterizzanti»366. Una comunità di cui la famiglia rappresenta il nucleo più solido. Proprio per questa prevalente dimensione etico-sociale della sua figura, dunque, non concordiamo affatto con affermazioni quali quella di Luigi Zoja, secondo cui «Odisseo [...] è contaminato dall’utilitarismo e prepara le leggi del mercato», e secondo cui, per il proprio presunto relativismo, egli «strizzerebbe l’occhio alla modernità»367; Zoja è però interprete intelligente, tanto che solo qualche pagina dopo giunge correttamente ad affermare che «il luogo comune che vuole che Ulisse sia il campione della furbizia è un punto di vista limitato. Ulisse rimane affidabile e coraggioso nonostante i suoi sotterfugi [...], e si rivela l’unico modello onesto, riscattando sé stesso e noi con questa onestà»368. Il fatto che la dimensione famigliare sia propria dell’etica di Odisseo non deve del resto stupire, in quanto essa fu, come detto, propria di tutta l’epoca omerica. Essa fu infatti centrale anche nell’Iliade (pensiamo ai già citati episodi Ettore-Andromaca ed Ettore-Priamo), ma lo divenne soprattutto nell’Odissea369; non è un caso che quando Odisseo scese nell’Ade, oltre ad incontrare la propria madre con scena straziante che ora descriveremo, chiese innanzitutto notizie della sposa e del figlio (così come del resto fece Agamennone, che chiese ad Odisseo di Oreste, E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 11. Queste le parole di Odisseo: «Non c’è nulla di più dolce della propria patria e dei genitori, anche per uno che lontano, in terra straniera, abiti una ricca dimora» (IX, 34-46). 367 L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 87. 368 Ibidem, pag. 103. 369 La sofferenza di Odisseo, che come fra breve mostreremo ne caratterizza il personaggio, è propria di tutta la sua famiglia. Oltre infatti alla madre, che morì di dolore proprio a causa della sua lunga assenza e della incertezza sulla sua sorte (XI, 202-203), ed alla moglie di cui fra poco parleremo, anche il padre Laerte, dopo la scomparsa di Odisseo, «non veniva più in città, ma viveva nel suo dolore, lontano, in campagna» (I, 187-189). 366 182 Saggezza e dolcezza: Odisseo e così come fece Achille, che domandò del figlio Neottolemo e del padre Peleo)370. Quando Odisseo vide la madre Anticlea nell’Ade, «che io avevo lasciato viva al momento di partire per la sacra Ilio, scoppiai in lacrime» (XI, 85-87). Poiché però egli si era ivi recato per incontrare l’indovino Tiresia, il quale avrebbe dovuto indicargli il suo destino, non permise nemmeno alla madre di avvicinarglisi prima di avergli parlato; come ha commentato giustamente Zambarbieri, «nemmeno per il più tenero degli affetti Odisseo transige di fronte all’interesse supremo. La decisione di non sottoporsi al colloquio con la madre prima di avere ascoltato la profezia di Tiresia, è in armonia con la mentalità arcaica che antepone sempre gli interessi della comunità a quelli individuali»371. La profezia di Tiresia, come noto, previde ad Odisseo il ritorno, ma gli prescrisse anche quell’ultimo viaggio, non appena sarà tornato ad Itaca ed avrà sconfitto i Proci (XI, 126-34), su cui si soffermarono poi molti autori antichi e moderni372, ma che non è oggetto del nostro libro. Quanto ci preme qui è solo rilevare come, dopo aver udito la profezia, Odisseo restò impassibile e – a riprova della forza dei legami famigliari – chiese solo a Tiresia cosa poter fare per farsi riconoscere dalla madre e parlargli (XI, 134-149). Adempiuto il rito, la madre gli raccontò come Penelope gli fosse rimasta costantemente fedele (come del resto anche Agamennone gli aveva ricordato, in XI, 445-446), della maturità di Telemaco, e della dolorosa vecchiaia del padre Laerte che, ritiratosi a vivere in campaCome ha scritto giustamente L. Zoja, «il poeta ci ha fatto sapere che il legame tra vivi e morti e quello tra padri e figli sono la stessa cosa. Sui padri possiamo sempre contare perché, anche da morti, il loro pensiero è con noi» (Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 111). 371 M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, vol. I, pag. 765. La medesima tesi è stata sostenuta anche da G. Cerri, per il quale Odisseo ricercò soprattutto «la dedizione al bene ed alla collettività», grazie al suo «sapere sull’uomo [...] funzionale soprattutto in senso comunitario» (in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo, op. cit., pagg. 38-39). 372 Fra gli autori antichi è possibile citare Museo, Eugammone di Cirene, Apollodoro e Pausania. Fra gli autori moderni, è interessante ricordare i due poemi di Giovanni Pascoli (Il sonno di Odisseo e L’ultimo viaggio), secondo cui il viaggio, inteso come meta da raggiungere e prova da superare, rappresenterebbe il senso stesso della vita di Odisseo. Nei poemi di Pascoli Odisseo, vecchio e canuto, privo di ragioni per vivere, si imbarcò coi suoi vecchi compagni, mentre Penelope dormiva, per un lungo ultimo viaggio a ritroso presso Circe, i Lotofagi, le Sirene, fino a morire tra le braccia di Calipso, forse rimpiangendo di aver scelto la sorte dei mortali. Questo Odisseo alla ricerca della vita vissuta, del passato e della giovinezza, è certo molto romantico, ma è non fedele all’Odisseo di Omero, per il quale la vita vera è solo sulla terraferma, mentre la vita in mare, dedita al girovagare, è adatta solo ai pesci (Odissea, III, 177). 370 183 i miti omerici gna coi servi, «sta inerte nel suo dolore, e fortemente accresce nel petto l’angoscia per lo struggente desiderio del tuo ritorno» (XI, 193-195). E continuò Anticlea, lamentando proprio la morte per il dolore dal distacco dal figlio: «Così anch’io cedetti alla morte [...] la nostalgia di te, il rimpianto della tua nobile saggezza, caro Odisseo, il ricordo della tua tenerezza mi privò della vita dolcissima» (XI, 197-203). Al che egli cercò di abbracciare la madre, ma invano, in quel modo struggente che sarà poi ripreso anche dalla antica letteratura occidentale: «Tre volte mi gettai verso di lei come il cuore mi dettava di abbracciarla, ma tre volte mi volò via dalle braccia, simile ad un’ombra o ad un sogno; ed in me nasceva ogni volta, nel cuore, un dolore più acuto, sicché le rivolsi queste parole: Madre, perché non mi aspetti mentre voglio abbracciarti, per saziarci di gelido pianto ambedue, gettandoci anche nell’Ade le braccia intorno?» (XI, 206-212)373. La dimensione etica di Odisseo si manifestò inoltre in molti episodi, in cui egli si caratterizza per una dolcezza quasi mai presente nei poemi omerici, se si eccettuano la figura di Ettore, l’episodio di Patroclo con Briseide (Iliade, XIX, 300), di Zeus con la figlia Atena (Odissea, II, 230-234) e pochi altri (Iliade, IV, 361; Odissea, II, 47; XIV, 139). Come ha correttamente sostenuto E. Cantarella, «Odisseo alla giustizia affianca un’altra virtù, ancor più difficilmente collocabile della giustizia nell’etica omerica del successo: la dolcezza»374; egli fu infatti «il solo personaggio che la dolcezza contribuisce in qualche misura a delineare. Ed è personaggio che possiede dolcezza (oltre che giustizia) non solo e non tanto come qualità personali, ma come qualità di governo»375, come tali dunque strutturali alla cultura ed alla società omerica. Sintomatiche di questa umanità di Odisseo sono le lacrime (anche se, a dire il vero, spesso esse rigano pure il volto di Achille e di altri personaggi molto meno nobili); egli – contravvenendo in parte alla buona norma della misura 373 Qui emerge la grande umanità di Omero; il poeta ricorda la scena dell’Iliade (XXIII, 99101), quando Achille cercò invano di abbracciare l’anima di Patroclo. La scena fu ripresa da Virgilio nell’Eneide, sia quando Enea cercò invano di abbracciare l’anima di Creusa (II, 792-794), sia quando cercò di farlo con l’anima del padre Anchise (VI, 700 ss.). Anche Dante, come noto, ripeté analoga scena non riuscendo ad abbracciare l’anima dell’amico Casella (Purgatorio, II, 80-81). 374 E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, op. cit., pag. 149. 375 Ibidem, pag. 150. 184 Saggezza e dolcezza: Odisseo e del dolore – ne versa infatti in gran copia ed in diverse occasioni376. Il significato di queste lacrime è, ad avviso di chi scrive, tutto da ricercare nella sofferenza di un uomo che, costretto ad abbandonare la casa e gli affetti, non riusciva a fare ritorno al luogo che solo costituiva la radice di senso della propria vita. Tuttavia, dato che queste lacrime contengono molti significati, fa bene Zambarbieri a rimarcare che «la critica ha scoperto [...] nelle lacrime dell’eroe percosso dalle sventure, un duplice significato. Anzitutto Odisseo piange per il segreto rimorso di aver provocato anche lui, come gli altri e più degli altri, lutti e rovine; ma egli piange come una delle sue vittime perché scopre che l’insensatezza della guerra non risparmia nessuno [...]. Questo messaggio ideale dell’Odissea segna una frattura con l’etica eroica del mondo arcaico»377. Odisseo, in effetti, fu costretto ad affrontare la guerra e vi partecipò come un dovere, non alla ricerca della gloria; la sua dimensione esistenziale più propria fu, in questo senso, quella della armonia della pacifica vita comunitaria, non quella disordinata e violenta del conflitto378. Per Odisseo, «niente è più dolce del proprio paese e della propria famiglia» (Odissea, IX, 37-39), e, data la centralità del personaggio, questo conferma ancora di più la nostra interpretazione umanistica dell’opera omerica. Come la maggior parte degli interpreti ha colto, la sofferenza fu una dimensione importante della esistenza di Odisseo, tanto che perfino gli dèi provarono compassione per lui; Atena stessa, ad esempio, parlò così: «il mio cuore si spezza al ricordo di Odisseo saggio ed infelice che, lontano dai suoi cari, da lungo tempo soffre e si tormenta in un’isola In particolare, presso Calipso, egli ne versò ogni giorno per sette anni (V, 82-84); tuttavia, Odisseo pianse anche quando rivide il proprio cane Argo, così come quando rivelò la propria identità al figlio (XVI, 204-205), e quando rivide il proprio padre (XXIV, 226-240). 377 M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 615. Il “pacifismo” di Odisseo, che emerge anche nelle parole di Penelope (XVIII, 257-270), è presente del resto sin dalla prima scena dell’Iliade, in cui egli entra in campo come ambasciatore di pace per restituire Crise al padre e compiere sacrifici in onore di Apollo; pur essendo infatti un combattente coraggioso (come ricordano nei canti IV e VIII dell’Odissea sia Elena, che Menelao, che Demodoco), mancano in lui le tradizionali “performance” degli altri grandi condottieri: la cerimonia della vestizione delle armi, il duello vinto con avversari di pari valore, una eccezionale strage di nemici, ecc. 378 Abbiamo già ricordato la tradizione, ancora presente in Cicerone, secondo cui, per fuggire alla chiamata alle armi di Nestore e Menelao al proposito pervenuti ad Itaca, Odisseo si finse pazzo; fu costretto però a rivelare la propria finzione davanti al tranello postogli da Palamede, che minacciò di passare a filo di spada il neonato Telemaco. 376 185 i miti omerici cinta dai flutti» (I, 48-50)379. La sofferenza fu in effetti strettamente connessa al nostos (I, 76-79), che è il tema centrale dell’Odissea, e che rappresenta, oltre al ritorno a casa, al contempo un ritorno alla “giovinezza” ed un contemporaneo distacco dalla “morte” (giovinezza e morte, ovviamente, da intendere in senso ideale, nel senso che si è “giovani”, e ci si sente “vivi”, solo quando la propria esistenza è ancora carica di progetti da realizzare – la cui assenza metaforizza la “morte”). Del resto, che Odisseo sia descritto da Omero come il personaggio più carico di vita psichica, si evince anche dalla espressione secondo cui, nei momenti più difficili, il suo pensiero oscilla kata phrena kai kata thymon (Odissea, V, 365, 424; VI, 118; X, 151), ossia – almeno nella traduzione più condivisa – tra la mente ed il cuore (una espressione che Omero attribuisce solo ad Odisseo); come ha in merito giustamente notato L. Zoja, rafforzando la tesi della presenza di elementi di coscienza e di personalità anche negli eroi omerici, si tratta della «preistoria del dialogo interiore»380. L’umanità di Odisseo però, ancor più che nella sofferenza, si manifestò – come già abbiamo argomentato – nel suo spirito comunitario, nel coraggio, e più in generale nella misurata etica progettuale con cui egli affrontò tutta la propria vita. Odisseo, riflettendo, programmando, agendo, cercò infatti sempre di raggiungere il proprio fine, ossia il ritorno a casa, ma avendo sempre come vincolo la cura dei propri compagni e delle persone con cui si trovò ad intrattenere rapporti; contrariamente all’immagine dell’eroe attento solo alla propria gloria, o al proprio vantaggio, Odisseo preferì in ogni circostanza – come nell’episodio di Polifemo (IX, 366) – evitare rischi inutili e definirsi «nessuno», in quanto troppo più importante era per lui rivedere la famiglia. Odisseo ricercò sempre, per le proprie azioni, il kairos, il tempo opportuno, la scelta ragionata; emblematico in merito fu quanto egli disse al figlio prima di affrontare la battaglia finale con i Proci, quando ancora era in sembianze di mendico: «Anche se i Proci mi oltraggeranno, il tuo cuore sopporti [...], anche se mi colpiscono, guarda e sopporta» (XXI, 117). Guardare e sopportare, dunque pensare per essere pronti ad agire – in una solo apparente invisibilità – nel momento e nel modo opportuno381. Ed aggiunge: «Odisseo sente la voglia di morire» (I, 57-59). L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 103. 381 Un altro esempio emblematico di questa accorta prudenza di Odisseo, in rapporto alla spudorata imprudenza di Achille, si ha quando, nell’Iliade, Achille vorrebbe lancia379 380 186 Saggezza e dolcezza: Odisseo Come ha correttamente sostenuto L. Zoja, «in fondo, la forza di Ulisse sta in una facoltà molto semplice. Egli ha sempre presente l’alternativa, l’altra possibilità [...]. Ci viene ripetuto che egli rappresenta il bisogno di scoperta, che è prototipo dell’uomo occidentale di ogni tempo, con la sua frenesia di innovazione. Ma più profetico ancora è il suo bisogno di continuità da traslocare nel nuovo, di rinnovamento da non pagare con le macerie di casa. L’audacia esisteva già, ma mancava di un progetto e si spegneva con il suo stesso slancio [...]. Mentre Achille strepita, Ulisse silenziosamente distingue»382; del resto, «nell’Odissea la vittoria appartiene alla pazienza, al programma dispiegato fedelmente nel tempo; ma il suo alternarsi con le fiammate di episodi esaltanti non cessa mai. Nell’avventura Ulisse ha ferma in cuore la via del ritorno»383. A differenza di Polifemo, che animalescamente si accontentava di soddisfare i propri bisogni più elementari e non elaborava alcun sensato progetto di vita, umanamente Odisseo non si accontentò di placare il proprio ventre, ma ricercò sempre la propria felicità, grecamente mai disgiunta da quella sociale complessiva; in un certo senso come Socrate, Odisseo fu consapevole che non è necessario, per vivere bene, uscire dalla propria città e viaggiare, ma al contrario è preferibile rimanere lì ed avere cura della propria comunità. Che questa fosse l’idea di Odisseo lo ricordò, ad esempio, Mentore quando, agli Itacesi irriconoscenti nell’assemblea convocata da Telemaco, rammentò quanto fu «benevolo, amabile, mite» con loro Odisseo, «dolce come un padre» (Odissea, II, 230-234); allo stesso modo nell’Iliade tutti riconobbero che «Odisseo ci ha fatto mille volte del bene, dandoci buoni consigli» (II, 273-275). A valori competitivi ed agonali, propri forse di un’epoca precedente (o di un diverso ambiente), Odisseo preferì valori comunitari e collaborativi, confermando la tesi dell’umanesimo omerico. Il fulcro della comunità di Itaca comunque, per Odisseo, fu Penelope; fu infatti il ricordo di lei e di Telemaco a dare forza ad Odisseo durante tutto il viaggio di ritorno (Odissea, IX, 84; 94-97). Odisseo fu in effetti l’unico, a differenza dei suoi compagni più facili all’oblio, che pressore l’attacco ai Troiani senza nemmeno il pasto quotidiano; solo Odisseo, con il proprio argomentare, riuscì a farlo ragionare, facendogli comprendere che nessun uomo può affrontare un intero giorno di battaglia senza cibo in corpo (XIX, 155-304). Odisseo sapeva infatti bene che il ventre può essere «cane» quanto il cuore, ovvero che l’uomo è una unità psico-fisica (Odissea, VII, 216; XV, 343; XVII, 286, 473; XVIII, 53). 382 L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 107. 383 Ibidem, pag. 110. 187 i miti omerici ché sempre conservò il ricordo384. Anche Calipso, che pur offrendo ad Odisseo l’immortalità non riuscì a trattenerlo presso di sé, fu costretta ad ammettere che l’eroe voleva più di ogni altra cosa rivedere la propria moglie, che «desidera tutti i giorni» (V, 206-213), nonostante i pericoli che ancora il ritorno per mare gli avrebbe portato. Penelope è in effetti descritta, nell’Odissea, come dotata di ogni virtù: bella, saggia, fedele, dolce; ella è «la sposa diletta e virtuosa» (XXII, 232), che quando riconobbe Odisseo non seppe più «staccargli le braccia bianche dal collo» (XXII, 239-240); splendida è peraltro la sua entrata in scena nel primo canto, soave immagine di pudore e di delicatezza: «Ella discese l’alta scala del suo palazzo non sola, ma insieme con lei venivano due ancelle. E come, illustre fra le donne, venne al cospetto dei Proci, si fermò accanto allo stipite della porta della sala [...] tirandosi sulle guance uno splendido velo» (I, 328-335), richiedendo al contempo all’aedo di fermare il canto del kleos di Odisseo, «tale è l’uomo che io rimpiango ricordandomene senza fine» (I, 342)385. Non possiamo soffermarci molto sulla figura di Penelope, che pure lo meriterebbe386; diremo però che emblematico dell’umanesimo omerico è il suo riconoscere continuamente la saggezza e l’eticità dell’amato marito, che «non fece né disse mai cose cattive a nessuno del popolo» (IV, 250-251), e che fu sempre «il più saggio degli uomini in ogni cosa» (XXIII, 210-211)387. Vi è una tradizione, che risale ad Aristarco, che faceva concludere l’Odissea al verso 296 del canto XXIII, ossia dopo che Odisseo comunicò la profezia di Tiresia (XI, 119-137) a Penelope, con i due che si addormentano abbracciati; forse sarebbe stato meglio così. Tuttavia, da rimarcare è che fu soprattutto il valore di Odisseo ad aver fatto innamorare Penelope e ad Le stesse Muse cui si rivolge Omero sono figlie di Mnemosine (Iliade, II, 484-487). Atena stessa, così come Agamennone ed Anticlea nell’Ade, aveva rassicurato Odisseo sulla fedeltà di Penelope: «Ella siede e aspetta nella casa, mentre sempre piene di affanni a lei si consumano le notti e i giorni, ed ella non fa altro che versare lacrime» (XIII, 335338). 386 Vi è peraltro anche per Penelope una tradizione “denigratoria”, assai minoritaria, secondo la quale ella si sarebbe unita con tutti i Proci, senza attendere Odisseo; anche stavolta alcuni moderni si compiacciono di queste tradizioni per svilire gli antichi miti, o anche solo per ammiccare al pubblico contemporaneo (è ad esempio il caso di G. Giorello, nel suo libro in precedenza citato). 387 Così affermava Penelope: «Tutto il mio fascino e la mia bellezza gli dèi immortali distrussero, quando gli Argivi si imbarcarono per Ilio, e insieme con loro partiva il mio sposo Odisseo. Se egli tornasse e si prendesse cura della mia vita, grande sarebbe la mia gioia» (XVIII, 251-253). 384 385 188 Saggezza e dolcezza: Odisseo aver mantenuto costante il suo amore per oltre venti anni; se Odisseo infatti non fosse stato un uomo giusto, questo amore forse non sarebbe sopravvissuto. Tutto ciò mostra come la giustizia sia realmente un importante (forse il più importante) tratto caratterizzante dell’umanesimo omerico, come la figura di Odisseo chiarisce in abbondanza. Quello per cui «mai un uomo dovrebbe essere ingiusto» è in effetti un contenuto variamente ripreso nell’Odissea (ad esempio XVIII, 141). Ma, soprattutto, molteplici sono gli episodi che vedono Odisseo rapportarsi al tema della giustizia: al ciclope Polifemo, che divorò i suoi compagni, egli rimproverò infatti in primo luogo di essere «senza giustizia» (IX, 132), così come «senza giustizia» (VI, 120) temette fosse Scheria, non appena vi approdò senza conoscerne le istituzioni (analogamente pensò di Itaca, quando vi giunse senza ancora averla riconosciuta, XIII, 201). Massimamente «giusto» lo descrive la moglie Penelope all’araldo Medonte (IV, 686-693), e questo capita nell’Odissea a pressoché tutti coloro che lo conobbero. L’immagine, dunque, di un Odisseo “menzognero” e “fraudolento” risulta da scartare; in questo senso, come ha ben rilevato Eva Cantarella, la figura di Odisseo si affianca addirittura a quella di Zeus: «Nei poemi esistono un dio ed un eroe giusto, o, quanto meno, un dio ed un eroe che affiancano alle altre virtù, non senza contraddizione, la virtù della giustizia: e sono rispettivamente Zeus ed Odisseo»388. Gli epiteti che nel testo sono più volte rivolti ad Odisseo sono peraltro eloquenti: «accorto», «divino», «costante», «magnanimo», «giusto». Un sentimento di giustizia, in Odisseo, accompagnò tutti i suoi gesti di coraggio. Quando ad esempio, nel canto XI dell’Iliade, si fermò a soccorrere Diomede – che peraltro descrisse Odisseo come amato da Atena per la sua pietà e la sua saggezza – ferito dalla freccia di Paride, non esitò un momento a farlo, ma si accorse così facendo di essere rimasto solo in campo avverso; celebri le parole della sua riflessione: «E rimase solo Odisseo, nella lancia famoso, e nessuno degli Argivi accanto a lui, perché tutti li aveva ghermiti il panico. E in un impeto di cruccio, egli 388 E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, op. cit., pag. 148. Zeus fu in effetti il dio che punì i Proci per i loro soprusi (Odissea, I, 376-380), quello che «tutti vede i mortali dall’alto, e castiga chi pecca» (XIII,213-214); che punisce gli uomini che «con prepotenza contorte sentenze sentenziano» (Iliade, XVI, 387). Gli Achei, del resto, «le leggi in nome di Zeus mantengono salde» (Iliade, I, 238-239). Rinviamo, per una più ampia panoramica sulla figura di Zeus nel pensiero greco, ed in particolare nel teatro tragico, a L. Grecchi, La filosofia politica di Eschilo, op. cit. 189 i miti omerici disse al suo magnanimo cuore: Povero me, che cosa devo fare? Grande malanno se fuggirò temendo la moltitudine dei nemici; ma sorte ancor più triste mi attende, se sarò circondato» (XI, 401-406). Significativo è che, anche in una simile circostanza, egli pensò non al proprio vantaggio (peraltro qui coincidente con la propria salvezza personale), bensì al comportamento più nobile da tenere, concludendo in questo modo il suo rapido monologo interiore: «È sbagliato dubitare ed ascoltare la lusinga della viltà. So che i vili si sottraggono alla battaglia, mentre colui che ha coraggio è necessario che rimanga saldo, sia che venga colpito, sia che colpisca un altro» (408-410). Odisseo, in questo frangente, fu ferito dai Troiani, ma conservò la vita ed al contempo il valore. La giustizia di Odisseo fu del resto sempre ripagata dai suoi compagni, e perfino dai suoi servi. Emblematico il caso di Eumeo («che aveva un animo incline alla pietà», XIV, 421), il quale mostrò la propria vicinanza ad Odisseo, oltre che supportandolo nell’azione contro i Proci, anche affermando, contro la smisurata tracotanza degli stessi, che «gli dèi beati non amano le azioni ingiuste, ma onorano la giustizia ed il retto operare degli uomini» (XIV, 83-84)389. Inutile rimarcare come anche Eumeo, specie nella splendida ospitalità che offrì al «mendico Odisseo» non ancora riconosciuto390, rappresenti uno dei tanti simboli dell’umanesimo omerico che in queste pagine abbiamo solo potuto accennare. Per molto tempo ancora, come immaginabile, potremmo dilungarci nell’argomentare l’umanesimo di Omero; pensiamo però ci si possa fermare qui, riassumendo in conclusione i risultati maggiori cui riteniamo di essere giunti con il nostro studio. Da notare che Eumeo, insieme ad Odisseo ed ai suoi compagni (e ad Anfinomo, l’unico dei Proci che Odisseo valutò di salvare), era fra i pochi che facevano sacrifici agli dèi (XIV, 420-421). Come ha ricordato giustamente P. Vidal Naquet, «il valore discriminante del sacrificio nell’Odissea [...] è criterio di umanità» (P. Vidal Naquet, Il cacciatore nero, op. cit., pag. 21). 390 «Straniero, mio costume è onorare gli ospiti, anche se ne vengano di più poveri di te; stranieri e mendicanti tutti vengono dal dio. Non si dice: piccola elemosina, grande gioia? Per quanto poco io possieda, ti darò tutto ciò che posso» (XIV, 45-59). 389 190 concLusioni Come abbiamo rimarcato nella introduzione, al di là degli studi specialistici, un libro su Omero, oggi, si può ancora giustificare per due motivi: a) se esso analizza ed ordina l’insieme della sterminata letteratura su Omero; b) se esso propone, basandosi sullo stato dell’arte della letteratura, una interpretazione originale di Omero. Nel nostro tempo, in cui si fa cultura prevalentemente in università, testi di tipo a e di tipo b tendono ad essere redatti dalle stesse persone, ossia da accademici; costoro sono quasi sempre molto informati e metodici (dunque buoni redattori di testi di tipo a), ma sono spesso poco originali e creativi (dunque non buoni redattori di testi di tipo b). Il nostro libro tende ad essere un testo di tipo b, e dunque, per verificare se l’esito dello stesso (l’interpretazione originale di alcuni punti importanti dell’opera di Omero) sia riuscito, è doveroso in ultimo sintetizzarne le tesi principali. Esse sono: 1) La continuità, sul piano etico-educativo, fra l’opera di Omero ed il successivo pensiero classico, caratterizzata dalla centralità dei contenuti umanistici (nel senso qui delineato). 2) La specificità, nell’umanesimo omerico, dell’utilizzo di «modelli umani» (positivi e negativi) per proporre una concezione etico-educativa incentrata sulla misura e sulla benevolenza; 3) La priorità, in conformità al contesto storico-sociale omerico (agricolo-artigianale anziché, come spesso si ritiene, bellico-mercantile), non di una cultura agonalecompetitiva, bensì di una cultura comunitaria-collaborativa, comprovata non soltanto nell’Odissea ma anche nell’Iliade. 191 Conclusioni 4) Una differente interpretazione del famoso episodio di Tersite, preso come esempio da studiosi liberali e marxisti per definire la cultura omerica come aristocratica; in base alla nostra interpretazione, il duro trattamento riservato da Odisseo a Tersite non dipese da motivi “classisti” (ossia dalla differente “classe sociale” dei due: differenza che non pesa infatti, ad esempio, nei rapporti fra Odisseo ed i suoi compagni), bensì dai modi scomposti della critica di Tersite, demotivanti ed in ultima analisi pericolosi per il bene comune, ossia per la salvezza dell’esercito greco. 5) La confutazione della tesi prevalente in base a cui, in Omero, non vi sarebbe alcuna concezione unitaria dell’uomo, bensì esclusivamente la rappresentazione di una molteplicità di funzioni psico-fisiche. Ad una attenta analisi dell’opera omerica, risulta infatti una concezione dell’uomo in cui sono presenti contenuti di “coscienza”, “personalità” e “responsabilità”. 6) La confutazione della tesi prevalente in base a cui, in Omero, gli dèi sarebbero in ultima analisi i responsabili delle azioni umane. La tesi non è corretta poiché, se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una società e ad una cultura teocentrica anziché ad una cultura umanistica, come risulta invece dalla prevalenza – qui argomentata – dei contenuti etici ed educativi nell’opera omerica. 7) La confutazione della tesi prevalente in base a cui il personaggio etico centrale dell’Iliade sarebbe Achille; in realtà, tale figura di riferimento fu Ettore, in quanto, come argomentato, centrali sul piano etico non furono i temi della forza e dell’eroismo, bensì i temi della misura e della comunità. 8) La confutazione della tesi prevalente, nel pensiero antico e moderno, secondo cui Odisseo sarebbe stato un «astuto ingannatore» ed un «imprudente esploratore». In base alla interpretazione qui fornita, Odisseo risulta invece essere personaggio etico ed educativo, modello centrale, nell’Odissea, dell’umanesimo omerico. 192 Conclusioni 9) La confutazione della tesi per cui la hybris riguarderebbe solo, nei poemi omerici, rapporti fra aristocratici; si tratta invece di una tematica di valore universale. 10) La conferma della attualità dell’umanesimo omerico in chiave anticrematistica e politica, dato che esso pone alcune critiche, e fornisce utili indicazioni, valide anche per il nostro tempo. Al lettore, ovviamente, la valutazione della solidità degli argomenti prodotti. 193 Bibliografia dei libri moderni citati AA.VV., Storia e civiltà dei Greci, Bompiani, Milano, 1974. AA.VV., Problemi di teoria del romanzo, Torino, 1976. AA.VV., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2010. Abbagnano N., Storia della filosofia, Utet, Torino, 1991. Accame S., Gli albori della critica, Esi, Napoli, s.d. Adkins A. 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W. 18, 66, 197 Dialettica dell’illuminismo 66, 197 Agamennone 25, 40, 57, 69, 74, 85, 89, 90, 91, 95, 106, 107, 108, 113, 127, 128, 129, 131, 132, 133, 134, 138, 141, 179, 182, 188 Agostino d'Ippona 63, 65 Confessioni [I, 14] 65 Aiace 80, 135, 144 Alcidamante 43 Alcinoo 47, 169, 170, 171 Alcmeone di Crotone 54 Alighieri, D. 65, 152, 176, 184 Inferno [IV, 88, 94-96] 176 Inferno [XXVI, 49-142] 176 Inferno [XXVI, 120-121] 152 Purgatorio [II, 80-81] 184 Althusser, L. 11 Anassagora 70 Anassimene 18 201 Indice dei nomi e delle opere Andromaca 141, 143, 182 Anfinomo 157, 158, 190 Anticlea 45, 183, 184, 188 Antinoo 158 Antistene 105, 151, 173 fr. 26 Mullach 173 Apollo 90, 96, 123, 131, 135, 144, 149, 185 Apollodoro 183 Arata, C. 195 Persona ed evidenza nella prospettiva classica 195 Archiloco 95 fr. 6 DK 95 Archimede 18 Arete 47, 91, 170 Argo 185 Aristarco 31, 56, 188 Aristofane 24, 93, 109 Rane [1008] 93 Rane [1030-1036] 24 Rane [1034-1036] 109 Rane [1035] 93 Aristotele 15, 18, 24, 31, 34, 48, 49, 50, 87, 92, 93, 95, 102, 103, 104, 106, 109, 122, 124, 149, 157, 195, 197 Etica Eudemia [1234 a 1-2] 50 Etica Nicomachea [III, 1-3] 69 Metafisica 24, 48, 49, 92, 102, 122 Metafisica [982 b 17-21] 48 Metafisica [1000 a 9-20] 49 Metafisica [1074 b1 ss.] 122 Metafisica [1078 b 17-18] 92 Metafisica [1093 a 26] 24 Poetica 31, 34, 103, 104, 109 Poetica [1459 a-b] 34 Politica [II, 1267 b 30 ss.] 149 Retorica [1378 b 23] 157 Arrigoni, G. 195 a cura di, Le donne in Grecia 195 Artemide 123, 132, 149 Astianatte 138, 141, 143 Ate 15 Atena 74, 75, 84, 90, 91, 96, 123, 133, 145, 148, 157, 169, 170, 171, 184, 185, 188, 189 202 Indice dei nomi e delle opere Atlante 164 Auerbach, E. 50, 195 Mimesis 50, 195 B Bachelard, G. 11 Bacone, F. 124 De sapientia veterum 124 Baldry, H. C. 129, 195 L’unità del genere umano nel pensiero greco 129, 195 Bardelli, N. 48, 195 La giurisdizione in Atene 48, 195 Basilio 65 Ad adolescentes, 4 65 Beni, G. 55, 195 La persona umana. Origine e metafisica 55, 195 Benveniste, E. 94, 195 Vocabolario delle istituzioni indoeuropee 94, 195 Berti, E. 21, 48, 63, 102, 124, 178, 195 A partire dai filosofi antichi 21, 63, 178, 195 In principio era la meraviglia 48, 195 Invito alla filosofia 102, 195 Storia della filosofia 124, 195 Beye, C. R. 26, 84, 121, 195 Letteratura e pubblico nella Grecia antica 26, 84, 121, 195 Bignone, E. 53, 195 Il libro della letteratura greca 53, 195 Boezio, S. 64, 65 De consolatione philosopiae [V, 2] 65 Boitani, P. 34, 195 L’ombra di Ulisse. Figure di un mito 195 Sulle orme di Ulisse 34, 195 Bona, G. 155, 195 Studi sull’Odissea 155, 195 Bonanni, M. 196 Il cerchio e la piramide. L’epica omerica e le origini del politico 196 203 Indice dei nomi e delle opere Bottin, L. 38, 196 Reciprocità e redistribuzione nella antica Grecia 38, 196 Bowra, C. M. 138, 196 L’esperienza greca 138, 196 Brelich, A. 81, 196 Gli eroi greci. Un problema storico-religioso 81, 196 Briseide 113, 127, 131, 137, 184 Broccia, G. 33, 196 La questione omerica 33, 196 Buffière, E. 173, 196 Les mythes d’Homère et la pensée grecque 173, 196 Burckhardt, J. 14, 15, 18, 136 Storia della civiltà greca 14 C Calcante 131, 179 Calipso 64, 148, 150, 161, 164, 165, 167, 169, 183, 185, 188 Callino 34 Campbell, J. 124, 196 Il potere del mito 124, 196 Cancrini, A. 61, 196 Syneidesis. Il tema semantico della Con-scientia nella Grecia antica 61, 196 Canfora, L. 11, 25, 33, 38, 47, 196 Storia della letteratura greca 25, 33, 38, 196 Cantarella, E. 38, 46, 47, 67, 68, 70, 73, 80, 81, 99, 179, 181, 182, 184, 189, 196 Itaca 46, 68, 70, 73, 81, 99, 179, 182, 196 Norma e sanzione in Omero 38, 184, 189, 196 Capizzi, A. 123, 196 La repubblica cosmica 123, 196 Casella, amico di Dante Alighieri 184 Casertano, G. 21, 196 Morte 196 Cassanmagnago, C. 44, 45, 49 Introduzione a Esiodo. Tutte le opere e i frammenti 44, 45, 49 Cassiodoro 65 Variarum [I, 39] 65 204 Indice dei nomi e delle opere Caut, R. 31, 119, 196 Breve introduzione a Omero 31, 119, 196 Cerri, G. 177, 183 Chirone 136 Ciccotti, E. 47, 196 Storia greca 47, 196 Cicerone, M. T. 152, 167, 177, 185 De finibus [II, 29, 48] 178 [V, 18, 49] 152 [V, 48-49] 167 Ciclopi 95, 113, 121, 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 169, 170, 171, 173 Circe 150, 161, 164, 165, 166, 167, 169, 177, 183 Citati, P. 177, 196 La mente colorata. Ulisse e l’Odissea 177, 196 Citti, V. 122 in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo. La metafora infinita 122 Clemente Alessandrino 65 Stromata, V, 1, 2 65 Clistene di Atene 12 Codino, F. 32, 53, 73, 86, 115, 196 Introduzione a Omero 32, 53, 73, 86, 196 Colli, G. 120, 196 La nascita della filosofia 120, 196 Crise 90, 128, 131, 185 Criseide 90, 128, 131 Crisippo 71 frr. 999 e 1000 Arnim 71 Crono 103 D Damasceno, G. 64 Dialect., c. 43 [in Migne, PG 94 col. 613] 64 D’Annunzio, G. 174 Da Re, A. 69, 196 Filosofia morale 69, 196 Darwin, C. 19 205 Indice dei nomi e delle opere D’Aubignac, F. H. 31 Conjectures academiques ou dissertations sur l’Iliade 31 Deifobo 145 Del Corno, D. 9 Letteratura greca 9 Del Grande, C. 62, 85, 139, 142, 196 Hybris 62, 85, 139, 142, 196 Democrito 62 fr. 297, 62 De Romilly, J. 23, 49, 50, 196 Compendio di letteratura greca 23, 196 La costruzione della verità in Tucidide 49, 50, 196 De Sanctis, G. 90, 196 Per la scienza dell’antichità 90, 196 Detienne, M. 40, 179, 196 a cura di, Il mito. Guida storica e critica 196 I maestri di verità nella Grecia arcaica 40, 179, 196 Diano, C. 140 Delta [4] 140 Diodoro Siculo 93 Diogene Laerzio 103 Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi Diomede 69, 84, 88, 122, 189 Dodds, E. 13 Dover, J. K. 95, 197 [VIII, 2] 103 [IX, 1] 103 [IX, 18] 103 La morale popolare greca all’epoca di Platone ed Aristotele 95, 197 Durante, M. 23, 32, 33, 119, 197 Sulla preistoria della tradizione poetica greca 24, 32, 33, 119, 197 206 Indice dei nomi e delle opere E Ecuba 45, 141 Edipo 78 Efesto 38, 103, 107, 123 Egisto 71, 80 Elena 91, 142, 144, 148, 163, 164, 185 Elios 80 Eliot, Th. S. 174 Elitis, O. 10 Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania 10 Enea 184 Engels, F. 180 Manifesto del partito comunista 180 Eolo 155 Epicuro 68, 69, 87 Epitteto 71 Enchiridion [III, 1, 38] 71 Era 133 Eraclito 2, 104, 173, 174 Allegorie omeriche, 70 173 Ercole 176 Erinni 133 Ermes 165 Erodoto 34, 155, 162, 197 [IV, 177-178] 162 Eschilo 91, 137 Esiodo 15, 16, 18, 24, 43, 44, 45, 48, 49, 90, 95, 103, 114, 123, 124, 132, 134, 165 Erga [202-212] 44 Opere e giorni 43 Opere e giorni [8, 214] 134 Opere e giorni [16, 202] 123 Opere e giorni [38 ss.] 132 Opere e giorni [277-279] 15 Teogonia [1017-1018] 165 Ettore 15, 25, 44, 45, 64, 70, 80, 89, 90, 108, 127, 128, 129, 133, 135, 136, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 182, 184, 187, 192, 200 Eugammone di Cirene 183 Eumeo 94, 147, 149, 170, 190 Eurìalo 171 Euriclea 91, 136, 158 Euriloco 166 207 Indice dei nomi e delle opere Eurimaco 158 Euripide 39, 78, 137, 143, 176 Ciclope [vv. 115-116] 39 Ecuba 176 Ifigenia in Aulide 137, 176 Ippolito 78 Troiane 176 Troiane [vv. 721-723] 143 Eustazio 165 F Farrington, B. 71, 197 Lavoro intellettuale e lavoro manuale nella antica Grecia 197 Faust 121 Feaci 47, 94, 148, 149, 155, 157, 165, 169, 170, 171 Fenice 101, 136 Ferrari, A. 77, 83, 84, 197 Dizionario di mitologia 77, 84, 197 Feuchtwanger, L. 177 Ulisse e i maiali 177 Fichte, J. G. 19 Finley, M. 37, 197 La Grecia dalla preistoria alla età arcaica 37, 197 Foscolo, U. 137, 225 Foucault, M. 11 Frankel, H. 51, 57, 58, 63, 197 Poesia e filosofia della Grecia arcaica 51, 57, 58, 197 Fusaro D. 64, 95, 133, 162, 176, 224 I Greci che dunque siamo 64, 95, 176 Marx e la schiavitù salariata 162 208 Indice dei nomi e delle opere G Galilei, G. 19 Galimberti, U. 49, 53, 125, 197 Filosofia e Biografia 125, 197 Gli equivoci dell’anima 53, 197 I miti del nostro tempo 197 Gardner, H. 123, 197 Intelligenze multiple 123, 197 Gastaldi, S. 101, 102, 108, 109, 110, 136, 197 In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica 102, 108, 109, 110 Introduzione alla storia del pensiero politico antico 136, 197 Gerolamo, San (Sofronius Eusebius Hieronymus) 65 Ep. Ad Nep. [52, 3] 65 Ghidini Tortorelli, M. 149, 150, 197 Miti e utopie nella Grecia antica 149, 150, 197 Gigante, M. 43, 129, 197 Nomos Basileus, in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo 43, 129, 197 Gilgamesh, Mitico re dei Sumeri, quinto re di Uruk 175, 197 Giorello, G. 175, 197 Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito 175, 197 Goethe, J. W. 178 Gozzano, G. 174 Grecchi, L. 9, 12, 13, 15, 16, 17, 20, 21, 24, 25, 31, 37, 45, 46, 53, 63, 64, 67, 70, 81, 95, 111, 125, 133, 150, 152, 176, 178, 189, 195, 197, 200 A partire dai filosofi antichi 21, 63, 178, 195 Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? 21 Conoscenza della felicità 24, 31 Diritto e proprietà nella Grecia classica 43, 178 Filosofia e Biografia 125, 197 Gli stranieri nella Grecia classica 81, 94, 139, 152 I Greci che dunque siamo 64, 95, 176 Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici greci, per la buona vita 45 Il necessario fondamento umanistico della metafisica 24 Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti 125 La filosofia della storia nella Grecia classica 20, 25, 71, 150 La filosofia politica di Eschilo 67, 189 L’anima umana come fondamento della verità 24 L’umanesimo della antica filosofia cinese 46 L’umanesimo della antica filosofia greca 21, 53, 55, 71 L’umanesimo della antica filosofia indiana 46 L’umanesimo della antica filosofia islamica 46 L’umanesimo di Aristotele 15, 21 209 Indice dei nomi e delle opere L’umanesimo di Platone 21 L’umanesimo di Plotino 21, 37, 38, 40 Occidente: radici, essenza, futuro 20, 133 Sulla verità e sul bene 21, 70, 111, 178, 200 Gschnitzer, F. 197 Storia sociale della antica Grecia 197 Guidorizzi, G. 10, 13, 15 Storia ed antologia della letteratura greca 10 H Hartog, F. 81, 82, 197 Lo specchio di Erodoto 81, 82, 197 Havelock, E. 58, 59, 99, 197 Cultura orale e civiltà della scrittura 58, 197 Hegel, G. W. F. 11, 14, 17, 20, 61, 101 Lezioni di storia della filosofia 61 Heidegger, M. 49 Herbert G. 225 Horkheimer, M. 18, 66, 197 Dialettica dell’illuminismo 66, 197 Hume, D. 24 Humphreys, S. C. 148, 197 Saggi antropologici sulla Grecia antica 148, 197 I Igino 181 Favole [95] 181 Ippia 142 Encomio di Elena 142 Ippodamo di Mileto 149 210 Indice dei nomi e delle opere J Jaeger, W. 9, 22, 26, 53, 59, 62, 92, 99, 100, 101, 102, 119, 120, 148, 180, 197 Paideia 22, 53, 59, 62, 92, 100, 102, 119, 120, 148, 180, 197 Jellamo, A. 43, 71, 176, 197 Il cammino di Dike 43, 71, 176, 197 Joyce, J. 174, 177 Jung, C. G. 124 K Kant, I. 17, 83 Kavafis, K. 9 Kerenyi, K. 51 Klug, W. 23 Anregung 23 L Laerte 154, 156, 166, 183 Laodamante 170 Latacz, J. 23, 83, 197 Omero. Il primo poeta dell’Occidente 23, 83, 197 Lavoisier, A.-L. 19 Lesky, A. 68, 73, 80, 128, 136, 173, 197 Storia della letteratura greca 68, 73, 80, 128, 136, 173, 197 Lestrigoni 39, 95, 121, 150, 151, 155, 156, 169, 170 Leveque, P. 12 Levi, M. A. 11 Il senso della storia greca 11 Licaone 138 Lo Schiavo, A. 21, 67, 86, 198 Omero filosofo 21, 67, 86, 198 Lotofagi 150, 151, 155, 161, 162, 163, 166, 183 Löwith, K. 20 Luciano di Samosata 33 Var. Hist. [II, 50] 33 Lyotard, J.-F. 19 211 Indice dei nomi e delle opere M Magris, A. 40, 50, 71, 76, 79, 122, 134, 198 L’idea di destino nel mondo antico 40, 50, 71, 76, 79, 122, 134, 198 Manuli, P. 54, 198 Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico 54, 198 Maritain, J. 64 Martellotti, G. 176 Omero, in Enciclopedia dantesca [IV] 176 Marx, K. 11, 16, 17, 20, 66, 162, 180 Manifesto del partito comunista 180 Marzullo, B. 32, 198 Il problema omerico 32, 198 Maso, S. 68, 123, 198 Lingua philosophica graeca. Dizionario di greco filosofico 68, 123, 198 Mazzarino, S. 89, 198 Fra Oriente e Occidente 89, 198 Mc Intyre, A. 19 Medonte 189 Mele, A. 38, 40, 45, 46, 47, 157, 198 Il commercio greco arcaico: praxis ed emporie 157, 198 Società e lavoro nei poemi omerici 38, 40, 46, 198 Menelao 77, 94, 132, 141, 142, 148, 170, 185 Mentore 187 Mimnermo 78 fr. 2 Diehl 78 fr. 6 DK 78 Minuccio Felice 65 Octavius [23, 2] 65 Miralles, C. 37, 198 Come leggere Omero 37, 198 Mnemosine 188 Moire 82, 133 Mondin, B. 61, 74, 198 Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale 74, 198 Storia della metafisica 61, 198 Mondolfo, R. 48, 50, 53, 62, 68, 70, 74, 75, 198 Gli albori della filosofia in Grecia 50, 198 La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica 62 Moralisti greci. La coscienza morale da Omero ad Epicuro 48, 68, 70, 74, 75 Problemi del pensiero antico 53, 198 212 Indice dei nomi e delle opere Montanari, F. 27, 198 a cura di, Omero 3.000 anni dopo 27, 198 Montanelli, I. 174, 198 La storia dei greci 174, 198 Mounier, E. 64 Murray, G. 31, 32, 33, 90, 93, 119, 137, 198 Le origini dell’epica greca 32, 33, 90, 93, 119, 137, 198 Museo 24, 183 Musti, D. 21, 38, 198 Introduzione alla storia greca 38, 198 N Napolitano Valditara, L. 99 in AA.VV., Enciclopedia filosofica 99 Nausicaa 64, 91, 94, 147, 148, 164, 169, 170, 171 Neottolemo 138, 143, 183 Nestle, W. 50, 198 Storia della religiosità greca 50, 198 Nestore 94, 137, 170, 185 Newton, J. 19 Nicosia, S. 122, 129, 177, 181, 183, 198 a cura di, Ulisse nel tempo. La metafora infinita 122, 129, 177, 181, 183, 198 Nietzsche F. W. 12, 14, 15, 17, 18, 49, 86, 225 O Odifreddi, P. 153, 198 Le menzogne di Ulisse 153, 198 Odisseo 23, 25, 34, 38, 39, 40, 45, 47, 57, 61, 64, 67, 69, 71, 72, 73, 74, 80, 84, 85, 88, 90, 91, 92, 94, 95, 97, 101, 113, 120, 122, 123, 125, 127, 129, 133, 135, 136, 137, 144, 146, 147, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 161, 162, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 192, 195, 196, 197, 198 213 Indice dei nomi e delle opere Omero 9, 10, 12, 13, 17, 20, 21, 22, 24, 25, 26, 31, 32, 33, 34, 37, 39, 40, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 53, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 80, 81, 83, 84, 86, 87, 88, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 119, 120, 122, 123, 124, 128, 130, 133, 134, 135, 137, 139, 142, 146, 149, 150, 151, 153, 155, 156, 158, 162, 166, 167, 172, 173, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 184, 186, 188, 191, 192, 195, 196, 197, 198, 199 Iliade 10, 22, 31, 32, 34, 37, 44, 47, 50, 53, 57, 60, 66, 67, 70, 72, 83, 89, 90, 91, 92, 95, 99, 100, 103, 107, 108, 115, 119, 120, 127, 128, 129, 130, 132, 138, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 163, 176, 182, 185, 186, 187, 189, 191, 192, 200 Iliade [I, 20] 131 Iliade [I, 25] 131 Iliade [I, 29] 131 Iliade [I, 34-39] 131 Iliade [I, 70] 131 Iliade [I, 91] 48 Iliade [I, 115-116] 131 Iliade [I, 118 ss.] 46 Iliade [I, 127] 131 Iliade [I, 137-139] 131 Iliade [I, 160] 132 Iliade [I, 169-171] 132 Iliade [I, 184-187] 131 Iliade [I, 194] 84 Iliade [I, 202] 85 Iliade [I, 207] 138 Iliade [I, 214] 85 Iliade [I, 231] 132 Iliade [I, 238-239] 189 Iliade [I, 287-289] 133 Iliade [I, 315-322] 107 Iliade [I, 357] 45, 144 Iliade [I, 443] 101 Iliade [I, 574] 86 Iliade [II, 1-4] 86 Iliade [II, 19] 130 Iliade [II, 164] 122 Iliade [II, 180] 122 Iliade [II, 211-277] 85 Iliade [II, 212 178] Iliade [II, 212 ss.] 178 Iliade [II, 217-219] 179 Iliade [II, 273-275] 187 Iliade [II, 278-332] 178 Iliade [II, 363 ss.] 106 Iliade [II, 412-418] 141 214 Indice dei nomi e delle opere Iliade [II, 484-487] 188 Iliade [II, 594 ss.] 33 Iliade [II, 681-694] 135 Iliade [III, 15-37] 141 Iliade [III, 59] 74 Iliade [III, 64-66] 141 Iliade [III, 69] 44 Iliade [III, 154-165] 82 Iliade [III, 164-167] 142 Iliade [III, 171-180] 142 Iliade [III, 320-322] 142 Iliade [III, 351-354] 141 Iliade [III, 390-420] 82 Iliade [III, 453] 142 Iliade [IV, 256] 122 Iliade [IV, 349 ss.] 40 Iliade [IV, 361] 184 Iliade [V] 84 Iliade [V, 82] 79 Iliade [V, 124-126] 61 Iliade [VI, 55-60] 132 Iliade [VI, 123-127] 61 Iliade [VI, 146] 78 Iliade [VI, 242] 130 Iliade [VI, 297] 130 Iliade [VI, 369-439] 143 Iliade [VI, 523] 142 Iliade [VII, 74-86] 144 Iliade [VII, 350] 142 Iliade [VII, 487] 74 Iliade [VIII, 18-25] 132 Iliade [VIII, 41-46] 56 Iliade [VIII, 428] 86 Iliade [VIII, 470-483] 96 Iliade [IX, 17-25] 96 Iliade [IX, 18] 133 Iliade [IX, 69] 131 Iliade [IX,101] 35 Iliade [IX, 166] 48 Iliade [IX, 442-443] 136 Iliade [IX, 498] 88 Iliade [IX, 628-629] 135 Iliade [XI, 264-272] 61 Iliade [XI, 653 ss.] 138 Iliade [XI, 763] 137 Iliade [XI, 781-790] 135 215 Indice dei nomi e delle opere Iliade [XIII, 71-73] 79 Iliade [XIII, 277] 88 Iliade [XIII, 631-635] 96 Iliade [XIV, 90-94] 179 Iliade [XIV, 170-189] 56 Iliade [XIV, 294 ss.] 108 Iliade [XIV, 414-418] 61 Iliade [XV, 193] 123 Iliade [XV, 490-492] 79 Iliade [XV, 642] 88 Iliade [XVI, 212] 130 Iliade [XVI, 387] 189 Iliade [XVI, 849] 77 Iliade [XVI, 857 ss.] 106 Iliade [XVII, 248-251] 46 Iliade [XVII, 321] 74 Iliade [XVII, 418] 79 Iliade [XVII, 466-467] 78 Iliade [XVIII, 35] 45, 144 Iliade [XVIII, 79-82] 63 Iliade [XVIII, 112-114] 63 Iliade [XVIII, 310-313] 82 Iliade [XVIII, 487 ss.] 113 Iliade [XVIII, 497] 130 Iliade [XVIII, 497 ss.] 44 Iliade [XIX, 29-39] 56 Iliade [XIX, 78 ss.] 134 Iliade [XIX, 85-97] 82 Iliade [XIX, 86] 133 Iliade [XIX, 86-91] 15 Iliade [XIX, 136] 133 Iliade [XIX, 137-144] 133 Iliade [XIX, 155-304] 187 Iliade [XIX, 187] 77 Iliade [XIX, 300] 184 Iliade [XX, 30] 74 Iliade [XX, 242-243] 80 Iliade [XX, 291] 84 Iliade [XXI, 380] 86 Iliade [XXI, 461-468] 78 Iliade [XXI, 463] 86 Iliade [XXI, 517] 74 Iliade [XXII, 1-91] 145 Iliade [XXII, 64] 143 Iliade [XXII, 78 ss.] 45 Iliade [XXII, 96-130] 145 216 Indice dei nomi e delle opere Iliade [XXII, 100-107] 70 Iliade [XXII, 136-213] 145 Iliade [XXII, 261 ss.] 145 Iliade [XXII, 273-354] 145 Iliade [XXII, 297-305] 145 Iliade [XXIII, 94 ss.] 63 Iliade [XXIII, 574] 44 Iliade [XXIII, 685 ss.] 44 Iliade [XXIII, 712] 130 Iliade [XXIV, 22-119] 139 Iliade [XXIV, 40] 135 Iliade [XXIV, 44-45] 138 Iliade [XXIV, 95] 45 Iliade [XXIV, 128] 84 Iliade [XXIV, 226 ss.] 105 Iliade [XXIV, 411-415] 56 Iliade [XXIV, 485-517] 139 Iliade [XXIV, 511] 144 Iliade [XXIV, 517] 122 Iliade [XXIV, 518-533] 78 Iliade [XXIV, 735] 143 Iliade [XXIV, 767 ss.] 142 Odissea 7, 22, 23, 31, 32, 33, 34, 37, 40, 50, 53, 57, 60, 67, 71, 83, 89, 90, 91, 92, 94, 95, 99, 100, 107, 115, 120, 127, 129, 133, 136, 137, 142, 146, 147, 148, 149, 150, 156, 157, 158, 161, 163, 165, 166, 169, 171, 176, 177, 181, 182, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 195, 196, 200 Odissea [I, 3] 172 Odissea [I, 4-5] 181 Odissea [I, 5 ss.] 174 Odissea [I, 11-15] 181 Odissea [I, 23 ss.] 149 Odissea [I, 32-43] 71 Odissea [I, 32 ss.] 70, 105 Odissea [I, 48-50] 186 Odissea [I, 56] 164 Odissea [I, 56-7] 123 Odissea [I, 57-59] 186 Odissea [I, 76-79] 186 Odissea [I, 102 ss.] 170 Odissea [I, 187-189] 182 Odissea [I, 328-335] 188 Odissea [I, 342] 188 Odissea [I, 376-380] 189 Odissea [I, 386 ss.] 156 Odissea [II, 42] 113 Odissea [II, 42-49] 46 217 Indice dei nomi e delle opere Odissea [II, 47] 184 Odissea [II, 188] 92 Odissea [II, 230-234] 184, 187 Odissea [II, 231] 92 Odissea [II, 270-273] 61 Odissea [III, 23] 122 Odissea [III, 33-35] 94 Odissea [III, 82] 113 Odissea [III, 82 ss.] 46 Odissea [III, 84] 122 Odissea [III, 91 ss.] 170 Odissea [III, 121-145] 142 Odissea [III, 140] 122 Odissea [III, 177] 183 Odissea [III, 277] 92 Odissea [III, 355] 94 Odissea [III, 464-469] 56 Odissea [IV, 1 ss.] 170 Odissea [IV, 30-36] 94 Odissea [IV, 105-108] 151 Odissea [IV, 250-251] 188 Odissea [IV, 253-264] 142 Odissea [IV, 314 ss.] 46 Odissea [IV, 417 ss.] 105 Odissea [IV, 686-693] 189 Odissea [IV, 696] 92 Odissea [IV, 711] 92 Odissea [V, 9] 92 Odissea [V, 13-14] 165 Odissea [V, 39-40] 171 Odissea [V, 81-84] 165 Odissea [V, 82-84] 185 Odissea [V, 151-152] 165 Odissea [V, 206-213] 188 Odissea [V, 209-210] 165 Odissea [V, 365] 186 Odissea [V, 424] 186 Odissea [VI, 11-12] 169 Odissea [VI, 15-16] 169 Odissea [VI, 117-121] 169 Odissea [VI, 118] 186 Odissea [VI, 120] 189 Odissea [VI, 149-183] 170 Odissea [VI, 187] 170 Odissea [VI, 190-193] 170 Odissea [VI, 194] 170 Odissea [VI, 203] 170 218 Indice dei nomi e delle opere Odissea [VI, 206-208] 170 Odissea [VI, 244-245] 170 Odissea [VI, 310-315] 170 Odissea [VI, 511] 122 Odissea [VII, 32-33] 171 Odissea [VII, 86, 522] 144 Odissea [VII, 89 ss.] 169 Odissea [VII, 132 ss.] 156 Odissea [VII, 156] 92 Odissea [VII, 165-177] 170 Odissea [VII, 216] 187 Odissea [VII, 308-310] 44 Odissea [VII, 309-310] 95 Odissea [VIII, 30-40] 171 Odissea [VIII, 62 ss.] 33 Odissea [VIII, 145-157] 171 Odissea [VIII, 158-164] 170 Odissea [VIII, 159-164] 157 Odissea [VIII, 166-177] 171 Odissea [VIII, 222] 39 Odissea [VIII, 390 ss.] 47 Odissea [VIII, 396-412] 171 Odissea [VIII, 586] 92 Odissea [IX, 34-46] 182 Odissea [IX, 37] 181 Odissea [IX, 37-39] 185 Odissea [IX, 84; 94-97] 187 Odissea [IX, 89, 191] 39 Odissea [IX, 91-93] 162 Odissea [IX, 94-97] 162 Odissea [IX, 106] 155 Odissea [IX, 112-115] 151 Odissea [IX, 132] 189 Odissea [IX, 163] 45 Odissea [IX, 174-176] 151 Odissea [IX, 187-190] 151 Odissea [IX, 212-215] 151 Odissea [IX, 273-278] 152 Odissea [IX, 281] 92 Odissea [IX, 281-286] 153 Odissea [IX, 287 ss.] 169 Odissea [IX, 352] 74 Odissea [IX, 366] 186 Odissea [IX, 421-422] 153 Odissea [IX, 431-436] 154 Odissea [IX, 476-479] 154 Odissea [IX, 501-505] 154 219 Indice dei nomi e delle opere Odissea [IX, 523-525] 154 Odissea [X, 101] 39 Odissea [X, 114-120] 155 Odissea [X, 151] 186 Odissea [X, 191] 155 Odissea [X, 233-243] 56 Odissea [X, 235-236] 166 Odissea [X, 472-474] 165 Odissea [X, 515] 62 Odissea [XI, 61] 79 Odissea [XI, 85-87] 183 Odissea [XI, 119-137] 188 Odissea [XI, 126-34] 183 Odissea [XI, 134-149] 183 Odissea [XI, 193-195] 184 Odissea [XI, 197-203] 184 Odissea [XI, 202-203] 182 Odissea [XI, 206-212] 184 Odissea [XI, 401-406] 190 Odissea [XI, 408-410] 190 Odissea [XI, 445-446] 183 Odissea [XI, 488-491] 79 Odissea [XI, 489 ss.] 106 Odissea [XI, 558] 130 Odissea [XII, 39-46] 167 Odissea [XII, 137-141] 166 Odissea [XII, 167] 130 Odissea [XII, 188] 92 Odissea [XII, 297-302] 166 Odissea [XIII, 72 ss.] 84 Odissea [XIII, 201] 189 Odissea [XIII, 213-214] 189 Odissea [XIII, 335-338] 188 Odissea [XIII, 354] 39 Odissea [XIII, 405] 92 Odissea [XIV, 45-59] 190 Odissea [XIV, 45 ss.] 170 Odissea [XIV, 56 ss.] 169 Odissea [XIV, 83-84] 94, 190 Odissea [XIV, 139] 184 Odissea [XIV, 420-421] 190 Odissea [XIV, 421] 190 Odissea [XIV, 433] 92 Odissea [XIV, 509] 74 Odissea [XV, 70] 44, 95 Odissea [XV, 343] 187 Odissea [XV, 403-411] 149 220 Indice dei nomi e delle opere Odissea [XV, 485 ss.] 84 Odissea [XV, 526] 62 Odissea [XV, 557] 92 Odissea [XVI, 118] 165 Odissea [XVI, 183 ss.] 169 Odissea [XVI, 204-205] 185 Odissea [XVI, 215] 144 Odissea [XVI, 247 ss.] 158 Odissea [XVI, 259] 130 Odissea [XVII, 152] 62 Odissea [XVII, 286] 187 Odissea [XVII, 321-323] 92 Odissea [XVII, 397-410] 158 Odissea [XVII, 431 ss.] 85 Odissea [XVII, 454-7] 158 Odissea [XVII, 473] 187 Odissea [XVII, 565] 156 Odissea [XVIII, 53] 187 Odissea [XVIII, 112-157] 85 Odissea [XVIII, 125-128] 157 Odissea [XVIII, 130-131] 78 Odissea [XVIII, 136-142] 80 Odissea [XVIII, 141] 189 Odissea [XVIII, 251-253] 188 Odissea [XVIII, 257-270] 185 Odissea [XVIII, 381-386] 158 Odissea [XVIII, 482 ss.] 169 Odissea [XIX, 248] 92 Odissea [XIX, 536] 158 Odissea [XX, 13-30] 67 Odissea [XX, 92] 62 Odissea [XX, 264 ss.] 46 Odissea [XX, 345-386] 85 Odissea [XXI, 117] 186 Odissea [XXI, 412] 158 Odissea [XXI, 413-416] 158 Odissea [XXII, 232] 188 Odissea [XXII, 239-240] 188 Odissea [XXII, 303] 77 Odissea [XXII, 413] 79 Odissea [XXIII, 62 ss.] 169 Odissea [XXIII, 210-211] 188 Odissea [XXIII, 296] 188 Odissea [XXIV, 226-240] 185 Odissea [XXIV, 472-6] 91 Odissea [XXIV, 502 ss] 56 221 Indice dei nomi e delle opere Orazio [Quinto Orazio Flacco] 177 Epistole [I, 2, 17-18] 177 Oreste 137, 182 Orfeo 24 Otto, W. F. 9, 50, 73, 79, 80, 82, 198, 199 Gli dèi della Grecia 50, 198 Theophania. Lo spirito della religione greca antica 73, 79, 82, 199 Ovidio [Publio Ovidio Nasone] 176 Metamorfosi 176 P Paci, E. 49, 199 Storia del pensiero presocratico 49, 199 Palamede 185 Paoli, U. E. 106, 199 Studi sul processo attico 106, 199 Parche 72 Pareti, L. 84, 199 Omero e la realtà storica 84, 199 Paride 137, 141, 142, 189 Pascoli, G. 183 Il sonno di Odisseo 183 L’ultimo viaggio 183 Pasquale, G. 49 a cura di, Miscellanea di studi in onore di Umberto Galimberti 49 Pasquali, G. 63, 72, 130, 178 Enciclopedia italiana 63 La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima 72 Pagine stravaganti 178 Patroclo 64, 107, 127, 135, 136, 137, 138, 144, 184 Pausania 183 Peleo 135, 136, 138, 139, 183 Penelope 45, 64, 91, 120, 122, 147, 148, 156, 158, 164, 165, 183, 185, 187, 188, 189 Pericle 16 Petrarca, F. 176 Trionfo della fama, 17-18 176 Pfeiffer, R. 199 Storia della filologia classica 199 222 Indice dei nomi e delle opere Pilade 137 Pindaro 72, 82, 176 Nemea [VI] 82 Pirrone 78 fr. 20 Decleva-Caizzi 78 Pitagora 11, 58, 104 Platone 9, 18, 22, 24, 45, 48, 57, 58, 59, 62, 65, 75, 87, 90, 91, 93, 95, 97, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 113, 124, 133, 149, 151, 179, 180, 181, 197, 199 Apologia di Socrate [41 a] 24 Cratilo [391 D] 113 Ione 100, 105, 110 Ione [531 B] 110 Leggi [680 a-b] 151 Leggi [700 A ss.] 109 Leggi [811 C ss.] 105 Leggi [816 A] 101 Leggi [887 D] 102 Liside 100, 110 Liside [213 E] 110 Repubblica 48, 59, 75, 91, 93, 97, 101, 102, 105, 109, 100, 110, 133, 136, 179, 180, 181 Repubblica [II] 100 Repubblica [III] 100 Repubblica [X] 100, 133 Repubblica [376 E] 101 Repubblica [377 B] 102 Repubblica [377 D] 102 Repubblica [378 E] 105 Repubblica [386 B] 102 Repubblica [387 b] 48 Repubblica [401 B] 102 Repubblica [472 C] 105 Repubblica [600 E] 181 Repubblica [603 C-605 A] 181 Repubblica [606 E ss.] 109 Repubblica [617 E] 75 Repubblica [620 C-D] 181 Repubblica [620 C] 179 Plotino 21 Pohlenz, M. 26, 54, 62, 71, 72, 73, 74, 78, 121, 156, 199 La libertà greca 72, 199 L’uomo greco 54, 62, 74, 78, 121, 156, 199 Polanyi, K. 87 Polifemo 151, 152, 153, 154, 186, 187, 189 Porfirio 105 Questioni omeriche 105 223 Indice dei nomi e delle opere Poseidone 95, 122, 132, 133, 151, 153, 154, 173 Pound, E. 174 Preve, C. 20, 21, 115, 178 Lettera sull’umanesimo 21, 115 Priamo 15, 64, 89, 128, 139, 141, 142, 144, 145, 182 Proci 41, 47, 71, 76, 80, 91, 95, 120, 136, 147, 150, 151, 156, 157, 158, 164, 169, 173, 183, 186, 188, 189, 190 Prometeo 174, 175, 197 R Rahner, H. 65, 199 Miti greci nella interpretazione cristiana 65, 199 Reale, G. 49, 53, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 79, 80, 96, 199 Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone 56, 57, 58, 59, 61, 79, 80, 96, 199 Storia della filosofia antica 49, 53, 199 Rohde, E. 78, 80, 199 Psyche 78, 199 Rosmini, A. 64 Rossi, L. E. 115 in AA.VV., Storia e civiltà dei greci 115 S Scarpat, G. 31, 119, 196 Breve introduzione a Omero 31, 119, 196 Scheria 189 Senofane 25, 103, 104 Severino, E. 121, 199 La filosofia antica 121, 199 Shakespeare, W. 178, 225 Sikes, E. E. 108, 199 The Greek View of Poetry 108, 199 224 Indice dei nomi e delle opere Simonide 78 fr. 9 DK 78 Sirene 147, 150, 155, 161, 164, 167, 168, 183 Snell, B. 57, 69, 89, 95, 114, 199 La cultura greca e le origini del pensiero europeo 57, 69, 95, 199 Poesia e società 89, 114, 199 Socrate 9, 13, 17, 19, 22, 48, 50, 59, 63, 92, 101, 187 Sofocle 78, 176 Aiace 176 Edipo a Colono 78 Filottete 176 Solone 18, 22, 75, 78, 136 [fr. 3] 75 [fr. 15 DK] 78 Stazio 137 Achilleide 137 Stefanini, L. 63, 65 voce Persona, in AA.VV., Enciclopedia filosofica 63, 65 Stenzel, J. 9, 49, 62, 199 Platone educatore 49, 62, 199 Storoni Mazzolani, L. 73, 199 Profili omerici 73, 199 Storoni Piazza, A. M. 75, 112, 113, 199 Ascoltando Omero 75, 112, 113, 199 Svenbro, J. 75, 199 La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca 75, 199 T Talete 18 Tasso, T. 176 Gerusalemme liberata [XV, 25-26] 176 Teagene di Reggio 49, 105 Telegono 165 Telemaco 45, 94, 142, 156, 170, 181, 185 Teognide 123 Elegie [I, 254] 123 Elegie [I, 437] 123 225 Indice dei nomi e delle opere Tersite 23, 40, 57, 85, 107, 178, 179, 192 Tertulliano 65 Ad nationes [I, 10] 65 Apologeticus [XIV, 4] 65 Teti 45, 135, 136 Timoteo 109 Tiresia 166, 183, 188 Tucidide 9, 34, 49, 93, 196 I, 22 93 Turolla, E. 176, 199 Saggio sulla poesia di Omero 176, 199 U Untersteiner, M. 123 V Valgimigli, M. 99, 199 Poeti e filosofi in Grecia 99, 199 Vattimo, G. 15 Vegetti, M. 11, 15, 31, 54, 66, 67, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 100, 101, 102, 105, 108, 109, 110, 178, 198, 199 a cura di, Platone. Repubblica 101, 102, 105, 108, 109, 110, 199 Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico 54, 198 Guida alla lettura della Repubblica di Platone 100, 199 Introduzione a L. Grecchi, Conoscenza della felicità 31 L’etica degli antichi 67, 87, 88, 90, 91, 92, 178, 199 Vernant, J. P. 49, 81, 122, 199, 200 L’individu, la mort, l’amour 81, 200 Mito e pensiero presso i Greci 49, 123, 199 Veyne, P. 79, 200 I greci hanno creduto ai loro miti? 79, 200 Vico, G. B. 19, 20, 34, 124, 174, 225 Scienza Nuova 34, 124 Vidal-Naquet, P. 149, 166, 167, 190, 200 Il cacciatore nero 149, 167, 190, 200 226 Indice dei nomi e delle opere Vigna, C. 21, 70, 111, 178, 200 Sulla verità e sul bene 21, 70, 111, 178, 200 Virgilio [Publio Virgilio Marone] 184 Eneide [II, 792-794] 184 Eneide [VI, 700 ss.] 184 Volpi, F. 124, 195 Storia della filosofia 124, 195 W Weber, M. 24 Weil, S. 88, 90, 200 La Grecia e le intuizioni precristiane 88, 200 Williams, B. 66, 200 Shame and Necessity 66, 200 Wolf, F. A. 31, 32 Prolegomena ad Homerum 31 X Xanto 138 Z Zambarbieri, M. 25, 47, 76, 82, 83, 90, 91, 94, 119, 170, 183, 185, 200 L’Iliade com’è 25, 83, 90, 119, 200 L’Odissea com’è 76, 82, 91, 94, 170, 183, 185, 200 Zefiro 130 Zeller, E. 64 Zeus 15, 47, 70, 71, 75, 76, 91, 95, 96, 103, 113, 122, 132, 133, 139, 141, 144, 145, 152, 154, 165, 170, 184, 189 Zoja, L. 67, 78, 90, 138, 143, 144, 145, 157, 164, 165, 182, 183, 186, 187, 200 Il gesto di Ettore 138, 143, 144, 145, 157, 165, 182, 183, 186, 187, 200 Storia dell’arroganza 67, 78, 90, 200 227 ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio. marGherita Guidacci Sommario Prefazione di Costanzo Preve...................................................................................... 9 Introduzione .............................................................................................................. 21 Parte Prima – Il pensIero omerIco La questione omerica ................................................................................................ 31 Il contesto storico-sociale omerico .......................................................................... 37 Omero, Esiodo e la filosofia ..................................................................................... 43 L'umanesimo omerico .............................................................................................. 53 La centralità dell'etica omerica ................................................................................ 87 Omero educatore ....................................................................................................... 99 Tra etica e politica.....................................................................................................111 Parte seconda – I mItI omerIcI Educazione e mito ................................................................................................... 119 Iliade.......................................................................................................................... 127 Tracotanza e avidità: Agamennone ................................................................ 131 Coraggio e ferocia: Achille............................................................................... 135 Comunità ed etica: Ettore ................................................................................ 141 Odissea ..................................................................................................................... 147 Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci ........................................ 151 Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene .................................... 161 Ospitalità e benevolenza: Feaci ....................................................................... 169 Saggezza e dolcezza: Odisseo ......................................................................... 173 Conclusioni .............................................................................................................. 191 Bibliografia dei libri moderni citati ............................................................................ 195 Indice dei nomi e delle opere....................................................................................... 201 229 il giogo 01. Luca Grecchi, La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio. 02. AA. VV., Sumbállein. Riflessioni sugli scritti di Umberto Galimberti. Federico Bordonaro, L’età della tecnica? Appunti di lettura di «Psiche e Techne» – Michele Marolla, Dalla crisi della ragione alla coscienza simbolica. Esposizione e osservazioni critiche intorno al saggio di U. Galimberti, «La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo» – Franco Toscani, Sacro, tecnica, etica nel pensiero di Umberto Galimberti – Diego Melegari, Dall’equivoco alla possibilità – Alberto Giovanni Biuso, Corpo e Tempo – Costanzo Preve, Marx e Heidegger. Pervasività della tecnica e critica culturale al capitalismo nei due classici ed in alcuni loro interpreti contemporanei – Giuseppe Bailone, La malattia genetica del marxismo. Obiezioni al Marx e Heidegger di Costanzo Preve – Giuseppe Bailone, I vizi di Galimberti e il peccato di Aracne. 03. Umberto Galimberti – Luca Grecchi, Filosofia e Biografia. 04. Luca Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino. 05. Luca Grecchi, Corrispondenze di metafisica umanistica. 06. Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico della metafisica. 07. Costanzo Preve – Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci. 08. AA. VV., Dialettica oggi. Costanzo Preve, Elogio della filosofia. Fondamento, verità e sistema nella conoscenza e nella pratica filosofica dai greci alla situazione contemporanea – Giuseppe Bailone, La verità si può mettere ai voti? – Enrico Berti, Si può parlare di una evoluzione della dialettica platonica? – Mario Vegetti, La dialettica nella Repubblica di Platone – Domenico Losurdo, Contraddizione oggettiva e analisi della società: Kant, Hegel, Marx - Giovanni Stelli, Alcune osservazioni sulla dialettica hegeliana – Nello De Bellis, Note a margine sulla dialettica di Hegel – Alberto Giovanni Biuso, Dialettica e benedizione. Sull’antropologia greca di Friedrich Nietzsche – Michele Marolla, Riflessioni sull’attualità della dialettica. 09. Luca Grecchi, Conoscenza della felicità. Premessa di Mario Vegetti. 10. Luca Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti. Presentazione di Carmelo Vigna. 11. Costanzo Preve, Storia della Dialettica. 12. Marino Gentile, La metafisica presofistica. Con una Appendice su “Il valore classico della metafisica antica”. Introduzione di Enrico Berti. 13. Costanzo Preve, Storia dell’Etica. 14. Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea. 15. Luca Grecchi, Il presente della filosofia italiana. 16. Costanzo Preve, Storia del Materialismo. 17. Giovanni Casertano, La nascita della filosofia vista dai Greci. 18. Mario Vegetti, Scritti con la mano sinistra. 19. Diego Fusaro, Incursioni nella filosofia moderna. 20. AA. VV., Filosofia ed estetica. Franco Toscani, Poesia e pensiero nel «tempo di privazione». In cammino con Hölderlin e Heidegger – Donato Sperduto, Eschilo in G. D’Annunzio, E. Severino e L. Grecchi – Costanzo Preve, L’estetica di Lukács fra arte e vita. Considerazioni storiche, politiche e filosofiche – Diego Fusaro, Per una teoria dell’arte in Marx – Alberto Giovanni Biuso, «Abbiamo l’arte per non naufragare nella verità». Sull’estetica dionisiaca di Nietzsche – Diego Stea, Popolarizzazione e rifunzionalizzazione della musica colta – Michele Marolla, Estetica e modernità secondo Benedetto Croce – Franco Toscani, Il riso di Zarathustra. Prospettivismo e benedizione nel Nietzsche di Alberto Giovanni Biuso – Ottavia Spisni, Vedere senza vedere – Monia Nicolaci, L’interpretazione come modello di razionalità – Roberto Signorini, Alle origini del fotografico. 21. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia greca. 22. Paola Manulli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. 23. Luca Grecchi, L’umanesimo di Platone. 24. Luca Grecchi, L’umanesimo di Aristotele. 25. Luca Grecchi, L’umanesimo di Plotino. 26. Luca Grecchi, Il filosofo e la vita. I consigli di Platone e dei classici Greci, per la buona vita. 27. Augusto Cavadi, Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore. 28. Ernesto Screpanti, Marx e il contratto di lavoro: dall’astrazione naturale alla sussunzione formale. 29. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia cinese. 30. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia indiana. 31. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia islamica. 32. AA. VV., Filosofia e politica. Che fare? Intenzioni – costanzo Preve, La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi – andré toseL, I diritti dell’uomo e i livelli dell’universale. Aporie della mediazione – denis coLLin, Per una critica dell’economia politica – Giacomo Pezzano, Filosofi(a) e politica (?). Breve storia di un rapporto controverso – domenico Losurdo, I «Protocolli dei Savi dell’Islam» ovvero come si costruiscono le leggende nere – carmeLo viGna, Politica e speranza – enrico berti, Per una nuova società politica – dieGo fusaro, La gabbia d’acciaio: Max Weber e il capitalismo come destino – ernesto screPanti, Marx e il contratto di lavoro: dall’astrazione naturale alla sussunzione formale – mario veGetti, La filosofia e la città: processi e assoluzioni – franco toscani, Speranza e utopia nel pensiero di Ernst Bloch – federico Leonardi, La Repubblica di Platone. Il tiranno e il filosofo: una affinità elettiva – micheLe maroLLa, Benedetto: politica, filosofia, fede nel tempo della crisi – aLberto Giovanni biuso, Oltre liberalismo e socialismo – marceLLo barison, Critica della produzione immateriale – auGusto cavadi, La filosofia-in-pratica. Una discussione lacustre – donato sPerduto, Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto – Luca tonetti, I filosofi e la politica: che fare? Nuova filosofia del fare: azione e riflessione nella politica di oggi – costanzo Preve, Il saggio di Luca Grecchi Occidente: radici, essenza, futuro. Un convincente esercizio di filosofia della storia – danieLa benvenuti, Il saggio di A. Sangiacomo: Scorci. Ontologia e verità nella filosofia del Novecento – auGusto cavadi, Il saggio di N. Pollastri: Consulente filosofico cercasi. 33. Rodolfo Mondolfo, Gli albori della filosofia in Grecia. Introduzione di Giovanni Casertano. 34. Chiara Tinnirello, Singolarità estetica. Prassi mimetiche tra arte e filosofia da Nietzsche a Nancy. Introduzione di Giuseppe Frazzetto. 35. Luca Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci. In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele. 36. Luca Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica. 37. Luca Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo. 38. Giuseppe Quaresima, La globalizzazione e le nuove teorie dell’imperialismo.Una rassegna critica. 39. Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene. Presentazione di Enrico Berti. Postfazione di Costanzo Preve. 40. AA. VV., Bene comune. – Intenzioni – enrico berti, Il bene – carmeLo viGna, Per una metafisica del bene comune – PieranGeLo sequeri, Agorà / Oltre il dialogo. Sfida congiunta alla passioni tristi – dieGo fusaro, Quale comune? Per una critica del marxismo deleuziano di Toni Negri – davide GaLLo Lassere, Lo statuto della critica. Per una ricostruzione filosofica dell’ultimo quarantennio – costanzo Preve, Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia – Giovanni casertano, Il bene e la linea – franco toscani, Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele – maurizio scarPari, La concezione dell’essere umano nella filosofia cinese – aLessandro monchietto, Connivenza con l’insensatezza. Fatalismo, speranza e schiavitù nel pensiero di Diego Fusaro – Giacomo Pezzano, Contributo alla critica della giuridsizione umanitaria del bene comune a partire dal diritto romano – cLaudio Lucchini, Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi – Lorenzo dorato, Relativismo e universalismo astratto: le due facce speculari del nichilismo. Bene e Verità come concetti “rivoluzionari” alla base di un universalismo sostanziale e di una critica radicale del capitalismo – costanzo Preve, Gli antichi, i moderni, l’umanesimo e la storia. Alcuni rilievi a partire dagli ultimi lavori di Luca Grecchi e di Diego Fusaro. 41. Luca Grecchi, Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo. 42. Alessandro Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica. 43. Luca Grecchi, L'umanesimo di Omero. EGERIA Letteratura, arte, pensiero d’Europa Scrittrici del Novecento europeo. K. boye - G. manzini - e. LasKer-schüLer v. WooLf - s. WeiL - m. cvetaeva. Interventi di: D. Marcheschi - M. Ghilardi - U. Treder - M. Del Serra G. Fiori - C. Graziadei. La Minima. Due atti di maura deL serra, con una nota di Daniela Marcheschi. Novanta. Verso un’arte di pensiero, di amedeo aneLLi. e. abbozzo - G. bai - s. cardinaLi - a. cavaLieri - a. cesari f. de bernardi - f. fedi - G. Gini - s. nihLèn - c. rosi - f. scatoLi m. traini - W. Xerra. Prose e interviste di marGherita Guidacci. a cura di Ilaria Rabatti. Di poesia e d’altro - vol. I, di maura deL serra. m. maddaLena - JacoPone - L. deLLa robbia - W. shaKesPeare G. herbert - J. i. de La cruz - G. b. vico - u. foscoLo c. coLLodi - f. nietzsche. Le poesie di simone WeiL, a cura di Maura Del Serra EGERIA Poeti del Novecento europeo. G. traKL - a. achmatova - t. s. eLiot f. G. Lorca - P. PaoLo PasoLini e. söderGran. Interventi di: R. Carifi - M. Colucci - R. Sanesi - A. Melis M. Del Serra - D. Marcheschi. Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot, di marGherita Guidacci. A cura di Ilaria Rabatti. Di storia in storia: la biblioteca italiana di Hjalmar Bergman, di yrJa haGLund. Il Segugio del Cielo e altre poesie, di francis thomPson. A cura di Maura Del Serra. Drammaturghi del Novecento europeo. h. ibsen - L. PirandeLLo - a. camus - b. brecht - s. becKett. Interventi di: G. Antonucci - M. Argenziano - U. Ronfani - L. Zagari - K. Elam. Di poesia e d’altro - vol. II, di maura deL serra. f. thomPson - a. Panzini - e. LasKer-schüLer d. camPana - a. onofri - v. s. soLov’ëv. Vita di Vittoria Colonna di isabeLLa teotochi aLbrizzi a cura di Adriana Chemello (La Vita di Vittoria Colonna di Isabella Teotochi Albrizzi. Le consonanze di una sorellanza elettiva). filo di perle ain zara magno, Parole d’amore. A cura di I. Rabatti. Luisa giaConi, Dalla mia notte lontana. A cura di I. Rabatti. margherita guidaCCi, La voce dell’acqua. Quaderno di traduzioni, a cura di G. Battaglia e I. Rabatti [autori tradotti: William Blake, Hilda Doolitle, Thomas S. Eliot, Gabriela Mistral, Richard Eberhart, Robert Frost, Archibald MacLeish, Ezra Pound, Tu Fu, Mao Tse-tung, Federico García Lorca, Vicente Aleixandre, Jorge Guillén, Cristopher Smart, Marie Under, Kathleen Raine, Henrik Visnapuu, Francis Thompson, Czeslaw Milosz, Elizabeth Bishop, John Keats]. Luisa giaConi, A fiore dell’ombra. Le poesie, le lettere, gli inediti. A cura di M. Brotto. CeCíLia meireLes, Misura del significato e altre poesie. A cura di S. Masin. soPhia de meLLo Breyner andresen, Corpo a corpo e altre poesie. A cura di S. Masin. Stampa: Global Print s.r.l., Via degli Abeti 17/1 20064 GORGONZOLA (MI)