Davide Scalia
Lavoro presentato all’esame del
corso di Filologia Germanica c.p.
LM in Letterature europee e
americane - Università di Pavia
a.a.2020-2021
Le málrúnar nella strofa 12 del Sigrdrífomál
1. Introduzione
Il presente lavoro si concentra sull’analisi della strofa 12 del Sigrdrífomál che, nell’ambito delle
strofe nelle quali la valchiria Sigrdrífa trasmette all’eroe Sigurdhr la conoscenza delle rune, è dedicata
nello specifico alle málrúnar.
Dopo un inquadramento generale dell’opera, viene analizzata nel dettaglio la strofa in questione,
facendo riferimento al lavoro dell’Edda Kommentar (von See et al. 2006) per uno studio dei termini
in essa contenuti; particolare attenzione è dedicata al composto málrúnar, e alle sue possibili
interpretazioni, dando conto delle altre ricorrenze del termine e di una proposta di etimologia della
prima parte del composto (Markey, 1998). Altro punto focale è quello dell’istituto del thing, citato
nella strofa, con particolare riferimento alla sua forma e al suo rapporto con il consesso divino come
individuato negli studi di Riisøy (Riisøy, 2013 e 2015).
La successiva parte del lavoro, nel riprendere i due elementi principali, mál e thing, dà conto
invece degli studi di Mees e Riisøy relativamente al rapporto tra detti termini nella tradizione legale
nordica; infine, una breve sintesi di un ulteriore lavoro critico (Clark, 2007) permette di mettere in
rilievo il rapporto tra la strofa 12 e altri canti dell’Edda quanto ai temi del fratricidio e del potere
della parola rispetto all’azione violenta.
2. Inquadramento
Il Sigrdrífomál è uno dei canti eroici dell’Edda poetica, tramandataci principalmente dal Codex
Regius, attualmente conservato a Reykiávik e databile intorno alla seconda metà del XIII secolo,
insieme ad alcuni manoscritti di epoca più tarda, a partire dal frammentario Codex Arnamagnæanus
degli inizi del XIV secolo, allo Hauksbók (per il solo carme della Vǫluspá) della prima metà del XIV
secolo, al Flatejarbók della fine del XIV secolo e al Codex Wormianus della metà del XIV secolo (per
il solo Rígsþula); composizioni riconducibili al genere delle poesia eddica sono infine presenti in
manoscritti del XVII secolo.
La tradizionale suddivisione dell’Edda poetica vede una prima sezione composta di dieci
carmi mitologici e una seconda sezione composta di diciannove carmi eroici, tra i quali la sequenza
raggruppabile intorno al personaggio di Sigurdhr, che inizia a partire dal Gripisspá e termina con
l’ultimo carme, lo Hamdhismál. Tale sequenza è interrotta da una lacuna nel codice, parzialmente
ricostruibile attraverso le informazioni desumibili dalla Volsungasaga.
Il Sigrdrífomál occupa una posizione centrale in tale sottosezione, ed è composto da 37 strofe
precedute e intercalate da parti in prosa, le quali sono concentrate come prologo all’inizio del canto
e, successivamente, solo entro le prime cinque strofe dello stesso.
Il metro usato dal poeta è di forma mutevole: si alternano infatti strofe in fornirdislag
(riservato normalmente alla narrazione), in ljodhahattr (comunemente usato per le affermazioni
sapienziali) e in galdralag (il metro dell’incantamento).
L’ambito narrativo è quello della giovinezza dell’eroe Sigurdhr la cui sorte, come accennato,
è legata all’ampio e variegato ciclo nibelungico-volsungico. E’ possibile infatti identificare i
protagonisti del canto in analisi, Sigurdhr e Sigrdrífa, come Sigfried e Brünhilde del poema epico in
alto tedesco medio dell’inizio del XIII secolo noto come Nibelungenlied.
L’insieme del canto può essere, in sintesi, così descritto: nel prologo in prosa e nelle due
prime strofe in versi si narra come la valchiria Sigrdrífa, condannata da Odino a giacere
addormentata entro un castello di scudi circondato dal fuoco, sia ritrovata dall’eroe Sigurdhr, che la
libera, così risvegliandola. Sigrdrífa era stata punita da Odino in quanto, nella battaglia tra i re
Hjalmgunnar (favorito da Odino per la vittoria) e Agnar, si era schierata a favore di quest’ultimo,
uccidendo Hjalmgunnar. Odino aveva quindi punto la valchiria con una spina che induce il sonno;
Sigrdrífa, secondo la volontà di Odino, non avrebbe più vinto alcuna battaglia e sarebbe stata
costretta a sposarsi; la valchiria aveva replicato a Odino che avrebbe sposato solo un uomo che non
potesse provare paura.
Dopo un’interpolazione in prosa, nella quale Sigrdrífa offre a Sigurdhr la bevanda della
memoria (minnisveig), seguono tre stanze in cui la valchiria spiega le ragioni del suo sonno e invoca
la protezione e l’assistenza degli dei; per la prima volta, nella strofa 4, è presente il sostantivo mál,
nella coppia allitterante mál oc manvit, a significare “facondia e saggezza” (trad. Scardigli-Meli), doni
richiesti dalla valchiria ad Asi e Asinne.
Dalla quinta alla diciannovesima strofa ha luogo il vero e proprio rúnatal, con Sigrdrífa che
elenca e insegna a Sigurdhr tipi e usi delle rune; dopo alcune strofe di dialogo tra i due, le ultime
sedici strofe sono costituite da consigli sapienziali che richiamano quelli dello Hávamál.
Il cosiddetto rúnatal è quindi composto da una serie di strofe in cui la valchiria enumera
diversi tipi di rune, con un modello di esposizione ricorrente: dapprima si nomina il tipo di runa,
quindi lo scopo per il quale può essere utilizzato, infine le particolarità del tipo di runa quanto alle
sue modalità di utilizzo e ai suoi effetti. I tipi di rune menzionati sono suddivisibili tra rune curative
e rune preventive/protettive, nel senso che il loro utilizzo può rimediare ad avversità già in essere,
oppure impedire preventivamente che gli eventi negativi si manifestino. La presentazione di Sigrdrífa
in linea di massima alterna tra un tipo di runa e l’altra.
Markey, nel ricordare che molti commentatori ritengono il canto un pastiche, composto
dall’unione non completamente riuscita di tradizioni e fonte diverse (v. anche MacLeod-Mees 2016,
p. 238), lo definisce però ”a crazy quilt […] carefully crafted” (Markey, 1999, p.179), in quanto ritiene
che il rúnatal costituisca una occasione convenzionale di dispiegamento della conoscenza runica,
attentamente strutturata e non casuale nella sua composizione (Markey, 1999, p.131). Da
un’introduzione formale di invocazione agli dei, si passa infatti alla rivelazione della conoscenza
runica attraverso l’evocazione dei tipi di rune, presentate in modo alternato nelle loro funzioni
differenziate; indice di strutturazione sono anche i richiami delle sillabe iniziali delle strofe
(biargrunar e brimrunar, limrunar e malrunar, che per metatesi dà lamrunar) e infine la chiusura con
l’epiteto Hoddrofnis, composto che deriverebbe da hodd (“tesoro”) e rofnir, dal verbo rofna,
“spezzare”, “interrompere”, forma incoativa di rjufa, “sciogliere una riunione”, “disperdere”, “fare
spazio”, che è a sua volta l’ultimo verbo della sequenza runica nella strofa 19 (Markey, 1999, p. 179)
Il rúnatal costituisce il momento più alto e completo del processo di formazione del giovane
eroe Sigurdhr, in considerazione del contenuto esoterico della conoscenza trasmessagli dalla
valchiria e dei numerosi consigli sapienzali che lo seguono; appare istituirsi un rapporto tra il
contenuto delle conoscenze trasmesse e il futuro status di Sigurdhr come re, così come accade anche
nel Rigsþula, dove il dio Rig (Heimdallr) riconosce Jarl come proprio figlio, lo nomina principe e gli
trasmette la conoscenza delle rune, mentre lo stesso figlio di Jarl, Konungr, futuro re, dispone di una
vasta conoscenza delle rune (von See et al., 2009, p. 506).
Secondo gli studiosi dell’Edda Kommentar, inoltre, la conoscenza runica e sapienziale del
Sigrdrífomál sembrerebbe alludere a un parallelismo con la conoscenza delle sacre scritture e della
sapienza veterotestamentaria che sono richiesti dallo speculum principis antico norvegese Konungs
skuggsiá per l’educazione del futuro regnante (von See et al., 2009, p. 506).
La presenza, nel Sigrdrífomál, dell’iniziazione alla conoscenza delle rune e la successiva
sequenza sapienziale trovano il loro corrispondente più evidente nell’Edda poetica nella
trasmissione di conoscenza runica e sapienziale che Odino compie nei confronti di Loddfáfnir nello
Hávamál: lo stesso Sigurdhr sarà il destinatario di consigli sapienziali di Odino nel Reginnsmál (str.
19-25), nel riproporsi del modello per cui un essere soprannaturale mette a parte un eroe delle
proprie conoscenze (von See et al., 2009, p. 507).
Secondo l’interpretazione che ne dà Markey, Sigrdrífa si presenta come personaggio mitico
non troppo distante da figure quali Circe o Calipso nell’Odissea, o Didone nell’Eneide, donna non
sposata, con tratti non solo o non del tutto umani, che dispensa saggezza e amore a un uomo errante,
accompagnata sovente dalla presenza di una pozione o bevanda magica (Markey, 1999, p.133). Ci
troviamo quindi di fronte all’inserimento di un messaggio didattico di conoscenza all’interno di una
struttura che presenta temi e materiali di origine molto più antichi e di larga diffusione, come quello
fiabesco della Bella addormentata, il motivo folkloristico della sposa riluttante o i motivi omerici
sopra ricordati (Markey, 1999, p. 134).
Le rune, nella presentazione che ne fa Sigrdrífa , devono essere iscritte su parti del corpo, su
animali oppure su oggetti inanimati, e, come detto, curano o prevengono diversi tipi di mali: Markey
ritiene che si possa configurare qui la rappresentazione di almeno due tipi di medicina curativa della
tradizione indoeuropea, vale a dire la medicina delle formule (da recitare) e la medicina delle erbe
(da applicare), metodi che si ritrovano anche negli incantesimi anglosassoni e di Merseburgo
(Markey, 1999, pp.135-136). Resterebbe fuori il terzo tipo di medicina, quella “del coltello”, per i mali
che vanno materialmente tagliati: Markey ritiene però che anche questa si possa ritrovare nella
strofa 6, grazie a una complessa ricostruzione del termine sigrunar che porterebbe a un ipotetico
*sigi-runar, dove la prima parte del composto potrebbe essere ricondotto, oltre che al significato di
“vittoria”, ai corrispondenti nordici dell’indoeuropeo *sek (tagliare) (Markey, 1999, pp.136-142).
Verrebbe così ricostituito così l’ordine dei tre tipi di cura tradizionali, a partire dal coltello (strofa 6),
a quella delle piante (strofe 8 e 11), e infine a quella della parola, nei galdra (incantesimi) della strofa
5, nelle ölrúnar, ma soprattutto, a parere dello studioso, nella strofa 12 delle málrúnar, dove si
celebra il potere della parola nella sua forma sociale più intensa, quella di tipo legale (Markey, 1999,
p.176). L’ordine delle cure avrebbe una gerarchia ascendente, dal coltello alle erbe e infine, al grado
più alto, alla parola, in quanto se meno era richiesto al chirurgo o all’esperto di erbe, “most was
considered required of the wordsmith, the Indo-European poet (or lawyer) as probably the most
highly paid and respected professional of his time” (Markey, 1999, p. 177). Come si vedrà più avanti
nel corso di questo lavoro, il legame tra poesia ed eloquenza legale è sottolineato in modo
particolare in alcuni studi che, a partire da questo rapporto, commentano il composto málrúnar.
Se la pratica medica di triplice natura sopra descritta è presente in testi iranici di tradizione
mazdea, così come in Pindaro e nell’epica antico-irlandese, si aggiungerebbe quindi a questo gruppo
anche l’ambito germanico, proprio con l’esempio del Sigrdrífomál, nel quale, secondo Markey, la
conoscenza delle rune, relativamente recente, viene descritta e innestata sullo sfondo di
un’ideologia medica di antichissima origine indoeuropea e delle tradizioni sciamaniche eurasiatiche
(Markey, 1999, p. 178).
3. La strofa 12: le málrúnar
Alla dodicesima strofa, Sigrdrífa menziona il penultimo tipo di rune della sua elencazione, le
málrúnar:
Málrúnar scaltu kunna,
ef þú vilt, at mangi þér
heiptom gjaldi harm;
þær um vindr,
þær um vefr,
þær um setr allar saman,
á því þingi,
er þjóðir scolo
í fulla dóma fara.
(ed. Neckel-Kuhn)
Rune di facondia dovrai conoscere se vuoi che nessuno
con l’odio il male ti ricambi subìto;
le si intreccino le si avvolgano
le si mettano tutte insieme
per i convegni dove la gente deve andare
davanti ai tribunali affollati.
(trad. Scardigli – Meli)
Secondo la classificazione della critica, si tratta qui di un tipo di rune a valenza preventiva o
protettiva. Il metro utilizzato in questa strofa è il galdralag, o metro dell’incantamento, che aggiunge
al normale ljodhahattr un verso lungo e un verso pieno. Secondo Westcoat, la caratteristica del
galdralag con i suoi versi aggiunti è quella di sorprendere l’ascoltatore, che assiste a un inaspettato
prolungamento dello ljodhahattr, in modo da costituire quasi un legame che lo avvince a quanto
enunciato dal poeta; si cerca in tal modo un effetto di enfasi, o di fornire dettagli atti a dare maggior
forza al messaggio nei confronti di chi ascolta (Westcoat, 2016, p. 89). Nel caso della strofa 12, sulla
base di questa interpretazione, si potrebbe ipotizzare che il galdralag abbia un effetto di rinforzo nei
confronti di quanto detto sull’utilizzo delle málrúnar nel primo verso pieno (ef þú vilt, at mangi þér
/ heiptom gjaldi harm, “se vuoi che nessuno / con l’odio il male ti ricambi subìto”). Tale consiglio
deve quindi essere considerato non solo in senso generico, ma come monito utile in una situazione
ben precisa, quella del giudizio nel thing, che viene descritta nei versi lungo e pieno aggiunti in fine
di strofa.
Temi frequenti espressi nel metro del galdralag sono quelli della magia, da usarsi a favore o
contro qualcuno, o rivolta a sé stessi; è comune la presenza, in tale tipo di verso, delle rune, delle
azioni del legare o dello sciogliere, di incantesimi della memoria o di maledizioni (Westcoat, 2016, p.
88). Lo stesso studioso nota che gli esempi di galdralag compaiono solo in componimenti poetici
relativi a temi pre-cristiani (Westcoat, 2016, p. 70).
Il composto málrúnar viene comunemente tradotto come rune della facondia, del discorso,
o, in inglese, speech-runes. Il composto è presente (von See et al., 2006, p. 570) oltre che nella strofa
in oggetto, anche nel Primo Carme di Gudhrun, appartenente al ciclo di Sigurdhr, nella strofa 23
(dove Scardigli e Meli traducono “rune di parola”), e nello Hattatál (1,43), quarta parte dell’Edda di
Snorri, catalogo delle forme poetiche scaldiche, dove verrebbero utilizzate nel senso ordinario e
comune di lettere, pertanto non di segni magici o segreti: Þessi er upphaf allra hátta / sem málrúnar
eru fyrir oðrum rúnum, “questo è il fondamento di ogni forma di verso / come le málrúnar sono il
principale tipo di runa”; sul significato di quest’ultima citazione si ritornerà più avanti.
Nel canto di Gudhrun, secondo von See (von See et al., 2009 , p. 570) l’utilizzo di málrúnar
avverrebbe in senso metaforico; nella maledizione che Brunilde lancia sull’intera famiglia,
l’espressione málrúnar gaf (“ha rivolto rune di parola”, trad. Scardigli-Meli) starebbe per “ti ha
portato a parlare”.
Ritengono di conseguenza gli autori del Kommentar che, in considerazione delle altre
occorrenze del composto málrúnar, il termine mál debba essere interpretato come “discorso”, e
pertanto si riferisca alle rune che consentono di dimostrare abilità retorica, vantaggiosa in
particolare nei procedimenti giudiziari. Nel contesto della strofa 12, essendo il tipo di rune
strettamente connesso ai vantaggi che il loro uso può assicurare nell’influenzare l’andamento di un
procedimento legale, è possibile attribuire secondo gli studiosi menzionati anche la sfumatura di
significato di “rune dei processi” (von See et al., 2009, p. 570).
Il termine mál è anche presente, come abbiamo visto, nella quarta strofa del Sigrdrífomál,
nell’espressione mál oc manvit, facondia e saggezza, quali elementi che Sigrdrífa invoca dagli dei per
sé e per l’eroe. L’eloquenza era particolarmente apprezzata nel mondo nordico medievale; Mees e
MacLeod citano l’esistenza di almeno tre pietre runiche svedesi innalzate in onore di persone
particolarmente versate nell’uso delle parole. Inoltre, il composto málrúnar si ritrova in un’incisione
runica rinvenuta su un osso a Lund, dove è seguita da quello che è probabilmente un indovinello
poetico, e perciò potrebbe essere tradotta come rune dell’enigma (MacLeod, Mees, 2006, p. 242);
Bondi risti malrunu, arar ara æru fiaþrar
1
“Bondi ha inciso rune del discorso, i remi dell’aquila sono le piume”.
Sempre Mees e MacLeod, pur evidenziando che secondo l’opinione di Moltke (Moltke, 1985)
l’espressione málrúnar nell’islandese più tardo stava ad indicare rune ”semplici” in opposizione a
rune segrete, ritengono che comunque il suo possibile significato iniziale vertesse sull’eloquenza, in
particolare sull’abilità nel discorso in ambito legale, di fronte a un consiglio o consesso giudiziario:
gli studiosi sono del parere che nel canto di Sigrdrífa, così come nell’iscrizione sull’osso di Lund,
prevalga il senso di “eloquenza” come spoken magic utilizzabile in questo caso in una vertenza di
fronte a un tribunale (MacLeod-Mees, 2006, p. 242).
Lo stesso Tacito sottolinea quanto fosse apprezzata la facondia tra i popoli germanici e,
facendo proprio riferimento al consesso assembleare, ci fornisce una prima rappresentazione del
thing:
Ut turbae placuit, considunt armati. silentium per sacerdotes, quibus tum et coercendi ius est,
imperatur. Mox rex vel princeps, prout aetas cuique, prout nobilitas, prout decus bellorum, prout
facundia est, audiuntur auctoritate suadendi magis quam iubendi potestate.
«Quando piace alla moltitudine, seggono in armi; e i sacerdoti, che allora hanno anche il diritto
di costringere, impongono il silenzio. Quindi il re o uno dei capi, secondo l’età, la nobiltà e la gloria
bellica di ciascuno, viene ascoltato più per l’autorità del persuadere che per la potenza del comandare.”
(Germania, 11,2, testo latino e traduzione italiana a cura di A. Arici, Torino, 1970).
Come sottolinea Mitchell (Mitchell, 1985, p. 16), la relazione tra eloquenza e valore militare
è anche dimostrata, con l’esempio contrario, da un personaggio, Olafr kyrry, (“il tranquillo”),
1 Per il testo e i dettagli sull’iscrizione si veda il sito https://skaldic.abdn.ac.uk/db.php?table=mss&id=15324&if=runic
protagonista di una breve saga, la cui figura pacifica suscita in realtà scarso interesse, in quanto è
caratterizzato dal fatto di essere fámálugr optast ok ekki talaðr á þingum, “di solito reticente e che
non interviene nelle assemblee” (Heimskringla, III, p. 203).
Per quanto riguarda l’etimologia del termine mál, Markey (Markey, 1999) rinvia alla
ricostruzione del germanico comune *maþl-, tratta, tra l’altro, dall’ags. mæþ(e)l, consiglio, riunione,
discorso, conversazione, sfida, battaglia; dal got. maþl, luogo di mercato, luogo di assemblea; dall’
aisl. mál, discorso, racconto, causa legale, accordo, sentenza, colloquio, e ancora dall’aisl. mæla,
parlare, in particolare con eloquenza o ufficialità.
Secondo Markey, il germanico comune *maþl- potrebbe derivare, come prestito, dall’etrusco
meθlum (> germ. *maþl) o meχlum (> germ. *mahl), per il cui significato sono stati proposti i termini
di “città stato”, “assemblea” e “governo”; il termine sarebbe entrato in germanico come *maþla o
*maδla dall’Italia settentrionale, attraverso il retico *maθlu nel periodo di contatto tra Germani e
Reti, dal 150 a.c. circa fino alla romanizzazione della Rezia, forse attraverso scambi commerciali
intorno all’epoca dell’elmo di Negau (180-50 a.c.).
L’analisi di Markey si basa, tra l‘altro, sull’iscrizione del termine metlumθ rinvenuta sul Fegato
etrusco di Piacenza (100 a.c. circa), per il cui significato è stata avanzata l’ipotesi di “luogo
assembleare”, nell’ambito di una concezione di suddivisione dello spazio, marcatura di confine,
delimitazione di un ambito sacro, in coerenza con l’aspetto centrale di tali attività nella cultura
etrusca. Sul reperto etrusco di Piacenza, l’iscrizione metlumθ è infatti l’unico appellativo non
assegnato a uno “spazio celeste”, mentre tutti gli altri termini iscritti sono nomi di divinità, a ciascuna
delle quali è assegnato uno dei sedici “spazi”. Il termine metlumθ è al caso locativo singolare, e
rappresenterebbe un punto di orientamento per la divinazione; la parte più esterna del Fegato
bronzeo nel suo complesso rappresenterebbe un’assemblea divina di sedici spazi dominata da Tin
(Zeus) e il termine meθlum potrebbe essere interpretato come “consiglio divino, assemblea” e per
traslato “assemblea” o “governo municipale” (Markey, 1998, pp.185-188).
Si collega singolarmente a tale ipotesi lo studio di Riisøy sui luoghi sacri della legge nella
poesia eddica (Riisøy, 2013), nel quale è argomentata la connessione tra siti cultuali e siti del thing
nella Scandinavia altomedievale, luoghi in cui il sacro e il profano rappresentavano due aspetti della
stessa realtà. Secondo la studiosa, è possibile che almeno alcuni siti assembleari fossero modellati
sulla cosmologia norrena: l’assemblea degli dei rappresentava lo standard ideale che si voleva
materialmente riprodurre, anche con la presenza di elementi naturali quali l’acqua o gli alberi,
nell’organizzazione degli spazi della legge terrestri (Riisøy, 2013, p. 28).
Per tornare allo studio di Markey, esso conferirebbe ovviamente nuova forza all’ipotesi nordetrusca sull’origine dell’alfabeto runico. Sempre Markey (Markey, 1998, p. 195) nota l’associazione
del termine sassone antico mahl con le rune nello Heliand; la connotazione negativa ad esse
associata, che si può desumere dal brano dello Heliand, può essere ricollegata alla temperie del
processo di cristianizzazione, nel quale l’uso delle rune, in quanto relitto del paganesimo, era
proscritto:
thie rincos, thie hir rehto adomiad, ne uuilliad an runun besuuican
man, thar sie at mahle sittiad
(Heliand, ll, 1311-12)
“questi uomini, che qui giudicano correttamente, (che) non intendono ingannare gli uomini
con le rune (consigli segreti) quando siedono in assemblea (tribunale)”2
2 La traduzione è mia, ed è basata sulla traduzione inglese di Markey (Markey, 1998, p.195)
In conclusione, secondo Markey, il composto málrúnar come utilizzato nel Sigrdrífomál
doveva originariamente rappresentare il discorso tenuto in un procedimento legale, in un consesso
giudicante.
Passando all’analisi della successiva forma verbale della strofa 12, scaltu kunna, “dovrai
conoscere”, la stessa è utilizzata nel modello <tipo di runa> <dovrai conoscere> per tutte le strofe
runiche dalla n. 6 alla n. 13, con l’eccezione della strofa 8, nella quale non è presente, e nella 9, nella
quale il verbo kunna è sostituito da gera con lo stesso significato.
Nel secondo emistichio del primo verso della strofa 12, il Codex regius reca la lezione magni,
“con la forza”, che viene emendato già nei manoscritti cartacei in mangi, “nessuno” (da mann, uomo,
e particella enclitica negativa – gi), sulla base del successivo verbo gialdi (da gialda, “ripagare”) che
richiede un soggetto di terza persona singolare (von See et al., 2009, p. 570).
Si possono notare quindi nel primo verso l’allitterazione principale in -m e, nel secondo
emistichio, l’allitterazione in –þ (þú – þér), mentre nel verso successivo l’allitterazione è in – h
(heiptom – harm).
L’allitterazione e l’anafora sono particolarmente evidenti nei due versi successivi, in cui più
forte è il richiamo allo stile di una formula magica:
þær um vindr,
þær um vefr,
þær um setr allar saman
le si intreccino le si avvolgano
le si mettano tutte insieme (trad. Scardigli-Meli)
con le doppie allitterazioni in -þ e in -v del primo verso, ulteriormente rafforzate dalla ripetizione di
um che torna nel secondo verso, dove allittera – s ed è presente l’anafora di þær. Una formulazione
molto simile si ritrova, tra l’altro, nella successiva strofa 13, dedicata alle hugrúnar che, in quanto
rune del pensiero o della mente, appaiono strettamente connesse alle málrúnar:
þær of redh,
þær of reist,
þær um hugdhi Hroptr
Le interpretò,
le incise,
Hroptr le escogitò.
(trad. Scardigli-Meli)
L’Edda Kommentar riporta diverse interpretazioni per i versi appena visti della strofa 12.
Secondo l’interpretazione più accreditata, le bende o i rametti su cui erano incise le rune avrebbero
dovuto essere intrecciate e avvolte (von See et al., 2009, p. 571); secondo altra ipotesi, formulata da
Sturtevant (Sturtevant, 1915, pp.86-87), le rune stesse sarebbero state composte di rametti o fasci
di erbe appositamente collocati, che sarebbero stati quindi avvolti o intrecciati insieme.
Tale ipotesi di Sturtevant si basa in primo luogo sulla constatazione che, nel mondo
germanico, i rami, i rami verdi, gli arbusti, le radici degli alberi erano di per sé, anche senza l’uso di
rune, usati come incantesimi, sia per prevenire sia per causare avversità; inoltre, nella strofa 9,
dedicata alle biargrúnar, o rune del parto, si dice di avvolgere tali rune attorno alle membra del
paziente; di conseguenza, le stesse rune saranno state composte di rami o radici molto flessibili.
Anche nel composto limrúnar, il termine lim potrebbe indicare dei “ramoscelli”, e quindi rune
composte di ramoscelli, oppure potrebbe riferirsi al verbo lima, “incollare, riunire insieme” (v.
ingl.mod. to lime). In questo caso, il termine indicherebbe l’uso di formare le rune con un fascio di
ramoscelli che, in modo simile alle biargrúnar, avrebbero facilmente potuto essere avvolti intorno
alle membra del paziente. L’intreccio delle rune appare confermato dai verbi della strofa 12, nei quali
i verbi vinda e vefja suggeriscono l’idea di avvolgere le rune attorno a qualcosa, o una sull’altra;
dovevano quindi essere realizzate con materiale facilmente pieghevole (che offriva tra l’altro scarse
possibilità di essere inciso), che nell’atto stesso di essere avvolto dava loro il modo di formazione e
il carattere, connesso a incantesimi, o di natura medica (Sturtevant, 1915, pp.86-89).
E’ da notare, tra l’altro, che per la prima volta nell’elenco di rune, nella strofa 12 non viene
detto dove le stesse devono essere incise, a differenza di quanto avviene nelle strofe precedenti (von
See et al., 2009, p. 570).
Il verso successivo – a þvì þingi er þiodir scolo (“per i convegni dove la gente deve [andare]”)
- introduce il thing, l’istituto giuridico germanico già presente nella descrizione di Tacito, assemblea
degli uomini liberi con funzioni giudicanti e di decisione politica, localizzato presso spazi dedicati
anche a rituali religiosi o scambi commerciali. La connessione tra la riunione dell’assemblea e le rune
vergate su rami, o di essi composte, richiama anche l’usanza di delimitare il luogo del giudizio con
corde tese tra bastoni fatti di legno di nocciolo (von See et al., 2009, p. 571).
In relazione al thing, il già citato studio di Riisøy ricorda come la forma ideale dell’assemblea
con funzioni legali sia delineata nel Grimnismál, in cui è narrato come Thor debba attraversare
numerosi corsi d’acqua prima di arrivare al consiglio degli dei, al centro del quale sta il frassino
Yggdrasil; sotto l’albero è la fonte sacra Urdharbrunnr, nella quale abitano le tre Norne, le cui prime
leggi determinano il fato degli uomini: acqua e alberi giocano quindi un ruolo centrale nella
determinazione dei luoghi dell’assemblea. La studiosa sottolinea anche come i nomi dei luoghi del
consiglio divino (Alfheimr, Ydállir e Válasciálf) citati nel Grimnismál si ritrovino come combinazioni di
nomi presso Tune, a est di Oslo, area di particolare importanza per funzioni pubbliche e religiose
(Riisøy, 2013, pp. 28-29), ipotizzando con ciò una nominazione dei luoghi stessi direttamente ispirata
alla mitologia nordica.
La poesia eddica contiene altri consigli sul comportamento da tenere nel thing, basti
ricordare il passaggio dello Hávamál, secondo il quale “L’uomo stolto crede gli siano amici / tutti
quelli che gli sorridono/ ed ecco che scopre quando si reca all’assemblea / che pochi prendono le
sue parti” (strofa 25, trad. Scardigli-Meli), mentre sempre nel Sigrdrífomál, tra i consigli sapienziali,
alla strofa 24, si mette in guardia contro il litigare con gli sciocchi all’assemblea. Il thing era luogo di
particolare importanza perché vi si discutevano questioni che riguardavano il buon andamento di
tutta la comunità, già a partire dagli esempi divini: si ricordino, ad esempio, il caso del furto del
martello di Thor da parte di un gigante e la conseguente discussione nel consiglio divino su come
recuperarlo; il sogno di Baldr sul pericolo che incombe sulla sua vita, e gli dei che si riuniscono per
discutere il sogno sinistro. Con la cristianizzazione del Nord, il thing diventa anche un luogo
importante di confronto relativamente al processo di conversione in atto (Riisøy, 2013, p.30).
Nell’assemblea, la religione pagana teneva i sacrifici e manteneva le norme e la coesione della
società; il paganesimo viene spesso chiamato forn sidr, “antico uso”, proprio per la sua natura
performativa e materiale di contro alle regole astratte (Riisøy, 2013, p.30). Gli dei pagani, come
sottolineato dalla studiosa, erano presenti all’assemblea sotto forma di idoli, a cui erano offerti doni
e sacrifici, e probabilmente anche cibo; in tal modo si riteneva di poter assicurare il loro intervento
attivo ai giudizi che in essa si tenevano. Gli stessi idoli sarebbero stati poi oggetto di distruzione
violenta da parte dei predicatori in epoca di conversione al cristianesimo (Riisøy, 2013, p.32).
Lo stesso nome dell’assemblea poteva derivare da nomi divini, come il Dísathing di Uppsala
(ove si svolgeva il sacrificio di dísablót) il cui nome potrebbe essere ispirato alle divinità femminili
dísir, il cui nome è particolarmente diffuso in luoghi di culto dell’Östergötland svedese, ma si ritrova
anche in Norvegia e, in antico alto tedesco, nel primo incantesimo di Merseburgo (Riisøy, 2013, p.32).
Ciò testimonierebbe, per la studiosa , la stretta connessione con la presenza degli dei al giudizio e la
loro importanza nell’assemblea, così come richiesta dagli uomini attraverso i sacrifici e la presenza
di statue.
Al termine thing è associato anche l’altro termine norvegese vébönd, le bende sacre che
delimitano e circondano i giudici in assemblea; le bende o corde erano, come già detto, fissate su
bastoni di legno di nocciolo, uso comune germanico descritto anche in alcune leges barbarorum tra
il V e IX secolo, forse per allontanare gli spiriti maligni (credenza protrattasi nel folklore germanico
fino al 1700) (Riisøy, 2013, p.33); a questo proposito, la studiosa cita il caso della torbiera sacrificale
di Dorla, in Turingia, che ha permesso di ritrovare staccionate di nocciolo, oggetti interpretati come
altari e statuette antropomorfe, oltre ad oggetti di sacrificio quali ossa umane ed animali, una barca
e vari utensili, di ampia e varia datazione, a testimoniare l’importanza del luogo per oltre 1500 anni,
dal 500 a.c. al 1100 d.c., e la presenza in quel punto di un sito assembleare (Riisøy, 2013, p.33).
Infine, con l’espressione i fulla doma fara, “vanno ai tribunali affollati”, o, per quanto attiene
a fulla doma nella traduzione tedesca dell’Edda Kommentar, “vollständigen Gerichte” o “vollbesetzte
Gerichte” , “tribunali al completo” o “tribunali completamente occupati”, si fa riferimento con ogni
probabilità a un’espressione giuridica islandese relativa a un consesso giudiziario nel quale era
necessario che tutti i giudici fossero presenti per la validità dei procedimenti e delle deliberazioni; si
rappresentano qui i partecipanti al procedimento e i componenti del thing che si approssimano al
luogo dove si terrà il giudizio (von See et al, 2009, p. 570).
4. L’intreccio delle parole e la tradizione legale nordica
Secondo Mees (Mees, 2013) il discorso legale norreno presenta un notevole grado di stilizzazione,
in particolare con la presenza di formule rituali; se Moltke (Moltke, 1985), come detto in precedenza,
ritiene che Snorri citi le málrúnar solo come esempio di rune semplici, in contrapposizione a un uso
come codice segreto, il loro richiamo nello Hattatál, nella definizione del dróttkvaet, forma metrica
scaldica particolarmente elaborata, le associa invece per Mees alle forme poetiche, e pertanto a un
uso prestigioso e non comune della lingua:
Þetta er dróttkvæðr háttr.
Með þeima hætti er flest ort þat er vandat er.
Þessi er upphaf allra hátta,
sem málrúnar eru fyrir oðrum rúnum.
Questa è la forma del dróttkvætt.
Questa è la forma più usata per la poesia elaborata.
Questo è il fondamento di ogni forma di verso
Come le málrúnar sono il principale tipo di runa. 3
Tale ipotesi sarebbe confermata anche dall’iscrizione sull’osso di Lund già citata: l’uso più
prestigioso delle rune sarebbe stato quello del linguaggio poetico o comunque di un’espressione di
particolare raffinatezza (Mees, 2013, p.3), e ciò coinciderebbe anche con l’interpretazione delle tre
pietre runiche svedesi erette in onore di uomini dalla nota eloquenza.
Secondo Mees, la strofa 12 è strettamente collegata alla successiva strofa 13, in cui viene
menzionato l’hapax hugrúnar, che rappresenterebbe un richiamo alla medesima perspicacia nel
discorso poetico, e quindi a una particolare forma di saggezza e di retorica; ciò si unisce al richiamo
agli usi giuridici del germanico *maþl- evidenziato da Markey. Tale uso legale è rinvenibile anche nel
3
La traduzione è mia, ed è basata sulla traduzione inglese di Mees (Mees, 2013, p. 3)
Gripisspá dove si oppongono eidha vinna … malom slita (“prestare giuramenti… rompere accordi”)
(Mees, 2013, p.4).
Che il linguaggio giuridico nella Scandinavia medievale potesse avere forme stilizzate è
dimostrato per Mees anche dall’iscrizione su un anello in ferro battuto di Forsa (Svezia
settentrionale), probabilmente del IX secolo. Su tale anello è riportato un testo di natura legale su
cui sono presenti allitterazioni: il testo è relativo al mantenimento in buono stato di un luogo di culto
e assembleare. Allo stesso modo, le iscrizioni di maledizione su memoriali runici sarebbero esempi
di linguaggio pseudo-giuridico con allitterazioni, a provare, fin dai primi testi legali nordici, la
stilizzazione in un linguaggio assimilabile a quello poetico (MacLeod-Mees, 2013, p, 113 e Mees,
2013, p. 4).
La stilizzazione linguistica di concetti giuridici o para-giuridici in forme paragonabili alla
versificazione è individuata da Mees, ad esempio, nella pietra runica di Tune (Norvegia), in cui un
testo commemorativo allitterante sembra asserire il diritto di tre figlie del defunto a possedere la
terra situata intorno alla pietra; in un’iscrizione di Miklebostad (Norvegia), con chiari indici di
stilizzazione e di elaborazione sintattica, fonologica e semantica che rinviano a un tipo di
composizione poetica; e in un ritrovamento di Nydam (Jutland), un manico d’ascia che pare riportare
un riferimento a un concetto legale, datato alla prima metà del IV° secolo, con probabile
composizione metrica. Per tali attestazioni, Mees ritiene vi siano sufficienti indizi per collegare
l’espressione legale con la stilizzazione linguistica, per cui le iscrizioni menzionate potrebbero essere
state considerate, al tempo, come málrúnar (Mees, 2013, pp. 8-10)
Sul manico d’ascia di Nydam è presente un riferimento a un aitha (cfr. ingl.mod. oath,
“giuramento”) e siamo di fronte con ogni probabilità a un sacrificio (costituito dall’ascia) agli dei
germanici, sepolto in un lago o in una torbiera con funzioni di culto. Mees ritiene che si possa
difficilmente distinguere, almeno nei tempi più antichi, tra funzione di culto e funzione legale del
giuramento - si ricordi tra l’altro che Tacito afferma come nell’assemblea i sacerdoti avessero anche
“il diritto di costringere”. A questo proposito lo studioso ricorda come nella Egilssaga si attesti che
la assemblee norrene erano a volte delimitate da corde sacre, a significare la connessione tra spazio
legale e religioso nella tradizione germanica (Mees, 2013, p. 9); il richiamo a tale usanza è già stato
evidenziato (v. supra) da von See nella strofa 12 proprio con riferimento alla connessione tra la
composizione fisica, con rametti d’albero, delle málrúnar, e il thing. E’ probabile che in tali
assemblee il godhi, l’autorità religiosa e militare scandinava di età pagana, avesse funzioni sia
politiche sia legali, e che l’intreccio delle argomentazioni elaborate da tale soggetto, di particolare
prominenza, potesse essere accostato a un’esecuzione di forma poetica (Mees, 2013, p. 9.)
A questo proposito, Mees richiama uno studio (Stacey, 2007) sulla stilizzazione quasi
impenetrabile di molti passaggi in trattati legali in antico irlandese, in cui il linguaggio del fili, il
poeta/giudice/consigliere/mago di tale tradizione, è definito come dark speech, che suggerisce come
anche il linguaggio dei godhar possa essere stato costituito da prosa allitterante, se non
direttamente da poesia (Mees, 2013, p. 10). Secondo lo studio di ambito celtico menzionato, quando
il fili discuteva un caso in tribunale, adoperava una forma di linguaggio arcaizzante e manierato,
paragonabile a prosa poetica; allo stesso modo, la presenza di coppie allitteranti e la lingua elevata
utilizzati nei testi giuridici norreni potrebbe avere per Mees la stessa origine e spiegazione, vale a
dire l’uso di espressioni orali performative, volte a fare determinate cose con l’utilizzo di formule
durante la discussione dei casi nel thing.
La stilizzazione del linguaggio, secondo Mees, non riflette tanto o solo la necessità di un
ausilio mnemonico, quanto la precisa volontà di utilizzare una forma particolarmente elevata di
lingua per scopi retorici: se l’utilizzo delle allitterazioni è effettivamente iniziato nella più antica
pratica legale norrena, la prima ragione per il suo mantenimento in epoche successive è dovuto alla
sua associazione con la correttezza della pratica giuridica. Dato che l’uso di uno stile elevato
coincideva con la corretta argomentazione legale, volta ad ottenere gli effetti desiderati grazie all’uso
dell’eloquenza, tradizionalmente apprezzata, lo stesso tipo di uso del linguaggio si sarebbe
riprodotto nei codici legali più tardi: in questi, l’uso delle málrúnar, intese come forma di lingua di
registro più alto, avrebbe posto l’accento sulla correttezza della pratica risalente ai più antichi
precedenti. Esempi di tali precedenti, come già visto, sono rinvenibili, secondo Mees, nelle iscrizioni
runiche come quelle di Tune o di Nydam (Mees, 2013, p. 10-12).
Argomentazioni assimilabili a quanto detto sopra sono portate da Riisøy (Riisøy, 2016)
quando afferma che i giuramenti tramandati dai carmi eddici erano gli stessi utilizzati anche nella
vita reale. In una società priva di un’autorità di governo centrale, era necessario, a parere della
studiosa, assicurare la massima salvaguardia all’efficacia dei giuramenti: per questo motivo la
connessione con l’ambito religioso era particolarmente importante, e i giuramenti stessi erano, ad
avviso di Riisøy, realizzati in forma poetica, in modo da agevolarne la trasmissione anche in società
basate sull’oralità; a questo proposito, è nuovamente richiamato l’esempio dell’ascia di Nydam
(Riisøy, 2016, p. 142).
Il legame tra dizione poetica, stilizzazione linguistica, forme giuridiche e religiose, tradizione
assembleare è ulteriormente sottolineato dalla pratica comune di iscrivere giuramenti sulle armi e
sugli anelli; tali forme di giuramento si combinavano nella tradizione delle cosiddette ring-swords,
in cui un piccolo anello era fissato all’elsa della spada a simboleggiare il legame tra il re francone e il
suo seguito; lo stesso Tacito notava che la presenza delle lance conferiva validità legale all’assemblea
(Riisøy, 2016, p. 143).
Il giuramento sugli anelli è inoltre una delle prerogative principali dei godhar, cui spettava
l’apertura dell’assemblea e il sacrificio all’interno del recinto sacro. Il giuramento sugli oggetti,
secondo Riisøy, era un mezzo importante per conservare le transazioni legali attraverso il ricordo in
assenza di tradizione scritta o, comunque, in modo più semplice che non attraverso principi legali
astratti; un senso particolare era inoltre conferito ai giuramenti dal fatto di essere apposti su oggetti
di particolare significato, quale gli anelli o le spade, o di essere rivolti agli dei, e quindi connessi a
elementi portanti della cultura germanica, al fine di assicurare, per quanto possibile, che gli stessi
non fossero infranti e minimizzare così il rischio di rotture violente. Non era insolito che ai giuramenti
sulle armi si associasse la conseguenza per cui, in caso di rottura della promessa, l’arma stessa si
sarebbe rivoltata contro l’autore della violazione. Ne è un esempio un giuramento del 945 tra Rus e
Greci in cui si invocava, su chi avesse rotto il patto, la vendetta della sua stessa spada e delle sue
stesse frecce; nel Secondo Carme di Helgi Hundingsbani, Sigrun chiede che i giuramenti fatti da suo
fratello Dag ad Helgi, che egli ha ucciso, lo possano straziare, lo tradiscano la nave e il cavallo sui
quali giurò, e la spada gli si rivolga contro. (Riisøy, 2016, pp. 148 e 152).
In questa tradizione, parole e gesti sarebbero complementari gli uni agli altri, la dizione
poetica e il ritmo renderebbero il giuramento più facile da ricordare; eloquenza e gesto così
combinati avrebbero più forza che non presi singolarmente. Anche Riisøy richiama lo studio di Stacey
per sottolineare che l’aspetto performativo dell’eloquenza nel contesto legale antico irlandese era
volto non solo a registrare, ma anche a creare e trasformare, a dare effetto a cambiamenti di status
legale, e a costituire un determinato atto nel momento stesso in cui le parole venivano pronunciate;
il processo, il caso giudiziario e l’atto performativo così descritti potrebbero essere accostati all’uso
del termine mál nella Scandinavia pagana nel suo senso di discorso, caso legale e luogo di assemblea
come già visto anche nelle tesi di Mees (Riisøy, 2016, pp. 150-151).
5. Ricambiare l’odio subìto: parola e violenza
Un ulteriore aspetto connesso alla trasmissione della conoscenza runica e sapienziale da
parte della valchiria a Sigurdhr è stato, tra l’altro, messo in luce da uno studio di Clark (Clark, 2007)
che indaga gli esempi di fratricidi o di uccisione di parenti all’interno dei canti dell’Edda poetica, in
quanto temi ricorrenti, e li mette in relazione con i riferimenti che lo stesso codice presenta rispetto
ai Ragnarök.
E’ lo stesso canto iniziale della Vǫluspá a mettere in relazione il fratricidio con i Ragnarök
nella strofa 45:
Bræðr munu berjask
munu systrungar
hart er í heimi
skeggǫld, skálmǫld,
vindǫld, vargǫld,
mun engi maðr
ok at bǫnum verðask,
sifjum spilla;
hórdómr mikill,
skildir ru klofnir,
áðr verǫld steypisk,
ǫðrum þyrma.
Si batteranno i fratelli diverranno reciproci assassini;
i più stretti congiunti devasteranno la stirpe:
nel mondo imperversa il peggior meretricio;
evo di scure, evo di spada gli scudi vanno in pezzi
evo di tempeste, evo di lupi, poi sprofonda il creato
non vorrà uomo altrui risparmiare. (trad. Meli)
Inoltre, nelle strofe 31-33 del medesimo canto, si trova un riferimento all’uccisione di Baldr
per mano, involontaria, del fratello, che darà inizio a un ciclo di vendetta fratricida su istigazione di
Odino. In corrispondenza alla Vǫluspá, l’ultimo dei canti eroici dell’Edda, lo Hamdhismál, sempre
appartenente al ciclo nibelungico-volsungico, ha come suo nucleo centrale la vendetta e l’uccisione
dei parenti, con un continuo utilizzo di immagini di alberi, rami e radici, e del lupo, elementi centrali
nelle rappresentazioni dei Ragnarök, ad enfatizzare la realtà distruttiva causata dal sentimento di
rivalsa violenta (Clark, 2007, p. 25).
Richiamata la descrizione di Baldr presente nella Gylfaginning come dio di eccezionale
bellezza, Clark la paragona a quella di Sigurdhr presente nel brano in prosa che precede il Gripisspá,
che presenta espressioni simili quanto alla preminenza, al valore e alla magnificenza dell’eroe,
ripetute costantemente nel corso dei poemi eroici (Clark, 2007, p. 31-32); l’ipotesi dell’autore è
quelle di un legame tra le figure di Baldr e Sigurdhr tale per cui le due uccisioni parallele
costituirebbero eventi che in entrambi i casi daranno luogo a conseguenze catastrofiche.
Il Sigrdrífomál, che reintroduce Odino come primo attore che mette in moto la vicenda di
Sigrdrífa, come visto all’inizio del carme, e quindi innesca il complesso di azioni susseguenti, presenta
riferimenti inequivoci alla questione della vendetta e del fratricidio, a partire dalla strofa 22,
Þat ræð ec þér iþ fyrsta
at þú við froendr þina
vammalauss verir
síðr þú hefnir,
þott þeir sacar gori,
þat qveða dauðom duga.
Per primo questo ti consiglio, con i tuoi
D’essere senza macchia.
Non trarre vendetta neppure se t’offrano causa di lite
Questo, dicono, giova ai morti. (trad. Scardigli-Meli)
alla strofa 35, che consiglia di non fidarsi dei parenti di una propria vittima, e infine alla 37, in cui si
predicono le lotte spietate che stanno per sorgere. Su tutti, sta inoltre il richiamo alla fine degli dei
contenuto nella strofa 19.
Clark mette in rilievo come le strofe del rúnatal possano essere collegate a tali profezie in
almeno tre strofe, quelle relative alle limrúnar, alle málrúnar e alle hugrúnar. Se le limrúnar della
strofa 11 sono usate per curare le ferite e devono essere intagliate su alberi i cui rami (limar) volgono
a oriente, con un’equazione tra rami e membra del corpo, è proprio la strofa 12 che fa seguire alla
cura materiale del corpo ferito l’idea di prevenire la vendetta attraverso la conoscenza delle
málrúnar, al fine di evitare il riproporsi dell’odio conseguente al male subìto; il trittico di strofe è
concluso dalle rune della saggezza (hugrúnar), necessarie per essere più accorti e sapienti di ogni
altro uomo (Clark, 2007, p.34-35). Infine, dopo aver enumerato i posti in cui si trovano le rune,
Sigrdrífa incita Sigurdhr a usarle fino a quando avrà luogo la fine degli dei (strofa 19).
E’ possibile, secondo Clark, considerare in particolare le rune del discorso e le rune della
saggezza come potere della parola, strumento che consente di prevenire la violenza e di controllare
l’istinto di vendetta attraverso la ragione e la legge. Si istituisce così un parallelo tra la fine violenta
degli dei e la possibile fine violenta degli uomini in preda a impulsi incontrollati (Clark, 2007, p. 35).
Il carme eroico farebbe quindi da contraltare microcosmico rispetto ai poemi mitologici, e la
rappresentazione dei fratricidi e delle vendette tra consanguinei avrebbe un parallelo nelle vendette
tra gli dei, mentre l’uso della ragione tramite la parola, con le málrúnar, permetterebbe di controllare
il conflitto nell’ambito di regole umane (Clark, 2007, p. 38).
6. Conclusioni
La disamina del contenuto della strofa 12 del Sigrdrífomal e del suo punto focale, il composto
málrúnar, ha dapprima condotto a evidenziare come l’asserita natura composita del carme trovi un
punto di forte strutturazione nelle strofe del rúnatal. Queste strofe assumono particolare rilievo per
il significato di iniziazione e di formazione del futuro re Sigurdhr, e tale aspetto è confermato da altre,
analoghe esperienze di trasmissione del sapere runico.
Nell’analisi specifica del composto, si è messo in luce come una proposta di etimologia della
prima parte di esso possa riconnetterlo alla delimitazione di un luogo assembleare o di governo, e
al significato poi assunto nelle lingue germaniche relativo al consesso, alla riunione, al discorso e alla
conversazione che in essi si tengono.
Si è dato conto di come il significato di málrúnar si focalizzi, nel carme in questione, sull’uso
strumentale dell’eloquenza nell’ambito di procedimenti legali, tanto che alla principale traduzione
proposta, “rune del discorso”, è possibile affiancare anche quella di “rune del processo”; l’utilizzo
del termine nel carme si ricollega strettamente al particolare valore conferito dai popoli germanici
alla facondia, già evidenziato da Tacito.
Le attestazioni del composto in iscrizioni runiche, oltre che nello Hattatál, possono essere
considerate testimoni di forme di espressione non banali, bensì particolarmente elaborate e
stilizzate: la compresenza di allitterazioni e forme di linguaggio di registro alto in espressioni con
probabile valore giuridico consentono di riconnettere il valore della facondia, insito nelle málrúnar,
alla tradizione legale nordica e al ruolo che gli atti performativi rivestono nella stessa. Tale
connessione con le istanze giuridiche instaura un legame diretto fra la dizione poetica, l’abilità di
persuasione e gli effetti in ambito legale: l’aspetto formulare e retorico costituisce una tradizione
che risulta valida quale precedente, e conferma, con la sua ripetizione, la correttezza e l’efficacia
delle prassi legali.
Il luogo ove tutto questo si compie è principalmente il thing, direttamente richiamato nella
strofa 12, del quale si è evidenziata la possibile interpretazione quale consesso strutturato sul
modello dell’assemblea degli dei. Nell’ambito del thing, la forza della parola può essere valorizzata
quale alternativa agli effetti distruttivi della violenza e del fratricidio, ai quali presentano evidenti
richiami la Vǫluspá, ma anche lo stesso Sigrdrífomal e altri carmi dell’Edda: sullo sfondo dei
Ragnarök, e del loro temuto contraltare terreno, si staglierebbe quindi la capacità umana di
persuadere e di elaborare soluzioni nei luoghi di confronto del consorzio sociale.
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