il giogo
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Collana diretta da Luca Grecchi
«ıpou gàr ’scùV suzugoüsi kaì díkh,
poía xunwrìV tÖnde karterwtéra;»
Eschilo, Frammento 267.
«tòn páqei máqoV qénta kuríwV êcein»
Eschilo, Agamennone, 177.
«xumjérei swjroneïn Îpò sténei»
Eschilo, Eumenidi, 520.
«oûpw swjroneïn ”pístasai»
Eschilo, Prometeo, 982.
In copertina:
Scena dal libro XXIV dell'Iliade:
Il corpo di Ettore riportato a Troia,
rilievo su sarcofago romano (180-200 ca.).
Museo del Louvre (Ma 353 o MR 793), dalla collezione Borghese.
In quarta di copertina:
Francesco Primaticcio, detto il Bologna,
Ulisse e Penelope, Fointainebleau, Galleria di Ulisse.
Luca Grecchi,
L'Umanesimo di Omero.
ISBN 978-88-7588-061-3
Copyright
2012
editrice
petite plaisance
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e-mail:
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Chi non spera quello
che non sembra sperabile
non potrà scoprirne la realtà,
poiché lo avrà fatto diventare,
con il suo non sperarlo,
qualcosa che non può essere trovato
e a cui non porta nessuna strada.
Eraclito
Luca Grecchi
L' umanesimo di omero
petite plaisance
A Bene
«Tu sai quale sia il mio animo,
saldo e non avvezzo a cedere;
ebbene, io resisterò
come sa resistere una roccia dura,
o un blocco di ferro».
Odissea, XIX, 494-495.
Prefazione
«Per essere stato tante volte ripetuto, non è comunque meno vero
che la civiltà europea nasce dalla civiltà greca, e da questa ha ricevuto le
forme essenziali del pensiero e dell’espressione». Così inizia la sua notevole Letteratura greca Dario Del Corno (Principato, Milano, 1988). Ed
è veramente così. E tuttavia, queste verità devono essere sempre “rammemorate”, perché vengono sistematicamente dimenticate. Il lettore mi
perdonerà se, all’inizio di questa prefazione al saggio di Grecchi, mi
concederò un piccolo ricordo personale.
Verso la metà degli anni Sessanta ero ad Atene con una borsa di studio, per fare studi di cultura, storia, filosofia e lingua greca antica, ma
soprattutto di neoellenistica, e cioè di greco moderno, quello che oggi si
parla nell’agorà di Atene (che non è più la vecchia agorà socratica, luogo
oggi archeologico ben conservato, ma è assai più la moderna Piazza
della Costituzione, in cui si incontrano gli ateniesi per le loro proteste
politiche). Il nostro insegnante insisteva sul fatto che la conoscenza dei
dialetti antichi dorico, ionico ed eolico era importante solo per i professori di greco antico, mentre il vero punto cruciale che doveva entrarci
in testa ad ogni costo era la continuità e l’unicità della lingua greca
da Omero a Kavafis. Questa continuità e questa unicità faceva da base
linguistica espressiva all’umanesimo greco, e questo dato era messo in
luce quando un signore chiamato Luca Grecchi non era neppure ancora
nato, ma esistevano già Otto, Stenzel, Jaeger, senza contare le decine
di studiosi che avevano già sostenuto questo nel corso dei secoli (sebbene, effettivamente, Grecchi svolga il proprio discorso con modalità
proprie). Come ha scritto giustamente Del Corno, una cosa non è meno
vera per essere stata tante volte ripetuta, dal momento che ogni generazione storica ed ogni individuo sensibile non riceve una eredità per
magica empatia, ma deve coscientemente riappropriarsene.
Il nostro insegnante, ora morto da tempo, sosteneva che l’eterna,
unica ed immortale lingua greca era passata attraverso cinque principali stadi: il primo, quello omerico; il secondo, quello classico di Socrate,
Platone e Tucidide; il terzo, la koinè ellenistico-romana, matrice diretta
del greco bizantino e di quello moderno; il quarto, il greco bizantino,
9
costanzo Preve
paradossalmente chiamato “romano” (romeyka, romyosyne); il quinto infine, il greco moderno propriamente detto, a partire dal Quattrocento
circa e dalla occupazione turca (turcokratia). E per farci capire la continuità umanistica ci leggeva insieme brani dell’Iliade e l’immortale poesia di Odisseas Elitis intitolata Canto eroico e funebre per il sottotenente
caduto in Albania (1940). Omero si sarebbe commosso, diceva, e si commuoveva anche lui, con le lacrime che gli scendevano sul viso, perché
anche suo fratello era caduto nella guerra del 1940-1941. Ricordo ancora con commozione alcuni versi a memoria: «Ma il sorriso si è bruciato,
ma la terra ha taciuto, ma nessuno ha ascoltato il grido ultimo, tutto il
mondo si è svuotato con l’ultimo grido […] così dunque un attimo, così
dunque un attimo dall’altro si è staccato, ed il sole di sempre, così a un
tratto si è staccato dal mondo!». Ed anche Omero avrebbe pianto, diceva, citandoci a memoria versi omerici di questo tipo, scritti (o meglio
pronunciati, e solo dopo scritti) oltre duemila e cinquecento anni prima.
Si tratta di ricordi di gioventù, indelebili.
Come è noto, ogni evento storico, e quindi anche poetico e letterario,
è sempre per sua intima natura una unione dialettica di continuità e di
rottura, di tradizione e di novità. Come ha rilevato Giulio Guidorizzi,
autore di una stupenda Storia ed antologia della letteratura greca (Einaudi
Scuola), la principale differenza fra la letteratura latina e quella greca, al
di là della priorità temporale della seconda, sta nel fatto che la cultura
latina è stata fin dall’inizio codificata nella scrittura, mentre quella greca ha avuto un inizio legato all’oralità ed alla sua funzione direttamente
paidetica, e cioè educativa. Il carattere paidetico della poesia omerica
è addirittura palese, e non è che uno dei tanti elementi trasmessi nella
posteriore cultura greca “classica”, il cui carattere paidetico mi sembra
difficilmente contestabile.
Qui stiamo parlando, ovviamente, dell’annoso problema della dialettica di continuità e discontinuità, permanenza e rottura fra la cultura omerica e la cultura greca “classica”. Omero stesso è stato un “personaggio di transizione”, perché parla di un’epoca in cui non aveva
personalmente vissuto (quella micenea), e nello stesso tempo è vissuto
prima della costituzione di quella forma non solo storico-politica, ma
anche culturale, chiamata polis greca classica. È impossibile stabilire
una volta per tutte se siano prevalenti i momenti di rottura o quelli di
continuità per una semplice ragione, che pur essendo semplice sfugge
quasi sempre all’interprete frettoloso, e cioè che l’enfatizzazione degli
elementi di rottura (o viceversa, di continuità) dipende fortemente dal
10
Prefazione
clima culturale e generazionale e dallo «spirito del tempo» (Zeitgeist)
degli studiosi.
La grande maggioranza degli studiosi universitari di oggi in Europa
Occidentale (ed in Italia particolarmente), ivi compresi gli antichisti ed
i filologi classici (Luciano Canfora e Mario Vegetti sono in proposito
esempi pertinenti), si è formata a cavallo degli anni Sessanta e degli
anni Settanta, un periodo storico caratterizzato dalla “fuga in avanti”
del futurismo rivoluzionario e delle sue illusioni palingenetiche, condite con un marxismo a volte storicista, a volte strutturalista (o entrambe le cose), che dava luogo ad un clima culturale soffocante incentrato
sulla retorica della “rottura” (pensiamo alla epistemologia di Bachelard
o al marxismo di Althusser, con le sue “rotture epistemologiche” tendenti a cancellare la solare evidenza della continuità fra Hegel e Marx).
Questo clima culturale era soprattutto anti-tradizionalista, anti-classicista, ed anche (sia pure con oscillazioni) anti-umanistico. Foucault serviva “ideologicamente” per detronizzare i baroni accademici precedenti,
spesso idealisti, gentiliani e crociani. In questo modo, anche i Greci ne
hanno fatto le spese.
Nessuno aveva mai contestato l’esistenza di un lato “irrazionalistico” della civiltà greca antica (pensiamo a Mario Attilio Levi, ed al
suo notevole Il senso della storia greca, Rusconi, 1979). Ma questo lato
irrazionalistico fu enfatizzato in forma addirittura grottesca. Sembrava
che i Greci non fossero stati anche e soprattutto il popolo del logos, ma
soltanto dei portatori furbacchioni della metis.
A fianco di questa orgia di irrazionalismo paranietzscheano, che
oggi sappiamo essere stato soprattutto funzionale al post-moderno filosofico, siamo stati soffocati da una politicizzazione senza precedenti
della stessa ricostruzione storiografica della civiltà greca e della stessa
filosofia greca. Luciano Canfora ci ha dottamente spiegato nei dettagli
che non ci fu mai una democrazia greca, e tantomeno un potere del
popolo (laokratia), ma sempre e solo una dittatura della famiglia degli Alcmeonidi attraverso manipolazioni demagogiche e populistiche
(una sorta di Berlusconi con maggior gusto estetico). Mario Vegetti è
giunto a ricostruire le vicende della filosofia greca attraverso la polarità
Destra/Sinistra, ovviamente filtrata simbolicamente nel linguaggio del
tempo, in cui alla Destra eterna della cultura dell’akropolis (spiritualista,
religiosa, aristocratica, ecc.) si opponeva la Sinistra eterna della cultura dell’agorà (materialistica, scientifica, dialogica, razionalistica, ecc.).
In questa riscrittura “antifascista” del mondo antico Pitagora era ov11
costanzo Preve
viamente collocato “a destra”, dimenticando un piccolo particolare, e
cioè che la stessa riforma ultra-democratica di Clistene di Atene, vero
inauguratore della polis propriamente detta, era ispirata a modelli apertamente pitagorici (Leveque, ecc.). Mi vergogno a dirlo, ma per anni,
da professore di filosofia, mi sono ispirato a questa impostazione antistorica. Ma non si sfugge, purtroppo, ai luoghi comuni della propria
generazione, ed io vengo dalla generazione più confusionaria della storia universale, quella dell’estremismo sessantottino anti-borghese nelle
intenzioni ed ultra-capitalistico nei risultati finali.
L’impostazione di Luca Grecchi (i cui difetti – pochi – ed i cui pregi
– molti – devono essere discussi a parte) annuncia un possibile nuovo
periodo storico, in cui (forse) la critica anti-crematistica alla illimitatezza della produzione capitalistica globalizzata non sarà più (forse) necessariamente accompagnata dalla retorica futuristica e dalla apologia
delle “rotture” (filologiche, epistemologiche, generazionali, di costume,
ecc.). Ho scritto due volte “forse” non certo per l’approccio di Grecchi,
che in tal senso non lascia dubbi, ma perché in generale non ne sono affatto sicuro. L’egemonia soffocante dei “discontinuisti” dura infatti tuttora, per il semplice fatto che dal 1960 al 1990 essi si sono impadroniti
“egemonicamente” della stragrande maggioranza degli apparati giornalistici, accademici, editoriali e mediatici. Le cose stanno lentamente
cambiando, ma per ora è meglio non dimenticare l’aristotelico detto
secondo cui «una rondine non fa primavera».
E passiamo ora allo “specifico” del libro di Grecchi, che parla opportunamente dell’umanesimo di Omero. Dal momento che condivido, nell’insieme e nei particolari, le sue argomentazioni, la strada mi è
spianata, e non c’è alcun bisogno che io ripeta e parafrasi qui quanto
egli dice con grande sobrietà e chiarezza. Mentre la koinè foucaultiananegrista troverà forse “ingenuo” e soprattutto “antiquato” il suo punto di vista, io invece ne sottolineo la radicale “inattualità”, osservando
(per una volta d’accordo con Nietzsche) che il termine di “inattualità”
è forse negativo nella moda, ma in filosofia ha un’accezione largamente
positiva. In un momento storico in cui l’attualità è miserabile, solo il
“radicalmente inattuale” è interessante e degno di studio e considerazione.
Il libro di Grecchi è diviso in due parti, la prima dedicata al pensiero
omerico nel suo complesso, e la seconda ad una analisi dei miti omerici
che dovrebbe “dimostrare” la tesi di fondo della prima parte, quella di
Omero umanista ed educatore dei Greci. Anziché riassumerli e para12
Prefazione
frasarli, ritengo più utile evidenziarne il significato profondo, partendo
dalla prima parte e passando poi alla seconda.
Se il nostro amico Luca Grecchi disponesse di una macchina del
tempo e potesse “sbarcare” nella Atene di Socrate, e cominciasse a sostenere la tesi di un Omero “umanista” e pedagogo dei Greci, gli verrebbe certamente risposto, in modo educato, con la nota parrhesia (sincerità) degli Ateniesi: «Caro ospite Celta (Grecchi è lombardo), tu ci stai
insegnando ciò che ogni bambino greco sa già perfettamente, e cioè che
Omero è un pedagogo umanista dei Greci! Siamo contenti che anche
nella valle dell’Eridano questo sia noto, ma sappi che da noi questo
equivale alla scoperta dell’acqua calda!».
Ciò merita un approfondimento. È noto (Dodds, ecc.) che esiste una
differenza fra cultura della vergogna (aidòs) e cultura della colpa, e che
la cultura omerica è una cultura della vergogna. Ettore si vergognerebbe di mostrare ai suoi concittadini che ha paura di affrontare Achille, ed
infatti lo affronta, con le note conseguenze. La cultura della vergogna è
una cultura comunitaria, almeno tanto quanto la cultura della colpa è
una cultura individualistica.
Guidorizzi chiarisce bene l’evoluzione semantica del termine virtù
(areté), e sottolinea come questa areté è da un lato una virtù individuale,
e soprattutto del guerriero valoroso (non importa se sconfitto, purché
sia morto valorosamente), e dall’altro lato un riconoscimento comunitario (il valoroso non perde mai la “faccia”, perché vive immerso in
una cultura della vergogna, aidòs). Quando progressivamente la virtù
diventò un concetto morale con cui si indicava una qualità interiore,
vale a dire la virtù di un “uomo buono” nel senso di uomo saggio, temperante e giusto, non ci fu una rottura con la concezione precedente
(come sostengono i “discontinuisti”), ma una integrazione, una estensione della società guerriera alla società politica (che peraltro restò
sempre anche una società guerriera, visto che chi discuteva nell’agorà
combatteva anche a Maratona ed a Salamina). Si ha qui (ma gli esempi
potrebbero essere moltiplicati) un esempio di continuità progressiva,
assai più che di radicale discontinuità.
Ho fatto prima scherzosamente notare che se l’Ospite Celta Grecchi
avesse potuto approdare nella Atene di Socrate, le sue tesi sull’umanesimo di Omero sarebbero state accolte come ovvie. Ho però anche rilevato che l’atmosfera culturale e politica “anti-umanistica” del periodo
storico 1956-1989 (e non parlo qui solo della tradizione marxista) ha potuto “silenziare” queste ovvie tesi, in nome di un parossismo futuristico
13
costanzo Preve
ed “agonale” che concepiva il socialismo come “lotta continua” contro
il “conformismo piccolo-borghese”. Devo in ogni caso “complicare”
questo schema interpretativo perché lo considero io stesso insufficiente
ed ispirato ad una polemica esistenziale di breve respiro. È bene infatti
andare più in profondità, e cercarne le radici genetiche originarie.
Hegel ha scritto che «l’uomo colto d’Europa, al nome Grecia, si sente
a casa propria». Magnifica espressione. Il segreto del nostro rapporto
con i Greci, che non possono e non potranno mai più ritornare perché
nel frattempo c’è stato in mezzo il cristianesimo, sta nel modo in cui ci
sentiamo a casa nostra con i Greci. Personalmente, non mi sono mai
sentito a casa mia nella Grecia allucinata di Nietzsche, e tantomeno in
quella sua caricatura che la riduce ad “agonalità”. Spieghiamoci meglio.
Il carattere di contesa connesso a tante manifestazioni pubbliche greche ha portato alla definizione (enunciata estesamente nella Storia della
civiltà greca di Jacob Burckhardt pubblicata nel 1902) dell’uomo greco
come di un “uomo agonale”, tutto proteso verso la sfida, in perenne
lotta contro se stesso e contro gli altri. Burckhardt si muove sull’onda
della visione superuomistica nietzscheana dei Greci, tenendo conto che
Nietzsche è stato una “porta girevole” sia verso il Superuomo (di destra) sia verso l’Oltreuomo (di sinistra), accomunati entrambi dalla negazione radicale del concetto di verità comunitaria. Una simile Grecia
ha la caratteristica di essere del tutto vuota di Greci, e di essere riempita
a piacere di turisti ospitati dal Club Mediterranée o di intellettuali decadenti ostili sia alla borghesia classica sia a quella caricatura subalterna
della borghesia classica formata dagli “intellettuali radicali di sinistra”.
In una simile Grecia è impossibile sentirsi a casa, per il semplice fatto
che una simile Grecia, inventata da Nietzsche e da Burckhardt, non è
mai esistita.
Non intendo affatto negare la presenza di componenti agonali nella
cultura greca, sia omerica che classica. L’agone sportivo (i Greci furono
i fondatori delle Olimpiadi) si estendeva ad agoni poetici, letterari, teatrali ed anche filosofici (sebbene io preferisca la dizione di “teatro del logos” per la filosofia dialogico-platonica). Questo però era caratteristico
di quasi tutte le civiltà umane. Persino i pellerossa americani avevano
agoni poetici e retorici, e le scuole filosofiche cinesi ed indiane, del tutto
estranee alla tradizione greca, si confrontavano in modo agonale. Ma di
qui ce ne passa per giungere ad una parossistica concezione agonale di
tutta la cultura greca.
14
Prefazione
Se proprio devo cercare “l’essenza” dell’uomo greco (ma personalmente sconsiglio fortemente questo approccio definitorio-limitativo),
allora la troviamo semmai in Esiodo (Opere e giorni, 277-279): «Ai pesci,
agli uccelli ed alle fiere è prescritto di divorarsi, perché non esiste giustizia (dike) fra di loro. Ma agli uomini Zeus diede giustizia, cosa di gran
lunga migliore». Guidorizzi fa notare correttamente che la Giustizia appare come il principio che deve regolare la società umana, nonché il
solo codice di comportamento degno di un essere umano. Nel pensiero
di Aristotele, di cui in un altro libro Grecchi aveva già mostrato il carattere umanistico1, la giustizia (dike) sta alla base del carattere normativo
attribuito al concetto di «natura umana», per cui l’uomo per «natura»
(physis) è un animale politico, sociale e comunitario (politikon zoon), ed
un animale dotato di linguaggio, ragione e soprattutto capacità di calcolo di giusta distribuzione comunitaria di oneri e di onori (zoon logon
echon). È anche importante notare (sempre Guidorizzi) che in Esiodo,
per la prima volta nel pensiero greco, il principio di giustizia viene collegato ad un sistema divino. La dike è infatti il prodotto della volontà
degli dèi, che la assegnano agli uomini come norma di civiltà.
Certo, l’uomo è anche preda della insensatezza (e cioè Ate, figlia
maggiore di Zeus: Iliade, XIX, 86-91, Ate che tutti fa errare). Ma l’insensatezza feroce apre uno squarcio nell’ordine divino del mondo, e
deve essere seguita dalla riconciliazione (esemplare è il colloquio fra
Achille e Priamo, che “pedagogicamente” conclude l’Iliade). Se seguissimo gli “agonali a tutti i costi”, l’Iliade dovrebbe terminare con Achille
che trascina il cadavere di Ettore intorno alle mura di Troia. Per consolare gli “agonali a tutti i costi”, si dovrebbe dimostrare che tutto il resto
dell’Iliade è una interpolazione umanistica posteriore. Viene da ridere,
ma purtroppo c’è poco da ridere: i discontinuisti agonali, “partiti” a
destra con Nietzsche e Burckhardt, sono infine “approdati” a sinistra
con Vegetti e Vattimo. Il giusto approccio della impostazione di Grecchi
costringe quindi ad un doloroso, ma necessario, riorientamento gestaltico di tutto il modo di percepire l’insieme dello spirito greco.
Limitarci a ripetere che la società omerica era molto diversa dalla
società della Grecia classica (ma quale? Forse che Atene e Sparta, pure
contemporanee, non erano due modi diversissimi di convivenza sociale e politica?) non ci fa avanzare di un millimetro nella comprensione
dei problemi. Anche uno studioso non specialista potrebbe elencare
1
L. Grecchi, L’umanesimo di Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia, 2008.
15
costanzo Preve
almeno dieci differenze importanti fra la società omerica e quella ateniese dell’età di Pericle. Vale invece la pena, se vogliamo prendere sul
serio le tesi “continuiste” di Grecchi, riesaminare la semantica delle due
complementari definizioni aristoteliche di natura umana, per vedere
meglio dove sta esattamente la “normatività” che le si può legittimamente attribuire.
Il significato fondamentale di politikon zoon non è quello di animale
politico o di animale sociale, ma di animale comunitario. Qui il diavolo
– come sempre – si nasconde nel dettaglio. Animale “politico” porta a
pensare che l’uomo, in quanto animale politico, debba necessariamente
occuparsi di politica, la qual cosa oggi è di fatto ridotta al voto. Noi
saremmo animali politici perché, essendo membri di un corso elettorale, scegliamo il solito “meno peggio” invece dell’astensione. Dire che
l’uomo è un animale “sociale” è giustissimo, ma in definitiva si limita a
ristabilire una ovvietà storica ed antropologica assoluta contro i teorici
dello scontro “agonale” di tutti contro tutti, e contro le varie forme di
individualismo che Marx chiamò “robinsoniano” e che oggi sono ideologicamente dominanti, perché l’attuale capitalismo finanziario globalizzato ha distrutto la maggior parte delle forme sociali vetero-borghesi
ed ha promosso su larga scala una figura antropologica sradicata ed
intimamente a-sociale, e cioè di fatto anti-sociale.
Dire invece che politikon zoon si traduce semanticamente come “animale comunitario” permette di impostare meglio la questione “normativa” della natura umana. Perché la comunità esista sono necessari tre
elementi, tutti indispensabili: la giustizia (dike), secondo la definizione
di Esiodo precedentemente riportata; la misura (metron), che non è altro
che l’applicazione pratico-sociale del concetto di giustizia, sia a livello
sociale che a livello individuale; ed infine appunto il logos, come anello
di congiunzione fra la giustizia e la misura, e cioè fra la dike ed il metron.
E come tradurre allora zoon logon echon? Dire soltanto che l’uomo è
un animale linguistico, come afferma gran parte della filosofia contemporanea, è del tutto fuorviante. Se così fosse i chiacchieroni sarebbero
gli uomini per eccellenza; e se il chiacchierone praticasse la dismisura
(apeiron), allora il retore ed il buon conservatore sarebbero gli uomini
per eccellenza! Inoltre, il linguaggio serve soprattutto per dire sciocchezze, e tutti gli etologi sanno che anche gli animali “parlano”, sia
pure generalmente in modo non verbale. Dire che l’uomo è un animale
razionale è anch’esso insufficiente, e non soltanto perché quasi sempre
si dimostra un animale irrazionale assai più che razionale, ma perché
16
Prefazione
la definizione non ci fa fare un solo passo avanti nell’individuazione
di che cosa propriamente vuol dire “ragione” (logos). Fate incontrare
prima Kant e Hegel, e poi Marx e Nietzsche, e toccherete con mano che
ognuno di loro è portatore di una concezione di “ragione” (logos) del
tutto incompatibile.
Dire invece che zoon logon echon si traduce semanticamente come
«animale capace per natura di calcolo sociale comunitario ispirato alla
giustizia ed alla misura», permette in buona parte non solo di ribadirne concretamente il carattere comunitario, ma di essere più vicini al
termine greco logos (da cui loghizomai, calcolare). L’uomo non ragiona
e non parla “a ruota libera”, ma si muove all’interno di un contesto
storico e sociale comunitario, che lo modella attraverso una particolare
educazione (paideia), ben diversa dall’”addomesticamento” animale. Il
tiranno addomestica, il cittadino si educa. Ma l’educazione non è che
un lungo calcolo del giusto e dell’ingiusto, il cui fine individuale è la
buona vita (eu zen), ed il cui fine sociale è l’equilibrio (isorropia) e la
concordia (omonoia).
Grecchi ha già analiticamente articolato questa impostazione nei
suoi numerosi libri dedicati alla filosofia greca. Mancava un bilancio
filosofico e non solo letterario di Omero, e Grecchi oggi ha colmato questa lacuna. Sarebbe del resto stato difficile da spiegare il passaggio da
un Omero nietzschiano e burckhardtiano, consegnato alla individualità
agonale feroce, ad una miracolosa Grecia successiva pienamente “umanistica”. Questa grecità sarebbe stata appunto un “miracolo” (il “miracolo greco” dei retori), che spunta come un fungo dopo la pioggia.
In realtà le “radici” della classicità sono pienamente omeriche, come i
Greci del tempo di Socrate sapevano già benissimo, e come Grecchi ha
correttamente riproposto.
Passiamo ora alla vexata quaestio del rapporto fra mythos e logos. Non
scendo qui volutamente nei dettagli delle analisi di Grecchi sui miti
omerici, che ho già detto di condividere. Preferisco riservare lo spazio
che mi resta ad una riflessione sul modo tradizionale con cui questa
questione è generalmente impostata, e cioè il cosiddetto “passaggio”
dal mythos al logos. Si tratta di una deformazione che chiamo della
“staffetta”. Nella civiltà umana, vista come stadiale e lineare, sulla base
dell’ideologia super-borghese del progresso (del tutto ignota ai Greci),
si corre una staffetta, il cui primo corridore si chiama mythos, che passa
il “testimone” al secondo corridore, chiamato logos. A sua volta il logos
passa anche lui attraverso due stadi: il primo è quello delle inconclu17
costanzo Preve
denti chiacchiere filosofiche, interminabili ed indimostrabili, ed il secondo è quello definitivo del pensiero scientifico, in cui l’umanità si
riconcilia con sé stessa all’interno di un laboratorio. È la storia umana
riscritta da Archimede Pitagorico, personaggio dei fumetti di Paperino.
Il lettore dirà che sto esagerando. Certo che sto esagerando, e me ne
sono accorto da solo. Ma qui ho messo in caricatura una concezione che
definirò di “fondamentalismo illuministico” (niente a che vedere con
l’illuminismo, di cui continuo a dare una valutazione complessivamente positiva – non mi si scambi per Horkheimer o Adorno!), che proietta
nel mondo dei Greci la concezione post-settecentesca di «ragione» (raison, reason, verstand) e così li uccide una seconda volta, dopo la prima
grande uccisione degli esagitati “agonali” Nietzsche e Burckhardt.
Spieghiamoci meglio. Secondo questa concezione anti-greca ci fu
prima il mythos, tipico modo primitivo e fanciullesco di ragionare, residuo della mentalità primitiva incapace di distinguere fra macrocosmo
naturale e microcosmo sociale; poi finalmente arrivò il logos, e cioè la
ragione, per cui non si ripeterono più le favolette della Teogonia, ma si
cominciò a fare “scienza scientifica”, per cui la terra deriva dall’acqua,
o dall’aria, ecc.. Meraviglioso! Non siamo ancora alla fisica, chimica e
biologia moderne, ma siamo già sulla buona strada! Ancora un passetto, chiamato “progresso”, ed arriveremo finalmente ai premi Nobel ed
al regno del “pensiero scientifico”!
Peccato però che le cose non siano mai state così. Platone, che pure in
teoria vuole sostituire il logos (concepito in senso rigorosamente geometrico-pitagorico, sia pure nella forma dialogica dell’agorà ateniese – non
si poteva essere pitagorici ad Atene nello stesso modo in cui lo si era
ad Elea o a Crotone) al racconto mitico, deve necessariamente passare
al mito quando vuole veramente far capire quanto intende comunicare
(ricordo qui soltanto il notissimo mito della caverna della Repubblica).
E questo non è un caso. Da sempre, i manuali di filosofia non fanno
iniziare il pensiero filosofico da Solone o da Esiodo, ma da Talete e dalla
sua acqua, per il semplice fatto che nella sua breve storia della filosofia
a lui precedente Aristotele usò il metodo espositivo della classificazione
delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale), e dal momento che volle cominciare dalla prima, quella materiale, iniziò appunto con Talete, Anassimene, ecc.. Avesse cominciato con la causa formale
anziché materiale, avrebbe cominciato con Pitagora e con Platone. Ma
perché insisto su questo pittoresco equivoco?
18
Prefazione
Vi insisto perché sfugge completamente il fatto storico-sociale che i
primi filosofi, erroneamente definiti presocratici (erroneamente perché
Socrate, rivolgendosi direttamente ai suoi concittadini, era in realtà l’ultimo dei presocratici), non erano se non in seconda battuta dei naturalisti, e cioè precursori artigianali di Galilei, Newton, Lavoisier e Darwin,
ma erano soprattutto legislatori comunitari, che per rendersi autorevoli
e credibili davanti ai loro concittadini dovevano necessariamente porsi
come indagatori della natura (physis), perché solo in questo modo potevano poi passare dalla “natura naturale” del macrocosmo alla “natura
sociale” dell’individuo e della comunità. Questo, e solo questo, significa il detto delfico e socratico «conosci te stesso» (gnothi se autòn). Non
potevano certo fare come i profeti ebraici, che diventavano autorevoli
nella loro comunità facendosi interpreti dei voleri divini e criticando la
rottura peccaminosa della “alleanza”. Dovremmo forse sprecare carta
per spiegare che, in assenza di una religione monoteistica rivelata attraverso libri sacri sottratti alle opinioni umane, i Greci non potevano
produrre profeti, ma solo poeti e filosofi?
Non esiste quindi rottura fra mythos e logos. Entrambi sono assai più
complementari e coesistenti che segmenti in successione temporale.
Nella corretta concezione comunitaria contemporanea di Alasdair Mc
Intyre gli uomini si collocano dentro una “narrazione” storica, ed il termine greco mythos significa appunto “narrazione”. È nel corso di questa necessaria narrazione che gli uomini sviluppano e concretizzano
progressivamente il concetto di giustizia (dike), che resterebbe del tutto
astratto ed inapplicato se non venisse nutrito della capacità “logica”
(loghistikè) di calcolo sociale comunitario e solidale.
Criticando il concetto di «grande narrazione» (grand récit) il pensatore post-moderno francese Lyotard ha gettato via il bambino con l’acqua
sporca. L’acqua sporca era sicuramente la grande narrazione storicistica a lieto fine prefissato, in cui un «soggetto pieno« (il proletariato salvifico) realizzava nella continuità della sua identità la realizzazione finale
(il comunismo) del suo progetto originario (il comunitarismo primitivo
unito allo sviluppo delle forze produttive). Questa grande narrazione
effettivamente cominciò a diventare «incredibile« verso la metà degli
anni Settanta in Europa. Ma con questa acqua sporca fu anche gettato
via il bambino della narratività filosofica del progetto di emancipazione
storica dell’umanità.
Si dirà che i Greci non potevano avere una filosofia della storia nel
senso moderno del termine (che nasce con Vico, e si sviluppa con Fichte,
19
costanzo Preve
Hegel, Marx ed i loro migliori successori novecenteschi), e neppure nel
senso necessariamente post-cristiano della secolarizzazione della escatologia giudaico-cristiana (Löwith, ecc.). Si tratta dello sviluppo delle
osservazioni che io stesso feci a Grecchi in un saggio a commento del
suo notevole libro intitolato La filosofia della storia nella Grecia classica
(Petite Plaisance, Pistoia, 2011). A quei tempi, però, non avevo ancora
letto questo suo saggio sull’umanesimo di Omero. Continuo a pensare
che una vera e propria filosofia della storia necessita di presupporre
due elementi fondanti (la secolarizzazione del monoteismo cristiano
e l’autoaffermazione della borghesia come classe dialetticamente contraddittoria, universalistica nel pensiero e sfruttatrice nei fatti economici). Ma alla luce della analisi di Grecchi dei miti e del loro rapporto con
il logos sono diventato maggiormente possibilista. L’uomo è inserito in
una narrazione comunitaria continua, anche in assenza di monoteismo
e di borghesia dialettica, e questa narrazione comunitaria continua può
essere chiamata «filosofia della storia» anche in assenza di un lessico
specialistico apposito.
Per concludere, direi che il lettore si trova di fronte ad un saggio
filosofico piano, documentato e convincente. Come ho già detto ripetutamente, non si tratta solo di ribadire il carattere “umanistico” della
poesia e del pensiero di Omero (nome collettivo per indicare un’intera
civiltà, come già perfettamente compreso da Gian Battista Vico) contro
i vari discontinuisti più o meno ferocemente conflittuali ed agonali, in
quanto questa tesi era già una ovvietà presso i veri Greci. Si tratta di
radicare più e meglio la nascita del pensiero occidentale, oggi messo
in pericolo da una «globalizzazione occidentalistica» che è infinitamente nemica dell’Occidente2. In definitiva, si tratta sempre e solo di
essere «ospitati» dai Greci e di sentirsi da loro come a casa propria.
Personalmente, ho cercato di farlo durante una intera vita, imparando la loro lingua nelle cinque versioni storiche successive. Non ho mai
smesso di imparare e di voler imparare. Devo dire che Luca Grecchi
qualcosa è riuscito ad insegnarmi.
Costanzo Preve
2
Grecchi stesso, peraltro, lo ha messo in evidenza nel libro L. Grecchi, Occidente: radici,
essenza, futuro, Il Prato, Padova, 2009.
20
introduzione
Questo libro vuole essere, come già annunciato altrove3, un ulteriore tassello della complessiva interpretazione umanistica degli antichi
Greci che abbiamo sviluppato in questi anni4. Si tratta di una interpretazione che ha ricevuto una sostanziale approvazione da parte di alcuni
importanti studiosi (come ad esempio Enrico Berti)5, e che si caratterizza, come ha ben notato recentemente Costanzo Preve, per una caratterizzazione dell’umanesimo greco in termini anticrematistici6; gli antichi
Greci, infatti, ritenevano la «dismisura» insita nei processi sociali incentrati sul denaro, sulla merce e sulla proprietà privata, come il massimo
male, ed al contempo ritenevano la «misura» insita nei processi sociali
comunitari, fraterni e libertari, come il massimo bene. Si tratta però di
un tema che, per quanto assente in tutti gli altri umanesimi finora esistiti7, abbiamo appunto sviluppato altrove, sicché non ci pare opportuno
insistervi anche qui.
Ciò che è importante rimarcare, in questa introduzione, è non tanto il generale umanesimo greco, quanto il particolare umanesimo di
Omero, ovvero del più antico pensiero pervenutoci dalla antica Grecia.
È sicuramente eccessivo accostare il nome di Omero alla filosofia8, in
L. Grecchi, L’umanesimo di Plotino, Petite Plaisance, Pistoia, 2010.
Rinviamo, in particolare, a L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia greca; L’umanesimo
di Platone; L’umanesimo di Aristotele (Petite Plaisance, 2007-2008), e ad altri lavori che saranno citati nel testo.
5
E. Berti – L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, Il Prato, Padova, 2009, pagg. 28-30.
6
C. Preve, postfazione a C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia,
2011, con introduzione di E. Berti.
7
Rinviamo, in merito, a C. Preve, Lettera sull’umanesimo, di prossima pubblicazione.
8
Ci siamo espressi, in merito, in L. Grecchi, Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia?, Il Prato, Padova, 2008, con introduzione di G. Casertano, pagg. 93-98; per una tesi
differente dalla nostra si può invece consultare A. Lo Schiavo, il quale ha sostenuto che
«Omero costituisce un inizio anche per la filosofia» (D. Musti, introduzione ad A. Lo
Schiavo, Omero filosofo, Le Monnier, Firenze, 1983, pag. 1). Più precisamente, però, dobbiamo rimarcare che, per la sostanziale unità e continuità del pensiero greco, che argomenteremo anche in queste pagine, contenuti “prefilosofici”, ovvero veritativo-umanistici, sono
indubbiamente ravvisabili anche in Omero.
3
4
21
Introduzione
quanto nella poesia epica mancano i tratti dialettici della ricerca socratica della verità dell’intero; tuttavia, come mostreremo, vi è sicuramente una continuità fra Omero, i poeti, i presocratici, i sofisti, i tragici,
gli storici, gli scienziati ed i classici, e questa è appunto una continuità
umanistica (intendendo per umanesimo un pensiero in cui vi è la centralità di una cura dell’uomo rispettosa del cosmo). Il particolare umanesimo omerico si delinea dunque non sul piano propriamente filosofico, e
nemmeno su quello politico (pur contenendo spunti in tal senso), bensì
sul piano etico-educativo; i personaggi descritti da Omero nell’Iliade e
nell’Odissea, e soprattutto i contenuti che emergono dai loro discorsi e
dalle loro azioni, costituiscono cioè il principale modello educativo che
per secoli gli antichi Greci hanno – pur con alcune varianti dovute ai
differenti contesti storico-sociali – seguito, fino appunto alla proposta
di paideia filosofica di Platone9.
Come i grecisti sanno, la letteratura critica su Omero è pressoché
sterminata, ed è cresciuta negli ultimi anni in maniera imponente. È
lecito dunque domandarsi se un libro su Omero abbia ancora ragione
di essere scritto, ed è lecito cercare di rispondere a questa domanda,
almeno per chi non ha la finalità di scrivere esclusivamente per arricchire il proprio curriculum accademico, bensì per incidere mediante
l’elaborazione culturale sulle modalità sociali (almeno idealmente: è
chiaro infatti che, nel nostro tempo, chi si pone questa finalità, nella
migliore delle ipotesi, sta “lavorando per il futuro”…). Ebbene: la risposta a questa domanda può essere positiva solo se si ritiene di avere qualcosa di realmente originale ed importante da dire, ovvero se la
interpretazione di Omero proposta è davvero nuova e necessaria nel
panorama complessivo degli studi classici. Nel nostro caso, la “originalità” sta nell’inserimento dell’opera omerica nel quadro umanistico ed
anticrematistico della grecità che abbiamo delineato nei nostri libri, in
quanto ciò conduce ad interpretare in maniera radicalmente differente
La tesi della sostanziale continuità etico-educativa della cultura greca fu propria anche,
a nostro avviso, di Werner Jaeger, che nel celebre libro Paideia, cui poi ancora accenneremo, descrisse come tappe di un unico processo di formazione dell’ideale greco di umanità il sorgere del concetto di areté nei poemi omerici, lo sviluppo del concetto di dike
nei poemi esiodei, l’ideale del cittadino difensore della patria in Tirteo, l’autoformazione
dell’individuo nella poesia ionico-eolica, la fondazione dello Stato di diritto nella Atene
di Solone, la esposizione dell’ordine cosmico operata dal pensiero presocratico, la elaborazione pedagogica dei sofisti, l’insegnamento morale di Socrate ed il supremo ideale
educativo formulato da Platone.
9
22
Introduzione
alcuni luoghi comuni della modernità sul pensiero omerico (pensiamo
all’episodio di Tersite, alla solo presunta centralità di Achille nell’Iliade,
alla distorta immagine di Odisseo nell’Odissea, ecc.: tutti temi su cui ci
soffermeremo ampiamente). La “importanza” di questo approccio sta
invece nel fatto che, interpretando Omero in questo modo, lo si fa rivivere imputandogli un ruolo etico-educativo che è sempre pure, come i
Greci insegnano, un ruolo politico caratterizzato in più da uno stabile
valore classico; questa era del resto anche la tesi di una grande studiosa recentemente scomparsa, J. De Romilly, quando affermava che «la
letteratura greca è molto più che un semplice fenomeno di civiltà: la
bellezza delle opere ed il loro significato possono parlare con forza a
ciascuno di noi come hanno parlato ad altri nel corso dei secoli»10, proprio in quanto possiedono contenuti di verità validi per ogni uomo in
ogni tempo.
Un testo come il presente si giustifica anche col fatto che, per l’ormai
imperante specialismo accademico, sono sempre più rari testi che si
rapportano ad una tematica ampia come quella omerica in modo unitario, ovvero, come ha affermato W. Klug, col fatto che «nelle bibliografie
scientifiche [...] è difficile trovare per l’Iliade e l’Odissea di Omero una
pubblicazione che offra un quadro generale di questi due poemi epici,
e che favorisca una loro comprensione complessiva»11. Come ha sottolineato inoltre J. Latacz – mostrando che Omero è ancora associato, nel
cinema e nella letteratura, prevalentemente ai combattimenti sanguinosi dell’Iliade ed alle avventure fantastiche dell’Odissea – «oggi, fra le giovani generazioni, è difficile trovare chi sappia ancora collegare Omero
ad immagini concrete»12; per questo cercheremo appunto di collocare
Omero nel proprio contesto storico-sociale, per valutare, mediante il
metodo della analogia, se la sua opera possa dare utili indicazioni anche al nostro tempo.
Omero non fu un semplice “poeta”, nella maniera disimpegnata in
cui siamo abituati oggi a pensare queste figure13; la poesia epica, di cui
J. De Romilly, Compendio di letteratura greca, Zanichelli, Bologna, 1987, pag. X.
W. Klug, Anregung, 27/1, 1981, pag. 30.
12
J. Latacz, Omero. Il primo poeta dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 1990, pag. 3.
13
Dice bene M. Durante che in Omero «la rievocazione del passato è in funzione delle
esigenze di una società arcaica: non funge soltanto da strumento di evasione dalle realtà
quotidiane, ma serve a progettare paradigmi di comportamento idealizzati e valori etici,
e fare in modo che l’individuo assuma consapevolezza del passato suo e dell’ethnos di
cui fa parte. Questa poesia arcaica [...] è semplicemente la forma di cultura che si addice
ad una fase di storia del pensiero che ancora non ha assunto consuetudine col sapere
10
11
23
Introduzione
Omero fu il “rappresentante” più insigne, fu infatti innanzitutto una
poesia “educativa”. Non, certo, che questa poesia non possa essere
raccontata anche ai bambini, data la presenza di immagini simboliche
particolarmente adatte ad attrarre l’attenzione dei piccoli; tuttavia, non
è facendo leva sull’aspetto “allegorico”, bensì sull’aspetto etico-educativo, che la letteratura omerica mostra tutta la propria rilevanza.
Cosa ci si può aspettare, dunque, dalla lettura di questo libro? Non
ci si può aspettare un approccio ad Omero in termini meramente filologici, o eruditi, o letterari14; ci si può invece aspettare un approccio ad Omero in termini filosofici, ovvero insieme etici, educativi ed in
senso ampio “politici”. Il carattere classico del pensiero omerico non è
determinato infatti semplicemente dal suo valore o dalla sua antichità,
bensì, semmai, dalla sua non modernità; dato che il pensiero moderno
si caratterizza per l’approccio (Moore, Hume, Weber, ecc.) in base a cui
si può al più comprendere la realtà, ma non valutarla in base a fondati
criteri assiologici, nel suo poema Omero mostrò che la condizione più
naturale per l’uomo è insieme quella del comprendere e del valutare,
dunque anche del giudicare. Occorre in ogni caso chiedersi: quando
questi criteri, e dunque questi giudizi, possono essere definiti come
chiari e corretti? Ebbene, così è quando essi si conformano a ciò che è
insito nella natura umana, ovvero a quei contenuti razionali e morali
che costituiscono l’essenza dell’uomo e che, se realizzati, pongono in
atto ciò che egli è in potenza, rendendolo un uomo compiuto15. Omero,
dunque, comprese, descrisse e valutò bene i modelli etici da proporre
per guidare i comportamenti umani; i criteri omerici, a differenza di
quanto accade alle teorie morali moderne, non sono costituiti da regole formali, bensì da “tipi umani”, da “personaggi”, i cui pensieri e
astratto, con la filosofia e con la scienza» (M. Durante, Sulla preistoria della tradizione greca, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1971, vol. I, pag. 145). Questo lo compresero bene anche diversi autori classici (Platone, Apologia di Socrate, 41 a; Aristofane, Rane, 1030-1036),
che considerarono Omero, Esiodo, Orfeo e Museo non semplicemente come poeti, bensì
come maestri di civiltà.
14
L’atteggiamento che utilizzeremo è quello di chi non vuole fare, come diceva Aristotele
con riferimento ai Pitagorici, come «quegli antichi interpreti di Omero, che riescono ad
evidenziarne le minuzie, ma si lasciano poi sfuggire le cose rilevanti» (Metafisica, 1093 a
26).
15
Per una trattazione generale di questo argomento, rinviamo a L. Grecchi, L’anima umana
come fondamento della verità, Petite Plaisance, Pistoia, 2002; Il necessario fondamento umanistico della metafisica, Petite Plaisance, Pistoia, 2005; Conoscenza della felicità, Petite Plaisance,
Pistoia, 2006, con Introduzione di Mario Vegetti.
24
Introduzione
comportamenti generano approvazione o disapprovazione, in maniera
talvolta evidente e talaltra, invece, problematica (di una problematicità,
comunque, sempre favorente la riflessione). Per questo motivo ci soffermeremo, nella seconda parte, ad analizzare i miti omerici (Odisseo,
Achille, Agamennone, Ettore, ecc.), evidenziando il carattere etico-educativo delle loro parole e delle loro azioni; come ha scritto infatti il recentemente scomparso Mario Zambarbieri, delle cui traduzioni spesso
ci avvarremo, «l’uomo antico concentra nel valore paradigmatico del
mito l’esperienza morale dei singoli e delle generazioni»16.
Aggiungiamo, per concludere, che dopo aver ben compreso e valutato, il comportamento più conseguente è sempre quello di agire con
coerenza, in base appunto a ciò che si è compreso e valutato. Ciò è vero
sia sul piano etico-personale (quello su cui prevalentemente rimase
Omero), sia sul piano politico-sociale; poiché agire con coerenza significa non solo operare per l’oggi, ma anche progettare per il domani,
Omero si situò a nostro avviso all’inizio di quella catena di «filosofi
della storia» che caratterizza l’intero pensiero greco, in particolare quello classico; ci siamo soffermati altrove su questa tesi17, per cui non ci
ripeteremo qui, ma è evidente come Omero non si limiti a dare generici consigli etici, ma delinei, in controluce, i valori su cui una società
deve strutturarsi per essere armonica e felice. Senza la comprensione di
questo approccio “politico-sociale” presente in Omero, non lo si può a
nostro avviso comprendere compiutamente, e si può solo giungere ad
ammirarlo come espressione culturale di un’epoca passata.
Non ci constano, come dicevamo, molte letture complessive di
Omero simili a quella che andremo qui delineando; tuttavia, vi sono
stati diversi studiosi che hanno favorito una interessante interpretazione di questo autore, contribuendo a tenerne viva la memoria. Costoro
hanno mostrato che Omero non è solo uno dei tanti “cibi” presenti nella
millenaria cultura occidentale, ma è proprio il “primo cibo”, quello più
essenziale; come ebbe infatti a scrivere in merito Senofane, Omero è
«colui dal quale tutti gli uomini hanno imparato, sin dall’inizio» (B 10).
M. Zambarbieri, L’Iliade com’è, Cisalpino, Milano, 1988, vol. II, pagg. 494-495.
L. Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica, Petite Plaisance, Pistoia, 2011. In
merito, L. Canfora ha correttamente sostenuto che «nei poemi omerici nel loro insieme
[...] vi è anche, in germe, una nozione del passato (e quindi del tempo) e della storia [...].
L’idea di passato coincide con l’ambito fin dove si spinge il ricordo [...] e si concentra sui
fatti degni di racconto: in genere sulle sofferenze degli uomini» (L. Canfora, Storia della
letteratura greca, Laterza, Roma-Bari, 1986, pag. 14).
16
17
25
Introduzione
Omero è un cibo, sicuramente, “ideale” (i suoi personaggi sono modelli
ideali di nobiltà, dignità, coraggio), e non solo “effettuale”; contrariamente infatti a quanto molti antichisti sostengono, il merito maggiore
dei poemi omerici non fu quello di aver costituito una sorta di “enciclopedia” dei secoli oscuri (vale a dire dal XII all’VIII), bensì quello
di aver espresso per la prima volta i valori più alti della vita umana.
Non è un caso che la metafora del banchetto sia stata utilizzata, per
descrivere i poemi omerici, anche da uno dei maggiori studiosi esistiti
della letteratura greca, ossia C. R. Beye, il quale non poté che auspicare
quanto meno un ritorno al modo del XIX secolo di leggere gli antichi:
«Fino al XIX secolo la letteratura greca non era considerata un abbellimento, un semplice contorno nel banchetto della vita, bensì il piatto
forte, il centro, la garanzia di soddisfare le più profonde esigenze dello
spirito. Oggi tutto ciò è cambiato»18, a causa soprattutto dei mutamenti
avvenuti nelle modalità sociali, le quali hanno sempre più condotto a
considerare la cultura, nelle sue varie forme, come un semplice passatempo, e non come qualcosa di necessario per comprendere, valutare
ed appunto – se doveroso – modificare le modalità sociali medesime;
per Omero, e per una parte dei suoi interpreti (il riferimento è, principalmente, ai “neoumanisti” tedeschi, Werner Jaeger e Max Pohlenz), la
cultura serviva invece proprio per incidere sulla realtà. Solo in quanto
si trascura questo punto fondamentale, come ricorda sempre Beye, oggi
«ci è difficile immaginare che per secoli gli uomini abbiano studiato
in tutta serietà la letteratura della Grecia antica perché essa conferiva
loro le fondamentali basi culturali e spirituali; noi abbiamo ripudiato
il nostro passato letterario [...] con l’arma micidiale dello sbadiglio»19.
Il presente libro cerca dunque di opporsi ad uno dei luoghi comuni
più diffusi del nostro tempo, ovvero quello per cui la cultura si associa
necessariamente alla irrilevanza ed alla chiacchiera; i poemi omerici,
del resto, furono già nelle loro prime formulazioni recitati in pubblico
e per il pubblico, per favorire l’unità comunitaria e l’armonia sociale. I
poemi omerici non furono, sin dai loro esordi, dei pur magnifici “monumenti”, bensì delle “guide” affinché gli uomini potessero condurre,
tramite essi, la migliore esistenza possibile. Per questo motivo ci pare
utile chiudere questa introduzione con le parole di uno dei maggiori
18
C. R. Beye, Letteratura e pubblico nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari, 1979, vol. I, pag.
V.
19
Ibidem, pag. VI.
26
Introduzione
antichisti italiani contemporanei, ovvero F. Montanari, per il quale un
popolo che non possiede «un passato da conservare e che non lo sa
valorizzare adeguatamente, non ha un buon futuro da consegnare ai
propri figli»20.
20
F. Montanari, a cura di, Omero 3.000 anni dopo, Edizioni di storia e letteratura, Roma,
2002, pagg. XI-XII.
27
Parte Prima
Il pensiero omerico
La questione omerica
Non è oramai più possibile – almeno dal 1664, ossia da quando l’abate D’Aubignac scrisse le sue Conjectures academiques ou dissertations sur
l’Iliade – comporre un libro su Omero, senza fare almeno qualche cenno
alla cosiddetta «questione omerica»21, ovvero a quella serie di problemi
di cui i principali sono sicuramente i seguenti: “chi fu Omero”, “quando e dove è vissuto”, “che ruolo ha avuto nella composizione dell’Iliade
e dell’Odissea”; migliaia di libri ed articoli sono stati scritti su queste
tematiche e su altre ad esse collegate, giungendo a davvero poche certezze22.
Per questo motivo, più che disquisire, ad esempio, sulla tesi se la
«questione omerica» possa ritenersi nata con la Poetica di Aristotele, col
già citato testo di D’Aubignac oppure con i Prolegomena ad Homerum di
F. A. Wolf (1795), riteniamo utile anche stavolta – per utilizzare le parole
che Mario Vegetti ha attribuito al nostro peculiare approccio filosofico –
«andar diritti verso il cuore del problema [...], tentando di raddrizzare
e spianare percorsi che la tradizione ha reso labirintici ed impervi»23; si
tratta peraltro di un approccio che, sul piano storico, è condiviso anche
da uno studioso come G. Murray, per il quale «Omero è un’ipotesi, e
neppure troppo chiara. L’Iliade e l’Odissea sono fatti conosciuti, ed è dai
fatti che noi dovremmo cominciare. L’Iliade e l’Odissea sono due poemi
che trattano una materia antica ed eroica, destinati ad essere recitati
in pubblico ad Atene in occasione delle grandi feste Panatenee, più o
meno all’epoca in cui Pisistrato istituì quelle feste, e dopo di allora recitati regolarmente ogni 4 anni durante il periodo classico. Questo è
Come ha sostenuto G. Scarpat, «[…] la questione omerica non è una semplice, sia pur
importantissima, questione che riguarda soltanto la filologia classica: la sua storia è, molto spesso, la storia della cultura occidentale» (R. Caut – G. Scarpat, Breve introduzione a
Omero, Società Dante Alighieri, Milano, 1961, pag. 9).
22
Non entreremo peraltro nel merito, pur avendone lette diverse ricostruzioni, della evoluzione testuale dei due poemi che ha portato dagli antichi papiri, per via di emendazione (soprattutto alessandrina), ai successivi più brevi testi, da quello di Aristarco fino alla
edizione di Oxford, ancora oggi utilizzata.
23
M. Vegetti, Introduzione a L. Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., pag. 9.
21
31
iL Pensiero omerico
quanto possiamo dire con ragionevole sicurezza, senza andare al di là
di quanto ci autorizzano ad affermare le prove che abbiamo»24.
Per non apparire troppo semplicistici però, pur senza riportare tutte le varie risposte offerte dagli studiosi agli interrogativi che costituiscono la “questione omerica”25, cercheremo comunque di fornire gli
elementi più assodati circa la figura di Omero. Innanzitutto, concordemente agli “unitaristi”, ci pare verosimile sostenere, per vari motivi
storici, linguistici e letterari, che un autore di nome Omero sia esistito e che abbia svolto un ruolo centrale nella composizione dell’Iliade
e dell’Odissea26; diversa è invece la tesi dei “pluralisti”, che ritengono
Omero poco più che un nome di fantasia, e che considerano i due poemi opera appunto di una pluralità di autori. Da quelli che sono i dati
più verosimili che si possono evincere dalle sette biografie antiche su
Omero (tutte poco significative in quanto appartenenti all’epoca imperiale, ma alcune riportanti citazioni di scrittori più antichi, come tali
più affidabili), egli fu un aedo nato in Ionia nell’VIII secolo a.C., che
condusse la propria esistenza vagando per larga parte della Grecia e del
Mediterraneo orientale, recitando i propri poemi composti elaborando
una vasta tradizione popolare. Riteniamo che, in questo senso, avesse
pienamente ragione M. Durante ad affermare che Omero – nonostante
della sua esistenza non sia possibile dubitare – non deve essere tanto interpretato come «autore di opere, una nozione impropria ed irrilevante
in regime di poesia orale e tradizionale, ma come sigillo che conferiva
una garanzia di qualità, e nello stesso tempo simboleggiava l’origine
comune e la sostanziale omogeneità della prima epica greca»27.
Tutto ciò è verosimile ma storicamente, come detto, sono molti i
punti oscuri. Il luogo di nascita di Omero, ad esempio, è stato fatto
oscillare fra Itaca e Colofone, così come la sua data di nascita è stata
fatta variare fra il 1159 ed il 686; tuttavia, i dati che abbiamo poc’anzi
riassunto paiono essere i più condivisi dalla comunità degli studiosi
G. Murray, Le origini dell’epica greca, Sansoni, Firenze, 1964, pag. 388.
Per una analisi chiara e particolareggiata della “questione omerica” è possibile rifarsi,
fra gli altri, al libro di F. Codino, Introduzione a Omero, Einaudi, Torino, 1965.
26
Su questo punto siamo pienamente concordi con B. Marzullo, secondo il quale la poesia
omerica «ha una rigida fissità, una formularità e una meccanicità lessicale, sintattica, metrica, quasi sconcertante» (B. Marzullo, Il problema omerico, La Nuova Italia, Firenze, 1952,
pag. X), tanto da far ritenere improponibili tesi quali quelle di F. A. Wolf, secondo il quale
mancherebbe qualunque forma di univocità per i poemi omerici.
27
M. Durante, Sulla preistoria…, op. cit., vol. II, pag. 204.
24
25
32
La questione omerica
omerici. Quanto alla notizia della sua cecità, caratteristica comune anche agli aedi narrati nei poemi stessi (Iliade, II, 594 ss.; Odissea, VIII, 62
ss.), essa può essere fatta risalire all’epoca dell’Inno omerico ad Apollo
(172), e parrebbe confermata da molti ritratti antichi di varie epoche.
La descrizione della “questione omerica” potrebbe davvero occupare decine di pagine; la massa di studi su di essa infatti, come ha giustamente sostenuto G. Broccia, «non ha eguali in nessun altro campo
di ricerca»28. In questa sede può essere più interessante rimarcare come
Omero non sia stato verosimilmente un innovatore, bensì il pur elevato punto di approdo di una tradizione plurisecolare29; tale tradizione non è però ricostruibile nel suo sviluppo, poiché abbiamo troppi
“buchi” nella conoscenza di quell’epoca. Poco conosciamo infatti, ad
esempio, della coeva cultura cretese30, così come di quella cipriota, che
pure furono importanti mediatrici con la Grecia delle influenze vicinoorientali, mesopotamiche, siro-palestinese ed egizie; altra grave lacuna
è che non conosciamo l’opera letteraria di quegli ambienti anatolici che
ebbero stretti rapporti con la Grecia, come la Lidia, la Caria, la Frigia e
la Licia. È stato inoltre più volte argomentato un rapporto fra l’Odissea
ed il poema di Gilgamesh: allo stato attuale degli studi esso non è però
ancora venuto completamente in luce. Su tutte queste cose interessanti
28
G. Broccia, La questione omerica, Sansoni, Firenze, 1979, pag. 5. La “questione omerica”
fu fatta oggetto di canzonatura già da Luciano di Samosata (Var. Hist., II, 50).
29
Come ha correttamente sostenuto M. Durante, «i poemi omerici sono il punto di arrivo
di una lunga vicenda di esperienze poetiche. Molti indizi lo rivelano, ma la testimonianza
fondamentale [...] è nel linguaggio, dove l’antico coesiste col nuovo» (Sulla preistoria, op.
cit., vol. I, pag. 17). Come ha confermato anche L. Canfora, «una metrica raffinata e matura, quale quella che regola la poesia epica, ci fa capire in modo diretto ed inequivoco che
abbiamo a che fare, al cospetto dei poemi omerici e di Esiodo, con artisti che costituirono
il culmine di una tradizione culturale che durava quanto meno da decenni; del resto,
l’esperienza di varie civiltà dimostra che si conservano solo i prodotti delle età colte» (L.
Canfora, Storia…, op. cit., pag.V).
30
I più antichi documenti della Grecia risalgono alla fine della età della pietra, e testimoniano di una civiltà esistita a Creta e nelle isole Egee. La nostra conoscenza di questa
civiltà è basata su materiale abbondante ed abilmente selezionato, ma la sua interpretazione rimane problematica soprattutto in quanto si basa su monumenti e sculture, non su
testi letterari. I costruttori degli antichi palazzi cretesi parlavano comunque una lingua
diversa dal greco, ma questa civiltà aveva «ben pochi o nessuno di quei tratti che noi
associamo con la grecità [...]. Tra i palazzi preistorici di Creta, Troia o Micene, e le civiltà
che conosciamo sotto il nome di civiltà greca, intercorre una età oscura che si estende
per svariati secoli. È in questa età oscura che dobbiamo ricercare le origini prime della
Grecia» (G. Murray, Le origini…, op. cit., pag. 43), ed in questo senso i poemi omerici sono
una delle fonti più utili.
33
iL Pensiero omerico
e su molte altre, che mostrerebbero gli originari legami fra Oriente ed
Occidente, non sarà possibile soffermarci31, dovendo, per l’approccio
stesso del nostro libro, e per ragionevoli impegni editoriali, limitarci
all’essenziale.
Diciamo allora che va sicuramente abbandonata la tesi vigente ancora nel V secolo a.C. (messa in crisi per la prima volta, come noto, da
Aristotele nella Poetica, 1459 a-b), in base a cui si riteneva che Omero
fosse non solo l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche dell’intero
ciclo epico, degli inni e di altre opere minori32. Dobbiamo inoltre diffidare – nonostante il credito attribuitogli in parte da Erodoto e Tucidide
– di Omero come storico, valutando sempre con attenzione ciò che egli
dice delle istituzioni politiche, giuridiche e culturali dei vari popoli.
Tuttavia, dobbiamo tenere in debito conto la lezione ermeneutica di G.
B. Vico, che nella sua Scienza Nuova (1730-1744), nel capitolo dedicato
alla Discoverta del vero Omero, ben comprese che la struttura della poesia
omerica è collettiva, ovvero che le figure morali, positive e negative,
degli eroi e degli anti-eroi, dovevano costituire per Omero dei modelli storico-sociali di riferimento, secondo i casi da seguire o da evitare.
Questo, come mostreremo, il contenuto più importante, ed ancora attuale, del pensiero omerico.
Potremmo dilungarci molto sulla presumibile etimologia del nome
Omero, nonché sulle numerose sviste che costellano i poemi omerici
(come ad esempio il famoso muro difensivo eretto davanti alle navi
greche, che a volte c’è ed a volte non c’è, o la ricomparsa in canti successivi di personaggi morti in canti precedenti: tali sviste condussero, in
epoca latina, ad elaborare il famoso motto secondo cui «anche Omero,
talvolta, dormicchia …»), sulla presenza di interpolazioni successive
che così tanto rafforzano le convinzioni dei pluralisti. Ciò che più conta
31
Molto utile, su tutte queste questioni, l’opera del comparatista P. Boitani, Le orme di
Ulisse. Figure di un mito, Il Mulino, Bologna, 1992.
32
Pur relegando l’osservazione in nota, non essendo le questioni letterarie l’oggetto specifico di questo testo, va comunque ricordato che Iliade ed Odissea furono due poemi di
un complesso molto più grande, il cosiddetto «ciclo troiano» (kyklos), composto di 8 epe i
quali si allacciavano con precisione l’uno all’altro. Cinque epe, di cui l’Iliade era il secondo,
narravano le vicende della guerra di Troia, dalle cause della guerra fino alla presa della
città; il sesto narrava i nostoi, ovvero i ritorni in patria dei vincitori (escluso Odisseo); il
settimo era l’Odissea, mentre l’ottavo trattava degli ulteriori viaggi di Odisseo e della sua
morte. Iliade ed Odissea erano i testi più voluminosi, ma è evidente, anche solo da questa
breve nota, che abbiamo perso molto (e non menzioniamo qui nemmeno il cosiddetto
«ciclo tebano», che ancora Callino, nel VII secolo, attribuiva ad Omero).
34
La questione omerica
affermare però, in un libro come questo, è che se anche i poemi omerici
non furono opera, dall’inizio alla fine, di una sola mano, essi furono
comunque opera di un solo spirito, quello greco, tutto volto alla ricerca del «bene comune» (Iliade, IX,101); questo il messaggio che sarà più
volte ripetuto in queste pagine.
Prima di entrare nel merito di questo messaggio, cercheremo in ogni
caso di delineare con un minimo di chiarezza il contesto storico-sociale
dell’epoca omerica, poiché solo così – dato il nesso imprescindibile fra
contesto storico-sociale ed espressione culturale di un’epoca – se ne potrà comprendere con maggiore profondità l’opera.
35
iL contesto storico-sociaLe omerico
Come ha scritto correttamente C. Miralles, «i poemi omerici si situano a cavallo tra la civiltà aristocratica, che ha per centro la casa o il
palazzo (oikos) del nobile, ed una nuova forma di aggregazione umana,
la polis»33. Queste poche parole illuminano bene i cinque secoli (dal XII
all’VIII) che, ad avviso pressoché unanime, sono in vario modo presenti
nella descrizione dei poemi omerici. Inutile rimarcare che è la civiltà
aristocratica ad occupare il ruolo più importante: tutto ciò si evince dai
contesti, dalle storie e dai personaggi principali dell’Iliade; nell’Odissea
soprattutto, però, cominciò a farsi strada l’idea della polis come luogo
cardine della comunità sociale, come avamposto simbolico della centralità delle leggi, in cui le decisioni più importanti venivano prese insieme. M. Finley ha correttamente sostenuto che il modo in cui si svolse
il passaggio dalla aristocrazia alla polis fu un processo che, nei dettagli,
«non siamo in grado di delineare, ma la fase decisiva deve essere vista nella creazione di istituzioni che sottomettano anche gli uomini più
potenti ad organismi ed a leggi provviste di una autorità formalmente legittima»34. Se i poemi omerici, in ogni caso, descrissero ancora in
prevalenza una società aristocratica, la successiva società democratica,
descritta soprattutto dalla filosofia classica, espresse valori etici che si
situarono – a differenza di quanto sostiene, come mostreremo, la maggioranza degli interpreti – su un piano di sostanziale continuità.
Trattando però più propriamente del contesto storico-sociale omerico, nelle sue linee generali (all’interno delle quali occorre rimanere,
data l’ampiezza del periodo considerato e la scarsità delle conoscenze in merito), possiamo affermare che l’economia omerica attribuì un
ruolo preminente – come accadde ancora, in Grecia, per alcuni secoli35
– alla agricoltura ed alla pastorizia, mentre l’artigianato fu di modesta
entità; il commercio, poi, fu poco o nulla praticato dai Greci, in quanto
C. Miralles, Come leggere Omero, Rusconi, Milano, 1992, pag. 14.
M. Finley, La Grecia dalla preistoria all’età arcaica, Laterza, Roma-Bari, 1975, pag. 117.
35
Rinviamo, per la descrizione del contesto storico-sociale dell’epoca classica, alla prima
parte di L. Grecchi, L’umanesimo di Plotino, op. cit. .
33
34
37
iL Pensiero omerico
considerato attività disonorevole36 (assai più di quanto fosse considerato disonorevole il lavoro manuale: ricordiamo che la mitologia greca
conobbe un dio-fabbro, Efesto, e che né Odisseo né altri aristocratici disprezzarono il lavoro manuale, se effettuato per libera scelta). La priorità dell’agricoltura – simboleggiata anche dal fatto che, in una economia
non monetaria come quella omerica, il calcolo dei valori di scambio si
svolgeva ancora prevalentemente in buoi ed in unità di grano – rappresentava la priorità della produzione di quanto più era necessario per la
sussistenza della comunità sociale37; se le modalità di tale produzione
possono essere definite “aristocratiche” (in quanto la produzione fu effettivamente lasciata, in larga parte, a lavoratori salariati ed a servi domestici)38, è comunque da ritenere “democratica”, ovvero comunitaria,
la ricerca primaria dei valori d’uso (ossia della utilità sociale) rispetto ai
valori di scambio (ossia al vantaggio individuale). Come ha sintetizzato molto bene un attento studioso del contesto storico-sociale omerico
quale A. Mele, il fatto che i personaggi aristocratici dei poemi omerici
privilegiassero il divino sull’umano, è significativo di come in generale
la cultura omerica privilegiasse il sociale sull’individuale, ossia i valori comunitari rispetto a quelli crematistici, poiché questo era l’unico
modo per mantenere l’armonia sociale complessiva39.
Rispetto, dunque, a tutti quegli studiosi (sia di impianto marxista
che liberale) che ritengono l’economia omerica come prevalentemen-
«Il commercio di quest’epoca appare concentrato nelle mani di naviganti stranieri, in
particolare Fenici, e si presenta con qualche connotato sociale e morale negativo» (D.
Musti, Introduzione alla storia greca, Laterza, Roma-Bari, 2003, pag. 37). Concorde con questa interpretazione anche E. Cantarella, per la quale il mondo omerico «riprovava eticamente e socialmente il commercio» (E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, Giuffré,
Milano, 1978, pag. 202).
37
Come ha rimarcato L. Bottin, nell’epoca omerica «il principio della cooperazione viene
privilegiato e collocato in posizione dominante, fino a organizzare le coscienze, le rappresentazioni collettive» (L. Bottin, Reciprocità e redistribuzione nella antica Grecia, Clesp,
Padova, 1979, pag. 27).
38
La parola «schiavitù», come abbiamo mostrato nella prima parte del nostro L’umanesimo
di Plotino, non si addice bene a questa realtà. Scrive bene in merito, peraltro, L. Canfora,
affermando che «il quadro di insieme che emerge dall’Odissea è oramai quello di un oikos
autarchico, ossia in sostanza una unità economica di produzione e consumo»; è corretto
infatti parlare di «rapporto paternalistico vigente nell’oikos odissaico», in cui «servi e padroni si sono di molto avvicinati» (L. Canfora, Storia…, op. cit., pagg. 16-17).
39
A. Mele, Società e lavoro nei poemi omerici, Università Statale di Napoli, 1968, pag. 8.
36
38
Il contesto storico-sociale omerico
te caratterizzata da guerre e saccheggi, e dunque come una economia
predatoria, occorre a nostro avviso opporre, attraverso un radicale riorientamento, l’immagine di una economia agricola gestita – nonostante
la presenza di regimi aristocratici – in modo sostanzialmente comunitario. Nei poemi omerici, del resto, fu assai frequente il reciproco rimando fra agricoltura e vita civile. Pensiamo ad esempio al modo in
cui Odisseo, in vari luoghi dell’Odissea, definì gli uomini come «mangiatori di pane» (VIII, 222; IX, 89, 191; X, 101; ecc.), ossia come quegli
esseri che, come caratteristica principale, hanno quella di vivere della
produzione, lavorazione e distribuzione comunitaria del grano coltivato, e non quella di essere brutali cacciatori di carne (come ad esempio i
Lestrigoni). Inoltre, il fatto che l’agricoltura sia il più importante segno
di civiltà è segnalato anche dalla circostanza, non casuale, che il primo
gesto che Odisseo – sempre attento alla sacralità dei riti – si trovò a
compiere quando tornò ad Itaca fu di baciare il «fertile campo» (XIII,
354), e che quando egli cercò un segno di umanità non ricercò mura
o fortificazioni, bensì campi coltivati, segno del comune lavoro umano40; l’agricoltura infatti, finalizzata al bene comune, era ritenuta segno
di civiltà nella medesima misura per cui il commercio, finalizzato al
vantaggio individuale, era ritenuto segno di inciviltà: in questo, come
mostreremo, i poemi omerici ci offrono le prime testimonianze anticrematistiche della cultura greca.
Uno dei fini principali che questo libro si pone è del resto proprio
quello di sottolineare la continuità umanistica fra Omero ed i filosofi
classici41, laddove quasi sempre gli interpreti – sia ponendo innanzi una
presunta centralità “agonale” dell’etica omerica, sia ponendo innanzi
addirittura una presunta assenza di umanità nei personaggi omerici
– ravvisano una frattura ed una distanza. Mostreremo tra poco, analizzando i poemi, come questi luoghi comuni ermeneutici siano da ritenere errati; sintetizziamo però ora, per concludere la descrizione del contesto storico-sociale omerico, i motivi per cui esso non fu radicalmente
differente da quello dell’epoca classica, e come dunque anche i valori
etici non furono così differenti.
Innanzitutto, la preminenza dell’agricoltura sull’artigianato, e la
marginalità del commercio, furono tratti comuni sia all’epoca omerica che all’epoca classica; la gestione comunitaria (per quanto lasciata,
nella sua dinamica fondamentale, alla iniziativa di singole persone)42
40
Un atteggiamento opposto gli attribuisce invece Euripide nel Ciclope (115-116).
39
iL Pensiero omerico
dell’attività produttiva, svolta da proprietari, salariati e servi che lavoravano fianco a fianco, fu anch’essa tratto comune all’epoca omerica ed
all’epoca classica43, così come l’assenza di centralità della schiavitù44.
Questi tratti comuni lasciano pensare che anche le idee ed i valori delle
due epoche non poterono essere in così radicale opposizione, contrariamente a quanto sostiene la maggioranza degli interpreti. La «aristocrazia» omerica non escludeva infatti la «democrazia», come provano
sia la struttura dialettica delle istituzioni giuridiche e delle assemblee
politiche, sia il fatto che sovente, nei poemi omerici, i meno potenti si
trovavano a criticare duramente i più potenti senza patirne gravi conseguenze. A parte infatti il famoso episodio di Tersite (su cui torneremo),
percosso da Odisseo non tanto per le sue critiche ad Agamennone –
che neanche Odisseo infatti, per quanto meno potente di Agamennone,
risparmia (ad esempio Iliade, IV, 349 ss.) – quanto per il suo continuo
disturbo demoralizzante per l’esercito greco45, nell’Iliade assistiamo anche alla critica del meno potente Achille al più potente Agamennone,
e nell’Odissea a servitori che si rivelano dotati di maggiore dignità e
coraggio rispetto ai nobili (pensiamo al porcaro Eumeo in rapporto ai
Come ha ricordato infatti M. Detienne, anche in Omero «il poeta [...] è un maestro di verità» (M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari, 1983, pag. 13).
42
Corretta, in merito, la sintetica affermazione di A. Mele, il quale ha ricordato che, in
epoca omerica, vi fu un «regime di proprietà individuale che convive con la proprietà
collettiva» (Società…, op. cit., pag. 66), come nella società micenea.
43
Dice bene ancora A. Mele che, nelle case aristocratiche come quella di Odisseo, è corretto parlare «di mitezza della schiavitù omerica, di assimilazione ai liberi, di vita comune
e di lavori comuni con i padroni, di rispetto e di affetto dei padroni per gli schiavi [...],
di relativa autonomia ed indipendenza economica» (Società…, op. cit., pag. 150). Questa
tesi ci pare molto ben più sostenuta rispetto a quella opposta di A. W. Adkins, per il quale
l’economia omerica era invece ritagliata su quella dei Ciclopi.
44
Per la argomentazione di quanto qui asserito dobbiamo ancora una volta rinviare, per
evitare ripetizioni, alla prima parte del nostro L’umanesimo di Plotino, citato.
45
L’episodio di Tersite, a nostro avviso, è stato frainteso dalla quasi totalità degli interpreti, fra i quali A. Magris, secondo cui Tersite subisce «un sopruso [...] perché ha detto
qualcosa di non gradito ai capi» (A. Magris, L’idea di destino nel mondo antico, Del Bianco,
Trieste, 1984, vol. I, pag. 263). Secondo Magris, «nella visione del mondo codificata dai
poemi omerici, la hybris definisce il comportamento scorretto nei confronti di un membro
della stessa classe [...]. Generalmente in Omero non si parla di hybris quando l’oltraggio
colpisce un appartenente alle classi inferiori» (ibidem, pag. 264). Con questa tesi non ci è
però possibile, come mostreremo meglio in seguito, concordare, sia in quanto l’episodio
di Tersite è uno dei pochissimi rapporti conflittuali fra persone di classi sociali diverse
presenti nei poemi omerici (il che non rende possibile generalizzare), sia soprattutto in
quanto l’etica omerica, con il connesso tema della hybris, non è restringibile a classifi41
40
Il contesto storico-sociale omerico
Proci). Non vi fu dunque, nei poemi omerici, alcun incontrastato dominio di un’etica aristocratica, competitiva ed agonale; in essi anzi, come
mostreremo meglio in seguito, per la prima volta in Grecia si affermò
che la vera nobiltà è quella dell’animo, e che dunque le virtù sono più
importanti delle ricchezze, le quali, per dare onore, possono solo essere
acquisite con merito. Concetti, come evidente, molto diversi anche da
quelli imperanti oggi nel moderno capitalismo globalizzato.
cazioni “sociologiche”, possedendo una portata universale. In questo senso, possiamo
affermare che l’umanesimo omerico possiede una consistenza onto-assiologica “interclassista” molto maggiore di quanto comunemente si ritiene.
41
omero, esiodo e La fiLosofia
In un testo probabilmente composto dal sofista Alcidamante, è attestato un presunto certame poetico fra Omero ed Esiodo, che avrebbe visto la vittoria di Esiodo. Gli studi storici hanno mostrato che è impossibile che Omero ed Esiodo possano essersi incontrati, in quanto il primo
è collocabile nell’VIII secolo, ed il secondo nel VII. Ciò che importa comunque, per i nostri fini, non è tanto rilevare se tale incontro ci sia stato
o meno, quanto rilevare se i contesti storico-sociali dell’epoca omerica
ed esiodea siano stati simili, e soprattutto se lo siano stati i contenuti
etici delle relative opere. Il fatto, poc’anzi rimarcato, che nel contesto
omerico assunse priorità una agricoltura gestita in modo comunitario,
e che ciò accadde anche nel contesto esiodeo (come rimarcato appunto
da Esiodo in Opere e giorni), pone, a nostro avviso, nella giusta direzione; occorre però non indulgere in semplicistiche assimilazioni.
Molti studiosi infatti, come ad esempio recentemente A. Jellamo,
hanno affermato che «il mondo di Esiodo è assai diverso dal mondo
di Omero»46, essendo quello di Esiodo un mondo in cui il diritto si era
oramai stabilizzato, ed essendo invece il mondo di Omero un mondo in
cui la guerra la faceva ancora da padrona. Le argomentazioni di questi
studiosi, solitamente basate sulla assenza nei poemi omerici di termini
come nomos, isonomia, ecc., non convince però molto; una analisi adeguata del contesto storico omerico ed esiodeo, quale quella che abbiamo cercato di svolgere nel nostro Diritto e proprietà nella Grecia classica
(Petite Plaisance, Pistoia, 2011), mostra infatti che le istituzioni giuridiche erano molto attive anche in epoca omerica (pur utilizzando ancora
prevalentemente termini legati ad un contesto di pensiero mitico-religioso), così come mostra che le guerre non furono assenti neppure in
epoca esiodea47.
In sostanza, le argomentazioni sulla presunta radicale diversità
dell’epoca e dell’opera omerica rispetto a quella esiodea non sono molA. Jellamo, Il cammino di Dike, Donzelli, Roma, 2005, pag. 44.
Senza entrare nel merito della questione filologica, ci pare avesse ragione M. Gigante
(Nomos basileus, Glaux, Napoli, 1956) a contestare alcuni dati di fondo sottostanti a queste
interpretazioni.
46
47
43
iL Pensiero omerico
to convincenti, in quanto i contesti economico-sociali omerici ed esiodei
furono storicamente e geograficamente molto vicini; in Omero infatti,
così come in Esiodo, assunsero centralità sia l’agricoltura, sia la comunità, sia la giustizia. È nota, in merito, l’affermazione di Esiodo (Erga,
202-212) in cui si sostiene che, mentre fra gli animali vige la legge del
più forte, fra gli uomini deve vigere la legge del diritto; assai meno noto
(o meglio, assai meno compreso) è che questo principio fu già presente
in Omero, come quando nell’Iliade emersero in modo evidente il biasimo per il «leone» Achille e la sua disumana ferocia, ed al contempo
l’elogio per «l’uomo» Ettore e la sua composta civiltà.
Non soltanto i temi del diritto e della giustizia furono compresenti nelle opere di Omero ed Esiodo, ma anche i più originari temi etici
della «misura» e del «limite». In Omero, infatti, si afferma in più di
una occasione che «la giusta misura, in ogni cosa, è meglio» (Odissea,
VII, 308-310; XV, 70); Omero elogia, ad esempio, sia il fatto di parlare es meson (in pubblico, apertamente) ponendosi al centro, in maniera
equidistante dagli ascoltatori (Iliade, XXIII, 685 ss.), sia il fatto di porre
i beni del bottino di guerra al centro dell’assemblea, a distanza uguale
da tutti coloro che hanno diritto a prenderne parte (Iliade, XVIII, 497
ss.). Chi si pone “in mezzo” si pone, nei poemi omerici, in una posizione super partes: nella terra di nessuno che separa i due eserciti opposti,
infatti, si pongono gli dèi, così come fra le pretese dei contendenti si
pone il giudice, arbitro tra le parti (Iliade, III, 69; XXIII, 574). Ebbene:
queste tematiche furono indubbiamente presenti anche nell’opera di
Esiodo, come risulta chiaramente, fra l’altro, dalla ottima introduzione di C. Cassanmagnago alle sue opere. Lo studioso italiano ha infatti
correttamente sostenuto che «Omero ed Esiodo [...] promossero il senso
dell’uomo, del soggetto, del terreno, del terrestre, elementi così tipicamente greci [...]. In particolare i poemi omerici portano in sé alcuni
di quei caratteri dello spirito greco che hanno reso possibile la nascita
della mentalità speculativa: il senso della misura e dell’armonia, l’arte
della motivazione, per cui il poeta ricerca, sia pure a livello fantasticopoetico, la ragione dei fatti; la realtà è presentata nella sua interezza,
ed è permanente la ricerca della posizione dell’uomo nell’universo»48.
Ancora correttamente, Cassanmagnago afferma che in Grecia «l’idea
dell’uomo è dominante, a partire dall’antropomorfismo degli dèi che
48
C. Cassanmagnago, introduzione a Esiodo. Tutte le opere e i frammenti, Bompiani, Milano,
2010, pag. 36.
44
Omero, Esiodo e la filosofia
ci è familiare da Omero»49. Con Omero ed Esiodo siamo già «all’epoca
dell’uomo, della responsabilità, della giustizia sempre disattesa, eppure necessaria per sé e per gli altri, cioè di una condotta conforme
all’ordine del mondo ed atta a costruire un ordine corrispondente»50;
per questo i versi di questi poeti «hanno in sé una carica rivoluzionaria
indubitabile»51.
Un altro tratto comune ad Omero ed Esiodo che caratterizza anche
il contesto sociale classico, è la centralità della famiglia. Ci siamo già
soffermati in altri libri a rimarcare come, in epoca classica, la famiglia
svolgesse un ruolo molto importante nella comunità greca, e come la
necessità di avere cura della famiglia di origine (genitori e nonni) sia
più volte sottolineata, soprattutto da Platone52. Ebbene: la centralità
della comunità famigliare è a più riprese ribadita, e con forza, anche
nei poemi omerici. Nell’Iliade, infatti, pure il «duro» Achille, ogni volta
che parla con la madre Teti, si commuove (I, 357; XVIII, 35; XXIV, 95);
celeberrimo è anche l’episodio con cui Ecuba, madre di Ettore, cerca
in ogni modo dalle mura di Troia di convincere il proprio figlio a non
combattere con Achille rinunciando a tutti i propri valori etici, pur di
non perderlo (XXII, 78 ss.).
Nell’Odissea poi, come dimostra il fatto che tutto il viaggio di ritorno di Odisseo fu guidato dalla ferma volontà di riabbracciare la moglie Penelope ed il figlio Telemaco, la centralità dei rapporti famigliari
emerge con anche maggiore rilevanza; Odisseo afferma infatti più volte,
ricordando i propri genitori, di essere «nato né da quercia né da pietra»
(IX, 163), e mostra nell’Ade un incontro particolarmente toccante con
la madre Anticlea, che riprenderemo nel secondo capitolo. Come ha
ricordato anche A. Mele, «la famiglia appare in Omero partecipe di una
Ibidem, pag. 37.
Ibidem, pag. 77.
51
Ibidem, pag. 85. Cassanmagnago fa bene a lamentare che oggi ci si perde nei dettagli,
ossia che «di fatto, come rivela la produzione critica più recente, l’attenzione sia meno
portata all’uomo ed alla interpersonalità e di più al formale, allo stilistico, allo strutturale,
al testuale; ciò è rivelatore di un’epoca, quella contemporanea, che pare fatichi a passare
dal segno all’idea immanente nel testo, struttura di segni. Ebbene, in tal modo non si
capirà l’idealità di quei tempi lontani» (ibidem, pag. 86). In Omero, ed in Esiodo, emerge
invece un messaggio importante anche per l’oggi, ossia che «la giustizia è garanzia per
tutti, ma soprattutto – grande conquista speculativa che fonda l’umanesimo classico – è il
carattere distintivo dell’uomo» (ibidem, pag. 88).
52
Rinviamo, in particolare, a L. Grecchi, Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici
greci, per la buona vita, Petite Plaisance, Pistoia, 2008, pagg. 7-9.
49
50
45
iL Pensiero omerico
comunità di culto [...] e di una comunità di cultura, di cui è specchio la
circolazione dei miti e la formazione dell’epos stesso; essa è al centro di
una serie di relazioni extrafamiliari, di cui l’ospite, i compagni, lo Stato,
la terra patria [...] sono manifestazioni evidenti»53.
Il tratto comune più importante fra epoca omerica ed epoca esiodea (e classica) fu però la centrale distinzione fra pubblico e privato
(Odissea, II, 42-49; III, 82 ss.; IV, 314 ss.; XX, 264 ss.), provata appunto dal
frequento uso, nei poemi omerici, dei termini opposti demion (pubblico)
ed idion (privato). La Grecia arcaica è stata infatti, a nostra conoscenza, la prima civiltà antica54 a sviluppare apertamente il senso di una
comune appartenenza ad una entità collettiva (la polis). In contrapposizione alla sfera del privato, la sfera del pubblico si delinea in effetti
chiaramente, in primo luogo, come la sfera delle cose appartenenti alla
comunità, ovvero delle cose che hanno una destinazione di comune interesse; il bottino di guerra, ad esempio, è pubblico (Iliade, I, 118 ss.), sia
in quanto appartenente alla comunità, sia in quanto destinato ad una
finalità di comune interesse, tanto che solo l’assemblea può disporne.
La stessa cassa di guerra è finanziata da beni privati che vengono destinati all’utilizzo comune (Iliade, XVII, 248-251); da notare che, in epoca
omerica, rientrava nella sfera del pubblico anche lo svolgimento di alcune attività lavorative considerate di interesse sociale. Contrariamente
a quanto si è soliti ritenere, già con Omero la polis, luogo per eccellenza
del «pubblico», risulta essere molto più importante della casa (oikos),
luogo per eccellenza del «privato». Ricordiamo infatti che sin dalle
famose incisioni sullo scudo di Achille, nell’Iliade, sono rappresentate
delle poleis, ovvero organizzazioni comunitarie di uomini riunite attorno alla consapevolezza che prima degli interessi privati sta un interesse
collettivo, su cui si basa appunto la sopravvivenza della collettività55;
la centralità del diritto e della politica fu in effetti, a partire dall’epoca
omerica, il tratto caratterizzante di tutta la civiltà greca.
A. Mele, Società…, pag. 42.
Rinviamo, in merito, a L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia cinese; L’umanesimo
della antica filosofia indiana; L’umanesimo della antica filosofia islamica, tutti editi da Petite
Plaisance nel 2009.
55
Questo punto è stato ottimamente chiarito da E. Cantarella: «Le città dello scudo sono
delle poleis. Sono organizzazioni in cui esistono persone istituzionalmente abilitate ad
esercitare la giurisdizione, ed alle quali [...] spetta anche il compito di rappresentare la
collettività nei rapporti internazionali» (E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano, 2009, pag.
101).
53
54
46
Omero, Esiodo e la filosofia
Il mondo che i poemi omerici rispecchiano fu in effetti tutt’altro che
primitivo. Il vivere sociale era retto da chiare norme etiche e politiche,
affidate alla comunità che si faceva custode severa della morale collettiva. Spesso si afferma essere ancora mancante, nell’epoca omerica,
una sviluppata cultura giuridica, in quanto la punizione sociale di colpe pure molto gravi, come l’omicidio, era lasciata sostanzialmente alla
vendetta privata; tuttavia, anche là dove latitava la sanzione giuridica,
era comunque presente la sanzione sociale, e spesso anche quella religiosa (che di quella sociale costituiva una dichiarazione più severa:
Zeus, e gli dèi in genere, punivano infatti proprio quelle colpe che non
avrebbero avuto vendicatore in terra, specie quelle contro i genitori, gli
ospiti e i supplici).
Questo, nelle sue grandi linee, il contesto storico-sociale che emerge
dai poemi omerici, e che qualcuno (sia in campo “liberale” che in campo “marxista”, dato che ambedue queste scuole sono abituate a vedere
nella antichità prevalentemente arretratezza, e nella modernità prevalentemente progresso) potrebbe ritenere “idealizzato”, per l’assenza
di centralità della guerra nei rapporti esterni, e di autoritarismo nei
rapporti interni. Questa descrizione è però condivisa da molti studiosi
(Canfora, Cantarella, Mele, Zambarbieri, ecc.), ed è inoltre suffragata
anche da quanto Omero ci racconta essere accaduto ad Itaca durante la
ventennale assenza di Odisseo, in cui la vita – eccezion fatta che nella
casa di Odisseo, dove comunque i Proci, pur violando molte norme etiche non osarono sovvertire il potere famigliare – trascorse normalmente anche senza la convocazione della assemblea politica; dall’Odissea in
particolare emerge che i motivi schiettamente monarchici furono solo il
riflesso di una età lontana nel tempo, quando Micene era al centro della
potenza che promosse l’impresa contro Troia56. Come ha correttamente
sostenuto E. Ciccotti, già dall’Iliade si ha lo «specchio di una società
largamente sviluppata; nelle forme politiche semplicemente abbozzate già spuntano i rudimenti del più complesso posteriore ordinamento
dello Stato», oltre che «concetti progrediti del diritto e della convivenza
civile»57. Per il pensiero greco, fin da Omero, l’uomo ideale fu in effetNon è casuale, in merito, che anche nell’isola dei Feaci, caratterizzata da istituzioni
apparentemente monarchiche (vi sono un re Alcinoo ed una regina Arete), la decisione
di dare ospitalità ed aiuto ad Odisseo sia presa dai dodici basileis, ovvero da un consiglio
di aristocratici che coadiuvava nelle decisioni Alcinoo, ed il cui peso deliberativo pare
determinante (Odissea, VIII, 390 ss.).
57
E. Ciccotti, Storia greca, Vallecchi, Firenze, 1952, pag. 61.
56
47
iL Pensiero omerico
ti colui che non mirava esclusivamente ad eternare la propria gloria,
ma pensava soprattutto alla realizzazione del bene comune, in maniera
che possiamo già definire “politica”. Come ha correttamente sostenuto
N. Bardelli, «nei poemi di Omero (Iliade, I, 91; IX, 166; ecc.) si possono
constatare [...] delle prove non dubbie che nella coscienza del popolo
incominciava a farsi strada una tendenza a riflettere sulla condotta dei
re ed a discuterla [...] che era il segno precursore dei tempi nuovi. Nel
VII secolo a.C. è ben difficile trovare un angolo di terra ellenica dove
non si levassero proteste contro l’iniquità, la corruzione degli antichi
costumi e la cattiva amministrazione della giustizia»58; in quest’epoca
«il periodo delle costituzioni, per così dire, incomincia, il che significa
che si inaugura anche per l’Attica l’era del diritto umano»59.
Sono stati pochi gli interpreti che hanno colto non tanto la continuità fra Omero ed Esiodo, quanto la continuità dei due poeti con la
successiva tradizione filosofica. Fra questi pochi vi è sicuramente R.
Mondolfo, secondo cui «la formazione dell’ideale filosofico [...] forma il
vincolo più intimo ed essenziale di continuità tra la riflessione morale
più antica dei poeti epici [...] e l’umanesimo di Socrate»60. Eppure, tale
continuità è presente, e passa attraverso il rapporto fra mythos e logos.
Ricordiamo, in merito, l’atteggiamento ambivalente del primo grande
“storico della filosofia”, ossia Aristotele. Da un lato, infatti, egli (come
Platone) affermò che la filosofia nasce dalla meraviglia, e che dunque
fra la filosofia ed il mythos («un insieme di cose meravigliose»)61 vi è un
rapporto di continuità, in quanto appunto «la meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza, e desiderio di sottrarsi a questa, cioè di
apprendere, di conoscere, di sapere»62; dall’altro lato, su Omero, Esiodo
e gli altri “teologi” narratori di mythoi, Aristotele (così come, ancora una
volta, Platone)63 assunse un atteggiamento di grande distacco, affermando esplicitamente che «non vale la pena di prendere seriamente in
N. Bardelli, La giurisdizione in Atene, L’erma di Bretschneider, Roma, 1972, pag. 17.
Ibidem, pagg. 23-24.
60
R. Mondolfo, Moralisti greci, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, pag. 7. Mondolfo ha anche
rimarcato che «nei poemi omerici – e non soltanto nelle parti più recenti – appare spesso
implicito il pensiero che più tardi Esiodo esprimerà esplicitamente: è artefice del proprio
male l’uomo che è artefice del male altrui; il cattivo consiglio è pessimo per chi lo delibera» (ibidem, pag. 47).
61
Aristotele, Metafisica, 982 b 17-21.
62
E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. VI.
63
Emblematico, in merito, Repubblica, III, 387 b.
58
59
48
Omero, Esiodo e la filosofia
considerazione queste elucubrazioni mentali. Bisogna, invece, cercare
di imparare da coloro che dimostrano ciò che dicono» (Metafisica, 1000
a 9-20), ossia dai filosofi attenti al logos, in quanto solo questi ultimi
ricercano realmente la verità64.
La posizione ambivalente di Aristotele, se considerata nella sua interezza, è solo apparentemente contraddittoria; il mythos infatti, nel primo pensiero greco, non si pose affatto in contrapposizione al logos, ma
ne costituì per alcuni aspetti la necessaria integrazione, come Aristotele
ben comprese65. Solo o soprattutto nella modernità, studiosi desiderosi di opporre – e far prevalere – i contenuti simbolici rispetto a quelli
razionali (pensiamo a Nietzsche, Heidegger ed ai loro epigoni contemporanei)66, hanno contribuito a radicalizzare la opposizione fra mythos e
logos, che in epoca greca non era affatto sentita come tale; si sono dovuti
attendere interpreti contemporanei particolarmente intelligenti, come J.
De Romilly, per rimarcare – data la grande presenza, anche nella poesia
arcaica, di riflessioni di carattere generale – che anche Omero ed Esiodo
«amavano ricorrere a principi generali sulla vita umana»67, e dunque ad
avvicinare il mythos al logos.
Pur, dunque, senza indulgere con le tesi di chi – come Teagene di
Reggio nel VI secolo a.C. – giunse a parlare di un «Omero filosofo»,
Come ha infatti sostenuto J. P. Vernant, rimarcando la rilevanza dello Stagirita in merito
a questa tesi, «nella tradizione di pensiero che ci viene dai Greci, caratterizzata com’è
dall’impronta del razionalismo, il mythos, malgrado il suo posto, il suo impatto e la sua
importanza, quando non è puramente e semplicemente rifiutato in nome del logos, viene
svalutato nei suoi aspetti e nelle sue funzioni specifiche» (J. P. Vernant, Mito e società nella
antica Grecia, Einaudi, Torino, 1981, pag. 112).
65
Come ha correttamente sostenuto C. Cassanmagnago, «a prima vista, invero, il mondo
del mito pare del tutto altro da quello filosofico successivo, che ha nel logos (la cui essenza
è dimostrativa) il suo strumento, il suo modello, la sua guida, il suo fine. Ma non è così»
(C. Cassanmagnago, Introduzione a Esiodo. Tutte le opere, op. cit., pag. 29).
66
Circa il rapporto fra pensiero razionalistico e pensiero simbolico – un rapporto a nostro avviso di solidarietà antitetico-polare – ci siamo soffermati in un saggio recente, ricompreso nella raccolta: G. Pasquale, a cura di, Miscellanea di studi in onore di Umberto
Galimberti, Carocci, Roma, 2012.
67
J. De Romilly, La costruzione della verità in Tucidide, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pag.
36. Un altro interprete intelligente è stato E. Paci, per il quale «tra l’epos omerico [...] e la
ricerca filosofica non c’è un netto distacco, ma soltanto una differenza di grado» (E. Paci,
Storia del pensiero presocratico, Ed. Radio Italiane, 1959, pag. 21). Nella medesima direzione
N. Abbagnano (Storia della filosofia, Utet, Torino, 1991, vol. I, pag. 13), G. Reale (Storia della
filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, 1991, vol. I, pag. 25) e J. Stenzel (Platone educatore,
Laterza, Roma-Bari, 1966, pag. 24).
64
49
iL Pensiero omerico
non si può negare che, nella Grecia arcaica (come ha ben rimarcato, fra
gli altri, W. F. Otto)68, il mito abbia costituito una forma di sapere organizzato, tanto da poter parlare tranquillamente di una corrente ideale
prefilosofica che giunse da Omero fino a Socrate. In Omero, infatti, fu
presente non solo un abbozzo di “dialettica” (si è giunti a calcolare che
il 45% dei passi dell’Iliade sia costituito da dialoghi, e che tale quota
salga al 68% nell’Odissea)69, ma anche una ricerca delle ragioni per cui i
fatti accadono, e dunque della verità70, nonché un tentativo di comprensione generale del senso dell’intero71.
Questo è stato colto da diversi interpreti, fra cui ancora J. De Romilly,
per la quale «in un certo senso tutto parte da Omero, dal suo desiderio di arrivare all’essenziale, all’universale: Omero lascia da parte le
differenze nazionali ed i tratti individuali»72, per giungere appunto ad
una riflessione generale, come fecero poi in somma misura i filosofi
classici. Fra gli interpreti italiani che hanno colto questa continuità vi
è anche S. Accame, il quale ha sottolineato come il concetto di verità,
«che avrà così grande rilievo in seguito per l’indagine critica, rivela già
in Omero [...] una importanza ed una pregnanza di significato che testimonia l’elaborazione travagliata del concetto»73. Nella medesima direzione pure A. Magris, il quale ha rimarcato come in Omero vi sia già
«la tipica ricerca del principio, che raccoglie in sé la totalità significativa
delle cose, il problema del logos [...] Il sapere umano può guadagnare una comprensione unitaria solo nella visione retrospettiva dei fatti,
perché la coscienza è nel tempo»74, ossia nella storia; fu presente infatti
68
W. F. Otto, Gli dèi della Grecia, La Nuova Italia, Firenze, 1944, pag. 15, ha parlato di «razionalismo» della mitologia omerica. Omero fu inserito nella corrente del razionalismo
greco anche da W. Nestle, Storia della religiosità greca, Sansoni, Firenze, 1973, pag. 29.
69
Come ha scritto correttamente E. Auerbach, «nei poemi omerici accadono molte cose
orribili, ma accadono raramente senza che gli uomini parlino» (E. Auerbach, Mimesis,
Einaudi, Torino, 1956, pag. 7).
70
Come ha ricordato anche Aristotele, «chi dice le cose come stanno è sincero e, come dice
anche Omero, assennato; e, in generale, quest’ultimo è amico della verità» (Etica Eudemia,
1234 a 1-2).
71
Come ha scritto correttamente R. Mondolfo, «il primo apparire di una nozione di legge
universale e permanente [...] si ha coi poemi omerici» (R. Mondolfo, Gli albori della filosofia
in Grecia, Petite Plaisance, Pistoia, 2009, pag. 18).
72
J. De Romilly, La costruzione…, op. cit., pag. 35.
73
S. Accame, Gli albori della critica, Esi, Napoli, s.d., pag. 10.
74
A. Magris, L’idea…, op. cit., pag. 171.
50
Omero, Esiodo e la filosofia
in Omero «l’esigenza universalmente umana di dare un senso alla vita
frantumata in istanti, cogliendo la nascosta, unitaria logica dell’essere»75.
La tesi della continuità fra poemi omerici e filosofia classica non ha
annoverato solo sostenitori; essa, anzi, ha forse addirittura avuto più
avversari. Tra i critici più noti di questa tesi si annovera peraltro uno
studioso del calibro di H. Frankel, per il quale «in Omero non è contenuto pressoché nulla della filosofia greca e dei suoi stadi preliminari»76;
a suo avviso, «l’antico epos eroico assume un atteggiamento sostanzialmente non filosofico: le cose vengono accettate senza discussione [...].
Ciò non impedisce tuttavia che esso abbia alla base, consapevolmente o
meno, delle premesse di carattere filosofico»77. Oltre agli argomenti che
abbiamo in precedenza esposto, questa stessa ammissione di “inevitabilità” della filosofia nell’opera omerica mostra quanto siano fragili gli
argomenti volti a separare Omero dalla filosofia classica; ciò emergerà
in maniera forte soprattutto nelle pagine seguenti, in cui l’umanesimo
sarà argomentato essere contenuto centrale e costante sia della poesia
omerica, sia della filosofia classica.
Ibidem. Tesi simili furono condivise anche da K. Kerenyi.
H. Frankel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Il Mulino, Bologna, 1997, pag. 32.
77
Ibidem, pag. 108.
75
76
51
L'umanesimo omerico
In passato si è sostenuto che, a causa della indeterminatezza nella concezione dell’uomo in Omero (descritto prevalentemente, in
modo non unitario, in base alla pluralità delle proprie funzioni psicofisiche)78, e della elevata presenza del divino nella sua opera, l’Iliade e
l’Odissea fossero da considerare testi non umanistici, bensì «teologici,
mitici»; come ha scritto in merito, ad esempio, G. Reale, «fin dai tempi
di Omero, ed ancor prima, era stata ferma convinzione del Greco che
la buona e la cattiva fortuna, il buon successo ed il cattivo successo
degli uomini, dipendessero formalmente dagli dèi, dal loro favore e
dalla loro avversione»79. Senza ripetere qui gli argomenti generali che
abbiamo altrove utilizzato contro la tesi del teocentrismo greco80, e prima di sviluppare gli argomenti specifici inerenti Omero, è opportuno
rimarcare che la tesi di un presunto teocentrismo omerico è stata confutata da diversi interpreti, fra cui R. Mondolfo (secondo cui almeno
nell’Odissea «l’uomo, non gli dèi, è responsabile del suo operare»81) e W.
Jaeger (secondo cui già in Omero è chiarissimo «il carattere umanistico
del pensiero greco»82). F. Codino poi, come mostreremo ampiamente,
ha argomentato come fosse forte la sovrapposizione fra divino ed umano nel pensiero omerico, dove il ruolo di fondamento e di riferimento
fu sempre svolto dall’uomo («in Omero l’umanizzazione della società
divina tende a diventare completa»83).
Abbiamo, per il momento, solo accennato ai tre contenuti che caratterizzano l’umanesimo omerico: la concezione dell’uomo, la responPer una sintetica descrizione della mancanza di unitarietà nella descrizione omerica
dell’uomo, è possibile consultare U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano,
2001, pagg. 19-24.
79
G. Reale, Storia…, op. cit., vol. III, pag. 227.
80
L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia greca, op. cit., pagg. 24-31.
81
R. Mondolfo, Problemi del pensiero antico, Zanichelli, Bologna, 1936, pag. 4; nella stessa
direzione, fra gli altri, anche E. Bignone, Il libro della letteratura greca, Sansoni, Firenze,
1942, pag. 28.
82
W. Jaeger, Paideia, Bompiani, Milano, 2004, pag. 114.
83
F. Codino, Introduzione a Omero, op. cit., pag. 165.
78
53
iL Pensiero omerico
sabilità etica, il rapporto fra umano e divino. Nelle pagine seguenti
cercheremo di affrontare questi argomenti nel dettaglio, ponendoci in
opposizione a quelle che sono generalmente, in merito, le interpretazioni più diffuse.
a. La concezione omerica dell’uomo
Come ricordato, la tesi prevalente circa la concezione antropologica
omerica è quella per cui, data la rilevanza attribuita alla molteplicità
delle funzioni psico-fisiche dell’uomo (il pensiero, il respiro, la vista,
l’udito, ecc., e dunque ai vari organi preposti allo svolgimento di quelle
funzioni: il cervello, i polmoni, gli occhi, le orecchie, ecc.)84, non ancora
teoricamente unificate da un concetto universale di natura umana, «la
coscienza della unitarietà della vita spirituale e dell’io sembra ancora
mancare»85. La presunta mancanza di tale unità, secondo questa interpretazione prevalente, risulta essere una carenza di non poco conto,
in quanto è evidente che un uomo privo di coscienza unitaria è in sostanza un uomo privo di personalità, dunque anche un uomo privo di
responsabilità, e pertanto di etica (intesa come norma comportamentale
condivisa finalizzata al bene)86; basterebbe questo, se la tesi fosse vera,
per negare al pensiero omerico la qualifica di “umanistico”, retroponendolo come pensiero “mitico” o “teologico”, in cui cioè l’uomo non
assume ancora centralità.
La prima domanda da porsi, per valutare la correttezza di questa interpretazione, è allora la seguente: realmente, nell’opera omerica, l’uomo fu pensato solo come una pluralità non unificabile di funzioni psico-fisiche, come un mero fascio di attività e di organi, e dunque come
privo di coscienza, di personalità e quindi di responsabilità? Seguendo
una interpretazione filologica molto stretta, sembrerebbe di dover ri84
Rinviamo in merito, per un approfondimento, a P. Manuli-M. Vegetti, Cuore, sangue e
cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, Petite Plaisance, Pistoia, 2009. In questo
testo si chiarisce, in modo analiticamente argomentato, che almeno fino al V secolo a.C.,
ovvero alle ricerche di anatomia e fisiologia del medico Alcmeone di Crotone, la sede
dell’intelletto era posta non nel cervello, ma nel cuore; ancora Aristotele, peraltro, ricercava il centro della vita spirituale nel cuore.
85
M. Pohlenz, L’uomo greco, Bompiani, Milano, 2009, pag. 4.
86
Dato che, in epoca omerica, la «virtù» coincide con la «buona vita», affermare che esistono solo, concettualmente, singoli organi e non l’uomo nella sua compiutezza, equivale
ad affermare che possono esistere, al più, «virtù» di singoli organi, ossia il loro buon
funzionamento, ma non la «virtù» dell’uomo nella sua compiutezza; il che cancellerebbe
– ma in maniera arbitraria – ogni concezione etica all’interno del mondo omerico.
54
L'umanesimo omerico
spondere di sì; la parola «uomo» compare infatti assai raramente nei
poemi omerici, spesso sostituita dal termine «mortale» (sostituzione
tipicamente greca, come mostreremo), ma soprattutto rimpiazzata appunto dalla indicazione specifica delle varie funzioni ed organi. Gli studiosi, specie nel novecento, si sono molto soffermati a rimarcare questo
punto, per vari motivi: gli studiosi “materialisti” per mostrare l’assenza, nell’originario pensiero greco, del concetto unitario di “anima” (da
loro inteso come illusorio, e pertanto in modo negativo); gli studiosi
“simbolici” per mostrare la presenza, anche nell’originario pensiero
greco, di una ambivalenza di significati legata alla instabilità delle passioni corporee; gli studiosi “cattolici” – gli unici che non hanno mai
voluto “appropriarsi” di una vicinanza col pensiero omerico – per mostrare che una compiuta concezione dell’uomo come “persona”, si ebbe
solo nel cristianesimo87; i filologi accademici per il semplice fatto che,
in generale, una “molteplicità” di funzioni consente molti più spazi di
discorso rispetto alla “unitarietà” della essenza umana, la quale obbliga
anzi ad un discorso univoco (accademicamente poco produttivo).
I dati testuali, ovvero i poemi omerici, sembrerebbero come detto
dare ragione a questi studiosi. Tuttavia, per lo stesso motivo per cui ne
L’umanesimo della antica filosofia greca abbiamo sostenuto che l’umanesimo – pur essendo tale concetto mancante – costituiva implicitamente
il centro del pensiero greco, riteniamo che la stessa cosa valga per il
concetto di “uomo” che, pur sostanzialmente mancante nell’opera di
Omero, ne costituisce comunque implicitamente il centro; non si comprenderebbe, del resto, la molteplicità delle funzioni psicofisiche, così
come la molteplicità delle espressioni etiche nelle figure omeriche, se
alla base delle stesse non vi fosse una concezione unitaria e tendenzialmente universale di uomo. Andiamo tuttavia con ordine, cercando dapprima di delineare le ragioni dei maggiori interpreti; solo in un secondo
momento, ed in opposizione ad esse, riporteremo le nostre ragioni.
Fra gli studiosi cattolici, che costituiscono la componente più importante fra gli antichisti, e su cui pertanto ci soffermeremo in misura
maggiore, la tesi della assenza di un concetto unitario di “uomo” nel
pensiero omerico è stata sostenuta nella maniera più ampia, a nostro
avviso, da Giovanni Reale. Quest’ultimo ha infatti rimarcato, in manieTale concezione è smentita però anche da uno studioso cattolico quale G. Beni, per il
quale anche nel pensiero greco «l’essere umano è persona fin dalla prima concezione» (G.
Beni, La persona umana. Origine e metafisica, Signorelli, Roma, 1966, pagg. 12-13).
87
55
iL Pensiero omerico
ra filologicamente piuttosto corretta (anche se non del tutto, come fra
breve mostreremo), che nei poemi omerici non risulta né una rappresentazione unitaria del corpo umano, né una rappresentazione unitaria
dell’anima (la psyché è solo, in Omero, una sbiadita copia dell’uomo vivente, presente esclusivamente nell’Ade dopo la sua morte, incapace di
conoscere, di sentire e di volere), per cui a fortiori non risulta nemmeno
una concezione unitaria dell’uomo; nei poemi omerici ricorre certo più
volte il termine greco soma, ma esso non indicava né il corpo né l’anima,
bensì – come per primo notò Aristarco – esclusivamente il cadavere.
Del corpo vivente, sempre secondo Reale, Omero esplicita solo la molteplicità delle funzioni psicofisiche; per questo, a suo avviso, l’uomo
omerico non seppe nemmeno pensarsi come «corpo»: ciò accadde, per
Reale, «solo a partire dal VI e soprattutto dal V secolo a.C.»88, in quanto
«solo con la nascita del pensiero filosofico si è imparato a considerare la
molteplicità delle cose e dei loro vari aspetti nell’ottica dell’unità concettuale»89.
Quanto Reale afferma non è però, come anticipato, pienamente corretto, nemmeno in termini filologici. Pensiamo infatti, ad esempio, al
termine demas, utilizzato più volte da Omero per indicare il corpo vivente, e rappresentante la figura umana nella sua interezza; esso compare
più volte nell’Odissea: III, 464-469; X, 233-243; XXIV, 502 ss. Pensiamo
inoltre al termine chros, che significa «pelle» nel senso di «superficie
del corpo, involucro» (non come semplice derma); anche esso compare
più volte nell’Iliade: VIII, 41-46; XIV, 170-189; XIX, 29-39; XXIV, 411-415.
I termini del problema che più ci interessano non sono però quelli
filologici, bensì quelli filosofici. Ora: se è indubbio che la consapevolezza teoretica del rapporto fra unità e molteplicità si ebbe solo con la
filosofia, ci pare comunque eccessivo eliminare ogni consapevolezza
di questo genere da un pensiero come quello omerico, che ha parlato innanzitutto dell’uomo, e che ha costituito il principale riferimento90 proprio dell’universalistico pensiero filosofico classico sull’uomo
(l’universalismo richiede sempre la unificazione concettuale della molteplicità). Il fatto che la consapevolezza teoretica del rapporto fra unità
88
G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano,
1999, pag. 15.
89
Ibidem, pag. 17.
90
Come noto, non vi è quasi dialogo platonico che non riporti, direttamente o indirettamente, brani omerici.
56
L'umanesimo omerico
e molteplicità sia storicamente stato il primo compito della filosofia,
non esclude che questa consapevolezza, in potenza presente in ogni
uomo, fosse presente anche nella poesia omerica; del resto, nel contesto
storico-sociale omerico, gli scambi economici erano gestiti, in assenza
di moneta, da «unità di misura» – buoi, grano o altro –, che avevano appunto il compito di unificare, in termini di valore, la molteplicità delle
merci. È del resto difficile sostenere che l’uomo, in grado di identificarsi
unitariamente in morte (soma), non lo sapesse fare in vita. Ed ancora: se
gli uomini omerici non fossero stati in grado di comprendersi in modo
unitario, come avrebbero potuto distinguersi fra loro, chiamarsi per
nome, delineare discendenze e proprietà, tutte cose che invece fecero
quotidianamente?
È evidente che per Reale, come per qualunque altro studioso volto
a sostenere l’assenza di una concezione unitaria di uomo nel pensiero
omerico, sia assai difficile rispondere a queste domande. Tuttavia, se
questi studiosi volessero realmente essere coerenti con le loro tesi, dovrebbero affermare che, senza una almeno implicita concezione unitaria di uomo, Omero avrebbe solo potuto parlare delle braccia di Achille,
del battito cardiaco di Odisseo, della respirazione di Agamennone, della testa di Tersite, ovvero delle membra (melea, gyia) dei loro corpi, o al
più dei loro movimenti funzionali; il fatto però che possediamo l’Iliade
e l’Odissea, e che questi due poemi si caratterizzino per la ricchezza del
loro contenuto etico-educativo, mostra che la tesi della assenza di una
concezione unitaria dell’uomo in Omero non è corretta, e che risulta
pertanto errata la tesi di chi sostiene che Omero non avrebbe saputo
comprendere l’uomo «come una identità che si esplica nelle differenziazioni di organi e funzioni di vario genere»91. Ci pare in particolare
che Reale cada vittima, nella critica ad Omero, di una sorta di errato “filologismo” (mentre ciò non gli capita, ad esempio, interpretando
Platone)92; il fatto cioè che l’antico aedo nominasse più frequentemente
91
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 18. Riteniamo invece corretta la tesi di H.
Frankel, per cui «l’uomo omerico non è un uomo ottuso e confuso, ma è un uomo limpido
e consapevole, intrattiene rapporti sociali raffinati, parla con talento straordinario» (H.
Frankel, Poesia…, op. cit., pag. 84).
92
La medesima tesi vale anche per B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo,
Einaudi, Torino, 1963, pag. 28.
57
iL Pensiero omerico
mani, avambracci, piedi, ecc., non deve indurre a ritenere che egli non
sapesse unificare quelle parti, e le loro funzioni, come parti di un tutto93.
Il punto è – come lo stesso Reale, contraddittoriamente, rimarca – che
«Omero fa riferimento ad organi particolari del corpo [...] per esprimere
mediante essi un senso assai più ampio»94; Omero sapeva bene infatti
che, quando ad esempio nei combattimenti un eroe veniva colpito in
una parte del corpo, era comunque l’uomo intero che veniva colpito.
Il discorso omerico non ha certo nulla a che vedere con la descrizione dell’uomo come dualisticamente composto da anima e corpo, che si
avrà solo nella filosofia del V secolo; l’uomo omerico fu infatti una unità psico-fisica, ed in questo senso rappresentò, per la propria unitarietà,
una descrizione dell’uomo più corretta rispetto a quella successiva di
Pitagora e di Platone95. Per questo motivo riteniamo errata anche la tesi
di E. Havelock, per il quale «miriadi di cose non possono essere espresse nel discorso metrico»96 (sola forma espressiva della cultura omerica),
fra cui appunto una concezione unitaria di uomo; ci pare infatti, in generale, che non si possa affermare che ciò che non è espresso in maniera
esplicita, debba essere necessariamente mancante in una cultura.
Per Reale, in sostanza, essendo il discorso mitico-poetico meramente «narrativo, dispiegantesi in una successione di eventi scanditi nel
tempo [...] con l’emergere in primo piano di una gran quantità di personaggi, di fatti e di episodi presentati in una molteplicità di aspetti»97, è
impossibile che in esso si delinei un discorso unitario e stabile sull’uomo, quale fu poi quello platonico. Tuttavia, pur concordando con la
tesi della maggiore rilevanza umanistica del discorso platonico, non ci
pare che il fatto che nei poemi epici siano presenti «una molteplicità
Il fatto che nell’arte arcaica le parti furono raffigurate più dell’intero (tema su cui Reale
insiste alle pagg. 18-27 di Corpo, anima e salute), ci pare prova non dirimente, perché comunque anche l’intero era rappresentato. Il fatto che «l’uomo viene rappresentato nella
articolazione delle sue membra», non esclude infatti che egli fosse anche «rappresentato
come unità organica» (ibidem, pag. 27).
94
Ibidem, pag. 32. Ed ancora, in modo anche più chiaro: «Nel linguaggio omerico il riferimento alla parte specifica del corpo fa rimando all’intero dell’organismo fisico, e addirittura anche all’intero dell’uomo in senso sia fisico sia spirituale» (ibidem, pag. 34).
95
Ciò nonostante, come faceva giustamente notare H. Frankel, il problema della struttura
psico-fisica dell’uomo non era certo un problema omerico. Egli, peraltro, rimarcava che
«l’uomo omerico [...] era anche un io unitario» (H. Frankel, Poesia, op. cit., pag. 84).
96
E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari,
1995, pag. 122.
97
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 51.
93
58
L'umanesimo omerico
di aspetti», possa condurre a negare che in essi non sia anche presente
una concezione unitaria e stabile dell’uomo, con l’indicazione di precise norme etiche da seguire per poter condurre una buona vita. Omero
in effetti, contrariamente a quanto Reale, Havelock e la maggioranza
degli interpreti sostengono, non si limitò a “narrare”, ma volle descrivere e valutare98, quindi in un certo modo “unificare” il senso della vita
umana, sulla base di un implicito principio onto-assiologico: la natura
razionale e morale dell’uomo. Non è possibile infatti non vedere come
nell’opera di Omero, nella quasi totalità degli episodi, sia premiato chi
si comporta in modo ragionevole e buono, e sia punito chi si comporta
in modo opposto; tutto ciò non può essere passato sotto silenzio riflettendo sulla concezione omerica dell’uomo. Indubbiamente, Omero non
operò ancora, sul piano teoretico, la riduzione metafisica della molteplicità alla unità in base alle essenze dei concetti, come faranno in seguito
Socrate e Platone; in un certo senso però, costituendo modelli univoci
di personalità, è come se lo facesse: sta alla intelligenza dell’interprete
infatti non fermarsi ai dati testuali, bensì fare emergere soprattutto ciò
che rimane nascosto, sebbene costantemente presente, nell’opera stessa. Anche se Reale si associa, su questo tema, al Platone dei libri V-VII
della Repubblica, non riteniamo possa essere correttamente riferita ad
Omero la critica di essere solo «attaccato al sensibile», e di non sapere,
per questo, cogliere la realtà delle cose con uno «sguardo di insieme»; la
dimensione «pre-filosofica» di Omero, su cui concordiamo con Reale99,
non sta infatti nella assenza di unità e stabilità di contenuti razionali e
morali nei suoi poemi, bensì nel fatto che questi contenuti rimangono
per larga parte non esplicitati e pertanto non chiariti: per questo parliamo di una “pre-filosofia”, e non di una vera e propria “filosofia”. Ci
sembra comunque poco corretto sostenere che i poemi omerici, i testi su
cui si basa la filosofia greca e con essa l’intera civiltà occidentale, altro
non siano se non una rappresentazione sconnessa di emozioni, sentimenti e passioni; questo è tuttavia quanto viene sostenuto dalla quasi
totalità degli interpreti, che si basano più sulla effettiva molteplicità dei
termini utilizzati da Omero per descrivere la vita psichica e spirituale,
che non sulla struttura unitaria del sostrato umanistico sottostante ai
poemi stessi.
Come ha scritto correttamente W. Jaeger, «il poeta non narra soltanto fatti; egli vanta e
loda ciò che vi è al mondo degno di lode e di vanto» (W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 85).
99
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 56.
98
59
iL Pensiero omerico
Omero aveva in effetti addirittura tre termini per indicare il «cuore»
(kradie, ker, etor), ed allo stesso modo, con significati analoghi, parlava di
thymos (animo), phren (mente), noos (pensiero), psyché (anima dell’uomo
morto), ecc.. Come noto, la traduzione di questi termini è controversa,
non essendo essi sovrapponibili ai loro analoghi moderni. Tuttavia, a
ciascuno di questi termini corrisponde una funzione che, se non proprio precisa e ben determinata, è comunque sostanzialmente costante
nell’Iliade e nell’Odissea; si tratta, per comprendere il reale significato di
questa molteplicità di termini (largamente inferiore, comunque, a quella utilizzata ad esempio dalle moderne scienze cognitive), di entrare
nel corretto “circolo ermeneutico” con i poemi omerici: in questo modo
risulterà chiaramente la struttura unitaria della natura razionale e morale dell’uomo che Omero pose implicitamente alla base della propria
opera. Come ammette infatti lo stesso Reale, nei poemi omerici «non
poche volte il cuore è quella parte che esprime l’intero, ossia l’uomo
stesso con la sua configurazione etica»100; ed anche il termine thymos,
che compare in alcune centinaia di passi, «abbraccia per intero tutta
quanta la sfera delle emozioni», fino ad esprimere «un concetto di vita
a largo raggio»101. Reale viene ancora contraddittoriamente a convergere con la nostra posizione quando è costretto ad affermare, dopo una
lunga disamina di passi omerici, che in Omero «quella che noi chiameremmo unità della persona, anche se non viene teorizzata ed espressa
concettualmente, di fatto non viene mai compromessa, almeno a livello
di concretezza empirica»102. Ciò accade anche quando egli afferma che
«qualsiasi sia la parte dell’uomo chiamata in causa, è sempre l’insieme
dell’uomo che entra in gioco: la parte è sempre, in larga misura, espressione di tutto l’uomo»103; la stessa cosa si verifica quando egli sostiene
che, in Omero, «ciascun organo rappresenta la persona»104.
In effetti, nell’Iliade e nell’Odissea le tesi ed i valori esposti sono
sempre i medesimi, così come la conoscenza e l’azione sono sempre
consequenziali. Il fatto che conoscenza ed azione siano consequenziali
non è certo elemento secondario, in quanto, in poemi “prefilosofici” in
cui l’aspetto “conoscitivo” è trascurato, è l’azione a fornire i principali
Ibidem, pag. 64.
Ibidem, pag. 65.
102
Ibidem, pag. 69.
103
Ibidem.
104
Ibidem, pag. 95.
100
101
60
L'umanesimo omerico
contenuti alla conoscenza; la natura dell’uomo omerico si esprime infatti nel suo agire, ed esso è sempre derivato dalla sua comprensione
delle cose del mondo e del loro senso. Questo ci consente di apprezzare
soprattutto il tratto “progettuale” dei vari personaggi omerici, ed in
particolare di Odisseo che, come mostreremo, fa della “pianificazione”
razionale e morale l’essenza delle proprie azioni; questo il suo vero
“essere”105, e questa dunque anche quella che oggi definiremmo la sua
“personalità”.
È però proprio questo il punto in cui vi è il maggiore attrito con
gli studiosi cattolici: costoro infatti, come ricordato, solitamente negano
che al pensiero omerico, ed in generale a tutto il pensiero greco, possa farsi risalire il concetto di “persona”, a loro avviso attribuibile solo
al pensiero cristiano106. Nonostante infatti l’aver ricordato alcuni passi
omerici (Iliade, V, 124-126; VI, 123-127; XI, 264-272; XIV, 414-418; Odissea,
II, 270-273) in cui il termine menos «esprime addirittura il carattere essenziale della persona, e quindi rivela la natura dell’uomo in una certa
ottica»107, Reale afferma subito dopo che «in Omero non ci può essere
un concetto di persona in senso forte», ma solo «una immagine metaforica che può, sia pure in misura limitata, essere ricondotta a questo
significato»108; questo, però, è già un notevole passo avanti rispetto alla
tesi della presenza di una mera molteplicità di funzioni ed organi a
caratterizzare l’uomo omerico. Come ha in merito sostenuto anche A.
Cancrini, «costante e tipico motivo della storiografia sul mondo classico è l’idea che il concetto di coscienza morale sia una scoperta del cristianesimo, assente nella tradizione greca più antica. L’estraneità dell’idea
di coscienza al mondo greco è stata infatti asserita in modo perentorio da
più parti, fin da quando Hegel, nella sua nota interpretazione, considerò il mondo greco antico come il mondo della oggettività»109. Tale idea,
Per inciso, riteniamo errata la affermazione di Reale secondo cui «la natura dell’uomo
omerico si manifesta non nel suo essere ma nelle sue azioni» (G. Reale, Corpo, anima,
salute, op. cit., pag. 93); si tratta dell’ennesimo tentativo di negare consistenza onto-assiologica all’uomo omerico, che però non regge alla prova dei fatti, ossia ai dati testuali ed
alle conseguenti riflessioni.
106
Un altro esempio di questa tendenza è B. Mondin, Storia della metafisica, Esd, Bologna,
1998, vol. II, pagg. 10-12.
107
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 96.
108
Ibidem, pag. 98.
109
A. Cancrini, Syneidesis. Il tema semantico della Con-scientia nella Grecia antica, Edizioni
dell’Ateneo, Roma, 1970. Hegel però aveva anche, nelle sue Lezioni di storia della filosofia,
attribuito ai Greci la scoperta della interiorità e della coscienza morale.
105
61
iL Pensiero omerico
tuttavia, non è corretta, e poco importa che molti siano stati gli studiosi che l’hanno sostenuta. Fra essi si può anzitutto segnalare W. Jaeger,
il quale, pur convinto sostenitore dell’umanesimo greco, ha affermato che «nel pensiero greco antico manca un concetto paragonabile alla
nostra [cristiana; L. G.] coscienza personale»110; della stessa idea anche
J. Stenzel: «parlare di coscienza [...] presso i Greci significa introdurre
qualcosa di estraneo, anche per Platone»111. Tesi molto simili si ritrovano pure in M. Pohlenz112. Si tratta di tesi, a nostro modo di vedere, non
corrette, in quanto spesso scaturiscono dalla assunzione preliminare di
un concetto predeterminato di coscienza (quello cristiano), che, effettivamente assente nel mondo greco, conduce questi studiosi a negare per
il mondo greco l’esistenza di qualunque concetto di coscienza, come se
esso non potesse assumere anche forme e modalità differenti. Ciò è stato invece ben compreso da Rodolfo Mondolfo il quale, con riferimento al «rimprovero fondamentale rivolto all’etica greca» per la presunta
mancanza di una «nozione di coscienza morale», ha ampiamente fornito, in un libro purtroppo non più recentemente ristampato, «una estesa
dimostrazione documentata» dello «sviluppo di teorie della coscienza
morale nell’etica antica»113, da Omero in poi.
Dopo aver analizzato la questione se un concetto di uomo unitariamente inteso sia stato o meno presente nei poemi omerici, si apre la
questione, ad essa connessa (purché alla prima si giunga ad una risposta positiva), se in essi sia presente un concetto di «coscienza». Anche
tale questione può essere affrontata in diversi modi, uno dei quali è sicuramente quello lessicale. Non vi è dubbio che il termine più simile al
latino conscientia (ossia syneidesis) compaia per la prima volta, in Grecia,
per esteso, solo nel frammento 297 di Democrito. Gli studi di C. Del
Grande hanno però riscontrato temi analoghi già in Omero; significativa è in proposito la argomentazione anche della sua tesi secondo cui,
nel mondo omerico, Aidos è «la dea simbolo della coscienza individuale»114. Molteplici sono inoltre i passi omerici (ad esempio Odissea, X, 515;
XV, 526; XVII, 152; XX, 92) in cui è evidente il riflettere, il pensare tra sé,
W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 68.
J. Stenzel, Platone educatore, op. cit., pag. 33.
112
M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 658; egli però, in modo ambivalente, attribuisce
la presenza di questa tematica ai Pitagorici.
113
R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, La Niuova Italia,
Firenze, 1953, pag. X.
114
C. Del Grande, Hybris, Ricciardi, Napoli, 1967, pag. 27.
110
111
62
L'umanesimo omerico
il meditare nella propria intimità, i quali implicitamente (e fors’anche
esplicitamente) segnalano la presenza di una coscienza, sebbene spesso
in forme perifrastiche o mitiche. Rimanendo sempre sul piano lessicale, va ricordato come il termine kephale (testa) in Omero, come ha ricordato anche H. Frankel, può ben assumere il significato di «persona»
che noi rendiamo col nome proprio dell’individuo (Iliade, XVIII, 79-82;
112-114; XXIII, 94 ss.); tuttavia, in base a quanto abbiamo argomentato
in queste pagine, riteniamo che in Omero si possa parlare di «persona»
non tanto in senso empirico, quanto in senso concettuale, e con una
certa consistenza onto-assiologica.
La tesi della assenza di un concetto di «persona» nei poemi omerici è stata sostenuta anche da un altro grande studioso cattolico del
pensiero greco, ossia Enrico Berti. In un recente libro-dialogo con noi
realizzato, egli ha infatti affermato – opponendosi in questo modo, fra
gli altri, ad un grecista come G. Pasquali, che nella Enciclopedia italiana,
alla voce Omero, aveva invece definito gli eroi omerici come «uomini»
caratterizzati da precise «qualità d’animo» – che «il concetto di persona
può nascere solo dove si insista sulla singolarità, sulla irripetibilità di
ogni specifica esistenza», e che «ciò si verifica soprattutto nella religione cristiana»; solo nella Bibbia infatti, e non nel pensiero greco, «il singolo uomo è davvero considerato come unico, insostituibile, e la insostituibilità è alla base del concetto di persona»115. La argomentazione di
Berti, come quella di Reale (ma davvero molti altri importanti studiosi
potrebbero essere citati), è paradigmatica del pensiero cattolico; essa si
basa infatti sul carattere propriamente «personalistico» di tale pensiero116, poggiando sulle famose affermazioni evangeliche secondo cui il
nome di ciascuno di noi è scritto nel Regno dei Cieli, in quanto perfino
i capelli di ognuno sono contati (pensiamo anche alla famosa parabola
della “pecorella smarrita”, che il pastore si mette a cercare proprio per
la sua unicità, anche ponendo a rischio la sicurezza dell’intero gregge).
Ora: è indubbiamente vero che queste tematiche furono affrontate dal
pensiero cristiano assai più che dal pensiero greco, come hanno miraE. Berti - L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, op. cit., pag. 59.
«Personalismo» è definito, in Italia, soprattutto l’approccio filosofico di un pensatore
cattolico attento anche al pensiero classico quale fu L. Stefanini, per il quale «le Confessioni
di Agostino sono la mirabile esecuzione, senza precedenti nella storia del pensiero, di
un programma personalistico», dato che «il conosci te stesso di Socrate non fu un programma personalistico» (in AA.VV., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2011, pagg.
8529-8530).
115
116
63
iL Pensiero omerico
bilmente mostrato, fra gli altri, A. Rosmini, E. Mounier e J. Maritain;
tuttavia, ancora una volta, il fatto che esse siano state maggiormente
trattate dal pensiero cristiano (ma soprattutto, significativamente, da
quel pensiero cristiano più impastato di classicità), non può condurre
ad affermare che esse furono assenti nel pensiero greco, o che comunque non raggiunsero in Omero quella “consistenza qualitativa” tale da
poter parlare, anche per la antica Grecia, di un concetto di “persona“.
Ebbene: per esplicitare il tema in esame sul piano teoretico, può essere utile cercare di delineare le principali caratteristiche che consentono di definire il concetto di persona. Ci viene in aiuto la storia della
filosofia, in particolare quella del periodo medievale. In quest’epoca,
ancor prima della nota definizione di Severino Boezio (personae est naturae rationalis individua substantia), vi fu una definizione meno nota
ma a nostro avviso ancor più importante, ovvero quella di Giovanni
Damasceno: «Persona è quell’ente che, esprimendo se stesso per mezzo delle sue azioni e proprietà, porge di sé una manifestazione che lo
distingue dagli altri della sua stessa natura»117. Ora: queste «azioni e
proprietà», ovvero le qualità razionali e morali che caratterizzano l’uomo in generale e che si ritrovano, specificamente declinate, in tutti gli
uomini, non furono affatto assenti negli uomini descritti dal pensiero
omerico118. Se così fosse infatti, ovvero se nel pensiero omerico fosse assente il concetto di persona, ci troveremmo di fronte ancora una volta ad
aporie inspiegabili: perché ad esempio Odisseo volle tornare proprio
dalla amata Penelope, e non si accontentò di Calipso o di Nausicaa,
che pure erano bellissime? Perché Achille decise di tornare a combattere, pur dopo la morte di tanti compagni, solo dopo che venne ucciso
l’amico Patroclo? Perché Priamo, dopo tanti lutti fra i suoi concittadini,
fu disposto a rischiare la vita solo per riavere il corpo del figlio Ettore?
È evidente che l’amata Penelope, l’amico Patroclo, il figlio Ettore, possedevano per Odisseo, Achille, Priamo qualità umane personali insostituibili119; e davvero gli esempi, nei poemi omerici, potrebbero moltiplicarsi. Per questo motivo reputiamo davvero scandaloso che ancora
oggi, sulla scia anche delle tesi di E. Zeller, si possa sostenere, nelle
Dialect., c. 43: in Migne, PG 94 col. 613.
In questo senso anche Diego Fusaro in D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo,
Il Prato, Padova, 2012.
119
Come ha scritto correttamente S. Accame, «il concetto-sentimento dell’io-persona esiste in Omero, a farne l’unità della vita spirituale, l’unità della coscienza» (S. Accame, Gli
albori…, op. cit., pag. 58).
117
118
64
L'umanesimo omerico
più importanti enciclopedie filosofiche, che «la filosofia dei Greci [...]
manca del concetto di persona»120, e che ciò sia imputato ad un presunto «intellettualismo classico», il quale avrebbe impedito ai Greci ogni
«personalismo», ovvero «ogni filosofia che rivendichi la dignità ontologica, gnoseologica, morale e sociale della persona»121.
Avendo scritto oramai diversi libri sull’umanesimo greco, riteniamo di dover evitare, in questa sede, ripetizioni circa la argomentazione
della centralità dell’uomo – inteso anche come persona – nelle varie
fasi del pensiero greco; ci limitiamo a rimarcare, per evitare ogni polemica, che il peculiare “personalismo cristiano” potrebbe essere sostenuto anche senza togliere al pensiero greco ciò che gli fu proprio ed
originario (ovvero una adeguata concezione dell’uomo), mostrando in
modo maggiore la continuità dei due pensieri. Se infatti nei confronti
di Omero, agli inizi del pensiero cristiano, furono frequenti le parole di
biasimo122, col trascorrere del tempo «anche per gli apologeti cristiani
più inesorabili, Omero fu il primo, il sapiente, il più antico di tutti i poeti»123. Clemente Alessandrino lo considerò infatti «il venerabile anziano
fra i poeti» (Stromata, V, 1, 2), e cose analoghe si possono sostenere per
San Gerolamo, che visse nel III secolo (Ep. Ad Nep., 52, 3). I padri della
chiesa latini poi, che conobbero peraltro Omero non nel testo originale
ma solo nelle manchevoli traduzioni antiche, lo definirono come poeta «dolce» («dolcissimo inutile» lo chiamò ad esempio Agostino nelle Confessioni, I, 14); ciò vale anche per Severino Boezio, che cantò «il
labbro stillante miele di Omero» (De cons. phil., V, 2), e per Cassiodoro,
che esaltò la «nobiltà» dell’opera omerica (Variarum, I, 39). Questi giudizi positivi proseguirono – passando ad esempio per San Basilio, per
il quale «l’intero poema di Omero è tutto un unico inno alla virtù» (Ad
adolescentes, 4) – almeno sino a Dante Alighieri ed alla sua epoca, a riprova di una sostanziale «condivisione di orizzonti» antica del tratto
umanistico del pensiero omerico; questa «condivisione di orizzonti»,
L. Stefanini nella voce Persona, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, op. cit., pag. 8519.
Ibidem, pagg. 8527-8529.
122
Pensiamo, ad esempio, a Minuccio Felice: «Platone fece benissimo ad escludere il famoso Omero – tanto illustre e lodato e incoronato – dalla città che egli costruiva nel suo
dialogo» (Octavius, 23, 2). Tertulliano chiamò Omero «dedecorator deorum» (Apologeticus,
XIV, 4), ma lo definì anche «principe dei poeti, e di tutti i poetanti fonte primigenia e
oceano» (Ad nationes, I, 10).
123
H. Rahner, Miti greci nella interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna, 1971, pag. 364.
120
121
65
iL Pensiero omerico
rifiutata nella modernità dal pensiero facente riferimento al cristianesimo, dovrebbe a nostro avviso essere ripresa.
Rimarcavamo all’inizio di questo lungo paragrafo che la tesi di una
presunta «mancanza di unità» nella concezione dell’uomo omerico, è
stata sostenuta con diverse motivazioni non solo da pensatori cattolici, ma anche da pensatori “materialisti”, “simbolici” o semplicemente
“filologici”.
Di queste tre categorie la più interessante è forse costituita dai “materialisti” che, per quanto oramai non più maggioritari, hanno soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in Francia ed in
Italia, occupato il centro della scena; questi studiosi sono molto interessanti perché, lungi da qualsivoglia pregiudizio nei confronti di Omero,
provano anzi – come del resto i “simbolici” ed i “filologici” – simpatia
verso quest’ultimo. Il motivo di questa simpatia è da ricondurre al fatto
che, rimarcando la pluralità delle funzioni psico-fisiche degli uomini
omerici (ed al contempo sottolineando la presunta assenza di una unità
spirituale degli stessi), i “materialisti” possono realizzare una “strategia
di appropriazione” del pensiero greco “originario”, mostrando come
già in esso si parlasse dell’uomo – a differenza di quanto farà poi il
cristianesimo – in maniera “scientifica”, secondo le modalità che saranno poi, nella modernità, proprie di Marx e del marxismo. Limitandoci
all’Italia, è possibile citare in merito uno studioso come Mario Vegetti,
il cui approccio è in effetti paradigmatico di un certo prevalente marxismo (prevalente, si intende sempre, fin verso gli anni Settanta del secolo
scorso)124. Egli infatti, oltre a sostenere la tesi della pluralità irriducibile
delle funzioni psico-fisiche dell’uomo omerico, tende in pratica ad attribuire priorità all’Iliade ed a leggere Omero come il poeta degli scontri
di potere e dei rapporti di forza, in cui la ragione e l’etica occupano un
ruolo marginale. Pur fornendo un importante “vaccino” contro i rischi
di una errata lettura classicistica del mondo greco, ci pare però che la
Per quanto riguarda il pensiero “marxista”, è doveroso citare almeno due fra i maggiori
esponenti della cosiddetta Scuola di Francoforte, ovvero M. Horkheimer e T. W. Adorno
(Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1974, pagg. 56-57). Costoro hanno anch’essi
parlato di «composizione ancora labile ed effimera del soggetto» in Omero, facendo riferimento al fatto che spesso l’epos descrive un contrasto tra il soggetto ed alcune parti del
suo corpo (ad esempio il cuore); in realtà la ragione di questo contrasto, a nostro avviso, è
più legata alle modalità della poesia orale. Concordiamo in questo senso con l’opera di B.
Williams (Shame and Necessity, University of California Press, 1993), che mette in evidenza
l’esistenza di una compiuta umanità nelle figure omeriche, dotate pressoché sempre di
autocontrollo e di autonomia di deliberazione.
124
66
L'umanesimo omerico
interpretazione complessiva del pensiero omerico posta in essere da
Vegetti rischi di perdere, nello stesso, proprio l’essenziale, ovvero la
centralità dell’uomo e della sua progettualità razionale e morale125; e
quando si perde l’essenziale, si perde molto (quasi tutto), col rischio
di appiattirsi su alcuni luoghi comuni, quale è appunto quello della
assenza di una concezione unitaria dell’uomo nel mondo omerico. Nel
suo citato L’etica degli antichi, Vegetti ha infatti sostenuto che «nell’uomo omerico, la vita, l’emozione, l’azione appaiono disaggregati in una
pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato,
ad un complesso psicosomatico unitariamente governato»126; il testo
prosegue poi con una serie di argomentazioni volte a negare, o comunque a ridimensionare, l’umanesimo omerico, di cui ci occuperemo però
poco oltre.
Per concludere questo lungo paragrafo, ed introdurre il prossimo,
ci pare invece utile citare, contro la tesi di un uomo omerico talmente
scisso al proprio interno da risultare una sorta di marionetta nelle mani
degli dèi, Eva Cantarella; la studiosa infatti, rimarcando la sostanziale unitarietà dell’uomo omerico, ha giustamente sottolineato che «in
Omero esiste già il concetto [...] di responsabilità. Di questo concetto gli
uomini e le donne omerici hanno una coscienza ancora essenzialmente
empirica, ma non del tutto irriflessa [...]. L’individuo omerico distingue
chiaramente l’atto volontario dall’atto involontario [...] I poemi ci ponSe un senso deve essere colto nella “evoluzione” che conduce dall’Iliade all’Odissea, è
proprio che l’ira, la forza incontrollata delle passioni tipica di Achille, si muta nella forza
controllata della ragione tipica di Odisseo (esemplari i versi XX, 13-30 dell’Odissea). In
questo sta infatti il senso più pregnante dell’umanesimo omerico: nel dirigere in modo
razionale le passioni, in modo che esse sfocino verso il bene e l’armonia anziché verso
il male e la distruttività. La prima libertà infatti, per i Greci, sta nel non soggiacere agli
impulsi che si agitano nell’anima umana, che se non controllati fanno soffrire; per questo
l’etica greca ripete così spesso – Eschilo è in ciò maestro (rinviamo in merito a L. Grecchi,
La filosofia politica di Eschilo, Alpina, Torino, 2006) – che dal dolore e dalla sofferenza si
imparano le cose più importanti.
126
M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari, 1989, pag. 26. Concorde con la tesi
di M. Vegetti ci pare A. Lo Schiavo, per il quale «l’uomo omerico non dispone di un
criterio di razionalità in grado di conferire unità e coerenza al suo mondo intellettuale;
egli difetta di un criterio superiore di giudizio in base al quale possa sistemare e valutare
la varia esperienza, individuale e sociale, che viene acquisendo» (A. Lo Schiavo, Omero
filosofo, op. cit., pag. 112). Più caute, ma sostanzialmente nella stessa direzione dei due
studiosi, anche le affermazioni di L. Zoja: «a differenza dell’uomo di culture successive,
l’uomo omerico non abbraccia ancora la dimensione interiore come territorio unitario»
(L. Zoja, Storia dell’arroganza, Moretti e Vitali, Bergamo, 2003, pag. 48).
125
67
iL Pensiero omerico
gono di fronte al momento della prima apparizione dei concetti etici
moderni nel mondo greco. Ed è un’apparizione che rivela un lungo travaglio di pensiero, di cui i poemi riportano al tempo stesso le posizioni
più tradizionali e le acquisizioni più avanzate»127. Nella medesima direzione Albin Lesky, per il quale sostenere che l’uomo sia «una semplice
marionetta, mossa dall’impulso divino [...] fraintenderebbe completamente la struttura del mondo omerico, introducendo una distinzione
che per quel mondo è completamente estranea»128.
Il problema “umano” dunque, nel pensiero omerico, ci conduce direttamente al problema “etico”, per lo stesso motivo per cui il problema
della “coscienza” ci conduce direttamente al problema della “responsabilità”. Proprio a questo nesso sarà dedicato il prossimo paragrafo.
b. Coscienza e responsabilità
Il rapporto che vi è fra ciò che è umano e ciò che è etico, fra coscienza
e responsabilità, esprime mutatis mutandis lo stesso rapporto che vi è fra
conoscenza ed azione, fra teoria e prassi: quello stesso rapporto che si
stabilirà, in epoca classica, fra filosofia e politica. Si tratta di un rapporto
lineare, diretto, conseguente, già presente in epoca omerica; come ha infatti rimarcato anche R. Mondolfo, «il concetto di una infrangibile concatenazione tra l’azione e le conseguenze di essa – prima radice [...] con
cui il pensiero greco salirà all’idea di legge universale – è concetto già
raggiunto nell’etica omerica»129. Ciò che è umano, infatti, deve tradursi
in adeguati comportamenti etici; ciò che è fatto con coscienza è ciò che
consente di rispondere di quanto si è fatto, e che dunque rende responsabili130; ciò che si conosce con verità è ciò che conduce l’azione umana
verso il bene, ossia ciò che consente di passare da una buona teoria ad
una buona prassi. Questi, in sintesi, i nessi principali su cui si costituì la
E. Cantarella, Itaca, op. cit., pagg. 185-187.
A. Lesky, Storia della letteratura greca, Il Saggiatore, Milano, 2005, vol. I, pag. 80.
129
R. Mondolfo, Moralisti greci. La coscienza morale da Omero ad Epicuro, Ricciardi, MilanoNapoli, 1960, pag. 13.
130
Come ha ricordato S. Maso, «nel mondo antico responsabile è colui che mette in campo
la propria autorità per sostenere la difesa di qualcuno, o che si fa garante di qualcosa»
(S. Maso, Lingua philosophica graeca. Dizionario di greco filosofico, Mimesis, Milano, 2010,
pag. 178). Il concetto di «responsabilità», che effettivamente fece il proprio ingresso nel
linguaggio filosofico solo in avanzata età moderna, deriva dal latino spondeo, che significa
sia «garantire», che «vaticinare».
127
128
68
L'umanesimo omerico
filosofia greca, la quale fu sempre, insieme, etica e politica; ciò accadde
a nostro avviso, pur con diverse declinazioni, già a partire da Omero,
ed almeno fino ad Epicuro. In questo senso, siamo pienamente concordi con quanto ha affermato uno studioso, B. Snell, pur solitamente poco
incline a riconoscere l’umanesimo greco, ed in particolare omerico131; a
suo avviso, infatti, i Greci «hanno creato proprio ciò che noi chiamiamo
pensiero: l’anima umana, lo spirito umano venne da loro scoperto, e
base di questa scoperta fu una nuova concezione dell’uomo. Questo
processo, la scoperta dello spirito, ci si manifesta attraverso la storia
della poesia greca e della filosofia, da Omero in poi: le forme poetiche
dell’epica, della lirica, del dramma, i tentativi di un intendimento razionale della natura e della essenza dell’uomo, rappresentano le tappe di
questo cammino»132.
È indubbiamente vero che fu la matura etica aristotelica (Etica
Nicomachea, III, 1-3) a tracciare esplicitamente la distinzione tra azione
volontaria ed involontaria, assegnando solo alla prima la responsabilità morale; non è però corretto sostenere che Omero abbia assegnato
sempre la responsabilità delle azioni umane agli dèi, al destino o allo
thymos incontrollabile133. Prendiamo ad esempio Odisseo quando, pur
correndo il rischio di rimanere accerchiato dalle schiere nemiche, decide comunque di portare in salvo Diomede senza indietreggiare; in
questa decisione – come in molte altre – non entrarono né gli dèi, né il
destino, né lo thymos, bensì solo la sua etica umanistica, ovvero il suo
ethos, il suo carattere. Quei personaggi omerici che talvolta si chiamano fuori dal processo di causazione – come ad esempio Agamennone,
quando affermò in assemblea che un dio aveva prodotto in lui l’accecamento della ragione (ate) nell’atto di oltraggiare Achille – sono di solito
i peggiori, in quanto sono proprio coloro che scansano le responsabilità,
e che si rivelano pertanto poco etici.
«In Omero non troviamo mai un vero atto di riflessione, né un colloquio dell’anima con
se stessa» (B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino, 1963,
pag. 29). Ed ancora: «È ignoto a Omero il vero e proprio atto della decisione umana» (ibidem, pag. 44). Tuttavia, con la già ricordata ambivalenza sull’argomento di questi grandi
interpreti tedeschi, egli pare ammettere che un’idea di coscienza fosse presente nel mondo greco anche prima che specifici termini la designassero in modo esplicito.
132
B. Snell, La cultura greca…, op. cit., pag. 10.
133
Come ha giustamente sottolineato A. Da Re, «l’essere responsabili verso altri è l’etica
stessa, anzi la radice del nostro essere» (A. Da Re, Filosofia morale, Bruno Mondadori,
Milano, 2008, pag. 259); questa dimensione non poteva mancare in Omero.
131
69
iL Pensiero omerico
In generale infatti, quando gli eroi omerici tendono ad attribuire la
responsabilità delle loro azioni negative alle divinità o al fato, non fanno in realtà che trasferire su “soggetti” esterni la responsabilità, per
evitare in questo modo, almeno in parte, la “vergogna”. La civiltà omerica è stata da molti studiosi definita proprio come la «civiltà della vergogna», in cui cioè l’adeguamento alle regole sociali condivise non era
ottenuto attraverso l’imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento, non adeguandosi ai quali
si incorreva in un forte biasimo sociale.
Come ha scritto giustamente E. Cantarella, «aidos è la sanzione interna, quella che fa vergognare di sé chi non è all’altezza delle sue e delle
altrui aspettative; elencheie è la sanzione sociale, quella che, attraverso
la voce popolare, colpisce dall’esterno l’atto che, in chi lo ha compiuto,
ha provocato aidos. Agendo insieme, esse danno vita ad un potentissimo, quasi invincibile meccanismo di coercizione psichica»134. Oggi,
nell’epoca della “svergognatezza” (anaideia), in cui la società pare quasi
premiare chi pratica le azioni peggiori135, tutto ciò pare incredibile; tuttavia, nell’Iliade, Ettore sembra proprio temere, ancor più della morte,
la riprovazione popolare, la demu phemis che riverserebbe elencheie su di
lui, e che gli farebbe provare aidos di se stesso (XXII, 100-107), rendendogli la vita impossibile.
Queste tesi sarebbero probabilmente state condivise da Rodolfo
Mondolfo, per il quale l’idea della responsabilità dell’uomo non apparve in Omero «in piena luce»136, ma fu comunque presente; egli affermò
infatti che anche in Omero «l’uomo è responsabile del suo operare, e
diventa così creatore del proprio destino»137. A suo avviso, da Omero
ad Anassagora vi fu sì un processo di sviluppo critico, ma all’insegna
della continuità; i pensatori greci, fra cui Omero, sarebbero in effetti
E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 34.
Su questo aspetto della contemporaneità, e sulle sue origini ellenistiche, ci siamo soffermati in C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, op. cit., pagg. 49-53.
136
R. Mondolfo, Moralisti greci, op. cit., pag. 47.
137
Ibidem, pag. 40. La polemica di Zeus contro gli uomini del I libro dell’Odissea (I, 32 ss.),
«suppone già la preesistenza di una viva discussione sulla responsabilità dell’operare, le
cui radici (come ci appare anche dalle parti più antiche dei poemi omerici) sono germinate tra la visione e gli interessi dell’accusatore e quelli dell’imputato di atti dannosi ed
ingiusti» (ibidem, pag. 41).
134
135
70
L'umanesimo omerico
stati mossi principalmente dalla considerazione del mondo umano, e
da questo soltanto sarebbero poi partiti per interrogare la natura138.
Nonostante l’evidente presenza di concetti analoghi a quelli di “coscienza” e “responsabilità” nei poemi omerici, la tesi prevalente nella
letteratura rimane ancora quella sostenuta ad esempio da A. Jellamo,
secondo cui «dall’orizzonte etico di Omero rimane esclusa l’idea di
responsabilità: i personaggi omerici possono essere colpevoli, ma non
responsabili»139, in quanto appunto privi di personalità. Per confutare
questa tesi rimarremo a lungo, in continuità col paragrafo precedente,
a rimarcare come l’uomo omerico desiderasse conoscere con verità, pur
sapendo che ciò avrebbe in lui comportato una responsabilità sul piano
etico; così fu fin dall’Iliade, in quanto le strutture sociali ed istituzionali della Grecia arcaica indussero da subito nell’uomo il desiderio di
autonomia, anche dagli dèi. Pensiamo ad esempio alla poc’anzi citata
«apologia di Zeus» (Odissea, I, 32-43); proprio a partire da questo episodio A. Magris ha giustamente sostenuto che «è il concetto che l’uomo
porta la responsabilità dei suoi atti [...], a dare il la a tutta l’Odissea»140.
Il commento iniziale sull’episodio di Egisto non fu in effetti estrinseco
all’Odissea, ma centrale, e riferito ad Odisseo in almeno due modi: il
primo rimarcando che chi, come l’eroe, non ha commesso alcuna azione sconveniente, merita il favore degli dèi (come Atena ribadirà poco
dopo); il secondo rimarcando che chi, come i Proci, ha commesso azioni
sconvenienti, deve pagare con la sofferenza. Si tratta di un insegnamento etico che fu ripreso ancora dagli Stoici141, e che rimase costante in
pressoché tutto il pensiero greco.
Pur riconoscendo sia i limiti fissati alla vita umana, sia l’esistenza di
un destino cui non si può fuggire, l’uomo greco desiderava conoscere
con verità ed agire di conseguenza, proprio per essere, nella sua coscienza, massimamente libero; come scrisse correttamente M. Pohlenz,
138
In questo senso anche B. Farrington, Lavoro intellettuale e lavoro manuale nella antica
Grecia, Milano, 1977, pagg. 163-182. Inutile rimarcare come questa tesi contrasti con la
tesi, tuttora maggioritaria, che parla di un «naturalismo di fondo» del pensiero greco;
contro questa tesi ci siamo soffermati nei nostri L’umanesimo della antica filosofia greca,
pagg. 17-23, e La filosofia della storia nella Grecia classica, pagg. 107-120.
139
A. Jellamo, Il cammino di Dike, op. cit., pag. 41. È evidente, però, la ambiguità di questa
tesi, poiché ad ogni colpa si accompagna inevitabilmente la responsabilità.
140
A. Magris, L’idea…, op. cit., vol. I, pag. 248.
141
Epitteto, III, 1, 38; Crisippo, frr. 999 e 1000 Arnim.
71
iL Pensiero omerico
«gli dèi possono mandare sull’uomo mortale la morte ma, in ogni caso,
non possono rubargli una cosa: il diritto e la forza di agire così come
egli decide, dal fondo della sua propria volontà»142. La coscienza individuale prima, e la comunità sociale poi, furono in effetti le due principali
coordinate della libertà greca, una libertà che fu sempre guidata dalla
ragione e dalla morale, e che non si trasformò mai – almeno nelle sue
espressioni ideali – in egoismo e licenziosità. Essere realmente liberi richiede infatti innanzitutto l’essere pienamente coscienti e responsabili;
già nell’Iliade, nei pochi casi in cui compare la parola «libero» (eleutheros), vi fu in effetti «la consapevolezza che la libertà individuale era
collegata alla libertà collettiva»143.
Si potrebbero certo porre delle distinzioni fra i due poemi, sostenendo, come ha fatto ad esempio S. Accame, che nell’Odissea rispetto
all’Iliade vi fu «un più marcato senso di responsabilità nella decisione,
la quale rivela una umanità più matura e consapevole, che corrisponde
all’accentuarsi del processo per cui il sapere tende a significare qualità
morali»144; la scena finale dell’Odissea in effetti, con Odisseo che si erge a
giudice e giustiziere dei frequentatori della propria casa, poté svolgersi
solo grazie alla presenza già sviluppata di concetti razionali ed etici
come quelli di volontarietà o involontarietà dell’azione, di presenza o
assenza di colpa, e dunque alla fine, in sostanza, di responsabilità o
irresponsabilità. Tuttavia, è la continuità dell’opera omerica quanto ci
sta più a cuore rimarcare.
Una prova che gli uomini omerici furono caratterizzati da una
coscienza responsabile ed unitaria, è quella per cui sia nell’Iliade che
nell’Odissea tyche (ovvero la fortuna, il caso) fu sostanzialmente assente;
contrariamente, infatti, a quanto accadde in Pindaro, che la considerò
come la più potente delle Parche, e soprattutto a quanto accadde in
epoca ellenistico-imperiale (in cui la ragione e la morale persero di rilevanza, a causa del fatto che la stessa vita umana perse di rilevanza,
preda di strutture ed eventi sempre più incontrollabili dalla comunità), gli uomini omerici non contarono sulla fortuna, ma confidarono
solamente in se stessi, ovvero su una stabile ragione e su una solida
M. Pohlenz, La libertà greca, Paideia, Brescia, 1963, pag. 6. La tesi per cui il pensiero occidentale sarebbe pervenuto alla concezione della libertà e responsabilità morale proprio
con Omero, era comunque stata esposta alcuni anni prima da G. Pasquali (La scoperta dei
concetti etici nella Grecia antichissima, Civiltà moderna, 1928).
143
M. Pohlenz, La libertà greca, op. cit., pag. 19.
144
S. Accame, Gli albori, op. cit., pag. 80.
142
72
L'umanesimo omerico
morale145. Indubbiamente, si potrebbe affermare che gli uomini greci
credettero anche nel destino e negli dèi; questo è indubbiamente vero,
ma sia il destino che gli dèi vanno correttamente interpretati all’interno
del contesto greco, essendo null’altro – come mostreremo nel prossimo
paragrafo – che espressioni dell’umano.
Tutto in Omero (il destino, gli dèi, la natura) è funzione dell’umano;
questo il tratto generale dell’umanesimo omerico e greco. Si potrebbe
certo obiettare che non solo nel pensiero omerico, ma in tutto il pensiero greco è sempre mancato il concetto di “umanesimo”. Oltre però alle
considerazioni da noi già svolte, riteniamo, con F. Codino, che «è vero
che nella lingua omerica mancano i termini che esprimono aspetti generali, per noi essenziali, della personalità umana; non è tuttavia detto
che anche se manca la sintesi concettuale, elaborata più tardi, debba
necessariamente mancare ogni nozione della cosa e la rappresentazione
politica di essa»146. Anche A. Lesky ha del resto giustamente sostenuto, nella sua Storia della letteratura greca, che gli uomini omerici furono
uomini completi, e che pertanto anche l’epoca omerica può definirsi
“umanistica”: non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui il messaggio educativo omerico si sia potuto trasmettere fino a noi. È questa
la tesi, in sostanza, pure di L. Storoni Mazzolani, secondo cui «Omero
non aveva una filosofia sistematica, ma certo questo poema bimillenario contiene una vasta meditazione sull’uomo»147.
Rimane ancora da chiarire, per confermare la tesi della “unitaria coscienza responsabile” dell’uomo omerico, l’intreccio fra divino ed umano proprio dei poemi, che lascia spesso pensare – data la priorità gerarchica del divino – che le decisioni umane fossero sempre subordinate
alla volontà divina, quando non propriamente prese dagli dèi al posto
degli uomini148. Come ha scritto correttamente M. Pohlenz, molti autori
hanno da questa tesi «tratto la conclusione che l’uomo omerico ignori
nel modo più assoluto il libero atto di volontà, facendo risalire le proCirca Odisseo, scrive correttamente E. Cantarella che le sue gesta sulla via del ritorno
sono «le gesta di un soggetto – contrariamente a quanto spesso si afferma – già intero e
compatto, capace di autodeterminarsi e di agire non solo indipendentemente, ma a volte
addirittura contro la volontà degli dèi» (Itaca, op. cit., pag. 15).
146
F. Codino, Introduzione ad Omero, op. cit., pag. 134.
147
L. Storoni Mazzolani, Profili omerici, Rizzoli, Milano, 1978, pag. 150.
148
Per uno studioso del calibro di W. F. Otto, ad esempio, in Omero «gli dèi sono i veri
attori», non gli uomini (W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, Il
Melangolo, Genova, 1983, pag. 57).
145
73
iL Pensiero omerico
prie decisioni ad una potenza soprasensibile. In realtà, nemmeno in tali
momenti [ovvero quando intervengono le divinità; L. G.], egli si sente
uno strumento privo di volontà in mano agli dèi»149. Quando infatti,
ad esempio, Atena viene a placare la collera di Achille, ed egli accetta
di farsi da lei calmare, nulla nei testi omerici lascia pensare che Achille
debba essere considerato come un fantoccio nelle mani di Atena; egli infatti decide di ascoltarla e di non affrontare direttamente Agamennone
di sua spontanea volontà. Questo episodio – ma molti altri se ne potrebbero citare – mostra la centralità della coscienza umana nei poemi omerici. Lo stesso destino (che nell’epica arcaica, come mostreremo, assume
rilevanza maggiore rispetto a quella degli stessi dèi) risulta infatti nei
poemi omerici essere subordinato a condizioni “umane”, come quando
si afferma che se Odisseo raggiungerà Scheria allora è destino che egli
sfuggirà alla morte, oppure quando si afferma che se Troia accoglierà il
cavallo di legno allora è destino che essa soccomberà. L’uomo può insomma sempre ribellarsi al destino ed alle divinità, e spesso nei poemi
omerici decide di comportarsi in questo modo per rivendicare la propria libertà (Iliade, III, 59; VII, 487; XVII, 321; XX, 30; XXI, 517; Odissea,
IX, 352; XIV, 509), salvo poi, coraggiosamente, pagarne il fio. L’uomo
omerico possiede infatti tutte quelle qualità di autonomia razionale e
morale che caratterizzano il cosiddetto “libero arbitrio” (ovvero la capacità, tipica dell’uomo, di essere arbitro, cioè padrone, delle proprie
azioni) 150, scegliendo tra varie possibili condotte di vita; come ha scritto
correttamente R. Mondolfo, fu presente in Omero «un destino che non
esclude la responsabilità dell’uomo, cui spetta determinarne con la sua
azione il corso»151. Poiché il libero arbitrio è presente nei personaggi
omerici152, e poiché esso si ha solo all’interno di orizzonti filosofici non
dominati dal destino, dagli dèi o dalla natura, possiamo sostenere anM. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 21.
Per questo motivo non possiamo concordare con molti interpreti tradizionali, fra cui ad
esempio B. Mondin, per il quale la cultura greca sarebbe affetta da «servo arbitrio», ossia
da «fatalismo», ovvero da una «concezione della realtà che fa dipendere eventi ed azioni
del mondo e dell’uomo unicamente da una causa assoluta più o meno consapevole, cui
comunemente si dà il nome di Fato» (B. Mondin, Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia
e morale, Massimo, Roma, 1993, pag. 253).
151
R. Mondolfo, Moralisti greci, op. cit., pag. 49.
152
Come ha scritto correttamente A. W. H. Adkins, «i personaggi omerici agiscono sempre
di loro propria libera volontà» (A. W. H. Adkins, La morale dei Greci, Laterza, Roma-Bari,
1964, pag. 58).
149
150
74
L'umanesimo omerico
che alla luce di questo elemento che molti luoghi comuni sul pensiero
greco, ed in particolare omerico, sono da ritenere falsi; primo fra tutti,
appunto, quello per cui il mondo divino dominerebbe il mondo umano.
c. Fra umano e divino
Come hanno scritto molti interpreti, fra mondo umano e mondo divino, in Grecia, non si deve leggere una opposizione, bensì una compenetrazione; il mondo divino esprime infatti, il più delle volte, ciò che
accade nel mondo umano, solo ad un livello più alto e solenne.
Per riagganciarci al tema della responsabilità, possiamo partire da
una domanda: la responsabilità delle proprie azioni, per gli uomini
omerici, è da attribuire a loro stessi od agli dèi?153 Abbiamo già risposto
a questa domanda argomentando come, a nostro parere, la responsabilità sia da attribuire agli uomini154. Tuttavia, la maggioranza degli interpreti sostiene tuttora – come si è accennato155 – la tesi opposta, ritenendo che solo con Platone si sia realmente realizzata una completa libertà
degli uomini; è celebre in merito il passo del libro X della Repubblica, in
cui si afferma che, nelle varie decisioni della vita, «ciascuno è responsabile della propria scelta: il dio non ne ha colpa» (X, 617 E).
In realtà, ancor prima di Platone, ci furono diversi precedenti in tal
senso; pensiamo ad esempio al frammento 3 di Solone156, in cui l’antico
poeta-legislatore affermò che la responsabilità del bene e del male non
Un ruolo rilevante agli dèi è stato attribuito ad Omero da J. Svenbro, per il quale l’antico poeta avrebbe avuto «una concezione del canto [...] esclusivamente religiosa» (J.
Svenbro, La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca, Boringhieri, Torino, 1984, pag.
8). «Secondo questa concezione, all’origine del canto vi era la Musa: Omero considerava
se stesso come servitore della Musa» (ibidem).
154
Come ha rimarcato in merito R. Mondolfo, anche quando la responsabilità delle azioni
è più smaccatamente attribuita agli dèi, essa non cancella la responsabilità umana; anzi,
«la coscienza della responsabilità della colpa [...] si deve riconoscere, necessariamente,
anche dove si presenta la più esplicita negazione di essa» (R. Mondolfo, Moralisti greci,
op. cit., pag. 45).
155
Emblematica la tesi riassuntiva di A. M. Storoni Piazza, la quale ha sostenuto che «per
Omero la possibilità di indagare se stesso, indipendentemente dagli altri, non è completa: egli non ci presenta personalità autosufficienti, responsabili delle proprie azioni, dei
propri giudizi, ma attribuisce agli dèi la responsabilità delle colpe degli uomini» (A. M.
Storoni Piazza, Ascoltando Omero, Carocci, Roma, 1999, pag. 31).
156
«La nostra città non perirà per volontà di Zeus: non è questo il destino, non è questo il
disegno degli dèi. Una dea dal grande animo ci protegge, Pallade Atena, figlia di altissimo padre, e tiene la sua mano su di noi. Ma sono i cittadini stessi che vogliono distruggere la grande patria – ciechi! – sedotti dal denaro, e dalla mente ingiusta dei capi: ma li
attende certo, per la loro violenza, immenso male».
153
75
iL Pensiero omerico
è mai da attribuire agli dèi, ma sempre e solo agli uomini. Quanto più
conta rilevare però, per la nostra tesi, è che la affermazione della prevalenza della responsabilità umana su quella divina si ritrova già in
Omero; pensiamo infatti ancora alla «apologia di Zeus» («Ah, quanto
ingiustamente i mortali incolpano gli dèi! Ci dicono infatti causa delle
loro disgrazie, ma sono loro con la loro empietà, che si attirarono quelle
stesse sventure»)157, nonché alla triste sorte occorsa ai Proci per il loro
cattivo comportamento: in questi casi Omero volle porre in evidenza
che la infelicità degli uomini si deve principalmente alla loro ignoranza
e prepotenza, non al destino o agli dèi.
Prima di parlare del tratto “umanistico” degli dèi greci, può essere
utile spendere qualche parola sulla concezione greca del destino, nei
confronti del quale nemmeno gli dèi hanno potere. Diciamo innanzitutto che l’intreccio di rapporti fra destino e divino nella Grecia arcaica
è reso complesso dal fatto che «la parola destino contiene in sé un groviglio davvero straordinario di concetti e di problemi», non ultimo quello per cui questa parola indica «la forma pura della trascendenza e la
cellula originaria della esperienza religiosa»158. Si può comunque sin da
subito chiarire che il destino, nel pensiero omerico, non è paragonabile
ad una sorta di “superdivinità”, di fronte alla quale ciascuno è costretto
ad inchinarsi (con conseguente soppressione del libero arbitrio); come
ha scritto infatti correttamente ancora Magris, il destino, nella Grecia
omerica, è di tipo “umanistico”, ovvero «di regola non impedisce al
soggetto di ponderare ed eseguire autonomamente le sue scelte [...].
Esso non toglie libertà all’agire»159. Nei poemi omerici, in effetti, non
esiste un unico destino in cui tutto risulti già segnato; la Moira disegna
per ciascuno una pluralità di trame, ovvero una serie definita di possibilità buone o cattive, fra le quali è possibile esercitare la propria scelta
Come ha notato giustamente in merito M. Zambarbieri, «lungi dall’essere un motivo
ornamentale, il messaggio di Zeus all’inizio del poema sembra il nuovo metro per giudicare l’azione dei personaggi dell’Odissea» (L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 188).
158
A. Magris, L’idea…, op. cit., vol. I, pagg. 7-8. Il grande merito di Magris, oltre a quello
di avere posto in essere una analisi intelligente del concetto, è avere sin da subito distinto,
«sia nel pensiero antico sia nel pensiero moderno [...] l’antitesi basilare di due concezioni
ontologiche, delle quali l’una [...] pessimistica e tragica, che concepisce l’essere come una
totalità già da sempre compiuta, in cui l’uomo altro non può fare se non riconoscerne la
fatalità; l’altra [...], illuministica e moralistica, lo concepisce come un processo aperto, in cui
l’uomo esercita un ruolo almeno parzialmente creativo». La prima concezione è di tipo
«religioso», la seconda di tipo «umanistico» (ibidem, pag. 8).
159
In AA.VV., Enciclopedia filosofica, op. cit., pag. 2742.
157
76
L'umanesimo omerico
in base alla intelligenza ed alla saldezza del proprio animo. La Moira,
dunque, appare nei poemi omerici come un intreccio di possibilità, assai difficili da comprendere per gli uomini (Iliade, XVI, 849); si può in
ogni caso con certezza affermare che in Omero la credenza nel destino non comportò affatto una deresponsabilizzazione dell’uomo (Iliade,
XIX, 187; Odissea, XXII, 303), il quale rimase sempre il principale riferimento onto-assiologico. Il destino può dunque essere presentato come
la cornice entro cui operò la libertà degli uomini, in cui poté prendere
forma il loro progetto di vita; come ha scritto giustamente A. Ferrari, «la
mitologia propone attraverso le vicende esemplari dei suoi eroi l’ipotesi che ciascuno generi da sé il proprio destino, e che si renda in parte
artefice di ciò che gli succederà, nel bene come nel male, nel momento
stesso in cui compie in piena libertà e per propria volontà una scelta che
provocherà però conseguenze ineludibili»160.
Se il destino può porre all’uomo solo dei limiti e delle alternative,
e gli dèi possono fornire solo dei pareri consultivi e non vincolanti, è
evidente che la responsabilità ultima delle decisioni spetta, nei poemi
omerici, solo all’uomo; ciò mostra chiaramente come l’uomo omerico
fosse di necessità dotato di “coscienza”, e pertanto di “personalità”, il
che conferma ulteriormente l’interpretazione umanistica che si sta qui
sviluppando. Tale interpretazione però, oltre a sottolineare il carattere
autonomo, etico, progettuale dell’uomo omerico, per essere completa
deve anche analizzare la sofferenza insita nella consapevolezza dei limiti della vita umana, che costringe a decidere anche quando non si
vorrebbe; solo con una attenta analisi della stessa in tutta la poesia
omerica e postomerica, si potrà avere una più compiuta comprensione
dell’umanesimo greco.
Abbiamo in precedenza rimarcato come l’uomo narrato da Omero,
dopo la morte, finisse pressoché sempre nell’Ade (o meglio, come vi
finisse la sua psyché, il suo io che non è più in quanto incapace di comprendere, di valutare, di agire); solo alcuni uomini privilegiati – come
ad esempio Menelao – finirono infatti nei Campi Elisi, ma questa è sorte
non comune, riservata al più a chi aveva rapporti di parentela con gli
dèi. Proprio per questo suo rapporto consapevole con la morte, l’uomo
greco, ed in particolare quello omerico, fu portato ad esprimere forti
accenti pessimistici, in quanto tutta la sua vita si giocava nella limitata
e contingente esperienza terrena. Realmente numerose sono le citazio160
A. Ferrari, Dizionario di mitologia, Utet, Torino, 1999, pag. 320.
77
iL Pensiero omerico
ni che potremmo portare come esempi, ma, per brevità, ci limitiamo a
menzionare le principali:
«Tale e quale la stirpe delle foglie, è la stirpe degli uomini»
(Iliade, VI, 146)161.
«Non c’è niente di più miserevole dell’uomo tra tutti gli esseri, quanti respirano ed arrancano sulla faccia della terra» (Iliade, XVII, 466-467)162.
Il medesimo tema, quasi alla lettera, è ribadito nell’Odissea:
«Nessun essere nutre la terra di più meschino dell’uomo, fra quanti
respirano e vi si aggirano» (Odissea, XVIII, 130-131).
Questa consapevolezza tragica della finitezza della vita umana non
condusse però mai la riflessione omerica, ed in generale greca, ad un nichilistico pessimismo163. Ciò fu correttamente colto anche da E. Rohde,
per il quale «non viene in mente a nessun uomo omerico di volgere in
tutto e per tutto le spalle alla vita»164; non per questo, comunque, i Greci
accettarono consolazioni ultraterrene alla morte. In questo senso, se qualche speranza è presente in alcune correnti filosofico-religiose di epoche
successive, ve ne è comunque solo una traccia minimale nell’opera di
L’immagine delle foglie è più volte ripresa nell’Iliade ma anche, come noto, in autori di
secoli successivi pure molto diversi fra loro, da Mimnermo (fr. 2 Diehl) a Pirrone (fr. 20
Decleva-Caizzi).
162
Potremmo citare, per l’Iliade, anche i passi XXI, 461-468.; XXIV, 518-533 ed altri ancora.
163
Lamentazioni sulla dolorosità del destino di morte furono presenti, fra gli altri, in
Mimnermo («Brevi istanti, come foglie, godiamo di giovinezza il fiore», fr. 6 DK),
Simonide («Degli uomini [...] dolore su dolore è la breve vita. Su tutti ugualmente pende
l’inevitabile morte: i vili e i forti ugualmente l’hanno in sorte», fr. 9 DK), Solone («Nessun
mortale è beato, disgraziati tutti quanti vivono sotto il sole», fr. 15 DK), Sofocle («Non
nascere è il destino migliore», Edipo a Colono, 1224), Euripide («Tutta dolore è la vita degli
uomini», Ippolito), ed altri ancora. Ha scritto comunque correttamente, in merito, L. Zoja,
che «proprio la consapevolezza di dover contare solo su se stesso darà all’uomo greco la
forza di affrontare le mortali lotte coi Persiani, e gli stimoli per prolungare la sua esistenza
nel passato con la ricerca storica, e nel futuro con la comprensione filosofica» (L. Zoja,
Storia dell’arroganza, Moretti e Vitali, Bergamo, 2003, pag. 53).
164
E. Rohde, Psyche, Laterza, Roma-Bari, 1970, vol. I, pag. 2. Nella medesima direzione
anche Max Pohlenz: «Pessimisti i Greci? Il popolo dalle cui opere si irradia ancora oggi
tanto entusiasmo per la bellezza, tanta pienezza di vita? Contro questa teoria il nostro
intimo non tarda a ribellarsi. Con buona pace del Nietzsche, l’esperienza ci attesta che
il pessimismo è qualcosa di paralizzante» (M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 141).
161
78
L'umanesimo omerico
Omero, in cui chiaramente i morti sono solo ombre (schiai), sogni (oneiroi), fumo (kapnos); emblematiche sono le parole di Achille nell’Ade:
«Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Preferirei da bracciante
servire un altro uomo, un uomo povero e senza podere, piuttosto che
dominare tra tutti i defunti» (Odissea, XI, 488-491).
Alla luce di queste e di altre citazioni, su cui i manuali di letteratura
greca si soffermano spesso, Reale si chiede «in che modo sia possibile
all’uomo omerico restare, in concreto, così attaccato alla vita»165; egli
risponde affermando che può riuscirvi solo per il proprio stabile e profondo rapporto col divino: «l’uomo omerico intrattiene un rapporto costante con gli dèi, in funzione del quale cerca di spiegare sia il bene sia
il male che compie, e di conseguenza di rendersi conto del senso della
propria vita»166. Reale sostiene in pratica che nella vita dell’uomo omerico gli dèi risultano essere centrali, e che è proprio da questa presenza
che egli trae la propria vitalità.
Ora: è indubbio che i poemi omerici descrivano in vario modo questa “presenza” (pensiamo, ad esempio, ad Iliade, XIII, 71-73; XV, 490492, ecc.)167; è però dubbio che i Greci abbiano realmente creduto ai loro
dèi (nel senso in cui noi oggi siamo abituati, dopo secoli di monoteismo, ad intendere la parola “credere”)168, ovvero che questi dèi costituissero qualcosa in più di una immagine simbolica pur necessaria ad
una migliore comprensione della esistenza. Avremmo infatti a che fare,
se così fosse, con una società teocentrica, quale invece l’antica Grecia
non fu (come conferma anche l’assenza in essa di libri sacri rivelati). La
compresenza di dèi ed uomini nell’opera omerica fu invece determinata, a nostro avviso, non dalla “onnipotenza” ed “onnipresenza” degli
dèi, bensì, al contrario, dalla loro “umanità”169, espressa in primo luogo
dai loro tratti antropomorfi; gli dèi omerici furono in effetti simili agli
uomini, solo immortali e (quindi) più felici.
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 105.
Ibidem.
167
In questo senso Reale si associa a W. F. Otto, per il quale in Omero «gli dèi sono presenti
ovunque accada, si faccia o patisca qualcosa di decisivo» (Theophania, op. cit., pag. 56).
168
P. Veyne, I Greci hanno creduto ai loro miti?, Il Mulino, Bologna, 2005.
169
Come ha scritto correttamente A. Magris, «in Omero è già presente la tendenza razionalistica a pensare che un certo evento sia stato provocato non da un essere divino, bensì
da una ben individuabile causa naturale ed etica» (A. Magris, L’idea…, op. cit., vol. I, pag.
44). Alcuni esempi di ciò sono in Iliade, V, 82; XVII, 418; Odissea, XI, 61; XXII, 413.
165
166
79
iL Pensiero omerico
Alla luce di queste considerazioni, e di quelle che svolgeremo fra
breve, riteniamo errata la tesi secondo cui, in Omero, vi sarebbe una
«radicale dipendenza degli uomini dalle forze divine»170, tanto che
gli dèi sarebbero «causa determinante per quanto concerne il pensiero (noos) ed il valore o virtù (aretè) degli uomini, sia in positivo che in
negativo»171; nonostante alcuni passi facciano propendere verso questa
interpretazione (ad esempio Iliade, XX, 242-243; Odissea, XVIII, 136-142),
anche essa, come già abbiamo rimarcato, deve essere esaminata entrando nel corretto circolo ermeneutico con l’umanistico pensiero omerico.
Il divino, in Omero, fu infatti prevalentemente immagine metaforica
dell’umano, per cui è errato sostenere che «l’azione esercitata dalle forze
divine sugli uomini risulta essere capillare in maniera sorprendente»172.
Sono i moti dell’animo umano (o meglio, l’ethos) a produrre in Omero le
immagini divine, e non, viceversa, le immagini divine a produrre i moti
dell’animo umano; per lo stesso motivo, sono i moti dell’animo umano, non le divinità, a produrre le decisioni degli eroi omerici: Achille,
Odisseo, Ettore, Aiace, decidono di parlare o di tacere, di combattere o
di fermarsi, di agire in un modo anziché in un altro, in base ad una loro
scelta cosciente e responsabile, non in base ad una decisione degli dèi.
Allo stesso modo, come ricorda Lesky, «l’accecamento dei Proci non è
stato mandato dagli dèi, ma è dipeso da loro stessi. Altrettanto va detto
dei compagni di Odisseo che uccisero i buoi di Elios, e di Egisto»173.
Il ruolo centrale del divino teorizzato da Reale, Rohde, Otto e da
molti altri interpreti del pensiero omerico, è inoltre poco compatibile
col fatto – poc’anzi rilevato – che il divino non assicura agli uomini
omerici alcuna forma di immortalità, come è invece nella maggioranza delle antiche religioni; nell’epoca omerica, come scrive giustamente
Eva Cantarella, «la vera, la sola eternità sta nel ricordo dei vivi, nella
memoria conquistata in vita con le gesta eroiche, e coltivata dalle generazioni a venire, da altri mortali che ricorderanno. Donde l’ideale della
bella morte, quella che coglie sul campo di battaglia, nel momento in
cui il corpo è ancora nel pieno del suo splendore, e nel momento in
cui, dando la vita per la patria, si incarna l’ideale eroico e si diventa,
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 111.
Ibidem.
172
Ibidem.
173
A. Lesky, Storia…, op. cit., pag. 80.
170
171
80
L'umanesimo omerico
per sempre, parte di esso»174. Storicamente, gli dèi occuparono un posto centrale nelle varie culture solo quando furono ritenuti in grado di
garantire agli uomini l’immortalità, cosa che in Omero non avvenne; la
religione omerica fu infatti una religione totalmente immanente, anche
in quanto gli dèi non potevano in genere salvare gli uomini dalla morte. Bandita ogni trascendenza, è evidente come l’immanenza si renda
trascendentale, ovvero si carichi del senso onto-assiologico dell’intero,
il che comportò il fatto che la coscienza degli uomini omerici non si
rinchiuse nella individualità, bensì si aprì alla universalità, ovvero alla
collettività175; l’Iliade stessa del resto, pur partendo da un episodio particolare, argomentò temi di portata universale.
Significativa, per rimarcare ancora l’umanesimo omerico, è poi l’origine terrena di quelle figure “semidivine” che furono gli eroi omerici.
Come ha scritto A. Brelich, gli eroi greci furono verosimilmente «personaggi – sia pure eccezionali per origini e per carattere – realmente
vissuti sulla terra, come confermato anche da determinate fonti di ordine culturale. Una gran parte dei culti eroici si accentrava intorno alla
tomba dell’eroe»176; importa inoltre rilevare che questi eroi furono ritenuti importanti non tanto per il carattere “semidivino” della loro stirpe
(Achille, e diversi altri miti, ebbero un genitore fra gli immortali), quanto perché spesso considerati fondatori di città e culti pubblici, dunque
delle prime istituzioni, le quali possedevano in Grecia una importanza
rilevante.
In Omero la vita si svolge tutta sulla terra, ed è per questo che diventa necessario per gli eroi, per dare un senso alla loro esistenza, ricercare una gloria che ne immortali il ricordo177, così come, per gli uomini
E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 149.
È bene ribadirlo anche per confutare un altro luogo comune, quello del particolarismo
greco; rinviamo, in merito, a L. Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica, Petite Plaisance,
Pistoia, 2011.
176
A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Ed. Ateneo e Bizzarri, Roma, 1978,
pag. 9.
177
Come ha scritto correttamente F. Hartog, «per i Greci la morte vince sempre. Ogni parola umana ha a che fare con la morte [...]. Gli uomini raccontano perché sanno di essere
mortali» (F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, Il Saggiatore, Milano, 1992, pag. 6). In maniera
analoga J. P. Vernant: «L’epopea non è soltanto un genere letterario; è anche, come i funerali e nella stessa linea dei funerali, una delle istituzioni che i Greci hanno elaborato
per dare una risposta al problema della morte, per acculturare la morte» (J. P. Vernant,
L’individu, la mort, l’amour, Paris, 1989, pag. 6). Dall’epopea poi, grazie soprattutto ad
Erodoto, il campo si allargò alla storia, che fu sempre un tentativo di conservare la me174
175
81
iL Pensiero omerico
comuni, è necessario condurre una esistenza esemplare; si tratta degli
aspetti educativi dell’etica omerica su cui ci soffermeremo nel prossimo
paragrafo. In ogni caso quanto sosteniamo, ovvero il carattere immanente della religione greca, emerge anche dal fatto che è assente, in tutta l’epica e la cultura del periodo, ogni accenno ad un culto organico dei
defunti che andasse al di là dei riti funebri; ciò appunto in quanto, dopo
la morte, i Greci ritenevano che il vero io della persona non esistesse
più, né sarebbe più esistito. Proprio in questa riflessione sul filo sottile
della vita tessuto dalle Moire (un filo che appunto, oltre che finito, era
lieve, dunque portato anche a spezzarsi anzitempo), come ha scritto
correttamente M. Zambarbieri, nacque però «la premessa dei grandiosi
sviluppi del pensiero greco nella tragedia e nella filosofia»178.
La tesi che stiamo discutendo, ovvero che nei poemi omerici gli dèi
determinassero la vita degli uomini, è solitamente argomentata dagli
interpreti citando casi in cui gli dèi sono incolpati di provocare le azioni
degli uomini (ad esempio Iliade, III, 154-165; XIX, 85-97; ecc.), o sono
descritti nell’atto di causare queste azioni (ancora ad esempio Iliade,
III, 390-420; XVIII, 310-313; XIX, 85-97; ecc.); tuttavia gli dèi che, volta
per volta, illuminano o accecano la mente degli uomini, devono essere
interpretati come “miti”, ossia come simboli della ragione morale che,
se presente, illumina gli uomini, e se assente li acceca. In questo senso
concordiamo pienamente con S. Accame quando afferma che «l’antropomorfismo degli dèi omerici è una forma di razionalismo»179, ossia di
quella ricerca di verità propria anche della Grecia omerica. Così come
gli Ittiti, i Fenici, i Sumeri, i Babilonesi e gli Egizi, i Greci «non ammettono un contrasto tra dio e mondo, perché gli dèi olimpici hanno
la stessa madre degli uomini»180; la stessa cosa scrisse anche Pindaro
nella VI Nemea. Per questo motivo non è possibile concordare con chi,
come W. F. Otto, ritiene che una presenza poetica così importante degli
dèi sia sufficiente ad annullare, nell’uomo omerico, «ogni autonomia e
libertà nel senso che noi diamo a queste parole»181; al contrario, hegelianamente, gli dèi esprimevano proprio la necessità della presenza di
moria delle cose umane più nobili, di tutti gli uomini. In effetti, «dall’epopea alla storia
si ritrova la medesima scelta e opera la stessa matrice normativa. Ciò che hanno fatto gli
uomini richiede di essere raccontato» (F. Hartog, Lo specchio…, op. cit., pag. 6).
178
M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 535.
179
S. Accame, Gli albori…, op. cit., pag. 123.
180
Ibidem, pag. 126.
181
W. F. Otto, Theophania, op. cit., pag. 61.
82
L'umanesimo omerico
principi insieme razionali e morali, il rispetto dei quali costituiva per
l’uomo la vera libertà. Questi principi erano “necessari” da seguire per
una buona vita, ma l’uomo era “libero” di seguirli o meno; l’uomo li seguiva infatti – quando li seguiva – volontariamente, e pertanto è errato
sostenere (come fa sempre Otto nel seguito del passo poc’anzi citato)
che l’uomo omerico non disponesse nemmeno del concetto di «libera
volontà», a suo avviso presente solo dopo Kant: si tratta di una visione
davvero riduttivamente “modernistica” della grecità!
Il fatto poi che l’epoca omerica fosse maggiormente disponibile alla
tolleranza rispetto a quella moderna non fu certo, a nostro parere, il
frutto della credenza nel fatto che le forze divine operassero in ogni atto
umano, ma il contrario; proprio infatti in quanto si sapeva che la verità
era difficile da raggiungere, l’uomo omerico fu maggiormente disposto
a comprendere l’errore e la colpa. Gli dèi greci furono tanto vicini agli
uomini in quanto furono “umani”, e non in quanto determinarono le
loro decisioni ed azioni, a meno appunto di pensare l’uomo omerico
come una marionetta nelle mani degli dèi, in maniera però – come detto
– contrastante con quanto scritto nell’Iliade e nell’Odissea (le quali, come
molti interpreti intelligenti hanno colto, «concentrano il loro interesse
prevalentemente sul mondo umano»)182. Se i poemi omerici sono letti
da quasi tremila anni, del resto, è perché si tratta di testi classici che parlano agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, ovvero che si occupano
delle questioni più importanti inerenti il senso ed il valore della vita
umana; se si fossero occupati prevalentemente degli dèi greci, data la
decadenza storica del paganesimo, i due poemi non avrebbero l’attualità che pure tuttora possiedono.
Nel mondo omerico, dunque, non vi fu quella priorità gerarchica
del mondo divino su quello umano cui ci hanno abituato da secoli le religioni monoteistiche; come ha scritto correttamente J. Latacz, nel mondo omerico vi fu un «Olimpo con dèi singolarmente vicini agli uomini,
che parlano con i mortali»183. La prossimità fra uomini e dèi è sottolineata anche da Anna Ferrari, la quale ha ricordato come «nella mitologia
classica le divinità si presentino con prerogative peculiari a ciascuna,
M. Zambarbieri, L’Iliade com’è, op. cit., vol. II, pag. 942. Zambarbieri aggiunge inoltre,
sempre correttamente, che «Omero rappresenta la vita in tutte le sue forme, nel bene e
nel male» (ibidem, pag. 943).
183
J. Latacz, Omero, op. cit., pag. 3.
182
83
iL Pensiero omerico
e con personalità ben distinte e marcate»184, simili a quelle umane. La
pariteticità fra dèi ed uomini è provata anche dal fatto che le dèe non
disdegnavano di sposare mortali; che i guerrieri si battevano con gli
dèi talvolta con esiti favorevoli (come Diomede nel libro V dell’Iliade),
e che un uomo ed una dea potevano anche conversare amabilmente fra
loro (come Odisseo ed Atena in Odissea, XIII, 72 ss.; vedi anche Iliade,
I, 194; XX, 291; XXIV, 128). Vi è stato poi addirittura chi, come R. Beye,
è giunto ad affermare che in epoca omerica «l’uomo è superiore al dio,
cosa che i greci accennano, sottintendendolo, ma non affermano mai
espressamente»185; Beye ha sostenuto inoltre che la letteratura omerica
«era un fondamento naturale della società quanto la religione. Anzi,
data l’assenza di una casta sacerdotale e di un dogma costituito, ed in
virtù della sorprendente tendenza dei Greci a collocare le cose divine in
un ambiente terrestre, a misurare dio dall’uomo, la letteratura ha forse
come istituzione sociale una importanza maggiore»186.
Queste affermazioni di Beye possono certo sembrare eccessive, ma
è indubbio come la prossimità, e non la gerarchia, costituisse la caratteristica principale dei rapporti fra dèi ed uomini nella Grecia omerica;
come ha ricordato del resto L. Pareti, al tempo di Omero «accanto ai
carmi epici ne circolavano molti altri, specie di carattere sacrale, che
narravano, umanizzandole, le vicende degli dèi, sia di quelli considerati tali da tutti i greci, sia di quelli minori decaduti ad esseri semidivini,
ad eroi localizzati sulla terra»187: gli uomini si sentivano rassicurati dalla umanità degli dèi.
Le idee morali umanistiche ebbero dunque, sugli uomini omerici,
ancor più presa della influenza degli dèi188. Prova ne è il fatto che nemesis, la divinità che si sdegna e punisce il peccato di hybris, «rappresenta
la personificazione di idee morali astratte [...] In Omero la parola indica
un’idea etica, assai più che una vera e propria personalità divina»189. I
A. Ferrari, Dizionario di mitologia, op. cit., pag. 232.
R. Beye, Letteratura…, op. cit., vol. I, pag. 66.
186
Ibidem, pag.VII.
187
L. Pareti, Omero e la realtà storica, Garzanti, Milano, 1959, pag. 12.
188
Gli dèi peraltro, specialmente nell’Odissea, avevano vere e proprie personalità morali “umanistiche”, ossia intelligenti e benevole verso gli uomini, tendenti in generale
ad apprezzare la giustizia (ad esempio XV, 485 ss.); pensiamo solo – caso emblematico
– all’affetto provvido con cui Atena seguì le vicende dell’uomo a lei per senno e costumi
più vicino, ossia Odisseo.
189
A. Ferrari, Dizionario di mitologia, op. cit., pag. 493.
184
185
84
L'umanesimo omerico
Greci antichi, col termine hybris, designarono la tracotanza, la violenza
smodata di chi, incapace di porsi con misura, non rispetta i diritti altrui;
come ha giustamente scritto C. Del Grande, «questa tracotanza prende
a bersaglio un uomo o degli uomini; ma, al di sopra del fine malvagio,
offende direttamente gli dèi, custodi dell’ordine sociale e del mutuo
diritto d’amore tra gli uomini. Perciò contro la hybris sta sempre nemesis»190.
In merito al tema della hybris, Del Grande ha sostenuto una tesi molto diffusa, in base a cui «hybris è tracotanza di un uomo contro un suo
simile della medesima classe sociale»191. Tuttavia questa logica – come
già rimarcato – appare troppo restrittiva. Essa sarebbe valida solo se
non fosse esistito, in epoca omerica, alcun contesto comunitario prepolitico. Questa non è però l’immagine corretta della Grecia omerica;
Odisseo, certo, fu molto duro nei confronti di Tersite (II, 211-277), ma
non certo per un pregiudizio “classista” – che infatti appunto non aveva verso concittadini e compagni –, bensì solo per il mantenimento
dell’ordine comunitario. Non ci pare per questo che si possa affermare
che l’episodio di Tersite sia il «riconoscimento che chi si ribella all’ordine costituito merita di esservi costretto dalla forza»192; se così fosse,
ci troveremmo non solo in una società classista, ma addirittura ultratotalitaria, il che però – a parte lo «stato d’eccezione», nell’Iliade, costituito dalla guerra – non pare compatibile col contesto storico-sociale
descritto dall’opera omerica. Il concetto di hybris fu universale, e non
tenere conto di ciò porta, a nostro avviso, a conclusioni contraddittorie;
Del Grande, per rimanere fedele alla sua tesi “classista”, deve infatti
ad esempio sostenere che, nonostante lo strazio del cadavere di Ettore,
«in Achille hybris nel senso deteriore del termine non ce n’è»193, il che è
palesemente contrario alle norme etiche omeriche.
Per quanto, comunque, riguarda le altre idee incarnate da personalità divine, il discorso rimane lo stesso: la metafora mitica era il modo,
tipico dell’epoca omerica, di trasmettere le proprie concezioni etiche
C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 1. Hybris è termine che, nell’Iliade, ricorre solo due
volte (I, 202; 214) riferito ad Agamennone, anche se più volte, ad esempio nel canto XIII,
compare l’aggettivo hybristes (infetto di hybris). Il termine però compare un gran numero
di volte nell’Odissea, in cui appunto si mostra che ad hybris si oppone nemesis (XVII, 431
ss.; XVIII, 112-157; XX, 345-386; ecc.).
191
C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 10.
192
Ibidem, pag. 11.
193
Ibidem, pag. 18.
190
85
iL Pensiero omerico
ed educative. Come ha scritto giustamente F. Codino, «gli dèi omerici
[...] compaiono per spiegare l’origine di una azione umana [...] la società divina si eleva di poco al di sopra del mondo umano, e conserva
con esso molteplici legami pratico-sentimentali [...] Al tempo di Omero
l’antropocentrismo della religione greca era avviato alle conseguenze
estreme»194, ovvero ad un completo umanesimo.
Gli dèi omerici non furono certo ancora, come lo saranno invece in
epoca classica, dei modelli ideali di perfezione cui adeguarsi; proprio
per questo, però, essi furono molto umani, forse “troppo”, come avrebbe detto Nietzsche. L’umanità di questi dèi si coglie anche dal fatto –
quasi impensabile nel monoteismo ebraico – che la loro beatitudine è
messa a repentaglio dai “mortali”, i quali ad esempio li fanno preoccupare (Iliade, II, 1-4), o litigare fra loro (Iliade, I, 574; VIII, 428; XXI, 380;
XXI, 463). La prova maggiore dell’umanesimo omerico è costituita però
dalla possibilità di descrivere quasi sempre le divinità in termini umanistici. L’esempio più eloquente è costituito dalla coppia concettuale aidos/nemesis. Abbiamo già rimarcato in precedenza come nemesis, ancor
più che una divinità, esprimesse nei poemi omerici un concetto morale;
come si evince dalla sua stessa radice (da nomos, legge), essa rappresenta uno stato d’animo risentito per il mancato rispetto della legge, ed in
generale esprime un sentimento di giustizia che respinge tutto ciò che
si pone con hybris, nei confronti degli uomini e degli dèi, per favorire il
ripristino di un più armonico stato originario. La stessa cosa accade per
aidos, che indica la vergogna che si prova davanti alla propria comunità quando si commette ingiustizia, e dunque al contempo il ritegno
che impedisce di commettere tale ingiustizia; l’aidos, nell’etica omerica,
costituì uno dei maggiori freni contro la decadenza morale che Omero,
ed ancor più Esiodo, sentirono incombere sulla loro epoca. Questo il
fulcro del messaggio educativo omerico, che affronteremo nel prossimo
paragrafo.
È possibile comunque concludere questa breve trattazione dei
rapporti fra mondo naturale, umano e divino affermando, con A. Lo
Schiavo, che nella concezione di Omero questi tre mondi «si corrispondono vicendevolmente, si distinguono ma non si separano; natura,
umano e divino hanno strutture comuni»195. Si tratta di un punto necessario da tener presente per la corretta comprensione dell’etica omerica.
194
195
F. Codino, Introduzione…, op. cit., pag. 164.
A. Lo Schiavo, Omero filosofo, op. cit., pag. 215.
86
La centraLità deLL'etica omerica
In questi ultimi due paragrafi di questa prima parte parleremo, rispettivamente, di etica e di educazione omerica. Pressoché tutti gli interpreti, del passato e del presente, hanno infatti riconosciuto Omero
come pensatore di tematiche etiche ed educative; nella maggior parte
dei casi, però, questi interpreti hanno colto una prevalente discontinuità nell’etica greca, che riguarderebbe soprattutto l’etica omerica e quella
classica.
Cogliere una continuità o una discontinuità, in un arco temporale
così vasto quale è quello della antica cultura greca, dipende spesso dalle inclinazioni dell’interprete; vi è infatti chi è più portato a rimarcare le
comunanze, e chi le differenze. Tuttavia, almeno per quanto concerne
l’etica, vi è a nostro avviso una prevalente continuità nel pensiero dei
grandi autori greci, da Omero ad Epicuro, caratterizzata dalla centralità
di alcune importanti tematiche (l’umanesimo e l’anticrematistica).
Per valutare se davvero vi sia stata una prevalente continuità dell’etica greca, procederemo dapprima con una descrizione dell’etica omerica
e poi, col consueto metodo dialettico, effettueremo una sintetica analisi
comparata con l’etica classica; anticipiamo subito che, anche in questo
caso, le conclusioni cui perverremo si oppongono a quelle dominanti.
La tesi maggioritaria è infatti, come detto, quella per cui fra etica
omerica ed etica classica vi sarebbe una forte discontinuità. Molti autori
ritengono peraltro che di una etica vera e propria si possa parlare solo
a partire da Aristotele, in quanto, come ha sostenuto ad esempio M.
Vegetti, «fino a Platone l’etica non ha alcuna autonomia dalla sapienza
e dalla filosofia»196; si può in effetti affermare, come hanno giustamente
rimarcato vari studiosi (fra cui K. Polanyi), che in epoca omerica l’etica, la politica, l’economia ed in generale la cultura furono fuse insieme
nel modo di produzione sociale antico, sicché è estremamente difficile
astrarre da questo contesto l’etica per analizzarla. Il fatto che questa
operazione sia difficile non la rende però, a nostro avviso, impossibile;
196
M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 182.
87
iL Pensiero omerico
è infatti possibile affermare innanzitutto che esiste un’etica omerica, e
poi che questa etica fu in sostanziale continuità con quella classica.
Cominciamo, dunque, dall’inizio. Quale è, secondo gli studiosi, la
caratteristica principale dell’etica omerica? Come già abbiamo accennato, la interpretazione prevalente dell’etica omerica rimane ancora oggi
quella di S. Weil, che indicò l’Iliade come «il poema della forza»197, e che
considerò tale opera come la più rappresentativa fra quelle di Omero; si
tratta di un approccio condiviso sia da parte liberale che da parte marxista, come dimostra ad esempio la lettura di Mario Vegetti. Lo studioso
milanese è infatti portato ad evidenziare, nell’etica omerica, soprattutto
il rapporto antagonistico derivante dallo scontro oppositivo fra diversi uomini e ceti; nonostante Vegetti colga un aspetto indubbiamente
presente nei poemi omerici, nel ritenerlo come il principale egli compie però, a nostro avviso, un errore grave, che gli fa perdere la corretta
comprensione umanistica dell’etica omerica. Alcune sue argomentazioni possono aiutare a chiarire meglio questo punto.
Vegetti anzitutto sostiene che la «virtuosità», in Omero, «si esprime
soprattutto ed essenzialmente nell’agone guerriero, nella capacità di far
prevalere la propria forza su nemici e rivali»198; a suo avviso, nell’Iliade aretè è connessa essenzialmente con bia. Ebbene: nonostante ciò sia
talvolta vero (ad esempio IX, 498; XIII, 277; XV, 642), sostenere questo
in generale equivale a descrivere il mondo omerico come una società animalesca199, descrizione che è invece fortemente contraria al vero.
Se è infatti corretto sostenere che il coraggio è la grande virtù dei mitici personaggi omerici (Achille, Odisseo, Diomede, ecc.), è ancor più
corretto rimarcare che il poeta elogia implicitamente questi personaggi
quando essi fanno buon uso di questa virtù, mentre li biasima quando
ne fanno cattivo uso, ovvero ad esempio quando trasformano l’eroismo
in prevaricazione (pensiamo, in positivo, all’elogio della moderazione
di Odisseo, ed in negativo alla critica della efferatezza di Achille). Le
virtù, in generale, sono sempre tali, ma solo finché mantengono, nel
rapporto con la situazione, la giusta misura; smarrendo questa, esse
si trasformano in vizi, quali sono, in quanto tali, tutti gli eccessi. Per
S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Torino, 1967, pag. 31.
M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 17.
199
Come lo stesso Vegetti ammette, infatti, «il carattere fondamentalmente agonale della
virtù eroica, la difesa ad oltranza della propria time, non possono accettare i vincoli [...]
della stessa condizione umana [...]. L’affermazione di sé richiede la negazione dell’altro»
(L’etica degli antichi, op. cit., pag. 18).
197
198
88
La centralità dell'etica omerica
questo motivo discordiamo dalla tesi di Vegetti secondo cui in epoca
omerica areté sarebbe da identificare principalmente con bia, ovvero
dalla tesi per cui «nella società omerica non esistono [...] presupposti
di una concezione morale collaborativa, fondata sulla comunanza dei
valori»200; tale tesi si scontra infatti con molte descrizioni della società
omerica presenti sia nell’Iliade che nell’Odissea.
Pensiamo ad esempio, tanto per cominciare, alla più grande comunità descritta dall’Iliade, vale a dire la città di Troia. Si tratta di un contesto in cui regna grande armonia fra governanti e cittadini, dato che la
città resiste, nella descrizione omerica, a dieci anni di assedi e privazioni senza sommosse interne. Ettore in effetti, figlio del re Priamo e designato erede al trono, decise di affrontare la probabile morte in battaglia
con Achille proprio per amore della propria gente, con la quale condivise una evidente «comunanza di valori»; come ha rimarcato in merito
anche B. Snell, «la società omerica sta insieme perché nel suo complesso
gli uomini hanno una concezione unitaria di ciò che è buono e cattivo. I
Greci, e allo stesso modo i Troiani, sanno che cosa sia un uomo buono.
Per loro, non è dubbio in cosa consiste la virtù»201.
Prendiamo inoltre ancora, sempre nell’Iliade, l’altra grande comunità di riferimento, ovvero l’unione di popoli “greci” riunita in esercito:
ebbene, pur composta da popoli fino a pochi anni prima anche in guerra fra loro, seppure con qualche mugugno tale unione riuscì a rimanere
compatta per dieci anni, rivelando un forte spirito collaborativo. Tutto
ciò deve essere posto sul conto della «virtù violenta» di Agamennone,
capo della spedizione, oppure del fatto che questi popoli, che pure ancora non si identificavano compiutamente come Elleni, si sentivano
comunque vicini per lingua, tradizione, costumi, e dunque anche per
“comunanza di valori”? Riteniamo che la seconda ipotesi sia la più verosimile202.
Vegetti in sostanza, con la sua interpretazione, coglie una parte della
verità (la «virtù agonale» presente nell’Iliade), ma tende indebitamente, sulla scia di una tradizione consolidata, a farla diventare l’intera
verità, ossia a trascurare i valori umanistici presenti nell’opera omeriIbidem, pag. 20.
B. Snell, Poesia e società, Laterza, Roma-Bari, 1971, pag. 26.
202
Come scrisse S. Mazzarino, sottolineando il carattere comunitario della società omerica, «l’epos è innanzi tutto una testimonianza di amore alla terra di origine, alla Grecia
continentale» (S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, Rizzoli, Milano, 1989, pag. 89).
200
201
89
iL Pensiero omerico
ca203; il giudizio di Vegetti è talmente negativo che egli giunge perfino
ad affermare che, oltre agli eroi, anche «gli dèi sono privi di qualità
morali che non consistano nella virtù della loro forza»204. È infatti agli
dèi, ed in particolare ad Apollo (offeso per la sottrazione compiuta da
Agamennone della figlia Criseide al sacerdote Crise), che Vegetti imputa proprio l’inizio della catena delle violenze per la time offesa, la quale
avrebbe informato tutta l’etica conflittuale omerica.
Ebbene: nonostante dèi ed eroi, come notò anche Platone, non
sempre si distinsero per la loro etica nei poemi omerici (in particolare nell’Iliade, poema che non a caso la Weil e Vegetti prendono come
pressoché unico riferimento), non è corretto a nostro avviso affermare
che il loro timbro identificativo fu costituito dalla violenza205; nell’Iliade
furono infatti preponderanti valori etici di condanna della bia (la quale,
se eccessiva e mal rivolta, fu considerata hybris anche nei poemi omerici), e furono primariamente proposti valori comunitari, come prova
il ruolo di primo piano della figura di Ettore su cui poi ci soffermeremo. Pensiamo ad esempio al tema della difesa dei deboli, più volte
ribadito soprattutto dall’Odissea (e presente anche negli Erga di Esiodo,
327 ss., ma poi pressoché scomparso dall’umanesimo rinascimentale e
moderno); come ebbe giustamente a scrivere G. Murray, «qualsiasi lettore sensibile alla poesia greca antica noterà l’importanza, o addirittura
la santità, che viene considerata come caratteristica di tre categorie di
esseri umani: stranieri, supplici e persone anziane. Cosa c’è in comune
tra queste tre categorie? [...] Nient’altro che il fatto di essere indifese»206.
Ebbene: può essere questa l’etica di una società che si incentra sulla
forza? A noi pare che questa lettura tradizionale debba essere rivista.
Riteniamo che, su questo punto, avesse ragione – sebbene forse idealizzando un po’ –
M. Zambarbieri, nel sostenere che «dire che l’Iliade è il poema della forza (Weil) è cedere
all’amarezza di un profondo dolore, ed applicare all’antico carme di Omero criteri di
giudizio validi per i nostri tempi feroci» (L’Iliade com’è, op. cit., vol. II, pag. 991).
204
M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 27.
205
Contrariamente a Vegetti, riteniamo infatti che avesse in merito ragione G. De Sanctis
ad affermare che, pur essendo estraneo ad Omero «il concetto che gli dèi amino l’umanità in generale» (G. De Sanctis, Per la scienza della antichità, Borea, Torino, 1907, pag. 7),
in lui fu comunque presente il concetto per cui «la divinità si fa portatrice dell’ordine
sociale, ed anziché operare senza legge, interviene regolarmente a difesa dell’oppresso,
e a danno dell’oppressore e dell’ingannatore» (ibidem, pag. 18). Sulla stessa linea anche
L. Zoja, il quale ha rimarcato che «nell’Odissea la divinità comincia a presentare qualche
aspetto equo e quasi provvidente. Odisseo può contare sulla protezione di Atena e su un
embrionale interesse per la giustizia dello stesso Zeus» (L. Zoja, Storia…, op. cit., pag. 55).
206
G. Murray, Le origini… op. cit., pag. 114.
203
90
La centralità dell'etica omerica
Per questi motivi riteniamo non corretto affermare, come invece fa
Vegetti, che l’Iliade «canta ed elogia la vendetta e il massacro, l’accumulo di bottini infiniti, gli interminabili banchetti, l’uso dei corpi femminili»207; occorre rimarcare in merito che l’Iliade descrive effettivamente
«l’eccesso e le passioni», come «l’ira, la collera, l’avidità di ricchezza, la
brama dei piaceri del cibo e del sesso»208, ma non le elogia. Al contrario,
vi sono molti passi in cui questi contenuti sono esplicitamente deprecati! Pensiamo ad esempio ai versi, che citeremo nel secondo capitolo,
con cui nell’Iliade Achille insulta Agamennone proprio accusandolo di
avidità; o pensiamo ancora, nell’Odissea, a quando Odisseo, nell’isola
dei Feaci, si sdegnò proprio quando venne provocatoriamente sospettato di essere un mercante. Circa poi il presunto elogio della vendetta,
se essa fu nei poemi omerici tollerata ed in alcuni casi ritenuta giusta209,
va ribadito che essa fu comunque duramente criticata quando eccessiva, smisurata, e dunque sfociante in massacro; in questo senso, nella
disfatta finale dei Proci, anche Odisseo non pare esente da biasimo, pur
impedendo ad Euriclea di esultare sui nemici uccisi. Circa invece gli
«interminabili banchetti», essi (rari) sono accettati solo come momenti
conviviali e ristorativi, mentre sono deprecati (pensiamo ai banchetti
dei Proci) quando predatori e dissoluti. Circa, infine, «l’uso dei corpi
femminili», se pure esso (raro) pare comprovato con serve ed ancelle, è
comunque in generale precluso con mogli e donne libere non consenzienti; in epoche in cui certo la presenza della donna non era centrale,
in alcune magistrali figure femminili (pensiamo nell’Odissea ad Arete, a
Nausicaa, ad Elena ed a Penelope) Omero rappresentò un atteggiamento di grande stima e rispetto per l’altro sesso, evidentemente auspicando che esso potesse diffondersi. Come mostreremo anche nel prossimo
capitolo, Omero assegnò alle donne un posto di rilievo, sebbene non
ancora quella sostanziale parità auspicata da Platone nella Repubblica;
si trattò comunque di una delle molte tematiche su cui Omero e Platone
risultarono essere in continuità.
M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 33.
Ibidem.
209
In merito al tema della vendetta, ci pare sostenga bene M. Zambarbieri che «prima di
Solone e delle sublimi fantasie tragiche di Eschilo, il poeta dell’Odissea chiude il poema
con una novità [...] la scena celeste del colloquio tra Zeus ed Atena (XXIV, 472-6) sancisce
la necessità che l’antica legge della vendetta, fonte di interminabili lutti all’interno delle
famiglie, delle tribù, delle città, venga sostituita con una legge più umana e civile, fondata
sul valore morale della giustizia tutelata dalla polis nascente» (M. Zambarbieri, L’Odissea
com’è, op. cit., vol. II, pag. 750).
207
208
91
iL Pensiero omerico
Mostrata l’etica omerica come “comunitaria” anziché “conflittuale”,
occorre ancora sottolineare come essa si sia posta come il passo iniziale
dell’etica classica, con la quale dunque avanzò in continuità. La continuità del resto era ritenuta un valore anche da Omero, che nella Odissea
rimarcò più volte l’importanza di conoscere molte cose antiche (II, 188;
VII, 156; IX, 281; XII, 188), dato che esse conducono ad avere pensieri
onesti (XIX, 248), amichevoli (III, 277), giusti (II, 231; V, 9; XIV, 433),
saggi (IV, 696; IV, 711; VIII, 586), benevoli (XIII, 405; XV, 557); lo stesso
valore – sebbene con la giusta criticità platonica, su cui fra breve ci soffermeremo – fu rivendicato dall’etica classica nei confronti dell’etica
antica.
La continuità maggiore presente nel pensiero greco fu comunque
la chiara comprensione che all’interno delle modalità sociali vi sono
forze che tendono a realizzare la natura razionale e morale dell’uomo
(e che dunque favoriscono la felicità), ed altre che tendono invece a derealizzare tale natura. Come ha ben colto W. Jaeger, ponendo l’accento
sull’Odissea più che sull’Iliade, emerge nella Grecia antica il senso di
una quotidiana umanità, tanto che anche “l’eroe” non è principalmente
il guerriero coraggioso e violento, quanto «l’uomo colmo di saggi consigli, che in ogni situazione sa trovare le parole opportune»210; “eroe”,
dunque, non fu solo Odisseo, ma anche, ad esempio, il porcaro Eumeo.
Nell’Odissea Omero rivelò pure, come ricordato, la propria vicinanza
agli ultimi, mostrando di conoscere bene – le famose parole di Eumeo
– che «Zeus toglie all’uomo metà della propria virtù, quando lo pone
come servo» (XVII, 321-323), in quanto la privazione della libertà e della autonomia furono sempre, sin dall’epoca omerica, percepite come la
maggiore privazione di dignità ed umanità.
Rimarcare la continuità dell’etica greca equivale a rimarcare, in questo libro dedicato all’umanesimo omerico, come proprio in Omero nascano i primi concetti etici e politici, nonché le prime riflessioni sulla
giustizia, sulla uguaglianza, sulla virtù211. Per questo motivo abbiamo
ritenuto importante sottolineare la distanza da tesi che, presentando
l’etica omerica come agonale-conflittuale, oltre a “falsificare” una cultuW. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 60.
Concordiamo in merito, stavolta, con M. Vegetti, il quale, contrariamente ad Aristotele
che riconosceva a Socrate il merito di «avere per primo indagato intorno alle virtù etiche»
(Metafisica, 1078 b 17-18), ha invece sostenuto che «la discussione e la riflessione sui valori
e le norme morali sono certamente tanto antiche quanto il primo documento scritto della
cultura greca, l’Iliade» (M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 3).
210
211
92
La centralità dell'etica omerica
ra, creano nell’immagine della civiltà greca una artificiosa discontinuità,
sfavorendo la comprensione di quei valori comuni che possono invece
ancora fungere da riferimento per il mondo di oggi. È curioso peraltro
– ma significativo – che questa continuità sia in alcuni passi ammessa
anche da Vegetti, il quale ha rimarcato come «nella cultura antica le
diverse tradizioni permangono tenacemente, senza che né Platone né
Aristotele, ma in fondo neppure Omero [...] siano mai in effetti superati
da posizioni nuove»212. Ci pare che questa continuità sia in buona parte dovuta al carattere “sociale” e “politico” della cultura greca, che ha
sempre mirato in primo luogo non ad essere “astratta”, bensì ad essere
“concreta”, ossia utile per la comunità. Si tratta di un tema che è stato
sviluppato, fra gli altri, da G. Murray, secondo cui la poesia greca è
«una forza che ha contribuito al progresso del genere umano»213, inteso
come un arricchimento dei contenuti della buona vita. Per gli antichi,
infatti, la poesia è una di quelle arti in cui «l’uomo si rende utile agli altri uomini»214, in quanto «la concezione dell’arte come qualcosa di utile
alla comunità era assai più radicata negli antichi Greci che in noi»215.
Le riflessioni più note circa la funzione politico-sociale dell’arte furono sicuramente, nel mondo antico, quelle presenti nella Repubblica
di Platone; in generale però i Greci, di fronte ad ogni opera letteraria,
si chiesero sempre se essa contribuisse a rendere migliore la vita umana oppure no216, e questo fu verosimilmente anche l’atteggiamento di
Omero nello scrivere le proprie opere. Ciò vale peraltro non solo per
l’arte e per la letteratura, ma anche per i nascenti studi storici: Diodoro
Siculo, ad esempio, iniziò il suo scritto facendo riferimento alla lunga
catena di storici che «con le loro fatiche hanno aspirato a recar giovamento alla vita pubblica»; Tucidide, poi, pose esclusivamente l’utilità
sociale come fine della propria opera (I, 22), e tale fu sicuramente anche
l’intento di tutta la tradizione medica e scientifica. Contrariamente a
quanto si è soliti credere, infatti, la letteratura greca, sin dall’epoca omerica, fu «una espressione della lotta dello spirito umano per la libertà e
la dignità»217; come ha scritto sempre G. Murray, «i Greci non furono un
Ibidem, pag. IX.
G. Murray, Le origini dell’epica greca, op. cit., pag. 9.
214
Ibidem.
215
Ibidem.
216
Ciò emerge anche in Aristofane, Rane, 1008; 1035.
217
G. Murray, Le origini dell’epica greca, op. cit., pag. 11.
212
213
93
iL Pensiero omerico
popolo di schiavisti [...] I greci furono semmai i primi esseri umani che
ebbero dubbi e scrupoli davanti allo schiavismo»218.
La continuità della cultura greca a partire dall’etica omerica è stata
sostenuta anche da M. Zambarbieri, il quale ha rilevato che, per quanto
concerne la giustizia, «è possibile trovare in Omero i germi dei futuri
sviluppi etici e poetici di una meditazione plurisecolare»219. Dike, nei
poemi omerici, non riguardò infatti solo le sentenze dei tribunali, ma
soprattutto le valutazioni morali. Eumeo, ad esempio, nell’Odissea ricordò che «gli dèi non amano le azioni scellerate, ma amano la giustizia
ed il retto operare degli uomini» (XIV, 83-84), e questa tesi, variamente
modulata, rimase costante in tutta la cultura greca, fino all’epoca ellenistica; nell’opera di Omero, infatti, dominarono le riflessioni sui problemi etici (giustizia, felicità, ecc.), e per il pensiero greco questi problemi
furono “i problemi”, ovvero le tematiche più importanti da affrontare.
Un altro tema etico di tipo umanistico che nacque nell’opera omerica, ma che fu poi presente in tutta la cultura greca almeno fino all’epoca
classica, fu quello della ospitalità nei confronti degli stranieri. Abbiamo
trattato ampiamente di questo tema, dedicando molte pagine ad
Omero, nel nostro Gli stranieri nella Grecia classica, per cui non ripeteremo qui quanto già scritto allora; ricordiamo soltanto, come episodio
paradigmatico in quella sede non citato – ci siamo allora soffermati soprattutto sull’accoglienza ricevuta da Odisseo dapprima da Nausicaa
nell’isola dei Feaci, e poi da Eumeo nell’isola di Itaca –, la accoglienza
ricevuta da Telemaco a Pilo da Nestore (oltre che dai suoi famigliari e
concittadini). Quando questi ultimi, infatti, scorsero Telemaco ed i suoi
accompagnatori, nonostante stessero partecipando ad una cerimonia
sacra, «insieme andarono loro incontro, e li salutarono con grandi strette di mano, e li invitarono a sedere accanto a loro» (III, 33-35); Nestore
affermò, in maniera emblematica, che «è necessario dare ospitalità agli
stranieri, chiunque arrivi nella nostra casa» (III, 355). Simile fu peraltro,
a Sparta, l’accoglienza riservata a Telemaco da Menelao (IV, 30-36), non
limitata al mero «dono ospitale»220.
Ibidem, pag. 28.
M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. II, pag. 769.
220
Come mostreremo più avanti, un altro tema molto importante nei poemi omerici è
quello del dono. Come fece giustamente notare E. Benveniste (Vocabolario delle istituzioni
indoeuropee, Einaudi, Torino, 1976, vol. I, pag. 47), il greco possiede infatti almeno cinque
parole che solitamente si traducono con «donare», le quali corrispondono ad altrettanti
modelli diversi di considerare il dono.
218
219
94
La centralità dell'etica omerica
Per sottolineare, ancora, la continuità dell’etica greca, occorre rimarcare che anche chi sostiene che l’etica omerica fu sostanzialmente di
tipo “eroico” può verificare che questo ideale, pur diversamente declinato nei secoli, fu presente quanto meno anche in tutta l’epoca classica;
fecero eccezione infatti, nell’opera letteraria greca, solo affermazioni
come quella di Archiloco (fr. 6 DK), il quale si vantò di aver gettato
via lo scudo in guerra – azione considerata assai poco dignitosa – per
fare salva la vita. L’ideale dell’eroismo si trasformò presto nell’ideale
dell’aristocrazia dell’anima, rivolto alla difesa della comunità sociale.
Questo il trait d’union di Omero con Platone e l’epoca classica, ottenuto
coniugando l’eroismo in chiave umanistica.
Per concludere, occorre rimarcare come l’etica omerica si incentri,
come già rilevato in precedenza parlando dell’umanesimo omerico, sui
concetti di «limite» e di «misura» (in rapporto alla potenziale sfrenatezza degli istinti e delle passioni)221. In questo senso, l’insistito riferimento
dell’Iliade e dell’Odissea alla vita armonica degli dèi olimpici, segna la
distanza – come hanno rimarcato diversi autori222 - rispetto ad una vita
“primitiva” condotta in balìa delle forze della natura. Più volte, come
ricordato, i personaggi omerici (in primis Odisseo) affermano che «la
giusta misura, in ogni cosa, è meglio» (Odissea, VII, 309-310; XV, 70),
e sono pronti a criticare duramente chi non la rispetta. Pensiamo ad
esempio, nell’Iliade, alle critiche di Achille ad Agamennone per la propria tracotanza ed avidità di guadagno, oppure, nell’Odissea, alla dura
reprimenda verso Ciclopi, Lestrigoni ed altri popoli dediti agli eccessi; la pena inflitta ai Proci da Odisseo rimane, in questo senso, emblematica. Molti studiosi sostengono che il concetto di metron, in Omero,
esprimesse ancora solo l’unità di misura, la stecca di riferimento (ad
esempio il grano, o i buoi) con cui concludere gli scambi economici, e
che esso assunse il significato di «giusta misura» solo in Esiodo. In realtà i versi poc’anzi citati, ma soprattutto i contenuti presenti negli epi-
Sul senso del limite che pervade la cultura omerica, si è soffermato in modo particolare
K. J. Dover, La morale popolare greca all’epoca di Platone ed Aristotele, Paideia, Brescia, 1983.
Rinviamo anche, in merito, a D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, op. cit..
222
Ad esempio B. Snell, La cultura greca…, op. cit., pag. 47. Il «limite» è centrale anche nel
contesto olimpico. Non è infatti lecito neanche a un dio invadere la parte assegnata ad
un altro dio. L’Iliade racconta ad esempio l’ira di Poseidone contro Zeus che ha varcato i
confini della sua giurisdizione; è una immagine mitica, ma i miti avevano allora una forte
valenza sociale.
221
95
iL Pensiero omerico
sodi qui menzionati ed in diversi altri, mostrano la centralità del tema
della «giusta misura» anche nell’epoca omerica; tale tema, come noto,
sarà ripetuto in modo costante nella cultura greca almeno fino all’epoca classica, rappresentando il cardine dell’intero umanesimo greco.
Proprio grazie al metron il mondo, da caotico che era in balia delle forze
della natura, divenne un tutto bene ordinato: la misura riguarda infatti
proprio la giusta proporzione delle parti dell’intero, la armonica composizione degli enti fra loro, l’equilibrato svolgimento della vita (pur
all’interno della generale ambivalenza che la caratterizza)223.
Il fatto che l’uomo omerico dovesse accettare il limite della propria
condizione mortale, e dovesse porre attenzione alla giusta misura negli
atti della propria vita, è assolutamente compatibile con la sostanziale libertà e con la dinamica progettualità che caratterizzò la vita degli
eroi greci; per questo motivo riteniamo non corretta la tesi espressa da
Reale, secondo cui «le regole di base secondo le quali l’uomo omerico
cerca di attuare pienamente sé medesimo, sono sostanzialmente due:
ascoltare la parola degli dèi, ed inoltre accettare la sorte e il destino
che tocca a ciascuno, qualunque esso sia, in quanto esso è voluto dagli
dèi»224.
Questa doppia regola etica è, con riferimento al contesto omerico, assolutamente inverosimile, e cercheremo qui di spiegare perché.
Innanzitutto, per l’uomo omerico, cosa deve intendersi come «ascolto
della voce degli dèi»? Dando per scontato che Zeus, Apollo, Atena non
parlassero realmente ai mortali, si può al più affermare che fu buona
norma etica, per l’uomo omerico, seguire alcune massime di saggezza
condivise (talmente condivise da essere attribuite addirittura agli dèi).
Ma, ancora una volta, l’indicazione risulta essere troppo vaga, anche a
causa della ambivalenza degli dèi omerici che lo stesso Reale, peraltro,
a più riprese ha sottolineato225.
Se la prima norma etica risulta essere piuttosto fumosa, altrettanto
si deve dire della seconda, in quanto sarebbe possibile scegliere di «accettare il proprio destino» solo se esso fosse conoscibile agli uomini;
così, però, non è, in quanto la caratteristica principale del destino greco fu proprio quella di essere imperscrutabile. Gli uomini, certo, pur
Nei poemi omerici, tale ambivalenza è simboleggiata dalla più importante delle divinità, ossia Zeus (Iliade, VIII, 470-483; IX, 17-25; XIII, 631-635).
224
G. Reale, Corpo, anima, salute, op. cit., pag. 124.
225
Ibidem, pagg. 119-124.
223
96
La centralità dell'etica omerica
volendo realizzare i loro progetti di vita, devono accettare alcuni fatti
limitanti per il semplice motivo che essi accadono; tuttavia, non devono
necessariamente accettare senza combattere ogni evento, in quanto ciò
li condurrebbe ad una sostanziale passività, che è quanto di più lontano
dall’uomo omerico vi possa essere.
L’uomo omerico dunque – come dimostrò emblematicamente la figura di Odisseo – non si caratterizzò per essere un inerte accettatore del
volere degli dèi e del destino, che arranca sulla faccia della terra infelice
tra tante sventure; egli fu anche questo ma, se fosse stato solo o principalmente questo, difficilmente potremmo affermare che l’etica omerica
fu insieme accettazione dei propri limiti e lotta per la realizzazione di
una vita felice, come dimostrò invece, in primo luogo, la ferma volontà
di Odisseo di ritornare nella propria casa e fra la propria gente.
Nel prossimo capitolo, trattando dei vari miti omerici, troveremo
ancora molte conferme di questo atteggiamento etico. Prima di farlo, però, è ancora necessario, a nostro avviso, entrare maggiormente
nel merito dell’etica omerica, e dunque entrare propriamente nei suoi
contenuti educativi. Solo, infatti, se Omero può ancora essere pensato
come un “educatore” per il nostro tempo, vale la pena realizzare uno
studio come questo; se invece così non fosse, questo libro sarebbe un
semplice documento attestante alcuni errori di epoche passate, di poca
utilità per gli uomini di oggi. Ebbene: nonostante la nostra sostanziale
vicinanza alle tesi espresse da Platone nella Repubblica, riteniamo non
solo che i precetti etico-educativi di Omero siano in larga parte tuttora
validi, ma crediamo anche che valga la pena enunciarli chiaramente,
in quanto essi forniscono, nella loro sostanziale vicinanza col pensiero greco classico, un modello morale alternativo a quello offerto dalla
contemporaneità: l’etica omerica espresse infatti la morale di un modo
di vita in cui non il denaro, ma l’uomo, costituì il centro di riferimento
dell’intero.
97
omero educatore
Come noto, nella Grecia antica l’Iliade e l’Odissea furono non solo i testi su cui i giovani impararono a leggere ed a scrivere, ma anche, grazie
alla grande presenza di modelli etici, i testi su cui si educarono; Omero
fu dunque unanimemente ritenuto, almeno fino a Platone, l’educatore
della Grecia226. Omero peraltro, come ricordato, fu verosimilmente un
aedo che recitò le proprie opere in pubblico, e queste opere, per destare
interesse, dovettero necessariamente trattare i temi più rilevanti per la
vita umana; come ha ben colto fra gli altri M. Valgimigli, «la poesia greca classica [...] è creata entro e per la vita comunitaria, e non elucubrata
nelle case o nelle biblioteche [...]. La poesia omerica rientra nella vita
all’aria aperta dove tutto accade, dove le genti si trovano, sperano e
parlano: la casa non ha valore, ha valore la piazza»227.
Proprio il tema della oralità risulta essere di particolare interesse per
la pratica educativa228. È vero che la poesia recitata dall’aedo è cosa assai diversa dalla dialogicità del filosofo; tuttavia, indipendentemente
da ogni discorso circa il passaggio dalla civiltà orale alla civiltà della
scrittura, l’elemento da sottolineare è la comune presenza, nell’opera
omerica così come in quella platonica, della dimensione comunitaria,
del fatto cioè di argomentare cose in pubblico le quali devono avere
una utilità educativa. Tutto ciò crea all’aedo, così come al filosofo, una
positiva apertura verso gli altri, che induce insieme ad essere essenziali,
ed a dire le cose più importanti nel modo migliore.
In queste pagine sarà ancora ribadita la tesi della continuità educativa ideale fra Omero e Platone; questa continuità è stata sostenuta
da un esiguo numero di interpreti, fra cui però W. Jaeger, secondo cui
Ciò è ricordato, fra gli altri, da L. Napolitano Valditara, per la quale «ruolo pedagogico
aveva l’aedo omerico, deputato a cantare ciò che era, è e sarà, ed a trasmetterlo tramite l’oralità ritmica della poesia mandata a memoria, quale sorta di enciclopedia tribale
(Havelock). Il mezzo scritturale dell’alfabeto fonetico greco articola la comunicazione pedagogica, favorendo la nascita di nuovi saperi [...] e la loro democratizzazione» (AA.VV.,
Enciclopedia filosofica, op. cit., pag. 8231).
227
M. Valgimigli, Poeti e filosofi in Grecia, Laterza, Roma-Bari, 1951, pag. 299.
228
In questo senso anche E. Cantarella, che ha parlato di «funzione altamente pedagogica» (Itaca, op. cit., pag. 121) della poesia omerica.
226
99
iL Pensiero omerico
già in Omero «il pensiero greco relativo all’uomo ed alla sua areté ci
si presenta subito col carattere di uno sviluppo unitario. Ad onta di
ogni mutamento ed arricchimento di contenuto nel corso dei secoli
seguenti, esso conserva sempre la sua forma stabile, quale venne costituendola nell’antica etica aristocratica. Su questo concetto dell’areté
si fonda infatti il carattere aristocratico dell’ideale culturale greco»229,
il che rappresenta appunto una aristocrazia dello spirito. Ebbene, tale
continuità si ha in quanto sia Omero, sia i presocratici, sia i sofisti, sia i
classici, cercarono di fornire un ideale compiuto di uomo come modello educativo. Questo modello ebbe sicuramente una evoluzione anche
nei due poemi, che rispecchia la stessa evoluzione del contesto storico
e culturale: dal modello infatti di una areté basata sul coraggio e sulla
forza presente nell’Iliade, si passa ad un modello di areté basata sulla
intelligenza e sulla saggezza presente nell’Odissea. Come scrisse ancora
W. Jaeger, «il fattore educativo della nobiltà sta nel destare il sentimento
dell’obbligo verso l’ideale [...]. L’Iliade attesta l’alta coscienza educativa
della aristocrazia greca arcaica», che ricercava «una immagina nuova
dell’uomo perfetto, la quale oltre alla nobiltà dell’azione riconosceva
quella della mente»230.
Come noto, non solo il libro X della Repubblica, ma anche altri luoghi
dello stesso testo, nonché delle Leggi e di altri dialoghi platonici (ad
esempio Liside e Ione), si incentrano sulla critica all’opera omerica, con
un rigore ed una potenza tali da far apparire Omero, dopo di esse, pienamente spodestato dal ruolo di «educatore dei Greci» che si era fino
ad allora visto attribuire231. Pur concordando con pressoché tutte le argomentazioni platoniche232, vorremmo in questo paragrafo evidenziare
come le critiche del filosofo ai poeti, specie nel già citato libro X, non
colpiscono se non in parte il modello umanistico di Omero; sosteniamo
W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 45.
Ibidem, pag. 37.
231
Ha scritto correttamente, in merito, M. Vegetti che soprattutto nel libro II e III della
Repubblica «l’attacco portato da Platone alla cultura poetica [...] è senza precedenti e senza paralleli nel pensiero antico» (M. Vegetti, Guida alla lettura della Repubblica di Platone,
Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 48). Secondo Platone infatti, rispetto alla filosofia, «la poesia non è in condizione di insegnare alcunché perché non ha cognizioni sue proprie»
(ibidem, pag. 105).
232
Concordiamo, in particolare, con la tesi di fondo del libro X della Repubblica, il quale
sostiene che il primato educativo deve esser tolto ai poeti ed assegnato ai filosofi, in quanto dove governa la poesia comandano le emozioni e le passioni, mentre dove governa la
filosofia comandano la ragione e la legge.
229
230
100
Omero educatore
quindi, in sostanza, che anche sul piano educativo la linea di continuità
fra Omero e Platone sia molto più importante della apparente rottura
che pure sembra emergere. Andiamo comunque con ordine.
Innanzitutto, va ricordato come sia proprio il Socrate platonico della
Repubblica ad affermare una sorta di continuità, per quanto concerne il
modello educativo, con le pratiche paideutiche «consolidate da tanto
tempo» (376 E); come ha ricordato in merito S. Gastaldi, «questa linea
di continuità con la tradizione si manifesta anzitutto nell’adozione della
scansione canonica, presente ormai stabilmente in tutto il mondo greco, tra la formazione del corpo mediante la ginnastica e la formazione
dell’anima tramite la musica»233 (musica da intendere come l’insieme
delle arti, quali poi saranno la letteratura e la filosofia). In Omero, abbiamo testimonianza che l’educazione di Achille fu affidata dal padre
ad un «precettore» (Fenice), affinché egli diventasse il migliore sia nella
parola che nell’azione; ed insieme nella parola e nell’azione primeggiano tutti gli eroi omerici, in particolare Odisseo. La differenza principale
con l’epoca classica – o meglio, con la idealizzazione della Repubblica
platonica, secondo Hegel comunque rappresentativa di un’epoca – era
che, con Platone, il progetto educativo fu posto a carico della collettività, mentre in epoca omerica esso fu lasciato alle singole famiglie aristocratiche; fra i contenuti però, almeno nelle linee generali, la differenza
non fu così forte, perché le forme educative delle due epoche puntarono
sia alla cura del corpo che dell’anima. L’unica divergenza rilevante fu
che Platone esplicitò in modo chiaro che la priorità, nell’uomo, va alla
cura dell’anima; questo, in Omero, non fu ancora chiaramente esposto
(soprattutto per la assenza di una concezione dualistica anima/corpo),
ma fu comunque implicitamente presente. Nell’opera omerica, infatti,
è evidente come solo una intelligenza assennata possa poi compiere
azioni mirabili, in quanto la brutalità, così come l’astuzia, non conducono a nulla234.
233
In M. Vegetti, a cura di, Platone. La Repubblica, Bibliopolis, Napoli, 1998, vol. II, pag. 336.
Con riferimento alla musica ed alla danza in particolare, Platone afferma giustamente
che «se l’uomo è più esercitato alla meditazione ed al coraggio, i suoi movimenti sono
più ridotti; se, al contrario, egli è vile e non esercitato al controllo di sé, manifesta anche
movimenti più accentuati» (Leggi, VII, 816 A).
234
È significativo che, in un momento assai rilevante dell’azione, il vecchio Fenice – il
quale peraltro si rifaceva agli “antichi” come modelli – rammenti in questo modo ad
Achille il fine per cui da giovane lo aveva educato: «essere, insieme, oratore di discorsi
ed operatore di azioni» (Iliade, I, 443). Come ha ricordato in merito W. Jaeger, «i Greci di
101
iL Pensiero omerico
Cosa c’è dunque, di comune, fra la educazione “famigliare”
dell’epoca omerica, e la educazione “istituzionale” dell’epoca classica?
L’elemento comune è che, lungi dall’insegnare nozioni in modo arbitrario, anche in epoca omerica i precettori proponevano ai giovani un
percorso educativo che li portava ad interiorizzare i valori comunitari
condivisi, da cui dipendeva l’armonia sociale; giustizia e temperanza
erano infatti i valori che Omero, come Platone, riteneva necessario far
comprendere ai giovani per la loro formazione morale. Come ha ricordato infatti ancora S. Gastaldi, in epoca classica «i testi che fungono da
modello per la formazione letteraria sono naturalmente quelli poetici,
che si configurano come un inesauribile repertorio di massime gnomiche e di modelli di comportamento. Le grandi figure degli eroi, dei palaioi andres, sono proposti all’imitazione ed all’emulazione: l’educazione
rappresenta un processo di conformazione, un processo mimetico che
utilizza la forza coinvolgente della parola poetica»235; da evitare era soltanto l’eccesso disordinato delle passioni.
I poemi omerici, dunque, furono il primo riferimento della paideia di
Platone (Repubblica, 377 D); egli riconobbe l’insostituibile potenzialità
formativa della parola poetica (e della musica), ma ritenne necessario
intervenire per “purificarla”. Platone affermò infatti, ad esempio nelle
Leggi (X, 887 D), che i miti hanno sull’anima delle persone quasi la funzione degli «incantesimi», sicché un controllo sui loro contenuti, con la
sostituzione dei buoni ai cattivi miti, è sempre necessario236. Ebbene:
anche i miti omerici dovettero ritenersi sotto accusa dalla critica platonica? In parte, sicuramente, sì, sia in quanto Platone lo affermò esplicitamente, e sia in quanto anche in Omero i miti, ovvero gli dèi e gli eroi,
furono descritti spesso mostrandone le negatività, il che per Platone era
età posteriore ravvisarono in questo verso la più antica formulazione dell’ideale greco
della cultura, con la sua aspirazione ad abbracciare l’umano nella sua totalità» (W. Jaeger,
Paideia, op. cit., pag. 38).
235
In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 339.
236
Ciò è ribadito anche in Repubblica, 377 B; 386 B; 401 B. La filosofia classica non considerò
comunque negativamente i miti, come prova il famoso passo della Metafisica di Aristotele
in cui si afferma che anche chi ama il mito è in certo qual modo filosofo (in quanto il mito
è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia). Come ha ricordato E. Berti,
con questa affermazione Aristotele pensava «ai poeti, i quali avevano inventato i miti per
spiegare una quantità di cose che destavano in loro la meraviglia. Prima dei filosofi veri e
propri, infatti, secondo Aristotele, c’erano stati i poeti, i quali avevano cercato di spiegare
a modo loro il mondo» (E. Berti, Invito alla filosofia, La Scuola, Brescia, 2011, pagg. 64-65),
costituendo dunque l’antecedente letterario della filosofia.
102
Omero educatore
sconveniente (in quanto sugli dèi, per natura perfetti, non si può dire
nulla di negativo).
Omero, quindi, mostrando gli dèi olimpici come protagonisti di inimicizie e cattiverie (anche se fu poi soprattutto il mito teogonico esiodeo ad amplificare le efferatezze della stirpe di Urano), fu anch’egli
per Platone colpevole di “diseducatività”, in quanto il mito ha sempre
valore pedagogico, e sostenere che anche gli dèi possano commettere
azioni turpi significava, a suo avviso, fornire giustificazioni a comportamenti turpi; a difesa di Omero, però, va detto che sia quando questi
comportamenti furono riferiti agli uomini, sia quando furono riferiti
agli dèi, l’antico aedo li biasimò apertamente, mostrando in modo chiaro che egli non si limitò a descrivere questi atti, ma li valutò in modo
negativo. Questo punto – sottovalutato sia da Platone sia dalla maggior
parte degli interpreti moderni – deve necessariamente essere rimarcato
per una corretta comprensione dell’etica omerica.
Omero, dunque, descrisse (raramente) dèi ed eroi anche nell’atto di
compiere azioni riprovevoli, ma dai suoi poemi emerge chiaramente
che egli lo fece, come intuì Aristotele nella Poetica, a scopo “catartico”,
mostrando cioè il male e la sofferenza conseguenti da quelle azioni; paradossalmente, anch’egli si situò dunque sulla stessa linea dei successivi umanisti critici dei “modelli etici negativi”, di cui Platone fu solo
l’ultimo di una lunga serie. Ricordiamo però come, almeno secondo
Diogene Laerzio (VIII, 21), Pitagora – reo della stessa incomprensione
di Platone – disceso nell’Ade avrebbe visto comminare dure pene ad
Omero ed Esiodo, proprio per le loro rappresentazioni negative degli
dèi; Eraclito, a sua volta, ritenne che ad Omero queste pene avrebbero
dovuto essere impartite anche sulla terra, sia sferzandolo, sia non recitando più i suoi poemi pubblicamente (IX, 1); fu comunque soprattutto Senofane ad affermare che, descrivendo azioni negative degli dèi,
Omero si rese involontariamente complice di aver proposto un sistema
di valori negativi, e di non aver condotto pertanto gli uomini alla vera
areté237.
Al di là della incomprensione di questi grandi filosofi dell’elemento
catartico presente nei poemi omerici (non è possibile pensare il positivo senza nemmeno rappresentare il negativo), può dal nostro punto
Diogene Laerzio, IX, 18. Gli episodi presi in esame sono non a caso gli stessi considerati da Platone, ovvero, nell’Iliade, le violenze reciproche di Zeus e Crono (XIV, 203 ss.),
la congiura degli dèi per esautorare Zeus (I, 399 ss.), e la punizione inflitta da Zeus ad
Efesto (I, 590 ss.).
237
103
iL Pensiero omerico
di vista essere interessante valutare se comunque Pitagora, Eraclito,
Senofane e Platone abbiano avuto ragione, ovvero se realmente la attribuzione omerica di cattive azioni agli dèi abbia involontariamente
provocato un decadimento morale, oppure se con quelle medesime descrizioni Omero abbia invece messo in guardia proprio contro un decadimento morale potenzialmente insito nelle modalità storico-sociali
presenti anche nella sua epoca. Ora: se decadimento morale vi è stato,
in Grecia, esso non è stato causato dalla diffusione dei poemi omerici,
bensì dalla successiva diffusione di una mentalità egoistica e filocrematistica (dunque antiumanistica), contro cui anzi i poemi omerici misero
anticipatamente in guardia; nell’attribuire dunque agli dèi azioni che
anche presso gli uomini erano motivo di vergogna e di biasimo, Omero
non favorì – né volontariamente, né involontariamente – la diffusione
del male, bensì cercò di arrestarla, ponendo innanzi al giudizio di tutti
gli effetti negativi dei comportamenti malvagi, dai quali anche i migliori degli uomini (in metafora, gli dèi) potevano essere tentati, ma che
dovevano evitare. Questa modalità espositiva “dialettica” sarà ripresa
anche dai dialoghi platonici.
Aristotele – che nella Poetica comprese la funzione purificatrice dei
miti omerici “negativi” –, si rivelò a nostro avviso, nei confronti della poesia e della tragedia, critico molto più acuto di Platone, il quale
raccomandò vivamente, nella propria paideia artistica, di rimuovere le
azoni negative compiute dagli dèi perché solo pochi uomini avrebbero
saputo elaborarle dialetticamente, interiorizzandone la funzione catartica; la maggioranza degli uomini – per Platone – avrebbe potuto recepire solo, nei poemi, dei modelli virtuosi, ispiratori di buoni comportamenti. La preoccupazione educativa platonica viene oggi considerata
“totalitaria”, in quanto connessa alla deprecabile questione della censura; se ci caliamo però all’interno del contesto storico-sociale della Grecia
antica (omerica e platonica), comprenderemo come la preoccupazione
fosse pienamente giustificata: in una società priva di mass media, ed
in cui la funzione pubblica dell’educazione era ancora sostanzialmente
lasciata all’iniziativa dei singoli, i miti ed i racconti che venivano recitati pubblicamente (con il suadente accompagnamento della musica,
peraltro, che ne favoriva l’ingresso nell’animo) svolgevano davvero
una centrale funzione etico-politica, specie per i giovani, che sono i più
facilmente influenzabili. Su questo punto, però, riteniamo che Platone
avesse ragione, e che fosse dunque giustificato il suo scetticismo nei
confronti della cosiddetta hyponoia, ovvero della interpretazione tesa a
104
Omero educatore
rintracciare il “senso riposto” – che più tardi sarà designato come “allegoria” – nei poemi omerici (pensiamo ad esempio alla interpretazione
di Teagene di Reggio, di cui ci dà notizia Porfirio nelle Questioni omeriche)238. Il contenuto del messaggio di Platone è sicuramente valido, e
dovrebbe essere tenuto maggiormente in considerazione, nella attuale
“società dello spettacolo”; va però ricordato che, senza modelli negativi catartici, la poesia, che ha modalità particolari di presa sull’animo
umano, avrebbe difficilmente potuto esprimere tutta la propria forza
educativa.
Platone, per ben strutturare l’educazione dei giovani, richiese che
i miti poetici fossero «i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori
alla virtù» (Repubblica, 378 E)239, ed indicò in questo senso, anche nelle
Leggi (811 C ss.), due contenuti come imprescindibili. Il primo contenuto fu quello per cui la divinità, essendo buona, può essere descritta solo
come causa del bene: le concezioni che qui Platone combatté furono
non solo quelle che descrivono comportamenti malvagi degli dèi, ma
anche quelle che descrivono assegnazioni di beni e mali agli uomini
in modo casuale, ossia indipendentemente dalla condotta tenuta. Qui
Platone ribadì la centralità dell’etica umana rispetto ad un imperscrutabile fato passivizzante; tale concezione però, come rimarcato, fu già
esposta da Omero nell’Odissea (I, 32 ss.), e da lui verosimilmente condivisa. Il secondo contenuto fu quello per cui la divinità, essendo stabile,
non può essere descritta come mutante carattere secondo le situazioni,
come invece spesso accade nei poemi omerici (ad esempio Odissea, IV,
417 ss.; Iliade, XXIV, 226 ss.). L’unione di questi due contenuti (bontà e
stabilità) mostra chiaramente l’intenzione di Platone: proporre gli dèi
solo come modelli positivi, buoni e stabili, così come devono essere gli
238
Da notare che alcuni interpreti hanno colto nella Repubblica e nello Ione un riferimento
polemico ad Antistene, il quale aveva utilizzato personaggi della poesia omerica come
modelli di vizi e virtù; a nostro avviso, però, più che la “modellizzazione”, la critica platonica riguardava il fatto che Antistene cercava di rendere Omero compatibile con la sua
dottrina etica, fortemente avversata da Platone (il che, implicitamente, avvicina ancora le
dottrine di Omero e Platone).
239
Come ha giustamente sostenuto M. Vegetti, «la fantasia poetico-mitica non si contrappone alla verità teorica, né rappresenta un’evasione dalla realtà storico-politica. Al contrario, come il linguaggio platonico indica chiaramente, essa è immediatamente produttiva di una realtà viva e tangibile, nel discorso e nel pensiero. Una volta costituita, questa
realtà poetico-mitica divenne efficace anche nell’orientare la condotta etico-politica, al
modo di un paradigma (Repubblica, V, 472 C)» (in M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica,
op. cit., vol. II, pag. 23).
105
iL Pensiero omerico
uomini, i quali non devono cadere vittime né di istintive passioni, né
di nichilistica arrendevolezza. La “moralizzazione” dei miti avvicinava
per Platone alla verità, da lui concepita, almeno implicitamente, come
razionale e buona conduzione della vita umana, individuale e sociale;
una concezione che ben difficilmente, in base a quanto abbiamo in precedenza argomentato, potremmo negare essere implicitamente presente anche in Omero240.
Platone criticò inoltre Omero in quanto a suo avviso, quando descrisse l’Ade come un luogo orrendo e spaventevole (ad esempio
Odissea, XI, 489 ss.), oppure quando descrisse gli eroi piangere il loro
destino di morte o quello dei compagni più cari (ad esempio Iliade, II,
363 ss.; XVI, 857 ss.), sfavorì quel comportamento coraggioso e misurato di sopportazione del limite che invece deve essere proprio di tutti
gli uomini. Pure su questo punto, in ogni caso, è necessario precisare
bene: anche Omero, infatti, ritenne che un comportamento coraggioso e
misurato fosse necessario proprio per la sopportazione della sofferenza
e della morte; non solo, egli ritenne che una “bella morte”, ovvero una
morte utile alla comunità sociale, fosse qualcosa di importante, qualora
le circostanze lo richiedessero. Omero tenne comunque fermo il presupposto della condizione mortale dell’uomo, e dunque della assenza
di “vera vita” dell’uomo dopo la morte; Platone, seguendo influenze
orfiche e pitagoriche (e per questo apprezzato, successivamente, dai
cristiani), tese invece ad affermare che esiste una vita dopo la morte, la
cui bellezza sarà proporzionata alla bontà dei comportamenti tenuti in
terra. Pur con modalità e strutture descrittive differenti, il fine di Omero
e Platone (favorire comportamenti etici degli uomini) fu comunque, anche nella trattazione del tema del limite e della morte, coincidente. Sia
Platone che Omero tentarono infatti di «far bastare la virtù a se stessa»,
ossia di rafforzare l’uomo facendogli bastare la felicità conseguente dai
propri buoni comportamenti241.
Fra la morale omerica e quella platonica vi furono comunque anche contenuti effettivamente inconciliabili, come ad esempio la condanna platonica dell’antadikein (ingiustizia ritorsiva) e dell’amynesthai (violenza difensiva con cui si reagisce all’aggressione). Su
questi temi si è espresso in particolare il giusgrecista U. E. Paoli, Studi sul processo attico,
Cedam, Padova, 1993, pagg. 188-203.
241
Come ha scritto correttamente Aristotele, il filosofo poteva anche fare a meno degli
onori, ma non l’eroe del mondo omerico, in cui il riconoscimento sociale – basato sul merito – era necessario. Molto significativa, a tal proposito, la risposta fornita da Achille pregato, da Odisseo e da altri, di tornare in battaglia: «Agamennone non mi persuaderà mai,
né credo alcun altro dei Greci, poiché qui evidentemente non c’è nessun pubblico rico240
106
Omero educatore
La critica di Platone, ossia della filosofia, alla poesia fu anche, e forse soprattutto, la critica a tutta una serie di comportamenti eccessivi e
scomposti, nel dolore come nella gioia, che ne caratterizzava le rappresentazioni; la poesia infatti, nel momento in cui non era guidata dalla
ragione e dalla morale (mentre la filosofia, la vera filosofia, lo era sempre), dava luogo proprio a questo genere di comportamenti. Platone
deprecava infatti – in quanto l’anima dei giovani si abbandona spesso
alla imitazione – tutte quelle opere in cui i personaggi erano rappresentati mediante scene eccessive di riso o di pianto, preda di allegria
smodata o di affranta disperazione; anime siffatte sono in effetti fragili,
non stabilmente ed armonicamente rivolte alla verità ed al bene, e non
sono pertanto modelli positivi, né per i giovani né per alcuno. Qui è
indubbio che ad essere oggetto di critica sia ancora una volta Omero
con le sue descrizioni, ad esempio, della scomposta angoscia di Achille
per la morte di Patroclo nell’Iliade, o dei frequenti pianti di Odisseo per
il mancato ritorno nell’Odissea; perfino gli dèi, in Omero, sono spesso
colti in atteggiamenti poco equilibrati, come quando sono sorpresi beffeggiare con grandi risa, per la propria deformità, Efesto: un comportamento massimamente diseducativo e sconveniente. Ancora una volta,
però, occorre chiedersi se rappresentando queste scene, e mostrandole
nella loro deprecabilità, Omero non volesse effettivamente ottenere il
medesimo scopo educativo di Platone, ovvero una condanna etica di
queste azioni; ciò è compatibile con l’insegnamento etico complessivo
che emerge nei poemi omerici, per cui si tratta di una tesi che può essere sostenuta, e che di incerto mantiene solo l’efficacia paideutica (la
questione platonica, insomma, se sia o meno conveniente, dato il fine
della educazione umanistica, rappresentare anche modelli negativi).
Platone criticò poi Omero per aver rappresentato frequentemente
casi di insubordinazione, in cui il buon ordine politico veniva messo a dura prova (il caso più emblematico è la dura critica di Achille
ad Agamennone, nonché, sempre nell’Iliade, il già citato episodio di
Tersite); tuttavia, considerando le critiche che Platone rivolse ai governanti del proprio tempo, nonché la stessa struttura della dialettica
platonica, ci pare che si debba dare poco peso a questi episodi, mentre
si dovrebbe dare peso maggiore alla critica della rappresentazione di
comportamenti sregolati, come eccessi alimentari e sessuali, attribuiti
noscimento per un uomo che combatte implacabilmente il nemico» (Iliade, I, 315-322). Da
rimarcare in merito che anche gli dèi omerici esigono onore, e godono delle lodi ricevute.
107
iL Pensiero omerico
talvolta agli stessi dèi (ad esempio Iliade, XIV, 294 ss.). Anche in questo
caso, tuttavia, bisogna ancora una volta rimarcare che Omero descrisse
(peraltro raramente) tali comportamenti in modo biasimevole, e dunque tale da allontanare i giovani dai medesimi (giovani che semmai
potevano essere attirati ad essi da più generali modalità sociali filocrematistiche).
Platone attaccò in effetti duramente soprattutto la brama di denaro
e di ricchezza di alcuni eroi omerici, come ad esempio Agamennone
ed Achille, che Omero raffigurò spesso come manifestamente venali.
Tuttavia, in merito, la critica di Platone fu appunto la stessa di Omero,
che criticò esplicitamente di philochrematìa Agamennone per bocca di
Achille, e criticò implicitamente la philochrematìa di Achille ponendogli innanzi il più nobile modello di Ettore242. Anche qui, Platone se la
prese con Omero per aver “rovinato” l’eroe Achille, rappresentandolo
avido, violento, smodato, e propose di emendare tutti i brani dell’Iliade
in cui si effettuarono queste rappresentazioni; tuttavia, è impossibile
non chiedersi cosa sarebbe rimasto dei poemi omerici se fossero state
attuate tutte le emendazioni proposte da Platone. Sarebbe rimasto ben
poco, tanto che verosimilmente nemmeno le virtù morali così elogiate
da Platone avrebbero potuto elevarsi per contrasto; ciò conferma indirettamente la consapevolezza della contestuale presenza di modelli negativi e positivi nella poesia omerica, come necessaria per una corretta
“dialettica morale” volta a combattere, tramite il monito, ogni smodata
ricerca di eccessi ed a favorire, tramite il consenso, ogni positiva ricerca
di vera umanità.
Platone, dunque, avrebbe voluto che i poemi avessero rappresentato solo personaggi eticamente perfetti, in modo che i giovani, caratterizzati come detto dalla tendenza ad imitare, avessero acquisito solo
quei comportamenti. Le maggiori critiche platoniche contro i modelli
etici negativi nella poesia non riguardarono comunque, come emerge
chiaramente da una intelligente lettura dei dialoghi, i poemi omerici;
Platone se la prese infatti soprattutto con i protagonisti della letteratura
a lui contemporanea (V e IV secolo), in cui tali modelli negativi, lungi
dall’essere valutati criticamente come in Omero, assursero a pregiati
protagonisti con l’ampio favore della critica. Presi di mira in particolare
242
Su questi temi E. E. Sikes, The Greek View of Poetry, London, 1931, pagg. 64 ss. Come
mostreremo meglio in seguito, non concordiamo, in merito, con S. Gastaldi, secondo cui,
nell’Iliade, Achille sarebbe «l’eroe per eccellenza, il depositario di tutte le virtù più apprezzate» (in M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 361).
108
Omero educatore
furono il teatro euripideo ed i ditirambi di Timoteo; le figure più screditate furono però soprattutto i personaggi della commedia, che intrattenevano il pubblico (ed ahimè lo plasmavano) con battute volgari, e
spesso anche con l’imitazione dei versi degli animali.
Valutando tutto ciò, come già ricordato, si comprende facilmente
come l’uomo metrios, amante della misura, costituisse il modello educativo sia in Omero, sia in Platone; ha scritto correttamente, in merito,
S. Gastaldi che con Platone «la multiformità sregolata dei gesti e dei
discorsi lascia il posto ad un parlare e ad un agire contrassegnati dalla
misura, dall’autocontrollo, dalla fedeltà al proprio modo di essere [...] Il
modello letterario più vicino a questo paradigma di correttezza, in cui
l’elemento imitativo appare ridotto rispetto all’asse portante della narrazione oggettiva, è rappresentato dai poemi omerici, raccomandabili
del resto per il loro carattere di serietà, e per l’assenza di personaggi
riconducibili alla categoria dei phauloi»243.
Come Platone, anche Omero ritenne infatti non giovevoli, sul piano
etico, modelli poetici la cui funzione principale sarebbe stata quella di
incantare producendo in modo smodato piacere e dolore, ossia suscitando insane passioni; per ambedue realmente giovevoli furono solo i
modelli positivi, volti appunto a favorire, con il loro esempio, rapporti
solidali fra gli uomini, finalizzati alla conservazione dell’armonia della
comunità. La dura censura platonica nei confronti di larga parte della
produzione poetica a lui contemporanea (la cosiddetta “teatrocrazia”)
sarebbe stata dunque forse condivisa dallo stesso Omero; l’imputato
principale della critica platonica fu infatti la “licenziosità”, l’arbitrio insito nel “fare ciò che si vuole”, che anche Omero giudicò in modo molto
negativo. La critica filosofica alla poesia fu in sostanza, per Platone,
una appendice della sua critica politica alla crematistica, che Omero,
come già ricordato, avrebbe indubbiamente condiviso; anche Omero
infatti, come Platone (Leggi, 700 A ss.), avrebbe ritenuto come massimo
male una società in cui il soddisfacimento dei piaceri e l’interesse individuale hanno la netta prevalenza sulla realizzazione del bene comune
e sull’interesse collettivo.
Omero dunque, che nel libro X della Repubblica (606 E ss.) Platone
ritenne essere utile soprattutto come fornitore di conoscenze militari244,
243
In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pagg. 369-370. I phauloi,
termine reso celebre dalla Poetica di Aristotele, erano i personaggi tipici della commedia.
244
In questo senso anche l’accusa rivoltagli da Aristofane nelle Rane (1034-1036).
109
iL Pensiero omerico
se ben interpretato torna anche in Platone a svolgere il ruolo di depositario di conoscenze, di repertorio inesauribile di insegnamenti che gli
fu sempre riconosciuto da tutti. Questa coerente valutazione riecheggia
del resto più volte nei dialoghi platonici, come nel Liside (213 E) e soprattutto nello Ione (531 B), in cui si passano in rassegna tutti gli argomenti di cui Omero parla, che non sono costituiti appunto solo dalle
tecniche belliche, ma soprattutto dal rapporto degli uomini fra loro e
con gli dèi, fino a giungere all’astronomia ed al mondo dell’Ade. Come
ha sottolineato correttamente ancora S. Gastaldi, che pure non esplicita
la continuità culturale fra Omero e Platone, «la crisi della paideia e della
città sembra davvero risolversi, nella Repubblica, tramite un potente lavoro di rifondazione certamente attinto ai modelli del passato, al recupero, sebbene in chiave critica, di una cultura che era stata espressione
di valori collettivi, dell’ethos di una comunità». La Repubblica si delinea
dunque anch’essa «come una operazione di retroguardia, tesa ad esorcizzare i mutamenti oramai da tempo in atto, avvertiti come segno di
disgregazione politico-sociale e di decadenza»245, recuperando anche
nell’etica umanistica omerica molti contenuti del proprio modello educativo.
245
In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica, op. cit., vol. II, pag. 392.
110
tra etica e PoLitica
Cominciamo questo ultimo paragrafo di questo lungo primo capitolo con una osservazione, al contempo particolare e generale; particolare perché riguarda il nostro modo di rapportarci al pensiero greco,
generale in quanto possiede una validità che va oltre la sua genesi. Sin
da quando abbiamo iniziato ad occuparci di filosofia, abbiamo infatti
cercato di farlo in modo sensato; in modo, cioè, che quanto scrivevamo
potesse in qualche modo essere utile. Col passare degli anni il pessimismo, in merito, si è fatto sempre più forte; il modo di produzione capitalistico è realmente una «gabbia d’acciaio» che marginalizza, sebbene
in maniera sofisticata, ogni messaggio incompatibile con esso. Tuttavia,
consapevoli di consegnare, nella migliore delle ipotesi, un messaggio al
futuro, abbiamo sempre ritenuto necessario “intercettare” le principali
istanze umanistiche presenti nel nostro tempo, per cercare di dare alle
stesse la maggiore efficacia.
Il fatto, dunque, che tuttora stiamo scrivendo su Omero – e che negli
ultimi anni abbiamo scritto su quello che alcuni amici hanno simpaticamente definito come una sorta di “pan-umanesimo” – accantonando
testi potenzialmente più importanti che da anni annunciamo, non deve
essere visto come un arretramento; la metafisica e la politica nelle loro
forme classiche ci pare infatti, per vari motivi, che non facciano più
presa direttamente sui giovani, mentre invece ancora fanno presa le tematiche etiche246. Ebbene: Omero, come si è qui lungamente tentato di
mostrare, nonostante sia escluso dai manuali di filosofia morale, rappresenta sicuramente il primo grande problematizzatore di tematiche
etiche della storia occidentale; nei suoi poemi pulsano la vita, la morte,
la passione, il coraggio, la giustizia, la sofferenza, il ricordo, e molto
altro ancora: tutte cose che, almeno in chi conserva una dimensione
ideale (oggi, ahimè, presente quasi solo nei giovani, e nemmeno nella
maggioranza di essi), hanno un interesse preminente rispetto alla filosofia ed alla politica, cui verosimilmente si arriva dopo, quasi “trainati”
Si tratta di una impressione propria anche di Carmelo Vigna (C. Vigna - L. Grecchi,
Sulla verità e sul bene, op. cit.).
246
111
iL Pensiero omerico
dalle tematiche etiche alla ricerca di fondamenti più solidi (la filosofia)
e di risposte più universali (la politica).
Certo, non ci illudiamo di avere trovato una “bacchetta magica”,
ossia una porta di accesso per condurre all’interesse verso la filosofia e
la politica nelle loro forme classiche (le più autenticamente rivoluzionarie). Sappiamo bene che, al solo sentir parlare di etica, molti giovani,
ed in generale molte persone, associano – con riflesso di origine nietzscheana – la tesi per cui chiunque affermi di sapere cosa è il bene e cosa
è il male, è sicuramente totalitario. Anni di frequentazione con filosofi
contemporanei e con giovani studiosi ci hanno assolutamente convinto
che questa è la tesi maggioritaria; essa, del resto, è la tesi più funzionale
al modo di produzione sociale dominante, che senza una solida fondazione onto-assiologica si autoesenta da ogni giudizio, accusando gli
eventuali critici di “moralismo” e di “puritanesimo”. Pur sapendo tutto
questo, riteniamo che l’etica omerica costituisca – all’interno del pensiero antico – il modo più degno, ed allo stesso tempo forse più fecondo,
per “catturare” l’interesse di molti giovani non filosofi conducendolo
poi, tramite essa, verso la filosofia e la politica; se non avremo svolto
bene, in questo libro, questa operazione, speriamo che altri, dopo di
noi, tengano conto di queste nostre parole e la svolgano meglio: della sua correttezza, però, siamo fortemente convinti. Entriamo in ogni
caso, dopo questa digressione, in medias res.
Abbiamo già descritto la portata etica ed educativa dell’opera omerica. In questo paragrafo cercheremo invece di evidenziare gli spunti
politici della stessa, cominciando col rimarcare che, per la già argomentata continuità fra contenuti omerici e classici, anche nell’opera di
Omero vi è un riferimento, per quanto indiretto, ad una «natura umana» da realizzare: una natura che si declina in maniera profondamente
diversa nei singoli personaggi, ma che è comunque comune nella sua
essenza razionale e morale. Ci pare che ciò sia stato colto – sebbene forse non con piena consapevolezza delle conseguenze – da A. M. Storoni
Piazza, per la quale «secondo Omero i criteri di opportunità, di equità,
di misura ai quali ci si deve ispirare sono in tutto e per tutto naturali
[...]. Esiste un modo naturale di vivere gli affetti, le amicizie, i rapporti
sociali, un modo naturale di essere fragili ed esposti all’errore [...]: la
cultura ha la pretesa di conformarsi alla natura»247; secondo Omero, in
particolare, «per l’essere umano è naturale vivere secondo l’ordine ci247
A. M. Storoni Piazza, Ascoltando Omero, op. cit., pag. 65.
112
Tra etica e politica
vile, sottoporsi alle norme di convivenza volute da Zeus: proteggere
i deboli [...], rispettare i vecchi, amare le donne, educare i figli, offrire
ospitalità agli stranieri. La società che si attiene a questo criterio di giustizia naturale è prospera, ordinata, armoniosa»248.
Questa descrizione è corretta, ed apre compiutamente il campo al
discorso politico implicitamente contenuto nell’umanesimo omerico. A
chi ritiene che parlare di “discorso politico” in Omero sia eccessivo,
pensiamo possa essere utile ricordare l’incisione, realizzata da Efesto
sullo scudo di Achille, descritta nel canto XVIII dell’Iliade (487 ss.). Qui,
come noto, è rappresentata una città ordinata riunita a consiglio per
risolvere un problema fra due cittadini; gli anziani si alzano a turno,
raggiungendo il centro dell’assemblea, ed espongono, pacatamente, il
proprio parere: l’assemblea è lo spazio della libera parola messa in mezzo249. Si tratta di una immagine di pubblica civile difesa dei diritti di
ciascuno, di comune ricerca della verità, e di armonica partecipazione
alla giustizia: l’opposto della società violenta dei Ciclopi, la quale costituisce l’anti-modello della comunità politica.
Queste arcaiche assemblee politiche riguardavano solitamente la
difesa di interessi comuni, tanto che quando qualcuno portava l’attenzione su temi privati, se ne scusava pubblicamente (Odissea, II, 42; III,
82). Si tratta di un anticipo, come già ricordato, se non proprio di democrazia, quanto meno di condivisione comunitaria dei problemi e delle
soluzioni, tanto che nel Cratilo (391 D) Platone affermò che, su queste
questioni, «da Omero bisogna imparare». Come ha rilevato ancora A.
M. Storoni Piazza, rimarcando che le parole utilizzate da Omero per
parlare di verità (aletheia, eté, atrekeia, neménteia, saphèstata) rinviavano
non a singole cose ma a proposizioni, in Omero «dire il vero significa
mettere l’altro a parte di quanto si conosce, svelare, confidarsi, stabilire
una complicità [...], un atto che compromette chi lo compie, non una
asettica corrispondenza tra parole e fatti [...], o tra parole e regole»250;
non questione di logica, dunque, ma di umanità. Per questo Odisseo,
come poi sarà mostrato, non poteva essere nel poema omerico un uomo
falso e bugiardo, bensì saggio e prudente; ciò evidenzia come non solo
Ibidem, pag. 66.
Anche nel IX canto dell’Iliade, quando Agamennone deve riconciliarsi con Achille,
Odisseo gli consiglia di portare i doni in mezzo alla piazza, affinché egli venga a prenderseli davanti a tutti; così come, «in piedi in mezzo agli Achei», egli deve giurare di non
essersi mai unito a Briseide.
250
A. M. Storoni Piazza, Ascoltando Omero, op. cit., pag. 109.
248
249
113
iL Pensiero omerico
la dimensione quotidiana del presente, ma anche quella progettuale del
futuro iniziassero ad assumere in Omero quella rilevanza, squisitamente politica, che costituì poi l’asse portante del pensiero greco. Si tratta di
un punto molto importante da rilevare, in quanto si è soliti pensare che,
per l’onnipotenza del fato e degli dèi, l’uomo omerico sia stato sostanzialmente impotente quanto alla progettazione della propria vita futura, individuale e soprattutto sociale. Il passato rivestì certo una rilevanza forte nel pensiero omerico, racchiudendo le origini della comunità
e la memoria collettiva; tuttavia, per quanto si è qui sostenuto, l’uomo
omerico possiede una capacità di determinare la propria esistenza molto maggiore rispetto a quella che gli fu generalmente attribuita.
Ammesso dunque che l’uomo omerico poteva aspirare ad una progettualità sulla propria vita e su quella della sua comunità, è interessante ricercare in quale direzione egli ha sviluppato tale progettualità; ebbene, la direzione, in base a quanto finora argomentato, fu sicuramente
quella della lotta alla hybris dei sovrani e dei ricchi, in favore di una più
armonica condivisione comunitaria dei beni. Si tratta di un tema “civico” che si espliciterà poi compiutamente in Esiodo, in cui è davvero
forte la critica ai «giudici divoratori di doni», ovvero alla avidità dei
potenti. Ci pare su questo punto concorde B. Snell, per il quale «il fatto
che le decisioni possano trasformare la vita sociale presuppone che ci si
contrapponga liberamente alla tradizione, e che dietro gli ordinamenti
convenzionali si scorgano i principi spirituali che danno un senso alla
convivenza. In questa direzione la strada fu aperta dai Greci, e vi contribuirono non poco i poeti. I poemi omerici mostrano – evidentemente
già come risultato di un lungo sforzo interpretativo – la convivenza
umana retta da un ordine sensato»251.
Il carattere “politico” dell’umanesimo omerico consisteva, nella sostanza, nel mostrare come l’uomo era e come doveva essere; partendo
dall’uomo, si poteva infatti evincere anche come la società era e come
doveva essere. In Omero, certo, non appare ancora l’Uomo scritto con
la maiuscola, ovvero inteso come universale; tuttavia, proprio per la
idealità ed insieme per la concretezza della sua descrizione di una compiuta umanità, non si può non rilevare come comunque, in Omero,
B. Snell, Poesia e società, op. cit., pag. 12. Ed ancora: «I poeti greci, da Omero ai lirici ai
tragici e fino ai poeti ellenistici, hanno [...] gradualmente portato alla luce e reso cosciente
la [...] interiorità connettiva dello spirito» (pag. 25).
251
114
Tra etica e politica
venga a crearsi un concetto di uomo che funge da «modello ideale di
rivendicazione dei diritti della natura umana»252.
Iliade ed Odissea sembrano, ad un osservatore non attento, resistere
alle idealizzazioni di tipo umanistico; come ha sostenuto L. E. Rossi,
nell’Iliade «Omero non offre tentazioni a chi voglia un modello a cui
identificarsi: i suoi dèi sono gli uomini pieni di difetti [...], i suoi eroi
sono al di sopra del livello umano [...], la civiltà che viene rappresentata nei poemi ha tutte le caratteristiche di una acerba primitività [...].
Disagevole quindi l’annessione di Omero alla provincia umanistica»253.
Tuttavia, leggendo in profondità i poemi, si comprenderà che l’umanesimo si realizza anche per contrasto, sicché le conclusioni di Rossi
dovrebbero a nostro avviso essere rovesciate, proprio per tener conto
della profondità dialettica dei personaggi omerici. Nel mondo omerico
l’individuo non era separato dal resto della società; fra i suoi pensieri e la realtà c’era poca distanza, sicché il poeta non si gettava, come
spesso accade oggi, in fantasie assurde, né si ritirava nel privato per
trovare concentrazione (se non per lo stretto necessario). Mostri e simboli magici furono lontani dal repertorio omerico, così come la morbosa
attenzione contemporanea ai rapporti amorosi, di cui per pudore egli
taceva proprio in quanto si trattava di sentimenti intimi, riservati (il
contrario, ancora, di quanto accade oggi). Come ha scritto correttamente F. Codino, «solo una società di liberi e di uguali può ispirare una poesia epica, per così dire, pura ed autentica [...]. Questa società esisteva
appunto quando sorsero i poemi omerici»254; o, per lo meno, esisteva
la base “politica” affinché questa società potesse nascere, come poi in
effetti è stato, nella Grecia classica.
Utilizziamo qui un virgolettato presente in un libro di C. Preve di prossima pubblicazione, Lettera sull’umanesimo, in cui un intero capitolo è dedicato al nostro discorso.
253
In AA.VV., Storia e civiltà dei greci, op. cit., vol. I, pag. 74.
254
Ibidem, pag. 156.
252
115
Parte Seconda
I miti omerici
educazione e mito
Come abbiamo argomentato nel primo capitolo, il tema principale
dei poemi omerici, sul piano etico-educativo (che ne è, a sua volta, il
tema principale), fu il fornire indicazioni morali non tanto tramite la
argomentazione, quanto soprattutto tramite modelli255; ciò è stato sottolineato da diversi interpreti, fra cui R. Caut e G. Scarpat, per i quali
«l’essenza dell’epos omerico» fu quella di costituire «paradigmi di virtù»256. Come noto, questo modo di procedere etico-educativo non fu
proprio solo dei poemi omerici, ma di molte altre opere della cultura
antica257; rimarca infatti M. Durante che «l’eroe protagonista di imprese
gloriose è una istituzione letteraria diffusa nelle più diverse parti del
mondo, e si sa bene che essa implica un substrato più o meno remoto di
eventi storici [...] idealizzato in funzione di una gerarchia di valori etici»258. La stessa tesi è stata sostenuta da un altro intelligente interprete
del pensiero omerico, M. Zambarbieri; ponendo l’accento sui caratteri
soggettivi degli eroi omerici, egli ha infatti rimarcato che «i personaggi
di Omero non sono figure tipiche, ma individualità inconfondibili, scolpite a tutto tondo nei loro sentimenti, senza nessuna indulgenza verso
la ritrattistica [...]. I personaggi dell’Iliade sono creazioni morali»259.
Nonostante la sostanziale correttezza di queste interpretazioni, occorre rimarcare come esse siano sempre state piuttosto isolate nelle riprese moderne, e soprattutto contemporanee, di Omero. I motivi sono
già stati ricordati in precedenza: il fatto che oggi gli studiosi di cose
omeriche siano principalmente eruditi filologi accademici, oppure – nei
casi migliori – pensatori cattolici (portati a svalutare l’idea di «persona»
Come ha scritto correttamente G. Murray, «gli esseri umani, in Omero, mantengono
sempre la dignità ed il rispetto di se stessi» (G. Murray, Le origini…, op. cit., pag. 341).
256
R. Caut – G. Scarpat, Breve…, op. cit., pag. 10.
257
Come ha scritto anche W. Jaeger, «per l’età più antica [...] non esiste per la condotta
individuale un punto di orientamento più efficace dell’esempio» (W. Jaeger, Paideia, op.
cit., pag. 80).
258
M. Durante, Sulla preistoria…, op. cit., vol. I, pag. 121.
259
M. Zambarbieri, L’Iliade com’è, op. cit., vol. II, pagg. 1004-1005.
255
119
i miti omerici
nei poemi omerici), liberal-marxisti (portati a sopravvalutare l’idea di
«conflitto»), oppure pensatori simbolici (interessati principalmente ai
miti ed alla loro funzione poetica), non ha certo contribuito a porre in
primo piano i contenuti etico-educativi dell’Iliade e dell’Odissea. I poemi omerici sono infatti stati considerati, da questi studiosi, soprattutto
come “enciclopedie” di tipo storico, letterario, culturale, e quasi mai
come opere cariche di contenuti di valore anche filosofico260; ed invece certi modelli umanistici, certe strutture etiche, si pongono ancora
immutate nel loro valore, un po’ come Odisseo e Penelope che – dopo
l’uccisione dei Proci – si ritrovarono pressoché uguali a molti anni di
distanza. Si dimentica spesso di rilevare che, tramite i suoi miti, Omero
produsse e trasmise in pubblico un patrimonio di saggezza tramandato da secoli, che gli uomini dovevano imparare, custodire e mettere
in pratica se volevano almeno conservare quel determinato livello di
civiltà. Oggi, che per certi aspetti la civiltà è un po’ tornata ad essere
“orale” (solo nel senso che, grazie alla televisione, le persone leggono
molto meno e chiacchierano di più), sono ben altri i personaggi presi
come riferimento etico dalla nostra cultura; non è un caso che la stessa
conservazione di un livello minimo di civiltà stia progressivamente venendo meno. Platone fu il primo, in questo senso, ad evidenziare che la
funzione sociale dell’epos omerico fu la trasmissione di una cultura alta.
Siamo spesso portati a pensare, da una tradizione plurisecolare (ripresa peraltro dalla produzione cinematografica contemporanea), agli
eroi omerici soprattutto come ad eroi guerrieri, figure eccezionali dotate di forza e coraggio sovrumani; indubbiamente, la figura di Achille
in particolare ci fa pensare a questo, ad un muscoloso eroe con la spada sguainata pronto a lanciarsi senza timore contro ogni avversario.
Eppure, Achille aveva anche tutte le caratteristiche dei mortali, ovvero
si adirava, piangeva, cantava, ed in generale faceva le cose che fanno
tutte le persone normali. Sembra una banalità, ma esaminando bene il
campo dei personaggi omerici, e prendendone Odisseo come esempio
paradigmatico, ci accorgeremo facilmente che, contrariamente al mito
dell’eroismo guerresco, i famosi eroi omerici risultano in realtà essere
caratterizzati da un elevato grado di “normalità” e di “costanza etica”
260
Come ha scritto infatti W. Jaeger, «l’Odissea è un’opera di un’epoca il cui pensiero era
già in alto grado razionalmente e sistematicamente ordinato [...] In Omero si trovano
spunti di una interpretazione filosofica dei singoli miti» (W. Jaeger, Paideia, op. cit., pagg.
114; 136). Di parere opposto G. Colli (La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975, pag.
46).
120
Educazione e mito
nella vita quotidiana (una qualità che oggi sembra “anormale” solo in
quanto la quotidianità l’ha smarrita). Ciò è stato ben colto, fra gli altri, da R. Beye, secondo cui «l’eroe greco è normale, ed anche quando
si spinge agli estremi, sono gli estremi del comportamento normale.
La associazione dell’eroismo alla anormalità in Faust o nel capitano
Achab, luogo comune della tradizione occidentale [...], è estranea alla
mentalità greca, che celebra continuamente il tipico»261, purché questo
tipico sia dotato di valore morale; quando, invece, la poesia greca menziona l’atipico, ossia il mostruoso (come capita appunto, nell’Odissea,
con le figure dei Ciclopi o dei Lestrigoni), ciò accade proprio per mostrarne la esemplarità morale negativa. Tesi simili sono state esposte
anche da M. Pohlenz, il quale, con riferimento alla ripresa moderna del
termine “eroismo” riferito ai Greci, ha tenuto appunto a precisare che
«i Greci, finché la loro lingua non fu guastata dalla retorica, non amavano le parole roboanti. Non parlavano di eroismo e di morte eroica; del
guerriero caduto combattendo per la patria dicevano solo, in tutta semplicità: si è dimostrato uomo valoroso»262. Questa l’essenza etico-educativa
del messaggio omerico, tutta volta al perfezionamento morale dell’uomo all’interno di una condizione di normalità; una normalità, certo,
che la condizione della guerra, o del viaggio pericoloso, ci fa ritenere
poco «normale» rispetto a parametri consueti, ma che tale è appunto
sul piano etico.
Cerchiamo allora di entrare maggiormente nel merito dei «miti»
omerici, con una precisazione iniziale, inerente un breve excursus ermeneutico proprio sulla parola «mito». Nel primo capitolo si era mostrato che, nei poemi omerici, non è vero che gli dèi dirigono le azioni
degli uomini, a meno che appunto non si intendano gli dèi come «miti»,
nell’originario significato del termine. Ebbene: quale è questo originario
significato? Esso, come ha ben chiarito E. Severino, non è tanto quello di
«favola, racconto», quanto quello di «espressione di verità», «rivelazione del senso vero delle cose», addirittura «realtà»263. Dobbiamo dunque
disabituarci a pensare al «mito» come a qualcosa di “falso”, come pure,
almeno da Pindaro in poi, siamo abituati. Gli dèi greci erano «miti» in
quanto rappresentavano, in certo modo, la verità intesa come buona
C. R. Beye, Letteratura…, op. cit., vol. I, pag. 69.
M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 597.
263
E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1987, pag. 19.
261
262
121
i miti omerici
conduzione della vita264; in questi senso essi guidarono gli uomini, i
quali a loro volta, così guidati, furono “eroi” in quanto rappresentarono
la verità come buona conduzione (etica) della realtà. Per questo motivo
abbiamo lungamente argomentato, nel primo capitolo, la sostanziale
“sovrapponibilità” di dèi ed eroi nel mondo omerico: ambedue rappresentavano figure paradigmatiche, modelli ideali, esempi etici; addirittura, a riprova del grande umanesimo omerico, alcuni uomini risultavano maggiormente virtuosi degli dèi. Non è un caso che ancora oggi
ci rimangano impressi i comportamenti morali di Odisseo, di Diomede,
di Penelope265, mentre difficilmente prenderemmo come modelli le divinità omeriche, anche le maggiori, come Zeus e Poseidone.
Quando Omero descriveva i suoi mythoi egli aveva in mente l’originario significato di «verità, realtà», tanto che nella sua opera (Iliade, II,
164; 180; IV, 256; XXIV, 517) i mythoi non sono solo parole, ma soprattutto «parole di saggezza» (Odissea, III, 23), «parole che raccontano e
spiegano» (III, 84; 140), «parole ponderate» (VI, 511)266. J. P. Vernant ha
ben mostrato come in origine mythos non avesse un significato diverso
rispetto a logos, in quanto ambedue i termini esprimevano il dire razio264
Ricordiamo come Aristotele, nella Metafisica (1074 b1 ss.), sostenga proprio la “veridicità” dei miti, la maggioranza dei quali (certo non tutti) volti a favorire «la assolutezza
delle leggi e del bene comune».
265
Come ha correttamente sottolineato A. Magris, «i personaggi omerici [...] possiedono
un determinato impianto antropologico che si manifesta in abitudini e comportamenti, e
costituisce in senso lato il carattere dell’individuo o, come dicevano i Greci, il suo ethos»
(A. Magris, L’idea…, op. cit., pag. 162). In Omero, in ogni caso, non vanno analizzati solo
i singoli episodi e personaggi, quanto l’intreccio narrativo nel suo insieme: è questo del
resto il significato profondo del mito della filatura, di cui il poeta è il tessitore. È infatti
presente in Omero, come ricordato, quella esigenza “pre-filosofica” di arrivare ad una
comprensione unitaria degli eventi, di raggiungere quello sguardo complessivo sul tutto,
in cui soltanto i fatti e i personaggi assumono il loro vero significato.
266
La parola «mito» assume certo, nei poemi omerici, una pluralità di significati, che
spesso muta in relazione ai protagonisti che la pronunciano. «Mito» rimane comunque,
principalmente, la morale «detta ed ascoltata», foriera di buoni consigli ed azioni efficaci.
Diversamente, per noi moderni, «la funzione storica dei miti [...] è di rappresentare un
complesso di idee riunite intorno a una figura, a una vicenda, a un sistema di rapporti
interpersonali, che esprimono i valori essenziali in cui un gruppo storicamente qualificato si riconosce, e che hanno una funzione insostituibile per la sua permanenza e la sua
riproduzione nel tempo. I Greci hanno creato alcuni di questi miti, che sono stati capaci
di condensare i caratteri fondamentali della loro civiltà, riproducendo in modo straordinario a loro natura e la loro cultura» (V. Citti in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo. La
metafora infinita, Marsilio, Venezia, 2003, pag. 255).
122
Educazione e mito
nale, veritiero267; in Omero, logos inteso come «parola», «discorso», è
in effetti già presente, sia nell’Iliade (XV, 193) che nell’Odissea (I, 56-7),
come termine che esprime addirittura un dire meno solenne, meno veritiero rispetto a mythos268. Fu estranea dunque ad Omero, come ricordato anche nel primo capitolo, la tipica contrapposizione moderna fra
mythos e logos.
Dato che i grandi miti della poesia arcaica furono sempre, in vario
modo, «miti di fondazione», essi tesero a raccontare, sebbene in modo
simbolico, la verità profonda di importanti significati umani. Come ha
ricordato anche H. Gardner269, la mitologia greca creò, con le diverse
divinità, figure che rappresentavano, in modo simbolico, le diverse facoltà dell’animo umano: Atena rappresentava ad esempio l’intelligenza
sociale, che ricercava l’azione efficace rispetto ai fini (per questo aveva Odisseo come proprio protetto); Efesto rappresentava l’intelligenza
tecnica; Artemide, dea notturna e lunare, rappresentava la capacità di
comprensione delle emozioni nascoste; Apollo rappresentava la ricerca della armonia comunitaria; eccetera. La verità, infatti, è sempre una
espressione poliedrica, che deve essere illuminata dal suo fondamento,
ovvero dall’anima umana, la quale sa comprenderla nella sua totalità
e nella sua essenza solo se sa trascendere le contingenze storiche e culturali, per evidenziare ciò che è più necessario, appunto, ad una vita
sensata, fraterna e felice.
Gli studi di Mario Untersteiner, ma anche di altri autori, hanno evidenziato bene che vi è una esplicita linea di continuità fra mito e filosofia in rapporto alla ricerca della verità. Il mito esprimerebbe cioè
una sorta di atteggiamento originario di svelamento di verità nascoste,
provocato dall’esigenza di dare risposte ad alcuni interrogativi fondamentali, inerenti il rapporto degli uomini con la natura e soprattutto
con la morte. Nel mondo classico infatti il poeta, non meno del filosofo,
era cercatore di verità; il primo è colui che fa (poieo significa fare) la verità con le immagini, mentre il secondo è colui che tenta di svelarla in
J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino, 1981, pag. 193. Il logos è
giustamente definito da S. Maso, in uno dei suoi significati, come «quell’insieme di proposizioni concatenate logicamente tra loro in modo tale da condurre ad una qualche conclusione» (S. Maso, Lingua philosophica graeca, op. cit., pag. 110).
268
Ciò anche in Teognide (Elegie, I, 437; 254), ed in Esiodo (Opere e giorni, 16, 202), dove
sia mythos che logos indicano il discorso veritiero. In questo senso anche A. Capizzi, La
repubblica cosmica, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1982, pag. 105.
269
H. Gardner, Intelligenze multiple, Anabasi, Milano, 1994.
267
123
i miti omerici
modo chiaro. Come ha ricordato del resto anche E. Berti, «dei principi
primi, o delle cause prime del tutto – secondo Platone ed Aristotele – si
occuparono non solo i filosofi, ma anche gli antichi poeti, per esempio
Omero ed Esiodo»270. Platone ed Aristotele, come accennato, riconobbero questo, pur rimarcando che la narrazione mitica non fu fondata
su ragionamenti solidi ed osservazioni accurate, bensì principalmente
sulla credenza popolare e sulla invenzione fantastica. Nonostante ciò, i
due classici riconobbero spesso al mito un valore di verità non inferiore
a quello della filosofia, specie su particolari argomenti in cui il pensiero
simbolico risultava essere più adatto alla descrizione della verità stessa;
tuttavia essi furono soprattutto critici del mito perché la mitologia, o
«teologia» (come la chiamava Aristotele, perché essa parlava soprattutto di dèi), era ben diversa dalla ragione universale filosofica.
Non ci addentreremo, in questa sede, in una approfondita analisi
dei miti e delle loro funzioni. Non è il fine di questo libro, ed inoltre vi
sono altre trattazioni che se ne occupano egregiamente. Pensiamo ad
esempio allo studio di J. Campbell intitolato Il potere del mito (Guanda,
Parma, 1990), che ha giustamente rimarcato come l’architettura del mito
corrisponda a quattro funzioni fondamentali: a) la funzione cosmologica,
propria di quei miti che pongono in essere la conoscenza dell’universo
e della natura; b) la funzione sociale, propria di quei miti che incorporano i principi di valore dei diversi sistemi sociali; c) la funzione pedagogica, propria di quei miti che elaborano, trasmettono e conservano
quadri etici e modelli di comportamento; d) la funzione mistica, propria
di quei miti che producono, cercando di rispondere ai principali misteri della vita, la crescita spirituale della umanità. È evidente – al di là
della discutibilità di ogni classificazione – come i miti omerici abbiano
svolto soprattutto una funzione sociale e pedagogica. In questo senso,
è lecito seguire la datata ma pur sempre valida analisi di G. B. Vico, che
nella sua Scienza nuova respinse la lettura allegorica dei miti operata
ad esempio da F. Bacone nel De sapientia veterum, nonché le teorie cartesiane che interpretavano il mito come una mera distorsione della realtà; concordemente, su questo punto, al pensiero simbolico, riteniamo
che la dimensione espressa nei miti sia una dimensione fondamentale
dell’umano (come ha mostrato, ad esempio, C. Jung), e che pertanto
l’esperienza simbolica non possa essere trascurata, sotto pena di un impoverimento radicale delle capacità espressive del genere umano (im270
E. Berti - F. Volpi, Storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2007, vol. I, pag. 9.
124
Educazione e mito
poverimento, peraltro, in atto da alcuni secoli, come ha rilevato in vari
libri U. Galimberti)271.
Occorre certo stare attenti anche a non cadere nell’eccesso opposto,
ovvero a leggere tutta la realtà, anche quella più “materiale” e “sociale”, in termini simbolici, come fanno ad esempio alcuni epigoni di
Nietzsche; tuttavia, anche questa dimensione va indagata, ed in questo
senso il mito ci viene fortemente in aiuto. Proprio per questo motivo
nelle prossime pagine descriveremo alcuni fra i principali miti omerici, operando comunque un’ampia selezione. Non ci interessa, infatti,
realizzare una “caratteriologia” completa dei personaggi omerici, né
esaltarne le profondità e le ambivalenze psicologiche. Ci interessa principalmente mostrare i contenuti etici, positivi e negativi, che emergono
nelle figure più importanti di tali miti. Ci soffermeremo in particolare
su Odisseo, poiché egli rappresenta a nostro avviso, meglio di altri, i
contenuti principali dell’etica educativa omerica.
Ci permettiamo di rinviare, in merito, a L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto
Galimberti, Petite Plaisance, Pistoia, 2006; U. Galimberti - L. Grecchi, Filosofia e Biografia,
Petite Plaisance, Pistoia, 2005.
271
125
iLiade
La storia dell’Iliade è in sostanza la storia di alcuni episodi della
decennale guerra degli Achei contro Troia: l’orgogliosa ira di Achille
nei confronti di Agamennone, il suo rifiuto di combattere, la morte di
Patroclo ed il ritorno in campo di Achille; l’uccisione feroce di Ettore e la
restituzione finale del suo corpo al padre da parte di Achille. Ciascuno
di questi eventi è, nella narrazione poetica, altamente carico di significati.
Si afferma solitamente come detto, da parte di alcuni studiosi, che
l’Iliade sia il poema della forza, e che esso sia tutto incentrato sull’ira
di Achille, che ne costituirebbe dunque il personaggio principale.
Chi sostiene queste tesi ha certo molte frecce al proprio arco. In effetti, più che la descrizione dell’intera guerra di Troia (trattata dal ciclo
epico), l’Iliade fu principalmente la narrazione di una vicenda: l’ira di
Achille dapprima nei confronti di Agamennone, reo di avergli sottratto
la schiava Briseide, e poi nei confronti di Ettore, reo di avergli ucciso
l’amato Patroclo. Achille reagisce a questi “torti” con ira, come noto, e
l’Iliade impegna lunghi brani nella descrizione di questa ira e dei suoi
effetti. Tuttavia, a nostro avviso, non ci si deve fermare al piano narrativo. I poemi omerici non sono infatti mere descrizioni di accadimenti,
bensì, come sempre avviene nelle trattazioni mitiche, rappresentazioni
simboliche di valori etici, prese di posizione morali sui comportamenti
umani. Se, quindi, non ci si limita a considerare il “metro narrativo”, incentrato sulla “quantità” (il numero dei versi dedicato all’ira di Achille
ed ai suoi effetti), ma si passa a considerare il “metro onto-assiologico”,
incentrato sulla “qualità” (la trattazione etico-educativa dei personaggi
e dei fatti), si potrà leggere nell’Iliade una storia diversa da quella letta
finora dai suoi principali interpreti: si potrà leggere la storia dell’inizio
dell’umanesimo greco.
È possibile effettuare questa differente lettura in più modi; il migliore, a nostro avviso, passa da una valutazione comparata dei tre
personaggi principali dell’Iliade (escludiamo, per ora, Odisseo, che ritroveremo indiscusso protagonista dell’Odissea): Agamennone, Achille
ed Ettore. Tratteremo specificamente di ciascuno nei prossimi tre para127
i miti omerici
grafi, ma è possibile effettuare sin da ora due considerazioni generali.
La prima riguarda il rapporto fra Agamennone ed Achille, letto con
gli occhi di Omero; ebbene, è evidente che, sia nella scelta iniziale di
Agamennone di non restituire Criseide al padre Crise, sia nella scelta
successiva di restituirla e prendersi Briseide da Achille come compenso, egli fu fortemente biasimato da Omero. In pressoché tutti gli episodi
principali cui prende parte, Agamennone fu del resto descritto come il
tipico potente tracotante ed avido, che per questo, ovvero per la sua
sostanziale mancanza di etica (che si riflette anche nella mancanza di
coraggio: egli seguì sempre i combattimenti dalle retrovie), fu senza
dubbio uno dei maggiori modelli negativi dell’Iliade.
Achille, in rapporto ad Agamennone, risulta sempre vincente. È
vero, certo, che egli fu inferiore quanto a potere, e fu perciò costretto a
cedere Briseide, in quanto Agamennone deteneva il comando dell’intero esercito (mentre Achille comandava solo i Mirmidoni); tuttavia, pur
mostrando talvolta la medesima tracotanza ed avidità di Agamennone,
Achille quanto meno accompagnò tali qualità negative con le qualità
positive del coraggio e della fermezza (cedette Briseide ma si rifiutò poi
– almeno fino alla morte di Patroclo – di combattere), e soprattutto, nel
finale, della pietas mostrata nei confronti di Priamo272.
La seconda considerazione da fare riguarda il rapporto fra Achille
ed Ettore. Rispetto ad Agamennone, caratterizzato prevalentemente da
qualità negative, Achille fu caratterizzato da una sorta di mix di qualità negative e positive, che nei vari casi, di volta in volta, prevalsero.
Ebbene: se analizziamo la figura di Ettore, noteremo che invece egli
fu caratterizzato prevalentemente da qualità positive. Pur limitandoci
a brevi cenni di quanto svilupperemo in seguito, Ettore fu infatti presentato da Omero come uomo buono, giusto, dolce, rispettoso verso
concittadini ed avversari, amato dal popolo, dalla moglie e dai genitori;
ad Ettore si possono imputare solo piccoli difetti, quali il famoso timore
immediatamente antecedente al combattimento con Achille. Tuttavia,
così come è evidente che, sul piano etico, nell’Iliade Achille prevalse su
Agamennone, è altrettanto evidente che Ettore prevalse su Achille; se,
dunque, la nostra lettura umanistica dei poemi omerici è corretta, allora
Come ha scritto correttamente, in merito, A. Lesky, «la scena in cui Achille e Priamo,
dopo tutte le asprezze della lotta, dopo tutto il dolore e la crudeltà di una vendetta insensata, riconoscono ed onorano l’uno nell’altro l’uomo, rappresenta il punto di arrivo
dell’Iliade e l’inizio dell’umanesimo occidentale» (A. Lesky, Storia…, op. cit., vol. I, pag.
47).
272
128
Iliade
è Ettore che risulta essere il vero modello, e quindi anche il protagonista, di questo poema: l’uomo che rinuncia alla propria vita per difendere la città, e che si comporta con ciascuno in modo fraterno. Qualora
però avessimo ragione, e dunque l’Iliade fosse poema essenzialmente
umanistico273, ovvero poema etico-educativo ponente Ettore come modello di riferimento rispetto ad Achille, allora tutte le tradizionali interpretazioni dell’Iliade come «poema della forza» perderebbero larga
parte del loro valore274.
A nostro avviso, succubi della mentalità dominante che da secoli
identifica il vincitore con il migliore, si è abituati a pensare Achille come
migliore di Ettore, e dunque come il vero eroe dell’Iliade (in cui peraltro
non si fa esplicitamente cenno alla sua uccisione); ed egli lo è, fino a
che si batte per conservare il proprio onore nei confronti del tracotante Agamennone. Tuttavia, quando incurante delle sorti del suo esercito rimase chiuso nel proprio orgoglio senza intervenire, ed ancor più
quando fece ferinamente scempio del cadavere di Ettore, egli cessò di
essere un modello etico positivo. Il biasimo di Omero nei suoi confronti
fu, in questa circostanza, davvero evidente, come mostrato dalla cruda
descrizione della sua efferatezza. Poteva un aedo viandante, un poeta
pensatore, un uomo saggio, esaltare e proporre come modello etico la
ferocia di Achille, ed in generale farsi cantore della forza e della violenza? Noi riteniamo di no, e pensiamo che solo secoli di cattive interpretazioni abbiano potuto condurre gli studiosi ad abbracciare, nella loro
quasi totalità, questa lettura275.
È indubbiamente molto più facile descrivere l’Odissea come il poema dell’uomo (Odisseo), e dunque dell’umanesimo. Tuttavia, anche
l’Iliade mostra la centralità dell’uomo, e la priorità dei modelli etici poNota correttamente, in merito, H. C. Baldry che «se è solo dopo Omero che la nozione
di specie umana diviene oggetto di una formulazione condotta a livello cosciente, molti dei
tratti che le vengono attribuiti sono i medesimi [...] dell’Iliade e dell’Odissea» (H. C. Baldry,
L’unità del genere umano nel pensiero greco, Il Mulino, Bologna, 1983, pag. 37).
274
Ci dà in parte ragione anche M. Gigante, secondo cui «l’Odissea è il poema di Ulisse,
mentre l’Iliade non è il poema di Achille» (in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo, op. cit.,
pag. 170).
275
Sottostante a questa lettura, vi può essere al più il fatto che l’unità compositiva dell’Iliade nacque sulla leggenda di un evento remoto, ovvero il tentativo di colonizzazione del
litorale asiatico da parte degli Achei operato verso la fine del II millennio a.C. (la caduta
di Troia potrebbe risalire al 1183). Troia sorgeva infatti in una posizione strategica, a dominio delle vie di comunicazione marittime e terrestri tra l’Europa e l’Asia.
273
129
i miti omerici
sitivi276. Essa non fu infatti – se non per il suo oggetto bellico – il poema della forza, e non fu nemmeno, come mostrato in precedenza, il
poema degli dèi; essa non fu neppure il poema della natura, dato che
quest’ultima, quando è descritta, lo è sempre in maniera funzionale ad
una rappresentazione di sentimenti umani. I paesaggi naturali furono
infatti in Omero pervasi di umanità, come accadde ad esempio per le
acque del mare percosse dal soffio potente di Zefiro, o per le distese
del cielo in cui le stelle scintillano misteriose e lontane; gli animali,
poi, quasi rispecchiano qualità umane, giungendo fino al pianto (XI,
558; XII, 167; XVI, 259). La natura, non umanizzata, esprimeva infatti
in Omero solo la vita svolta fuori dal consesso della civiltà cittadina;
le mura di Troia, simbolo di una comunità, erano in effetti assimilate,
nell’Iliade, ad una casa dalle forti pareti (XVI, 212), dalle volte robuste
(XXIII, 712), al baluardo che cinge la città intera, con le sue vie (II, 19), le
sue piazze (XVIII, 497), i suoi palazzi (VI, 242), i suoi templi (VI, 297) e
tutte le altre istituzioni della vita collettiva, ossia le leggi, le cerimonie,
le feste, i luoghi ed i momenti della vita artistica, culturale e religiosa
(XVIII; XXIII). Ettore fu, in questo senso, l’emblema della vita civile, il
modello di quella «etica sociale» (G. Pasquali) che costituirà, nei secoli,
l’immagine più rappresentativa dell’intero pensiero greco.
Come ha rimarcato anche A. W. H. Adkins, «la giustizia trionfa in molte parti sia
dell’Iliade sia dell’Odissea» (A. W. H. Adkins, La morale…, op. cit., pag. 113).
276
130
tracotanza e avidità:
aGamennone
Agamennone fu il comandante degli Achei nella spedizione a Troia,
in quanto re della componente più rilevante del vasto esercito ellenico (Iliade, IX, 69). Quanto importa rimarcare, in questa sede, non sono
ovviamente i contenuti narrativi del racconto, che in larga parte devono essere dati per conosciuti; ciò che importa rimarcare sono i comportamenti di Agamennone, e la loro valutazione etica. Ebbene, come
poc’anzi ricordato, tali comportamenti si caratterizzarono pressoché
sempre per tracotanza ed avidità, tanto che, sin dal primo canto – in
una delle molteplici condanne della hybris che improntano i poemi
omerici – Achille si rivolse proprio a lui apostrofandolo come «uomo
tracotante ed avido di guadagno» (I, 148), oltre che con altri epiteti.
Agamennone infatti, dopo aver compreso, grazie al discorso dell’indovino Calcante («che conosceva il passato, il presente e il futuro», I, 70),
la necessità di restituire Criseide al padre Crise (I, 115-116)277, chiese in
cambio ad Achille la schiava Briseide, che all’eroe era stata assegnata dalla assemblea comune, solo per rivendicare, con questa infantile
“compensazione”, il proprio maggiore potere; egli infatti esplicitò apertamente ad Achille di volere ciò «affinché tu sappia quanto sono più
forte di te, e tremi anche ogni altro di parlarmi alla pari, o di levarmisi
di fronte» (I, 184-187)278. Per questo motivo Achille lo criticò giustamente di «non onorare realmente il dio» (I, 127) e di «non darsi pensiero» (I,
Crise, sacerdote troiano di Apollo, era infatti giunto alle navi degli Achei per chiedere
il riscatto della figlia, caduta nelle mani di Agamennone, recando molti doni (I, 20). Gli
Achei avrebbero voluto onorare il sacerdote di Apollo, ma Agamennone «villanamente lo
congedò, e gli ingiunse un ordine minaccioso» (I, 25). Agamennone trattò con insolenza
il vecchio padre, ventilando addirittura per Criseide la prospettiva della servitù e di un
odioso concubinato (I, 29); Crise «se ne andò in silenzio lungo la riva del mare risonante;
poi, ritiratosi in un luogo solitario, intensamente pregò il dio Apollo» (I, 34-39). Fu per
questo motivo – consueta metafora mitica – che Apollo scese sull’accampamento degli
Achei, portando morte, per tutta la prima parte del poema.
278
Prima ancora aveva dichiarato che avrebbe potuto prendersi i «doni» di qualunque
altro, a sua scelta, degli eroi greci (I, 137-139).
277
131
i miti omerici
160) del bene comune279, e di essere la causa del ritiro dalla battaglia del
più valoroso guerriero greco280.
Ora: è indubbio che in una parte del mondo omerico, la forza e la potenza costituivano ancora contenuti positivi (anche perché spesso confusi con il coraggio ed il valore, virtù fondamentali nei frequenti eventi
bellici dell’epoca)281. Non è un caso, in merito, che anche il maggiore fra
gli dèi, ossia Zeus, rivendichi proprio sul piano della forza (bia) la propria posizione di superiorità, quando essa venne messa in discussione
dagli altri dèi; egli infatti sfidò apertamente – sulla falsariga di quanto
visto in precedenza per Agamennone – gli altri numi a contrastarlo,
ritenendosi «tanto al di sopra di tutti gli dèi, ed al di sopra degli uomini» (VIII, 18-25). Tuttavia, come la stessa Iliade mostra in abbondanza,
nella antica Grecia la forza, separata dall’etica, non consentiva di essere
considerato realmente agathos, ovvero di godere di quel riconoscimento
sociale che ad Agamennone mancava, appunto, proprio per mancanza
di valore morale.
Questa manchevolezza umana di Agamennone si rivelò ancor prima
della sua permanenza a Troia, ovvero quando, durante la contrastata
partenza dell’esercito acheo, più volte rimandata per la assenza di vento
provocata dalla dea Artemide, egli si rivelò pronto anche a sacrificare la
figlia Ifigenia per ingraziarsi la dea e procurarsi così gloria. La sua non
curanza nei confronti degli altri uomini (ed anche un certo nichilismo
ante litteram) si rivelarono poi in molteplici episodi dell’Iliade; significativa è in merito una frase, dai più trascurata, che egli rivolse al fratello
Menelao: «Che ti importa degli uomini? Nessuno può salvarsi, neppure
quello che sta ancora nel ventre della madre, neppure il bambino che
piange» (VI, 55-60). Il fatto che gli uomini siano mortali, non conduce
però necessariamente a doverli ritenere come strumenti irrilevanti di
una più potente volontà individuale; realmente in Agamennone, così
come in parte in Achille, furono presenti quelle radici di hybris che caPoco oltre Achille affermò che Agamennone «divora i beni della sua gente» (I, 231); un
anticipo della tematica, più specificamente esiodea, dei «re divoratori di doni» (Esiodo,
Opere e giorni, 38 ss.).
280
Queste le parole di Achille: «Tornerò a Ftia, perché è molto meglio per me tornare in
patria con le ricurve navi [...] che rimanere qui privo di onore, a procurare a te opulenza
e ricchezza» (I, 169-171).
281
In alcuni passi dell’Iliade, Agamennone è infatti paragonato, nel capo e negli occhi,
addirittura a Zeus, e nel petto a Poseidone.
279
132
Tracotanza e avidità: Agamennone
ratterizzano anche le radici dell’Occidente contemporaneo282, e che invece Ettore ed Odisseo negarono nelle parole e nei fatti, avendo cura di
ogni essere umano entrato in contatto con loro. Significativo è peraltro
che, proprio nello scontro delle hybris, Agamennone accusi Achille di
comportarsi esattamente come lui, ma senza la necessaria «autorità»283.
Si è infine argomentato, nel primo capitolo, di come, almeno all’apparenza, gli dèi guidino le azioni degli eroi omerici. Agamennone offre
una ampia casistica di questa tesi, imputando il proprio «accecamento»
(ate), ovvero le proprie errate decisioni, a Zeus (IX, 18), alla Moira (XIX,
86) od alle Erinni (XIX, 136). Ebbene: il fatto che la responsabilità per
le proprie decisioni sia fatta ricadere su cause esterne proprio da un
personaggio come Agamennone è, a nostro avviso, non la prova che in
Omero gli uomini siano burattini nelle mani degli dèi, ma la prova che
solo i personaggi poco etici incolpano gli dèi di accecamento, quando
in realtà dovrebbero incolpare loro stessi di non avere sufficiente saggezza ed eticità.
Non è difficile inoltre notare non soltanto come, nella stessa Iliade,
gli dèi (Atena, Era) intervengano a fianco di Achille solo per ben consigliarlo, ma come soprattutto nell’Odissea (ad eccezione di Poseidone,
che voleva vendetta) essi intervengano sempre positivamente a fianco
di Odisseo; egli infatti disponeva di saggezza ed eticità, ovvero di quegli stessi valori umanistici che gli dèi incarnarono, nei poemi omerici, in
misura crescente. Le famose parole, in precedenza riportate, di Platone
nel libro X della Repubblica, in cui l’anima di Odisseo scelse il proprio
destino affermando che sono gli uomini a fare le proprie scelte e che il
dio non ne ha colpa, possono a nostro avviso attribuirsi anche all’età
omerica, non rappresentando affatto una «rivoluzione platonica»; ben
interpretando i miti, infatti, l’umanesimo emerge anche nell’opera di
Omero, non solo nella Grecia classica.
Per concludere con Agamennone, va ancora rimarcato che, come accadrà anche ad Achille (che si riscattò parzialmente dall’avere animalescamente infierito sul corpo di Ettore restituendolo alla fine al padre),
Omero ne mostrò, nello scorrere dell’opera, un parziale ravvedimento,
tanto che fu autore di una sostanziale «ammenda» (XIX, 137-144) della
282
Ci permettiamo di rinviare, in merito, a L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il
Prato, Padova, 2009, con introduzione di D. Fusaro.
283
«Costui pretende di stare al di sopra di tutti, di dominare su tutti, di imporre a tutti la
sua signoria, di dare ordine a tutti» (I, 287-289).
133
i miti omerici
propria hybris; egli fu infatti in alcuni episodi mostrato vivere la propria
ate con discreto senso di colpa, tanto da sentirsi in dovere di offrire una
adeguata riparazione (XIX, 78 ss.). L’ate era infatti, già in Omero, un
“errore” che produceva sempre “responsabilità”, tanto che negli autori
successivi (ad esempio Esiodo, Opere e giorni, 8, 214) ate divenne vero
e proprio sinonimo di “colpa”; fu proprio in Omero però, come ha ricordato A. Magris, che partì «questo movimento di razionalizzazione e
moralizzazione, spinto da esigenze di ordine della società [...], che fanno perno sul concetto di hybris»284. Il comportamento di Agamennone
nei confronti di Achille e di altri fu sicuramente hybris, tanto che con
la sua figura si fece strada, nei poemi omerici, «l’idea di una colpevolezza non desunta dall’esterno ma intrinseca, e perciò suscettibile di
una ben precisa connotazione etica e giuridica»285. Mostrando questo
processo di autocomprensione etica, in sostanza, Omero volle mostrare
che l’esperienza, soprattutto se composta di sofferenza e dolore, reca
sempre insegnamento, anche ai più tracotanti; fu verosimilmente questo stesso messaggio, che costituì il cuore dell’etica greca, a muovere
Achille al suo finale gesto di pietas.
A. Magris, L’idea…, op. cit., pag. 116. La hybris peraltro rappresentava in origine non
tanto la violazione del rapposto fra umano e divino, quanto la violazione delle norme che
regolavano il rapporto fra pubblico e privato.
285
Ibidem, pagg. 116-117.
284
134
coraGGio e ferocia:
achiLLe
La figura di Achille, figlio – secondo il mito omerico – del re dei
Mirmidoni Peleo e della dea Teti, è emblematica della elaborazione di
valori che stava attuandosi nella società omerica. Il valore della forza,
verosimilmente ancora legato alla precedente epoca micenea, in cui il
territorio della Grecia fu soggetto a molteplici invasioni ed occupazioni,
lasciava infatti sempre più spazio a quei contenuti etici di misura, di lealtà, di benevolenza che, in alcuni tratti, anche Achille rivela (pensiamo,
ad esempio, al reiterato consiglio di prudenza all’amato Patroclo, od ai
teneri dialoghi con la madre Teti); il fatto che la menis, ossia uno stato
d’animo in cui si mescolano rancore e sensibilità, fu spesso presente in
Achille, non esclude però che sia stata soprattutto la violenza a caratterizzare il personaggio. Assai significativa, in merito, è la ferocia con cui
egli affrontò lo scontro finale con Ettore: al principe troiano che gli propose un patto affinché il vincitore restituisse quanto meno il corpo dello
sconfitto, Achille si paragonò ad un «leone», come tale impossibilitato a
fare patti con «uomini»286; tale egli si sentiva per sua indole, soprattutto dopo la morte dell’amato Patroclo, che aveva «reso selvaggio il suo
cuore nel petto» (IX, 628-629).
La figura di Achille, nei momenti in cui rivela una presenza di contenuti umanistici, risulta dunque emblematica di una mutazione di valori in corso in epoca omerica. Fin dall’infanzia la madre gli predisse
il proprio destino, o meglio – come abbiamo mostrato in precedenza,
rimarcando il carattere “non deterministico” del fato greco – lo pose
di fronte ad una scelta: raggiungere la gloria ma morire in giovane età,
oppure vivere una vita lunga ma anonima. Achille scelse la prima alternativa (II, 681-694; XI, 781-790), e con essa scelse la violenza come tratto
prevalente del proprio carattere.
In questa originaria scelta di Achille si è sempre letto il fatto che i
poemi omerici furono espressione di una società agonale (pensiamo, ad
Anche Apollo lo paragonò ad un «leone selvaggio» (XXIV, 40); paragone, a dire il vero,
che fu da Omero riferito anche ad Ettore, Aiace ed Odisseo, ma solo per esemplificarne il
vigore nella battaglia.
286
135
i miti omerici
esempio, alla interpretazione dei Greci di J. Burckhardt)287. Ciò è però
solo parzialmente vero. Quando infatti, nell’Odissea, nella sua discesa
nell’Ade Odisseo incontrò l’anima di Achille, quest’ultimo affermò
chiaramente che, se avesse potuto decidere ora per allora, avrebbe preferito aver condotto una vita da bracciante, servo di un padrone, che
non essersi ritrovato così giovane nel regno dei morti. Si tratta di un
“ravvedimento” davvero significativo, che mostra come già in epoca
omerica la ricerca della buona vita quotidiana, dignitosa e coraggiosa, cominciasse ad essere un valore fortemente riconosciuto. Ettore fu,
in questo senso, il personaggio emblematico della bellezza della vita
famigliare e cittadina; ma anche Odisseo, la cui scelta di una “vita tranquilla” compiuta nella platonica Pianura della Verità (descritta nella
Repubblica) risultò essere una interpretazione davvero intelligente del
personaggio288.
L’importanza dei legami famigliari segnò anche tutta la vita di
Achille, dall’infanzia alla maturità. La madre infatti, avendolo concepito con un mortale, si preoccupò sin dall’inizio di renderlo immortale
come lei. La mitologia antica ci offre almeno due versioni di questi tentativi. Nella prima, dopo aver procurato un incendio, Teti lo nascose di
notte fra le fiamme, allo scopo di distruggere le parti del suo corpo che
aveva ereditato dal padre mortale; Peleo però lo “salvò” affidandolo
alle cure del centauro Chirone, che lo allevò – insegnandogli peraltro le
arti mediche – nutrendolo di cuori di leone e midollo di orso289. Nella
Occorre comunque rimarcare, in merito, che gli agoni greci, in particolare quelli «sportivi» quali quelli indetti da Achille in occasione della morte di Patroclo, ebbero sempre un
valore “sacro” ed una funzione sociale. Essi infatti, come poi le rappresentazioni teatrali
ateniesi, furono finanziati dai più ricchi, che in questo modo distribuirono continuamente
parte delle loro ricchezze. I pericoli insiti in una società agonale vennero esplicitamente
evidenziati, per la prima volta, da Solone.
288
Emblematico della differenza fra Achille ed Odisseo fu anche il differente comportamento tenuto dopo la sconfitta degli avversari: come vedremo, Achille oltraggiò in vari
modi il cadavere di Ettore, mentre Odisseo impedì addirittura all’ancella Euriclea di
esultare sui Proci sconfitti, in quanto «è sacrilego menar vanto sui nemici uccisi» (XXII,
412). Come ha scritto correttamente A. Lesky, «Ulisse è il più deciso opposto di Achille:
saggia avvedutezza contro nobile dismisura [...]. È quanto mai significativo che nel canto
IX dell’Iliade proprio egli sia fra gli ambasciatori il meno capace di toccare l’animo di
Achille» (A. Lesky, Storia…, op. cit., vol. I, pag. 49).
289
L’educazione di Achille fu però affidata, come ricordato, al saggio Fenice (IX, 442-443),
in quanto – come ha giustamente rimarcato S. Gastaldi – «il guerriero deve essere, al tempo stesso, capace di pronunciare discorsi e compiere azioni» (S. Gastaldi, Introduzione alla
storia del pensiero politico antico, Laterza, Roma-Bari, 2008, pag. 7).
287
136
Coraggio e ferocia: Achille
seconda versione, più nota (che è quella della Achilleide di Stazio), la
madre cercò di renderlo immortale immergendolo nel fiume Stige, e
vi riuscì quasi interamente tranne che per il tallone con cui lo reggeva: fu quello infatti il punto, secondo un altro mito posteriore, in cui
egli fu colpito dalla freccia di Paride Alessandro. Non interessa comunque, in questa sede, ripercorrere l’intera mitologia su Achille, che si
può tranquillamente consultare nei dizionari di mitologia; ci interessa
semmai rimarcare come il suo rapporto con la morte sia stato sin dagli
inizi molto stretto, tale da porsi come crocevia delle sue scelte di vita.
Originariamente, infatti, egli scelse di affrontare la morte senza timore;
giunta la morte, egli parve però di più apprezzare la vita, anche se non
immortalata dalla gloria (così, almeno, nell’Odissea). Proprio questo suo
difficile rapporto con la morte, in apparenza sprezzante ma in realtà
doloroso e sofferto (proprio di chi, per dirla con Ugo Foscolo, non lascia
in vita «eredità d’affetti»), fu emblematico della sua ambivalenza; nella
Iliade in particolare, infatti, è il giusto rapporto con la morte che si configura come aretè, ovvero come il raggiungimento della compiutezza
per ogni eroe.
L’ambivalenza del personaggio di Achille, ma soprattutto la sua aggressività, hanno fatto sì che i poeti greci successivi prendessero poco
in considerazione la sua figura. Sappiamo che vi fu una trilogia achillea
di Eschilo, andata però quasi completamente perduta; abbiamo un ritratto di Achille nella Ifigenia in Aulide di Euripide, ma in generale egli
suscitò scarsi interessi nell’antichità, anche rispetto ad eroi a lui inferiori. Achille del resto, oltre che egoista290, non fu nemmeno dotato di una
varietà e profondità di moti dell’animo tali da renderlo affascinante, e
da facilitare la identificazione; non lo sapremo mai, ma forse questa fu
una scelta volontaria di Omero, al fine di non rendere in alcun modo
avvincente la tracotanza e la violenza (pensiamo invece a quanto ricco
fu l’animo del saggio Odisseo).
La hybris, ma soprattutto un forte tratto di individualismo ed asocialità, rimasero il tratto dominante della vita di Achille291. Se infatti
Nella perdita di Briseide, in effetti, Achille vide soprattutto un’offesa nei suoi riguardi, e non il distacco da una persona amata; ciò toglie molta dignità a tutto il complesso
emotivo dell’episodio. Come ha del resto sostenuto G. Murray, «anche il suo amore per
Patroclo ha l’aria di non essere senza un suo fondo egoistico: siamo ben lontani dall’amore di Oreste e di Pilade» (G. Murray, Le origini…, op. cit., pagg. 242-243).
291
«Godrà solitario il proprio valore» (XI, 763), commentò Nestore a proposito del suo
orgoglio implacabile.
290
137
i miti omerici
può essere considerata “di parte” l’opinione di Agamennone, che lo
accusò di essere tracotante (I, 207), va comunque ricordato che anche
Patroclo, che pure lo amava, sostenne esplicitamente che Achille era il
tipo di uomo che impaurisce gli altri, in grado anche di accusare degli
innocenti (XI, 653 ss.). Ricordiamo inoltre che Achille giunse perfino a
minacciare il dio Apollo, e che perseverò nel proprio proposito di vendetta pure quando il suo cavallo, Xanto, acquisita la parola, gli avvertì
prossima la morte (che in effetti l’Iliade non descrive, così come non
descrive la presa di Troia, ma ambedue gli eventi sono chiaramente
presagiti nel testo). L’episodio in cui la hybris di Achille fu però più
scoperta fu quello in cui egli, paragonandosi ad una belva, non si limitò
ad uccidere Ettore, ma infierì crudelmente sul suo cadavere innanzi agli
occhi della sua famiglia: come se stesse catturando una preda, sotto le
mura di Troia egli forò infatti i talloni di Ettore, vi passò all’interno una
cinghia ed appese il corpo al proprio carro, trascinandolo via. Questo
gesto, così come le tante spietate uccisioni descritte nel canto XXI (come
quella del giovinetto Licaone), sono testimonianze di una profonda
hybris, che venne duramente criticata da Apollo, il dio dell’equilibrio
spirituale e morale, per il quale «Achille ha smarrito la pietà: egli non
ha più pudore» (XXIV, 44-45); come ha giustamente commentato in
merito L. Zoja, «Achille fu eroe guerriero, al di fuori della dimensione
famigliare. La tradizione antica parla, è vero, di un figlio, ma non di un
rapporto fra i due. Il figlio, Neottolemo, è feroce quanto il padre: sarà
lui a massacrare il piccolo Astianatte riportando fra i figli l’orrore che
aveva unito i genitori»292.
Anche in Achille furono tuttavia presenti, come ricordato, alcuni
tratti umanistici293. È vero infatti che egli, tramite l’azione guerresca,
ricercò soprattutto la gloria e l’onore personali, ma è altrettanto vero
– come ha giustamente rimarcato C. M. Bowra – che «la base fondamentale dell’onore è la dignità umana»294, non il semplice prevalere;
nella Grecia antica, a differenza che nel mondo capitalistico di oggi,
non tutto infatti era permesso, ed il fine non giustificava i mezzi, sicché
«essere sempre il migliore», come il padre Peleo gli richiese, voleva dire
L. Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, pag. 101.
Vi fu anche una sorta di ravvedimento finale di Achille, dopo la morte di Patroclo:
«Potesse perire dal mondo degli dèi e degli uomini la contesa (eris), e con essa l’ira, che
spinge anche l’uomo saggio ad infuriarsi» (XVIII, 107-109).
294
C. M. Bowra, L’esperienza greca, Il Saggiatore, Milano, 1996, pag. 34.
292
293
138
Coraggio e ferocia: Achille
essere in primo luogo una persona leale e giusta: una concezione che
assai raramente Achille riuscì ad incarnare, se non appunto nell’episodio finale della restituzione del corpo di Ettore. Qui Omero, con pagine
di rara bellezza, pose in evidenza la differente statura morale esistente
fra l’umanità di Priamo e la ferinità di Achille, tanto che tutti gli dèi si
schierarono in favore di Priamo: Zeus stesso decise che l’anziano re potesse giungere alla tenda di Achille senza ostacoli, e che la sua richiesta
di restituzione del corpo avesse esito positivo (XXIV, 22-119; corpo peraltro che, a dieci giorni dalla morte, altri dèi avevano contribuito a far
rimanere integro). Priamo accettò di baciare la mano che uccise Ettore
ed altri suoi figli, ma la superiorità morale del suo fine, ovvero l’amore
paterno, fece sì che questo gesto non fosse mai avvertito, nel tempo,
come una umiliazione295.
Con questa scena finale, nonostante la sconfitta di Ettore, Omero
celebra la vittoria dell’umanità sulla animalità, dell’etica sulla ferocia,
della comunità sulla individualità296. Fra il leone e l’uomo, in termini di
“animalità” vince il leone, ma in termini di “umanità” vince l’uomo; ed
era l’umanità a stare a cuore ad Omero, che dunque fece trionfare, sul
piano etico ed educativo (dunque umanistico), Ettore.
Si è spesso discusso se Omero, per motivi “etnici”, abbia preferito
gli Elleni o i Troiani, Achille o Ettore; si è talvolta sostenuto che egli
abbia preferito gli Elleni, indicando come esempi passi in cui sottolinea
la compostezza dell’esercito e degli eroi greci, in rapporto alla struttura
disordinata dell’esercito troiano. Ci permettiamo però di rinviare, in
merito, al nostro Gli stranieri nella Grecia classica, per una argomentata dimostrazione di come questa tesi debba ritenersi errata, ovvero di
come motivi “etnici” non abbiano mai influenzato la sostanza “teoretica” del discorso di Omero. In ogni caso, anche senza il rinvio ai brani
citati nel nostro libro, basterebbe la considerazione in cui Omero tiene
la virtù civica e famigliare di Ettore rispetto alla hybris di Achille, per
mostrare come il suo “prendere parte” sia stato sempre di tipo etico,
Fu anzi proprio il far ricordare ad Achille che anche lui aveva un padre che lo attendeva trepidante, a far muovere il figlio di Peleo alla pietà (XXIV, 485-517).
296
Ci pare abbia ben compreso la questione C. Del Grande, affermando che «dai tempi
omerici ai classici [...], accanto ad una paideia essenzialmente spartana, basata sulla continuità della areté eroica, troviamo un’altra e diversa paideia, espressione di più larghi strati
sociali che, senza negare quella areté, la corregge e la sottopone al principio del riconoscimento e della difesa di un diritto uguale per tutti, che non è possibile infrangere senza
offendere gli dèi» (C. Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 1).
295
139
i miti omerici
non etnico; ed, in questo senso, non vi è dubbio che nell’Iliade il suo eroe
preferito sia sempre stato Ettore, modello di un nuovo tipo di uomo297.
Ci pare avrebbe concordato con questa tesi anche C. Diano, secondo il quale «Achille
muore per la gloria, Ettore per la patria [...]. L’uno ha la illogicità tempestosa di un’età che
non conosce altra legge se non la passione e l’arbitrio individuale [...] Ettore ha la pietà
e la giustizia di chi vive in una cerchia di mura; egli idealizzò ed espresse le virtù della
nuova civiltà cittadina: il dovere e l’amore della patria» (C. Diano, Delta, 4, 1957, pag. 48).
297
140
comunità ed etica:
ettore
Il personaggio di Ettore, a differenza di quello di Achille, emerse
nella propria grandezza non per le azioni belliche che compì, ma per
le relazioni umane che intrattenne; per questo egli fu il personaggio
più significativo dell’umanesimo omerico per come esso si manifestò
nell’Iliade. Significative furono le sue relazioni col fratello Paride, con la
cognata Elena, con la moglie Andromaca ed il piccolo figlio Astianatte,
col padre Priamo e la madre Ecuba, coi propri concittadini e perfino
col nemico più spietato, Achille. Dall’analisi di queste relazioni emerge
tutta la sua umanità.
Il primo rapporto che esamineremo è quello col fratello Paride
Alessandro. Si tratta di un rapporto molto importante, in quanto proprio a causa di Paride scaturì, almeno secondo il mito omerico, la guerra
degli Achei contro Troia. Paride, ospite di Menelao, si rese infatti colpevole della sottrazione della di lui moglie Elena, rapendola nella notte –
per un reciproco immediato innamoramento – e portandola con sé sulle
navi verso Troia. Questo gesto di Paride, che mosse Menelao a richiedere ad Agamennone di armare un enorme esercito per riprendersi Elena,
fu più volte biasimato nell’Iliade; ciò in quanto esso, lesivo al contempo
del legame famigliare e della ospitalità, era particolarmente grave. Non
è un caso che Menelao, appena giunto a Troia, volle subito duellare con
Paride per mettere così immediatamente fine alla contesa, chiedendo
direttamente a Zeus di fare giustizia lasciandoglielo uccidere, «affinché
ciascuno degli uomini, anche nel tempo futuro, rabbrividisca all’idea di
fare del male ad un ospite che gli offra affettuosa accoglienza» (III, 351354)298; nel duello peraltro, indietreggiando nei confronti di Menelao
(III, 15-37), Paride mostrò quella biasimevole viltà che, così contraria
alla tavola dei valori omerici, indusse il rimprovero anche del pur benevolo fratello Ettore (III, 64-66). L’atteggiamento di Ettore nei confronti
di Paride rimase comunque, in linea generale, benevolo ed appunto
Simili furono peraltro anche le parole della preghiera a Zeus di Agamennone (II, 412418), che richiesero la vendetta proprio come atto di giustizia, necessaria a ristabilire
l’equilibrio morale violato.
298
141
i miti omerici
fraterno299, e questo nonostante l’acredine che verosimilmente, per il
suo gesto e per il suo disonorevole comportamento, i suoi concittadini
e compagni provarono nei suoi confronti (III, 320-322; 453; VII, 350).
Lo stesso atteggiamento tenuto nei confronti di Paride, Ettore lo riservò anche alla “cognata” Elena; nonostante, infatti, i suoi errori e le
sue colpe, Ettore non le rivolse che parole benevole. Elena è una figura davvero complessa dei poemi omerici, tanto che è stata varie volte
considerata dalla letteratura mondiale, moderna ed antica (pensiamo
al famoso Encomio di Elena di Ippia, che cercò sostanzialmente di togliere ad Elena la responsabilità delle sue azioni, incolpando gli dèi).
L’ambivalenza è la dote che più caratterizza Elena: moglie infedele
nell’Iliade (sebbene disposta ad accollarsi ogni responsabilità per il suo
gesto; III, 171-180)300, nell’Odissea ella mostra la propria nobiltà; quando
infatti Telemaco si recò a Sparta da Menelao per avere notizie del padre,
la trovò ricongiunta al marito, bella ed assennata «padrona di casa»
allietante i propri ospiti con buone parole e con penetranti racconti (IV,
253-264)301. Quanto ci interessa qui rilevare, di Elena, non è comunque
la “profondità” della sua figura, evidentemente utilizzata da Omero
come snodo di esperienze, riflessioni e passioni; quanto ci interessa qui
rimarcare è che, nell’Iliade, Ettore le riservò un trattamento affettuoso e
benevolo, tanto che Elena, legata anche al saggio Priamo, lo descrisse
come la persona più gentile dell’intera Troia (XXIV, 767 ss.). Elena infatti, dal momento in cui venne a trovarsi nella rocca di Ilio, si trovò a far
parte della stessa comunità di Ettore, famigliare e cittadina; come tale,
divenne degna di tutto il suo affetto e la sua protezione.
«Il mio cuore soffre dentro il petto, quando sento in giro oltraggi contro di te» (VI, 523).
Da notare peraltro che re Priamo, con la medesima dolcezza del figlio Ettore, fece di
tutto per lenire il senso di colpa della bella Elena, «tremendamente somigliante nel volto
alle dee immortali», giungendo anche a porre il suo gesto sul conto della volontà degli
dèi (III, 164-167). Dare la colpa ad una ragazza sola e spaventata in terra straniera sarebbe
stata cosa indegna di un uomo della nobiltà d’animo di Priamo; come ha sottolineato correttamente C. Del Grande, nel sostenere ciò Priamo usa una «squisita formula di cortesia
[...], ma non possiamo dedurre che lo scrittore ignori il principio di responsabilità» (C.
Del Grande, Hybris, op. cit., pag. 17).
301
Elena apparve peraltro per la prima volta, nel III libro dell’Odissea, intenta a tessere
una grande tela raffigurante le scene della leggenda troiana (121-145). La tela sembra
riflettere la consapevolezza del dramma della sua vita e delle sue scelte; Elena appare in
un atteggiamento assorto e nobilitato.
299
300
142
Comunità ed etica: Ettore
L’aspetto etico e comunitario fu in effetti quello che più caratterizzò
Ettore; la città, ed in particolare la famiglia, risultarono essere il centro dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Vi sono, con riferimento ad
Ettore, alcune scene dell’Iliade riemerse più volte nella letteratura occidentale, a motivo della loro umana ricchezza; la più celebre è sicuramente quella del commiato dalla moglie Andromaca e dal figlioletto
Astianatte, nel canto XXII. Vale la pena riportare la parole di amore
rivoltegli, in quella occasione, dalla moglie Andromaca, che rappresentano una delle vette poetiche dell’intero poema: «Infelice, proprio il tuo
valore ti ucciderà. Non hai pietà del piccolo ancora in fasce, né di me,
che sarò vedova tra poco, quando gli Achei, tutti insieme, ti assaliranno. Ma senza di te, meglio che anche io muoia. Niente di più dolce, se
tu muori, io avrò, soltanto dolore. Io non ho più padre, non ho madre
[...]. Ettore, tu sei per me sposo, e insieme padre, madre, fratello. Non
rendere nostro figlio orfano, e me vedova [...]. Resta con noi sulla torre». Ettore però aveva come priorità, in base al proprio ethos comunitario, la difesa della città, che nella sua scala di valori rivestiva maggiore
importanza della salvezza famigliare e personale; così dunque rispose
ad Andromaca: «Lo so. So tutto questo. Ma avrei troppa vergogna dei
Troiani e delle Troiane se non fossi in battaglia. Da sempre ho imparato
a essere forte [...]. In fondo al cuore, so anche che Troia scomparirà, e
con lei Priamo e tutto il nostro popolo. Ma non penso al loro dolore, a
quello del padre, della madre o dei fratelli: penso a te [...], alle tue grida
quando gli Achei ti strapperanno via. Quel giorno sarò già stretto dalla
terra» (VI, 369-439).
All’interno della stessa scena, molto toccante fu anche l’ultimo saluto al figlioletto Astianatte. Ettore infatti lo prese fra le braccia e lo alzò
al cielo, «con gesto che sarà, per tutti i tempi, il marchio del padre»302; il
bimbo però, vedendolo vestito di corazza ed elmo, si impaurì e si mise
a piangere. Ettore, allora, si tolse l’elmo e finalmente il figlio lo riconobbe. Già nel nome quel figlio – che la tradizione farà morire per mano di
Neottolemo303 – portò impresso il marchio del padre; i Troiani infatti lo
nominarono con questo epiteto, che significava «difensore della città»
(VI, 403; XXII, 307), nella speranza che egli avrebbe potuto seguire in
futuro le orme di Ettore. Condividiamo in merito interamente le parole
di L. Zoja, che in un libro recente ha nobilitato con grande sensibilità la
302
303
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 91.
Iliade, XXII, 64; XXIV, 735; Euripide, Troiane, 721-723.
143
i miti omerici
figura di Ettore: «In tempi in cui si lotta per la fama, per l’onore o per
l’oro, un maschio ha l’impudicizia sentimentale di lottare per i bambini.
Achille e Ulisse piangono poco decorosamente su se stessi, se vengono
d’improvviso confrontati con emozioni che di solito rimuovono (Iliade,
I, 357; XVIII, 35; XXIV, 511; Odissea, VII, 86, 522; XVI, 215). Ettore possiede una coerenza nuova per l’eroe antico: coraggio è affrontare con
serietà non solo le battaglie, ma i sentimenti e i ricordi. Nel VI libro egli
percorre i motivi del proprio dolore e ascolta quelli della sposa, con
malinconia ma senza lacrime»304.
Ettore fu l’uomo della misura, della famiglia e della città; solo una
volta, forse, egli peccò di hybris: quando, nel canto XVII, indossò le armi
di Achille strappate a Patroclo morto, compiendo un gesto che gli fu
imputato negativamente anche da Zeus305. Tuttavia, appunto, furono
sempre il rispetto e la cura per l’uomo le qualità che più lo caratterizzarono; egli fu del resto amatissimo dalla sua famiglia di origine,
come mostrarono in modo evidente i richiami strazianti della madre
dalle Porte Scee per farlo rientrare nelle stesse evitando Achille, e come
mostrò l’atto finale di Priamo, in precedenza descritto, per recuperare
il suo cadavere.
Anche coi nemici Ettore si comportò sempre con lealtà: significativo
è il duello con Aiace nel VII canto, in cui egli affermò sin da subito che,
qualora fosse stato il vincitore, si sarebbe tenuto le armi del valoroso
avversario da esporre nel tempio di Apollo, ma avrebbe restituito il corpo agli Achei per gli onori della sepoltura306. Un simile patto egli cercò
anche nel combattimento finale con Achille ma, data la già ricordata
natura ferina del suo avversario, esso non venne accettato. Può essere
interessante descrivere proprio questo episodio utilizzando le parole di
Luigi Zoja, maestro nell’esprimere le sfumature psicologiche di questo
genere di rappresentazioni.
Nella pianura antistante le mura di Troia, Ettore rifiutò, come detto,
di richiudersi dentro la città, in quanto sarebbe stato vile, secondo il suo
codice etico, sottrarsi al confronto con Achille; egli sapeva che era lui
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 94.
Una “colpa” Ettore l’ebbe forse anche perché, conscio del torto di Paride, non riuscì a
piegare il fratello a riconoscere il proprio errore ed a restituire Elena, il che avrebbe avuto
effetti molto positivi per la comunità troiana; la sua morte pagò verosimilmente anche
questa sua “debolezza”.
306
Iliade, VII, 74-86. Alla sospensione del combattimento per le tenebre, egli propose addirittura ad Aiace uno scambio di doni.
304
305
144
Comunità ed etica: Ettore
che Achille cercava, e che era suo dovere non sottrarsi alla sfida (XXII,
1-91). I genitori, soprattutto la madre, lo pregarono in ogni modo dalle
mura di rifugiarsi all’interno delle stesse, ma Ettore, rimasto oramai
solo, rifiutò. Nei lunghi istanti precedenti l’impatto con Achille, egli lottò a lungo con il proprio cuore (thymos), attraversato da sentimenti contrastanti (XXII, 96-130). «Achille gli giunge di fronte. A questo punto,
confermandosi figura più complessa di quelle soltanto gloriose, Ettore
è preso dalla paura. La volontà del padre difensore di tutti cede di fronte all’impulso primordiale della conservazione. Tallonato dal suo rivale, Ettore gira per tre volte intorno a Troia, del cui riparo aveva creduto
di potere fare a meno. Se la città con il suo abbraccio protettivo era emblema di madre, fuori dalle sue mura cade nella solitudine anche il padre più forte. Al quarto giro, Zeus pesa con la bilancia d’oro le sorti dei
due guerrieri: quella di Ettore precipita verso il regno dei morti. Gli dèi
lo abbandonano (XXII, 136-213). Anzi, la dea Atena scende sul campo
per l’inganno finale, assumendo l’aspetto del fratello di Ettore, Deifobo
(nome significativo: paura degli dèi). Rinfrancato da quella che crede
una presenza amica, Ettore decide di combattere. E, ricomparendo in
lui l’uomo del dovere, prima di passare alle armi propone un patto al
nemico»307. Il patto fu quello di non abbandonare il corpo del vinto in
preda a cani ed avvoltoi, ma di restituirlo; Achille però non accettò, affermando appunto che non possono esserci alleanze fra uomo e leone,
né patti fra lupo e agnello (XXII, 261 ss.). Quando Ettore chiese l’aiuto
del fratello Deifobo, si accorse prontamente di essere stato ingannato
dagli dèi, che infatti corazzarono lo scudo di Achille; ed affermò: «Ah,
ora capisco: gli dèi mi chiamano a morte [...]. Finito è il tempo in cui ero
caro a Zeus e ad Apollo [...]. Ma se morte deve essere, che sia morte con
gloria» (XXII, 297-305). Ettore volle lasciare un ricordo onorevole della
propria fine, e si avventò con la spada sull’avversario, ma la lancia di
Achille trafisse il suo gesto; a terra, nella polvere, Ettore cercò ancora
l’accordo con Achille, ma quest’ultimo ripeté che il suo scopo era quello di vederlo fatto a pezzi da cani ed uccelli (XXII, 273-354), cosa che
sarebbe accaduta se gli dèi stessi, come detto, non avessero conservato
il corpo di Ettore, e se Achille non si fosse mosso a pietas di fronte alle
parole di Priamo.
Questa la fine di Ettore: una sconfitta, secondo i criteri “eroici” che
qualcuno vorrebbe centrali nell’Iliade; una vittoria, secondo i criteri
307
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 99.
145
i miti omerici
umanistici che furono a nostro avviso centrali in tutta l’epoca omerica.
L’umanesimo di Omero, nell’Iliade, fu infatti rappresentato soprattutto
dai valori prevalenti nella vita di Ettore; nell’Odissea, dai valori prevalenti nella vita di Odisseo.
146
odissea
La trama dell’Odissea è, nelle sue linee generali, molto semplice: essa
narrò infatti del viaggio di ritorno (nostos) compiuto da Odisseo e dai
suoi compagni verso Itaca, intesa insieme come luogo ideale e patria
reale. Se le linee generali sono semplici, molto complesse sono invece
le trame di significati delle singole tappe di questo viaggio, che comprende eventi e personaggi su cui quest’ultima parte del libro tenderà
appunto a far luce.
Si sente talvolta affermare che l’Iliade e l’Odissea sarebbero le due
gambe con cui avrebbe cominciato a camminare il pensiero greco. In
questo quadro, l’Iliade avrebbe rappresentato i temi del’eroismo e della
guerra, simboleggiati da Achille, mentre l’Odissea avrebbe rappresentato i temi della astuzia e del viaggio, simboleggiati da Odisseo. Ora: è
evidente che nei due poemi omerici vi furono anche questi temi e questi simboli; tuttavia, come si è fino a qui cercato di mostrare, essi non
furono gli unici, e verosimilmente non furono nemmeno quelli centrali.
Così come infatti, nell’Iliade, i valori etici e comunitari di Ettore furono
quelli prevalenti nell’opera omerica, nell’Odissea tali valori etici e comunitari prevalenti furono quelli di Odisseo Egli infatti non viaggiò per
fare scoperte, così come non utilizzò la propria intelligenza per prevalere; egli viaggiò per ritornare a casa, ed utilizzò la propria intelligenza
principalmente per sopravvivere insieme ai suoi compagni, in un mondo popolato di esseri non sempre ospitali.
L’umanesimo omerico, presente anche nell’Iliade, trovò effettivamente nell’Odissea, come diversi interpreti hanno rimarcato, spazi di
maggiore ampiezza. Qui il personaggio centrale, pressoché unico, risulta essere Odisseo ma, intorno a lui, anche stavolta furono rappresentati
“modelli etici” positivi e negativi: fra i primi è possibile citare Penelope,
Eumeo, Nausicaa; tra i secondi è possibile citare i Ciclopi, i Proci, le
Sirene. Alcuni di questi personaggi sono stati inseriti nel lungo paragrafo dedicato ad Odisseo, mentre altri hanno avuto uno spazio apposito. Scegliere in questi casi, ancorché necessario per ragioni di spazio,
è sempre difficile, perché omettere (o porre in secondo piano) parti di
poemi omerici risulta inevitabilmente arbitrario; il criterio cui ci siamo
147
i miti omerici
attenuti è stato però, anche stavolta, non quello poetico, bensì quello
della significatività umanistica. Ci siamo cioè maggiormente soffermati
su quegli episodi, e su quei personaggi, che ci pareva avessero maggiormente da dire, anche in relazione al nostro tempo.
L’umanesimo dell’Odissea ruota soprattutto intorno alla figura di
Odisseo. Tuttavia, come è stato da più parti fatto notare, questo poema
rivela, rispetto all’Iliade, una maggiore attenzione alla gente comune,
quando non addirittura agli ultimi. Mentre, cioè, nell’Iliade parlano solo
o prevalentemente eroi aristocratici, ed i popolani vengono zittiti (il famoso episodio di Tersite, su cui già ci siamo soffermati), nell’Odissea
sono mendicanti, porcari, servitori che spesso occupano il centro della scena, rivelando una umanità che, sebbene diversamente declinata,
non ha nulla da invidiare a quella dei potenti dell’Iliade. Anche gli dèi,
come gli uomini, furono infatti maggiormente inclini ad indurre il bene
ed a favorire la giustizia, a riprova appunto di una maggiore diffusione
nell’Odissea dell’umanesimo: un interprete del calibro di W. Jaeger ha
sostenuto in merito che tutte le tendenze umanistiche, etiche e politiche
del pensiero greco, ritrovano le proprie radici in Omero e soprattutto
nell’Odissea.
Un altro tema importante dell’umanesimo omerico, che l’Odissea rimarca, è quello costituito dalla rilevanza del ruolo delle donne. Come ha
sottolineato in merito S. C. Humphreys, «sia nell’Iliade sia nell’Odissea le
donne sono ritratte con una delicatezza in seguito raramente raggiunta
nella letteratura greca»308. Gli esempi qui sono davvero numerosi: da
quello di Elena a Sparta a fianco di Menelao, passando per Nausicaa
nell’isola dei Feaci, fino alla figura emblematica dei valori famigliari
costituita da Penelope; e tutto ciò per parlare solo delle figure umane,
e non di quelle divine (come Atena) o semidivine (come Calipso). La
qualità più evidente, in queste donne, fu indubbiamente la bellezza fisica; ma questa bellezza, in Elena, in Nausicaa, ed in Penelope in modo
particolare, non fu disgiunta da una bellezza di tipo spirituale, ovvero
dalla saggezza. Come ha scritto correttamente ancora W. Jaeger, «la posizione sociale della donna non fu mai più presso i Greci così elevata
come sul declinare del periodo cavalleresco omerico»309.
L’umanesimo dell’Odissea – questo tema è stato invece assai poco
considerato – emerge anche dal carattere utopico, ovvero insieme idea308
309
S. C. Humphreys, Saggi antropologici sulla Grecia antica, Patron, Bologna, 1979, pag. 401.
W. Jaeger, Paideia, op. cit., pagg. 62-63.
148
Odissea
le e progettuale, di alcuni miti ivi narrati. Il più famoso di questi miti è
costituito dall’isola dei Feaci, in cui il lavoro era ridotto al minimo per
il rigoglio delle condizioni naturali, ed in cui era bandito ogni scambio
mercantile310. Parleremo poco oltre della ospitalità dei Feaci; può essere invece qui interessante menzionare la assai poco ricordata isola di
Siria, anch’essa collocata lontana dal mondo abitato (XV, 403-411), in un
luogo mitico. In quest’isola, dove non erano praticati né la produzione
né il commercio, gli abitanti avevano vita lunga, senza malattie e senza
sofferenze; quando essi giungevano ad una età molto avanzata, venivano trafitti in modo indolore dai dardi di Artemide ed Apollo. Sull’isola
di Siria la vita scorreva serena e pacifica, proprio in quanto equa era la
divisione di tutte le cose tra gli abitanti delle due poleis (su cui regnava
il padre di Eumeo, fido servitore di Odisseo). Il messaggio centrale, in
questo mito, era quello per cui equità e buon governo conducono alla
felicità; in questo senso l’isola era ancora più concreta e paradigmatica,
come modello di buona vita comunitaria, rispetto a quella dei Feaci. A
Siria, poco popolata ed in cui pertanto le cose bastavano per tutti (la
limitatezza della popolazione fu una costante anche dei progetti politici
ideali di Platone ed Aristotele), solo una intrusione dall’esterno – come
appunto la schiava fenicia che rapì Eumeo – avrebbe potuto portare
disordine ed infelicità. Appare dunque evidente in questo mito che più
si è lontani dal mondo umano dei traffici e dei commerci, meglio si
sta; anche gli Etiopi in effetti stavano bene sulle rive dell’Oceano, ai
confini del mondo, in cui riuscivano perfino ad intrattenere rapporti
con gli dèi (I, 23 ss.). In Omero, come ha rimarcato correttamente M.
Ghidini Tortorelli, «il modello utopico non consiste in una creazione
completamente svincolata dagli elementi reali, ma è proiezione di esigenze etiche maturate nel terreno storico»311; esigenze etiche che mostrano chiaramente il terreno umanistico proprio dell’Iliade, e soprattutto dell’Odissea. Il fatto che queste comunità ideali siano descritte come
esistite e raggiungibili (per quanto lontane), mostra a nostro avviso il
messaggio progettuale implicito anche nei poemi omerici; conducendo
Su questo tema si è particolarmente soffermato P. Vidal Naquet, secondo cui «Scheria
può essere considerata come la prima utopia della letteratura greca; ma non è ancora
giunto il momento in cui l’utopia politica si separerà dalla rappresentazione della età
dell’oro» (P. Vidal Naquet, Il cacciatore nero, Editori Riuniti, Roma, 1988, pag. 33), ossia
quanto meno il tempo di Ippodamo di Mileto (Aristotele, Politica, II, 1267 b 30 ss.), in cui
cioè l’utopia cominciò ad essere progettuale.
311
M. Ghidini Tortorelli, Miti e utopie nella Grecia antica, Napoli, 1980, pag. 48.
310
149
i miti omerici
cioè la vita, individuale e sociale, lungo ben precise direttive etiche e comunitarie, si può giungere ad essere felici anche nella limitatezza della
condizione umana. L’uomo insomma, pur coi propri limiti mortali, con
la sapienza e la saggezza può anche governare la storia; se questa interpretazione fosse corretta, Omero potrebbe addirittura considerarsi
come un parziale anticipatore della “filosofo della storia”312.
L’aspetto utopico presente nell’umanesimo omerico è stato rimarcato ancora da M. Ghidini Tortorelli, secondo la quale, con riferimento
al viaggio di Odisseo, «la dimensione di questo universo mitico può
essere definita giustamente utopica nel senso che, pur stabilendo una
contrapposizione tra la realtà umana di Odisseo e la realtà mitica dei
popoli che incontra, Omero non tende a confinare nel passato delle origini l’umana esperienza di vita felice, ma, al contrario, si propone di
attualizzare l’immagine della società perfetta»313, ponendola su piani
storicamente confrontabili; il passato descritto nei popoli mitici visitati
da Odisseo, idealizzato dall’epica, agì sempre in Omero come tempo
assiologico e progettuale.
L’umanesimo dell’Odissea si rivelò però soprattutto, come già accennato, nella saggezza di Odisseo, che con la propria eticità – che a breve
descriveremo nei suoi vari tratti – si pose come modello per eccellenza dell’uomo omerico: un modello che si delineò in positivo proprio
passando per il «travaglio del negativo», ovvero per il confronto con
personaggi quali Ciclopi, Lestrigoni, Proci, modelli di violenza e tracotanza, ma anche con figure come i Lotofagi, le Sirene, Calipso, Circe,
modelli di falsità e seduzione. L’etica umanistica di Odisseo, alle prese
con le esperienze della vita – questa la particolare “filosofia morale”
omerica –, sarà descritta nei prossimi paragrafi e fino alla fine del libro.
Emergerà in questo modo compiutamente cosa si intende, in questo
testo, per “umanesimo omerico”.
Ciò solo nel senso in cui abbiamo dichiarato esistere una “filosofia della storia” nel
pensiero greco; rinviamo in merito a L. Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica,
citato.
313
M. Ghidini Tortorelli, Miti e utopie…, op. cit., pag. 7.
312
150
vioLenza e disumanità:
cicLoPi, LestriGoni, Proci
Il lettore potrà provare disagio nel vedere unite, in un unico paragrafo, le figure “mitiche” dei Ciclopi e dei Lestrigoni, e quelle “umane”
dei Proci. Tuttavia, se avrà seguito la trama discorsiva di questo testo,
capirà che questa assimilazione è funzionale a far emergere il comune
carattere etico di queste figure, modelli negativi di violenza e tracotanza, dunque di inumanità; fu proprio nel confronto e nella lotta con
queste figure (Ciclopi, Proci), o nel loro evitamento (Lestrigoni), che
Omero sviluppò quei contenuti morali tuttora in grado, dopo quasi tremila anni, di essere da guida per gli uomini.
Il primo incontro “violento” del viaggio di Odisseo, dopo aver lasciato il territorio dei Lotofagi (solo apparentemente però innocui,
come mostreremo poco oltre), fu quello coi Ciclopi; si tratta, come noto,
di figure mitiche di giganti con un solo occhio, residenti sulle pendici
dell’Etna, i quali, «prepotenti e senza leggi, fidando negli dèi immortali,
non piantano alberi con le loro mani, né arano la terra» (IV, 105-108). La
prima caratteristica dei Ciclopi è dunque quella di non essere una comunità, né economica, né sociale, né politica; essi non praticano l’agricoltura, come invece fanno i popoli civili, ma, soprattutto, «non hanno
assemblee per deliberare, né leggi, ma abitano la sommità di alti monti,
in profonde spelonche; ciascuno comanda ai figli ed alla moglie, e non
si curano gli uni degli altri» (IX, 112-115)314. La a-nomia, ossia la assenza
di leggi dei Ciclopi, li rese nel tempo simpatici ai Cinici (soprattutto ad
Antistene), ma non ad Odisseo che, recatosi nella loro isola in cerca di
cibo, scoprì che essi erano «prepotenti e selvaggi, senza giustizia» (IX,
174-176), antropofagi e miranti esclusivamente al loro materiale benessere. In realtà, Odisseo non incontrò l’intera popolazione dei Ciclopi,
ma solo «un mostro gigantesco, che pascolava le greggi solo, lontano da
tutti, e non frequentava gli altri, ma stando in disparte aveva sentimenti
selvaggi» (IX, 187-190); era Polifemo, figlio di Poseidone, «rivestito di
grande forza, selvaggio, sprezzante di ogni diritto e di ogni legge» (IX,
212-215).
314
Su questo tema si soffermò anche Platone nelle Leggi (680 a-b).
151
i miti omerici
Le modalità dell’incontro fra Odisseo e Polifemo (il termine significa
«rumoroso, dalle molte voci») sono parte costitutiva di questo mito, e
pertanto vanno raccontate. Va detto però innanzitutto che i naufraghi
di Itaca sbarcarono nell’isola dei Ciclopi solo in cerca di acqua e cibo,
ovvero di quel «dono ospitale» che la cultura greca era solita concedere a viaggiatori e stranieri, strutturalmente in situazione di bisogno315;
ebbene: in questo contesto, Odisseo compì l’unico errore di indugiare,
poco prudentemente, sugli utensili di dimensione enorme presenti sulla soglia dell’antro del Ciclope, sia perché incuriosito, sia perché desideroso di non comportarsi da predone. Questo errore è stato posto dalla
modernità sul conto di un presunto sterminato desiderio di conoscenza
di Odisseo, che secondo una interpretazione anche medievale del mito
(pensiamo solo a Dante Alighieri, su cui torneremo) sarebbe il tratto più
caratteristico della sua personalità. Le cose, però, non stanno affatto in
questo modo. Odisseo, certo, fu uomo desideroso di conoscere, ma non
certo per il gusto fantastico della scoperta, bensì semplicemente per
migliorare la propria saggezza316; egli, poi, fu molto più desideroso di
ritornare a casa che di continuare la propria avventura per mare, come
l’Odissea ripete pressoché in ogni pagina.
Chiarito questo equivoco, che la modernità ha innanzi agli occhi
ma fatica a sciogliere, possiamo continuare il nostro racconto. Polifemo
giunse alla propria dimora insieme alle capre e, vedendo i forestieri,
domandò ragione della loro presenza. Odisseo, astutamente, rispose di
essere naufragato lì coi suoi compagni (aveva nel frattempo nascosto
la nave), e richiese pertanto al Ciclope acqua e cibo, ovvero appunto
il «dono ospitale» che si usava fare in quei casi. Polifemo, però, lo zittì
subito, chiarendogli che egli non seguiva norme divine o umane, bensì
esclusivamente il proprio capriccio: «Sei uno sciocco, straniero, o sei venuto da lontano, se mi esorti a temere o rispettare gli dèi. I Ciclopi non
si curano dell’egioco Zeus, né degli dèi beati [...]. Io non sono disposto
a risparmiare te o i tuoi compagni, a meno che la mia voglia così mi
ordini» (IX, 273-278). Anziché, dunque, offrire un pasto ai naufraghi ed
ospitarli, egli fece degli ospiti il proprio pasto, fornendo ad Odisseo un
solo «dono ospitale»: quello di essere divorato per ultimo! Fatto questo,
Rinviamo ancora, in merito, a L. Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica, citato.
Dante Alighieri, nell’Inferno, ne sintetizzò bene il carattere quando gli attribuì le famose parole: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» (XXVI,
120-121). Prima di Dante, questa qualità di Odisseo fu colta anche da Cicerone, nel De
finibus (V, 18, 49).
315
316
152
Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci
richiuse Odisseo ed i suoi compagni nella propria caverna, e ne impedì
l’uscita apponendo all’ingresso un enorme macigno.
Il mito di Polifemo è importante non solo perché i Ciclopi, per la loro
assenza di vera socialità, di etica, di politica, rappresentano modalità di
vita non del tutto assenti, ad esempio, anche nel pur progredito Nord
Italia di inizio millennio (pensiamo alla durezza solitamente riservata
agli stranieri); tale mito è importante, per gli interpreti di Omero, perché proprio da esso prende le mosse un’altra falsa credenza su Odisseo,
ovvero quella per cui, oltre che un «imprudente esploratore», egli sarebbe anche stato un «astuto ingannatore», iniziando proprio qui, con
Polifemo, una lunga serie di menzogne317. In realtà, la serie di bugie di
Odisseo è molto corta; essa iniziò col dire a Polifemo di essere naufrago
(per non farsi distruggere la nave; IX, 281-286), e finì con la dichiarazione di chiamarsi Nessuno (prevedendo che l’unico modo per liberarsi
dalla prigionia imposta dal Ciclope sarebbe stato l’accecamento dello
stesso, il quale avrebbe però richiesto aiuto agli altri). È evidente come
queste “bugie”, così come altre alterazioni della propria identità – perché di questo principalmente si tratta – operate in seguito, non furono
affatto praticate per fini utilitaristici, ma per il semplice scopo di salvare
la vita propria e dei compagni318.
Odisseo non fu dunque né un «astuto ingannatore», né un «imprudente esploratore»; l’episodio di Polifemo, però, pone in luce un terzo
possibile difetto di Odisseo, ovvero la tracotanza. Ricordiamo infatti che
fu proprio per l’episodio dell’accecamento del Ciclope che Poseidone,
padre di Polifemo, si adirò a tal punto con Odisseo da impedirgli il
ritorno; è necessario allora valutare se la tracotanza faccia realmente
parte del carattere di Odisseo, almeno in questo episodio, oppure no.
Ebbene: come tutti sanno, l’accecamento del Ciclope costituì l’unico
modo con cui Odisseo ed i suoi compagni superstiti avrebbero potuto
Questa interpretazione, che ha una storia secolare, è stata da ultimo sostenuta da P.
Odifreddi, Le menzogne di Ulisse (Longanesi, Milano, 2004). La tesi di Odifreddi, secondo
cui Odisseo sarebbe il «mentitore per eccellenza» (pag. 28), e che avrebbe fatto ciò per fini
utilitaristici, è però scarsamente argomentata.
318
«Io andavo tessendo ogni specie di astuzie, giacché si trattava della vita» (IX, 421-422).
Più che di astuzie fini a se stesse, o di mero istinto di conservazione, tutta la vicenda di
Odisseo col Ciclope mostra il carattere “progettuale” della mente di Omero, continuamente impegnata nella ricerca di come ritornare ad Itaca, alla propria casa ed ai propri
affetti, evitando i pericoli, avendo cura dei compagni, non contrariando gli dèi e quindi
al contempo dotando di senso tutta la propria vita.
317
153
i miti omerici
salvarsi; imprigionato da un gigante antropofago, non ci pare che il gesto di Odisseo possa definirsi come tracotante. Vi è tuttavia l’episodio
finale dell’abbandono dell’isola dei Ciclopi che potrebbe condurre in
questa direzione. Lasciata infatti la caverna in modo rocambolesco319,
Odisseo ed i suoi compagni si diressero verso la loro nave; avrebbero
potuto allontanarsi in silenzio, ma Odisseo così si rivolse, urlando, al
Ciclope: «Poiché non ti guardasti dallo sbranare degli ospiti nella tua
dimora, per questo Zeus ti ha punito, e con lui tutti gli altri dèi!» (IX,
476-479).
Se analizziamo queste parole, e valutiamo adeguatamente ciò che
fece Polifemo, è difficile definirle tracotanti. In ogni caso, dopo averle udite, Polifemo scagliò un enorme masso in mare che fece tornare,
per l’enorme onda creatasi, la nave di Odisseo quasi sulla riva; ripreso
di nuovo faticosamente, a grandi colpi di remi, il largo, Odisseo volle
ancora una volta urlare al Ciclope quanto segue: «Ciclope, se mai qualcuno ti domandasse della sconcia cecità del tuo occhio, rispondi che ti
accecò Odisseo [...], figlio di Laerte, che ha la sua dimora in Itaca» (IX,
501-505).
Alla luce delle ingiustizie così ferocemente subite, nemmeno queste
parole, a nostro avviso, possono supportare l’accusa di hybris; Odisseo
sarebbe peraltro stato assolto da ogni tribunale (non solo da quelli greci
del VII secolo a.C.) per l’accecamento di Polifemo, atto che fu condannato esclusivamente dalla bia di Poseidone. Solo la terza provocazione,
che segue, fu probabilmente eccessiva; così gridò infatti Odisseo: «Oh
s’io potessi, dopo averti privato del respiro e della vita, cacciarti nella
dimora di Ade, come (sono certo che) il tuo occhio non te lo guarirà
neppure lo scuotiterra!» (IX, 523-525). Aristotele, però, fece giustamente
notare che con queste parole Odisseo non intese affatto offendere gli
dèi; egli cioè non volle alludere, con questa sua affermazione, alla scarsa potenza di Poseidone, quanto alla sua presumibile assenza di volontà di guarire Polifemo, perché il Ciclope non si era per nulla mostrato
vicino agli dèi, rifiutando il dono ospitale.
Risulta dunque evidente, da un pur rapido confronto fra le parole e
le azioni di Odisseo e quelle di Polifemo, che la hybris non accompagnò
tanto il re di Itaca, quanto Polifemo, negatore di ogni legge, egoista ed
IX, 431-436. Odisseo legò i propri compagni sotto i montoni del Ciclope, in modo tale
che, col tatto, Polifemo non ne avvertì la presenza; così come, in molti episodi, egli affrontò per primo il pericolo, in questo caso egli decise di uscire per ultimo dalla caverna, solo
dopo essersi accertato che tutti i suoi compagni fossero in salvo.
319
154
Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci
incivile per natura320; Odisseo fu in questo caso intelligente, coraggioso
e forse un po’ orgoglioso, ma non per questo alla sua figura può essere
attribuita, per questo episodio, la qualifica morale negativa della hybris. Al contrario l’episodio dei Ciclopi, così come quello dei Lestrigoni,
espresse la condanna umanistica di Omero verso ogni comportamento
rozzo e violento; ciò è messo in luce proprio, per antitesi dialettica, dal
comportamento etico di Odisseo, che pose la giustizia come criterio discriminante fra umanità e disumanità (dove la giustizia, in questo caso,
si concretizzava nell’offerta del dono ospitale). In un momento di nascita delle poleis, caratterizzate da leggi comuni e norme morali condivise,
Omero volle verosimilmente porre in evidenza come, se ciascuno vivesse pensando solo a se stesso non curandosi degli altri, si produrrebbe inevitabilmente una società di “mostri” egoisti, inospitali ed incivili.
Figure analoghe ai Ciclopi furono i Lestrigoni, anch’essi giganteschi e cannibali. La “geografia mitica”, disciplina che va ovviamente
presa con le pinze ma che testimonia della frequenza dei viaggi navali
in quell’epoca, li colloca come originari delle coste meridionali della
Corsica, così come collocava i Ciclopi fra Posillipo ed i Campi Flegrei,
Eolo sull’isola di Stromboli, i Lotofagi sull’isola di Gerba in Africa, i
Feaci a Corfù, le Sirene nell’isola Li Galli del golfo di Salerno, eccetera. Non sono questi aspetti però, come il lettore avrà ben compreso,
quelli che più ci stanno a cuore nell’opera omerica, in quanto essa fu
un’opera soprattutto educativa, in cui quindi gli elementi geografici e
storici ebbero a nostro avviso poco peso (Omero, a differenza dello storico Erodoto, non si propose di conservare memoria di uomini e fatti,
ma di esporre norme comunitarie condivise, volte a favorire la buona
vita); sono più rilevanti per noi gli aspetti etici, ed in questo senso i
Lestrigoni, pur possedendo un’agorà (X, 114-120), quanto a crudeltà ed
inospitalità non ebbero nulla da invidiare ai Ciclopi, tanto che già nel
canto X si affermò che, dalla loro isola, si salvò solo la nave di Odisseo.
Né i Ciclopi né i Lestrigoni, comunque, furono propriamente uomini (per entrambi – IX, 106; X, 191 – Omero rimarcò come essi non
fossero «mangiatori di pane», tratto che appunto caratterizzava l’umanità); questo ha spesso indotto il lettore moderno a considerarli solo
sul piano letterario fantastico, e non sul piano morale. Non fu tuttavia
L’insocievolezza, infatti, è nella “natura” dei Ciclopi. Come ha correttamente notato
G. Bona, anche quando i giganti accorsero alle urla di Polifemo, non lo fecero perché
preoccupati, bensì perché infastiditi (G. Bona, Studi sull’Odissea, Torino, 1966, pag. 76).
320
155
i miti omerici
questo l’intento di Omero, come all’epoca dovette essere ben chiaro;
il suo intento fu infatti quello della dura condanna della hybris, e del
contestuale elogio di dike321; a questo fine una situazione umana, reale,
concreta, sarebbe stata molto più partecipata dal pubblico, e per questo
Omero la creò, facendo occupare la casa di Odisseo dai Proci.
I famigerati Proci (il termine, in latino, significa «pretendenti») non
erano altro che un gruppo di giovani aristocratici di Itaca e delle isole
vicine che, approfittando della lunga assenza di Odisseo (nonché della vecchiaia del padre Laerte ed al contempo della giovinezza del figlio Telemaco) si insediarono nella sua dimora, consumandone i beni,
intrecciando rapporti ambigui con le ancelle, ed anelando la mano di
Penelope per ottenere, tramite essa, il potere su Itaca. Anche in questo
caso, non ci soffermeremo a parlare delle istituzioni sociali che avrebbero reso ciò possibile; il contenuto più rilevante, per il nostro approccio,
è infatti etico-umanistico.
Per i loro pensieri, e soprattutto per i loro comportamenti, i Proci
furono in effetti condannati da Omero come massimo esempio di tracotanza, superiore ancora, se possibile, agli animaleschi (ma «per natura») Ciclopi e Lestrigoni; costoro infatti, volontariamente e dunque con
coscienza, spadroneggiarono senza misura in casa altrui, e con vergognosa prepotenza perpetrarono ogni sorta di malefatte, fino a tramare
l’uccisione di Telemaco (I, 386 ss.). Per questo motivo Omero scrisse
che i Proci hanno hybrin te bien «che giunge sino al cielo di ferro» (XVII,
565), ossia una tracotanza che giunge perfino alle orecchie degli dèi, e
che pertanto grida vendetta.
I Proci, come i Ciclopi ed i Lestrigoni, si caratterizzarono per il possesso di pressoché tutte le qualità umane negative: violenza, rozzezza,
inospitalità; quest’ultima caratteristica – particolarmente spregevole
anche perché si trovavano in casa d’altri (VII, 132 ss.) – era davvero
qualificante di una grave inumanità in Grecia. Tuttavia, l’essenza dei
Proci risultò come detto essere la hybris, che in un certo senso riassumeva tutte le caratteristiche umane più negative; nello specifico, la hybris
dei Proci fu soprattutto violazione della eunomie, ossia – per estensione
del verbo nemein (da cui nomos), che significa “distribuire, assegnare” –
della giusta distribuzione sociale dei beni nella comunità. I Proci, con i
loro comportamenti, furono dunque responsabili di atti che violavano
321
Come ha scritto correttamente M. Pohlenz, «nell’Odissea Dike è l’indicazione dell’ordine universale» (M. Pohlenz, L’uomo greco, op. cit., pag. 191).
156
Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci
l’armonia della comunità, quali erano appunto tutti gli atti che procuravano un arricchimento indebito; tali erano anche i traffici commerciali,
soggetti a dura riprovazione nell’Odissea (VIII, 159-164)322.
Omero condannò dunque, nei Proci, i comportamenti ed i pensieri;
sembra del resto che Aristotele, nella Retorica (1378 b 23), abbia pensato proprio ai Proci affermando che «è causa di piacere per coloro che
commettono hybris il pensare che, comportandosi male, essi sono superiori agli altri. Ed è questa la ragione per cui i giovani ed i ricchi sono
hybristai. Essi pensano infatti, commettendo hybris, di essere superiori»;
tali furono appunto i Proci, giovani, ricchi e presuntuosamente vanesi.
Scrive bene L. Zoja, in merito, che «i Proci brulicanti che si inerpicano
fino al letto della regina e al trono, sono la massa superflua che subito
riempie ogni vuoto di potere nella società. [...] I Proci sono la mancanza
di progetto che si insinua [...]. Ciò che di loro Ulisse odia senza scampo
non è solo l’arroganza [...], ma l’agire alla giornata, senza scopo: l’atto
superfluo»323.
Non poteva essere detto nel modo migliore: Odisseo progetta saggiamente, i Proci gozzovigliano; Odisseo pensa alla comunità, i Proci
solo a se stessi; Odisseo si mostra responsabile, i Proci non si curano
di nulla. Occorre infatti ricordare che Odisseo tornò ad Itaca, dopo il
suo lungo viaggio, trasportato dai Feaci; appena riconobbe la propria
terra, aiutato dalla dea Atena (che appunto lo “trasformò” in un anziano mendico) decise non di agire di impulso recandosi subito nella
sua reggia, bensì di studiare la situazione – di “progettare”, appunto
–, servendosi dell’appoggio del fido porcaro Eumeo, e poi del figlio
Telemaco (ma, inizialmente, senza nemmeno rivelarsi loro). Solo sotto
queste mentite spoglie, Odisseo poté entrare indisturbato nella propria
casa, per analizzare il comportamento dei Proci. In generale, con la parziale eccezione di Anfinomo (XVIII, 125-128), tutti costoro si comportarono con il povero ospite all’incirca come i Ciclopi, ovvero rifiutando
ogni dono ospitale, ed anzi facendo di tutto affinché costui si trovasse a
disagio. Irrispettoso di ogni buona norma, Eurimaco in particolare offese l’anziano mendico proponendogli un lavoro nei campi, ma in realtà
affermando che egli sarebbe stato assolutamente incapace di lavorare;
Odisseo ribatté che, se fosse stato possibile fare una prova, un confronSignificativo, in merito, A. Mele, Il commercio greco arcaico: praxis ed emporie, Centre J.
Berard, Napoli, 1979.
323
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 116.
322
157
i miti omerici
to in duro lavoro o in guerra fra loro due, egli avrebbe cessato di «cianciare a vuoto [...]. Tu sei un grande insolente, e la tua mente non conosce
cortesia. E forse credi di essere un grand’uomo, un uomo forte, perché
bazzichi sempre tra pochi, e non certo prodi. Ma se venisse Odisseo, se
tornasse alla sua patria terra, d’un subito, bada, quella porta, benché
così larga, si farebbe stretta alla tua voglia di fuggire» (XVIII, 381-386).
Analoghe furono le sue parole di risposta ad Antinoo, che al mendico
Odisseo non solo non diede alcun cibo, ma lanciò anzi uno sgabello,
colpendolo (XVII, 397-410): «Ti manca sicuramente il senno, a te che
delle tue sostanze non daresti nemmeno un granello di sale a chi te lo
chiede mendicando, e che, pur stando in una tavola non tua, non hai
avuto cuore di prendere un pezzo di pane e di darmelo» (XVII, 454-7).
Odisseo mostrò, con queste parole, il consueto coraggio (andreia):
egli infatti si scontrò con un gruppo, di numero oscillante fra una ventina (come le oche di Penelope; XIX, 536) ed un centinaio; i Proci furono
in effetti nell’Odissea proprio una sorta di “personaggio collettivo”, in
cui emergono pochi tratti individuali324. Questo “gruppo” però, anche
per il tipo di vita condotto, per quanto tracotante non mise paura ad
Odisseo; egli sapeva infatti, per i propri valori etici che incarnavano un
più generale senso di giustizia, di avere gli dèi dalla propria parte (XVI,
247 ss.), e gli dèi aiutano sempre, nella antica Grecia, chi ha il coraggio
di combattere contro le ingiustizie. Si tratta davvero di ideali nobili dai
quali il nostro tempo può ancora imparare molto.
La vittoria finale sui Proci segnò, nel poema meno “agonale” fra
quelli omerici, la vittoria della dike sulla hybris, sancita dal già citato gesto di misura di Odisseo, che intimò all’ancella Euriclea di non esultare
sui Proci uccisi poiché «sacrilego» (XXI, 412), ossia contrario alle norme
sacre, che sono sempre norme di umana misura325. Criticando l’egoismo e la prepotenza dei Proci, Omero criticò una intera classe sociale, e
Oltre al già menzionato Anfinomo, si distinsero soprattutto, per la veemenza con cui
puntarono alla mano di Penelope, Eurimaco ed Antinoo; a quest’ultimo Omero dedicò
ben 210 versi, più di tutti quelli dedicati agli altri Proci messi insieme.
325
I morti suscitano in effetti sempre un senso di rispetto nei poemi omerici, anche se
la vendetta è giustificata, specialmente quando deriva da comportamenti riprovevoli;
dice infatti Odisseo, proprio con riferimento ai Proci: «Costoro li abbatterono il destino
e le sciagurate azioni, perché non onoravano nessuno fra coloro che vivono sulla terra,
nessun uomo, né vile né nobile, che venisse da loro; perciò, a causa delle loro stoltezze,
incapparono in una fine indegna» (XXI, 413-416).
324
158
Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci
soprattutto la ricerca di ricchezza e potenza intese come fine ultimo di
un modo di produzione sociale. Anche in questa critica anticrematistica
consiste l’umanesimo omerico.
159
seduzione e faLsità:
LotofaGi, circe, caLiPso, sirene
Violenza e seduzione, ad una analisi superficiale, parrebbero antitetiche; la violenza si rapporta alla forza, la seduzione al piacere. Ad
una analisi più approfondita, tuttavia, violenza e seduzione si rivelano essere piuttosto simili: ambedue, infatti, puntano a ridurre l’altro
in una condizione di “minorità”, per realizzare non certo il suo bene,
ma il fine del soggetto agente; differente è soltanto il mezzo che viene
utilizzato: più “fisico” nel caso della violenza, più “psichico” nel caso
della seduzione.
Fino ad ora, trattando dell’Odissea, abbiamo descritto Odisseo in
preda ad altrui azioni violente: coi Lestrigoni, coi Ciclopi, coi Proci; in
tutti questi confronti, Odisseo reagì sempre con intelligenza, ritirandosi se necessario (come coi Lestrigoni), oppure affrontando coraggiosamente i violenti (come col Ciclope e coi Proci). Di fronte alle malie della
seduzione – che a differenza della violenza non rivela immediatamente
il proprio fine malvagio, ma solo in un secondo momento –, fu però
anche per Odisseo più difficile difendersi; la seduzione, infatti, occulta
sempre i propri scopi, lusinga senza amare, finge un rapporto di cura
ma in realtà si struttura intorno ad un movente egoistico, non facile
inizialmente da cogliere.
Nel titolo di questo paragrafo abbiamo citato quattro “incontri”, fra
i più significativi, del lungo viaggio di ritorno di Odisseo: coi Lotofagi,
con Calipso, con Circe e con le Sirene. Si trattò di incontri molto diversi
fra loro ma, ad avviso di chi scrive, accomunati da forme “seduttive”
subite da Odisseo che, in una maniera più o meno palese, occultavano in realtà forme di violenza. Ne parliamo, oltre che per dar conto
di questi miti dell’umanesimo omerico, anche perché analoghe forme
seduttive sono tuttora molto presenti; la modernità non è infatti, almeno in apparenza, l’epoca della violenza, bensì l’epoca della seduzione.
Nessuno (o quasi) è tenuto in catene e costretto a lavorare, come in epoca schiavistica; tuttavia nessuno (o quasi) lavora in modo realmente volontario, bensì solo in quanto tenuto nella “minorità” dal bisogno, fisico
e soprattutto psico-sociale. Quelli che oggi si chiamano “collaboratori”,
“cooperanti”, “autonomi” (ossia lavoratori precari, flessibili, eccetera),
161
i miti omerici
sarebbero stati definiti da Marx – che andava sempre alla sostanza dei
rapporti – come «schiavi»326, in quanto alla fine costretti a lavorare e
consumare solo per sussistere, estraniandosi senza realizzarsi come
persone in un contesto comunitario. Procedendo con la trattazione, ci
accorgeremo che questi paralleli dell’umanesimo omerico con il nostro
tempo (in antitesi al nostro tempo) non sono azzardati.
In ogni caso, il primo popolo che esercitò un qualche potere seduttivo nei confronti di Odisseo e dei suoi compagni, fu quello dei Lotofagi.
Questo popolo, verosimilmente fantastico ma che alcuni studiosi
moderni hanno cercato di identificare con una tribù di abitanti della
Tunisia meridionale, dovette il proprio nome al cibo di cui si nutriva;
questo cibo (il loto, la cui pianta compare in diversi racconti mitici) fu
anch’esso frutto di invenzione, in quanto non corrisponde ad alcuna
specie vegetale conosciuta327.
Odisseo compì, presso i Lotofagi, il primo sbarco dalla partenza da
Troia, dopo dieci giorni di navigazione. Egli trovò, in questo popolo,
una società apparentemente mite e benevola: costoro infatti, secondo il
suo racconto, «non meditarono alcun male ai danni dei nostri compagni, ma diedero loro da mangiare del loto» (IX, 91-93); tuttavia, «chiunque di loro mangiava il frutto del loto, dolce come il miele, non voleva più tornare indietro recando notizie di sé; voleva rimanere là con i
Lotofagi, mangiare il loto e dimenticarsi del ritorno» (IX, 94-97). Chi
mangiava il loto, dunque, dimenticava tutto, la propria vita, il proprio
passato, e si perdeva in un vano presente senza ricordi, senza domande, senza pensieri.
Questa condizione esistenziale, che apparentemente potrebbe ricordare l’atarassia (quindi una condizione di sostanziale assenza di
sofferenza), rappresentava in realtà una condizione di vita inumana,
ossia innaturale per l’uomo; nessun uomo può infatti realizzarsi come
persona semplicemente “vegetando”, ossia privando la propria vita di
senso. In epoca omerica, così come in generale nella Grecia antica, non
risultano inoltre tracce di dipendenza da sostanze che oggi potremmo
assimilare alle droghe; tuttavia, senza attribuire alcuna “preveggenza”
ad Omero, appare evidente come i Lotofagi siano in certo senso avviRinviamo, in merito, a D. Fusaro, Marx e la schiavitù salariata, Il Prato, Padova, 2009.
Erodoto (IV, 177-178), che collocò questo popolo in Tripolitania, ci diede però una descrizione precisa della pianta, e dei suoi dolci frutti, da cui verrebbe anche ricavato un
vino.
326
327
162
Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene
cinabili agli attuali fornitori di sostanze stupefacenti. Queste sostanze,
infatti, producono gli stessi effetti del loto, ossia una temporanea apparente condizione di benessere caratterizzata da assenza di dolore, indifferenza sociale ed oblio dei problemi; questi fornitori, poi, assomigliano
ai Lotofagi perché non si comportano inizialmente in modo violento,
ma in modo accogliente, seducente, e tuttavia solo in apparenza benevolo. Come le vittime della droga, le vittime del loto non conducono infatti più, da quando si assuefanno a questa sostanza, una vera vita; non
utilizzano più la ragione, non ricercano più il bene, non si emozionano
più. Costoro conducono una esistenza che è per molti aspetti assimilabile alla morte, priva com’è di memoria, di volontà e di progetto; come
ha ricordato infatti lo pseudo-omerico Inno a Demetra, in cui si accennava all’effetto “vincolante” che aveva il prendere cibo nell’Ade (il luogo
dell’oblio), i Lotofagi sono paragonabili ad un popolo di morti viventi,
che a loro volta tramortisce ed annichilisce i propri frequentatori.
Le metafore qui utilizzate – ovvero quella più “contemporanea” della droga, o quella più “omerica” della morte – sono solo due possibili
interpretazioni simboliche di questo mito; ve ne possono però essere
diverse altre, poiché molti sono i modi con cui ci si può allontanare
“volontariamente” (a causa, in realtà, della seduzione e della propria
fragilità) dalla propria umanità, specie in un mondo come l’attuale
che produce appunto, al contempo, seduzioni e fragilità. Pensiamo a
come spesso i consumi mercificati siano simili alle droghe; pensiamo
alla dipendenza dal gioco d’azzardo, o anche dai viaggi-vacanze, solo
all’interno dei quali molte persone hanno l’impressione di “essere felici”: si tratta, in realtà, di forme compensative di un disagio interiore,
che contribuiscono però ad acuire questo disagio e non a risolverlo, in
quanto la sola soluzione di questo disagio si trova in un giusto e sensato
rapporto con se stessi e con la comunità sociale. L’uomo è infatti un ente
sociale che ricerca un senso per la propria vita, dato che è consapevole
della propria morte; la vita apparentemente tranquilla metaforizzata
dai Lotofagi può accontentare degli animali, ma non certo degli uomini. Per gli uomini, omerici e non, queste forme seduttive costituiscono
soltanto delle modalità, in apparenza non violente, con cui però ci si
allontana dalla propria vera umanità.
I Lotofagi, certo, rappresentano una forma seduttiva impropria, rispetto al consueto simbolo omerico (e non solo) della seduzione, costituito dal femminile. Ma donne affascinanti certo non mancano nell’Iliade e nell’Odissea. Abbiamo in precedenza parlato di Elena, e della sua
163
i miti omerici
“evoluzione” nei due poemi; parleremo fra breve anche di Nausicaa
e di Penelope. Tuttavia queste figure – con la parziale eccezione della
ambivalente Elena – furono affascinanti più per la loro dolcezza, per la
loro costanza e per la loro grazia, che non per l’utilizzo di arti seduttive;
viceversa, Calipso, Circe e le Sirene esercitarono un potere seduttivo
negativo, in quanto finalizzato o ad irretire ed annichilire, o, nel peggiore dei casi (le Sirene), addirittura ad uccidere il malcapitato. Questi
“miti seduttivi”, data la loro diversità, devono essere analizzati separatamente, e così faremo.
Calipso, la dea sita nell’isola di Ogigia in cui Odisseo rimase ben sette anni, rappresenta una sorta di “figura intermedia” fra la donna innamorata e la seduttrice. È indubbio, infatti, che ella provasse sentimenti
sinceri nei confronti di Odisseo, tanto da proporgli un amore eterno; è
indubbio però anche che – oltre al “consueto” uso della voce, col canto328 – la dea pose in essere tutta una serie di “lusinghe” (Omero parla di
«parole incantatrici», logoi haimylioisi; I, 56) per mantenere l’eroe un così
lungo tempo presso la propria isola. L’episodio di Calipso viene dopo
quello di Circe e delle Sirene, in ordine temporale; tuttavia, non è l’ordine cronologico quello che qui interessa, bensì l’ordine onto-assiologico,
e sicuramente, cominciando con Calipso e concludendo con Circe e con
le Sirene, delineeremo un grado di seduzione (e di pericolosità) crescente.
Pur parlando di figure mitiche, anche in questo caso non ci soffermeremo sui contenuti letterari dei miti narrati, già molto analizzati
negli studi specialistici (il canto di Calipso, la natura addomesticata,
l’isola che si presta a racconti fantastici, eccetera). Diremo soltanto che
Calipso, figlia di Atlante, fu una ninfa benefica, che si innamorò realmente di Odisseo e volle tenerlo sempre con sé; per raggiungere il
proprio scopo, oltre ad offrire la propria avvenenza, la ninfa promise
ad Odisseo la immortalità. Questa «lusinga seduttiva», all’apparenza irresistibile, non era tuttavia priva di pericoli, e l’eroe lo comprese
molto bene. Come chiosa correttamente Zoja: «come potrebbe allettare
Odisseo la immortalità che Calipso promette? Non è un dono che rafforza, ma una seduzione che indebolisce. Sono le dimissioni dal tempo, il disimpegno dalla continuità del sistema familiare (oikos, da cui
oikonomia: governo di questo sistema), il rinvio permanente dei Proci.
Sia Calipso, che Circe, che le Sirene contano; Penelope, invece, tesseva e piangeva, ma
non cantava.
328
164
Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene
Odisseo volta le spalle alle dee, ma soprattutto alle più arcaiche e volatili fantasie maschili. Anche quando racconta al re dei Feaci i travagli
del suo viaggio, l’eroe non si tira indietro e dice con schiettezza che cosa
Circe e Calipso sono state per lui [...], iniziando l’elenco delle disavventure proprio da quelle due trappole seduttive»329; per un mortale, infatti, abbandonare la propria mortalità significa abbandonare la propria
umanità, e con essa tutta la vita interiore, fatta di radici, di ricordi, di
affetti, nei cui confronti il desiderio di ritorno di Odisseo era più forte di
ogni attrattiva. Per questo motivo, nonostante la generosa offerta della affascinante Calipso, Odisseo decise di interrompere la permanenza
sull’isola di Ogigia; Penelope, per quanto mortale, rappresentava infatti per lui – insieme ai genitori, al figlio, alla casa, alla città – il solo
unico vero centro di attrazione. Per questo motivo, così come all’inizio
dell’Odissea Odisseo fu descritto piangere sulle rive del mare perché
trattenuto «a forza» ad Ogigia (così lo descrisse Atena, quando chiese al
padre Zeus di consentire che egli potesse finalmente ritornare ad Itaca;
V, 13-14) 330, alla fine dell’episodio, ossia quando – grazie alla mediazione degli dèi – egli poté lasciare l’isola su una zattera per ritornare ad
Itaca, Odisseo fu felice; ciò nonostante, si accommiatò con dolcezza da
Calipso, con la quale il rapporto fu indubbiamente anche di affetto331.
Differente, in senso negativo, il rapporto – di circa un anno332 – che
egli si trovò a vivere con Circe, in quanto differente fu la sua natura
rispetto a quella di Calipso. Più che come una ninfa, infatti, Circe è qualificabile come una «maga» che, nell’isola di Eea in cui viveva (secondo
la “geografia mitica”, presso il monte Circeo), aveva l’abitudine di trasformare in animali tutti coloro che giungevano a farle – involontariamente – visita. Questo accadde, ad esempio, ai compagni di Odisseo
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 112.
Quando Ermes arrivò ad Ogigia per comunicare a Calipso la decisione di Zeus di liberare Odisseo, lo trovò «seduto a piangere sulla scogliera del mare, là dove stava sempre,
con lacrime, sospiri ed affanni straziando il suo cuore; sul mare infecondo spingeva lo
sguardo, e piangeva» (V, 81-84). «Ma i suoi occhi gli si asciugavano dal pianto, mai gli
si struggeva la dolce vita nel sospiroso desiderio del ritorno» (V, 151-152). Calipso stessa
descrisse Odisseo come «desideroso di rivedere la sua consorte, per la quale sempre, un
giorno dopo l’altro, sospira» (V, 209-210).
331
Sia la Teogonia di Esiodo (1017-1018), sia il commento di Eustazio alla Odissea (XVI,
118), riportano che la mitologia antica attribuì alla coppia almeno due figli.
332
Anche a questo rapporto la mitologia successiva attribuì una procreazione, quella di
Telegono. In effetti, dopo circa un anno, saranno i compagni a dover ricordare ad Odisseo
– in uno dei suoi rari momenti di debolezza – la patria e la famiglia lontane (X, 472-474).
329
330
165
i miti omerici
che erano andati sull’isola in avanscoperta, in cerca di acqua e cibo;
tutti furono mutati in porci tranne Euriloco che, diffidando dei modi
suadenti di Circe, decise di non entrare nella sua dimora e poté così
avvisare Odisseo.
Come i Lotofagi, Circe rispettava solo in apparenza le regole della
ospitalità; ella infatti offriva sì cibo (e non solo) ai malcapitati, ma «al
cibo mescolava veleni funesti, affinché i compagni di Odisseo dimenticassero del tutto la patria» (X, 235-236). Circe ebbe successo con tutti,
ma non, appunto, con Odisseo. Indubbiamente, certo, anche il figlio di
Laerte dovette entrare nel suo letto, ma Circe colse correttamente che, a
differenza dei suoi compagni che si lasciarono subito andare ai propri
impulsi, Odisseo non si lasciò sopraffare dagli stessi, ma anzi costrinse
la maga a ritrasformare in uomini i suoi amici. Questo episodio è stato, come noto, variamente commentato, e non sono mancati interpreti,
per lo più fra i contemporanei, che hanno rimarcato come questo autocontrollo delle emozioni in Odisseo, questa sua freddezza razionale,
rappresentasse un difetto del suo animo: queste doti del carattere precludono infatti, a loro avviso, l’abbandono alla seduzione ed al piacere,
e dunque, per i canoni attuali, la felicità. I canoni di Odisseo, così come
del mondo omerico, erano però differenti da quelli contemporanei (per
ciò abbiamo tanto da imparare da Omero): per questo motivo il saper
porre, saggiamente, un freno alle proprie passioni, significò per lui la
salvezza.
Anche in questo episodio Odisseo rivelò il proprio coraggio, correndo gravi pericoli per andare a salvare i compagni, che pure in altre occasioni – pensiamo alla uccisione delle vacche sacre ad Elio nell’Isola del
Sole (XII) – non si mostrarono particolarmente meritevoli333. Egli, certo,
fu aiutato dal famoso moly, un «antidoto vegetale» donatogli da Ermes
per difendersi dagli incantesimi; tuttavia, non è questo il punto centrale. Il punto centrale è che l’etica umanistica di Odisseo (di Omero) gli
impedì, al contempo, sia di volersi elevare al livello degli dèi immortali
(la promessa di Calipso), sia di volersi abbassare al livello degli animali
(la minaccia di Circe). In ambedue i casi, infatti, egli avrebbe compiuto
una scelta fuori misura, contraria alla propria umanità; come ha correttamente commentato P. Vidal Naquet, «in un certo senso l’Odissea
I responsabili di questa violazione – vaticinata sia da Tiresia (XI, 106-115) che da Circe
(XII, 137-141) – però morirono tutti, in quanto si resero colpevoli di hybris per aver violato il giuramento sacro che Odisseo impose loro di fare (XII, 297-302); alla colpa infatti,
nell’epica omerica, seguiva sempre la sanzione.
333
166
Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene
può essere letta come il ritorno di Odisseo alla normalità, la vicenda
attraverso cui si afferma la sua consapevole adesione alla condizione
umana»334. Una condizione in cui il raggiungimento della “normalità”
e della “naturalità” richiede spesso molto coraggio.
Il più forte esempio di seduzione descritto nella Odissea fu però,
verosimilmente, quello delle Sirene. L’episodio è davvero troppo noto
affinché lo si debba descrivere nel dettaglio; le Sirene, che nella tradizione medievale erano rappresentate metà donne e metà pesce, nel
numero di tre o quattro, in Omero erano raffigurate come due donne
con ali di uccello, la cui caratteristica principale era il canto suadente,
tale che «chi ignaro approda e ascolta la loro voce, mai più la sposa e i
piccoli figli festosi lo attorniano, poiché le Sirene col canto armonioso lo
stregano» (XII, 39-46).
Odisseo fu avvertito di questo pericolo da Circe (così come più
avanti sarà aiutato da Calipso nella costruzione della zattera: a riprova
di come la sua etica riuscì sempre a mantenere un buon rapporto anche
con queste figure ambivalenti), senza il cui avvertimento egli sarebbe
sicuramente perito; le donne infatti, in Omero, si rivelano spesso pericolose, ma anche indispensabili. Il punto centrale di questo mito sta
comunque nella pericolosità seduttiva delle Sirene (che la tradizione
colloca su tre isolette rocciose vicino a Capri), pericolo che Odisseo, pur
preavvisato, decise ugualmente di affrontare in quanto le loro parole
erano descritte come parole di verità – le Sirene erano demoni dell’oltretomba, come tali veritiere335 –; per questo motivo egli pose in opera
il famoso stratagemma: tappare le orecchie dei propri compagni con la
cera, ed al contempo farsi legare stretto all’albero della nave, chiedendo
loro di non liberarlo nemmeno se egli li avesse pregati.
Così, in effetti, avvenne. Odisseo riuscì ad ascoltare il canto delle
Sirene ed, al contempo, ad evitare il triste destino di morte che colpiva gli uditori delle loro parole. L’associazione tipicamente greca fra la
seduzione e la morte è, in questo punto, davvero marcata; e per “morte”, in senso figurato, deve intendersi la perdita della umanità, dunque
della ragione e della morale, propria appunto di chi si lascia irretire
P. Vidal Naquet, Il cacciatore nero, op. cit., pag. 21.
Significativo è appunto che le Sirene promettano, a chi accoglie il loro invito, il dono
della conoscenza, dato che esse affermano di conoscere «tutto quello che avviene sulla
terra», come non è lecito ai mortali sapere. Ciò è ricordato anche da Cicerone (De finibus,
V, 48-49), e la ragione si deve al fatto che per i Greci l’Ade era il luogo della massima
conoscenza, poiché esso nascondeva l’origine di tutte le cose, la ragione ultima della vita.
334
335
167
i miti omerici
dai miraggi della seduzione. Odisseo, comunque, volle correre questo
rischio, a riprova del fatto che il pensiero omerico fu un pensiero in
cui la ricerca del piacere, sulla via della felicità e della conoscenza, era
considerata una componente necessaria, se affrontata con intelligenza
e misura.
Non resta ora che chiarire per quale motivo il mito delle Sirene risulti anche oggi di grande attualità. Ebbene: così è perché le Sirene,
nel nostro tempo, lungi dall’occupare solo tre piccoli isolotti, occupano
pressoché tutto il globo; sono molteplici, infatti, le voci che invitano
a procurarsi esclusivamente il piacere abbandonando la ragione e la
morale. Questo genere di abbandono, però, conduce inevitabilmente
alla “morte”, poiché annulla ciò che è più naturale per la vita umana;
il piacere non va evitato, ma di fronte ad esso occorre porsi con misura, poiché altrimenti esso non avvicina alla verità ed al bene, bensì ne
allontana. Questo il motivo per cui il messaggio etico di Omero, di non
farsi irretire dal canto delle Sirene per quanto affascinanti esse possano
apparire, risulta tuttora valido.
168
osPitaLità e benevoLenza:
feaci
L’Odissea, come anticipato, non fu ricca solo di modelli negativi, ma
anche di modelli positivi. Oltre ad Odisseo, l’isola dei Feaci offrì in questo senso forse il maggiore esempio, in quanto si rivelò essere l’isola
dell’ospitalità, una virtù molto amata dai Greci, ritenuta addirittura necessaria per essere considerati pienamente uomini (ad esempio Odissea,
VII, 89 ss.; IX, 287 ss.; XIV, 56 ss.; XVI, 183 ss.; XVIII, 482 ss.)336.
Raccontiamo, allora, cosa accadde allo sbarco di Odisseo. Il suo approdo nell’isola dei Feaci – l’ultima tappa prima del suo ritorno ad Itaca,
a cui sarà accompagnato proprio da questo popolo che Omero circondò
di particolare ammirazione337 – è descritto tra la fine del V e l’inizio
del VI canto; il V canto termina infatti proprio col periglioso sbarco di
Odisseo a Scheria. Sfinito per la fatica e per la fame, Odisseo giunse nella terra «in cui regnava Alcinoo, che dagli dèi ricevette in dono la saggezza» (VI, 11-12). Qui fu accolto dalla figlia del re, Nausicaa, «simile
nella figura e nell’aspetto alle dee immortali» (VI, 15-16), che ispirata da
Atena si era recata con le ancelle lungo il fiume laddove era naufragato
Odisseo. Egli, che si era addormentato esausto sulla spiaggia, sentendo
le grida gioiose della giovane, dopo otto anni in cui non faceva più
incontri pienamente umani (Lestrigoni, Ciclopi, Circe, Calipso, ecc.), fu
inizialmente preso dal consueto dubbio: «Ahimé, di quali esseri sono
ancora una volta giunto alla terra? Sono forse prepotenti e selvaggi, e
senza benevolenza, oppure sono ospitali ed hanno una mente timorata
degli dèi?» (VI, 117-121). Tuttavia, ben presto si accorse che ospitalità e benevolenza erano caratteristiche dei Feaci, ed in particolare della
giovane Nausicaa, che non fuggì alla vista del naufrago, e cui Odisseo
poté chiedere aiuto, come nella sua natura, con parole pudiche e riGli stranieri sono così cari agli dèi nella Grecia antica che, quando a Penelope giunge la
notizia che tutti i pretendenti sono stati uccisi, ella non pensa ad Odisseo, ma ritiene che
un dio per vendetta abbia ucciso tutti i Proci, poiché appunto irrispettosi dei vari stranieri
recatisi raminghi a chiedere ospitalità (XXIII, 62 ss.).
337
Significativo è che, pur dichiarando costoro di aborrire la guerra, Omero non svaluti
affatto i Feaci rispetto agli eroi dell’Iliade, ad ulteriore riprova di come «l’etica bellica» non
fosse centrale nell’opera omerica.
336
169
i miti omerici
spettose (VI, 149-183). Nausicaa fu subito conquistata dai modi pacati
ed al contempo nobili di Odisseo338, e gli rivolse innanzitutto il «dono
ospitale», che gli era stato così crudelmente negato dai Lestrigoni e dai
Ciclopi; la giovane gli disse infatti: «Poiché sei giunto alla nostra città
ed alla nostra terra, ebbene, non mancherai di una veste né di alcuna
altra cosa che si conviene ottenga un uomo che si presenti supplice»
(VI, 190-193). «Da parte di Zeus, infatti, vengono tutti i forestieri ed i
mendichi, ed ogni dono fatto loro, per quanto piccolo, è caro» (VI, 206208). Nausicaa chiarì inoltre ad Odisseo che i Feaci erano «cari agli dèi»
(VI, 203) proprio in quanto si comportavano in modo umano, ovvero
ospitale e benevolo.
Ad ulteriore riprova della grande rilevanza del mondo femminile
nell’umanesimo omerico339, Nausicaa, che accompagnò Odisseo dal
padre nella sua reggia, gli consigliò di cercare di ottenere soprattutto
il favore della madre (VI, 310-315), Arete (il cui etimo fa riferimento
in generale alle «suppliche da accogliere»), le cui parole erano sempre
molto ascoltate da re Alcinoo, il quale poteva definirsi come il sovrano
dell’isola, caratterizzata dunque – a differenza di quella dei Ciclopi – da
un centro politico (VI, 194).
Dopo il significativo episodio iniziale della accoglienza di Nausicaa,
Odisseo giunse dunque al cospetto di Alcinoo ed Arete, riuniti insieme agli altri nobili dell’isola; qui Odisseo fu rifocillato e poté riposarsi,
ma il trattamento che ricevette non può comunque definirsi perfetto.
Alcinoo lo fece certo sedere al posto del figlio accogliendolo con tutti gli
onori (VII, 165-177), ma gli domandò della sua identità ancor prima di
averlo fatto mangiare, violando una antica consuetudine greca nei rapporti coi forestieri340. Subito dopo il di lui figlio, Laodamante, lo spinse
Nausicaa capì subito che Odisseo «non è uomo stolto o malvagio» (VI, 187), e presto se
ne innamorò: «Oh, se un uomo così potesse chiamarsi mio sposo, abitando fra noi, e gli
piacesse restare!» (VI, 244-245).
339
Scrive bene, in merito, M. Zambarbieri che, «per la prima volta nella storia della poesia epica, la vita interiore di una fanciulla diventa oggetto dominante del canto» (M.
Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 494).
340
Una consuetudine confermata, ad esempio, nell’episodio di Mente-Atena nella casa
di Telemaco (I, 102 ss.), e poi di Telemaco prima presso Nestore (III, 91 ss.) e in seguito
presso Menelao (IV, 1 ss.); perfino il porcaro Eumeo la rispetta (XIV, 45 ss.).
341
«Straniero [...], tu mi sembri uno che, sempre in giro con una nave, al comando di marinai dedito a lucrosi commerci, sia sollecito del carico, intento a sorvegliare i traffici ed i
guadagni rapaci. Di un atleta non hai proprio l’aria» (VIII, 158-164). Odisseo rispose con
una occhiata sferzante, e con queste parole: «Non hai parlato bene; anzi, hai l’aria di uno
338
170
Ospitalità e benevolenza: Feaci
a partecipare controvoglia ai giochi sportivi (VIII, 145-157); la ragione
che lo condusse ad accettare fu peraltro la scortesia di un altro giovane, Eurìalo, probabile pretendente di Nausicaa, che offese Odisseo nel
modo peggiore, ossia affermando che egli aveva più l’aspetto di un
mercante che di un atleta341 (salvo poi alla fine ricredersi, avvedutosi
del valore dell’ospite; VIII, 396-412). In tutta questa sequenza Alcinoo
non intervenne in difesa dell’ospite, mostrando che anche i Feaci, «vicini di casa» di Giganti e Ciclopi, poco abituati alle umane frequentazioni, erano comunque ancora lontani da un compiuto grado di civiltà.
Nell’isola dei Feaci comunque, Odisseo, rimasto senza nemmeno la
zattera, fu costretto a chiedere a quel popolo il ritorno, e dunque a svelare la propria identità. I Feaci, mostrando la loro umanità, decisero non
solo di riaccompagnare Odisseo con una adeguata scorta navale (VIII,
30-40), ma addirittura di offrirgli un notevole numero di doni, «quanta
ricchezza da Troia mai egli avrebbe preso, se incolume fosse tornato
con la sua parte di bottino» (V, 39-40). In questa ospitalità dimostrata,
e soprattutto in questa benevolenza nel dono ad un ospite che difficilmente avrebbe potuto ricambiare (i Feaci vivevano fuori dalle rotte
abituali, e riaccompagnarono Odisseo – come sempre facevano con chi
riconducevano a casa – subito dopo avergli fatto bere un vino che procurava sonnolenza, per non fargli ricordare la rotta), si mostrò la natura
sostanzialmente serena della vita dei Feaci, lontana dai traffici commerciali che tanto temevano in quanto minaccia all’armonia comunitaria342.
Fu proprio nel ritorno di Odisseo alla propria casa che prese corpo
il tema centrale dell’Odissea; non a caso Odisseo se ne andò dai Feaci
dormendo (come se il suo viaggio fosse stato tutto un sogno), e si svegliò solo ad Itaca, che per lui costituiva appunto il ritorno alla vera vita,
stolto. È vero, non a tutti gli dèi concedono doni graditi, né bell’aspetto, né saggezza, né
accortezza di parola. Un uomo infatti può essere piuttosto meschino nell’aspetto, ma il
dio può incoronare di bellezza le sue parole, e gli altri a lui guardano pieni di diletto; egli
intanto parla senza intoppo esprimendosi con misura soave come miele, e spicca nelle
assemblee, e la gente lo guarda come un dio mentre incede per la città. Un altro invece è
per aspetto simile agli immortali, ma la grazia non orna le sue parole, come nel caso tuo:
hai un aspetto eccellente, e neppure un dio avrebbe potuto farti diversamente, ma nella
mente sei uno sciocco» (VIII, 166-177).
342
È per questo motivo che Atena, nel VII canto, mise in guardia Odisseo, ricordandogli
che i Feaci «non sopportano molto la gente straniera, né con segni di affetto si mostrano
amici a chi venga da un altro paese» (VII, 32-33). Questo avvertimento, in realtà, cadrà nel
vuoto, poiché una volta compresa l’eticità di Odisseo, i Feaci si rivelarono massimamente
ospitali.
171
i miti omerici
alla realtà. Odisseo – che come Omero, dopo lungo girovagare, aveva
«appreso i pensieri di molti» (I, 3), ossia aveva molto imparato dalle
esperienze – ritornò alla sua terra, dopo vent’anni, con immutato il suo
stabile atteggiamento etico, insieme di umanità e fermezza contro l’ingiustizia; è proprio sulla figura di Odisseo, ed in particolare sul suo
ritorno ad Itaca, che ci soffermeremo nel prossimo lungo ultimo paragrafo.
172
saGGezza e doLcezza:
odisseo
Il personaggio di Odisseo è stato così variamente interpretato nei secoli, che un buon punto di partenza per una sua descrizione può essere
costituito dalla etimologia del suo nome; anche così, però, le notazioni
che si potrebbero effettuare sarebbero le più diverse in quanto, come
ha giustamente osservato A. Lesky, «il suo nome resiste ad ogni tipo di
interpretazione»343. Se restiamo, in ogni caso, a quella che pare essere
la base etimologica più accettata del nome di Odisseo, essa dovrebbe
fare riferimento al verbo greco che significa «odiare, andare in collera»,
sicché potremmo pensare che il significato del suo nome sia «colui che
odia, che va in collera»; se però analizziamo i poemi omerici, scopriamo
che Odisseo non centralizzò mai i sentimenti dell’odio e della collera
(i quali, quando emergono, come negli episodi dei Ciclopi e dei Proci,
sono semmai conseguenze della sua concezione etica della giustizia),
e dunque il suo nome si potrebbe forse meglio interpretare come «colui che è odiato (e di tale odio sopporta il dolore)», alla luce appunto
dell’ira di Poseidone, che per anni gli impedì il ritorno.
Non fu comunque nemmeno l’odio di cui fu fatto oggetto dal dio del
mare, a caratterizzare principalmente la sua figura. L’etimologia, che in
molti casi è utile per ben inquadrare i problemi, in questo caso non ci
aiuta; e non ci aiuta nemmeno, come si è già ricordato in precedenza,
la letteratura successiva, che ha dato nei secoli almeno due immagini
di Odisseo che non corrispondono affatto al suo personaggio: quella di
astuto ingannatore e quella di imprudente esploratore. Odisseo fu invece,
come scrisse già il retore Eraclito nelle sue Allegorie omeriche (70), «strumento di tutte le virtù, che Omero si forgiò per insegnare la saggezza»;
si tratta di una interpretazione molto diffusa nella antichità344, alla quale ci associamo pienamente, e che la modernità ha purtroppo smarrito,
come in questo ultimo lungo paragrafo argomenteremo.
A. Lesky, Storia…, op. cit., vol. I, pag. 49.
Ciò è stato ampiamente mostrato da F. Buffière, Les mythes d’Homère et la pensée grecque,
Paris, 1956, pagg. 365-391. Per Antistene (fr. 26 Mullach) Odisseo fu il più pio degli eroi,
in quanto non fece mai nulla se non con il loro assenso.
343
344
173
i miti omerici
Ci siamo già in precedenza soffermati a commentare quanto le due
interpretazioni prevalenti della figura di Odisseo siano scorrette: egli,
infatti, mentì solo – ed in pochi casi – per salvare la vita a sé ed ai propri compagni (come recita lo stesso proemio dell’Odissea, I, 5 ss.); allo
stesso modo, egli non ricercò mai l’avventura fine a se stessa, ma solo in
quanto funzionale al suo ritorno a casa o, in subordine, alla conoscenza.
Tuttavia, fin dall’antichità, sono prevalenti interpretazioni di Odisseo,
come di altri antichi miti (ad esempio Prometeo), che ne stravolgono il contenuto originario presente nei poemi classici; pensiamo soltanto, nella contemporaneità, agli “Ulisse” di D’Annunzio, Gozzano,
Malerba, Pound, Joyce, Eliot e molti altri345.
Tutte queste interpretazioni “creative” parrebbero costituire, per il
lettore contemporaneo abituato alla inconcludente “pluralità” delle letture relativistiche, un arricchimento della tematica classica; la nostra
tesi è invece, in merito, differente. I miti classici vanno infatti rispettati
per quello che sono, e l’unico modo di rispettarli è riflettere a partire da
essi, approfondendoli e non trasformandoli a proprio arbitrio; gli eroi
omerici furono certo molto profondi, e non monocordi (come invece
ritenne Vico), ma non per questo la loro interpretazione deve essere
caratterizzata dalla ambivalenza. Chi, fra i moderni autori, si approccia
agli antichi miti con eccessiva originalità, ovvero utilizzandone il nome
ma attribuendo poi a questo nome contenuti differenti, non rende a
nostro avviso un buon servizio al pensiero classico, in quanto ne stravolge il messaggio in un’epoca in cui, peraltro, tale messaggio – importantissimo – è sempre meno considerato. La cosa curiosa, in merito, è
che questi innovatori di antichi miti si credono molto “rivoluzionari”
nell’elaborare le proprie interpretazioni postmoderne (che mostrano ad
esempio Odisseo preda delle passioni e delle alienazioni della nostra
Fra le varie interpretazioni di Odisseo in questo senso, vi è quella – che menzioneremo
a titolo esemplificativo – del giornalista Indro Montanelli, scarso conoscitore del mondo
greco ma, come tutti i moderni liberali, spesso portato a parlarne male; a suo avviso,
infatti, «Ulisse, presentato come esempio e modello, è uno dei più sfacciati mentitori ed
imbroglioni della storia», la cui «misura della grandezza è fornita solo dal successo» (I.
Montanelli, La storia dei Greci, Mondadori, Milano, 2002, pag. 33). È evidente come qui
Montanelli utilizzi i criteri utilitaristici e pragmatici del proprio tempo per spiegare l’antica Grecia, con effetto, però, a metà tra il comico e l’irritante. Non ci si può del resto
aspettare molto da chi afferma che «il disprezzo di Eraclito per gli uomini era tale che, di
proposito, egli volle scrivere in modo da non farsi capire» (ibidem, pag. 75), e per cui «il
tratto fondamentale e permanente dei Greci fu il particolarismo» (ibidem, pag. 43).
345
174
Saggezza e dolcezza: Odisseo
epoca); costoro non si accorgono, in maniera comica, di essere in realtà
degli ultraconservatori, in quanto interpretano anche gli antichi miti coi
codici del proprio tempo. I veri “rivoluzionari”, oggi, sono infatti gli
interpreti fedeli dei miti classici, in quanto essi rappresentano contenuti
umani in radicale opposizione a quelli dominanti nel nostro tempo; ovviamente, per fare questo – e ciò non è affatto scontato per gli studiosi
accademici dediti agli specialismi – occorre essere in grado di saperli
ben interpretare sul piano etico e “politico”346.
Tutto ciò è molto importante per chiunque voglia leggere in termini
filosofici la classicità. Lo svilimento dei miti classici riflette infatti lo svilimento dell’uomo che – per effetto soprattutto delle dinamiche sociali
disumane del modo di produzione capitalistico – la contemporaneità
sta sempre più rapidamente portando avanti. Rendere gli antichi miti
variopinti ed estraniati come gli uomini del nostro tempo ha, da un
lato, una funzione “rassicurante” (poiché non pone come modelli degli
esempi di umanità, giustizia, coraggio, ai quali è oggi difficile adeguarsi); questa “rassicurazione” tuttavia è tale solo per gli uomini plasmati
dalle modalità sociali dominanti, le quali hanno appunto bisogno, per
il proprio funzionamento, di strutture della personalità fragili e standardizzate (e non certo di modelli umanistici). L’anticapitalismo più
temibile non è infatti quello di chi urla scalmanato in corteo contro il
“nemico” – spesso peraltro inveendo contro un “surrogato” del nemico
principale, costituito appunto dal modo di produzione sociale nel suo
insieme –, ma quello umanistico di chi ricerca “l’amico” nell’uomo, in
ogni uomo proprio per la sua umanità, che come tale deve sempre ottenere un livello di vita dignitoso.
Senza eccedere in discorsi troppo generali, e tornando dunque ad
Odisseo, ci pare che la principale “ideologia” moderna da sfatare intorno alla sua figura sia quella che lo vede come un viaggiatore “centrifugo”, volto cioè a viaggiare solo per conoscere il mondo, anziché
come un uomo “centripeto”, volto cioè a viaggiare solo per ritornare
alla propria casa. La modernità è spesso portata a pensare la illimitatezza, la mobilità, la sradicatezza; la grecità, invece, era portata a pensare
la limitatezza, la stabilità, la comunità: in Omero infatti, come mostrato, le idee di «limite» e di «misura» erano addirittura centrali sul piaCi siamo soffermati su queste tematiche in un saggio a commento di un libro di G.
Giorello (Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito, Cortina, Milano, 2004), nel libro Il
presente della filosofia italiana, Petite Plaisance, Pistoia, 2007, pagg. 66-78.
346
175
i miti omerici
no etico347. Come ha scritto correttamente A. Jellamo, «ad ogni essere
è dato di muoversi entro certi confini, e non oltre; ogni violazione di
confini costituisce un illecito, perché ogni violazione di confini significa invasione di confini di altri. Questo aspetto emerge già nel mondo
omerico»348; per questo è corretto sostenere, come ha fatto giustamente
E. Turolla, che i viaggi di Odisseo furono mossi esclusivamente dalla
nostalgia del ritorno, tanto che egli rappresentò «lo spirito greco che,
posto di fronte all’infinito, allo sconfinato, al senza limiti, tenta di salvarsi, rifugge da esso e reagisce»349.
Ciò non fu invece compreso dalla famosa interpretazione di Odisseo
di Dante Alighieri, che è all’origine dei molti fraintendimenti della
modernità sulla sua figura350. Abbiamo in precedenza ricordato come
l’Odisseo dantesco ammonisse gli uomini a non vivere come bruti, bensì a seguire virtù e conoscenza; il suo viaggio, in questo senso, può realmente essere interpretato come metafora della ricerca della buona vita.
Tuttavia Dante – che non conosceva direttamente né l’Iliade né l’Odissea351, e che fu dunque influenzato dai commentatori antichi (in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio)352 – errò nell’attribuire ad Odisseo
la volontà di oltrepassare ogni limite conosciuto, ossia ad attribuirgli il
«folle volo» verso l’ignoto e la morte (Inferno, XXVI, 49-142; il famoso
oltrepassamento delle «colonne d’Ercole»)353; Odisseo infatti finalizzò
la propria sete di conoscenza e di esperienza al ritorno a casa, ossia alla
Ci permettiamo di rinviare, in merito, a D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo,
op. cit.
348
A. Jellamo, Il cammino di Dike, op. cit., pag. X.
349
E. Turolla, Saggio sulla poesia di Omero, Laterza, Roma-Bari, 1930, pagg. 219 ss.
350
Oltre a Dante Alighieri, anche per Francesco Petrarca Odisseo fu colui che «desiò
del mondo veder troppo» (Francesco Petrarca, Trionfo della fama, 17-18), così come per
Torquato Tasso Odisseo fu uomo «di veder vago e di saper» (Torquato Tasso, Gerusalemme
liberata, XV, 25-26).
351
G. Martellotti, Omero, in Enciclopedia dantesca, IV, 1973, pagg. 145-148.
352
Dante pose Omero nel primo cerchio dell’Inferno, il Limbo, ma non fece mancare all’aedo la propria vicinanza, presentandolo come «Omero poeta sovrano», «signor de l’altissimo canto, che sovra gli altri com aquila vola», a capo della «bella scola» dei poeti più
grandi (IV, 88, 94-96).
353
Dante cadde peraltro anche nell’ulteriore diffuso pregiudizio su Odisseo, ponendolo,
nella bolgia infernale dell’VIII cerchio, tra i «consiglieri di frode», ovvero fra coloro che
utilizzarono la propria intelligenza per fini non morali. Dante subì in questo senso, verosimilmente, l’influenza di Pindaro, di Euripide (Ecuba, Ifigenia in Aulide, Troiane), nonché
di Sofocle (Filottete, Aiace), in cui Odisseo fu così rappresentato; quanto questa condanna
sia ingiusta sarà chiarito nelle prossime pagine.
347
176
Saggezza e dolcezza: Odisseo
buona vita, come si è già qui mostrato354. Come ancora mostreremo, peraltro, nelle pagine seguenti, il “vero Odisseo”, ossia l’Odisseo più antico, l’Odisseo di Omero, fu colui che costruì il letto nuziale della propria
casa intagliandolo in un ulivo le cui radici costituivano le fondamenta
della casa stessa, che egli aveva innalzato pietra dopo pietra, segno di
costanza, di stabilità, di continuità dei valori comunitari.
Sono davvero molteplici le interpretazioni fuorvianti della figura di
Odisseo. James Joyce, in questo senso, pur essendo fra i primi ad avvicinare Omero alla inquietudine moderna, fu fra i pochi che fecero ritornare Odisseo alla propria casa, alla famiglia, ai valori di sempre; per
la maggior parte degli altri interpreti moderni (pensiamo ad esempio
al romanzo di Lion Feuchtwanger, Ulisse e i maiali, del 1950) Odisseo
è destinato a non ritornare, ossia a smarrirsi in quel viaggio della vita
che, a loro avviso, può essere solo un nichilistico naufragio. Questa interpretazione postmoderna di Omero, come già rimarcato, risulta non
solo lontana dalla reale intenzione dell’antico poeta, ma per molti versi anche dannosa355; molto più corretta risultano essere, in tal senso,
l’interpretazione latina di Orazio per il quale Odisseo fu «modello di
virtù e saggezza» (Ep. I, 2, 17-18), e l’interpretazione di Cicerone che lo
Come ha correttamente sostenuto G. Cerri, «chi non ha sperimentato [e compreso; L.
G.], segue la felicità in paesi lontani; chi ha sperimentato e ha saputo elaborare la propria
esperienza, sa che non c’è felicità vera fuori dal proprio contesto sociale; il sogno, per
chi non ha sperimentato, può essere attrazione fatale; per chi ha sperimentato il sogno è
sogno, la realtà è realtà, e vale infinitamente più del sogno» (in S. Nicosia, a cura di, Ulisse
nel tempo, op. cit., pagg. 46-47). Per Odisseo, «il trasferimento definitivo è sradicamento,
annullamento dell’identità personale; chi lo scegliesse, non costretto dalle circostanze ma
in vista di una felicità fantomatica, si trasformerebbe davvero, da uomo, in uno dei maiali
ben nutriti di Circe. Odisseo è ora più sapiente [...] perché ha distillato in sé questa verità
suprema: l’uomo è le sue radici» (ibidem, pag. 47).
355
Una delle peggiori interpretazioni postmoderne di Odisseo, a conoscenza di chi scrive, risulta essere quella di P. Citati, secondo cui «gli uomini moderni [...] assomigliano
ad Ulisse: sono colorati, variegati, molteplici, fatti di mille frammenti e di mille volti,
e si volgono da tutte le parti, come il polpo cui Ulisse assomiglia» (P. Citati, La mente
colorata. Ulisse e l’Odissea, Mondadori, Milano, 2002, pagg. 20-21). Non molto migliore ci
pare essere la descrizione di S. Nicosia, che così lo delinea: «eroe dai molti nomi, dalle
molte identità, duttile, versatile, ambiguo, multiforme, non scolpito a grandi tratti [...] ma
plasmato e plasmabile, di volta in volta, secondo le circostanze, posto sotto il segno della
complessità, capace di inventare e di inventarsi, Ulisse sembra veramente coprire l’intera
gamma delle possibilità fra due opposti, ed avere tante individualità quante sono le forme dell’esistenza umana. È ognuno e ciascuno, o nessuno» (S. Nicosia, a cura di, Ulisse
nel tempo, op. cit., pag. 19). Proprio per questa sua ambivalente descrizione – che ha certo
delle basi nell’Odissea ma che a nostro avviso non va centralizzata – egli «intraprenderà,
dopo Omero, l’ultimo e più straordinario dei suoi viaggi: quello, senza fine e senza oriz354
177
i miti omerici
descrisse come il sapientissimus graeciae (De finibus, II, 29, 48), nonché
quelle moderne di Shakespeare e Goethe, di analogo tenore.
Fra le varie “degradazioni” subìte dal personaggio di Odisseo, in
epoca antica, medievale e moderna, può essere interessante segnalare
quella di parte marxista, dalla quale anche stavolta prendiamo le distanze356; in base ad essa, non solo Odisseo ma tutta l’opera di Omero
sarebbe da condannare in quanto espressione di una “civiltà aristocratica”, pertanto con poco da insegnare, sul piano etico, alle “democrazie
sociali moderne”. Questa tesi si basa, sul piano teorico, sullo storicismo
relativista tipico del marxismo (per cui ciò che viene dopo è meglio di
ciò che viene prima), e sul piano filologico soprattutto su un episodio;
si tratta, con le parole di M. Vegetti, «del celebre episodio di Tersite
nel libro II dell’Iliade (212 ss.), con il plebeo Tersite che osa prendere
la parola nell’assemblea degli eroi e viene irriso e percosso; ciò avviene non perché egli sia incapace di adeguarsi al modello eroico (per la
sua condizione sociale questo è impossibile ed impensabile), ma perché
non accetta la regola di esclusione insita nel modello»357, ovvero il fatto
che i membri del popolo non possano nemmeno prendere la parola nei
confronti degli aristocratici.
Questa tesi, tuttavia, non può essere ritenuta corretta. Nel nostro
Diritto e proprietà nella Grecia classica abbiamo infatti mostrato come la
società omerica fosse discretamente aperta alla partecipazione cittadina; molto più verosimile è dunque che Tersite sia stato percosso e zittito
da Odisseo, come già abbiamo rimarcato, solo in quanto, con le proprie
critiche, egli contribuiva a demoralizzare le truppe, ponendosi – in maniera «priva di misura, continuando a schiamazzare» (II, 212) – contro
il bene comune della coalizione greca. Odisseo, scettro in mano, lo redarguì in effetti soprattutto per ristabilire l’ordine (II, 278-332), ovvezonte, nella dilatata dimensione del mondo, attraverso i secoli e le culture più disparate,
sempre pronto a mutare fisionomia e identità, aperto ad ogni possibile metamorfosi»
(ibidem, pag. 20).
356
Molto spesso siamo stati associati al pensiero marxista, o generalmente “di sinistra”,
ad esempio da E. Berti (in E. Berti - L. Grecchi, A partire dai filosofia antichi, citato), e da C.
Vigna (in C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, citato; proprio in quest’ultimo libro,
su questo punto, ci rende giustizia però la postfazione di C. Preve).
357
M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pag. 15. Le parole di Vegetti riflettono comunque
l’interpretazione dominante, in quanto anche G. Pasquali definì Tersite come «un plebeo
riottoso, che vuole in qualunque caso ed a qualunque costo opporsi ai notabili, e si serve
ai suoi fini di certo spirito di bassa lega» (G. Pasquali, Pagine stravaganti, La Nuova Italia,
Firenze, 1968, vol. II, pag. 114).
178
Saggezza e dolcezza: Odisseo
ro per poter così parlare, nel silenzio, alla moltitudine, ricordando che
Calcante aveva predetto la vittoria degli Achei al decimo anno, e che
dunque era necessario portare ancora un po’ di pazienza e perseverare,
poiché le sorti stavano per mutare a loro favore; contrariamente ai nostri contemporanei che ridono per le ingiurie ai potenti dei vari comici
alla Beppe Grillo, gli antichi le ascoltavano e le prendevano in considerazione, ma sempre avendo come prioritaria la realizzazione del bene
comune. Fu per lo stesso motivo – dunque non per disprezzo, ma per
segnalare la sua disutilità sociale – che Omero descrisse Tersite come
caratterizzato principalmente da difetti fisici e psichici (II, 217-219), e
che Platone, nella Repubblica (620 C), ne immaginò la trasformazione
post mortem in una scimmia.
Il fatto che Tersite sia percosso, sostanzialmente, per aver mosso ad
Agamennone le stesse critiche (viltà, avidità, prepotenza) che prima di
lui gli rivolse Achille, e che poi gli rivolgerà Odisseo358, lascia pensare
che non sia stato il contenuto, bensì la forma della sua critica, ad essere
stata poco gradita ad Odisseo. Non ci convince invece la interpretazione dominante359, secondo cui i poemi omerici distinguerebbero chiaramente fra nobili e popolani, con la attribuzione solo ai primi del diritto
di parola; secondo questa interpretazione, infatti, solo i primi sarebbero
tenuti all’aidos, mentre i secondi, schiavi del bisogno, avrebbero dovuto
non attenervisi (pena la morte per fame), sicché a loro non sarebbe propria alcuna norma etica360. Con questa tesi non ci è possibile concordare, sia in quanto essa pare incompatibile con il tessuto sociale omerico,
sia in quanto essa condurrebbe la normativa etica presente nei poemi
omerici ad escludere la quasi totalità degli uomini, col risultato – che
non poteva non essere noto ad Omero (peraltro non nobile) – di favorire un antiumanistico imbarbarimento generale, ossia l’esatto opposto
Quando Agamennone, nel canto XIV, propose agli eroi la fuga da Troia, Odisseo lo
chiamò «disgraziato» e lo umiliò: «Taci, che nessun altro degli Achei ascolti queste parole,
che non dovrebbero stare sulla bocca di un uomo di senno, capace di fare giuste proposte, munito di scettro ed a cui obbediscono tanti uomini quanti sono gli Argivi su cui tu
regni» (90-94).
359
È possibile ancora citare, fra i tanti, M. Detienne, per il quale «quando Tersite alza la
voce, Ulisse non cerca di convincerlo a parole: lo batte a colpi di scettro. Tersite è il plebeo» (M. Detienne, I maestri…, op. cit., pag. 74). Plebei erano però anche gli altri guerrieri,
eppure Odisseo non si comporta con loro nel medesimo modo.
360
Come ha affermato in merito anche E. Cantarella, «l’uomo in bisogno, il povero, non
deve sentire aidos [...]. La vergogna non gli appartiene, dunque non può né commettere
né subire hybris» (E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 80).
358
179
i miti omerici
di quanto egli verosimilmente si proponeva. L’umanesimo omerico,
come già abbiamo rimarcato, volle infatti porsi una portata universalistica molto più ampia, sicché occorre, a nostro avviso, ripensare alla
tesi secondo cui Odisseo ed Omero sarebbero espressioni di una civiltà
aristocratica in contrapposizione alla classe popolare (contrapposizione
che del resto non emerge mai, ad esempio, nei rapporti fra Odisseo e
i suoi compagni); l’opposizione centrale, in Omero, non fu quella fra
nobili e proletari (che pure c’è ed è sempre esistita, come hanno giustamente sostenuto Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista),
bensì quella fra misura e dismisura, giustizia e tracotanza, moralità ed
amoralità.
Per comprendere questo, però, può essere utile entrare nella dimensione più quotidiana di Odisseo, che fu sempre, sostanzialmente, una
dimensione umanistica. Come ha affermato infatti anche W. Jaeger,
Omero «va apprezzato quale primo e massimo creatore e plasmatore
dell’umanità greca [...]. Infatti, educativa in senso proprio non può essere se non una poesia le cui radici si addentrino negli strati profondi dell’essere umano, nella quale viva un ethos, uno slancio superiore
dell’animo, una immagine dell’umano che accomuni e vincoli gli uomini»361. «In tutto Omero si manifesta una larga veduta filosofica della
natura umana, e delle leggi eterne che reggono il corso del mondo [...]
appare in lui in luce vivissima il carattere antropocentrico del pensiero
greco. Omero conferisce nel modo più deciso all’uomo ed alla sua sorte
un interesse preminente, ma lo considera sempre secondo la prospettiva delle idee universali e dei problemi della vita più alti»362.
Per quanto concerne propriamente Odisseo, la dimensione etica del
suo personaggio fu compresa, fra i primi, proprio da Platone. Abbiamo
già accennato, in precedenza, al mito di Er presente nel libro X della
Repubblica; in questo mito così è descritto il comportamento dell’anima
di Odisseo nella Pianura della Verità, in cui essa si trovò a scegliere il
proprio destino nella imminente reincarnazione: «L’anima di Odisseo,
a cui la sorte aveva riservato proprio l’ultimo posto di tutti, si avviò
alla scelta lasciando da parte ogni desiderio di gloria, memore della
sofferenza della vita precedente; si aggirò pertanto a lungo, alla ricerca
della vita di un uomo qualunque senza preoccupazioni, e la trovò a
fatica, relegata in un angolo, trascurata dagli altri. Non appena la scor361
362
W. Jaeger, Paideia, op. cit., pag. 88.
Ibidem, pag. 114.
180
Saggezza e dolcezza: Odisseo
se, la prese di buon grado, dicendo che mai avrebbe fatto altra scelta,
neppure se fosse stata sorteggiata per prima» (X, 620 C-D)363. Questa,
a nostro avviso, la reale etica quotidiana attribuita ad Odisseo, confermata anche dalla narrazione di Igino nelle Favole (95), in base alla quale
Odisseo, da poco padre di Telemaco, non sarebbe voluto affatto partire
per Troia; incurante della gloria eroico-aristocratica, egli giunse infatti
addirittura a fingersi pazzo pur di continuare a poter vivere, in una
dimensione comunitaria, accanto alla moglie, al figlio, ai genitori ed
ai concittadini. Se si pongono in secondo piano questi contenuti, non
solo non si può ben comprendere la figura di Odisseo, ma non si può
nemmeno ben comprendere l’etica umanistica della Grecia omerica,
che non fu affatto tutta orientata – come spesso si sente dire – sui valori
eroico-aristocratici364.
Odisseo fu l’uomo del nostos (Odissea, IX, 37), ovvero colui che soffrì
più di ogni altro per la nostalgia del mancato ritorno, e che fece ruotare
tutta la propria vita intorno ad Itaca ed alla comunità famigliare365, tanto che descriverlo come un viaggiatore senza meta e senza ritorno costituisce la incomprensione più grande della sua essenza. Odisseo soffrì
sempre lontano da casa, e l’esperienza della lontananza gli fece comprendere, specie nell’Odissea, che la vera felicità si trova solo nella stabilità di affetti della comunità, dove sono insieme le radici e la memoria;
ciò nonostante egli si mostrò sempre eroico nella propria capacità di
sopportare la dimensione passiva dell’esistenza, ovvero di sopportare
i tanti dolori che nella vita accadono non voluti; come ha scritto infatti
Eva Cantarella, in Omero «Itaca non è una metafora. È un luogo reale,
una piccola comunità greca che sta dandosi le strutture fondamentali
di quella che verrà chiamata una organizzazione politica. O meglio: è il
Si afferma spesso, come ricordato, che Platone fu sempre e solo critico nei confronti
di Omero, sostenendo ad esempio che Omero «non si intende della verità, ma solo delle
apparenze» (X, 600 E), oppure che egli esaltasse solo gli aspetti emotivi dell’uomo (603
C-605 A). Questo però non impedì a Platone di comprendere correttamente la figura di
Odisseo.
364
Sintetizza stavolta correttamente la sua figura S. Nicosia, affermando che «Ulisse è
eroe culturale per eccellenza, in quanto ha una straordinaria capacità di superare il dato
naturale conferendogli senso all’interno di un sistema di valori» (S. Nicosia, Ulisse nel
tempo, op. cit., pag. 19).
365
Lo dice, del resto, lo stesso proemio dell’Odissea: «Molti dolori soffrì nel suo cuore, lottando per salvare la vita ed il ritorno dei compagni» (I, 4-5). «Tutti gli altri eroi, che erano
sfuggiti alla morte repentina, erano tornati a casa, scampati alla guerra ed al mare. Lui
solo, pur bramoso del ritorno e della sua donna, lo tratteneva la ninfa Calipso» (I, 11-15).
363
181
i miti omerici
prototipo di una delle tante comunità di questo tipo realmente esistite
in terra greca in un momento che non può essere successivo all’VIII
secolo [...]. Una città con i suoi abitanti, le sue case [...], la sua piazza
(agore), dove si riunisce l’assemblea del popolo. Il prototipo, insomma,
di una comunità che si appresta a diventare una polis, l’organizzazione
politica di cui Atene resterà il modello insuperato, o quantomeno più
conosciuto, e di cui Itaca presenta già in embrione gli elementi caratterizzanti»366. Una comunità di cui la famiglia rappresenta il nucleo più
solido.
Proprio per questa prevalente dimensione etico-sociale della sua figura, dunque, non concordiamo affatto con affermazioni quali quella
di Luigi Zoja, secondo cui «Odisseo [...] è contaminato dall’utilitarismo
e prepara le leggi del mercato», e secondo cui, per il proprio presunto
relativismo, egli «strizzerebbe l’occhio alla modernità»367; Zoja è però
interprete intelligente, tanto che solo qualche pagina dopo giunge correttamente ad affermare che «il luogo comune che vuole che Ulisse sia
il campione della furbizia è un punto di vista limitato. Ulisse rimane
affidabile e coraggioso nonostante i suoi sotterfugi [...], e si rivela l’unico modello onesto, riscattando sé stesso e noi con questa onestà»368. Il
fatto che la dimensione famigliare sia propria dell’etica di Odisseo non
deve del resto stupire, in quanto essa fu, come detto, propria di tutta
l’epoca omerica. Essa fu infatti centrale anche nell’Iliade (pensiamo ai
già citati episodi Ettore-Andromaca ed Ettore-Priamo), ma lo divenne soprattutto nell’Odissea369; non è un caso che quando Odisseo scese
nell’Ade, oltre ad incontrare la propria madre con scena straziante che
ora descriveremo, chiese innanzitutto notizie della sposa e del figlio
(così come del resto fece Agamennone, che chiese ad Odisseo di Oreste,
E. Cantarella, Itaca, op. cit., pag. 11. Queste le parole di Odisseo: «Non c’è nulla di più
dolce della propria patria e dei genitori, anche per uno che lontano, in terra straniera,
abiti una ricca dimora» (IX, 34-46).
367
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 87.
368
Ibidem, pag. 103.
369
La sofferenza di Odisseo, che come fra breve mostreremo ne caratterizza il personaggio, è propria di tutta la sua famiglia. Oltre infatti alla madre, che morì di dolore proprio
a causa della sua lunga assenza e della incertezza sulla sua sorte (XI, 202-203), ed alla
moglie di cui fra poco parleremo, anche il padre Laerte, dopo la scomparsa di Odisseo,
«non veniva più in città, ma viveva nel suo dolore, lontano, in campagna» (I, 187-189).
366
182
Saggezza e dolcezza: Odisseo
e così come fece Achille, che domandò del figlio Neottolemo e del padre
Peleo)370.
Quando Odisseo vide la madre Anticlea nell’Ade, «che io avevo lasciato viva al momento di partire per la sacra Ilio, scoppiai in lacrime»
(XI, 85-87). Poiché però egli si era ivi recato per incontrare l’indovino
Tiresia, il quale avrebbe dovuto indicargli il suo destino, non permise
nemmeno alla madre di avvicinarglisi prima di avergli parlato; come
ha commentato giustamente Zambarbieri, «nemmeno per il più tenero
degli affetti Odisseo transige di fronte all’interesse supremo. La decisione di non sottoporsi al colloquio con la madre prima di avere ascoltato
la profezia di Tiresia, è in armonia con la mentalità arcaica che antepone
sempre gli interessi della comunità a quelli individuali»371. La profezia
di Tiresia, come noto, previde ad Odisseo il ritorno, ma gli prescrisse
anche quell’ultimo viaggio, non appena sarà tornato ad Itaca ed avrà
sconfitto i Proci (XI, 126-34), su cui si soffermarono poi molti autori antichi e moderni372, ma che non è oggetto del nostro libro. Quanto ci preme qui è solo rilevare come, dopo aver udito la profezia, Odisseo restò
impassibile e – a riprova della forza dei legami famigliari – chiese solo
a Tiresia cosa poter fare per farsi riconoscere dalla madre e parlargli (XI,
134-149). Adempiuto il rito, la madre gli raccontò come Penelope gli
fosse rimasta costantemente fedele (come del resto anche Agamennone
gli aveva ricordato, in XI, 445-446), della maturità di Telemaco, e della
dolorosa vecchiaia del padre Laerte che, ritiratosi a vivere in campaCome ha scritto giustamente L. Zoja, «il poeta ci ha fatto sapere che il legame tra vivi
e morti e quello tra padri e figli sono la stessa cosa. Sui padri possiamo sempre contare
perché, anche da morti, il loro pensiero è con noi» (Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 111).
371
M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, vol. I, pag. 765. La medesima tesi è stata sostenuta
anche da G. Cerri, per il quale Odisseo ricercò soprattutto «la dedizione al bene ed alla
collettività», grazie al suo «sapere sull’uomo [...] funzionale soprattutto in senso comunitario» (in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo, op. cit., pagg. 38-39).
372
Fra gli autori antichi è possibile citare Museo, Eugammone di Cirene, Apollodoro e
Pausania. Fra gli autori moderni, è interessante ricordare i due poemi di Giovanni Pascoli
(Il sonno di Odisseo e L’ultimo viaggio), secondo cui il viaggio, inteso come meta da raggiungere e prova da superare, rappresenterebbe il senso stesso della vita di Odisseo. Nei poemi di Pascoli Odisseo, vecchio e canuto, privo di ragioni per vivere, si imbarcò coi suoi
vecchi compagni, mentre Penelope dormiva, per un lungo ultimo viaggio a ritroso presso
Circe, i Lotofagi, le Sirene, fino a morire tra le braccia di Calipso, forse rimpiangendo di
aver scelto la sorte dei mortali. Questo Odisseo alla ricerca della vita vissuta, del passato
e della giovinezza, è certo molto romantico, ma è non fedele all’Odisseo di Omero, per il
quale la vita vera è solo sulla terraferma, mentre la vita in mare, dedita al girovagare, è
adatta solo ai pesci (Odissea, III, 177).
370
183
i miti omerici
gna coi servi, «sta inerte nel suo dolore, e fortemente accresce nel petto
l’angoscia per lo struggente desiderio del tuo ritorno» (XI, 193-195). E
continuò Anticlea, lamentando proprio la morte per il dolore dal distacco dal figlio: «Così anch’io cedetti alla morte [...] la nostalgia di te,
il rimpianto della tua nobile saggezza, caro Odisseo, il ricordo della
tua tenerezza mi privò della vita dolcissima» (XI, 197-203). Al che egli
cercò di abbracciare la madre, ma invano, in quel modo struggente che
sarà poi ripreso anche dalla antica letteratura occidentale: «Tre volte mi
gettai verso di lei come il cuore mi dettava di abbracciarla, ma tre volte
mi volò via dalle braccia, simile ad un’ombra o ad un sogno; ed in me
nasceva ogni volta, nel cuore, un dolore più acuto, sicché le rivolsi queste parole: Madre, perché non mi aspetti mentre voglio abbracciarti, per
saziarci di gelido pianto ambedue, gettandoci anche nell’Ade le braccia
intorno?» (XI, 206-212)373.
La dimensione etica di Odisseo si manifestò inoltre in molti episodi,
in cui egli si caratterizza per una dolcezza quasi mai presente nei poemi omerici, se si eccettuano la figura di Ettore, l’episodio di Patroclo
con Briseide (Iliade, XIX, 300), di Zeus con la figlia Atena (Odissea, II,
230-234) e pochi altri (Iliade, IV, 361; Odissea, II, 47; XIV, 139). Come ha
correttamente sostenuto E. Cantarella, «Odisseo alla giustizia affianca
un’altra virtù, ancor più difficilmente collocabile della giustizia nell’etica omerica del successo: la dolcezza»374; egli fu infatti «il solo personaggio che la dolcezza contribuisce in qualche misura a delineare. Ed è
personaggio che possiede dolcezza (oltre che giustizia) non solo e non
tanto come qualità personali, ma come qualità di governo»375, come tali
dunque strutturali alla cultura ed alla società omerica. Sintomatiche di
questa umanità di Odisseo sono le lacrime (anche se, a dire il vero, spesso esse rigano pure il volto di Achille e di altri personaggi molto meno
nobili); egli – contravvenendo in parte alla buona norma della misura
373
Qui emerge la grande umanità di Omero; il poeta ricorda la scena dell’Iliade (XXIII, 99101), quando Achille cercò invano di abbracciare l’anima di Patroclo. La scena fu ripresa
da Virgilio nell’Eneide, sia quando Enea cercò invano di abbracciare l’anima di Creusa
(II, 792-794), sia quando cercò di farlo con l’anima del padre Anchise (VI, 700 ss.). Anche
Dante, come noto, ripeté analoga scena non riuscendo ad abbracciare l’anima dell’amico
Casella (Purgatorio, II, 80-81).
374
E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, op. cit., pag. 149.
375
Ibidem, pag. 150.
184
Saggezza e dolcezza: Odisseo
e del dolore – ne versa infatti in gran copia ed in diverse occasioni376.
Il significato di queste lacrime è, ad avviso di chi scrive, tutto da ricercare nella sofferenza di un uomo che, costretto ad abbandonare la
casa e gli affetti, non riusciva a fare ritorno al luogo che solo costituiva
la radice di senso della propria vita. Tuttavia, dato che queste lacrime
contengono molti significati, fa bene Zambarbieri a rimarcare che «la
critica ha scoperto [...] nelle lacrime dell’eroe percosso dalle sventure,
un duplice significato. Anzitutto Odisseo piange per il segreto rimorso
di aver provocato anche lui, come gli altri e più degli altri, lutti e rovine;
ma egli piange come una delle sue vittime perché scopre che l’insensatezza della guerra non risparmia nessuno [...]. Questo messaggio ideale
dell’Odissea segna una frattura con l’etica eroica del mondo arcaico»377.
Odisseo, in effetti, fu costretto ad affrontare la guerra e vi partecipò
come un dovere, non alla ricerca della gloria; la sua dimensione esistenziale più propria fu, in questo senso, quella della armonia della pacifica
vita comunitaria, non quella disordinata e violenta del conflitto378. Per
Odisseo, «niente è più dolce del proprio paese e della propria famiglia» (Odissea, IX, 37-39), e, data la centralità del personaggio, questo
conferma ancora di più la nostra interpretazione umanistica dell’opera
omerica.
Come la maggior parte degli interpreti ha colto, la sofferenza fu una
dimensione importante della esistenza di Odisseo, tanto che perfino
gli dèi provarono compassione per lui; Atena stessa, ad esempio, parlò
così: «il mio cuore si spezza al ricordo di Odisseo saggio ed infelice che,
lontano dai suoi cari, da lungo tempo soffre e si tormenta in un’isola
In particolare, presso Calipso, egli ne versò ogni giorno per sette anni (V, 82-84); tuttavia, Odisseo pianse anche quando rivide il proprio cane Argo, così come quando rivelò la
propria identità al figlio (XVI, 204-205), e quando rivide il proprio padre (XXIV, 226-240).
377
M. Zambarbieri, L’Odissea com’è, op. cit., vol. I, pag. 615. Il “pacifismo” di Odisseo,
che emerge anche nelle parole di Penelope (XVIII, 257-270), è presente del resto sin dalla
prima scena dell’Iliade, in cui egli entra in campo come ambasciatore di pace per restituire
Crise al padre e compiere sacrifici in onore di Apollo; pur essendo infatti un combattente
coraggioso (come ricordano nei canti IV e VIII dell’Odissea sia Elena, che Menelao, che
Demodoco), mancano in lui le tradizionali “performance” degli altri grandi condottieri:
la cerimonia della vestizione delle armi, il duello vinto con avversari di pari valore, una
eccezionale strage di nemici, ecc.
378
Abbiamo già ricordato la tradizione, ancora presente in Cicerone, secondo cui, per fuggire alla chiamata alle armi di Nestore e Menelao al proposito pervenuti ad Itaca, Odisseo
si finse pazzo; fu costretto però a rivelare la propria finzione davanti al tranello postogli
da Palamede, che minacciò di passare a filo di spada il neonato Telemaco.
376
185
i miti omerici
cinta dai flutti» (I, 48-50)379. La sofferenza fu in effetti strettamente connessa al nostos (I, 76-79), che è il tema centrale dell’Odissea, e che rappresenta, oltre al ritorno a casa, al contempo un ritorno alla “giovinezza” ed un contemporaneo distacco dalla “morte” (giovinezza e morte,
ovviamente, da intendere in senso ideale, nel senso che si è “giovani”,
e ci si sente “vivi”, solo quando la propria esistenza è ancora carica
di progetti da realizzare – la cui assenza metaforizza la “morte”). Del
resto, che Odisseo sia descritto da Omero come il personaggio più carico di vita psichica, si evince anche dalla espressione secondo cui, nei
momenti più difficili, il suo pensiero oscilla kata phrena kai kata thymon
(Odissea, V, 365, 424; VI, 118; X, 151), ossia – almeno nella traduzione
più condivisa – tra la mente ed il cuore (una espressione che Omero
attribuisce solo ad Odisseo); come ha in merito giustamente notato L.
Zoja, rafforzando la tesi della presenza di elementi di coscienza e di
personalità anche negli eroi omerici, si tratta della «preistoria del dialogo interiore»380.
L’umanità di Odisseo però, ancor più che nella sofferenza, si manifestò – come già abbiamo argomentato – nel suo spirito comunitario,
nel coraggio, e più in generale nella misurata etica progettuale con cui
egli affrontò tutta la propria vita. Odisseo, riflettendo, programmando,
agendo, cercò infatti sempre di raggiungere il proprio fine, ossia il ritorno a casa, ma avendo sempre come vincolo la cura dei propri compagni
e delle persone con cui si trovò ad intrattenere rapporti; contrariamente all’immagine dell’eroe attento solo alla propria gloria, o al proprio
vantaggio, Odisseo preferì in ogni circostanza – come nell’episodio
di Polifemo (IX, 366) – evitare rischi inutili e definirsi «nessuno», in
quanto troppo più importante era per lui rivedere la famiglia. Odisseo
ricercò sempre, per le proprie azioni, il kairos, il tempo opportuno, la
scelta ragionata; emblematico in merito fu quanto egli disse al figlio
prima di affrontare la battaglia finale con i Proci, quando ancora era in
sembianze di mendico: «Anche se i Proci mi oltraggeranno, il tuo cuore
sopporti [...], anche se mi colpiscono, guarda e sopporta» (XXI, 117).
Guardare e sopportare, dunque pensare per essere pronti ad agire – in
una solo apparente invisibilità – nel momento e nel modo opportuno381.
Ed aggiunge: «Odisseo sente la voglia di morire» (I, 57-59).
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 103.
381
Un altro esempio emblematico di questa accorta prudenza di Odisseo, in rapporto
alla spudorata imprudenza di Achille, si ha quando, nell’Iliade, Achille vorrebbe lancia379
380
186
Saggezza e dolcezza: Odisseo
Come ha correttamente sostenuto L. Zoja, «in fondo, la forza di Ulisse
sta in una facoltà molto semplice. Egli ha sempre presente l’alternativa,
l’altra possibilità [...]. Ci viene ripetuto che egli rappresenta il bisogno
di scoperta, che è prototipo dell’uomo occidentale di ogni tempo, con la
sua frenesia di innovazione. Ma più profetico ancora è il suo bisogno di
continuità da traslocare nel nuovo, di rinnovamento da non pagare con
le macerie di casa. L’audacia esisteva già, ma mancava di un progetto e
si spegneva con il suo stesso slancio [...]. Mentre Achille strepita, Ulisse
silenziosamente distingue»382; del resto, «nell’Odissea la vittoria appartiene alla pazienza, al programma dispiegato fedelmente nel tempo;
ma il suo alternarsi con le fiammate di episodi esaltanti non cessa mai.
Nell’avventura Ulisse ha ferma in cuore la via del ritorno»383.
A differenza di Polifemo, che animalescamente si accontentava di
soddisfare i propri bisogni più elementari e non elaborava alcun sensato progetto di vita, umanamente Odisseo non si accontentò di placare il proprio ventre, ma ricercò sempre la propria felicità, grecamente
mai disgiunta da quella sociale complessiva; in un certo senso come
Socrate, Odisseo fu consapevole che non è necessario, per vivere bene,
uscire dalla propria città e viaggiare, ma al contrario è preferibile rimanere lì ed avere cura della propria comunità. Che questa fosse l’idea
di Odisseo lo ricordò, ad esempio, Mentore quando, agli Itacesi irriconoscenti nell’assemblea convocata da Telemaco, rammentò quanto fu
«benevolo, amabile, mite» con loro Odisseo, «dolce come un padre»
(Odissea, II, 230-234); allo stesso modo nell’Iliade tutti riconobbero che
«Odisseo ci ha fatto mille volte del bene, dandoci buoni consigli» (II,
273-275). A valori competitivi ed agonali, propri forse di un’epoca precedente (o di un diverso ambiente), Odisseo preferì valori comunitari e
collaborativi, confermando la tesi dell’umanesimo omerico.
Il fulcro della comunità di Itaca comunque, per Odisseo, fu Penelope;
fu infatti il ricordo di lei e di Telemaco a dare forza ad Odisseo durante
tutto il viaggio di ritorno (Odissea, IX, 84; 94-97). Odisseo fu in effetti
l’unico, a differenza dei suoi compagni più facili all’oblio, che pressore l’attacco ai Troiani senza nemmeno il pasto quotidiano; solo Odisseo, con il proprio
argomentare, riuscì a farlo ragionare, facendogli comprendere che nessun uomo può affrontare un intero giorno di battaglia senza cibo in corpo (XIX, 155-304). Odisseo sapeva
infatti bene che il ventre può essere «cane» quanto il cuore, ovvero che l’uomo è una unità
psico-fisica (Odissea, VII, 216; XV, 343; XVII, 286, 473; XVIII, 53).
382
L. Zoja, Il gesto di Ettore, op. cit., pag. 107.
383
Ibidem, pag. 110.
187
i miti omerici
ché sempre conservò il ricordo384. Anche Calipso, che pur offrendo ad
Odisseo l’immortalità non riuscì a trattenerlo presso di sé, fu costretta
ad ammettere che l’eroe voleva più di ogni altra cosa rivedere la propria moglie, che «desidera tutti i giorni» (V, 206-213), nonostante i pericoli che ancora il ritorno per mare gli avrebbe portato. Penelope è in
effetti descritta, nell’Odissea, come dotata di ogni virtù: bella, saggia,
fedele, dolce; ella è «la sposa diletta e virtuosa» (XXII, 232), che quando riconobbe Odisseo non seppe più «staccargli le braccia bianche dal
collo» (XXII, 239-240); splendida è peraltro la sua entrata in scena nel
primo canto, soave immagine di pudore e di delicatezza: «Ella discese
l’alta scala del suo palazzo non sola, ma insieme con lei venivano due
ancelle. E come, illustre fra le donne, venne al cospetto dei Proci, si fermò accanto allo stipite della porta della sala [...] tirandosi sulle guance
uno splendido velo» (I, 328-335), richiedendo al contempo all’aedo di
fermare il canto del kleos di Odisseo, «tale è l’uomo che io rimpiango
ricordandomene senza fine» (I, 342)385. Non possiamo soffermarci molto sulla figura di Penelope, che pure lo meriterebbe386; diremo però che
emblematico dell’umanesimo omerico è il suo riconoscere continuamente la saggezza e l’eticità dell’amato marito, che «non fece né disse
mai cose cattive a nessuno del popolo» (IV, 250-251), e che fu sempre
«il più saggio degli uomini in ogni cosa» (XXIII, 210-211)387. Vi è una
tradizione, che risale ad Aristarco, che faceva concludere l’Odissea al
verso 296 del canto XXIII, ossia dopo che Odisseo comunicò la profezia
di Tiresia (XI, 119-137) a Penelope, con i due che si addormentano abbracciati; forse sarebbe stato meglio così. Tuttavia, da rimarcare è che fu
soprattutto il valore di Odisseo ad aver fatto innamorare Penelope e ad
Le stesse Muse cui si rivolge Omero sono figlie di Mnemosine (Iliade, II, 484-487).
Atena stessa, così come Agamennone ed Anticlea nell’Ade, aveva rassicurato Odisseo
sulla fedeltà di Penelope: «Ella siede e aspetta nella casa, mentre sempre piene di affanni
a lei si consumano le notti e i giorni, ed ella non fa altro che versare lacrime» (XIII, 335338).
386
Vi è peraltro anche per Penelope una tradizione “denigratoria”, assai minoritaria, secondo la quale ella si sarebbe unita con tutti i Proci, senza attendere Odisseo; anche stavolta alcuni moderni si compiacciono di queste tradizioni per svilire gli antichi miti, o
anche solo per ammiccare al pubblico contemporaneo (è ad esempio il caso di G. Giorello,
nel suo libro in precedenza citato).
387
Così affermava Penelope: «Tutto il mio fascino e la mia bellezza gli dèi immortali distrussero, quando gli Argivi si imbarcarono per Ilio, e insieme con loro partiva il mio
sposo Odisseo. Se egli tornasse e si prendesse cura della mia vita, grande sarebbe la mia
gioia» (XVIII, 251-253).
384
385
188
Saggezza e dolcezza: Odisseo
aver mantenuto costante il suo amore per oltre venti anni; se Odisseo
infatti non fosse stato un uomo giusto, questo amore forse non sarebbe
sopravvissuto.
Tutto ciò mostra come la giustizia sia realmente un importante (forse
il più importante) tratto caratterizzante dell’umanesimo omerico, come
la figura di Odisseo chiarisce in abbondanza. Quello per cui «mai un
uomo dovrebbe essere ingiusto» è in effetti un contenuto variamente
ripreso nell’Odissea (ad esempio XVIII, 141). Ma, soprattutto, molteplici
sono gli episodi che vedono Odisseo rapportarsi al tema della giustizia:
al ciclope Polifemo, che divorò i suoi compagni, egli rimproverò infatti
in primo luogo di essere «senza giustizia» (IX, 132), così come «senza
giustizia» (VI, 120) temette fosse Scheria, non appena vi approdò senza
conoscerne le istituzioni (analogamente pensò di Itaca, quando vi giunse senza ancora averla riconosciuta, XIII, 201). Massimamente «giusto» lo descrive la moglie Penelope all’araldo Medonte (IV, 686-693),
e questo capita nell’Odissea a pressoché tutti coloro che lo conobbero.
L’immagine, dunque, di un Odisseo “menzognero” e “fraudolento” risulta da scartare; in questo senso, come ha ben rilevato Eva Cantarella,
la figura di Odisseo si affianca addirittura a quella di Zeus: «Nei poemi
esistono un dio ed un eroe giusto, o, quanto meno, un dio ed un eroe
che affiancano alle altre virtù, non senza contraddizione, la virtù della
giustizia: e sono rispettivamente Zeus ed Odisseo»388. Gli epiteti che nel
testo sono più volte rivolti ad Odisseo sono peraltro eloquenti: «accorto», «divino», «costante», «magnanimo», «giusto».
Un sentimento di giustizia, in Odisseo, accompagnò tutti i suoi gesti
di coraggio. Quando ad esempio, nel canto XI dell’Iliade, si fermò a soccorrere Diomede – che peraltro descrisse Odisseo come amato da Atena
per la sua pietà e la sua saggezza – ferito dalla freccia di Paride, non
esitò un momento a farlo, ma si accorse così facendo di essere rimasto
solo in campo avverso; celebri le parole della sua riflessione: «E rimase
solo Odisseo, nella lancia famoso, e nessuno degli Argivi accanto a lui,
perché tutti li aveva ghermiti il panico. E in un impeto di cruccio, egli
388
E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, op. cit., pag. 148. Zeus fu in effetti il dio
che punì i Proci per i loro soprusi (Odissea, I, 376-380), quello che «tutti vede i mortali
dall’alto, e castiga chi pecca» (XIII,213-214); che punisce gli uomini che «con prepotenza
contorte sentenze sentenziano» (Iliade, XVI, 387). Gli Achei, del resto, «le leggi in nome
di Zeus mantengono salde» (Iliade, I, 238-239). Rinviamo, per una più ampia panoramica
sulla figura di Zeus nel pensiero greco, ed in particolare nel teatro tragico, a L. Grecchi, La
filosofia politica di Eschilo, op. cit.
189
i miti omerici
disse al suo magnanimo cuore: Povero me, che cosa devo fare? Grande
malanno se fuggirò temendo la moltitudine dei nemici; ma sorte ancor
più triste mi attende, se sarò circondato» (XI, 401-406). Significativo è
che, anche in una simile circostanza, egli pensò non al proprio vantaggio (peraltro qui coincidente con la propria salvezza personale), bensì
al comportamento più nobile da tenere, concludendo in questo modo il
suo rapido monologo interiore: «È sbagliato dubitare ed ascoltare la lusinga della viltà. So che i vili si sottraggono alla battaglia, mentre colui
che ha coraggio è necessario che rimanga saldo, sia che venga colpito,
sia che colpisca un altro» (408-410). Odisseo, in questo frangente, fu
ferito dai Troiani, ma conservò la vita ed al contempo il valore.
La giustizia di Odisseo fu del resto sempre ripagata dai suoi compagni, e perfino dai suoi servi. Emblematico il caso di Eumeo («che aveva
un animo incline alla pietà», XIV, 421), il quale mostrò la propria vicinanza ad Odisseo, oltre che supportandolo nell’azione contro i Proci,
anche affermando, contro la smisurata tracotanza degli stessi, che «gli
dèi beati non amano le azioni ingiuste, ma onorano la giustizia ed il retto operare degli uomini» (XIV, 83-84)389. Inutile rimarcare come anche
Eumeo, specie nella splendida ospitalità che offrì al «mendico Odisseo»
non ancora riconosciuto390, rappresenti uno dei tanti simboli dell’umanesimo omerico che in queste pagine abbiamo solo potuto accennare.
Per molto tempo ancora, come immaginabile, potremmo dilungarci
nell’argomentare l’umanesimo di Omero; pensiamo però ci si possa fermare qui, riassumendo in conclusione i risultati maggiori cui riteniamo
di essere giunti con il nostro studio.
Da notare che Eumeo, insieme ad Odisseo ed ai suoi compagni (e ad Anfinomo, l’unico dei Proci che Odisseo valutò di salvare), era fra i pochi che facevano sacrifici agli dèi
(XIV, 420-421). Come ha ricordato giustamente P. Vidal Naquet, «il valore discriminante
del sacrificio nell’Odissea [...] è criterio di umanità» (P. Vidal Naquet, Il cacciatore nero, op.
cit., pag. 21).
390
«Straniero, mio costume è onorare gli ospiti, anche se ne vengano di più poveri di te;
stranieri e mendicanti tutti vengono dal dio. Non si dice: piccola elemosina, grande gioia?
Per quanto poco io possieda, ti darò tutto ciò che posso» (XIV, 45-59).
389
190
concLusioni
Come abbiamo rimarcato nella introduzione, al di là degli studi specialistici, un libro su Omero, oggi, si può ancora giustificare per due
motivi:
a) se esso analizza ed ordina l’insieme della sterminata
letteratura su Omero;
b) se esso propone, basandosi sullo stato dell’arte della
letteratura, una interpretazione originale di Omero.
Nel nostro tempo, in cui si fa cultura prevalentemente in università,
testi di tipo a e di tipo b tendono ad essere redatti dalle stesse persone,
ossia da accademici; costoro sono quasi sempre molto informati e metodici (dunque buoni redattori di testi di tipo a), ma sono spesso poco
originali e creativi (dunque non buoni redattori di testi di tipo b). Il nostro libro tende ad essere un testo di tipo b, e dunque, per verificare se
l’esito dello stesso (l’interpretazione originale di alcuni punti importanti dell’opera di Omero) sia riuscito, è doveroso in ultimo sintetizzarne
le tesi principali. Esse sono:
1) La continuità, sul piano etico-educativo, fra l’opera di
Omero ed il successivo pensiero classico, caratterizzata
dalla centralità dei contenuti umanistici (nel senso qui
delineato).
2) La specificità, nell’umanesimo omerico, dell’utilizzo
di «modelli umani» (positivi e negativi) per proporre
una concezione etico-educativa incentrata sulla misura
e sulla benevolenza;
3) La priorità, in conformità al contesto storico-sociale
omerico (agricolo-artigianale anziché, come spesso si
ritiene, bellico-mercantile), non di una cultura agonalecompetitiva, bensì di una cultura comunitaria-collaborativa, comprovata non soltanto nell’Odissea ma anche
nell’Iliade.
191
Conclusioni
4) Una differente interpretazione del famoso episodio
di Tersite, preso come esempio da studiosi liberali e
marxisti per definire la cultura omerica come aristocratica; in base alla nostra interpretazione, il duro trattamento riservato da Odisseo a Tersite non dipese da
motivi “classisti” (ossia dalla differente “classe sociale”
dei due: differenza che non pesa infatti, ad esempio,
nei rapporti fra Odisseo ed i suoi compagni), bensì dai
modi scomposti della critica di Tersite, demotivanti ed
in ultima analisi pericolosi per il bene comune, ossia per
la salvezza dell’esercito greco.
5) La confutazione della tesi prevalente in base a cui,
in Omero, non vi sarebbe alcuna concezione unitaria
dell’uomo, bensì esclusivamente la rappresentazione
di una molteplicità di funzioni psico-fisiche. Ad una
attenta analisi dell’opera omerica, risulta infatti una
concezione dell’uomo in cui sono presenti contenuti di
“coscienza”, “personalità” e “responsabilità”.
6) La confutazione della tesi prevalente in base a cui, in
Omero, gli dèi sarebbero in ultima analisi i responsabili
delle azioni umane. La tesi non è corretta poiché, se così
fosse, ci troveremmo di fronte ad una società e ad una
cultura teocentrica anziché ad una cultura umanistica,
come risulta invece dalla prevalenza – qui argomentata – dei contenuti etici ed educativi nell’opera omerica.
7) La confutazione della tesi prevalente in base a cui il
personaggio etico centrale dell’Iliade sarebbe Achille;
in realtà, tale figura di riferimento fu Ettore, in quanto,
come argomentato, centrali sul piano etico non furono i
temi della forza e dell’eroismo, bensì i temi della misura
e della comunità.
8) La confutazione della tesi prevalente, nel pensiero
antico e moderno, secondo cui Odisseo sarebbe stato un
«astuto ingannatore» ed un «imprudente esploratore».
In base alla interpretazione qui fornita, Odisseo risulta
invece essere personaggio etico ed educativo, modello
centrale, nell’Odissea, dell’umanesimo omerico.
192
Conclusioni
9) La confutazione della tesi per cui la hybris riguarderebbe solo, nei poemi omerici, rapporti fra aristocratici;
si tratta invece di una tematica di valore universale.
10) La conferma della attualità dell’umanesimo omerico
in chiave anticrematistica e politica, dato che esso pone
alcune critiche, e fornisce utili indicazioni, valide anche
per il nostro tempo.
Al lettore, ovviamente, la valutazione della solidità degli argomenti
prodotti.
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200
Indice dei nomi e delle opere
A
AA.VV., Enciclopedia filosofica 195
AA.VV., Problemi di teoria del romanzo 195
AA.VV., Storia e civiltà dei Greci 195
Abbagnano, N. 49, 195
Storia della filosofia 49, 195
Accame, S. 50, 64, 72, 82, 195
Gli albori della critica 50, 64, 72, 82, 195
Achab 121
Achille
13, 15, 23, 25, 40, 44, 45, 46, 57, 64, 69, 74, 79, 80, 81, 85, 88, 89, 91, 95, 101, 106,
107, 108, 113, 120, 127, 128, 129, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 139, 141,
144, 145, 147, 179, 183, 184, 186, 187, 192
Ade 154
Adkins, A. W. H. 40, 74, 130, 195
La morale dei Greci da Omero ad Aristotele 74, 130, 195
Adorno, T. W. 18, 66, 197
Dialettica dell’illuminismo 66, 197
Agamennone
25, 40, 57, 69, 74, 85, 89, 90, 91, 95, 106, 107, 108, 113, 127, 128, 129, 131, 132, 133,
134, 138, 141, 179, 182, 188
Agostino d'Ippona 63, 65
Confessioni [I, 14] 65
Aiace 80, 135, 144
Alcidamante 43
Alcinoo 47, 169, 170, 171
Alcmeone di Crotone 54
Alighieri, D. 65, 152, 176, 184
Inferno [IV, 88, 94-96] 176
Inferno [XXVI, 49-142] 176
Inferno [XXVI, 120-121] 152
Purgatorio [II, 80-81] 184
Althusser, L. 11
Anassagora 70
Anassimene 18
201
Indice dei nomi e delle opere
Andromaca 141, 143, 182
Anfinomo 157, 158, 190
Anticlea 45, 183, 184, 188
Antinoo 158
Antistene 105, 151, 173
fr. 26 Mullach 173
Apollo 90, 96, 123, 131, 135, 144, 149, 185
Apollodoro 183
Arata, C. 195
Persona ed evidenza nella prospettiva classica 195
Archiloco 95
fr. 6 DK 95
Archimede 18
Arete 47, 91, 170
Argo 185
Aristarco 31, 56, 188
Aristofane 24, 93, 109
Rane [1008] 93
Rane [1030-1036] 24
Rane [1034-1036] 109
Rane [1035] 93
Aristotele
15, 18, 24, 31, 34, 48, 49, 50, 87, 92, 93, 95, 102, 103, 104, 106, 109, 122, 124, 149,
157, 195, 197
Etica Eudemia [1234 a 1-2] 50
Etica Nicomachea [III, 1-3] 69
Metafisica 24, 48, 49, 92, 102, 122
Metafisica [982 b 17-21] 48
Metafisica [1000 a 9-20] 49
Metafisica [1074 b1 ss.] 122
Metafisica [1078 b 17-18] 92
Metafisica [1093 a 26] 24
Poetica 31, 34, 103, 104, 109
Poetica [1459 a-b] 34
Politica [II, 1267 b 30 ss.] 149
Retorica [1378 b 23] 157
Arrigoni, G. 195
a cura di, Le donne in Grecia 195
Artemide 123, 132, 149
Astianatte 138, 141, 143
Ate 15
Atena
74, 75, 84, 90, 91, 96, 123, 133, 145, 148, 157, 169, 170, 171, 184, 185, 188, 189
202
Indice dei nomi e delle opere
Atlante 164
Auerbach, E. 50, 195
Mimesis 50, 195
B
Bachelard, G. 11
Bacone, F. 124
De sapientia veterum 124
Baldry, H. C. 129, 195
L’unità del genere umano nel pensiero greco 129, 195
Bardelli, N. 48, 195
La giurisdizione in Atene 48, 195
Basilio 65
Ad adolescentes, 4 65
Beni, G. 55, 195
La persona umana. Origine e metafisica 55, 195
Benveniste, E. 94, 195
Vocabolario delle istituzioni indoeuropee 94, 195
Berti, E. 21, 48, 63, 102, 124, 178, 195
A partire dai filosofi antichi 21, 63, 178, 195
In principio era la meraviglia 48, 195
Invito alla filosofia 102, 195
Storia della filosofia 124, 195
Beye, C. R. 26, 84, 121, 195
Letteratura e pubblico nella Grecia antica 26, 84, 121, 195
Bignone, E. 53, 195
Il libro della letteratura greca 53, 195
Boezio, S. 64, 65
De consolatione philosopiae [V, 2] 65
Boitani, P. 34, 195
L’ombra di Ulisse. Figure di un mito 195
Sulle orme di Ulisse 34, 195
Bona, G. 155, 195
Studi sull’Odissea 155, 195
Bonanni, M. 196
Il cerchio e la piramide. L’epica omerica e le origini del politico 196
203
Indice dei nomi e delle opere
Bottin, L. 38, 196
Reciprocità e redistribuzione nella antica Grecia 38, 196
Bowra, C. M. 138, 196
L’esperienza greca 138, 196
Brelich, A. 81, 196
Gli eroi greci. Un problema storico-religioso 81, 196
Briseide 113, 127, 131, 137, 184
Broccia, G. 33, 196
La questione omerica 33, 196
Buffière, E. 173, 196
Les mythes d’Homère et la pensée grecque 173, 196
Burckhardt, J. 14, 15, 18, 136
Storia della civiltà greca 14
C
Calcante 131, 179
Calipso 64, 148, 150, 161, 164, 165, 167, 169, 183, 185, 188
Callino 34
Campbell, J. 124, 196
Il potere del mito 124, 196
Cancrini, A. 61, 196
Syneidesis. Il tema semantico della Con-scientia nella Grecia antica 61, 196
Canfora, L. 11, 25, 33, 38, 47, 196
Storia della letteratura greca 25, 33, 38, 196
Cantarella, E. 38, 46, 47, 67, 68, 70, 73, 80, 81, 99, 179, 181, 182, 184, 189, 196
Itaca 46, 68, 70, 73, 81, 99, 179, 182, 196
Norma e sanzione in Omero 38, 184, 189, 196
Capizzi, A. 123, 196
La repubblica cosmica 123, 196
Casella, amico di Dante Alighieri 184
Casertano, G. 21, 196
Morte 196
Cassanmagnago, C. 44, 45, 49
Introduzione a Esiodo. Tutte le opere e i frammenti 44, 45, 49
Cassiodoro 65
Variarum [I, 39] 65
204
Indice dei nomi e delle opere
Caut, R. 31, 119, 196
Breve introduzione a Omero 31, 119, 196
Cerri, G. 177, 183
Chirone 136
Ciccotti, E. 47, 196
Storia greca 47, 196
Cicerone, M. T. 152, 167, 177, 185
De finibus
[II, 29, 48] 178
[V, 18, 49] 152
[V, 48-49] 167
Ciclopi 95, 113, 121, 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 169, 170, 171, 173
Circe 150, 161, 164, 165, 166, 167, 169, 177, 183
Citati, P. 177, 196
La mente colorata. Ulisse e l’Odissea 177, 196
Citti, V. 122
in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo. La metafora infinita 122
Clemente Alessandrino 65
Stromata, V, 1, 2 65
Clistene di Atene 12
Codino, F. 32, 53, 73, 86, 115, 196
Introduzione a Omero 32, 53, 73, 86, 196
Colli, G. 120, 196
La nascita della filosofia 120, 196
Crise 90, 128, 131, 185
Criseide 90, 128, 131
Crisippo 71
frr. 999 e 1000 Arnim 71
Crono 103
D
Damasceno, G. 64
Dialect., c. 43 [in Migne, PG 94 col. 613] 64
D’Annunzio, G. 174
Da Re, A. 69, 196
Filosofia morale 69, 196
Darwin, C. 19
205
Indice dei nomi e delle opere
D’Aubignac, F. H. 31
Conjectures academiques ou dissertations sur l’Iliade 31
Deifobo 145
Del Corno, D. 9
Letteratura greca 9
Del Grande, C. 62, 85, 139, 142, 196
Hybris 62, 85, 139, 142, 196
Democrito 62
fr. 297, 62
De Romilly, J. 23, 49, 50, 196
Compendio di letteratura greca 23, 196
La costruzione della verità in Tucidide 49, 50, 196
De Sanctis, G. 90, 196
Per la scienza dell’antichità 90, 196
Detienne, M. 40, 179, 196
a cura di, Il mito. Guida storica e critica 196
I maestri di verità nella Grecia arcaica 40, 179, 196
Diano, C. 140
Delta [4] 140
Diodoro Siculo 93
Diogene Laerzio 103
Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi
Diomede 69, 84, 88, 122, 189
Dodds, E. 13
Dover, J. K. 95, 197
[VIII, 2] 103
[IX, 1] 103
[IX, 18] 103
La morale popolare greca all’epoca di Platone ed Aristotele 95, 197
Durante, M. 23, 32, 33, 119, 197
Sulla preistoria della tradizione poetica greca 24, 32, 33, 119, 197
206
Indice dei nomi e delle opere
E
Ecuba 45, 141
Edipo 78
Efesto 38, 103, 107, 123
Egisto 71, 80
Elena 91, 142, 144, 148, 163, 164, 185
Elios 80
Eliot, Th. S. 174
Elitis, O. 10
Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania 10
Enea 184
Engels, F. 180
Manifesto del partito comunista 180
Eolo 155
Epicuro 68, 69, 87
Epitteto 71
Enchiridion [III, 1, 38] 71
Era 133
Eraclito 2, 104, 173, 174
Allegorie omeriche, 70 173
Ercole 176
Erinni 133
Ermes 165
Erodoto 34, 155, 162, 197
[IV, 177-178] 162
Eschilo 91, 137
Esiodo 15, 16, 18, 24, 43, 44, 45, 48, 49, 90, 95, 103, 114, 123, 124, 132, 134, 165
Erga [202-212] 44
Opere e giorni 43
Opere e giorni [8, 214] 134
Opere e giorni [16, 202] 123
Opere e giorni [38 ss.] 132
Opere e giorni [277-279] 15
Teogonia [1017-1018] 165
Ettore
15, 25, 44, 45, 64, 70, 80, 89, 90, 108, 127, 128, 129, 133, 135, 136, 138, 139, 140, 141,
142, 143, 144, 145, 146, 182, 184, 187, 192, 200
Eugammone di Cirene 183
Eumeo 94, 147, 149, 170, 190
Eurìalo 171
Euriclea 91, 136, 158
Euriloco 166
207
Indice dei nomi e delle opere
Eurimaco 158
Euripide 39, 78, 137, 143, 176
Ciclope [vv. 115-116] 39
Ecuba 176
Ifigenia in Aulide 137, 176
Ippolito 78
Troiane 176
Troiane [vv. 721-723] 143
Eustazio 165
F
Farrington, B. 71, 197
Lavoro intellettuale e lavoro manuale nella antica Grecia 197
Faust 121
Feaci 47, 94, 148, 149, 155, 157, 165, 169, 170, 171
Fenice 101, 136
Ferrari, A. 77, 83, 84, 197
Dizionario di mitologia 77, 84, 197
Feuchtwanger, L. 177
Ulisse e i maiali 177
Fichte, J. G. 19
Finley, M. 37, 197
La Grecia dalla preistoria alla età arcaica 37, 197
Foscolo, U. 137, 225
Foucault, M. 11
Frankel, H. 51, 57, 58, 63, 197
Poesia e filosofia della Grecia arcaica 51, 57, 58, 197
Fusaro D. 64, 95, 133, 162, 176, 224
I Greci che dunque siamo 64, 95, 176
Marx e la schiavitù salariata 162
208
Indice dei nomi e delle opere
G
Galilei, G. 19
Galimberti, U. 49, 53, 125, 197
Filosofia e Biografia 125, 197
Gli equivoci dell’anima 53, 197
I miti del nostro tempo 197
Gardner, H. 123, 197
Intelligenze multiple 123, 197
Gastaldi, S. 101, 102, 108, 109, 110, 136, 197
In M. Vegetti, a cura di, Platone. Repubblica 102, 108, 109, 110
Introduzione alla storia del pensiero politico antico 136, 197
Gerolamo, San (Sofronius Eusebius Hieronymus) 65
Ep. Ad Nep. [52, 3] 65
Ghidini Tortorelli, M. 149, 150, 197
Miti e utopie nella Grecia antica 149, 150, 197
Gigante, M. 43, 129, 197
Nomos Basileus, in S. Nicosia, a cura di, Ulisse nel tempo 43, 129, 197
Gilgamesh, Mitico re dei Sumeri, quinto re di Uruk 175, 197
Giorello, G. 175, 197
Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito 175, 197
Goethe, J. W. 178
Gozzano, G. 174
Grecchi, L.
9, 12, 13, 15, 16, 17, 20, 21, 24, 25, 31, 37, 45, 46, 53, 63, 64, 67, 70, 81, 95, 111, 125,
133, 150, 152, 176, 178, 189, 195, 197, 200
A partire dai filosofi antichi 21, 63, 178, 195
Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? 21
Conoscenza della felicità 24, 31
Diritto e proprietà nella Grecia classica 43, 178
Filosofia e Biografia 125, 197
Gli stranieri nella Grecia classica 81, 94, 139, 152
I Greci che dunque siamo 64, 95, 176
Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici greci, per la buona vita 45
Il necessario fondamento umanistico della metafisica 24
Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti 125
La filosofia della storia nella Grecia classica 20, 25, 71, 150
La filosofia politica di Eschilo 67, 189
L’anima umana come fondamento della verità 24
L’umanesimo della antica filosofia cinese 46
L’umanesimo della antica filosofia greca 21, 53, 55, 71
L’umanesimo della antica filosofia indiana 46
L’umanesimo della antica filosofia islamica 46
L’umanesimo di Aristotele 15, 21
209
Indice dei nomi e delle opere
L’umanesimo di Platone 21
L’umanesimo di Plotino 21, 37, 38, 40
Occidente: radici, essenza, futuro 20, 133
Sulla verità e sul bene 21, 70, 111, 178, 200
Gschnitzer, F. 197
Storia sociale della antica Grecia 197
Guidorizzi, G. 10, 13, 15
Storia ed antologia della letteratura greca 10
H
Hartog, F. 81, 82, 197
Lo specchio di Erodoto 81, 82, 197
Havelock, E. 58, 59, 99, 197
Cultura orale e civiltà della scrittura 58, 197
Hegel, G. W. F. 11, 14, 17, 20, 61, 101
Lezioni di storia della filosofia 61
Heidegger, M. 49
Herbert G. 225
Horkheimer, M. 18, 66, 197
Dialettica dell’illuminismo 66, 197
Hume, D. 24
Humphreys, S. C. 148, 197
Saggi antropologici sulla Grecia antica 148, 197
I
Igino 181
Favole [95] 181
Ippia 142
Encomio di Elena 142
Ippodamo di Mileto 149
210
Indice dei nomi e delle opere
J
Jaeger, W. 9, 22, 26, 53, 59, 62, 92, 99, 100, 101, 102, 119, 120, 148, 180, 197
Paideia 22, 53, 59, 62, 92, 100, 102, 119, 120, 148, 180, 197
Jellamo, A. 43, 71, 176, 197
Il cammino di Dike 43, 71, 176, 197
Joyce, J. 174, 177
Jung, C. G. 124
K
Kant, I. 17, 83
Kavafis, K. 9
Kerenyi, K. 51
Klug, W. 23
Anregung 23
L
Laerte 154, 156, 166, 183
Laodamante 170
Latacz, J. 23, 83, 197
Omero. Il primo poeta dell’Occidente 23, 83, 197
Lavoisier, A.-L. 19
Lesky, A. 68, 73, 80, 128, 136, 173, 197
Storia della letteratura greca 68, 73, 80, 128, 136, 173, 197
Lestrigoni 39, 95, 121, 150, 151, 155, 156, 169, 170
Leveque, P. 12
Levi, M. A. 11
Il senso della storia greca 11
Licaone 138
Lo Schiavo, A. 21, 67, 86, 198
Omero filosofo 21, 67, 86, 198
Lotofagi 150, 151, 155, 161, 162, 163, 166, 183
Löwith, K. 20
Luciano di Samosata 33
Var. Hist. [II, 50] 33
Lyotard, J.-F. 19
211
Indice dei nomi e delle opere
M
Magris, A. 40, 50, 71, 76, 79, 122, 134, 198
L’idea di destino nel mondo antico 40, 50, 71, 76, 79, 122, 134, 198
Manuli, P. 54, 198
Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico 54, 198
Maritain, J. 64
Martellotti, G. 176
Omero, in Enciclopedia dantesca [IV] 176
Marx, K. 11, 16, 17, 20, 66, 162, 180
Manifesto del partito comunista 180
Marzullo, B. 32, 198
Il problema omerico 32, 198
Maso, S. 68, 123, 198
Lingua philosophica graeca. Dizionario di greco filosofico 68, 123, 198
Mazzarino, S. 89, 198
Fra Oriente e Occidente 89, 198
Mc Intyre, A. 19
Medonte 189
Mele, A. 38, 40, 45, 46, 47, 157, 198
Il commercio greco arcaico: praxis ed emporie 157, 198
Società e lavoro nei poemi omerici 38, 40, 46, 198
Menelao 77, 94, 132, 141, 142, 148, 170, 185
Mentore 187
Mimnermo 78
fr. 2 Diehl 78
fr. 6 DK 78
Minuccio Felice 65
Octavius [23, 2] 65
Miralles, C. 37, 198
Come leggere Omero 37, 198
Mnemosine 188
Moire 82, 133
Mondin, B. 61, 74, 198
Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale 74, 198
Storia della metafisica 61, 198
Mondolfo, R. 48, 50, 53, 62, 68, 70, 74, 75, 198
Gli albori della filosofia in Grecia 50, 198
La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica 62
Moralisti greci. La coscienza morale da Omero ad Epicuro 48, 68, 70, 74, 75
Problemi del pensiero antico 53, 198
212
Indice dei nomi e delle opere
Montanari, F. 27, 198
a cura di, Omero 3.000 anni dopo 27, 198
Montanelli, I. 174, 198
La storia dei greci 174, 198
Mounier, E. 64
Murray, G. 31, 32, 33, 90, 93, 119, 137, 198
Le origini dell’epica greca 32, 33, 90, 93, 119, 137, 198
Museo 24, 183
Musti, D. 21, 38, 198
Introduzione alla storia greca 38, 198
N
Napolitano Valditara, L. 99
in AA.VV., Enciclopedia filosofica 99
Nausicaa 64, 91, 94, 147, 148, 164, 169, 170, 171
Neottolemo 138, 143, 183
Nestle, W. 50, 198
Storia della religiosità greca 50, 198
Nestore 94, 137, 170, 185
Newton, J. 19
Nicosia, S. 122, 129, 177, 181, 183, 198
a cura di, Ulisse nel tempo. La metafora infinita 122, 129, 177, 181, 183, 198
Nietzsche F. W. 12, 14, 15, 17, 18, 49, 86, 225
O
Odifreddi, P. 153, 198
Le menzogne di Ulisse 153, 198
Odisseo
23, 25, 34, 38, 39, 40, 45, 47, 57, 61, 64, 67, 69, 71, 72, 73, 74, 80, 84, 85, 88, 90, 91,
92, 94, 95, 97, 101, 113, 120, 122, 123, 125, 127, 129, 133, 135, 136, 137, 144, 146,
147, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 161, 162, 164, 165, 166, 167,
168, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184,
185, 186, 187, 188, 189, 190, 192, 195, 196, 197, 198
213
Indice dei nomi e delle opere
Omero
9, 10, 12, 13, 17, 20, 21, 22, 24, 25, 26, 31, 32, 33, 34, 37, 39, 40, 43, 44, 45, 46, 47, 48,
49, 50, 51, 53, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75,
76, 77, 80, 81, 83, 84, 86, 87, 88, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 99, 100, 101, 102, 103, 104,
105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 119, 120, 122, 123, 124, 128, 130,
133, 134, 135, 137, 139, 142, 146, 149, 150, 151, 153, 155, 156, 158, 162, 166, 167,
172, 173, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 184, 186, 188, 191, 192, 195, 196, 197, 198, 199
Iliade
10, 22, 31, 32, 34, 37, 44, 47, 50, 53, 57, 60, 66, 67, 70, 72, 83, 89, 90, 91, 92, 95,
99, 100, 103, 107, 108, 115, 119, 120, 127, 128, 129, 130, 132, 138, 141, 142, 143,
144, 145, 146, 147, 148, 149, 163, 176, 182, 185, 186, 187, 189, 191, 192, 200
Iliade [I, 20] 131
Iliade [I, 25] 131
Iliade [I, 29] 131
Iliade [I, 34-39] 131
Iliade [I, 70] 131
Iliade [I, 91] 48
Iliade [I, 115-116] 131
Iliade [I, 118 ss.] 46
Iliade [I, 127] 131
Iliade [I, 137-139] 131
Iliade [I, 160] 132
Iliade [I, 169-171] 132
Iliade [I, 184-187] 131
Iliade [I, 194] 84
Iliade [I, 202] 85
Iliade [I, 207] 138
Iliade [I, 214] 85
Iliade [I, 231] 132
Iliade [I, 238-239] 189
Iliade [I, 287-289] 133
Iliade [I, 315-322] 107
Iliade [I, 357] 45, 144
Iliade [I, 443] 101
Iliade [I, 574] 86
Iliade [II, 1-4] 86
Iliade [II, 19] 130
Iliade [II, 164] 122
Iliade [II, 180] 122
Iliade [II, 211-277] 85
Iliade [II, 212 178]
Iliade [II, 212 ss.] 178
Iliade [II, 217-219] 179
Iliade [II, 273-275] 187
Iliade [II, 278-332] 178
Iliade [II, 363 ss.] 106
Iliade [II, 412-418] 141
214
Indice dei nomi e delle opere
Iliade [II, 484-487] 188
Iliade [II, 594 ss.] 33
Iliade [II, 681-694] 135
Iliade [III, 15-37] 141
Iliade [III, 59] 74
Iliade [III, 64-66] 141
Iliade [III, 69] 44
Iliade [III, 154-165] 82
Iliade [III, 164-167] 142
Iliade [III, 171-180] 142
Iliade [III, 320-322] 142
Iliade [III, 351-354] 141
Iliade [III, 390-420] 82
Iliade [III, 453] 142
Iliade [IV, 256] 122
Iliade [IV, 349 ss.] 40
Iliade [IV, 361] 184
Iliade [V] 84
Iliade [V, 82] 79
Iliade [V, 124-126] 61
Iliade [VI, 55-60] 132
Iliade [VI, 123-127] 61
Iliade [VI, 146] 78
Iliade [VI, 242] 130
Iliade [VI, 297] 130
Iliade [VI, 369-439] 143
Iliade [VI, 523] 142
Iliade [VII, 74-86] 144
Iliade [VII, 350] 142
Iliade [VII, 487] 74
Iliade [VIII, 18-25] 132
Iliade [VIII, 41-46] 56
Iliade [VIII, 428] 86
Iliade [VIII, 470-483] 96
Iliade [IX, 17-25] 96
Iliade [IX, 18] 133
Iliade [IX, 69] 131
Iliade [IX,101] 35
Iliade [IX, 166] 48
Iliade [IX, 442-443] 136
Iliade [IX, 498] 88
Iliade [IX, 628-629] 135
Iliade [XI, 264-272] 61
Iliade [XI, 653 ss.] 138
Iliade [XI, 763] 137
Iliade [XI, 781-790] 135
215
Indice dei nomi e delle opere
Iliade [XIII, 71-73] 79
Iliade [XIII, 277] 88
Iliade [XIII, 631-635] 96
Iliade [XIV, 90-94] 179
Iliade [XIV, 170-189] 56
Iliade [XIV, 294 ss.] 108
Iliade [XIV, 414-418] 61
Iliade [XV, 193] 123
Iliade [XV, 490-492] 79
Iliade [XV, 642] 88
Iliade [XVI, 212] 130
Iliade [XVI, 387] 189
Iliade [XVI, 849] 77
Iliade [XVI, 857 ss.] 106
Iliade [XVII, 248-251] 46
Iliade [XVII, 321] 74
Iliade [XVII, 418] 79
Iliade [XVII, 466-467] 78
Iliade [XVIII, 35] 45, 144
Iliade [XVIII, 79-82] 63
Iliade [XVIII, 112-114] 63
Iliade [XVIII, 310-313] 82
Iliade [XVIII, 487 ss.] 113
Iliade [XVIII, 497] 130
Iliade [XVIII, 497 ss.] 44
Iliade [XIX, 29-39] 56
Iliade [XIX, 78 ss.] 134
Iliade [XIX, 85-97] 82
Iliade [XIX, 86] 133
Iliade [XIX, 86-91] 15
Iliade [XIX, 136] 133
Iliade [XIX, 137-144] 133
Iliade [XIX, 155-304] 187
Iliade [XIX, 187] 77
Iliade [XIX, 300] 184
Iliade [XX, 30] 74
Iliade [XX, 242-243] 80
Iliade [XX, 291] 84
Iliade [XXI, 380] 86
Iliade [XXI, 461-468] 78
Iliade [XXI, 463] 86
Iliade [XXI, 517] 74
Iliade [XXII, 1-91] 145
Iliade [XXII, 64] 143
Iliade [XXII, 78 ss.] 45
Iliade [XXII, 96-130] 145
216
Indice dei nomi e delle opere
Iliade [XXII, 100-107] 70
Iliade [XXII, 136-213] 145
Iliade [XXII, 261 ss.] 145
Iliade [XXII, 273-354] 145
Iliade [XXII, 297-305] 145
Iliade [XXIII, 94 ss.] 63
Iliade [XXIII, 574] 44
Iliade [XXIII, 685 ss.] 44
Iliade [XXIII, 712] 130
Iliade [XXIV, 22-119] 139
Iliade [XXIV, 40] 135
Iliade [XXIV, 44-45] 138
Iliade [XXIV, 95] 45
Iliade [XXIV, 128] 84
Iliade [XXIV, 226 ss.] 105
Iliade [XXIV, 411-415] 56
Iliade [XXIV, 485-517] 139
Iliade [XXIV, 511] 144
Iliade [XXIV, 517] 122
Iliade [XXIV, 518-533] 78
Iliade [XXIV, 735] 143
Iliade [XXIV, 767 ss.] 142
Odissea
7, 22, 23, 31, 32, 33, 34, 37, 40, 50, 53, 57, 60, 67, 71, 83, 89, 90, 91, 92, 94, 95, 99, 100, 107,
115, 120, 127, 129, 133, 136, 137, 142, 146, 147, 148, 149, 150, 156, 157, 158, 161, 163, 165,
166, 169, 171, 176, 177, 181, 182, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 195, 196, 200
Odissea [I, 3] 172
Odissea [I, 4-5] 181
Odissea [I, 5 ss.] 174
Odissea [I, 11-15] 181
Odissea [I, 23 ss.] 149
Odissea [I, 32-43] 71
Odissea [I, 32 ss.] 70, 105
Odissea [I, 48-50] 186
Odissea [I, 56] 164
Odissea [I, 56-7] 123
Odissea [I, 57-59] 186
Odissea [I, 76-79] 186
Odissea [I, 102 ss.] 170
Odissea [I, 187-189] 182
Odissea [I, 328-335] 188
Odissea [I, 342] 188
Odissea [I, 376-380] 189
Odissea [I, 386 ss.] 156
Odissea [II, 42] 113
Odissea [II, 42-49] 46
217
Indice dei nomi e delle opere
Odissea [II, 47] 184
Odissea [II, 188] 92
Odissea [II, 230-234] 184, 187
Odissea [II, 231] 92
Odissea [II, 270-273] 61
Odissea [III, 23] 122
Odissea [III, 33-35] 94
Odissea [III, 82] 113
Odissea [III, 82 ss.] 46
Odissea [III, 84] 122
Odissea [III, 91 ss.] 170
Odissea [III, 121-145] 142
Odissea [III, 140] 122
Odissea [III, 177] 183
Odissea [III, 277] 92
Odissea [III, 355] 94
Odissea [III, 464-469] 56
Odissea [IV, 1 ss.] 170
Odissea [IV, 30-36] 94
Odissea [IV, 105-108] 151
Odissea [IV, 250-251] 188
Odissea [IV, 253-264] 142
Odissea [IV, 314 ss.] 46
Odissea [IV, 417 ss.] 105
Odissea [IV, 686-693] 189
Odissea [IV, 696] 92
Odissea [IV, 711] 92
Odissea [V, 9] 92
Odissea [V, 13-14] 165
Odissea [V, 39-40] 171
Odissea [V, 81-84] 165
Odissea [V, 82-84] 185
Odissea [V, 151-152] 165
Odissea [V, 206-213] 188
Odissea [V, 209-210] 165
Odissea [V, 365] 186
Odissea [V, 424] 186
Odissea [VI, 11-12] 169
Odissea [VI, 15-16] 169
Odissea [VI, 117-121] 169
Odissea [VI, 118] 186
Odissea [VI, 120] 189
Odissea [VI, 149-183] 170
Odissea [VI, 187] 170
Odissea [VI, 190-193] 170
Odissea [VI, 194] 170
Odissea [VI, 203] 170
218
Indice dei nomi e delle opere
Odissea [VI, 206-208] 170
Odissea [VI, 244-245] 170
Odissea [VI, 310-315] 170
Odissea [VI, 511] 122
Odissea [VII, 32-33] 171
Odissea [VII, 86, 522] 144
Odissea [VII, 89 ss.] 169
Odissea [VII, 132 ss.] 156
Odissea [VII, 156] 92
Odissea [VII, 165-177] 170
Odissea [VII, 216] 187
Odissea [VII, 308-310] 44
Odissea [VII, 309-310] 95
Odissea [VIII, 30-40] 171
Odissea [VIII, 62 ss.] 33
Odissea [VIII, 145-157] 171
Odissea [VIII, 158-164] 170
Odissea [VIII, 159-164] 157
Odissea [VIII, 166-177] 171
Odissea [VIII, 222] 39
Odissea [VIII, 390 ss.] 47
Odissea [VIII, 396-412] 171
Odissea [VIII, 586] 92
Odissea [IX, 34-46] 182
Odissea [IX, 37] 181
Odissea [IX, 37-39] 185
Odissea [IX, 84; 94-97] 187
Odissea [IX, 89, 191] 39
Odissea [IX, 91-93] 162
Odissea [IX, 94-97] 162
Odissea [IX, 106] 155
Odissea [IX, 112-115] 151
Odissea [IX, 132] 189
Odissea [IX, 163] 45
Odissea [IX, 174-176] 151
Odissea [IX, 187-190] 151
Odissea [IX, 212-215] 151
Odissea [IX, 273-278] 152
Odissea [IX, 281] 92
Odissea [IX, 281-286] 153
Odissea [IX, 287 ss.] 169
Odissea [IX, 352] 74
Odissea [IX, 366] 186
Odissea [IX, 421-422] 153
Odissea [IX, 431-436] 154
Odissea [IX, 476-479] 154
Odissea [IX, 501-505] 154
219
Indice dei nomi e delle opere
Odissea [IX, 523-525] 154
Odissea [X, 101] 39
Odissea [X, 114-120] 155
Odissea [X, 151] 186
Odissea [X, 191] 155
Odissea [X, 233-243] 56
Odissea [X, 235-236] 166
Odissea [X, 472-474] 165
Odissea [X, 515] 62
Odissea [XI, 61] 79
Odissea [XI, 85-87] 183
Odissea [XI, 119-137] 188
Odissea [XI, 126-34] 183
Odissea [XI, 134-149] 183
Odissea [XI, 193-195] 184
Odissea [XI, 197-203] 184
Odissea [XI, 202-203] 182
Odissea [XI, 206-212] 184
Odissea [XI, 401-406] 190
Odissea [XI, 408-410] 190
Odissea [XI, 445-446] 183
Odissea [XI, 488-491] 79
Odissea [XI, 489 ss.] 106
Odissea [XI, 558] 130
Odissea [XII, 39-46] 167
Odissea [XII, 137-141] 166
Odissea [XII, 167] 130
Odissea [XII, 188] 92
Odissea [XII, 297-302] 166
Odissea [XIII, 72 ss.] 84
Odissea [XIII, 201] 189
Odissea [XIII, 213-214] 189
Odissea [XIII, 335-338] 188
Odissea [XIII, 354] 39
Odissea [XIII, 405] 92
Odissea [XIV, 45-59] 190
Odissea [XIV, 45 ss.] 170
Odissea [XIV, 56 ss.] 169
Odissea [XIV, 83-84] 94, 190
Odissea [XIV, 139] 184
Odissea [XIV, 420-421] 190
Odissea [XIV, 421] 190
Odissea [XIV, 433] 92
Odissea [XIV, 509] 74
Odissea [XV, 70] 44, 95
Odissea [XV, 343] 187
Odissea [XV, 403-411] 149
220
Indice dei nomi e delle opere
Odissea [XV, 485 ss.] 84
Odissea [XV, 526] 62
Odissea [XV, 557] 92
Odissea [XVI, 118] 165
Odissea [XVI, 183 ss.] 169
Odissea [XVI, 204-205] 185
Odissea [XVI, 215] 144
Odissea [XVI, 247 ss.] 158
Odissea [XVI, 259] 130
Odissea [XVII, 152] 62
Odissea [XVII, 286] 187
Odissea [XVII, 321-323] 92
Odissea [XVII, 397-410] 158
Odissea [XVII, 431 ss.] 85
Odissea [XVII, 454-7] 158
Odissea [XVII, 473] 187
Odissea [XVII, 565] 156
Odissea [XVIII, 53] 187
Odissea [XVIII, 112-157] 85
Odissea [XVIII, 125-128] 157
Odissea [XVIII, 130-131] 78
Odissea [XVIII, 136-142] 80
Odissea [XVIII, 141] 189
Odissea [XVIII, 251-253] 188
Odissea [XVIII, 257-270] 185
Odissea [XVIII, 381-386] 158
Odissea [XVIII, 482 ss.] 169
Odissea [XIX, 248] 92
Odissea [XIX, 536] 158
Odissea [XX, 13-30] 67
Odissea [XX, 92] 62
Odissea [XX, 264 ss.] 46
Odissea [XX, 345-386] 85
Odissea [XXI, 117] 186
Odissea [XXI, 412] 158
Odissea [XXI, 413-416] 158
Odissea [XXII, 232] 188
Odissea [XXII, 239-240] 188
Odissea [XXII, 303] 77
Odissea [XXII, 413] 79
Odissea [XXIII, 62 ss.] 169
Odissea [XXIII, 210-211] 188
Odissea [XXIII, 296] 188
Odissea [XXIV, 226-240] 185
Odissea [XXIV, 472-6] 91
Odissea [XXIV, 502 ss] 56
221
Indice dei nomi e delle opere
Orazio [Quinto Orazio Flacco] 177
Epistole [I, 2, 17-18] 177
Oreste 137, 182
Orfeo 24
Otto, W. F. 9, 50, 73, 79, 80, 82, 198, 199
Gli dèi della Grecia 50, 198
Theophania. Lo spirito della religione greca antica 73, 79, 82, 199
Ovidio [Publio Ovidio Nasone] 176
Metamorfosi 176
P
Paci, E. 49, 199
Storia del pensiero presocratico 49, 199
Palamede 185
Paoli, U. E. 106, 199
Studi sul processo attico 106, 199
Parche 72
Pareti, L. 84, 199
Omero e la realtà storica 84, 199
Paride 137, 141, 142, 189
Pascoli, G. 183
Il sonno di Odisseo 183
L’ultimo viaggio 183
Pasquale, G. 49
a cura di, Miscellanea di studi in onore di Umberto Galimberti 49
Pasquali, G. 63, 72, 130, 178
Enciclopedia italiana 63
La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima 72
Pagine stravaganti 178
Patroclo 64, 107, 127, 135, 136, 137, 138, 144, 184
Pausania 183
Peleo 135, 136, 138, 139, 183
Penelope 45, 64, 91, 120, 122, 147, 148, 156, 158, 164, 165, 183, 185, 187, 188, 189
Pericle 16
Petrarca, F. 176
Trionfo della fama, 17-18 176
Pfeiffer, R. 199
Storia della filologia classica 199
222
Indice dei nomi e delle opere
Pilade 137
Pindaro 72, 82, 176
Nemea [VI] 82
Pirrone 78
fr. 20 Decleva-Caizzi 78
Pitagora 11, 58, 104
Platone
9, 18, 22, 24, 45, 48, 57, 58, 59, 62, 65, 75, 87, 90, 91, 93, 95, 97, 99, 100, 101, 102,
103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 113, 124, 133, 149, 151, 179, 180, 181, 197, 199
Apologia di Socrate [41 a] 24
Cratilo [391 D] 113
Ione 100, 105, 110
Ione [531 B] 110
Leggi [680 a-b] 151
Leggi [700 A ss.] 109
Leggi [811 C ss.] 105
Leggi [816 A] 101
Leggi [887 D] 102
Liside 100, 110
Liside [213 E] 110
Repubblica 48, 59, 75, 91, 93, 97, 101, 102, 105, 109, 100, 110, 133, 136, 179, 180, 181
Repubblica [II] 100
Repubblica [III] 100
Repubblica [X] 100, 133
Repubblica [376 E] 101
Repubblica [377 B] 102
Repubblica [377 D] 102
Repubblica [378 E] 105
Repubblica [386 B] 102
Repubblica [387 b] 48
Repubblica [401 B] 102
Repubblica [472 C] 105
Repubblica [600 E] 181
Repubblica [603 C-605 A] 181
Repubblica [606 E ss.] 109
Repubblica [617 E] 75
Repubblica [620 C-D] 181
Repubblica [620 C] 179
Plotino 21
Pohlenz, M. 26, 54, 62, 71, 72, 73, 74, 78, 121, 156, 199
La libertà greca 72, 199
L’uomo greco 54, 62, 74, 78, 121, 156, 199
Polanyi, K. 87
Polifemo 151, 152, 153, 154, 186, 187, 189
Porfirio 105
Questioni omeriche 105
223
Indice dei nomi e delle opere
Poseidone 95, 122, 132, 133, 151, 153, 154, 173
Pound, E. 174
Preve, C. 20, 21, 115, 178
Lettera sull’umanesimo 21, 115
Priamo 15, 64, 89, 128, 139, 141, 142, 144, 145, 182
Proci
41, 47, 71, 76, 80, 91, 95, 120, 136, 147, 150, 151, 156, 157, 158, 164, 169, 173, 183,
186, 188, 189, 190
Prometeo 174, 175, 197
R
Rahner, H. 65, 199
Miti greci nella interpretazione cristiana 65, 199
Reale, G. 49, 53, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 79, 80, 96, 199
Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone
56, 57, 58, 59, 61, 79, 80, 96, 199
Storia della filosofia antica 49, 53, 199
Rohde, E. 78, 80, 199
Psyche 78, 199
Rosmini, A. 64
Rossi, L. E. 115
in AA.VV., Storia e civiltà dei greci 115
S
Scarpat, G. 31, 119, 196
Breve introduzione a Omero 31, 119, 196
Scheria 189
Senofane 25, 103, 104
Severino, E. 121, 199
La filosofia antica 121, 199
Shakespeare, W. 178, 225
Sikes, E. E. 108, 199
The Greek View of Poetry 108, 199
224
Indice dei nomi e delle opere
Simonide 78
fr. 9 DK 78
Sirene 147, 150, 155, 161, 164, 167, 168, 183
Snell, B. 57, 69, 89, 95, 114, 199
La cultura greca e le origini del pensiero europeo 57, 69, 95, 199
Poesia e società 89, 114, 199
Socrate 9, 13, 17, 19, 22, 48, 50, 59, 63, 92, 101, 187
Sofocle 78, 176
Aiace 176
Edipo a Colono 78
Filottete 176
Solone 18, 22, 75, 78, 136
[fr. 3] 75
[fr. 15 DK] 78
Stazio 137
Achilleide 137
Stefanini, L. 63, 65
voce Persona, in AA.VV., Enciclopedia filosofica 63, 65
Stenzel, J. 9, 49, 62, 199
Platone educatore 49, 62, 199
Storoni Mazzolani, L. 73, 199
Profili omerici 73, 199
Storoni Piazza, A. M. 75, 112, 113, 199
Ascoltando Omero 75, 112, 113, 199
Svenbro, J. 75, 199
La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca 75, 199
T
Talete 18
Tasso, T. 176
Gerusalemme liberata [XV, 25-26] 176
Teagene di Reggio 49, 105
Telegono 165
Telemaco 45, 94, 142, 156, 170, 181, 185
Teognide 123
Elegie [I, 254] 123
Elegie [I, 437] 123
225
Indice dei nomi e delle opere
Tersite 23, 40, 57, 85, 107, 178, 179, 192
Tertulliano 65
Ad nationes [I, 10] 65
Apologeticus [XIV, 4] 65
Teti 45, 135, 136
Timoteo 109
Tiresia 166, 183, 188
Tucidide 9, 34, 49, 93, 196
I, 22 93
Turolla, E. 176, 199
Saggio sulla poesia di Omero 176, 199
U
Untersteiner, M. 123
V
Valgimigli, M. 99, 199
Poeti e filosofi in Grecia 99, 199
Vattimo, G. 15
Vegetti, M.
11, 15, 31, 54, 66, 67, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 100, 101, 102, 105, 108, 109, 110, 178,
198, 199
a cura di, Platone. Repubblica 101, 102, 105, 108, 109, 110, 199
Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico 54, 198
Guida alla lettura della Repubblica di Platone 100, 199
Introduzione a L. Grecchi, Conoscenza della felicità 31
L’etica degli antichi 67, 87, 88, 90, 91, 92, 178, 199
Vernant, J. P. 49, 81, 122, 199, 200
L’individu, la mort, l’amour 81, 200
Mito e pensiero presso i Greci 49, 123, 199
Veyne, P. 79, 200
I greci hanno creduto ai loro miti? 79, 200
Vico, G. B. 19, 20, 34, 124, 174, 225
Scienza Nuova 34, 124
Vidal-Naquet, P. 149, 166, 167, 190, 200
Il cacciatore nero 149, 167, 190, 200
226
Indice dei nomi e delle opere
Vigna, C. 21, 70, 111, 178, 200
Sulla verità e sul bene 21, 70, 111, 178, 200
Virgilio [Publio Virgilio Marone] 184
Eneide [II, 792-794] 184
Eneide [VI, 700 ss.] 184
Volpi, F. 124, 195
Storia della filosofia 124, 195
W
Weber, M. 24
Weil, S. 88, 90, 200
La Grecia e le intuizioni precristiane 88, 200
Williams, B. 66, 200
Shame and Necessity 66, 200
Wolf, F. A. 31, 32
Prolegomena ad Homerum 31
X
Xanto 138
Z
Zambarbieri, M. 25, 47, 76, 82, 83, 90, 91, 94, 119, 170, 183, 185, 200
L’Iliade com’è 25, 83, 90, 119, 200
L’Odissea com’è 76, 82, 91, 94, 170, 183, 185, 200
Zefiro 130
Zeller, E. 64
Zeus
15, 47, 70, 71, 75, 76, 91, 95, 96, 103, 113, 122, 132, 133, 139, 141, 144, 145, 152, 154,
165, 170, 184, 189
Zoja, L. 67, 78, 90, 138, 143, 144, 145, 157, 164, 165, 182, 183, 186, 187, 200
Il gesto di Ettore 138, 143, 144, 145, 157, 165, 182, 183, 186, 187, 200
Storia dell’arroganza 67, 78, 90, 200
227
... se uno
ha veramente a cuore la sapienza,
non la ricerchi in vani giri,
come di chi volesse raccogliere le foglie
cadute da una pianta e già disperse dal vento,
sperando di rimetterle sul ramo.
La sapienza è una pianta che rinasce
solo dalla radice, una e molteplice.
Chi vuol vederla frondeggiare alla luce
discenda nel profondo, là dove opera il dio,
segua il germoglio nel suo cammino verticale
e avrà del retto desiderio il retto
adempimento: dovunque egli sia
non gli occorre altro viaggio.
marGherita Guidacci
Sommario
Prefazione di Costanzo Preve...................................................................................... 9
Introduzione .............................................................................................................. 21
Parte Prima – Il pensIero omerIco
La questione omerica ................................................................................................ 31
Il contesto storico-sociale omerico .......................................................................... 37
Omero, Esiodo e la filosofia ..................................................................................... 43
L'umanesimo omerico .............................................................................................. 53
La centralità dell'etica omerica ................................................................................ 87
Omero educatore ....................................................................................................... 99
Tra etica e politica.....................................................................................................111
Parte seconda – I mItI omerIcI
Educazione e mito ................................................................................................... 119
Iliade.......................................................................................................................... 127
Tracotanza e avidità: Agamennone ................................................................ 131
Coraggio e ferocia: Achille............................................................................... 135
Comunità ed etica: Ettore ................................................................................ 141
Odissea ..................................................................................................................... 147
Violenza e disumanità: Ciclopi, Lestrigoni, Proci ........................................ 151
Seduzione e falsità: Lotofagi, Circe, Calipso, Sirene .................................... 161
Ospitalità e benevolenza: Feaci ....................................................................... 169
Saggezza e dolcezza: Odisseo ......................................................................... 173
Conclusioni .............................................................................................................. 191
Bibliografia dei libri moderni citati ............................................................................ 195
Indice dei nomi e delle opere....................................................................................... 201
229
il giogo
01. Luca Grecchi, La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio.
02. AA. VV., Sumbállein. Riflessioni sugli scritti di Umberto Galimberti. Federico
Bordonaro, L’età della tecnica? Appunti di lettura di «Psiche e Techne» – Michele
Marolla, Dalla crisi della ragione alla coscienza simbolica. Esposizione e osservazioni
critiche intorno al saggio di U. Galimberti, «La terra senza il male. Jung: dall’inconscio
al simbolo» – Franco Toscani, Sacro, tecnica, etica nel pensiero di Umberto Galimberti
– Diego Melegari, Dall’equivoco alla possibilità – Alberto Giovanni Biuso, Corpo e
Tempo – Costanzo Preve, Marx e Heidegger. Pervasività della tecnica e critica culturale
al capitalismo nei due classici ed in alcuni loro interpreti contemporanei – Giuseppe
Bailone, La malattia genetica del marxismo. Obiezioni al Marx e Heidegger di Costanzo
Preve – Giuseppe Bailone, I vizi di Galimberti e il peccato di Aracne.
03. Umberto Galimberti – Luca Grecchi, Filosofia e Biografia.
04. Luca Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino.
05. Luca Grecchi, Corrispondenze di metafisica umanistica.
06. Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico della metafisica.
07. Costanzo Preve – Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci.
08. AA. VV., Dialettica oggi. Costanzo Preve, Elogio della filosofia. Fondamento,
verità e sistema nella conoscenza e nella pratica filosofica dai greci alla situazione contemporanea – Giuseppe Bailone, La verità si può mettere ai voti? – Enrico Berti, Si
può parlare di una evoluzione della dialettica platonica? – Mario Vegetti, La dialettica
nella Repubblica di Platone – Domenico Losurdo, Contraddizione oggettiva e analisi
della società: Kant, Hegel, Marx - Giovanni Stelli, Alcune osservazioni sulla dialettica
hegeliana – Nello De Bellis, Note a margine sulla dialettica di Hegel – Alberto Giovanni Biuso, Dialettica e benedizione. Sull’antropologia greca di Friedrich Nietzsche
– Michele Marolla, Riflessioni sull’attualità della dialettica.
09. Luca Grecchi, Conoscenza della felicità. Premessa di Mario Vegetti.
10. Luca Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti. Presentazione di
Carmelo Vigna.
11. Costanzo Preve, Storia della Dialettica.
12. Marino Gentile, La metafisica presofistica. Con una Appendice su “Il valore
classico della metafisica antica”. Introduzione di Enrico Berti.
13. Costanzo Preve, Storia dell’Etica.
14. Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea.
15. Luca Grecchi, Il presente della filosofia italiana.
16. Costanzo Preve, Storia del Materialismo.
17. Giovanni Casertano, La nascita della filosofia vista dai Greci.
18. Mario Vegetti, Scritti con la mano sinistra.
19. Diego Fusaro, Incursioni nella filosofia moderna.
20. AA. VV., Filosofia ed estetica. Franco Toscani, Poesia e pensiero nel «tempo di
privazione». In cammino con Hölderlin e Heidegger – Donato Sperduto, Eschilo in G.
D’Annunzio, E. Severino e L. Grecchi – Costanzo Preve, L’estetica di Lukács fra arte
e vita. Considerazioni storiche, politiche e filosofiche – Diego Fusaro, Per una teoria
dell’arte in Marx – Alberto Giovanni Biuso, «Abbiamo l’arte per non naufragare
nella verità». Sull’estetica dionisiaca di Nietzsche – Diego Stea, Popolarizzazione
e rifunzionalizzazione della musica colta – Michele Marolla, Estetica e modernità
secondo Benedetto Croce – Franco Toscani, Il riso di Zarathustra. Prospettivismo e
benedizione nel Nietzsche di Alberto Giovanni Biuso – Ottavia Spisni, Vedere senza
vedere – Monia Nicolaci, L’interpretazione come modello di razionalità – Roberto
Signorini, Alle origini del fotografico.
21. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia greca.
22. Paola Manulli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia
nel pensiero antico.
23. Luca Grecchi, L’umanesimo di Platone.
24. Luca Grecchi, L’umanesimo di Aristotele.
25. Luca Grecchi, L’umanesimo di Plotino.
26. Luca Grecchi, Il filosofo e la vita. I consigli di Platone e dei classici Greci, per la
buona vita.
27. Augusto Cavadi, Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore.
28. Ernesto Screpanti, Marx e il contratto di lavoro: dall’astrazione naturale alla
sussunzione formale.
29. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia cinese.
30. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia indiana.
31. Luca Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia islamica.
32. AA. VV., Filosofia e politica. Che fare? Intenzioni – costanzo Preve, La saggezza
dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi
– andré toseL, I diritti dell’uomo e i livelli dell’universale. Aporie della mediazione –
denis coLLin, Per una critica dell’economia politica – Giacomo Pezzano, Filosofi(a) e
politica (?). Breve storia di un rapporto controverso – domenico Losurdo, I «Protocolli
dei Savi dell’Islam» ovvero come si costruiscono le leggende nere – carmeLo viGna,
Politica e speranza – enrico berti, Per una nuova società politica – dieGo fusaro, La
gabbia d’acciaio: Max Weber e il capitalismo come destino – ernesto screPanti, Marx e
il contratto di lavoro: dall’astrazione naturale alla sussunzione formale – mario veGetti,
La filosofia e la città: processi e assoluzioni – franco toscani, Speranza e utopia nel
pensiero di Ernst Bloch – federico Leonardi, La Repubblica di Platone. Il tiranno e il
filosofo: una affinità elettiva – micheLe maroLLa, Benedetto: politica, filosofia, fede nel
tempo della crisi – aLberto Giovanni biuso, Oltre liberalismo e socialismo – marceLLo
barison, Critica della produzione immateriale – auGusto cavadi, La filosofia-in-pratica.
Una discussione lacustre – donato sPerduto, Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino
e Carlo Levi a confronto – Luca tonetti, I filosofi e la politica: che fare? Nuova filosofia
del fare: azione e riflessione nella politica di oggi – costanzo Preve, Il saggio di Luca
Grecchi Occidente: radici, essenza, futuro. Un convincente esercizio di filosofia della
storia – danieLa benvenuti, Il saggio di A. Sangiacomo: Scorci. Ontologia e verità
nella filosofia del Novecento – auGusto cavadi, Il saggio di N. Pollastri: Consulente
filosofico cercasi.
33. Rodolfo Mondolfo, Gli albori della filosofia in Grecia. Introduzione di Giovanni
Casertano.
34. Chiara Tinnirello, Singolarità estetica. Prassi mimetiche tra arte e filosofia da
Nietzsche a Nancy. Introduzione di Giuseppe Frazzetto.
35. Luca Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci. In Appendice: In difesa di
Socrate, Platone ed Aristotele.
36. Luca Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica.
37. Luca Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo.
38. Giuseppe Quaresima, La globalizzazione e le nuove teorie dell’imperialismo.Una
rassegna critica.
39. Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene. Presentazione di Enrico
Berti. Postfazione di Costanzo Preve.
40. AA. VV., Bene comune. – Intenzioni – enrico berti, Il bene – carmeLo viGna,
Per una metafisica del bene comune – PieranGeLo sequeri, Agorà / Oltre il dialogo.
Sfida congiunta alla passioni tristi – dieGo fusaro, Quale comune? Per una critica del
marxismo deleuziano di Toni Negri – davide GaLLo Lassere, Lo statuto della critica. Per
una ricostruzione filosofica dell’ultimo quarantennio – costanzo Preve, Le avventure
della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della
filosofia e della filosofia della storia – Giovanni casertano, Il bene e la linea – franco
toscani, Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele – maurizio scarPari, La concezione dell’essere umano nella filosofia cinese – aLessandro monchietto,
Connivenza con l’insensatezza. Fatalismo, speranza e schiavitù nel pensiero di Diego
Fusaro – Giacomo Pezzano, Contributo alla critica della giuridsizione umanitaria del
bene comune a partire dal diritto romano – cLaudio Lucchini, Alcune riflessioni sulle
nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi – Lorenzo dorato,
Relativismo e universalismo astratto: le due facce speculari del nichilismo. Bene e Verità
come concetti “rivoluzionari” alla base di un universalismo sostanziale e di una critica
radicale del capitalismo – costanzo Preve, Gli antichi, i moderni, l’umanesimo e la
storia. Alcuni rilievi a partire dagli ultimi lavori di Luca Grecchi e di Diego Fusaro.
41. Luca Grecchi, Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo.
42. Alessandro Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica.
43. Luca Grecchi, L'umanesimo di Omero.
EGERIA
Letteratura, arte, pensiero d’Europa
Scrittrici del Novecento europeo.
K. boye - G. manzini - e. LasKer-schüLer
v. WooLf - s. WeiL - m. cvetaeva.
Interventi di:
D. Marcheschi - M. Ghilardi - U. Treder - M. Del Serra
G. Fiori - C. Graziadei.
La Minima.
Due atti di maura deL serra,
con una nota di Daniela Marcheschi.
Novanta. Verso un’arte di pensiero,
di amedeo aneLLi.
e. abbozzo - G. bai - s. cardinaLi - a. cavaLieri - a. cesari
f. de bernardi - f. fedi - G. Gini - s. nihLèn - c. rosi - f. scatoLi
m. traini - W. Xerra.
Prose e interviste
di marGherita Guidacci.
a cura di Ilaria Rabatti.
Di poesia e d’altro - vol. I,
di maura deL serra.
m. maddaLena - JacoPone - L. deLLa robbia - W. shaKesPeare
G. herbert - J. i. de La cruz - G. b. vico - u. foscoLo
c. coLLodi - f. nietzsche.
Le poesie di simone WeiL,
a cura di Maura Del Serra
EGERIA
Poeti del Novecento europeo.
G. traKL - a. achmatova - t. s. eLiot
f. G. Lorca - P. PaoLo PasoLini
e. söderGran.
Interventi di:
R. Carifi - M. Colucci - R. Sanesi - A. Melis
M. Del Serra - D. Marcheschi.
Il fuoco e la rosa.
I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot,
di marGherita Guidacci. A cura di Ilaria Rabatti.
Di storia in storia: la biblioteca italiana di Hjalmar Bergman,
di yrJa haGLund.
Il Segugio del Cielo e altre poesie,
di francis thomPson.
A cura di Maura Del Serra.
Drammaturghi del Novecento europeo.
h. ibsen - L. PirandeLLo - a. camus - b. brecht - s. becKett.
Interventi di:
G. Antonucci - M. Argenziano - U. Ronfani - L. Zagari - K. Elam.
Di poesia e d’altro - vol. II,
di maura deL serra.
f. thomPson - a. Panzini - e. LasKer-schüLer
d. camPana - a. onofri - v. s. soLov’ëv.
Vita di Vittoria Colonna
di isabeLLa teotochi aLbrizzi
a cura di Adriana Chemello (La Vita di Vittoria Colonna
di Isabella Teotochi Albrizzi. Le consonanze di una sorellanza elettiva).
filo di perle
ain zara magno,
Parole d’amore.
A cura di I. Rabatti.
Luisa giaConi,
Dalla mia notte lontana.
A cura di I. Rabatti.
margherita guidaCCi,
La voce dell’acqua.
Quaderno di traduzioni, a cura di G. Battaglia e I. Rabatti
[autori tradotti: William Blake, Hilda Doolitle, Thomas S. Eliot, Gabriela Mistral, Richard Eberhart,
Robert Frost, Archibald MacLeish, Ezra Pound, Tu Fu, Mao Tse-tung, Federico García Lorca, Vicente
Aleixandre, Jorge Guillén, Cristopher Smart, Marie Under, Kathleen Raine, Henrik Visnapuu, Francis
Thompson, Czeslaw Milosz, Elizabeth Bishop, John Keats].
Luisa giaConi,
A fiore dell’ombra.
Le poesie, le lettere, gli inediti.
A cura di M. Brotto.
CeCíLia meireLes,
Misura del significato e altre poesie.
A cura di S. Masin.
soPhia de meLLo Breyner andresen,
Corpo a corpo e altre poesie.
A cura di S. Masin.
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