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UCRAINA storia della guerra del 2022

La nazificazione dell'Ucraina. I rapporti con la Nato. Le provocazioni e la reazione di Putin.

UCRAINA, la verità storica dietro il conflitto russo-ucraino scoppiato nel 2022 Le notizie riportate in questo documento sono qui www.youtube.com/watch?v=XOqq9ALn1Tw e sono frutto del lavoro del giornalista italiano Massimo Mazzucco. Rielaborazione di Lucia Gangale. Come siamo arrivati alla guerra russo-ucraina scoppiata nel 2022? È una narrazione estremamente semplificata e tendenziosa quella che ci mostra Putin come un dittatore sanguinario, che attacca e distrugge territori altrui per restaurare un impero che non c’è più. Le cose sono, in realtà, ben più complesse. Negli ultimi cento anni si è creata una frattura tra filorussi e filoccidentali. Il dilemma dell’Ucraina oggi è: stare con la Russia? Rimanere indipendenti? Entrare nella Nato? L’Ucraina è un territorio di 43 milioni di abitanti, con una società molto divisa al suo interno dal punto di vista etnico-linguistico. A occidente la popolazione parla prevalentemente ucraino, mentre la parte sud-orientale parla prevalentemente russo. Anche se non c’è una netta linea di divisione. Ci sono sfumatura che indichiamo nella cartina qui sotto Ucraini e Russi sono anche due etnie diverse, che non sono mai andate d’accordo. Molti ucraini odiano visceralmente i russi, e questo odio rimonta all’epoca dello stalinismo, negli anni Trenta del Novecento. Dopo la rivoluzione russa del 1917, l’Ucraina, suo malgrado, è entrata a far parte dell’Unione Sovietica Basti pensare che parte degli ucraini combatterono nell’Armata bianca contro i bolscevichi. L’Armata rossa vinse ed il resto è storia. Ben presto la politica di Stalin, che voleva centralizzare e redistribuire tutte le risorse del Paese (collettivizzazione dell’agricoltura), scontenta gli ucraini. I piccoli coltivatori locali, i Kulaki, erano obbligati a cedere i loro terreni ai Kolkoz, le aziende agrarie collettive sovietiche. L’Ucraina, ricca d grano, diveniva così il granaio di tutta l’Unione Sovietica. I kulaki ucraini si rifiutavano di cedere le loro terre e Stalin, per rappresaglia, nel 1932 provocò una carestia destinata a durare diversi anni, che fece tra gli ucraini diversi milioni di morti (dai 4 ai 6). Questa tragedia è ricordata con il nome di “Holodomor”. Ci furono confische violente di terreni, deportazioni di massa nei gulag, rimozioni forzate di famiglie e villaggi, pena di morte per chi non accettava gli ordini di Mosca. Da questa vecchia storia, nasce l’odio profondo degli ucraini per i russi. Negli anni Trenta nascono delle formazioni ucraine filonaziste, che sotto Stalin operano in clandestinità. Esse si concentrano soprattutto nella Galizia, nella zona occidentale del Paese. La OUN è, tra di esse, la più importante, fondata nel 1929. Uno dei suoi leaders più importanti è Stepan Bandera, un antirusso, antipolacco e antisemita, sostenitore della superiorità e la purezza del popolo ucraino (come Hitler faceva coi tedeschi). La loro bandiera è rossa e nera (i colori, rispettivamente, del sangue e della terra). Bandera è ancora oggi il più importante riferimento del nazionalismo ucraino. Nel 1941 Hitler lancia l’operazione “Barbarossa” per conquistare la Russia e, ovviamente, le truppe devono attraversare l’Ucraina. In quell’occasione, le truppe naziste dell’Ucraina occidentale, vengono accolte come liberatori. Le organizzazioni filonaziste clandestine escono allo scoperto e si formano battaglioni di collaborazionisti ucraini. La più notevole è la formazione “Galizien”, che arruola ben ottantamila collaborazionisti ucraini. Sotto i tedeschi, queste armate ebbero mano libera e compirono stragi etniche. La più famosa è il massacro di Babi Yar, vicino a Kiev, quando 33771 ebrei vengono sterminati dalle bande armate della OUN di Bandera. Nella zona orientale della Galizia vennero massacrati 32mila polacchi. La strage fu compiuta dagli squadroni della morte di Mykolad Lebed, socio di Bandera. Hitler, poi, perde la guerra, l’Ucraina rimane nell’orbita sovietica e le bande filonaziste ritornano ad operare in clandestinità. E qui, entrano in gioco gli americani, i quali si alleano con i nazisti, per utilizzarli quando possono tornargli utili. Del resto, già lo hanno fatto con la famosa “Operazione Paperclip”, quando millecinquecento scienziati tedeschi vengono aiutati a fuggire negli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E lo fanno anche con i nazisti ucraini, mettendo in salvo Bandera in Occidente. Bandera vivrà a Monaco sotto falso nome fino al 1959, anno in cui fu scovato e ucciso da agenti del Kgb. Anche Lebed, l’autore del massacro dei polacchi, fu aiutato ad espatriare dalla Cia. Lebed fu trasportato direttamente negli Stati Uniti, dove visse in tranquillità fino al 1998, sotto la protezione della Cia. Ma perché questa alleanza tra gli americani ed i nazisti ucraini? È presto detto. Li utilizzavano come fonte di informazione locale in funzione antisovietica. La Guerra Fredda. È quel periodo storico che va dal 1946 al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. Si tratta di 45 anni in cui il mondo è diviso in due blocchi contrapposti: quello filoamericano a ovest, quello filorusso a oriente. Svezia, Finlandia, Svizzera e Austria rimangono neutrali. La Jugolavia, anche se considerata parte del blocco comunista, ufficialmente non è mai entrata nel Patto di Varsavia. Durante la guerra fredda si verificano due episodi molto importanti. Il primo, nel 1954, quando Kruscëv regala la Crimea all’Ucraina (alcuni dicono perché Kruscëv, ucraino lui stesso, voleva in qualche modo riparare le ferite subite dal suo Paese sotto Stalin; altri perché in tal modo celebrava i trecento anni dello storico patto di amicizia tra Ucraina e Russia, del 1654). La Crimea diventa parte integrante dell’Ucraina. Rimane comunque sotto diretto controllo russo la base navale di Sebastopoli, sede della flotta navale russa nel Mar Nero. L’altro episodio è del 1962 e riguarda la famosa crisi dei missili di Cuba. Nel 1959 Fidel Castro guida la rivoluzione cubana e l’isola entra a far parte del blocco sovietico. Nel 1962, alcuni aerei spia americani, gli U2, rivelano che a Cuba è in corso la costruzione di rampe per missili di produzione sovietica. Il presidente Kennedy fa una scelta arrischiata ma intelligente: invece di trattare con i Russi dietro le quinte, si presenta in televisione e denuncia il fatto al mondo intero. Kennedy si preparava ad invadere Cuba, se le rampe di lancio non fossero state rimosse. A tale riguardo, c’è la registrazione di una telefonata che Kennedy ebbe con l’ex presidente Eisenhower proprio durante la crisi dei missili. Kennedy era sul piede di guerra ed avrebbe affrontato anche uno scontro nucleare con la Russia, pur di sbarazzarsi di quei missili piazzati a 200 km dalle coste americane. I russi fecero marcia indietro e i missili cubani furono smantellati. Pare che nella crisi di Cuba abbia giocato un ruolo fondamentale Papa Giovanni XXIII (www.storico.org/dopoguerra_tormentato/crisi_cuba.htmlhttp://www.storico.org/dopoguerra_tormentato/crisi_cuba.html). Un suo radiomessaggio, in lingua francese, trasmesso da Radio Vaticana alle ore 12 di giovedì 25 ottobre 1962, un appello alla pace, un richiamo ai «gravi doveri di coloro che hanno la responsabilità del potere», ha la tale capacità di scuotere le coscienze dei grandi della Terra, ha il potere di smorzare i toni e permette di superare la crisi. È incredibile che il passo compiuto dal Papa sia stato ignorato dalla storiografia fino all’apertura degli archivi sovietici, avvenuta nel 2000. L’ateo Kruscëv non perse tempo a ringraziare immediatamente il Papa. Quell’anno il «Times» dichiarò Giovanni XXIII «Uomo dell’anno» per aver «dato al mondo intero ciò che non potevano dargli né la diplomazia né la scienza: un senso dell’unità della famiglia umana». Nel 1963, il Papa pubblicò l’enciclica Pacem in Terris. Quello fu, secondo gli storici, il momento in cui le due superpotenze arrivarono più vicino ad una guerra atomica. Fine dell’Unione Sovietica. Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, l’Unione Sovietica nell’arco di pochi anni si disintegra. Le nazioni satellite che ne facevano parte, una dopo l’altra riacquistano la loro indipendenza. E così anche l’Ucraina, nel 1991, diventa un Paese indipendente. Sorge a questo punto un problema: con la dissoluzione del Patto di Varsavia, la Nato non avrebbe più ragione di esistere, in quanto si trattava di un patto difensivo contro una coalizione che non c’è più. Invece gli americani non ci pensano proprio a scioglierla, perché la Russia, anche come Stato singolo, rimane comunque un problema per loro. E la Nato è lo strumento ideale per farla, in un futuro, crollare. Si pongono problemi rilevanti nello scacchiere geopolitico. Il primo problema è rappresentato dalla Germania Est, che faceva parte del Patto di Varsavia. Riunificandosi alla Germania Ovest, di colpo avrebbe fatto parte della Nato. Cioè si trattava di entrare a far parte da un giorno all’altro del blocco opposto. I Russi, dal canto loro, voleva garanzie che la cosa si sarebbe fermata alla Germania Est e che l’espansione della Nato verso Est non ci sarebbe stata. Nel febbraio 1990, il ministro degli Esteri tedesco, Gensher, e quello americano, Baker, in maniera separata diedero ampie rassicurazioni a Mosca sul fatto che l’espansione della Nato verso Est non ci sarebbe stata. Quando Gorbachev disse che l’espansione a Est della Nato era «inaccettabile», Baker rispose: «Su questo siamo d’accordo». Il Presidente degli Usa George H. Bush avrebbe poi dichiarato che non c’era alcuna volontà da parte americana di danneggiare l’Unione Sovietica in qualunque maniera. Il presidente francese François Mitterand, aveva detto a Gorbachev che lui era a favore di uno smantellamento graduale dei blocchi militari. Il segretario generale della Nato, Manfred Wörner, più tardi espresse la sua chiara opposizione ad una espansione dell’alleanza occidentale. Dunque se Gorbachev avesse acconsentito ad una riunificazione della Germania all’interno della Nato, l’Occidente avrebbe cercato di costruire un’architettura di sicurezza occidentale che tenesse conto degli interessi di Mosca. Nel 1991 la Germania viene riunificata con capitale Berlino e rimane parte integrante della Nato. C’è un patto verbale, non scritto, che la Nato non si espanderà ulteriormente verso Est. In quel periodo negli Stati Uniti i Neocons stavano lentamente arrivando al potere. Essi intendevano diventare la nuova forza unica dominante nel nuovo secolo che stava per iniziare, quello che loro chiamavano “Il nuovo secolo americano”. Questo implicava togliere definitivamente di mezzo la Russia. Nell’arcinoto documento intitolato Rebuilding America’s Defenses. Strategy, Forces and Recources For a New Century, i Neocons scrivevano: «Gli Stati Uniti sono oggi l’unica superpotenza al mondo che riunisce un predominante potere militare, una leadership tecnologica globale e la più grande economia del mondo. Inoltre, l’America è alla guida di un sistema di alleanze, che include tutte le altre più importanti nazioni democratiche del mondo. In questo momento gli Stati Uniti non hanno nessun rivale al mondo. La strategia a lungo termine dell’America dovrebbe cercare di preservare e di estendere il più possibile nel futuro questa posizione di vantaggio. Ciò che dovrebbe determinare le dimensioni e le caratteristiche delle nostre forze nucleari, non è una parità numerica con la Russia, ma il mantenimento della superiorità strategica americana; insieme a questa superiorità, la capacità di scoraggiare possibili coalizioni ostili di potenze nucleari. La superiorità nucleare degli Stati Uniti non è nulla di cui dobbiamo vergognarci; anzi, sarà un elemento essenziale per preservare la leadership americana in un mondo sempre più caotico e complesso». Ecco l’aria che tirava negli Stati Uniti sul finire del secolo scorso. Altro che rispettare le ragioni di sicurezza della Russia. I Neocons volevano il controllo assoluto del mondo e ritenevano che quello fosse il momento giusto. E lo scrivevano pure. Due strategie per indebolire la Russia Non essendo pensabile attaccare frontalmente un Paese come la Russia, che disponeva di un immenso armamentario atomico, gli americani pensavano a come indebolire quel Paese dal punto di vista economico. Le strade percorribili erano due: una, obbligare i Russi ad una spesa militare sempre crescente; l’altra, imporre loro sanzioni economiche, ogni volta che se ne presenti la possibilità. Per imporre loro una spesa militare esorbitante, bisogna circondarli dappertutto di basi militari, con i missili puntati su Mosca. In tal modo, da un lato li si minaccia fisicamente, dall’altro li si costringe ad adottare delle costosissime contromisure. Nel 1997 esce il famoso libro di Zbignew Brzezinski, The Grand Chessboard. American primacy and its geostrategic imperatives, cioè “Il grande scacchiere. Il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. In questo libro, viene chiaramente delineata la strategia futura degli Stati Uniti verso la Russia, e cioè portare dalla parte dell’Occidente, uno per uno, i vari Paesi dell’ex Patto di Varsavia, per accerchiare sempre più la Russia in maniera minacciosa e preoccupante. Quando Joe Biden era senatore nel 1997, aveva già espresso chiaramente questa filosofia di fare innervosire i Russi. Biden affermava che per provocare in tempi brevi una vigorosa reazione ostile, ma non militare, un modo era quello di annettersi gli Stati del Baltico. Infatti, contravvenendo ai patti presi nel 1991 con la Russia, ecco che nel 1999 entrano a far parte della Nato: Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. Nel 2004 entrano anche Estonia Lettonia, Lituania, Slovacchia, Romania e Bulgaria. Manca il pezzo forte per completare l’accerchiamento: l’Ucraina. La prima rivoluzione colorata E infatti, cosa avviene nel 2004 in Ucraina? La prima rivoluzione colorata, finanziata dagli Stati Uniti per cercare di portare anche l’Ucraina nella sfera occidentale. Dal 1991, anno della sua indipendenza, l’Ucraina era sempre rimasta neutrale, sempre sbilanciarsi troppo nei confronti dell’America o della Russia. Nel 2004 in Ucraina ci sono le elezioni e si presentano due candidati: Viktor Yanukovich, filorusso, e Viktor Yuschenko, filoccidentale. Yuschenko è il candidato supportato dagli Stati Uniti. Sua moglie, Catherina Yuschenko, aveva lavorato alla Casa Bianca già con Ronald Reagan, poi era diventata un alto funzionario del ministero degli Esteri americano. Dunque abbiamo un candidato supportato dalla Cia, e l’altro dal Kgb. Per la prima volta l’Ucraina diventa un terreno di scontro tra Russia e Stati Uniti. Il voto è così diviso Il nord-ovest, con la capitale Kiev, vota filoccidentale per Yuschenko; il sud est è a favore di Yanukovich, pro Russia. Yanukovich vince per pochi voti, ma a qualcuno questo non piace. A Kiev la gente contesta il risultato e si hanno proteste di piazza. È la prima piazza Maidan, quella del 2004, la Rivoluzione arancione. Dopo un mese la Corte Suprema annulla il risultato elettorale e indice nuove elezioni. La seconda tornata è vinta da Yuschenko, che diventa il nuovo Presidente dell’Ucraina e viene ricevuto a Whasington come un eroe. Whasington ha anche chiaramente finanziato la rivoluzione arancione. George Freedman, analista geopolitico americano, che lo ammette apertamente nelle sue conferenze. L’America ha finanziato gruppi per distruggere la Federazione russa. È proprio allora che inizia quella che Putin oggi chiama la “nazificazione dell’Ucraina”. Divenuto presidente, Yuschenko sceglie come primo ministro Julia Tinoschenko, una estremista di destra che ha un odio viscerale per i Russi. All’ombra della Tinoschenko fioriscono i vari leaders dell’estrema destra: Arseniy Yatsenyuk, del suo stesso partito, Vitali Klitschko, del partito ultranazionalista Udar, Oleh Tyanibhok, del partito neonazista Svoboda. Durante la sua presidenza Yuschenko compie anche un gesto assai significativo per i nazisti dell’Ucraina: riabilita Stepan Bandera e lo proclama eroe nazionale («per la lotta e il sacrificio a favore dell’Ucraina»). Yuschenko e sua moglie Catherina La moglie di Yuschenko, Katerina, fin da giovane, aveva espresso apertamente le sue preferenze politiche. Un alto funzionario del ministero degli Esteri americani che fa il saluto nazista: Fatto sta che nel 2010, con le elezioni, la nazificazione dell’Ucraina subisce una battuta d’arresto. Yuschenko, infatti, anche avendo avuto mano libera per sei anni, non è riuscito a realizzare le riforme che aveva promesso. Alle elezioni si trova nuovamente di fronte Yanukovich, il candidato filorusso. La vittoria di Yanukovich è schiacciante e non c’è nessun dubbio nel conteggio delle schede. Il Fondo Monetario Internazionale cerca di sedurlo: gli promette grossi prestiti per entrare nell’Europa, ma chiede riforme che andrebbero a danneggiare le classi più povere (il solito sistema usato dai banchieri: danno soldi ma chiedono di fare macelleria sociale). Lo ha raccontato lo stesso Yanukovich, in una intervista con Oliver Ston: “Il FMI ci proponeva aumento delle bollette, soprattutto dell’elettricità e del gas naturale. Questo avrebbe significato un forte aumento delle spese per la gente, perché il loro stipendio sarebbe rimasto invariato. Quindi non abbiamo fatto quella scelta. Non abbiamo suggerito altre soluzioni, ma abbiamo ricevuto un rifiuto ufficiale del FMI nel novembre 2013. Per noi restava la Russia». Dopo un lungo tira e molla, Yanukovich decide di non firmare l’accordo economico con l’Europa. E questo è il punto di svolta che spiega e determina tutto quello che succede nei successivi otto anni. I media occidentali, nel frattempo, cominciano a martellare sulla mancata opportunità dell’Ucraina di entrare nell’orbita occidentale. Inizia la preparazione del colpo di Stato. Nel dicembre 2013, il deputato ucraino Oleg Tzarov denuncia in Parlamento il progetto Tech Camp, portato avanti dall’ambasciata americana di Kiev per convogliare tramite i social la guerra civile in Ucraina: «Questo progetto prepara specialisti nella guerra dell’informazione, per gettare discredito sulle istituzioni statali tramite l’uso dei social. Prepara potenziali rivoluzionari per organizzare il rovesciamento dell’ordine costituito. Il progetto è sotto la gestione dell’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Piatt». I cittadini scendono in piazza per protestare, in modo pacifico, contro il mancato accordo con l’Europa. La diplomatica statunitense Victoria Nuland vola a Kiev per incontrare Yanukovich. Già ambasciatrice per la Nato durante la presidenza di Bush, Victoria Nuland è la moglie di uno dei Neocons più importanti: Robert Kagan, uno dei fondatori del Pnac ed uno degli autori del famoso documento Rebuildng America’s Defenses. Kagan è famoso per la sua frase: «Quando hai un martello, tutti i problemi cominciano ad assomigliare a dei chiodi», che è diventata lo slogan dei Neocons. All’epoca del Maidan, la Nuland era la vice del ministro degli Esteri americano John Kerry, con delega speciale per l’Eurasia. Ecco l’infiltrazione dei neocons nel governo americano. Nel dicembre 2013, difronte all’associazione Usa Ucraina, Vittoria Nuland racconta del suo incontro appena avvenuto a Kiev con il presidente Yanukovich. Gli dice che sono già stati spesi cinque miliardi di dollari per portare l’Ucraina in Occidente e che lui deve firmare l’accordo, altrimenti non avrà futuro. Lo scopo è avere una Ucraina «libera, prospera e democratica». Yanukovich è però irremovibile e non firma l’accordo, per cui l’America decide che è venuto il momento di toglierlo di mezzo. Le proteste del Maidan, che erano cominciate in maniera pacifica, diventano violente. Con il metodo dei cecchini che iniziano a sparare sulla folla, le proteste vanno velocemente fuori controllo. A piazza Maidan tutti sparano su tutti e i morti non si contano. Dopo tre mesi di rivolte, Yanukovich viene deposto e costretto a fuggire in Russia. Al suo posto viene eletto Pietro Poroshenko col primo ministro Arseniy Yatsenyuk, figure gradite all’Occidente. Il colpo di Stato è completato. Ma chi c’era in piazza Maidan ad aizzare la folla contro Yanukovich? Guarda caso, Arseniy Yatsenyuk, del partito della Timoshenko, Vitali Klitschko, Oleh Tyanibhok, cioè gli ultranazionalisti sopra citati. Questi tre personaggi sono al centro di una telefonata che avviene in quel periodo tra l’ambasciatore americano Geoffrey Pyatt e Victoria Nuland. È il “Nuland gate”. Questa telefonata doveva restare segreta, ma qualcuno l’ha resa pubblica, creando imbarazzo al dipartimento di Stato americano. Infatti in essa Nuland e Pyatt decidono quale dovrà essere la formazione del governo ucraino dopo il rovesciamento di Yanukovich. Secondo la Nuland, Yatsenyuk può fare il primo ministro, mentre gli altri due neonazi sono impresentabili e possono rimanere accanto a lui, ma agire nell’ombra. E rimarca che sarebbe bello portare avanti questa operazione sotto l’egida dell’ONU, quindi decidendo dei destini dell’Europa: «E vaffanculo all’Unione Europea», esclama sempre la Nuland. Poi, alla fine della telefonata, conferma che c’è l’ok del presidente Biden su tutta l’operazione. Durante le proteste la Nuland si premura di farsi riprendere in piazza mentre porta il pane ai manifestanti, accompagnata dall’ambasciatore Pyatt Anche il senatore americano John McCain in quel periodo sente il bisogno di visitare l’Ucraina. Arringa le folle in piazza, come se fosse a casa sua. Parla di futuro per l’Ucraina. Al suo fianco c’è Oleh Tyanibhok, il leader del partito nazista Svoboda È dalla fine della guerra che gli americani mantengono buoni rapporti con i nazisti ucraini e ora gli tornano utili. Sul sito ufficiale del partito, Tyanibhok scrive che bisogna fucilare i russi senza indagini e senza processo. Tutte i membri di organizzazioni filo-russe, filo-Romania, pro-Ungheria e pro-Tatari devono essere fucilati. «La biomassa amorfa di stomaci viventi che parla russo è un gregge che va ridotto di 5-6 milioni di individui». La Nuland tra i tre neonazisti, agitatori di Piazza Maidan. La Nuland si congratula con Klitschko divenuto sindaco di Kiev Il governo instaurato dagli americani sotto la presidenza di Poroshenko Yatsenyuk inizia a darsi da fare per portare l’Ucraina verso la Nato. È il 2014. La nazificazione dell’Ucraina Dopo la vittoria, le statue di Lenin vengono abbattute in diverse città ucraine. Escono all’aperto organizzazioni paramilitari di chiara ispirazione nazista. Viene rispolverata la bandiera rosso nera dei primi nazisti ucraini. Le città sono presidiate da miliziani che fanno ronde giorno e notte e dicono che hanno il compito di mantenere l’ordine nel Paese, visto che la polizia non se ne occupa abbastanza. Si definiscono “patrioti ucraini”. Nasce anche il famigerato battaglione Azov, di chiara ispirazione neonazista, che nel 2014 viene incorporata nella Guardia Nazionale Ucraina dal ministro degli Interni Arsen Avakov. Nelle piazze spuntano le fiaccolate dei nazisti, come ai tempi di Hitler. In prima fila, campeggia il ritratto di Stepan Bandera, durante i cortei. Gli ucraini nazisti della seconda guerra mondiale ricevono speciali cerimonie di risepoltura e vengono celebrati come eroi da soldati ucraini in uniforme nazista. I ragazzi ucraini ricordano molto da vicino la Hitlerjugend, la gioventù nazista hitleriana. Nelle manifestazioni pubbliche i ragazzini prendono a calci la bandiera russa. Nelle scuole si insegna che i bambini con un soprannome russo non sono dei veri ucraini, pertanto vanno segregati e rispediti a casa. Ai bambini più piccoli viene insegnato a dire «massacreremo i russi» e a fare il saluto nazista. I tempi per i russi in Ucraina si fanno duri. Il presidente Poroshenko ha un programma particolare per i suoi concittadini di lingua russa: «Noi avremo un lavoro e loro non l’avranno. Noi avremo le pensioni, e loro no. Noi avremo il supporto della gente, bambini e pensionati, e loro no. I nostri bambini andranno a scuola e all’asilo mentre i loro figli dovranno nascondersi nelle cantine. Perché loro non sanno fare niente. Ecco come vinceremo questa guerra». Julia Tinoschenko torna in piazza dopo aver passato tre anni in prigione per abuso di potere. Dice: «Dannazione, dobbiamo prendere le armi e andare a uccidere questi maledetti moscoviti». «Dobbiamo colpirli con le bombe atomiche». Ecco l’aria che si respira a Kiev dopo il colpo di stato di Maidan. La secessione della Crimea A quel punto i russi della Crimea (98% della popolazione) scelgono di staccarsi dall’Ucraina e di tornare a far parte della Russia. La Crimea era sempre stata russa, ma era stata donata da Kruscëv all’Ucraina per motivi mai chiariti. Nel marzo 2014, gli abitanti della Crimea organizzano un referendum, nel quale respingono l’autorità del governo golpista di Kiev e votano per tornare sotto la Russia. Il referendum si svolge in maniera pacifica. Il sì vince con una percentuale del 96,77%. A Sebastopoli, dopo il voto, cominciano i festeggiamenti di piazza. A Occidente Putin viene accusato di avere messo in piedi un referendum farsa, per compiere un’annessione di fatto. I festeggiamenti di piazza, però, raccontano un’altra storia. Dopo il referendum, la narrazione occidentale capovolge tutta la narrazione. Quello che è stato un vero colpo di stato a Kiev, viene fatto passare per legittima espressione del diritto all’autodeterminazione. E quello che è stato un vero esercizio di autodeterminazione, vale a dire il referendum di Crimea, non viene riconosciuto dall’Occidente. Obama, nella stessa conferenza stampa, riesce ad affermare contemporaneamente il diritto all’autodeterminazione degli abitanti di Kiev, ma a negarlo a quelli della Crimea: «Il referendum in Crimea era una chiara violazione della costituzione ucraina e della legge internazionale, e non sarà riconosciuto dalla comunità internazionale. Gli Stati Uniti stanno col popolo ucraino e col suo diritto a determinare il proprio destino». Tradotto: gli ucraini di Kiev, poiché vengono verso di noi, hanno il diritto di autodeterminarsi, gli ucraini di Crimea, che invece vogliono andare con la Russia e con Putin, non ce l’hanno. Pensiamo se la situazione fosse stata capovolta: e cioè se fossero stati i russi a fare un colpo di stato per rovesciare il governo filoamericano a Kiev e poi la Crimea avesse scelto di staccarsi dall’Ucraina perché voleva entrare nella Nato. Obama avrebbe detto: «Non riconosciamo il colpo di stato illegale dei russi a Kiev, mentre accogliamo con piacere l’ingresso nella Nato della Crimea, che ha esercitato il suo sacrosanto diritto all’autodeterminazione». In ogni caso, i russi di Crimea hanno voluto tornare sotto la Russia e lo hanno fatto. La strage di Odessa Il 2 di maggio 2014, durante una serie di manifestazioni che si svolgono a Odessa contro il governo di Kiev, discendono sulla città alcuni squadroni di picchiatori nazisti per dare una lezione ai russi di Odessa. Intimano alla polizia locale di sciogliere le manifestazioni, altrimenti ci pensano loro a farlo. Dopodiché i poliziotti vengono scacciati in malo modo e gli squadroni nazisti prendono il controllo della città. Si dirigono presso piazza Kulikovo, dove è in corso la protesta contro il governo di Kiev. E qui succede quello che è passato alla storia come la “strage di Odessa”. I manifestanti sono caricati dagli esagitati di destra e costretti a rifugiarsi nella Casa del sindacato, che si trova su quella piazza. Ma una volta dentro, i manifestanti sono assediati e gli assalitori lanciano bombe molotov per dare fuoco all’edificio. Quelli che salgono sui cornicioni per respirare vengono uccisi a colpi di pistola dagli assalitori. Alla fine i picchiatori di Kiev entrano nell’edificio e massacrano tutti quelli che trovano ancora vivi. Ci sono morti carbonizzati. Una donna incinta strangolata con un filo di ferro. Il bilancio finale è di una cinquantina di morti tra i civili di Odessa. Il giorno dopo, i nazisti celebrano sul loro sito web la giornata di Odessa come un altro momento di orgoglio nella storia della nazione. La guerra in Donbass Anche nel Donbass la popolazione russa disconosce l’autorità del governo golpista e indice un proprio referendum per staccarsi da Kiev e realizzare un’unione doganale con la Russia. La gente sente di non essere ascoltata dalla UE. Non vogliono essere sottomessi all’America o all’Europa, ma far parte della Russia. Ma le persone non fanno nemmeno in tempo a contare i voti che da Kiev arrivano i carri armati. Attraverso la frontiera anche i Russi mandano soldati e armi, per aiutare la popolazione del Donbass. Il presidente Poroshenko non si fa nessun problema a bombardare i civili della sua stessa nazione. 50.27 Poi arrivano i neonazisti di settore destro, che si uniscono al battaglione di Azov per fare pulizia etnica in Donbass. È guerra. Il 15 novembre 2014 un rapporto delle Nazioni Unite descrive quello che i nazisti di Kiev fanno alle popolazioni russofone. Siamo sei mesi dopo l’inizio delle operazioni. Il rapporto parla di «serie violazioni dei diritti umani nell’Ucraina orientale, nonostante un esile “cessate il fuoco”». Vi si parla di civili uccisi e arrestati illegalmente, torturati e fatti scomparire nell’Ucraina orientale, un numero di sfollati cresciuti esponenzialmente, nonostante il cessate il fuoco del 5 settembre. 4317 persone sono state uccise e 9921 ferite nella zona coinvolta nel conflitto dell’Ucraina orientale. Gravi violazioni dei diritti umani sono perpetrate da gruppi armati. Tali violazioni includono torture, sequestri arbitrari non comunicati, esecuzioni sommarie, lavori forzati e violenze sessuali. Terreni ed edifici sono distrutti illegalmente. Quelli che oggi accusano i russi di questi crimini erano proprio quelli che li commettevano nel 2014 nel Donbass. Però quando queste cose le facevano gli ucraini nessuna televisione ne parlava. Dov’erano Mentana, Formigli e Palombelli? Questo soldato ucraino prepara le bombe da lanciare sul Donbass. Sui proiettili c’è scritto in russo: «Auguri per i vostri bambini». A Donestsk c’è un luogo apposito, chiamato “viale degli angeli”, dove sono stati sepolti 550 bambini uccisi dalle bombe degli ucraini di Kiev. Tutti fra i sei e i nove anni. Tutto questo non è finito nel 2014, ma è andato avanti fino ad oggi. Nemmeno con l’arrivo di Zelensky le cose si sono messe meglio per i Russi del Donbass. Zelensky è eletto nel 2019, vincendo sull’avversario Poroshenko. La prima cosa che fa è promettere di porre fine alla guerra in Donbass. Il discorso gli vale la standing ovation in Parlamento. Poi di mettere fine alla guerra non se ne è più parlato. Lui in quanto presidente è anche capo delle forze armate. Sarebbe bastato un suo ordine diretto senza intermediari per fermare immediatamente i bombardamenti, invece non è mai successo. Zelensky è solo un burattino manovrato dall’alto. Gli sarebbe anche bastato applicare gli accordi di Minsk del 2015, che prevedevano uno statuto speciale per le regioni del Donbass, e la creazione di una zona cuscinetto di 25 km fra il territorio ucraino e quello dei separatisti. Questa fascia di sicurezza, da sola, avrebbe fermato immediatamente i cannoneggiamenti. Ma Zelensky non ha mai voluto applicare quegli accordi. Siamo così giunti al febbraio 2022, quando la crisi internazionale stava diventando irreversibile e gli accordi non erano ancora stati rispettati. A quel punto Macron è riuscito a strappare l’impegno, sia a Zelensky che a Putin, di implementare questi accordi, per fermare la guerra che stava per arrivare. Macron lo ha annunciato in conferenza stampa a Kiev davanti al mondo intero. È l’8 febbraio 2022. Ma il giorno dopo, Zelensky cambia idea e si rimangia tutto. Da questi accordi dipende la risoluzione della guerra. Questo è l’uomo che si collega con i Parlamenti del mondo e si lamenta per l’invasione russa del suo paese. Ma è stato lui a rinnegare gli accordi di Minsk, che poteva tranquillamente implementare, prima, o poi. Perché non lo ha mai fatto? Perché ha cambiato idea dalla sera alla mattina? Forse perché qualcuno voleva che la guerra in Donbass continuasse, per non lasciare opzioni a Putin e così obbligarlo a intervenire militarmente. Forse. Fatto sta che l’Ucraina non ha mai rispettato gli accordi di Minsk e la guerra è continuata fino al giorno in cui Putin ha deciso di invadere il Paese. L’Ucraina nella Nato? Putin ha detto di avere attaccato l’Ucraina per evitare che essa entrasse nella Nato. Nel 2007 l’ultima ondata di annessioni aveva portato nella Nato Lettonia, Lituania, Estonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria. Putin alla Conferenza Mondiale sulla sicurezza aveva dichiarato: «La Nato ha messo le sue forze di prima linea ai nostri confini. Questa espansione rappresenta una seria provocazione, che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi è indirizzata questa espansione? Che cosa ne è stato delle rassicurazioni che i nostri partners occidentali ci avevano dato dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia»? Ovviamente nessuno ha mai risposto a questa domanda, mentre la corsa per far entrare il grande pezzo mancante nella Nato, l’Ucraina, è cominciata. Nel 2014 Yatsenyuk entra in Parlamento fresco di nomina dopo il colpo di Stato della Nuland. Appena insediatosi, Yatsenyuk riceve le congratulazioni di John Kerry, ministro degli Esteri americano, dell’ambasciatore americano Payette e di John McCai, il solito turista per caso. Poi Yatsenyuk viene accolto con grandi onori da Ban Ki-moon alle Nazioni Unite, da David Cameron in Inghilterra, dalla Merkel in Germania, con Vitali Klitschko, e poi dall’Unione Europea. Poi si reca da Obama alla Casa Bianca e si premura di far sapere al mondo da che parte starà la nuova Ucraina. Dopodiché Yatsenyuk invita la Nato a Kiev e chiede apertamente aiuti e armamenti per supportare il nuovo governo. Parla di rafforzare la cooperazione ed auspica aiuti addizionali, supporto tecnico e supporto umanitario, per migliorare il sistema di difesa ucraino. Il 29 agosto 2014, Yatsenyuk annuncia che l’Ucraina chiederà di entrare nella Nato. Il 21 novembre, la coalizione di governo annuncia che la Nato è la loro priorità. Il 23 dicembre, il Parlamento mette fine allo stato di non allineamento dell’Ucraina, che è la condizione necessaria per iniziare il processo di ammissione alla Nato. Nel marzo 2015, Poroshenko approva delle esercitazioni militari multilaterali con la Nato. Fra queste, l’operazione Guardiano impavido, con 2200 soldati di cui mille americani. L’operazione Brezza di mare, con mille militari americani e 500 della Nato, e l’operazione Tridente rapido, con 500 militari americani e 600 della Nato. L’11 di aprile arriva in Ucraina il primo convoglio militare della Nato, per l’operazione Guardiano impavido, partito da Vicenza. Nell’aprile del 2016, Biden promette a Poroshenko 335 milioni di dollari per la sicurezza. Questi andranno ad aggiungersi ad un terzo prestito da un miliardo di dollari. Nel giugno 2017 la Rada, il Parlamento di Kiev, vota una legge che ristabilisce l’ingresso nella Nato come una priorità per la politica estera ucraina. La legge è firmata dal presidente della Camera, Andriy Parubiy, che era stato il cofondatore del partito nazista Svoboda insieme all’ultranazionalista Oleh Tyanibhok (foto a destra). Andrij Parubij, che qui stringe la mano alla progressista Laura Boldrini. è stato indagato per la strage di Odessa ed ha pubblicamente lodato Hitler in televisione, dicendo che è stata la più grande persona a praticare la democrazia diretta. Questo era il presidente del Parlamento ucraino sotto Poroshenko. Nel luglio 2017, Poroshenko incontra il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e chiede ufficialmente che venga iniziato il percorso di ammissione alla Nato. Nel settembre 2018, Poroshenko chiede di emendare la Costituzione, in modo da rendere più facile l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Il 7 febbraio 2019 il Parlamento approva i cambiamenti alla Costituzione e conferma l’avvio del percorso per unire l’Ucraina alla Nato. Su 385 deputati, 334 voti sono a favore. Il 21 febbraio entra ufficialmente in vigore la modifica della Costituzione sul percorso che prevede l’ingresso nell’UE e nella Nato. Nel 2019 Zelensky viene eletto presidente dell’Ucraina e prosegue sulla strada tracciata dal suo predecessore. Appena eletto vola a Bruxelles e incontra Stoltenberg, il segretario della Nato. Nel giugno 2020, la Nato concede all’Ucraina lo status di partner con accresciute opportunità. Nel settembre 2020, Zelensky approva la nuova strategia di sicurezza nazionale, che prevede lo sviluppo della speciale partnership con la Nato alo scopo di diventarne membro. Il 24 marzo 2021, Zelensky firma un decreto presidenziale per attuare la decisione del Consiglio di sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina sulla “Strategia di disoccupazione e reintegrazione del territorio temporaneamente occupato della Repubblica autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli”. In parole povere, ciò significa riprendersi militarmente la Crimea e Sebastopoli. Nel maggio 2021, il senatore americano Chris Murphy incontra Zelensky e annuncia che aprire all’Ucraina il percorso di adesione sarà il prossimo passo logico verso l’ingresso nella Nato. Un mese dopo, al Summit di Bruxelles, i leaders della Nato riconfermano la decisione presa nel 2008 al summit di Bucarest, che l’Ucraina diventerà un membro dell’alleanza, con il piano di adesione che farà parte integrante della procedura. Il 28 giugno 2021l’Ucraina e la Nato lanciano un’operazione militare coingiunta nel Mar Nero. Il 28 novembre, fra accuse e controaccuse, Mosca chiede garanzie legali che l’Ucraina non entrerà mai nella Nato. Garanzie che ovviamente non le vengono date. Il 30 novembre Putin dichiara ufficialmente quale sia la linea rossa dei Russi sull’Ucraina. Putin manifesta le sue preoccupazioni per l’arrivo di missili supersonici di lunga gittata che potrebbero colpire Mosca in cinque minuti. «Spero che non arriveremo a questo – dice – e che il buon senso e la responsabilità verso i propri Paesi e verso la comunità globale alla fine prevalgano». Il primo dicembre 2021 Putin chiede ufficialmente garanzie che la Nato non si espanderà verso Est. Gli Stati Uniti rispondono che per l’Ucraina le porte sono sempre aperte. Il 23 dicembre in conferenza stampa, Putin torna a ripetere che un’ulteriore espansione della Nato verso Est è inaccettabile. E ne spiega il motivo: «Noi non stiamo mettendo i nostri missili ai confini con gli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti stanno piazzando i loro missili vicino a casa nostra. Quindi, forse stiamo chiedendo troppo? Gli stiamo semplicemente chiedendo di non piazzare i loro sistemi di attacco a casa nostra. Cosa c’è di così strano in questo»? Gli Stati Uniti fanno finta di non sentire. Il 31 gennaio 2022, alle Nazioni Unite, l’ambasciatore russo accusa pubblicamente di Stati Uniti di fomentare le tensioni e di provocarli verso la guerra. Li accusa di voler cercare la guerra. Gli Stati Uniti fanno orecchie da mercante e ai primi di febbraio Putin, con tono spazientito, manda un ultimo avviso ai media occidentali. A quel punto la Russia chiede agli Stati Uniti di mettere per iscritto che l’Ucraina non entrerà a far parte della Nato e che non ospiterà mai armi balistiche della Nato. Il ministro degli Esteri americano Blinken risponde: A quel punto Putin invade militarmente l’Ucraina. Esattamente come per Kennedy, l’unico modo per evitare i missili a 200 km dalle coste della Florida sarebbe stato quello di invadere Cuba se i Russi non li avessero ritirati. Due pesi e due misure per la stessa logica. Gli Stati Uniti si sono rifiutati di dare questa garanzia e lo hanno fatto in modo chiaramente provocatorio. Chi era dunque che voleva che Putin attaccasse l’Ucraina? Putin o gli Stati Uniti? L’Ucraina è stata usata come un’esca. Zelensky ci è cascato in pieno e i suoi concittadini muoiono sotto le bombe. Con l’invasione russa all’Ucraina gli Stati Uniti hanno potuto definitivamente staccare la Russia dall’Europa e scatenare la russofobia in Occidente, criminalizzando Putin a tal punto da potergli appioppare tutte le sanzioni economiche possibili e immaginabili. Che era esattamente la stessa strategia ideata oltre vent’anni fa dai Neocons per mettere in ginocchio i Russi: staccarli dall’Europa, circondarli, provocarli fino a farli reagire e poi punirli con le massime sanzioni economiche. Conosco cento modi per far uscire dalla sua tana l’orso russo. Ma non ne conosco nemmeno uno per farcelo rientrare. Non stuzzicate l’orso russo! Otto von Bismarck 28