POLYMNIA
Studi di Storia romana
3
Polymnia
Collana di Scienze dell’antichità
fondata e diretta da
Lucio Cristante
_________________________________________________________________________
Studi di Storia romana
a cura di
Gino Bandelli e Giovannella Cresci Marrone
-3-
COMITATO SCIENTIFICO
Elizabeth Deniaux (Paris), Hartmut Galsterer (Köln), Andrea Giardina (Roma),
Juan Santos Yanguas (Vitoria), Claudio Zaccaria (Trieste), Giuseppe Zecchini (Milano)
Hoc quoque laboris praemium : scritti in onore di Gino Bandelli / a cura
di Monica Chiabà - Trieste :
Edizioni Università di Trieste, 2014. - XXVIII, 591 p. : ill. ; 24 cm.
(Polymnia : studi di Storia romana ; 3)
ISBN 978-88-8303-552-4 (Print ed.)
E-ISBN 978-88-8303-560-9 (Digital ed.)
Civiltà latina – Scritti in onore
937 (ed. 22) – STORIA ANTICA. ROMA
I contributi contenuti in questo volume sono stati sottoposti a peer review
I testi pubblicati sono liberamente disponibili su:
http://www.openstarts.units.it
© Copyright 2014 - EUT
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(compresi i microfilm, le fotocopie o altro), sono riservati per tutti i Paesi
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alla pubblicazione; restano tuttavia a disposizione per assolvere gli adempimenti nei confronti degli eventuali aventi diritto non rintracciati
HOC QVOQVE LABORIS PRAEMIVM
Scritti in onore di Gino Bandelli
a cura di Monica Chiabà
Trieste
EUT - Edizioni Università di Trieste
2014
TABULA GRATULATORIA
Federica Adolini
Ermanno Arslan
Andrea Balanza
Ida Baldassarre
Maria Silvia Bassignano
Giuseppe Battelli
Cinzia Bearzot
Anna Maria Biraschi
Claudia Bittisnig Rossi
Laura Boffo
Jacopo Bonetto
Elisabetta Borgna
Filippo Boscolo Chio
Paula Botteri
Grazia Bravar
Giovanni Brizzi
Ezio Buchi
Marco Buonocore
Alfredo Buonopane
Silvia Bussi
Lorenzo Calvelli
Giorgio Camassa
Giuseppe Camodeca
Maria Domitilla Campanile
Luciano Canfora
Laura Casarsa
Paola Càssola Guida
Giuliana Cavalieri Manasse
Mireille Cébeillac-Gervasoni
Francesca Cenerini
Roberta Cervani
Marcella Chelotti
Monica Chiabà
Ileana Chirassi Colombo
Lorenzo Cigaina
Fulvia Ciliberto
Circolo culturale Menocchio
Filippo Coarelli
Aldo Colonnello
Mireille Corbier
Edda Corsi Corbato
Lellia Cracco Ruggini
Giovannella Cresci Marrone
Franco Crevatin
Lucio Cristante
Giuseppe Cuscito
Sergio Daris
Sandro De Maria
Donata Degrassi
Elisabeth Deniaux
Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia
Patrizia Donat
Angela Donati
David Espinosa Espinosa
Klaus Fabian
Grazia Maria Teresa Facchinetti
Margherita Facella
Michele Faraguna
Irene Favaretto
Marco Fernandelli
Liliana Ferrari
Giulio Firpo
Piergiorgio Floris
Federica Fontana
Daniele Foraboschi
Maria Rosa Formentin
Giuseppe Fornasari
Annalisa de Franzoni
Pia Frausin
Estela García Fernández
Gianfranco Gianotti
Andrea Giardina
Silvia Giorcelli Bersani
Gian Piero Givigliano
Fausto Gnesotto
Giovanni Gorini
Gian Luca Gregori
Francesco Grelle
Francesco Guizzi
Gianfranco Hofer
José Manuel Iglesias Gil
Palma Karković
Umberto Laffi
Giuseppe Lepore
Cesare Letta
Franco Luciani
Alberto Maffi
Paola Maggi
Stefano Magnani
Aldo Magris
Claudio Magris
Fulvia Mainardis
Rita Mangiameli
Arnaldo Marcone
Silvia M. Marengo
Manuela Mari
Anna Marinetti
Santiago Martínez Caballero
Franca Maselli Scotti
Attilio Mastino
Attilio MastrocinQue
Giovanni Mennella
Pier Giuseppe Michelotto
Elvira Migliario
Carlo Molle
Manuela Montagnari Kokelj
Maria Morigi
Chiara Morselli
Emanuela Murgia
Maria Pia Muzzioli
David Nonnis
Miguel Ángel Novillo López
Flaviana Oriolo
Silvia Orlandi
Jacopo Ortalli
Gianfranco Paci
Silvio Panciera
Mario Pani
Laura Paoletti
Giovanna Paolin
Rosanna Paroni Bertoja
Gino Pavan
Rienzo Pellegrini
Ezio Pellizer
Antonio Pistellato
Leandro Polverini
Gabriella Poma
Franco Porrà
Francesco Prontera
Patrizia Puppini
Oliva Quasimodo
Andrea Raggi
Cecilia Ricci
Daniela Rigato
Giuliano Righi
Francesca Rohr Vio
Alicia Ruiz Gutiérrez
Sara Santoro
Juan Santos Yanguas
Antonio Sartori
Rita Scuderi
Simonetta Segenni
Gemma Sena Chiesa
Marina Sergi
Franco Serpa
Marina Silvestrini
Simone Sisani
Fabrizio Slavazzi
Giuliana Sluga
Società Istriana di Archeologia e Storia Patria
Roberto Spazzali
Anna Storti
Silvia Strassi
Marjeta Šašel Kos
Clara Talamo
Grazia Tatò
Gennaro Tedeschi
Margherita Tirelli
Cristiano Tiussi
Giuseppe Trebbi
Lucio Troiani
Alfredo Valvo
Fulvia Vattovani Sforza
Paola Ventura
Domenico Vera
Serena Vitri
Claudio Zaccaria
Nicoletta Zanni
Giuseppe Zecchini
Fausto Zevi
Claudia Zocchi
Ella Zulini
Matej Župančič
INDICE
Abstracts
XI
Nota del Curatore
XXVII
Marco Buonocore
Un nuovo praetor duovir da Telesia
1
Alfredo Buonopane
Due ghiande missili col nome del fabbricante nel Museo Archeologico al Teatro
Romano di Verona
19
Paola Càssola Guida
Tra cielo e mare: ancora qualche nota sull’iconografia del viaggio del sole
33
Mireille Cébeillac-Gervasoni
Quaestor Ostiensis: une fonction ingrate?
53
Francesca Cenerini
Il ruolo delle donne nelle città alla fine dell’età repubblicana: il caso di Mutina
63
Monica Chiabà
A proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad Aquileia, comunità di
frontiera. Le pietre ‘raccontano’…
83
Filippo Coarelli
I quaestores classici e la battaglia delle Egadi
99
Giovannella Cresci Marrone - Anna Marinetti
Messaggio iscritto e modelli di romanizzazione: il caso di Montebelluna
VII
115
indice
Franco Crevatin
Verteneglio
139
Elisabeth Deniaux
La famille des Marii et l’histoire de la colonie romaine de Byllis
143
Angela Donati
Il linguaggio della guerra e della pace nell’epigrafia di Augusto
157
Daniele Foraboschi
I primi Romani sul Nilo
163
Estela García Fernández
Estrabón (III 2, 1) y la fundación de Córdoba. Una nueva propuesta de
interpretación
173
Silvia Giorcelli Bersani
L’«egregium commentarium» di Catavignus
189
Gian Luca Gregori
Ancora sull’iscrizione dell’atestino Marco Billieno, veterano di Azio (CIL, V
2501 = ILS 2243)
205
Giuseppe Lepore
La colonia di Sena Gallica: un progetto abbandonato?
219
Stefano Magnani
Aquileia e l’entroterra venetico e retico: alcune considerazioni
243
Fulvia Mainardis
Realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica nel territorio di Iulium
Carnicum (Zuglio, UD)
271
Arnaldo Marcone
Forme di ‘scrittura quotidiana’ a Roma e nel mondo romano tra la fine dell’età
repubblicana e la prima età imperiale
291
Silvia M. Marengo
Appunti per la ‘riscoperta’ di CIL, IX 5311
307
VIII
indice
Franca Maselli Scotti
Riflessioni sul paesaggio aquileiese all’arrivo dei Romani
319
Attilio MastrocinQue
Marsia e la civitas Romana
331
Elvira Migliario
A proposito di penetrazione romana e controllo territoriale nel Piemonte
orientale: qualche considerazione
343
Manuela Montagnari Kokelj
Note su Ludwig Karl Moser, Carlo Marchesetti e le indagini di fine ‘800 inizi ‘900 nelle grotte del Carso triestino
359
Maria Pia Muzzioli
Il problema delle assegnazioni sillane nel Tuscolano
377
David Nonnis
A proposito del ‘monumento dei Calpurnii’ a Cales: una nuova proposta
interpretativa
391
Gianfranco Paci
La nascita della colonia romana di Urbisaglia
415
Leandro Polverini
Alla scuola di Mommsen. Ettore Pais e la storia della colonizzazione romana
431
Alicia Ruiz Gutiérrez
Aspectos económicos de la migración itálica a la Hispania Citerior (siglos II-I
a.C.)
443
Juan Santos Yanguas - Santiago Martínez Caballero
Modelos de urbanización en época republicana en la Celtiberia de arévacos y
pelendones
457
Marina Silvestrini
Quale questura nel municipio di Brindisi? A proposito di AEp 2006, 320-321
477
IX
Simone Sisani
Due nuove iscrizioni su instrumentum dal distretto plestino
495
Alfredo Valvo
Il declino della Repubblica nel De Haruspicum responsis
509
Claudio Zaccaria
T. Annius T. f. tri(um)vir e le prime fasi della colonia latina di Aquileia.
Bilancio storiografico e problemi aperti
519
Giuseppe Zecchini
Pola e Cesare
553
Appendice
Gino Bandelli: elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
565
ABSTRACTS
Marco Buonocore, Un nuovo praetor duovir da Telesia
Una nuova iscrizione di Telesia portata a corretta lettura trasmette una nuova attestazione della carica di praetor II vir. Nel contributo si passano in rassegna tutte le testimonianze locali di questa magistratura, se ne traccia l’evoluzione terminologica anche in rapporto all’onomastica dei personaggi che la ricoprirono dalla metà del I sec. a.C. fino alla
metà almeno del II sec. d.C.
A recent investigation of an inscription belonging to Telesia revealed the existence of the
position of praetor II vir. The article will examine all local testimonies of this magistracy, while
going through its terminological evolution, also in relation to the onomastics of the personalities who performed it from the middle of the I century B.C. to, at least, the middle of the II
century A.D.
Alfredo Buonopane, Due ghiande missili col nome del fabbricante nel Museo Archeologico
al Teatro Romano di Verona
I proiettili di piombo impiegati dai frombolieri inquadrati negli eserciti antichi possono rappresentare, soprattutto se iscritti, una fonte di notevole valore documentario per
la storia militare. Purtroppo sono oggetti particolarmente ambiti dai collezionisti e ciò ha
dato vita, soprattutto nell’Ottocento, a una vivace attività di falsificazione. Per questo motivo sono di grande interesse due ghiande missili genuine, attribuibili alla seconda metà del
I secolo a.C. e conservate presso il Museo Archeologico al Teatro Romano di Verona, che
recano il nome dell’artigiano che le ha fabbricate.
The lead slingshots used by ancient slingers can be, especially if inscribed, a very important
source for military history. Unfortunately, there is great demand for these objects on the antiquarian market by collectors and this has created, starting from the nineteenth century, the
production of a large number of fakes. For this reason, two genuine lead slinghots, dating to the
second half of the first century BC, now preserved in the Archaeological Museum of Verona, are
of great interest. The inscriptions record the name of the craftsman who manufactured them.
XI
abstracts
Paola Càssola Guida, Tra cielo e mare: ancora qualche nota sull’iconografia del viaggio
del sole
Nella protostoria europea, com’è noto, troviamo molteplici figurazioni e soprattutto
elementi singoli – cerchi, ruote, uccelli acquatici, cavalli – riferibili al ciclo solare. Viene
qui proposta una sintetica rassegna delle categorie di oggetti che, con diversa evidenza e
stili diversi nelle varie fasi, ci documentano la vitalità dei motivi solari, fino ad età romana. Particolare attenzione è dedicata a situle, pendagli e altri manufatti peculiari dell’area
veneto-padana e dei territori alpini.
It is well-known that during the Late Prehistory of Europe both depictions and, more often,
single motifs – such as circles, wheels, water-birds and horses – frequently occur with reference
to the cycle of the sun. On the basis of several groups of objects of different styles and stages, the
author aims to briefly illustrate the vitality of sun motifs from the Middle Bronze Age to Roman times. Special attention is given to situlae, pendants and other artefacts used in the Povalley, Veneto and Alpine territories.
Mireille Cébeillac-Gervasoni, Quaestor Ostiensis: une fonction ingrate?
L’exceptionnelle découverte des rostres de navires romains coulés lors de la bataille des
Egades, dont deux portaient le nom de quaestores classici a été un élément décisif pour
reprendre le dossier si mal documenté des questeurs d’Ostie. Cette étude permet de suivre
l’évolution de la mission de ces magistrats d’un rôle de navarque au IIIè s. av. J.-C. à celui
du magistrat basé à Ostie qui devait acheminer l’annone d’Ostie à Rome. Mais le questeur
d’Ostie n’avait pas de possibilité d’action sur l’arrivée du blé dans le port. Ceci explique ces
difficultés et les railleries au moment du tirage au sort. Le problème fut réglé par Auguste
avec la préfecture de l’annone ce qui vida de sa fonctionnalité cette magistrature qui fut
supprimée par Claude.
The archeological investigation into the Aegates battle area permitted to find Roman wrecks
and two rostra with inscriptions recording name of quaestores classici. This was the opportunity to study the general evolution from the third century B.C. of this magistracy from a naval
role to an annona mission. The quaestor Ostiensis could not control the flow of grain and this
explains the derision and clamour when this magistracy was drawn. Augustus tried to find a
solution by establishing the praefectus annonae. Claudius abolished this function.
XII
abstracts
Francesca Cenerini, Il ruolo delle donne nelle città alla fine dell’età repubblicana: il caso
di Mutina
Gli studi sulla condizione femminile di età antica hanno messo in luce i diversi modelli
di rappresentazione delle donne sulla base delle diverse tipologie di fonti. Di norma, le
fonti letterarie costruiscono un modello idealizzato, basato sulla loro dedizione alla vita
domestica, al matrimonio e all’educazione dei figli: conseguentemente, descrivono le donne secondo questi parametri e le giudicano di conseguenza. Le fonti epigrafiche, invece, descrivono una condizione femminile molto più variegata e complessa, dove la ricchezza delle
donne gioca un ruolo notevole. In questo articolo viene analizzata la condizione femminile
quale appare dalla documentazione epigrafica della città di Mutina.
A number of studies on the status of women in the ancient world have brought into light
different patterns of female representation, depending on respectively different typologies of
sources. Literary sources customarily build up an idealised model, whose foundational traits
are their domestic devotion, marriage and child rearing. It is in the light of such parameters
that they describe and critically assess the figure and role of women. On a different tack, epigraphic sources describe a female condition that appears much more variegated and complex,
i.e. one in which women’s wealth plays a crucial role. This paper sets out to analyse the female
condition as it emerges from the epigraphic documentation of the city of Mutina.
Monica Chiabà, A proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad Aquileia, comunità di
frontiera. Le pietre ‘raccontano’…
Lo studio sistematico dei nomi delle famiglie aquileiesi di età repubblicana, condotto
su base prevalentemente epigrafica, ha consentito di formulare alcune ipotesi sull’origo delle gentes deductae e di precisare alcune modalità di integrazione fra i coloni del 181 e del
169 a.C. e gli autoctoni. In questo contributo si prendono in esame alcune iscrizioni che
potrebbero documentare, ancora su base onomastica, eventuali matrimoni misti fra indigeni (ex incolae divenuti prima coloni poi municipes) e gli esponenti della compagine romanolatino-italica (o i loro discendenti). Il fatto di trovarci ad Aquileia, in origine fondazione di
diritto latino in una terra di confine fra i Veneti e i ‘barbari’ Galli, Istri e Illiri, rende molto
più complesso questo tipo d’indagine e vari gli esiti.
The systematic study of the names of the families documented in Aquileia in the republican
age, based on epigraphic evidence, allows to formulate some hypotheses on the origo of the gentes deductae and clarify certain mode of integration between the coloni of 181 and 169 BC
and the natives. In this paper I focus on some inscriptions that could document, on the basis of
XIII
abstracts
onomastics, patterns of intermarriage between local inhabitants ( former incolae become first
coloni then municipes) and colonists (or their descendants). The fact that we find in Aquileia,
originally founded as Latin colony in a borderland between the Veneti and the ‘barbarian’
Galli, Histri and Illyrii, makes this type of investigation much more complex and produces
different results.
Filippo Coarelli, I quaestores classici e la battaglia delle Egadi
La recente scoperta di alcuni rostri con iscrizioni latine, appartenenti a navi affondate
nel corso della battaglia delle Egadi (241 a.C.) conferma la notizia di Livio, che colloca
intorno al 267 a.C. l’incremento del numero dei questori. Conferma inoltre il testo di Giovanni Lido (Mag. I 27), secondo il quale ai nuovi magistrati fu conferita una specifica competenza ‘navale’, da intendere naturalmente nel senso della gestione finanziaria della flotta.
The recent discovery of some rostra with Latin inscriptions, from ships which sunk during
the battle of the Aegades (241 BC), confirms Livy’s account which dates the increase in the
number of quaestors to around 267 BC. It also confirms the text of Iohannes Lidus (Mag. I 27)
according to which the new magistrates were assigned a specific ‘naval’ function, in other words
the financial management of the fleet.
Giovannella Cresci Marrone - Anna Marinetti, Messaggio iscritto e modelli di
romanizzazione: il caso di Montebelluna
Il contributo presenta le nuove iscrizioni sepolcrali da Montebelluna (TV), relative
all’età di romanizzazione ed all’età romana (II a.C.-I d.C.); si sottolineano le potenzialità
informative di tale documentazione, che vede compresenza e forme di ibridazione tra tradizione locale veneta e incipiente romanità. Si impostano le coordinate di un progetto di
edizione di tutta la documentazione epigrafica dell’area, in larga parte ancora inedita, che
si intende perseguire in prospettiva pluridisciplinare.
The paper presents the newly found funerary inscriptions from Montebelluna (TV) referring either to the Romanization period or to the full Roman period (IInd century BC to Ist century AD). The informative potential offered by such documents is highlighted: the epigraphic
corpus shows both parallel and hybrid forms interrelating Venetic local traditions and early
Romanization models. A thorough edition of the corpus – mostly unpublished – is sketched
out, which is supposed to include a multidisciplinary approach.
XIV
abstracts
Franco Crevatin, Verteneglio
L’autore discute l’etimo del toponimo istriano Verteneglio; dopo una rassegna delle
ipotesi sinora avanzata, viene mostrato che probabilmente si tratta del diminutivo di un
nome preromano, Ortona > Ortonicula, motivato dalla dipendenza del castelliere preromano di Verteneglio dal castelliere maggiore di Villanova del Quieto.
The author discusses the etymology of the Istrian name Verteneglio; after a review of the
hypotheses so far advanced, it is shown that it is probably the diminutive of a pre-Roman name,
Ortona > Ortonicula, motivated by the dependence of the pre-Roman hill-fort of Verteneglio
from the greater castelliere of Villanova.
Elisabeth Deniaux, La famille des Marii et l’histoire de la colonie romaine de Byllis
La colonie de Byllis fut fondée par Auguste avec l’intention de contrôler une importante voie stratégique. Nous ne la connaissons pas très bien. Cependant quelques inscriptions latines permettent d’étudier une de ses familles, celle des Marii. La mention d’un
centurion primipile originaire de Byllis dans une inscription trouvée dans la cité de Rome
est très intéressante pour notre propos.
The colony of Byllis was founded by Augustus with the intention to control a strategic way of
communication. We do not know the Roman colony very well. However some latin inscriptions
give us the possibility to study one of the Byllis’ families, the Marii. The mention of a centurio
primipilaris whose origin is Byllis, in an inscription found in the city of Rome is very interesting for our subject.
Angela Donati, Il linguaggio della guerra e della pace nell’epigrafia di Augusto
La documentazione epigrafica costituisce uno dei principali mezzi di presentazione
del cambiamento avvenuto a Roma con l’età augustea e guerra e pace sono fra i temi meglio rappresentati in quanto coinvolgono aspetti e momenti non solo politici, ma anche
religiosi.
Epigraphic documentation is an important form of presentation of the change in the age of
Augustus; war and peace are among the topics better represented as involving aspects and moments not only political, but also religious.
XV
abstracts
Daniele Foraboschi, I primi Romani sul Nilo
Fin dal terzo secolo a.C. i Romani intrattengono rapporti diplomatici con l’Egitto, di
cui imitano anche la monetazione.
Nel secondo secolo a.C. Roma è già una potenza egemone in tutto il Mediterraneo e
blocca le velleità espansionistiche di Antioco IV di Siria verso l’Egitto (e anche verso il
nuovo stato maccabaico di Israele).
Senatori romani saranno accolti con grande ospitalità sulle terre del Nilo.
Tutto muterà con Cleopatra VII, amante di Cesare e M. Antonio, madre dei loro figli,
ma che a tanti Romani sembrerà un fatale monstrum.
Ma presso altri Romani continuerà la fascinazione del paesaggio e della civiltà del Nilo:
Seneca vi trascorrerà parte della giovinezza, Caio Cestio si farà costruire a Roma una tomba a forma di piramide.
From the 3rd century BC, Romans maintained diplomatic relationships with Egypt and
imitated their monetization.
In the 2nd century BC Rome had a hegemonic rule all over the Mediterranean Sea and
blocked the expansionist ambitions of Antiochus IV of Syria towards Egypt (and towards the
new Maccabean state of Israel).
Roman senators were received with great hospitality in the Nile’s lands.
Everything will change with Cleopatra VII, lover of Caesar and M. Antonius and mother
of their sons. She will appear to be a fatale monstrum to a lot of Romans.
However, the fascination of the landscape and the culture of the Nile will continue to be
perceived by another part of the Roman society: Seneca will spend part of his youth in Egypt,
while Caius Cestius will order a tomb to be built for him in Rome, pyramidal in shape.
Estela García Fernández, Estrabón (III 2, 1) y la fundación de Córdoba. Una nueva
propuesta de interpretación
En esta contribución se presenta una nueva lectura de un pasaje de Estrabón (III 2, 1)
referido a la fundación de Corduba. Se argumenta que dicho pasaje transmitiría una sucinta
historia constitucional de la ciudad: fundada primero como colonia latina por M. Claudio
Marcelo, pasaría Córdoba posteriormente a ser la primera colonia romana deducida en la
provincia Ulterior tras la muerte de César.
This paper aims to reconsider a passage of Strabo (III 2, 1) dealing with the foundation of
Corduba. It is argued that the passage conveys a brief constitutional history of the town, which
allows us to assert that Corduba was founded by C. Claudius Marcellus as a Latin colony and
XVI
abstracts
subsequently became the first Roman colony deducted in Hispania Ulterior after the death of
Caesar.
Silvia Giorcelli Bersani, L’«egregium commentarium» di Catavignus
L’archivio Promis, conservato nella Biblioteca Reale di Torino, documenta uno scambio epistolare tra Carlo Promis e Theodor Mommsen in relazione ad un’iscrizione cuneese,
dedicata al soldato Catavignus Ivomagi filius, rinvenuta nel 1869. Il volume ad essa dedicato dallo studioso torinese esemplifica lo sforzo di alcuni intellettuali sabaudi della seconda
metà del XIX secolo di rinnovare le metodologie di indagine alla luce delle sollecitazioni di
scuola tedesca, all’occasione del progetto culturale che porta alla nascita del CIL.
The Promis archive, now conserved in the Biblioteca Reale di Torino, contains some letters
written by Theodor Mommsen and Carlo Promis about the discovery of an inscription from
Cuneo ( found in 1869), which is dedicated to the soldier Catavignus Ivomagi filius. Promis’
study shows the great effort, made by some 19th century scholars in Turin, to renovate methods
and perspectives of epigraphic knowledge, thanks to the input coming from German academy
during the C.I.L. project.
Gian Luca Gregori, Ancora sull’iscrizione dell’atestino Marco Billieno, veterano di Azio
(CIL, V 2501 = ILS 2243)
Viene riconsiderata l’iscrizione di M. Billienus, veterano di Azio che fu dedotto nella
colonia di Ateste, dove divenne decurio adlectus; in particolare alla riga 8, mutila, in luogo della tradizionale lettura [- - -]MO ERVG[- - -], si propone di leggere [ho]mo frug[i],
espressione frequente nell’epigrafia funeraria a partire proprio dall’età tardorepubblicana.
Review of the inscription of M. Billienus, a veteran of Actium who was sent to the colony
of Ateste, where he became decurio adlectus; in particular, in line 8, fragmentary, instead of
the traditional reading [- - -]MO ERVG[- - -], I propose to read [ho]mo frug[i], a frequent
expression in the funerary epigraphy starting from the late republican age.
Giuseppe Lepore, La colonia di Sena Gallica: un progetto abbandonato?
Il contributo presenta le novità derivanti dalle più recenti ricerche condotte a Senigallia. Grazie ad una Convenzione tra Università di Bologna, Soprintendenza per i Beni Ar-
XVII
abstracts
cheologici delle Marche e Comune di Senigallia è stato possibile effettuare nuove ricerche e
nuovi scavi archeologici. Il quadro che emerge è del tutto differente rispetto a quanto finora
noto in letteratura: la prima colonia maritima in Adriatico, infatti, sembra piuttosto aver la
forma e le dimensioni di una colonia Latina, sul modello di quanto avverrà, un ventennio
dopo, nella colonia di Ariminum. È probabile che Roma adotti, nella sua ‘politica adriatica’,
una nuova forma di città.
The paper presents some new data resulting from the most recent research carried out in
Senigallia by the University of Bologna. Thanks to a special agreement with the Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche and the Municipality of Senigallia, new research and
archaeological digs are in progress. The results obtained reveal a frame completely different compared to the previous knowledge. In fact, the first colonia maritima on the Adriatic Sea seems
to reveal shape and size of a colonia Latina, recalling the same situation which, 20 years later,
characterizes the colonia of Ariminum. The new gained knowledge allows us to hypothesize
that Rome adopted a new city’s model in its ‘Adriatic policy’.
Stefano Magnani, Aquileia e l’entroterra venetico e retico: alcune considerazioni
Le fonti antiche evidenziano la funzione emporica di Aquileia in epoca repubblicana nei confronti delle regioni transalpine, prestando invece scarsa attenzione ai rapporti
con l’entroterra venetico e retico, che la documentazione archeologica e quella epigrafica
mostrano ben consolidati e organizzati. Alcuni elementi consentono di ipotizzare che tra
questi rientrassero le attività economiche connesse al fenomeno della transumanza tra gli
altipiani prealpini e la fascia rivierasca altoadriatica.
The ancient sources emphasise the commercial role of Aquileia towards Transalpine regions
in Republican times, paying instead little attention to the relationships with the Venetic and
Rhaetic hinterland which archaeological and epigraphic evidence shows well established and
organised. Some elements allow to advance the hypothesis that also economic activities connected to the transhumance between pre-Alpine highlands and Upper Adriatic coastal strip
were included among these relations.
Fulvia Mainardis, Realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica nel territorio di
Iulium Carnicum (Zuglio, UD)
Il contributo delinea la diffusione della scrittura epigrafica nel territorio di Iulium Carnicum (odierna Zuglio, Udine) partendo dall’epoca preromana con particolare attenzione
ai fenomeni di coesistenza di sistemi scrittori differenti e di alfabetizzazione spontanea nel
XVIII
abstracts
quadro prima dei rapporti con le vicine culture protostoriche poi con il principale centro
romano della regione, Aquileia, e infine con il capoluogo amministrativo del territorio.
The contribution outlines the spread of epigraphy in the territory of Iulium Carnicum (today Zuglio, Udine) starting pre-Roman times, with particular attention to the phenomena
of coexistence of different writing systems and spontaneous literacy in the framework of the
relations with the neighboring pre-Roman cultures, then with the main Roman center of the
region, Aquileia, and finally with the administrative capital of the territory.
Arnaldo Marcone, Forme di ‘scrittura quotidiana’ a Roma e nel mondo romano tra la
fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale
In questo contributo si è cercato di verificare la possibilità che nel mondo antico, anche
in contesti per i quali si può presupporre che poche fossero le persone davvero capaci di
leggere e scrivere, il ricorso alla scrittura fosse comunque presupposto e generalizzato. Gli
esempi addotti suggeriscono che lo sviluppo delle relazioni economiche nel mondo romano (a partire dal III secolo a.C.) abbiano determinato le condizioni per un fenomeno di
questo genere. Altamente significativo delle peculiarità della società romana appare il caso
dello schiavo ‘letterato’, che ha la possibilità di aver parte negli affari del padrone.
In this paper we tried to explore the possibility that in the ancient world, where many people are supposed not to be able to read or write, the use of written languages was not something
restricted to a small, high-status group. The examples here discussed suggest that in Rome, with
the development of economic relations ( from the third century B.C.), a wide range of people
could participate in the use of writing in some fashion. A good example is the ‘literate slave’ who
stands a chance of taking part in the owner’s business.
Silvia M. Marengo, Appunti per la ‘riscoperta’ di CIL, IX 5311
Storia, edizione e proposta di ricostruzione dell’epigrafe CIL, IX 5311 da Cupra Maritima risalente alla metà del I sec. a.C.; il documento commemora la costruzione (aedificandam) di un edificio pubblico.
History, edition and hypothetical reconstruction of the inscription CIL, IX 5311 from Cupra Maritima dated to the middle of the first century B.C.; the document commemorates the
construction (aedificandam) of a public building.
XIX
abstracts
Franca Maselli Scotti, Riflessioni sul paesaggio aquileiese all’arrivo dei Romani
Spunti per questo contributo sono stati recentemente suscitati dall’interesse per il paesaggio di Aquileia a seguito di recenti indagini invasive e non, oltre che dal ripensare a
quanto è noto circa le vie d’acqua che creavano un circuito navigabile attorno alla città.
Ulteriori dati per conoscere il paesaggio aquileiese si possono dedurre sia dalla localizzazione in età romana di alcuni complessi monumentali, quali ad es. il foro, l’anfiteatro, sia
dai lavori di bonifica del territorio e dalla rete idroviaria che circondava Aquileia. Il Canale
Anfora, che presenta un andamento grossomodo est/ovest, si inseriva perfettamente nella
pianificazione territoriale. Il canale è una creazione in gran parte artificiale come emerge
nello scavo, di ridotte dimensioni, effettuato nel 2004-2005 vicino alle mura tarde. In questo tratto il canale sembra collocarsi tra la metà - seconda metà del I sec. d.C. e la fine del
III - inizi IV sec. in base ai materiali recuperati: servizi in terra sigillata orientale e africana,
anfore dall’Italia, dal Mediterraneo e dal Pontus Euxinus. I numerosi resti faunistici appartenenti a bovini, suini, ovini, caprovini e equini hanno consentito di ipotizzare un loro
stanziamento presso il canale. Queste presenze potrebbero avvalorare l’ubicazione a nord
della città del forum pequarium menzionato in un iscrizione di età repubblicana, dove si
cita la realizzazione di un collegamento fra il foro e la via Postumia (CIL, V 8313).
New data, derived from several disciplines, have enriched our knowledge on the paleoenvironments of Aquileia. Particular attention had the waterways around the town; the most
important is an artificial canal, Canale Anfora, which joins Aquileia with Marano lagoon.
Excavations were made in 2004-2005 near late fortifications; in this part the collected materials proved that the canal was excavated in the second half of I century A.D and covered at
the end of III - beginning IV A.D. Many bones of animals, cattle, swine, ovines, horses, proved
they stay near; this fact could prove that forum pequarium, mentioned in an inscription CIL,
V 8313, was near.
Attilio MastrocinQue, Marsia e la civitas Romana
Molte città italiche scelsero Marsia come simbolo della loro libertà. Anche municipi e
colonie nelle province usarono questo simbolo. La libertà si identificava con la cittadinanza
romana. Un brano di Isidoro di Siviglia mostra che il primo contesto storico di tale libertà
fu la guerra Marsica e le leggi che poi concessero la cittadinanza ai popoli italici. Pertanto
è confermata l’opinione di alcuni studiosi, secondo cui municipia e coloniae adottarono
Marsia come simbolo della loro cittadinanza romana, che si identificava con la libertà. Marsia era un personaggio della mitologia Lidia, il quale fu introdotto nelle leggende romane
anche perché era imparentato con i Troiani. Marsia, Antenore, Tirreno, Capi e altri eroi
XX
abstracts
anatolici furono molto apprezzati per la loro vicinanza con Enea e i Troiani. La leggenda
della prigionia di Marsia dipendeva dal mito anatolico del Sileno e Mida, un mito che in
qualche modo fu modificato per adattarsi al caso di Numa che catturò Fauno. Sono note
alcune variazioni sul mito di divinità profetiche o veggenti che furono legati, imprigionati e
costretti a pronunciare profezie. Su questa base mitologica la liberazione di Marsia fu usata
dalla mitologia italica come un simbolo politico del conseguimento di tutti i diritti della
cittadinanza romana.
Italic cities chose Marsyas as the symbol of their liberty. Also municipia and colonies in
the provinces used this symbol. This liberty was nothing but the Roman citizenship. A passage
by Isidorus of Seville shows that the first historical context of this liberty was the Marsic war
and the subsequent laws which bestowed the citizenship to Italic peoples. Therefore the opinion
expressed by several scholars is correct, namely that municipia and coloniae adopted Marsyas
as a symbol of their Roman citizenship, i.e. of their liberty. Marsyas was a character of Lydian
mythology, who was introduced into Roman legends also because he was kindred with Trojans.
Marsyas, Antenor, Tyrrhenus, Capys and other Anatolian heroes were highly appreciated for
their relations to Aeneas and Trojans. The legend of Marsyas’ captivity depended on the Anatolian myth of Silenus and Midas, a myth which was somehow modified in order to fit for the
case of Numa who captured Faunus. Several variations are known on the myth of prophetic
gods or seers who were bound, kept in prison and forced to tell prophecies. On this mythological background the liberation of Marsyas was used by Italic mythology as a political symbol of
obtaining all the rights of Roman citizenship.
Elvira Migliario, A proposito di penetrazione romana e controllo territoriale nel Piemonte
orientale: qualche considerazione
Dopo la completa sottomissione dei principali gruppi etnici della Cisalpina, gli Insubri
con le etnie minori a loro collegate (194 a.C.) e i Boii (190 a.C.), le forze romane furono
concentrate contro le popolazioni liguri dell’Appennino e della pianura padana occidentale, poche delle quali, fra cui i Laevi e i Libui, avevano già stretto rapporti con Roma (probabilmente tramite deditio, anziché con un foedus). Il controllo del territorio a sudovest
del Po, assicurato dalla via Postumia e dalla colonia di Dertona (forse dedotta in una data
anteriore al 123 a.C.), consentì la prima spedizione transpadana contro i Salassi (143 a.C.),
come pure la fondazione o la valorizzazione di altri centri, urbani o vicani, del quadrante
cispadano occidentale; fra questi, Bodincomagus mantenne e incrementò il proprio ruolo
di importante scalo fluviale.
XXI
abstracts
After completely defeating both the Insubres with their allied minor tribes (194 B.C.) and
the Boii (190 B.C.), the most important Celtic groups who occupied the Cisalpine region, the
Romans focused their efforts upon the Ligurian tribes of the Appennines and the western part of
the Po valley; with some of these (Laevi and Libui, probably) they had already concluded treaties (by deditio?). Having secured control of the territory to the south west of the Po through the
construction of the via Postumia and the deduction of the colony of Dertona (maybe before 123
B.C.), the Romans made their first expedition in the Transpadana region against the Salassi
(143 B.C.), then they established or increased other urban settlements in the southwestern
area; Bodincomagus developed its ancient role as a major river port on the Po.
Manuela Montagnari Kokelj, Note su Ludwig Karl Moser, Carlo Marchesetti e le
indagini di fine ‘800 - inizi ‘900 nelle grotte del Carso triestino
Nel 2008 fu organizzata a Trieste una Giornata Internazionale di Studi dedicata a L. K.
Moser, studioso di fine ‘800-inizi ‘900 che, con C. Marchesetti, contribuì significativamente alla nascita della ricerca paletnologica nelle regioni del Litorale austriaco. Gli interventi
raccolti nel volume degli Atti (2012) ne ricostruiscono per la prima volta in modo oggettivo vita e attività, portando dati importanti, usati qui per focalizzare l’attenzione sulle
indagini in grotta e sul confronto fra Moser e Marchesetti.
In 2008 an International Meeting was organized in Trieste to focus on L. K. Moser, a
researcher of the late XIXth-beginning of the XXth century who, as well as C. Marchesetti,
gave a significant contribution to the outset of the palethnological research in the regions of the
Austrian Littoral. The articles included in the Proceedings (2012) shed light, for the first time
with objectivity, on Moser’s life and activities, and contain important data, used here to start
analyzing his investigations in caves, in comparison with those carried out by Marchesetti.
Maria Pia Muzzioli, Il problema delle assegnazioni sillane nel Tuscolano
Nel Liber coloniarum I, 238.10-11 L. troviamo un riferimento ad assegnazioni nel Tuscolano mensura Syllana. Nonostante la discussa attendibilità della fonte, è possibile che
possa essere qui testimoniata una limitata distribuzione di terre, senza deduzione di una
colonia.
Alcuni dati topografici potrebbero indirizzare verso una localizzazione di questo intervento nel pendio, sotto quota 400 m, a nord di Tuscolo verso la via Labicana.
The Liber coloniarum I, 238.10-11 L. refers to allotments mensura Syllana in Tusculanus ager. In spite of the debated reliability of this source, we can hypothesize that there were
small distributions of land, without the foundation of a colony.
XXII
abstracts
Some topographical data could suggest that these lands could be located in the area northern
from Tusculum towards the via Labicana, under a 400 meters elevation.
David Nonnis, A proposito del ‘monumento dei Calpurnii’ a Cales: una nuova proposta
interpretativa
Il contributo riesamina un’iscrizione medio-repubblicana da Cales (III sec. a.C.). Il documento, in precedenza considerato di natura sepolcrale, commemorava forse un qualche
intervento curato da magistrati della colonia latina. Il loro numero (almeno quattro) fa in
particolare pensare, in analogia a quanto documentato in altre colonie latine, a un collegio
di quaestores.
This paper focuses on a latin inscription from Cales, that dates back to the third century
B.C. The text, previously considered to be sepulchral, perhaps refers to the quaestores ( four
individuals at least) of the latin colony.
Gianfranco Paci, La nascita della colonia romana di Urbisaglia
L’acquisizione di nuovi frammenti dei Fasti consolari di Urbs Salvia contenenti i nomi
dei magistrati locali offre la prova che la città è nata come colonia del II sec. a.C. e che la
sua fondazione, da collocarsi tra il 158 e il 104 a.C., va molto probabilmente ricondotta
all’età graccana.
The acquisition of new fragments of the Fasti consolari of Urbs Salvia containing the names
of the local magistrates offers proof that the city was founded as a colony during the 2nd century
BC. Its foundation, to be placed between the 158 and 104 B.C., is most likely assigned to the
age of the Gracchi.
Leandro Polverini, Alla scuola di Mommsen. Ettore Pais e la storia della colonizzazione
romana
Rassegna del contributo di Ettore Pais alla storia della colonizzazione romana in Italia.
A survey of Ettore Pais’ contribution to the history of Roman colonization in Italy.
XXIII
abstracts
Alicia Ruiz Gutiérrez, Aspectos económicos de la migración itálica a la Hispania
Citerior (siglos II-I a.C.)
Aunque difícil de cuantificar, la llegada de itálicos a la Península Ibérica comportó un
factor de cambio económico en los dos siglos anteriores al cambio de era. Las fuentes reflejan, junto a la colonización romana, otros fenómenos migratorios, de carácter temporal
o definitivo. La repercusión de las distintas formas de movilidad geográfica es analizada en
dos ámbitos importantes de la actividad económica de la Hispania Citerior: la minería en la
zona de Carthago Nova y la viticultura en el área del noreste peninsular.
In spite of its difficult quantification, the migration of Italic people to the Iberian Peninsula
represented a factor of economic change in the II and I centuries before our era. The sources
reflect, in addition to the Roman colonization, other migratory processes of temporary or final
nature. The consequences of the varied ways of geographic mobility are analyzed in two important facets of the economic activity in Hispania Citerior: the mining in the proximity of
Cartago Nova and the viticulture in the Iberian North-West.
Juan Santos Yanguas - Santiago Martínez Caballero, Modelos de urbanización
en época republicana en la Celtiberia de arévacos y pelendones
Se analiza el proceso de urbanización romana en la Celtiberia de arévacos y pelendones
entre el s. II a.C. y el fin de la República, proceso de reestructuración territorial con aplicación de modelos variables, aunque con planteamientos generales de reordenación, reurbanización y colonización. Se observa una jerarquización del territorio y la simplificación del
marco urbano. Se definen etapas sucesivas desde 133-132 a.C., derivadas de la conquista
militar y los procesos de interacción cultural.
This paper analyzes the urbanization process in Celtiberia of the Arevaci and Pelendones
between the second century BC and the end of the Republic. It was a territorial restructuring
process with the application of different models, although with general approaches of
realignement, reurbanization and colonization. A hierarchy in the territory organization
and the simplification of the urban setting can be observed. Successive stages are defined from
133-132 BC, resulting from the military conquest and the cultural interaction processes.
Marina Silvestrini, Quale questura nel municipio di Brindisi? A proposito di AEp 2006,
320-321
Nuova lettura dell’epigrafe brindisina AEp 2006, 320, alla luce delle difficoltà poste
dalla interpretazione del q(uaestor), ivi documentato, come magistrato municipale.
XXIV
abstracts
New reading of the inscription found at Brindisi, AEp 2006, 320, in light of the difficulties posed by the interpretation of q(uaestor), documented in the epigraph, as a municipal
magistrate.
Simone Sisani, Due nuove iscrizioni su instrumentum dal distretto plestino
Due inedite iscrizioni su instrumentum provenienti dal territorio plestino (Colfiorito
di Foligno, PG) offrono nuovi elementi a conferma della precocità del processo di romanizzazione nel vasto settore compreso tra Umbria appenninica, ager Gallicus e ager Picenus,
e consentono di riesaminare la dibattuta questione relativa all’attribuzione linguistica di
un cospicuo gruppo di graffiti su ceramica di III-II sec. a.C. di provenienza umbra, recentemente ascritti al corpus italico ma da considerare invece genuinamente latini.
Two unpublished inscriptions on instrumentum from the territory of Plestia (Colfiorito di
Foligno, PG) offer new elements to confirm the precocity of the process of Romanization in the
vast area between Appenninian Umbria, ager Gallicus and ager Picenus, allowing moreover
to review the controversial question relating to linguistic attribution of a large group of III-II
century BC graffiti on pottery from Umbria, recently ascribed to the Italic corpus but to consider instead genuinely Latin.
Alfredo Valvo, Il declino della Repubblica nel De Haruspicum responsis
I responsi degli aruspici ricordati da Cicerone, nel clima di fine saeculum fra il consolato
di Silla dell’88 e la fine della guerra perugina, che segnò anche la fine del nomen Etruscum,
trovano apparentemente una conferma nelle vicende che seguono immediatamente l’anno 56, ma sono smentiti dall’esito finale della ritrovata certezza del proprio destino che
i Romani avevano maturato nel periodo delle conquiste mediterranee e consolidato con
l’ideologia-teologia della vittoria: imperium sine fine dedi, rassicura Giove.
In the climate of the end of an era, from the age of Sulla until the Perusian battle (40
B.C.), which also marked the demise of nomen Etruscum, the haruspical responses in Cicero’s
De haruspicum responsis, seem to be confirmed by the events following the year 56. Yet, they
are denied by the new-found faith the Romans experienced in their own destiny during their
Mediterranean conquests and strengthened on the grounds of the victory ideology-teology as
Iuppiter asserts: imperium sine fine dedi.
XXV
abstracts
Claudio Zaccaria, T. Annius T. f. tri(um)vir e le prime fasi della colonia latina di
Aquileia. Bilancio storiografico e problemi aperti
Viene presentato un aggiornamento critico sulle principali questioni sollevate dall’elogium di T. Annius, uno dei commissari incaricati nel 169 a.C. di condurre un supplementum di coloni ad Aquileia (AEp 1996, 685). I temi discussi sono: identificazione del personaggio; tipologia del monumento e dell’iscrizione; datazione, committenza e collocazione
originaria della base; azioni del triumviro nella colonia; collocazione e funzione dell’aedes;
eventuale connessione del triumviro con la via Annia.
This paper provides a critical overview on the newest literature about the epigraphic elogium of T. Annius, one of the commissioners trusted in 169 B.C to lead new settlers to Aquileia
(AEp 1996, 685). The topics are: identification of the personality; typology of the monument
and the inscription; dating and occasion of the dedication, original location of the statue; actions of the triumvirate in the colony; location and function of the temple; possible connection
of the triumvir with the via Annia.
Giuseppe Zecchini, Pola e Cesare
Il presente contributo riesamina la politica di Cesare sul confine nordorientale d’Italia: la fondazione di Pola completa la fase difensiva di quella politica e prelude alla fase
offensiva, che fu poi compiuta da Ottaviano; il collegamento della nuova fondazione con
Ercole si inserisce nel parallelismo tra Ercole e Cesare stesso, di cui abbiamo testimonianza
soprattutto in Diodoro, ma anche in Virgilio. L’appartenenza di Pola alla Gallia Cisalpina
sotto Cesare prepara l’estensione dei confini d’Italia oltre Emona sotto Augusto.
This paper analyses Caesar’s politics toward the northeastern border of Italy; the foundation
of the Pola colony completes the defensive stage of his politics and paves the way to the offensive
stage, which was then performed by Octavian; the link between the new foundation and
Hercules is a new element of the parallelism between Hercules and Caesar, which we find
above all in Diodorus, but also in Vergil. Pola’s belonging to Cisalpine Gaul under Caesar is
ahead of the expansion of Italy’s borders beyond Emona under Augustus.
XXVI
NOTA DEL CURATORE
Il terzo volume degli Studi di Storia romana nella serie Polymnia. Collana di
Scienze dell’Antichità contiene gli scritti in onore di Gino Bandelli, già Professore
Ordinario di Storia romana presso l’Università degli Studi di Trieste. Colleghi ed
allievi hanno voluto omaggiare l’Amico e il Maestro in occasione del suo settantesimo compleanno.
Il volume si compone di trentacinque contributi di studiosi italiani e stranieri,
i cui temi si inseriscono per lo più nei principali filoni d’indagine del festeggiato:
la romanizzazione dell’Italia (e della Spagna); la colonizzazione romana; la storiografia moderna sul mondo antico; l’uso dell’Antico nelle ideologie e nella lotta politica dell’età moderna e contemporanea. L’ampiezza e la varietà degli argomenti
trattati, i diversi metodi d’indagine, e i differenti ambiti cronologici degli studi in
questione (protostoria, media-repubblica, prima età augustea) hanno consigliato
un’organizzazione della Festschrift secondo l’ordine alfabetico degli autori piuttosto che tematico.
Hoc quoque laboris praemium: questa raccolta vuole essere, come suggerisce la
citazione liviana (praef. 5), un riconoscimento grato a Gino Bandelli per la sua attività scientifica, vasta ed eccellente, della quale si fornisce in appendice un elenco
esaustivo per gli anni 1969-2013.
Desidero ringraziare Giovannella Cresci Marrone che ha voluto il volume negli
Studi di Storia romana e Lucio Cristante direttore della Collana Polymnia per il
costante supporto nelle fasi della sua realizzazione.
Esprimo inoltre un sentito e caloroso ringraziamento a tutti gli autori che hanno
condiviso l’iniziativa con studi su temi cari al festeggiato e hanno consegnato gli
scritti con puntualità, consentendone la pubblicazione nei tempi previsti.
Monica Chiabà
XXVII
MARCO BUONOCORE
Un nuovo praetor duovir da Telesia
Grazie alle puntuali e capillari indagini topografico/archeologiche di Debora Piscopo siamo messi nella possibilità di conoscere meglio il sito dell’attuale comune di Faicchio e suo territorio, in antico pertinente a Telesia1. Theodor Mommsen, che inserì in tale capitolo anche le iscrizioni di Puglianello,
Cerreto Sannita e Solopaca, non riuscì a recuperare nessun documento iscritto conservato in questo paese al centro della media Valle del Volturno, per gli
anni 1308-1310 attestato come “Castrum Faychi”, inserito dopo l’Unità d’Italia
nel territorio del Sannio Beneventano. La ricerca di Debora Piscopo è dunque
maggiormente meritevole perché ci consente di confrontarci anche con tre iscrizioni fino ad ora ignote che vanno ad incrementare il già consistente numero di
tituli dell’importante città romana2.
Tra queste meritevole è la prima che l’A. ha rintracciato murata nella facciata
di casa Orefice, via Corso Umberto n. 593. Si tratta di una lastra marmorea tagliata per il reimpiego su tutti i lati (cm 23 x 61) con lettere alte cm 13/12 e interpunti triangolari con vertice in alto, di cui viene offerta la lettura Q PR-II-V / A
STATIA. Una più attenta verifica credo possa migliorarla come segue (fig. 1)4:
Piscopo 2010, 41-90. Per un aggiornamento all’epigrafia di Telesia in epoca romana
rimando a Cavuoto 1975, 215-280 e Buonocore 2006, 169-184. Ora vd. i contributi di
Renda 2010a-b, 91-311; Ead. 2012, 129-211.
2
Un’altra iscrizione, proveniente da contrada Marafi ed ora conservata nel Convento di San
Pasquale a Faicchio, è segnalata da Renda 2010a, 124-125.
3
Piscopo 2010, 69 (Sito 20). Le altre due iscrizioni (Piscopo 2010, 71-72) si trovano
nella chiesa Ave Gratia Plena sita in località Casali (vd. anche infra alla n. 39).
4
Ringrazio Valentino Nassa per la foto gentilmente effettuata che qui si presenta. Vd. anche
Piscopo 2010, 71, fig. 39.
1
1
marco buonocore
-----[- - -]mo
. pr(aetori) II v[iro - - - ?]
[- - -]+a Statia u[xor
.
posuit ?].
Abbiamo – se ho ben interpretato – la testimonianza di un altro praetor
duovir/praetor II vir della città, della cui onomastica resta solo la parte terminale del cognomen. Dedicante sembra essere stata la moglie di cui rimangono la
parte finale del gentilizio [- - -]+a e il cognomen Statia5. – Come datazione non
scenderei oltre la prima metà del I sec. d.C.
Questa nuova attestazione incrementa il nostro dossier su tale magistratura.
Come aveva ipotizzato Mommsen6 e poi confermato Attilio Degrassi7, Telesia dovrebbe rientrare nelle deduzioni volute da Silla8. Il prezioso pionieristico
Altra integrazione, ma che mi sembra meno congruente, potrebbe essere u[xor
.
et sibi];
oppure, nel caso dovessimo vedere nel segno superstite una vera e propria ‘V’, ipotizzare integrazioni del tipo v[iva
.
sibi posuit] o anche v[iro
.
suo].
6
CIL, IX p. 205.
7
Ad esempio in CIL, I² p. 1031 ad tit. 1747.
8
Per i casi di Abellinum e Grumentum, portati sempre a confronto, la critica ormai non è più
certa di una loro deduzione sillana: per Abellinum vd. Camodeca 2008, 29-32; per Grumen5
2
un nuovo praetor dvovir da telesia
contributo del 1966 di Lorenzo Quilici9, dove si aggiorna la pianta della città
antica per cui ancora si dipendeva dai risultati di Angelo Michele Iannachino
d’inizio secolo XX10, ha messo ordine sulla planimetria e l’ubicazione dei resti
archeologici, sul suo sistema difensivo che l’A. assegna all’epoca sillana piuttosto
che a quella augustea, e sulle strutture murarie del teatro e dell’anfiteatro11. Ad
un periodo posteriore a quello sillano potrebbe riferirsi una serie di iscrizioni
(cinque in tutto) che attestano attività edilizie con relativo collaudo della cinta
muraria.
La prima di queste12, di cui nel 1991 ho potuto recuperare nel deposito
comunale di San Salvatore Telesino una porzione della parte destra, menziona
L. Mummius L.f. e C. Manlius C.f., appunto pr(aetores) duo vir(i), i quali pro
ludeis turris duas d(e) d(ecurionum) s(ententia) faciundas coerarunt13. Se altri
Mummii non sono attestati localmente, i Manlii perdurano massicciamente nei
primi due secoli dell’Impero14; in particolare ricordo C. Manlius Charito sevir
Augustalis e sacerdos Liberi di pieno I sec. d.C.15 e C. Manlius ((mulieris)) l. Eros
di II sec. d.C. inoltrato16.
Contemporaneo a questo intervento edilizio e indirizzato alla medesima
struttura è quello dei pr(aetores) duovir(i) L. Minucius T.f. Cato e L. Statorius
L.f. Balbus, come si legge nell’iscrizione da me nuovamente ispezionata nel 2013
nel piccolo antiquarium ricavato in un ambiente dell’Abbazia di San Salvatore Telesino: anch’essi turris quinq(ue) d(e) d(ecurionum) s(ententia) faciundas
coeraverunt17. Quest’ultimo documento ha consentito di portare a corretta
integrazione come segue un frammento già noto a Mommsen18: [L.] Minuci[us
tum vd. Buonopane 2006-07, 330-332. In generale per le colonie sillane non si prescinda da
Camodeca 1991, 25-31.
9
Quilici 1966, 85-106.
10
Iannachino 1900.
11
Sintesi ragionata e nuova documentazione con bibliografia aggiornata in Renda 2010b,
291-300.
12
CIL, IX 2235 = I² 1747 (cf. p. 1031) = ILS 5328 = ILLRP 675.
13
Così ora la pietra: L. Mummius L.f., C. Manlius C.f. / pr(aetores) duo vir(i) pro ludeis
tu rris
. duas / d(e) d(ecurionum) s(ententia) faciundas coer arunt.
.
14
CIL, IX 2251-2252, 2290-2292. Per CIL, IX 2217 vd. infra.
15
CIL, IX 2251.
16
CIL, IX 2292.
17
AEp 1975, 198 = CIL, I² 3200a.
18
CIL, IX 2233 (cf. p. 674).
3
marco buonocore
T.f. Cato, L. Statorius L.f.] / Balbus pr(aetores) d[uoviri turris quinque?] / d(e)
d(ecurionum) s(ententia) fa[ci]u[ndas coeraverunt] / idemque [probaverunt]19.
Con ogni probabilità si può supporre che gli stessi personaggi citati in entrambe
le iscrizioni siano intervenuti nell’esecuzione della medesima opera di fortificazione della cinta muraria, e che questo secondo documento ne volesse certificare
il collaudo. Per il gentilizio Minucius vd. nel prosieguo di questo lavoro. Statorius non ha altri confronti nell’onomastica locale.
Anche se non trasmesso dalla pietra ma sicuramente presente nella lacuna,
praetor duovir doveva essere stato quel M. Lollius M.f. Qua[- - -] che turreis duas
pro l[udeis - - -], come si legge dall’iscrizione ancora conservata nel giardino di
casa Pacelli20. Localmente si conosce nella prima età imperiale una Lollia M.f.
Quarta che per disposizione testamentaria concede alla colonia e alla popolazione una schola, una domus e gli horti da acquistarsi con il proprio denaro21:
probabilmente potrebbe essere la figlia (meglio che sorella) dell’evergeta appena
richiamato.
Un quinto documento, infine, ora presso l’Abbazia di San Salvatore Telesino, recita: [- - -] C.f., L. Orfius [- f.] / [pr(aetores) duoviri q]uinque turres. /
22
[d(e) d(ecurionum) s(ententia) faciundas coer]arunt idemque p r[obarunt]
.
. Da
ricordare la base iscritta, conservata ora nel museo di Piedimonte Matese, posta
dal padre al proprio figlio: M. Orfio M.f. / M.n. Rufo / III vir(o) a(uro) a(rgento)
a(ere) / f(lando) f(eriundo) pater23. Il giovane telesino triumvir monetalis di
famiglia senatoria della prima metà del I sec. d.C., potrebbe essere stato - come
già supposto da Claude Nicolet24 - figlio o piuttosto nipote del cesariano tribunus militum (nativo di Atella) del 54 a.C. ricordato da Cicerone25.
Mi pare ragionevole supporre, sia per l’identità testuale sia per l’omogeneità
della tecnica scrittoria sia per la tettonica, che queste cinque iscrizioni possano
Ora CIL, I² 3200b.
CIL, IX 2230 (cf. p. 674) = I² 3200. Cf. anche ILLRP ad nr. 675.
21
CIL, IX 2231 = ILS 5917: Lollia M.f. Quarta ex testamento / scholam domum et horti (!)
qui emerentur / de sua pecunia coloniae populoque Telesino / dedit. Di questa iscrizione mi sono
occupato in Buonocore 2005, 531.
22
AEp 1975, 199 = CIL, I² 3200c.
23
CIL, IX 2215.
24
Nicolet 1966-74, 966-967.
25
PIR² O 146. Da ultime con bibl. vd. Andermahr 1998, 369 n. 380 e Deniaux 2000,
230.
19
20
4
un nuovo praetor dvovir da telesia
essere datate ad un periodo precedente all’epoca augustea, non all’epoca sillana,
forse proprio nell’ambito degli interventi agrari promossi dal secondo triumvirato all’indomani della vittoria di Azio piuttosto che dopo Filippi, quando per
la deduzione della nuova colonia (come trasmesso dal Liber coloniarum I, 238,
3: Telesia, muro ducta colonia, a triumviris deducta) furono necessari rinforzi,
ristrutturazioni e restauri delle mura26. A questo stesso periodo viene genericamente assegnata la parte destra di una lastra in calcare ancora murata all’esterno
della chiesa di S. Maria delle Grazie a San Salvatore Telesino: P. Manlio P.f.
Stel(latina) / legionis XXX27. Piuttosto che pensare, come Mommsen, che «hunc
fuisse ex militibus deductis Beneventum, unde fortasse recte colligemus eam
deductionem ad Telesini quoque territorii partem pervenisse»28, riterrei, condividendo il pensiero di Ettore Pais29, che il nostro P. Manlius era stato un colono
dell’ager Beneventanus30 (la tribù infatti è quella in cui erano scritti di regola
questi cives) in seguito migrato a Telesia31. Da ricordare, infine, che in piena età
augustea la colonia era denominata colonia Herculanea Telesia come chiarifica
il cippo (ora a Napoli) della proprietà privata di P. Cornelius Scipio Orestinus32.
Questi magistrati continuano ad essere attestati dall’età augustea fino alla
metà almeno del II sec. d.C.; la loro titolatura di praetor duovir, certificata –
come vedremo – per tutto il perdurare della seconda metà del I sec. d.C., comincia in seguito ad oscillare tra le forme praetor duovir e praetor II vir per poi fissarsi nella seconda forma con il prosieguo degli anni. Ma alla fine del II sec. d.C.
si conosce lo splendidus eques Romanus M. Aemilius Urbanus, che fu patronus
coloniae nonché II vir33: ormai quel praetor ‘aveva fatto la storia’ e nella colonia di Telesia, evidentemente rafforzata da qualche intervento imperiale34, per la
Aggiornamenti bibliografici e ulteriore discussione ora in Renda 2010a, 101-105; Ead.
2010b, 292-294, 306-311.
27
CIL, IX 2217.
28
CIL, IX 2217 app.
29
Pais 1918, 121-122.
30
Si ricordi anche CIL, IX 2217 app.
31
Vd. tra gli altri Keppie 1983, 217 n. 53.
32
CIL, IX 2219 (cf. p. 674) = ILS 5987. Su questa iscrizione e sul personaggio vd. ora G.
Alföldy, apud CIL, VI 41050 con bibliografia.
33
CIL, IX 2232.
34
Di cui un’eco potrebbe essere la dedica posta dalla colonia Herculanea Telesia all’imperatore Commodo tra la primavera del 197 d. C. e il mese di aprile dell’anno successivo (AEp
1975, 201).
26
5
marco buonocore
definizione della magistratura ci si volle allineare alla terminologia più usuale35.
Sarebbe pertanto un unicum l’attestazione di duo vir trasmessa da una iscrizione,
dispersa, che così recita (dobbiamo attenerci all’autoscopia di Mommsen): [-]
Visellius L.f. / Fal(erna) Flaccus / Beneventan(us) / heic sepultus e[st], / duo vir
Tele[s(iae)] vel Tele[s(ia)]36 / [p]r(aetor)37 Benev[enti]38. Innanzitutto si osservi
che il personaggio era originario di Beneventum, ma quando si trasferì a Telesia
dovette mutare la tribù originaria in quella dei cives Telesini (la Falerna)39 per
domicilii translationem40. Purtroppo non è possibile stabilire se manchi qualcosa
all’inizio della r. 5. A mio parere sulla sinistra la pietra non doveva essere integra
come si evince anche dalla scheda a stampa presentata da Mommsen; tanto è
vero che Beloch pensava che prima di duo vir si sarebbe dovuto trovare inciso pr(aetor)41. Non saprei quale sia il margine di attendibilità della suggestione
dell’illustre storico, anche perché Attilio Degrassi riteneva che non ci fosse alcuna differenza nell’indicare questa specifica titolatura telesina praetor duovir o
semplicemente duovir42. Questo confermerebbe ancora una volta come sia difficile e per altri versi pericoloso tentare di ‘schematizzare’ la variegata e complessa
terminologia delle magistrature romane delle colonie e dei municipi43.
Vd. anche CIL, IX 2243.
Cf. CIL, IX 2250.
37
Praetor a Beneventum anche in CIL, IX 1635 = I² 1729 (cf. p. 1030) = ILS 6492.
38
CIL, IX 2240 (cf. p. 674) = I² 1748 (cf. p. 1032) = ILLRP 676. Ora anche Lassère
2007, 313, nr. 185.
39
Per un quadro aggiornato dei tribules di Telesia vd. Buonocore 2010, 38-39. Una nuova
iscrizione in cui è presente la tribù Fal(erna) è pubblicata in Piscopo 2010, 71. La lettura
offerta dall’A. è la seguente («L’iscrizione latina, su dieci righi con lettere di diversa altezza, è
fortemente danneggiata e risulta poco comprensibile»): - - - inia (?) / -- vix ann xv (?) / -s
vi die iiii / - vs montanvs - - - - - / s - - - q vivos fecit / - - - - ria-vm - - - - - / - d - - - /
--- anevm formalia / - nnis / - - - - - - - ndvs qvie-/. Dalla foto mi pare si possano in questo
modo restituire almeno le prime cinque righe: [- - -]rio C.fil. Fal(erna) / [- - -] q(ui) vix(it)
ann(is) XVI / [men]s(ibus) V di<e>b(us) IIII / [- - -]us Montanus filio / [- - -] sibiq(ue) vivos
fecit. I restanti versi sembrano potersi identificare come carmen epigraphicum.
40
Per cui vd., oltre Forni 2006, 71-85, anche Galli 1974, 133-148 e Di Matteo 1997,
111-117.
41
Beloch 1926, 495-496.
42
Apud ILLRP 606 (p. 91): «nihil autem interesse vi de tur inter praetores, duoviros et
praetores duoviros»; apud CIL, I² 1690 (p. 1021): «nihil autem interesse p uto inter praetores,
duoviros et praetores duoviros» (spaziatura mia). Vd. Degrassi 1971, 74.
43
Per cui rimando sempre a Laffi 2007, passim.
35
36
6
un nuovo praetor dvovir da telesia
All’età augustea potrebbe essere assegnata (anche se alla prima età imperiale
non sarebbe disdicevole pensare) la seguente iscrizione nota fin dai tempi di
Giocondo44 ma non rintracciata45, che tuttavia presenta ancora alcuni interrogativi di trasmissione testuale: Q. Fillius L.f. Rufus, Q. Agrius Q.f. Celer, /
pr(aetores) II vir(i), lanarias et quae in iis sunt sua / peq(unia) fec(erunt) ut ex
eo vectigale quot annis coloni mulsum et crustum natale Caesaris Augusti daretur.
L’iscrizione, che vanta copiosa letteratura46, dimostra come il vectigal rappresentasse una delle principali forme di entrata per le casse della città (nello specifico
la tassa per l’utilizzo di lanariae pubbliche), non disgiunto da un atto di evergetismo47. Se di Agrius non conosciamo altre testimonianze, il gentilizio Fillius
risulta ben documentato nel corso del II sec. d.C.: ai Caii Fillii appartengono
C. Fil[l]ius Valentinianus, che ricoprì la carica di aedilis48, e C. Fillius Felix che
insieme alla moglie Ulpia Felicitas pose il cippo sepolcrale (ora nel museo di
Piedimonte Matese) al figlio C. Fillius C.f. Fal(erna) Felix iunior49.
Alla prima metà del I sec. d.C., se non all’epoca augustea, si possono collocare due tituli. Il primo, di cui ho potuto controllare nel 1991 e nel 2013 la
parte sinistra ancora murata nel giardino di casa Pacelli a San Salvatore Telesino,
trasmette questo testo50: Q. Bumbrius A.f. / pr(aetor) duovir51; // Caesia P.f.; //
L. Bumbrius A.f. / pr(aetor) duovir52; // ex testamento Q. Bumbri A.f. arbitratu
Barnae libert(i). La tipologia delle lettere potrebbe effettivamente orientare la
datazione ad un’età augustea avanzata, con cui sarebbe congruente il formulario
ex testamento ... arbitratu53. Assai raro il gentilizio Bumbrius che trovo attestato,
ad esempio, nella vicina Allifae54. Il secondo titulus, che Mommsen poté visioAl corposo apparato indicato da Mommsen si aggiunga la testimonianza veicolata dal
codice della prima metà del sec. XVI Vat. Lat. 14325 f. 12r, su cui da ultimo vd. Buonocore
2004, 192-195.
45
CIL, IX 2226 = ILS 5595.
46
Vd. ad esempio Laum, II, 175 n. 37a; Möller 1962, 153-154; Andreau 1974, 69-70.
47
Vd. anche le considerazioni di Nonnis - Ricci 1999, 55, 57.
48
CIL, IX 2221. Vd. anche infra.
49
CIL, IX 2283.
50
CIL, IX 2222.
51
Non dvo · vir come in CIL.
52
dvo · vir in CIL, ma forse da emendare come proposto sulla base della indicazione per
Q. Bumbrius A.f.
53
Gentili - Vergantini 1991, 280-281, e Solin - Caruso 2008-09, 92-93.
54
CIL, IX 2422.
44
7
marco buonocore
nare nel suo primo «iter epigraphicum Telesinum» ma non in quello del 1877,
recita55: Q. Fadius T.f. / pr(aetor) duovir. Se localmente questo gentilizio non
risulta altrimenti testimoniato, nella vicina Allifae si conoscono numerosi Fadii,
ma solo a partire dal II sec. d.C., tra cui l’eques Romanus L. Fadius L.f. Caedianus
e il duovir L. Fadius Pierus56.
Alla prima metà del I sec. d.C. sono da inquadrare altri tre documenti. Oltre
alla nostra iscrizione (- - - - - - / [- - -] mo
. pr(aetori) II v[iro - - - ? / - - -]+a Statia
u[xor
.
posuit ?]), ricordo quella «corrupta» in cui Mommsen ravvisò l’onomastica di un [-] Annius L.f. Rufus pr(aetor) du[ov]ir57, e quella ancora conservata
nel giardino di casa Pacelli a San Salvatore Telesino (da me controllata nel 1991
e nel 2013) che trasmette l’onomastica di un Herennius58: C. Her<e>nnius /
Strabonis f. Fal(erna) / pr(aetor) II vir Rufus frater59. Caii Herennii continuano a
essere presenti tra la fine del I e il II sec. d.C.60; maggiore notorietà ebbero in età
imperiale i Quinti Herennii61, tra i quali emerge il senatore Q. Herennius Silvius
Maximus62 d’età severiana63. Ricordo infine – siamo all’inizio del I sec. d.C. – P.
Herennius L.f. Fal(erna) Marullus aed(ilis)64, e M. Herennius M.f.
. Proculus65.
In piena età giulio claudia sembra potersi datare la seguente grossa lastra
sepolcrale (murata nelle strutture esterne del giardino di casa Pacelli): C. Minucius C.f. Fal(erna) Thermus pr(aetor) II vir / bis, aquae curator, q(uaestor) II,
quinq(uennalis) sibi et / C. Minucio Q.f. Fal(erna) patri, / Pontiae P.f. matrì, /
Decimiae Maxsimae uxori, / Minuciae Vìcanae lìb(ertae)66. Si tratta dell’unica
CIL, IX 2225 (cf. p. 674).
Sui Fadii allifani vd. le puntuali osservazioni di Camodeca 2008, 9, 82-83.
57
CIL, IX 2220 (cf. p. 674).
58
Per la diffusione di tale gentilizio in area sannitica d’età romana vd. Simonelli 1995,
152-153.
59
CIL, IX 2227 (cf. p. 674).
60
CIL, IX 2236, 2290. Si cf. anche CIL, IX 6082, 40 nonché Cavuoto 1975, 251-253
n. 14.
61
CIL, IX 2213 = ILS 1164.
62
PIR² H 131. Altra letteratura e discussione in Andermahr 1998, 292-293 n. 252.
63
CIL, IX 2213 = ILS 1164, CIL, IX 2245, 2286.
64
L’iscrizione si trova murata nel primo pilastro di destra della crociera della abbazia di San
Salvatore Telesino, dove l’ho schedata nel mese di settembre 2013. Ne tratterò in altra sede.
Una buona fotografia è in Cielo 1995, fig. 28.
65
AEp 1997, 421. Cf. anche AEp 1995, 303.
66
CIL, IX 2234 = ILS 6510.
55
56
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un nuovo praetor dvovir da telesia
iscrizione fino ad ora nota in cui è attestata l’iterazione della carica di praetor
duovir. Il personaggio, che costruì il sepolcro per la propria famiglia (padre,
madre, moglie e liberta), ricoprì le più importanti tappe del cursus locale, che
oltre alla carica di quaestor (due volte) e quella che lo vide impegnato nelle
operazioni di aggiornamento e di revisione di tutti i documenti ufficiali della
città, registri di cittadini e di membri del senato locale, catasti e censimenti
(quinquennalis), prevedeva anche quella del delicato controllo della rete idrica cittadina (curator aquae)67. Costui68 (Minucii Thermi sono attestati anche
a Sora69) potrebbe essere stato padre o meglio ex latere cognatus di Minucius
Thermus, equestri loco, damnatus nel 32 d.C.70 a causa delle frequentazioni, per
quanto modeste, avute con Seiano71.
Genericamente alla fine del I sec. d.C. si datano altri due documenti. Il primo,
una lastra sepolcrale sempre conservata murata nel giardino di casa Pacelli, ricorda un personaggio ascritto alla tribù Pomptina: M. Vespicius C.f. Pom(ptina) /
Rufus pr(aetor) duovir de / sua peq(unia) fecit72. Costui non sembra essere stato
nativo di Telesia ma oriundo da altra città come lascia intendere la presenza della
tribù Pomptina, a fronte della Falerna in cui – come detto – erano prevalentemente ascritti i cives Telesini. Il secondo, rivenuto «in loco q.d. bosco di S. Stefano inter vicos Solopaca et Paupisi», venne da Mommsen assegnato al capitolo
di «Vitolano»73: C. Acellius C. et L.l. Strenuus / Augustalis, mercator suarius, /
sibi et Calpurniae Sp.f. Phyllidi uxorì, / C. Acellius C.f. Fal(erna) Vementi fìlio /
aed(ili), pr(aetori) II vir(o), q(uaestori), praef(ecto) fab(rum). / Homo es, resiste et
tumulum contempla meum ! / Iuvenis tetendi ut haberem quod uterer; / iniuriam
feci nulli, officia feci pluribus, / bene vivier opera; hoc est veniundum tibi. L’interessante documento, completato da due distici finali, ricorda C. Acellius Vemens,
il quale certamente aveva svolto il cursus municipale a Telesia come chiaramente
espresso dalle cariche ricordate sulla pietra in ordine ascendente. Una Acellia
Colonica sembrerebbe potersi recuperare in un documento forse di II sec. d.C.,
Sulle cariche ricoperte vd. anche Petraccia Lucernoni 1988, 148 n. 212; Tarpin
2002, 334, nr. IV. 1. 1.
68
PIR² M 630.
69
Vd. Solin 2001, 419.
70
Tac. ann. VI 7, 2; 4.
71
Vd. anche Corbier 1984, 255, 258-259, 261; Ead. 1989, 181-182.
72
CIL, IX 2239 (cf. p. 674).
73
CIL, IX 2128 = CLE 83.
67
9
marco buonocore
ma non più visibile, in cui è attestato il figlio di nome [-] Naevius Faventinus74.
L’ultima attestazione epigrafica di questa carica è trasmessa da un documento, noto dalla sola tradizione, così restituito da Mommsen: D(is) M(anibus)
s(acrum). / Sex. Auleno Sex.f. / Valentîno pr(aetori) I[I v]i[ro], / C. Fil[l]io
^ igen^ia / coniugi et filio75. Giova ricordaValenti/niano aedil(i), / Naevia Prim
re che localmente un Sex. Aulenus Carmosynus (pro Charmosynus) pose nel II
sec. d.C. la dedica a Restituta76 sua alumna. Ma questi Sexti Auleni sono ben
conosciuti anche a Venafrum: Sex. Aulenus Sex.l. Fuscus, che si qualifica faber, e
Aulena Sex.l. Lais risultano titolari di un’area funeraria di piedi 12 x 1777; Sex.
Aulenus Sex. [l.] Eros, A[u]l[e]na [G]lapir[a] (pro Glaphyra) e Sex. Aulenus
[P]roculus sono proprietari di un’area sepolcrale di piedi 12 x 1278; infine Sex.
Aulenus Sex.l. Pilades (pro Pylades) sepolto con la moglie, un’Alfia ((mulieris))
l. Arbuscul[a], e la figlia Aulena Sex.l. Pyllis (pro Phyllis)79. Queste tre iscrizioni
venafrane si datano genericamente tra la fine del I sec. d.C. e la prima metà del
successivo. Ma trovo il gentilizio anche su una iscrizione praticamente inedita di II sec. d.C. da Saepinum: si tratta di un titulus sacer che ricorda L(ucius)
.
A[u]
.
l.e. n. u. s. M+++++[∙∙∙],
.
il quale signum cum aedem (!) ma[rmo]/ribus exculta
munic i[pib(us)]
.
/ Saepinatibus / d(onum) d(at)80.
Possiamo quindi presentare questo prospetto onomastico dei praetores duoviri telesini, seguendo un registro cronologico:
1). - C. Manlius C.f. [CIL, IX 2235 = I² 1747 (cf. p. 1031) = ILS 5328 =
ILLRP 675; metà I sec. a.C.];
2). - [L.] Minuci[us T.f. Cato] [CIL, IX 2233 (cf. p. 674) = I² 3200b] = L.
Minucius T.f. Cato [AEp 1975, 198 = CIL, I² 3200a; metà I sec. a.C.];
3). - L. Mummius L.f. [CIL, IX 2235 = I² 1747 (cf. p. 1031) = ILS 5328 =
ILLRP 675; metà I sec. a.C.];
4). - [L. Statorius L.f.] Balbus [CIL, IX 2233 (cf. p. 674) = I² 3200b] = L.
CIL, IX 2270 (cf. p. 674).
CIL, IX 2221. L’edile in qualche modo era collegato al Q. Fillius L.f. Rufus di CIL, IX
2226 = ILS 5595 ?
76
CIL, IX 2300.
77
CIL, X 4916 = Capini 1999, 100, nr. 93.
78
CIL, X 4926 = Capini 1999, 107, nr. 105.
79
CIL, X 4927 = Capini 1999, 107, nr. 106.
80
Vd. ora Buonocore 2013, 20-22.
74
75
10
un nuovo praetor dvovir da telesia
Statorius L.f. Balbus [AEp 1975, 198 = CIL, I² 3200a; metà I sec. a.C.];
5). - M. Lollius M.f. Qua[- - -] [CIL, IX 2230 (cf. p. 674) = I² 3200; metà I
sec. a.C.];
6). - L. Orfius [L. ? f.] [AEp 1975, 199 = CIL, I² 3200c; metà I sec. a.C.];
7). - [- - -] C.f. [AEp 1975, 199 = CIL, I² 3200c; metà I sec. a.C.];
8). - [-] Visellius L.f. Fal(erna) Flaccus [CIL, IX 2240 (cf. p. 674) = I2 1748
(cf. p. 1032) = ILLRP 676; seconda metà I sec. a.C.];
9). - Q. Agrius Q.f. Celer [CIL, IX 2226 = ILS 5595; età augustea/prima
metà I sec. d.C.];
10). - Q. Fillius L.f. Rufus [CIL, IX 2226 = ILS 5595; età augustea/prima
metà I sec. d.C.];
11). - L. Bumbrius A.f. [CIL, IX 2222; età augustea/prima metà I sec. d.C.];
12). - Q. Bumbrius A.f. [CIL, IX 2222; età augustea/prima metà I sec. d.C.];
13). - Q. Fadius T.f. [CIL, IX 2225 (cf. p. 674); età augustea/prima metà I
sec. d.C.];
14). - [- - -]mus [Nostro; prima metà I sec. d.C.];
15). - [-] Annius L.f. Rufus [CIL, IX 2220 (cf. p. 674); prima metà I sec.
d.C.];
16). - C. Her<e>nnius Strabonis f. Fal(erna) [CIL, IX 2227 (cf. p. 674);
prima metà I sec. d.C.];
17). - C. Minucius C.f. Fal(erna) Thermus [CIL, IX 2234 = ILS 6510; età
giulio claudia];
18). - M. Vespicius C.f. Pom(ptina) Rufus [CIL, IX 2239 (cf. p. 674); fine I
sec. d.C.];
19). - C. Acellius C.f. Fal(erna) Vemens [CIL, IX 2128 = CLE 83; I sec. d.C.];
20). - Sex. Aulenus Sex.f. Valentinus [CIL, IX 2221; metà II sec. d.C.].
Alcuni di questi personaggi, per la loro onomastica (Acellius, Agrius, Annius,
Aulenus, Bumbrius, Fadius, Fillius, Herennius, Lollius, Manlius, Minucius,
Mummius, Orfius, Statorius, Vespicius, Visellius81) tradiscono indubbiamente
‘marcature’ italico-sannitiche82, anche se a me pare che, per Telesia, l’incidenza
avuta dalle gentes indigene nel processo di romanizzazione, specie intorno alla
81
Alcuni di questi gentilizi sono assai rari. Per Vespicius vd. ad esempio Salomies 2010,
202.
Rimando all’importante recente contributo di Salomies 2012, 137-185. Consiglio
sempre di consultare anche Schulten 1902, 167-193, 440-465; Id. 1903, 235-267.
82
11
marco buonocore
metà del I sec. a.C., sia stata di poca entità: non sono in grado di affermare,
come di contro avviene per altre realtà municipali, se talune gloriose famiglie di
questo settore osco-sabellico abbiamo acquisito un alto livello socio-economico83. Quantunque si conosca la figura di quel Ponzio Telesino84, generale della
coalizione mariana durante il bellum civile e fatto uccidere da Silla nell’eccidio
del Campo Marzio, la sua origine di Telesia è fortemente sospetta85. Non trovo
alcun riscontro, insomma, che anche dopo la completa romanizzazione queste
famiglie, ove il γένος di appartenenza è chiaramente definito, continuino ad
operare – nel solco di un’eredità delle tradizioni familiari – ricoprendo posti di
prestigio negli ambiti municipali di loro competenza e intraprendendo, addirittura, carriere senatorie od equestri, fatta eccezione per M. Orfius Rufus. La
nuova ‘classe dirigente’ telesina a partire dalla metà del I sec. a.C. sembra provenire direttamente da gentes pienamente romanizzate e che il passato della sua
storia locale sia stato solo occasionalmente e del tutto in modo fortuito conservato nella memoria.
Vd. quanto scrivo in Buonocore 2009, 63-75.
Vell. II 16, 1; 4 (vd. con bibl. G. Firpo, in Buonocore - Firpo 1991, 111, 125, 155-156,
375; Buonocore - Firpo 1998, 135, 388).
85
Vd. sempre Mommsen apud CIL, IX p. 205: «Bello sociali cum Samnites omnes exceptis
Aeserninis utpote colonis iuris Latini a Romanis defecerint, Telesinos quoque in eo numero
fuisse probabile est; Pontius autem Telesinus notissimus dux Samnitium (cf. App. BC I 90;
Vell. II 27) num ex hoc ipso oppido oriundum fuerit, non extra dubium est, cum ex cognomine
origo non certe efficiatur».
83
84
12
un nuovo praetor dvovir da telesia
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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13
marco buonocore
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17
ALFREDO BUONOPANE
Due ghiande missili col nome del fabbricante
nel Museo Archeologico al Teatro Romano di Verona
I proiettili plumbei (μολυβδῖδες, μολυβδαίναι, glandes) impiegati dai frombolieri inquadrati negli eserciti antichi possono rappresentare, soprattutto se iscritti, una fonte di notevole valore documentario per la storia militare1. Purtroppo
sono reperti particolarmente ambiti dai collezionisti2, fenomeno questo che
ha dato vita, soprattutto nell’Ottocento, a una vivace attività di falsificazione3,
talora così raffinata da trarre in inganno esperti studiosi4 e da innescare, di conseguenza, furiose polemiche, come quella che vide protagonisti Ernest Desjardins,
Theodor Bergk, Theodor Mommsen e Karl Zangemeister5. Tale circostanza ha
Oltre all’introduzione di Zangemeister 1885, VII-XVII, ancor valida sotto molti
aspetti, si vedano Völling 1990, 24-58; Benedetti 2012a, 31-38 (in particolare 35-36); Id.
2012c, 375 (ivi bibliografia precedente); cf. anche Buonopane 2009, 265-266.
2
Come dimostra la presenza di ghiande missili, per lo più falsi grossolani, su alcuni siti
(a esempio www.gilliscoin.com/special_offer/group/sling_shot.htm oppure www.ebay.com/
sch/i.html?_kw=Roman+SLING+SHOT); cf. Benedetti 2012a, 37.
3
Karl Zangemeister nel suo studio sulle glandes plumbae dedica più di cinquanta pagine alle
spuriae (Zangemeister 1885, 88-142, nrr. 1*-97*).
4
Basti citare il celeberrimo caso dei falsi confezionati ad Ascoli Piceno dal fabbro Giovanni
Vincenzini, che con una tecnica semplice ma efficace, servendosi di due matrici in legno durissimo con lettere incise all’interno, imprimeva nuove iscrizioni, ricopiate fedelmente o con variazioni estemporanee da qualche silloge, come quella di Gaetano De Minicis (De Minicis 1844
[1852], 187-256; cf. Zangemeister 1885, 84, nr. 116: «Minicii errores secutus est falsarius
Asculanus»), su ghiande antiche ma anepigrafi, che erano poi vendute sia a privati collezionisti
sia a importanti istituzioni museali italiane e straniere (Zangemeister 1885, 94, 99-100;
Laffi 1981, 41- 57, 65-67; Benedetti 2012a, 36-38; Id. 2012b, 689).
5
Laffi 1981, 11- 71; Benedetti 2012a, 36-38.
1
19
alfredo buonopane
contribuito non poco a creare un alone di diffidenza intorno a questi materiali6,
specie quando provengono da raccolte di collezionisti o non se ne conosca con
precisione il contesto di rinvenimento, una diffidenza caduta solo da pochi anni,
quando gli studi sono ripresi con rinnovato vigore7. Proprio una recente pubblicazione, dedicata alle glandes Perusinae e curata con grande acribia da Lucio
Benedetti8, mi ha spinto a presentare a Gino Bandelli, come piccolo ἀντίδωρον
per tutto quello che ho appreso da lui nel campo dell’epigrafia repubblicana, lo
studio di due ghiande missili plumbee, attribuibili alla seconda metà del I secolo
a.C. e conservate presso il Museo Archeologico al Teatro Romano di Verona9.
1) Ghianda missile (fig. 1) in piombo (cm 2,1 x 4,2 x 2,1; codolo cm 0,7; peso
gr 69,3) di forma ovoide-biconica e a sezione circolare (tipo Völling IIb10), con
presenza del codolo con cui era unita ad altre ghiande all’interno delle due matrici di fusione11 e residui lasciati dalla giunzione delle valve ben visibili. Luogo di
rinvenimento sconosciuto; dalla collezione di Jacopo Muselli. Inv. nr. 34349.
La superficie, ricoperta da una compatta patina scura, presenta lungo uno dei
bordi una depressione, è interessata in alcuni punti da fenomeni di corrosione
e non presenta segni d’impatto. Lettere rilevate, abbastanza regolari, alte cm
0,5 in entrambe le righe, con spigoli arrotondati e apicature poco pronunciate.
Benedetti 2012a, 13, 37.
Come Cerchiai 1984, 191-211; Völling 1990, 24-58; Manganaro 2000, 125-134;
Díaz Ariño 2005, 219-236; Pina Polo - Zanier 2006, 29-50; Contreras - Müller Muntaner - Valle 2006-07, 97-163; Mainardis 2007, 869-876; Rihll 2009, 146-170;
Benedetti 2012a; Id. 2012b, 375-386; Id. 2012c, 689. Ai traumi provocati dalle glandes e
agli scrittori di medicina che si sono occupati del problema è dedicato l’interessante saggio di
Moog 2002, 123-137; cf. anche Benedetti 2012a, 33-34.
8
Benedetti 2012a.
9
Un ringraziamento, cordiale e non formale, debbo alla dott. Margherita Bolla, conservatore archeologico dei Musei Civici di Verona, che non solo mi ha affidato lo studio di questi
reperti, ma ha sempre facilitato in ogni modo la mia ricerca.
10
Völling 1990, 34-35, fig. 19.
11
Sulla tecnica di fabbricazione, che avveniva mediante colatura del piombo fuso all’interno di due matrici simmetriche, con numerosi incavi in modo da permettere la realizzazione di
più ghiande con una sola colata: Zangemeister 1885, X-XII; Benedetti 2012a, 34, tav.
2, figg.1-2. Di notevole interesse il recente rinvenimento di Populonia, dove, all’interno di un
edificio, si sono rinvenute 500 ghiande missili, alcune delle quali semilavorate e ancora saldate
fra loro tramite il codolo di fusione: Coccoluto 2006, 189-194, fig. 3.
6
7
20
due ghiande missili col nome del fabbricante
Un segno d’interpunzione a bastoncello12 in r. 1. Paleografia, onomastica e tipologia suggeriscono una collocazione cronologica nell’ambito della seconda metà
del I a.C.
Vi si legge
T(itus) Fabricius / fecit.
Muselli 1756, 17-18, tav. XXIII, 2.
Fig. 1. Verona, Museo Archeologico al Teatro Romano. Ghianda missile con l’iscrizione
T. Fabricius / fecit (inv. nr. 34349; su concessione dei Musei Civici di Verona).
2) Ghianda missile (fig. 2) in piombo (cm 2,1 x 4,1 x 2,1; peso gr 62,3) di
forma ovoide-biconica e a sezione circolare (tipo Völling IIb13), con i residui
lasciati dalla giunzione delle valve di fusione appena visibili. Luogo di rinvenimento sconosciuto; dalla collezione di Jacopo Muselli. Inv. nr. 34348. La superficie, ricoperta da una compatta patina scura, presenta in alcuni punti delle leggere depressioni e due segni d’impatto che interessano le ultime lettere della r. 1 e
le prime della r. 2. Lettere rilevate, abbastanza regolari, alte cm 0,6 in entrambe
le righe, con spigoli arrotondati e apicature poco pronunciate. Un segno d’interpunzione a bastoncello14 in r.1. Paleografia, onomastica e tipologia suggeriscono
una collocazione cronologica nell’ambito della seconda metà del I a.C.
Cf. Zucca 1994, 133-135, 148-149.
Cf. supra alla n. 10.
14
Ibid.
12
13
21
alfredo buonopane
Vi si legge
T(itus) Fabricius / fecit.
Inedita.
Fig. 2. Verona, Museo Archeologico al Teatro Romano. Ghianda missile con l’iscrizione
T. Fabricius / fecit (inv. nr. 34348; su concessione dei Musei Civici di Verona).
Ovviamente il primo problema da porsi nello studio di questo genere di
reperti è quello della loro genuinità, problema aggravato sia dal fatto che le glandes plumbeae, come accennavo poc’anzi, sono state oggetto di un’intensa attività
di falsificazione, sia, in questo caso, dalla circostanza che esistono ghiande missili recanti la medesima iscrizione di quelle che qui si presentano, riconosciute
spurie da Karl Zangemeister15, che le inserisce fra quelle realizzate da Giovanni
Vincenzini ricopiando letture errate o poco accurate di Gaetano De Miniciis
(«Minicii lectiones falsae vel minus accuratae a falsario Asculano repetitae»)16.
Si vedano i numerosi esempi riportati da Zangemeister 1885, 114-115, nr. 64* (86,
88, 89, 103, 325?, 418, 420, 421, 444d), 117, nr. 69* (7), 119, nr. 74* (103), 122, nr. 76* (15) e
77* (1); tutti questi esemplari compaiono colla medesima numerazione anche in CIL, IX 727*,
739*, 740*, 752*, 787*. Una di queste ghiande (69*, 7) è stata recentemente pubblicata come
falsa da Benedetti 2012c, 689.
16
Zangemeister 1885, 96; su Gaetano De Minicis, autore di un’ampia dissertazione
Sulle antiche ghiande missili e sulle loro iscrizioni (De Minicis 1844 [1852]) e su suo fratello
Raffaele, originari di Fermo e appassionati collezionisti di antichità, oltre a quanto scrive Theodor Mommsen in CIL, IX p. 509, nr. XIII, si veda Giagni 2000, 102-106.
15
22
due ghiande missili col nome del fabbricante
In primo luogo l’esame delle vicende collezionistiche di queste due ghiande missili porta a escludere con sicurezza che esse appartengano al novero dei
‘falsi Vincenziniani’; infatti, prima di entrare, negli ultimi mesi del 1867, nelle
raccolte dei Musei Civici di Verona17, esse facevano parte della collezione di
antichità del dotto antiquario e numismatico veronese Jacopo Muselli (16971768)18, un’importante raccolta, cominciata a partire dal 1740, il cui nucleo più
importante e più consistente era costituito dai reperti appartenuti a Francesco
Bianchini (1662-1729)19. Alla morte di quest’ultimo, infatti, la sua collezione
venne smembrata: una parte rimase a Roma mentre un’altra, pervenuta in lascito al nipote Giuseppe Bianchini, fu acquistata, su pressione di Scipione Maffei,
da Gianfrancesco Muselli, che la donò poco tempo dopo al nipote Jacopo20.
E in effetti fra i reperti posseduti da Francesco Bianchini figurava almeno una
ghianda iscritta, dato che nella sua Istoria universale egli scrive: «...un altro (scil.
piombo antico) simile nella forma, che da noi si conserva, ed è scritto con le
seguenti parole C. FABRICIUS FECIT»21. Non si può perciò escludere che
proprio questa ghianda sia passata nella collezione di Jacopo Muselli e sia stata
da lui pubblicata nelle Antiquitates reliquiae, un volume che godette di gran-
Marchini 1972, 125-127 e 233-237, ove si trascrive la «Distinta dei lotti del Museo
Muselli», che al nr. 318 registra «Un cassetto contenente 4 pezzi, 2 plumbei e 2 di bronzo»;
con ogni probabilità colla definizione di «plumbei» si indicano proprio le due ghiande missili
oggetto di questo studio. Per questo motivo Mommsen non ebbe modo di pubblicarle nella
sezione dedicata all’Instrumentum del V volume del Corpus, così com’è avvenuto per altri materiali della collezione Muselli (i signacula ex aere, a esempio: Buonopane 2012, 366-367), dato
che il suo ultimo soggiorno veronese durò dall’aprile al giugno del 1867 (Buonopane 2007,
264-267; La Monaca 2007, 314-317).
18
Sull’attività e la raccolta di Jacopo Muselli: Marchini 1972, 119-127, 233-237; Franzoni 1979, 632-633; Favaretto 2002, 260-262; Piccoli 2003, 131-180.
19
Dell’amplissima bibliografia relativa a Francesco Bianchini segnalo Rotta 1968,
187-194; Uglietti 1986; Chiarlo 1992, 167-186; Favaretto 2002, 259-260 e i saggi
raccolti in Kockel - Sölch 2005 e in Ciancio - Romagnani 2010.
20
Come afferma Jacopo Muselli stesso nelle pagine introduttive della sua opera: «Non
poche delle accennate cose furono raccolte già dall’eruditissimo, né mai bastantemente lodato
Monsignor Gio. Francesco Bianchini, e dopo la di lui morte presso di me passarono» (Muselli
1756, 3-4); si vedano inoltre Marchini 1972, 123; Franzoni 1979, 632; Favaretto 2002,
261; Piccoli 2003, 135-136, 148-149.
21
Bianchini 1749, 546: per il problema dell’errata lettura dell’epigrafe si vedano le pagine
seguenti. Su quest’opera sono di grande interesse le osservazioni di Pucci 2010, 259-270.
17
23
alfredo buonopane
de favore presso i contemporanei22, ma che Mommsen non sembra conoscere23,
comparendo in una delle pregevoli tavole che corredano l’opera (fig. 3)24.
Fig. 3. Una delle ghiande missili conservate presso
il Museo Archeologico al Teatro Romano di Verona (inv. nr. 34349) nell’opera di Jacopo Muselli
(Muselli 1756, 17-18, tav. XXIII, 2).
In secondo luogo, poi, anche l’esame dei caratteri esterni25 conferma la genuinità di questi pezzi: non solo la forma, le dimensioni e il peso e la tecnica di
fabbricazione sono coerenti con gli esemplari noti26, ma, soprattutto, il rilievo
delle lettere è a sezione arrotondata, i tratti curvi della B, della R e della C sono
uniformi, le apicature sono poco pronunciate. Si tratta dunque di lettere ottenu-
Piccoli 2003, 148-154, 156.
L’unico accenno all’attività di Jacopo Muselli è relativo al suo impegno come curatore del
Museo Lapidario Maffeiano (CIL, V p. 326).
24
Muselli 1756, 17-18, tav. XXIII, 2 (i disegni e le incisioni sono di Dioniso Valesi e
Domenico Cunego); non crea poi difficoltà il fatto che Muselli ne presenti una sola e non
entrambe, dato che egli non intendeva pubblicare il catalogo di tutta la collezione, ma solo una
selezione dei pezzi più belli e meglio conservati (Piccoli 2003, 152).
25
Di notevole utilità sono i criteri stabiliti da Zangemeister 1885, 94-99; cf. Laffi
1981, 65-70.
26
Per un’esemplificazione: Benedetti 2012b, 375-386.
22
23
24
due ghiande missili col nome del fabbricante
te per colatura entro una matrice precedentemente incisa e non di lettere realizzate mediante percussione, come accade, a esempio, per i ‘falsi Vincenziniani’;
a tal fine, è di grande utilità il confronto sia con la foto di una ghianda spuria,
recante anch’essa l’iscrizione T. Fabricius / fecit conservata presso il Museo
Nazionale Romano27, sia con la foto dell’unica genuina, conservata anch’essa
presso il Museo Nazionale Romano (fig. 4)28, che presenta lettere del tutto simili
a quelle dei due esemplari conservati a Verona. Anche i criteri interni sembrano avvalorare l’autenticità dei due reperti: la regolare proporzione fra altezza e
larghezza delle lettere, la forma di alcune di esse (a esempio la F e la E con bracci
e tratti intermedi di uguale lunghezza), la presenza del segno d’interpunzione
a bastoncello e, sotto l’aspetto onomastico, la mancanza del cognome sono del
tutto coerenti con la cronologia del tipo della ghianda missile (Völling IIb)29.
Fig. 4. Roma, Museo Nazionale Romano. Ghianda missile con l’iscrizione T. Fabricius / fecit
(inv. nr. 108929; su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
- Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma; è vietata l’ulteriore riproduzione e
duplicazione con qualsiasi mezzo).
Ritengo dunque che le due ghiande missili conservate presso il Museo Archeologico del Teatro Romano di Verona siano genuine30, fatto questo di notevoInv. 67330: Benedetti 2012c, 689.
Inv. 108929: Benedetti 2012b, 378 = EDR123445 (con foto). Per il confronto mi
sono servito della foto allegata alla scheda dell’EDR, perché nel catalogo del Museo Nazionale Romano, per errore di impaginazione, è stata inserita la riproduzione della ghianda falsa
(debbo la segnalazione alla cortesia di Lucio Benedetti).
29
Si veda supra alla n. 10.
30
È questo anche il parere di Lucio Benedetti (lettera del 16 dicembre 2013), al quale ho
27
28
25
alfredo buonopane
le importanza perché finora l’unico esemplare non contraffatto conosciuto era
quello oggi conservato presso il Museo Nazionale Romano31 e così edito in CIL,
I 711
Come si può vedere Mommsen, sulla base del disegno edito da De Minicis , poi ripreso senza alcuna modifica da Ritschl33 (fig. 5), corregge giustamente la lettura di Francesco Bianchini34. Stupisce quindi che Zangemeister
nel suo studio, peccando d’ipercriticismo e non fidandosi di De Minicis −
«...cum in textu taceat de hac glande... nec Bianchinii paginam usquam indicet, librum videtur vel non ipsum vel certe neclegenter adhibuisse» scrive infatti nel commento − , riproponga l’errata lettura C. Fabricius fecit35, arrivando
a sostenere, come dicevo in precedenza, che proprio il disegno di De Minicis
avrebbe ispirato alcuni falsi di Giovanni Vincenzini36. Ma non è tutto: se si
analizza attentamente questo disegno (fig. 5) e lo si confronta tanto con la foto
dell’esemplare conservato nel Museo Nazionale Romano (fig. 4) quanto con i
due esemplari veronesi (figg. 1-2), si nota agevolmente che la disposizione delle
righe è diversa (a esempio le prime due lettere della seconda riga si trovano sotto
la A, mentre nel disegno la seconda riga appare più spostata a destra). Si tratta
solo di un disegno realizzato poco accuratamente oppure vi è raffigurata un’al32
sottoposto le foto delle due ghiande missili. La sua esperta consulenza è stata per me di grande
aiuto e desidero perciò ringraziarlo in questa sede.
31
Inv. 108929: Benedetti 2012b, 378 = EDR123445.
32
De Minicis 1844 [1852], tav. II, nr. 73, che non fa alcuna menzione di questo reperto
nel corso della sua dissertazione.
33
Ritschl 1862, 13-14, tav. IX, nr. 60.
34
Bianchini 1749, 546: a parziale discolpa dell’erudito veronese va detto che la T ha l’asta
estroflessa, per cui non è difficile, in presenza d’incrostazioni o di corrosioni, confonderla con
una C.
35
Zangemeister 1885, 84, nr. 116.
36
Si veda supra alla n. 16.
26
due ghiande missili col nome del fabbricante
Fig. 5. Una ghianda missile con
l’iscrizione T. Fabricius / fecit nel disegno di Friederich Ritschl (Ritschl
1862, 13-14, tav. IX, nr. 60).
tra ghianda missile a noi non nota, genuina o falsa che sia, e che forse apparteneva alla raccolta di materiali archeologici di Gaetano De Minicis e di suo
fratello Raffaele37? Purtroppo la singolare, e per molte versi sospetta, reticenza
di De Minicis, così crudamente stigmatizzata da Zangemeister, non consente di
rispondere a questi interrogativi.
Al momento attuale, dunque, si conoscono solo tre ghiande missili genuine col nome del fabbricante (quella del Museo Nazionale Romano e le due del
Museo di Verona), alle quali si potrebbe forse aggiungere un esemplare conservato presso il Magyar Nemzeti Múzeum di Budapest38, pubblicato, purtroppo,
con una foto poco nitida, che non consente una sicura identificazione.
Anche se la località di rinvenimento non è nota − l’attribuzione a Perugia,
proposta da Völling e ripresa da Manganaro39 è del tutto arbitraria e non suffragata da alcuna documentazione − l’interesse di queste tre ghiande missili iscritte è notevole. Documentano, infatti, che questi proiettili non erano solamente
fabbricati dai soldati nell’imminenza di uno scontro40, ma che anche nel mondo
Su questi due appassionati collezionisti di antichità e sulla loro raccolta, formata attingendo sia al mercato antiquario (locale e romano) sia praticando scavi privati, come quelli condotti
a Falerio Picenus (Falereone, Fermo) e andata in gran parte dispersa (solo una minima parte è
confluita nelle raccolte del Museo Comunale di Fermo) oltre a CIL, IX p. 509, nr. XIII, si vedano Giagni 2000, 102-106; Cicala 2010, 220 e Stortoni 2013, 286-287.
38
Kocsis 1991, 69, nr. 22.
39
Völling 1990, 41, che pur citando CIL, I 711, riporta l’errata lettura di Zangemeister;
Manganaro 2000, 129.
40
Bell. Afr. 20, 3: ... glandes fundere.
37
27
alfredo buonopane
romano, come in quello greco41, esistevano produttori specializzati come il T.
Fabricius qui menzionato e non altrimenti noto, che su commissione rifornivano le truppe con ghiande missili fabbricate in serie, probabilmente rispondenti
in forma e peso a precise richieste dei committenti42, e che contrassegnavano col
loro nome alcuni esemplari dei vari lotti43, come garanzia della qualità e dell’adeguamento metrologico dei loro prodotti alle specifiche richieste44.
Ghiande missili coll’iscrizione Σωκράτης ἐπόηση e databili al III-II secolo sono state
rinvenute a Rodi, a Cipro e in Sicilia (Manganaro 2000, 129, ivi bibliografia precedente).
42
Si veda quanto scrive Benedetti 2012a, 44-45, a proposito delle ghiande missili con
iscrizioni di carattere propagandistico impiegate dai soldati di Ottaviano durante il bellum
Perusinum.
43
Questo potrebbe spiegare la rarità dei rinvenimenti rispetto al gran numero di esemplari
anepigrafi ritrovati.
44
Manacorda 1993, 51. Non è qui la sede per addentrarsi nella complessa questione
riguardante i vari aspetti della marchiatura su prodotti di vario genere in età romana, per cui mi
permetto di rinviare oltre che a Manacorda 1993, 37- 54, al recente approfondito lavoro di
Malfitana 2009-12, 201-212.
41
28
due ghiande missili col nome del fabbricante
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32
PAOLA CÀSSOLA GUIDA
Tra cielo e mare:
ancora qualche nota sull’iconografia del viaggio del sole
1. Una serie ben conosciuta di temi figurativi ricorrenti nella protostoria europea e mediterranea è costituita da cerchi concentrici, ruote raggiate, barche e carri,
uccelli acquatici e cavalli, connessi al viaggio, diurno e notturno, del sole. Si tratta
di immagini ispirate, com’è noto, ad antiche teorie cosmologiche che avevano
alla base il concetto di ciclicità, fondato sull’osservazione degli astri, e del tempo
che fa sempre ritorno. Cielo e tempo infinito sono il dominio della divinità.
L’età del bronzo europea, che sappiamo avara di figurazioni, sembra aver
mutuato dall’ambito miceneo in forme naturalistiche, il motivo più frequente, l’uccello acquatico, che i Micenei a loro volta avevano ricevuto dall’Oriente
mediterraneo1. Gli elementi iconografici riferiti al sole e al suo trasporto attraverso il cielo in barca o su carro, furono resi in forme plastiche o disegnative e
con diverse modalità espressive almeno a partire dal XVI sec. a.C., sia singolarmente – ruote, dischi, protomi di uccelli migratori ma anche capaci di nuotare,
protomi equine – sia composti in figurazioni complesse2. Spesso le immagini,
nella disposizione ininterrotta consentita dalla struttura circolare di un supporRicordiamo che tra il mondo miceneo e quello siro-palestinese coppe e pissidi di materiale prezioso a forma di cigno volto all’indietro sono tutt’altro che rare (Matthäus 1981,
280-281, figg. 2-3). Un esemplare di piccole dimensioni d’avorio di ippopotamo giunse anche
in Italia, a Rocavecchia in Salento (vd. infra): Guglielmino 2005, 35-36, 40-41, figg. 1 e 3, 1;
Damiani 2010, 455, 457-460, fig. 94; Càssola Guida 2011, 439, tav. I, 1-2.
2
Tra gli oggetti compositi a tre dimensioni, il carro di bronzo e oro rinvenuto a Trundholm,
in Danimarca, e datato al XIV sec. a.C., è certamente il più noto e citato (vd. Peroni 1989,
309, e da ultimo Bettelli 2012, 188 e 190, figg. 2, 8): esso trasporta una grande ed elaborata
immagine del sole.
1
33
paola càssola guida
to piano come una lamina discoidale o dalla superficie continua di un corpo
solido come un vaso, riproducono l’andamento ciclico del viaggio, che non ha
né inizio né fine.
Il repertorio solare rimase in auge fino alla tarda protostoria, condizionato
dal variare dell’assetto sociale, dall’introduzione e dalla graduale prevalenza di
soggetti diversi, in genere legati a nuove strategie miranti all’acquisizione o al
mantenimento del potere. Motivi singoli e figurazioni complesse ci forniscono
dunque uno dei tanti fili conduttori che permettono di seguire lo sviluppo della
protostoria europea e italiana.
In questa sede intendo ricapitolare brevemente i termini della questione, che
è stata sottoposta in molte occasioni a studi approfonditi3, e accennare ad alcune
classi di manufatti che stimolano qualche spunto di riflessione.
Le immagini, dapprima piuttosto naturalistiche, diventano via via più schematiche e raggiungono il massimo della stilizzazione nei dischi di lamina d’oro
ad incisione o a sbalzo che tra Bronzo Medio e Tardo si diffusero largamente
in Europa raggiungendo l’Italia terramaricola e appenninica. Questi preziosi
oggetti, probabili arredi sacri dall’elevato significato simbolico se non addirittura simulacri della divinità4, furono certo appannaggio esclusivo delle élite, che
se ne servirono per riconoscersi e comunicare a distanza; né è escluso che in
un’epoca di rapporti tra il Mediterraneo e l’Europa settentrionale fino alle Isole
Britanniche essi abbiano rappresentato metaforicamente i lunghi viaggi alla
ricerca di nuove risorse.
Le sottilissime sfoglie auree, di diverse misure a partire da 3-4 cm di diametro, dovevano in genere essere prodotte a coppie e fissate sulle due facce di un
supporto ligneo5. I dischi d’oro sono di per sé delle evidenti immagini del sole
ma servono anche da supporto per raffigurazioni eseguite in uno stile peculiare.
Tra gli esemplari italiani, quello rinvenuto nella terramara modenese di Redù6 è
Per le più recenti riconsiderazioni vd. Càssola Guida 2011; Bettelli 2012; Càssola
Guida - Vitri 2013.
4
Vd. già Peroni 1989, 308.
5
L’ipotesi fu formulata da Peroni (1989, 309) ed ha ricevuto conferma dai recenti rinvenimenti di Rocavecchia: Maggiulli 2006, 129, fig. 5, e 2009, 318-319; Jung 2007, 234;
Càssola Guida 2011, 445.
6
Terramare 1997, 732-733, fig. 433 a-b; Càssola Guida 2011, 441, tav. I, 3. Dello stesso
tipo era forse la figurazione del disco, andato perduto, dalla terramara di Casinalbo, pure nel
Modenese: Terramare 1997, 734.
3
34
tra cielo e mare
Fig. 1. A. Disco di lamina d’oro da Redù; B. Disco da Gualdo Tadino; C. Disco da Rocavecchia; D. Lamina d’oro frammentata, da Delo (rielaborati da G. Merlatti).
ornato da una serie di cerchi concentrici che alludono verosimilmente alle posizioni del sole durante il suo percorso (fig. 1A). In altri casi cerchi e teste di uccelli
acquatici, in un inestricabile intreccio con l’imbarcazione che trasporta l’astro,
contornano una ruota a quattro raggi con borchiette nei quadranti: uno schema
complesso che si ritrova nei due dischi uguali del ripostiglio del Bronzo Recente
2 di Gualdo Tadino (Perugia) (fig. 1B) e in una coppia di esemplari rinvenuti a
35
paola càssola guida
Rocavecchia (Lecce)7 (fig. 1C), un emporio di primaria importanza che fin dal
Bronzo Medio intrattenne rapporti con l’opposta sponda dell’Adriatico e di qui
con l’Egeo ed il Mediterraneo orientale.
Rocavecchia in Salento è confrontabile per ampiezza di relazioni e fervida
attività produttiva con Frattesina (Rovigo) sul delta del Po, un centro almeno altrettanto rilevante, aperto ai contatti marittimi ma anche strettamente
connesso all’entroterra padano-veneto e alla cerchia terramaricola, della quale
fu erede. A Frattesina è stato trovato, in minuti frammenti, l’unico disco solare
dell’ambito nord-adriatico8.
Il patrimonio di simboli e figurazioni tramandato da questi oggetti compare
sporadicamente in Grecia, dove vari frammenti di lamine auree con figurazioni
solari furono rinvenute a Delo, sotto l’Artemision di età ellenistica, e a Cefalonia, in tombe a camera tardoelladiche9. Il confronto con i dischi d’oro italiani
(in particolare quelli di Gualdo Tadino e di Rocavecchia) è talora così puntuale
(fig. 1D) da far ritenere probabile che i soggetti o forse gli stessi manufatti siano
stati trasmessi dall’Italia al mondo greco.
Quando se ne conosca il contesto, le preziose lamine risultano pertinenti ad
aree destinate ad attività rituali o a depositi cultuali come il sopra citato ripostiglio umbro. La loro produzione sembra inquadrabile, sulla base di vari indizi,
nei decenni centrali del XII secolo, ossia tra l’inoltrato Bronzo Recente e l’inizio del Bronzo Finale (decenni corrispondenti, secondo la cronologia di Jung, al
Tardo Elladico IIIC da developed ad advanced): è questa la fase – l’ultima della
cosiddetta koinè metallurgica europea – in cui tra Italia ed Egeo si verificarono
la maggior frequenza di contatti e la più stretta condivisione di ideologie e di
pratiche rituali10.
Gualdo Tadino: Terramare 1997, 734, figg. 434-435; Càssola Guida 2011, 441-442,
tav. I, 5. Rocavecchia: Maggiulli 2006, 126 e 129, fig. 3; Ead. 2009, 329; Jung 2007, in
partic. 222-223; Càssola Guida 2011, 443, tav. I, 8. Da Roca provengono almeno cinque
dischi aurei.
8
Salzani 2003, 44-45; Càssola Guida 2011, 442, tav. I, 7. L’oggetto, recuperato fuori
contesto all’interno dell’abitato, sembra riferibile ad un’area cultuale la cui esistenza è indicata da vari ritrovamenti effettuati in superficie, come figurine fittili antropomorfe e zoomorfe,
ruote, carretti, ecc.: Càssola Guida 2013, 239 (con bibl.).
9
Jung 2007; Càssola Guida 2011, 445-446, tav. II, 10-14 (con bibl. a n. 38); Bettelli
2012, 191, fig. 2, 1-6.
10
Cf. Càssola Guida 2011, 446-449. Per una diversa datazione attribuita alle lamine e ai
dischi di Rocavecchia (ultima fase del Bronzo Finale) cf. Maggiulli 2006, 130-131 e 2009,
331; Jung 2007.
7
36
tra cielo e mare
I manufatti dovettero essere usati per qualche tempo in celebrazioni solenni e
poi, in momenti diversi, furono obliterati, interi o ridotti in frammenti: così ad
esempio a Rocavecchia finirono sepolti in una buca o dispersi al suolo, mentre
solo a Cefalonia il loro ciclo vitale si concluse in contesti funerari.
2. Tra la fine del XII e l’inizio dell’XI secolo – ossia, in termini di cronologia italiana, tra Bronzo Finale 1 e 2 – nella protostoria mediterranea si verifica,
com’è noto, una svolta epocale che era stata preannunciata da avvenimenti di
eccezionale portata quali la crisi e la fine dei palazzi micenei e, in Italia, l’abbandono delle terramare: episodi drammatici e gravidi di conseguenze, come
lo spostamento di vie di traffico fino ad allora intensamente frequentate. Dagli
sconvolgimenti di questa fase derivano un diverso ciclo culturale e un nuovo
ordine sociale ed economico di cui sono protagoniste nuove figure di navigatori e di mercanti-artigiani che sostituiscono gli agenti commerciali dei dinasti
micenei e orientali e sono ora in grado di esercitare liberamente e pienamente le
loro attività di scambio.
Le nuove élite fanno proprie, modificandole in modo radicale, le iconografie usate dai precedenti gruppi di potere. A partire da un momento non precisabile dell’inoltrato XII secolo e fino a parte del VII – ossia dal BF 2 ad una
fase avanzata dell’antica età del ferro – i motivi dell’iconografia solare vengono
applicati su un numero sempre più imponente di manufatti con una resa stilistica completamente nuova. Il rapporto con la sfera funeraria diventa pressoché
costante: non c’è dubbio che, fin dall’inizio del lungo periodo sopra indicato,
il tema del viaggio del sole su una barca trainata dagli uccelli acquatici, di cui
le classi dominanti continuano a fare un uso esclusivo, è diventato metafora
dell’ultimo viaggio e simbolo di rinascita11.
I temi solari e il loro nuovo linguaggio stilistico sono ancora una volta diffusi
in ambito europeo e in particolare nei due vastissimi ambiti culturali – quello
villanoviano e quello hallstattiano – destinati a dominare per secoli nella geografia storica del Mediterraneo centrale e di ampia parte dell’Europa alpina e tranA rinascita e salvazione alludono anche i gusci d’uovo che dall’VIII secolo o dagl’inizi
del VII cominciano ad essere deposti in tombe. Tra questi reperti, è particolarmente evocativo l’uovo di cigno trovato in una sepoltura di bambino dell’iniziale VII sec. a.C. a Lovara di
Villa Bartolomea, nelle Valli Grandi Veronesi: Salzani, in Salzani - Drusini - Malnati
2000, 139, fig. 4A. Sul simbolismo dell’uovo e le sue varie e complesse implicazioni cf. ibid.,
144-146.
11
37
paola càssola guida
salpina (fig. 2A-C). Tra questi territori un’importante attività di mediazione fu
svolta dal comprensorio di San Canziano / Škocjan, sul Carso sloveno a est di
Trieste, in una zona di confine che vide l’incontro e la convergenza di disparate aree produttive e culturali, dall’Europa centrale e dalle regioni danubianocarpatiche all’Italia tirrenica12.
Tra Bronzo Finale e antica età del ferro cambiano radicalmente anche i
supporti: l’immagine della barca solare e i motivi iconografici che vi accennano
più frequentemente come ruote e protomi ornitomorfe vengono applicati su
manufatti fittili – tra gli esempi più famosi il vaso a forma di uccello acquatico su
quattro ruote dalla tomba Lachini-Pelà di Este, datato in una fase, fine X-IX sec.
a.C., di profonda influenza villanoviana13 – ma soprattutto su bronzi di svariate categorie, sempre carichi di prestigio, dalle numerose armi, sia offensive che
difensive, agli utensili – coltelli, rasoi, finimenti equini –, agli ornamenti – fibule elaborate, pendagli –, ai recipienti di lamina di diverse fogge e dimensioni14.
Ancora una volta sono preferiti gli oggetti di forma idonea a rendere la ciclicità del viaggio del sole, quali coperchi, scudi, vasi in lamina, e in particolare quelli
destinati a custodire i resti mortali del defunto (i cinerari di lamina bronzea) ma
anche i manufatti ai quali è demandata la protezione del corpo del vivo (elementi dell’armatura difensiva, cinturoni). Anche le fibule si rivelano adatte ad essere
decorate con simboli solari, forse non solo perché destinate all’ornamento del
corpo ma anche per la sagoma che richiama talora un’imbarcazione. Ne ricordiamo alcune molto vistose e ricercate, riservate a personaggi eminenti, come ad
esempio le fibule ad arco crestato provviste di uccellini a tutto tondo, applicati
o pendenti (fig. 2D), fabbricate tra il IX e l’VIII sec. a.C. in una zona permeata
di cultura villanoviana quale fu quella tra Capua e Suessula in Campania settentrionale15. Ad una delle cerchie villanoviane sembra riconducibile anche una
Vd. in sintesi Càssola Guida - Vitri 2013, 108-109: si fa qui riferimento, in particolare, ad alcuni reperti dell’eccezionale complesso di bronzi della Grotta delle Mosche / Mušja
jama che sta per essere èdito da parte di un gruppo di studio italo-sloveno.
13
Bianchin Citton, in Este preromana 2002, 101, fig. 26.
14
Per un’ampia documentazione sui manufatti di lamina bronzea villanoviani vd. Iaia
2005. Per lo straordinario intensificarsi della produzione bronzistica nei primi secoli dall’antica
età del ferro Iaia 2005, 241 e passim.
15
Lo Schiavo 2010, nrr. 679-686. Dallo stesso ambito produttivo provengono altri esemplari con barca solare e uccelli databili all’VIII sec. inoltrato: vd., ad esempio, Lo Schiavo
2010, nrr. 6689-6692a-c.
12
38
tra cielo e mare
Fig. 2. Il motivo della “barca solare con cigni”: A. ad Hajdúböszörmény; B. a Veio; C. a San
Canzian del Carso / Škocjan; D. fibula da tomba di Suessula; E. fibula di ignota provenienza
(non in scala; rielaborati da G. Merlatti).
fibula di provenienza ignota eccezionalmente raffinata, con arco a tutto sesto
ornato da una teoria di uccelli acquatici (fig. 2E)16.
Torino, Museo delle Antichità: Gambari - Venturino Gambari 1997, 337 e 341
(scheda), fig. 1.
16
39
paola càssola guida
3. Gli eventi storici ben noti, lo spostamento di gruppi umani, il moltiplicarsi dei contatti, l’estendersi e il mescolarsi dei tratti culturali fanno degli ultimi
decenni dell’antica età del ferro – tra VIII e VII sec. – una fase di transizione
ricca di fermenti e di novità. Mentre Bologna vive fin d’ora una fase di fioritura eccezionale, che anticipa la complessità delle strutture pienamente urbane,
occorrerà attendere la seconda età del ferro, tra la fine del VII e il VI-V sec. a.C.,
perché si compia pienamente quel passo cruciale che corrisponde all’avvento
dell’assetto urbano, fenomeno che dal mondo medio-tirrenico si diffonde per
gradi in Italia settentrionale decretando il successo di alcuni centri e il declino
di altri.
L’urbanizzazione impone un nuovo stile di vita connotato in senso aristocratico, largamente ispirato a costumi greci e orientali quali il banchetto e il
consumo sociale della carne, il simposio con l’uso ritualizzato del bere, l’ideale atletico e i ludi funebri: sono ora questi alcuni dei più significativi tratti di
distinzione del mondo civilizzato. Proliferano gli elementi rituali e simbolici
e i modi di rappresentarli e l’elemento antropomorfo (essere umano o divinità) entra sempre più decisamente a far parte dell’iconografia, ma l’eredità del
passato non si cancella: le nuove élite non abbandonano i vecchi modelli ma se
ne appropriano e li assimilano, cosicché li rintracciamo come tratti apparentemente secondari in un quadro vario e articolato.
Di ciò troviamo numerosi esempi, databili tra il VI e l’inizio del IV secolo
a.C., in quel multiforme artigianato di oggetti in lamina bronzea denominato,
dalla manifestazione più considerevole, ‘arte delle situle’, ben nota produzione
di recipienti legati all’uso del bere vino, largamente diffusa tra l’area etruscopadana, il Veneto e le regioni alpino-orientali fino alla Slovenia e all’Istria17.
Nelle fasce in cui si dispone la decorazione, i motivi riferiti alla simbologia solare e al valore salvifico del viaggio del sole sono tutt’altro che rari, ma vengono
resi ora in modo poco appariscente, inseriti più o meno organicamente nelle
scene figurate di repertorio ispirate al nuovo ordine sociale e ai comportamenti
dei nuovi ceti aristocratici.
Tralascio i numerosi riempitivi e le fasce inferiori considerate ‘minori’, spesso
popolate di uccelli acquatici, e mi limito a citare alcuni esempi particolarmente
significativi. Sulla situla che corredava una ricca sepoltura di Magdalenska goraPreloge, nella Dolenjska, in una scena di pugilato, tra i due contendenti – là
Una sintesi sull’arte delle situle è stata recentemente delineata da Sassatelli (2013, con
bibl.). Per un quadro generale delle produzioni nordorientali: Càssola Guida - Vitri 2013.
17
40
tra cielo e mare
Fig. 3. Particolari di recipienti bronzei istoriati: A. da Magdalenska gora; B. di ignota provenienza, a Providence; C. della Certosa; D. da Vače; E. da Sanzeno; F. da S. Maurizio / Moritzing;
G. da Novo Mesto (non in scala; rielaborazione di G. Merlatti).
41
paola càssola guida
dove di solito è collocato il premio per il vincitore, come un elmo o un vaso –
compare un’immagine del sole18: è evidente che a colui che avrà la meglio nella
lotta è assicurato un posto nel consesso dei beati (fig. 3A). Nell’analoga scena
raffigurata sulla situla di provenienza incerta conservata a Providence (Rhode
Island) (fig. 3B) la ricompensa per il vincitore, un bacino su alto piede, poggia
su un sostegno formato da due cigni divergenti che ricorda una ‘barca solare’19.
Al tema dei lottatori corrisponde l’episodio principale della situla della
Certosa di Bologna, gremito di elementi allusivi e simbolici: qui due personaggi
di alto rango sono intenti ad una gara musicale stando seduti su una kline (prefigurazione di un letto funebre come quello della tomba principesca di Hochdorf
in Baden-Württenberg) che ha la fiancata decorata da uccelli acquatici e, per
sovrappiù, due piccole figure di pugili in piedi sulle spalliere20 (fig. 3C).
Un altro soggetto ricorrente che sottende la stessa metafora – la speranza in
una vita ultraterrena deriva dall’adesione al culto del sole – è quello del trasporto
funebre in cui il defunto è raffigurato come vivente su un carro la cui cassa corrisponde ad una ‘barca solare’ con le consuete protomi ornitomorfe. Incontriamo
questo motivo sulla situla di Vače, nella Bassa Carniola o Dolenjska, sulla cista
di Sanzeno in Trentino e sulla situla altoatesina di S. Maurizio / Moritzing (qui
la sagoma arrotondata del carro rende ancora più persuasivo il confronto con la
barca21) (fig. 3D-F). Infine, su una situla di Novo Mesto (Dolenjska)22 la fiancata
del carro cerimoniale ha una fascia decorata da uccelli acquatici (fig. 3G) come
quella della kline della situla della Certosa. Insomma carri funebri, klinai e letti23
– come quelli su cui si consumano le nozze con la dea, altra scena importante del
repertorio dell’arte delle situle24 – appaiono non di rado accomunati dai motivi
della simbologia solare.
Eibner 2009, tav. 2, 7-8, e tav. 42; Turk 2005, 29, fig. 37; 53-54, fig. 81 (qui, come in
vari altri casi, una fila di uccelli acquatici costituisce il fregio inferiore del recipiente).
19
Turk 2005, 37, fig. 55, 1.
20
Biel 1985, 99, fig. 59; Turk 2005, 37, fig. 56, 1.
21
Vače: Turk 2005, 35, fig. 52; Eibner 2009, tav. 4, 21. Sanzeno: Eibner 2009, tav. 4, 23.
S. Maurizio / Moritzing: Càssola Guida - Vitri 2013, 114, tav. 4, 4 (con bibl.).
22
Eibner 2009, tav. 4, 24.
23
Ricordiamo che anche nel letto funebre di Hochdorf la cornice dello schienale termina,
sia all’interno che all’esterno, con coppie di protomi di cigno affrontate: Biel 1985, 93-94, fig.
54, tavv. 25-27; Teržan 2011, 256-259, fig. 13 (con bibl.).
24
Càssola Guida - Vitri 2013, 114.
18
42
tra cielo e mare
4. Il vecchio patrimonio di forme che un tempo era stato appannaggio di
singole figure di capi in grado di vantare ascendenti illustri è ormai a disposizione di un ampio ceto sociale i cui componenti per essere salvi e aver diritto ad un
posto tra i beati devono aver ben meritato in vita nell’ambito della comunità.
Ciò vale sia per le compagini urbane sia per le piccole comunità periferiche:
anche in queste nella seconda età del ferro perdurano e si ravvisano chiaramente
l’attaccamento al culto del sole e la moda di fregiarsi di motivi astrali ispirati alle
iconografie tradizionali. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle regioni
dell’arco alpino, dall’Istria alla Slovenia orientale all’alto Isonzo, alla Carnia,
Fig. 4. A. Situla dal Bellunese; fermagli di cintura: B. da Santa Lucia di Tolmino / Most na Soči;
C. da Vače (non in scala; rielaborati da G. Merlatti).
43
paola càssola guida
fino alla media e alta valle del Piave e alle valli lombarde. In questa vasta fascia di
territorio, stimolata tra la fine del VII e il V-IV sec. a.C. dalle strette relazioni con
l’Etruria padana e col Veneto, si formò una sorta di koinè di cui si rintracciano
aspetti anche a nord dello spartiacque25: una ‘cultura comune’ ben documentata
dalla diffusione, favorita da percorsi trasversali, di una quantità di manufatti di
bronzo tra cui situle e fermagli di cintura che al significato simbolico uniscono
il valore di indicatori di ricchezza e di prestigio sociale.
L’uso come cinerari di situle troncoconiche provviste di un’unica fascia decorata, con borchie contornate da cerchi concentrici alternate a volatili (dischi
solari e uccelli acquatici), si riscontra nel Bellunese (fig. 4A), a S. Lucia di Tolmino / Most na Soči nell’alto Isonzo e a Magdalenska gora26. Il medesimo fregio di
gusto arcaico si ripete su fermagli di cintura rettangolari da tombe di S. Lucia di
Tolmino e di Vače (fig. 4B-C)27.
Nella stessa epoca e nello stesso ambito territoriale il favore che i motivi
iconografici legati al culto del sole continuano a riscuotere tra i ceti abbienti
è dimostrato da una categoria peculiare di pendagli di bronzo consistenti in
piccole ruote o parti di ruote variamente ornate di figurine simboliche. Portati in genere appesi a fibule, questi monili sono raggruppabili in alcune serie
omogenee e, quando se ne conserva il contesto, risultano pertinenti a sepolture
femminili. I più semplici, piccole ruote a 4 o 6 raggi con uccellini saldati lungo
il margine esterno (‘pendagli ad anatrella’), formano un gruppo sostanzialmente
uniforme i cui esemplari sono riconducibili alla cultura di Golasecca (fig. 5A-C)
anche quando individuati lontano dalla zona di produzione28. A questa o ad
altra serie della fascia alpina va ricondotto un minuscolo pendaglio a forma di
ruota a 6 raggi rinvenuto isolato e fuori contesto nella fascia perilagunare friulana, a Carlino-Fortin, un insediamento arginato sorto alla fine del VII sec. a.C.
L’argomento della cosiddetta ‘koinè alpina’, illustrato da Peroni oltre quaranta anni fa, è
stato ripreso da Alexia Nascimbene (2009, con bibl.), che analizzando i tipi e la loro distribuzione ha sottolineato la ‘selettività’ della diffusione dei diversi manufatti.
26
Socchèr presso Ponte delle Alpi (Belluno): Nascimbene 2009, 278-279, tav. IV. S. Lucia
di Tolmino / Most na Soči: Càssola Guida - Vitri 2013, 110 (vd. qui in particolare la n.
21). Magdalenska gora: Turk 2005, 53, fig. 80.
27
S. Lucia di Tolmino: Càssola Guida - Vitri 2013, n. 21. Vače: Turk 2005, 11, fig.
4 (lo studioso rileva che il restauro visibile sul gancio di Vače è indizio del valore attribuito
all’oggetto).
28
Il gruppo golasecchiano è stato illustrato recentemente, con numerosi confronti e ampia
bibliografia: vd. Rapi 2008.
25
44
tra cielo e mare
Fig. 5. Pendagli a ruota: A. Brescia, Museo; B. Brembate Sotto; C. Guado di Gugnano; D.
Carlino-Fortin; E. Bagnolo S. Vito; F. Caverzano-Limade; pendagli compositi: G. PaularoMisincinis, tomba 66; H. Paularo-Misincinis, tomba 18 (non in scala; rielaborati da G.
Merlatti).
presso la foce dello Zellina: l’oggetto, decorato a cerchielli impressi (‘occhi di
dado’), era in origine fornito di occhielli e di altri elementi applicati, come indica il margine a spuntoni, molto deteriorato (fig. 5D)29. Ad un tipo affine diffuso
Anche quest’esemplare va messo in rapporto con un’area funeraria: Vitri - Corazza
2003, 199, fig. 9, 4; Nascimbene 2009, 191.
29
45
paola càssola guida
in area padana (‘tipo Correggio’) sono ascrivibili esemplari come quello formato da una ruota a 7 raggi30 provvista di occhielli e sormontata da un cavallino,
rinvenuto nel nevralgico snodo commerciale fondato dagli Etruschi al Forcello di Bagnolo S. Vito (Mantova)31 (fig. 5E). Un altro esemplare, appartenuto
ad una cospicua tomba femminile di Caverzano-Limade nella media valle del
Piave, consiste in una ruota a 5 raggi, fornita di appiccagnolo e ornata da motivi
impressi ‘a occhi di dado’, da alcuni occhielli attorno alla metà inferiore e da due
figurine allungate, incomplete, saldate sul margine superiore, anch’esse verosimilmente interpretabili come cavallini32 (fig. 5F). Gli occhielli consentivano di
arricchire il monile con piccoli pendenti, singoli o compositi, dei quali tra VI
e V secolo esisteva una notevole varietà – triangoli con motivi impressi, manine, figure umane, protomi taurine e soprattutto uccellini di vario tipo33 –. Più
elaborati, di un decorativismo talora molto accentuato, sono i pendagli rinvenuti più ad oriente, dalla Carnia alla Slovenia. Un tipo peculiare, documentato
nella tomba 66 di Paularo34 datata fra inoltrato VI e inizi V secolo, è costituito
da una mezza ruota a 5 raggi fornita di anellini da cui pendevano figurine umane
stilizzate e completata superiormente da una protome taurina provvista di un
grosso anello di sospensione, che ricorda una sagoma antropomorfa35 (fig. 5G).
Ancora a Paularo, l’unica necropoli protostorica finora indagata nell’alto
Friuli, troviamo un esempio di un altro piccolo gruppo di pendagli compositi, una ‘barca solare’ terminante ai lati con protomi ornitomorfe sulla quale si
innestano due raggi di una ruota (fig. 5H), forse una indicazione abbreviata
del trasporto della divinità solare (la testolina dai tratti umani che regge l’appiccagnolo?); l’oggetto, adorno di ‘occhi di dado’ e completato in origine da
Non sembra da escludere l’ipotesi che il numero variabile dei raggi delle ruote sia indicativo di diversi ambiti produttivi e segnali differenze etniche.
31
L’oggetto, rinvenuto nell’area dell’abitato, ha un diametro di cm 4,8/5,5 e conserva integri tre dei cinque occhielli: Rapi 2005, 101-102, fig. 41, 2.
32
Nascimbene 2009, 187, tipo II.1, variante 3, 302, 304-305, tav. XIII, 3. Molto vicino all’esemplare bellunese è il pendaglio a ruota frammentario da Este-Morlungo, largo 5,1
cm, con occhielli e forse due cavallini (Nascimbene 2009, 189, fig. 55). Un esempio simile,
completo di pendenti e figurine accessorie, è quello sloveno di Libna: Teržan 2003, 70, fig. 6;
Nascimbene 2009, 188.
33
Nascimbene 2009, 192-214, tipi II.2-7.
34
Vitri - Corazza - Simeoni 2007, 699, figg. 3-4; Nascimbene 2009, 187 e 191, tipo II.1
variante 2. Cf. l’esemplare sloveno da Vinkov vhr, meglio conservato: Teržan 2003, 70, fig. 5.
35
Per le figurazioni ambigue, che si prestano a diverse letture, cf. Damiani 2006.
30
46
tra cielo e mare
serie diverse di piccoli pendenti, trova puntuali termini di confronto in ambito
sloveno36.
5. Nel territorio veneto-padano e alpino-orientale, cui si riferiscono le categorie di oggetti considerate nei due precedenti paragrafi, nel corso della tarda
protostoria e fino all’avvento dei Romani si moltiplicano i santuari e i depositi votivi di svariata entità compresi nelle cerchie urbane o sparsi sul territorio:
vediamo dunque accrescersi in progressione esponenziale il numero e la varietà di arredi di culto, ex voto, amuleti, ecc. I motivi solari, i cui modi espressivi
si sono via via rinnovati per il continuo adattamento alle trasformate esigenze
sociali e in seguito all’incontro di diversi gruppi etnici (in particolare i Celti
provenienti dall’area danubiana), confluiscono in più ampie forme di religiosità
legate ai fenomeni naturali37. Uccelli acquatici, cavalli e ruote, alberi della vita,
immagini di divinità della natura: l’iconografia solare si mescola e si confonde
con gli elementi figurativi che rispecchiano l’alternarsi delle stagioni e il flusso
continuo delle generazioni, cosicché a poco a poco si verifica un completo amalgama fra i motivi riferibili alla simbologia astrale e quelli che alludono al mondo
della natura e alle entità divine che ne detengono il controllo.
Tra i molti esempi che illustrano questo fenomeno vorrei accennare, per
concludere, ad alcuni dischi votivi di lamina bronzea di area veneta in cui
compare in un’ambientazione silvestre una figura femminile: verosimilmente
una ‘signora degli animali’ che impugna un oggetto, in genere una chiave con
la quale apre le porte alla primavera38. L’inusitata forma circolare dei supporVitri 2001, 29, fig. 8, 4 (con confronti e bibl.); Nascimbene 2009, 187-188, tipo II.1
variante 1.
37
Un esempio eccezionale di ambito hallstattiano è il complesso ‘carretto di Strettweg’ in
Stiria, che, secondo la lettura proposta recentemente da Biba Teržan (2011, 235-241, figg. 1-3),
sarebbe nello stesso tempo mezzo di trasporto del sole e carro cultuale di una dea che si qualifica
come ‘signora degli animali’.
38
Tra questi manufatti, i più famosi sono i quattro ‘dischi di Montebelluna’, rinvenuti nel
primo Novecento in una località ignota della media valle del Piave e inquadrati indicativamente, in base a differenze di stile e a dettagli antiquari, tra il IV-III sec. a.C. e l’età romana. Ai dischi
con la raffigurazione della dea nel corso degli anni se ne sono aggiunti alcuni altri variamente
decorati, di diverse provenienze, che vengono datati tra età repubblicana e protoimperiale ma
appartengono alla temperie culturale dell’ultima età del ferro. Sui dischi figurati, approfonditamente studiati in questi anni, cf. tra l’altro Gambacurta - Capuis 1998; Capuis 1999,
160-162, figg. 3/6, 4 e 5, e, da ultimo, il catalogo della recente mostra padovana sui Veneti
36
47
paola càssola guida
ti rimanda plausibilmente all’astro che rende possibile il risveglio della natura.
La perdurante vitalità del disco come simbolo o immagine del sole è indicata
dalla presenza, tutt’altro che rara nei santuari della tarda protostoria del Veneto,
di lamine circolari di varie misure non figurate ma provviste solo di file concentriche di bugnette o puntini sbalzati, motivi radiali ecc.39, il cui riferimento al
sole sembra l’unico possibile.
Nel mondo romano poi, senza soluzione di continuità, in un unico sistema di
credenze e in un complicato intreccio di culti e di riti, l’iconografia solare godrà
di un rinnovato consenso e troverà molteplici e diverse applicazioni. Ma questa
è un’altra storia.
antichi: Venetkens 2013, 298-299, nr. 6.16; 420-422, nrr. 12.2.1-5; 440-441, nr. 13.5.4 (con
ampia bibliografia).
39
In questa serie, numerosa e largamente diffusa, rientra un quinto disco da Montebelluna
(cf. Venetkens 2013, 420), che di solito non viene illustrato. Molti esemplari, di svariate dimensioni, sono stati rinvenuti in santuari di Este: cf. Este preromana 2002, 155-156, nrr. 26-30;
259, nrr. 6a-c; 293, nrr. 23a-h, 24; 320, nr. 21. Secondo un uso curioso, dal significato incerto,
talvolta grandi dischi con decorazione non figurata sono posti di profilo sul capo di una figura
femminile, forse anch’essa una dea: Este preromana 2002, 280, fig. 121; 292, nrr. 16-17.
48
tra cielo e mare
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51
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44), Ljubljana 2007, 695-706.
52
MIREILLE CÉBEILLAC-GERVASONI
Quaestor Ostiensis: une fonction ingrate?*
[...], tu illam cui, cum quaestores sortiuntur, etiam adclamari solet, Ostiensem, non tam gratiosam et inlustrem quam
negotiosam et molestam1.
Les propos de Cicéron mentionnés ci-dessus ont toujours intrigué les commentateurs et suscité des hypothèses controversées. Y a-t-il une possibilité de mieux
comprendre la réalité et la consistance de cette magistrature en élaborant une prosopographie de ces titulaires? Je souhaitais reprendre, à l’occasion de cet hommage
à mon ami de très longue date Gino Bandelli, une étude sur le questeur d’Ostie2.
* CNRS - UMR 8210 - ANHIMA.
En m’adressant les premières épreuves de ce texte, Monica Chiabà, que je remercie, m’a
signalé qu’elle venait de recevoir une contribution de Filippo Coarelli qui traitait aussi des
questeurs dont les noms sont gravés sur les rostres trouvés aux Egates. Par téléphone, Filippo
Coarelli et moi-même, nous sommes mutuellement réjouis que cette découverte extraordinaire
ait capté notre attention à l’occasion de cet hommage à notre ami commun, Gino Bandelli. Je
lui suis reconnaissante de m’avoir fait transmettre son article en épreuve.
Je renvoie à la magistrale contribution de F. Coarelli (vd. infra) pour l’historique de la
questure et une prosopographie de ces questeurs. L’autopsie des inscriptions gravées sur
les rostres, au musée d’Agrigente, lui a permis de déchiffrer le nom d’un autre questeur L.
QUINTIO L.F., non lu par les fouilleurs des restes d’épaves; il faut l’ajouter à la liste en tableau
des quaestores classici et des quaestores ostienses que j’ai proposée infra.
1
Cic. Mur. 8, 18 (pour la traduction cf. n. 17).
2
De très graves problèmes oculaires m’ont empêchée de mener à bien mon projet et j’ai dû
me contenter de reprendre avec des ajouts une étude publiée en 2002: Cébeillac-Gervasoni 2002, plus particulièrement 63-67. Je remercie Laurent Lamoine, enseignant-chercheur à
l’université Blaise-Pascal, pour la relecture et ses précieux commentaires et Julia Reveret, doctorante à l’université Blaise-Pascal pour son aide pour l’élaboration écrite de ces pages.
53
mireille cébeillac-gervasoni
Cette thématique qui souffre d’une carence de données a récemment été d’actualité en mai 2011 grâce à la mise au jour, lors de fouilles sous-marines de
Sebastiano Tusa, des rostres de navires romains3. Sebastiano Tusa était le consultant scientifique de ces campagnes qui ont permis de découvrir, outre les rostres,
divers objets et céramiques appartenant à des navires romains et carthaginois4.
Il s’agit probablement des bateaux coulés lors des combats navals entre Rome
et Carthage aux îles Égates, en 242-241 av. J.-C.5 (fig. 1). Trois rostres portaient
Fig. 1. Carte de J. Royal de localisation des navires romains et carthaginois dans la mer des Égates.
les noms des deux quaestores classici qui les avaient éprouvés6. Ces épaves et leurs
À l’ouest de la Sicile, au large des îles Égates, la campagne de recherches sous-marines
«Archeorete Egadi 2011» a été coordonnée par les techniciens de la Soprintendenza del Mare
della Regione Siciliana et dirigée par Eliana Mauro avec la collaboration de RPM Nautical
Foundation. Tusa - Royal 2012 et Tusa 2012 (synthèse qui ne fait pas référence aux inscriptions des questeurs).
4
J’exprime toute ma reconnaissance à Sebastiano Tusa pour sa généreuse autorisation d’utiliser pour cette publication les photos et cartes de l’article ci-dessus mentionné.
5
Voir Polyb. I 59, 1-8. La préparation des 200 navires à cinq rangs de rameurs fut réalisée par
C. Lutatius Catulus, consul en 242 av. J.-C. Voir aussi Diod. Sic. XXIV 11 et Liv. perioch. XIX.
6
Tusa - Royal 2012, 44. Les deux rostres identifiés Egadi 4 et 6 portent tous les deux
3
54
qvaestor ostiensis: une fonction ingrate?
rostres ont été datés par les fouilleurs de la première moitié du IIIe siècle av. J.-C.
Comme nous le verrons plus avant, il est sans doute possible de préciser grâce
à la questure une date moins approximative pour la fabrication de ces rostres et
donc des navires. Cette découverte a apporté un démenti évident aux théories
de Luigi Loreto qui niait l’existence d’une flotte romaine au début du IIIe siècle
av. J.-C. et en conséquence, l’existence d’un navarque à une date aussi précoce7.
Brève historiographie de la question
La fonction de questeur d’Ostie selon Lydus a été créée en 267 av. J.-C. avec
le titre de quaestor classicus c’est-à-dire navarque8, au moment où le nombre de
questeurs fut doublé, si on en croit Tite-Live9 confirmé par Tacite10.
Contrairement à ce que pensait Luigi Loreto11 qui en repoussait la création en
211-210 av. J.-C. et qui supposait que les questeurs d’Ostie furent dès l’origine
spécialisés dans les problèmes frumentaires. Il est quasi certain qu’à l’origine
il devait se préoccuper des soldes et des ravitaillements des troupes romaines
d’outre-mer. La découverte de rostres de navires romains lors de la campagne
de fouilles sous-marines près des îles Égates avec la collaboration scientifique de
Sebastiano Tusa, que nous avons déjà mentionnées, constitue la preuve indubitable que Rome opposa sa propre flotte à celle de Carthage lors de la Première
Guerre punique12. Sur les rostres sont mentionnés les noms de deux questeurs
navarques C. PAPERIVS TI.F. et M. POPVLICIVS. L.F. (fig. 2) ce qui pourrait surprendre alors que plus tard il n’y aura qu’un seul questeur d’Ostie. En
fait, il est probable que la dualité de cette fonction prenait la suite logique des
navarques duoviri de l’époque précédente. C’est sans doute postérieurement,
lorsque cette magistrature fut monopolisée par des problèmes frumentaires
une inscription avec les noms des deux magistrats: C(aios)•PAPERIO(s)•TI(berii)•F(ilios)•
/ M(arcos)•POPVLICIO(s)•L(ucii)•F(ilios)• / Q(uaestores)•P(robauere)•. L’inscription du
rostre Egadi 7 est incomplète (F•QVAISTOR•PROBAVET) mais informe malgré tout sur la
questure navale. On note qu’on ignore tout de la carrière ultérieure de ces deux questeurs; la
gens Populicia est totalement inconnue sous la République.
7
Loreto 1993.
8
Lyd. mag. I 27.
9
Liv. perioch. XV.
10
Tac. ann. XI 22, 4-5.
11
Voir supra n. 6.
12
Voir supra n. 3.
55
mireille cébeillac-gervasoni
Fig. 2. Rostres avec la mention des questeurs (Tusa - Royal 2012).
qu’un seul questeur fut élu pour remplir la fonction de quaestor Ostiensis. Bien
sûr on ne saurait s’étonner que le quaestor classicus fut dès cette époque basé à
Ostie puisque c’est de là que partaient les armées mais aussi la logistique pour
leur maintien loin de Rome. C’est aussi à Ostie que parvenaient les chargements
frumentaires et il devint indispensable d’en suivre le rythme exponentiel, à partir
de la seconde guerre punique, de l’augmentation de la population urbaine dont
il fallait assurer la subsistance. En 216, le roi Hiéron expédia 300.000 modii de
blé et 200.000 d’orge pour aider à couvrir les besoins alimentaires de Rome. Il
est normal que le sénat ait chargé le questeur en poste à Ostie de l’acheminement de ces vivres jusque dans l’Urbs. Cet événement a sûrement joué un rôle
important dans l’évolution de la mission des questeurs basés à Ostie.
Prosopographie
Une prosopographie des rares titulaires que nous connaissons illustre la
progressive spécificité frumentaire de ce poste au cours des décennies. La fouille
sous-marine de 2011 a mis au jour des documents exceptionnels qui permettent
de connaître par leurs noms des titulaires de la magistrature de quaestor clas-
56
qvaestor ostiensis: une fonction ingrate?
sicus; il s’agit probablement de questeurs parmi les premiers ayant occupé ce
poste après 267 av. J.-C. si l’on se réfère à la date de création indiquée par Lydus.
C. PAPERIVS TI.F. et M. POPVLICIVS. L.F. seraient donc quaestor classicus
entre 267 et 242 av. J.-C. avant la bataille des Égates. Outre ces deux navarques,
on peut citer Novius Ofalius13 du IIIe siècle ou du tout début du IIe siècle av. J.-C.
qui fit à Ostie une dédicace à Liber14. Après un long silence de la documentation,
grâce à un propos de Cicéron15 confirmé par Diodore16, on connaît un autre
questeur d’Ostie, en 104 av. J.-C., L. Appuleius Saturninus. Ce magistrat peu
chanceux, contemporain d’une crise frumentaire de Rome, fut vite accusé d’incapacité alors qu’il était chargé du transport du blé d’Ostie à Rome. Ne pouvant
répondre aux besoins, il fut limogé et remplacé par Marcus Aemilius Scaurus,
le prince du sénat, qui fut doté de pouvoirs bien supérieurs à ceux d’un simple
questeur, avec l’attribution par le sénat de la cura annonae.
C’est encore par un discours de Cicéron que l’on a connaissance d’un autre
questeur d’Ostie en 74 av. J.-C., Servius Sulpicius Rufus. Il est raillé par Cicéron
qui cherchait à l’humilier lors de son procès contre son client Murena. C’est
grâce aux propos de l’orateur qu’on apprend à quel point le tirage au sort de la
questure d’Ostie était redoutée par les jeunes nouveaux élus:
[...]et toi celui qu’on accueille d’ordinaire par des risées lorsque les questeurs le
tirent au sort, le ‘département’ d’Ostie, qui procure moins de crédit et de gloire
que de labeur et d’ennuis.17.
CIL, I2 2440 cf. pp. 844, 982; ILLRP 204; Imagines 98; Meiggs 19732, 347; Zevi 2002,
35; Cébeillac-Gervasoni - Caldelli - Zevi 2006, 85-86.
14
Selon Filippo Coarelli, il faut identifier le temple de Liber au temple de l’Ara Rotonda,
dans l’aire sacrée d’Hercule: Coarelli 1994.
15
Cic. har. resp. 20, 43: «Saturninus, auquel le Sénat retira pendant sa questure, vu la cherté
des vivres, la charge du ravitaillement pour la confier à M. Scaurus, en éprouva, nous le savons,
un tel ressentiment qu’il passa au parti du peuple» (trad. P. Wuilleumier et A.-M. Tupet, Paris,
Les Belles Lettres, 1966) et Cic. Sest. 17, 39: «Je n’avais pas affaire à Saturninus, qui, sachant
qu’on avait, par une mesure blessante, transféré de ses mains à lui, questeur d’Ostie, à M. Scaurus, premier personnage du sénat et de la ville, l’intendance des céréales, poursuivait avec acharnement la satisfaction de son ressentiment» (trad. J. Cousin, Paris, Les Belles Lettres, 1966).
16
Diod. Sic. XXVI 12.
17
Cic. Mur. 8, 18: voir le texte latin en exergue supra, 53 (trad. A. Boulanger, Paris, Les
Belles Lettres, 1946).
13
57
mireille cébeillac-gervasoni
Trois textes épigraphiques, un de Tibur18 et deux d’Ostie19, ont permis de
supposer que Marcus Pacceius, qui est mentionné avec le titre insolite de questeur propréteur, a été questeur d’Ostie. En effet, il serait logique que, si des naviculaires honoraient un questeur à Ostie, il s’agissait du questeur d’Ostie; son
titre de questeur propréteur laisse à penser qu’il avait reçu des pouvoirs exceptionnels; ceux-ci complétaient les pouvoirs judiciaires dont était doté le questeur d’Ostie qui, on le sait, siégeait dans un tribunal sur le forum de la colonie.
Son efficacité a pu lui valoir la reconnaissance des naviculaires auxquels il facilita
l’exercice de leur métier, peut-être au moment de la création de leur collège20
ou dans un moment de difficultés dont on ignore la nature. La date précise de
ces dédicaces reste inconnue mais il s’agit manifestement de textes qui, par la
calligraphie et les marbres, ne peuvent être antérieurs à la fin de la République21.
Fonteius Q.f.22 qui reçut une inscription de dédicace datée du tout début de
l’époque augustéenne de la part d’entrepreneurs africains chargés du frumentum
mancipale ex Africa, pourrait avoir été lui aussi questeur d’Ostie.
Le dernier quaestor Ostiensis connu est Tibère23, le beau-fils d’Auguste, élu
à la questure en 23 av. J.-C. au moment où Auguste revêtait lui-même la cura
annonae. Le prince délégua sans doute des pouvoirs exceptionnels à Tibère pour
accomplir les tâches qui lui incombaient dans cette charge. Entre 23 av. et 44
ap. J.-C., lorsque l’empereur Claude a aboli cette fonction, on ne connaît aucun
nom de titulaires à cette charge.
Nom
Date de questure d’Ostie
Titre
C. Paperius Ti.f.
Entre 267 et 242 av J.-C
Quaestor classicus
M. Populicius. L.f.
Entre 267 et 242 av J.-C
Quaestor classicus
Novius Ofalius
IIIe siècle
Quaestor classicus
CIL, XIV 3603.
Di Stefano Manzella 1982, 521-525 = AEp 1985,161; CIL, XIV 3603= InsrIt IV,
1, 119.
20
Cébeillac-Gervasoni - Caldelli - Zevi 2010, 93-94.
21
Notons qu’il ne porte pas de surnom, indice qui laisse supposer une date non postérieure
au Ier siècle av. J.-C.
22
CIL, VI 31713= D. 901.
23
Voir Suet. Tib. 8; Dio Cass. LIII 28, 4 et Vell. II 94, 3.
18
19
58
qvaestor ostiensis: une fonction ingrate?
L. Appuleius Saturninus
104 av. J.-C.
Quaestor Ostiensis
Servius Sulpicius Rufus
74 av. J.-C.
Quaestor Ostiensis
Marcus Pacceius
Fin de la République
Questeur propréteur
Quaestor Ostiensis?
Fonteius Q.f.
Début du Principat
Quaestor Ostiensis?
Tibère
23 av. J.-C.
Quaestor Ostiensis
Tableau récapitulatif des questeurs d’Ostie probables documentés.
Devoirs et pouvoirs du quaestor Ostiensis
Pourquoi des railleries à l’encontre du nouveau titulaire de cette fonction lors
du tirage au sort? Même s’il faut faire la part d’une certaine exagération de la
part de Cicéron, avocat de l’adversaire de Sulpicius Rufus, il n’empêche qu’une
série d’indices prouve que la gestion de la questure d’Ostie posait des problèmes
à son titulaire. Certes, le questeur avait des pouvoirs de justice en cas de contestations judiciaires puisqu’il y avait un tribunal du questeur de Rome à Ostie.
Ce magistrat avait sans doute à sa disposition tous les moyens matériels pour
permettre l’acheminement du blé d’Ostie à Rome comme l’écrit Diodore24.
Mais quel pouvoir avait-il sur l’acheminement du blé des lieux de production
à Ostie? Probablement aucun. Notre documentation est rare et aléatoire, mais
elle prouve par exemple que L. Appuleius Saturninus en 104 av. J. C. a été dans
l’incapacité de fournir les horrea de Rome en céréales; en revanche, le prince du
sénat qui le remplaça après son limogeage, reçut la cura annonae. Cette fonction
lui permit sans aucun doute d’avoir sous son contrôle le processus complet du
parcours du blé des lieux de production jusqu’aux magasins de l’Urbs et donc
de résoudre la disette qui sévissait à Rome. C’est un autre propos de Cicéron
qui permet de comprendre la répartition des tâches frumentaires entre les divers
magistrats.
Je ne crains pas, juges, que vous me taxiez de vanité si je parle de ma propre
questure. En effet, quel qu’ait été son éclat, je pense m’être dans la suite montré
tel dans les plus hautes charges que je n’ai pas à tirer beaucoup de gloire des mérites que l’on veut bien reconnaître à ma questure. Pourtant je ne crains pas que
24
Diod. Sic. XXVI 12.
59
mireille cébeillac-gervasoni
quiconque ose dire qu’il y ait eu en Sicile questure plus célèbre ou plus agréable
aux Siciliens. Mais voilà ce que je dirai en vérité: je m’imaginais alors qu’on ne
parlait à Rome que de ma questure. J’avais expédié une grande quantité de blé à
un moment où il était cher; courtois envers les négociants (negotiatoribus), juste
avec les intermédiaires (mercatoribus), généreux envers les adjudicataires (mancipibus), scrupuleux envers les alliés, j’étais apparu aux yeux de tous comme un
modèle de conscience dans toute mon administration; on pensait même chez les
Siciliens à me faire accorder des honneurs sans précédents. Aussi quittais-je ma
charge avec des espérances qui me persuadaient que le peuple romain m’offrirait
de lui-même tous les honneurs. Mais au cours du voyage qui me ramenait de ma
province, me trouvant par hasard arriver à Pouzzoles pendant la période où un
grand nombre de gens de la haute société ont coutume de séjourner dans cette
région je tombais presque de mon haut, juges, lorsque quelqu’un me demanda
quel jour j’avais quitté Rome et s’il y avait quelque chose de neuf. Et comme je
lui avais répondu que je revenais de ma province: oui, c’est bien l’Afrique, n’estce-pas? Sur quoi, décidément en colère, je lui dis d’un air dédaigneux: «Non, de
Sicile!» Alors un individu, se donnant l’air de tout savoir: «Comment? Tu ne
sais pas, dit-il, qu’il était questeur à Syracuse».25
Ces propos de l’orateur illustrent bien les tâches liées à l’approvisionnement
de Rome en blé qui étaient réparties entre plusieurs magistrats; Cicéron, jeune
questeur en Sicile à Lilybée avait permis, selon lui, d’acheminer vers les ports de
la péninsule des quantités importantes de céréales. Il en était très fier mais à son
retour avait vite compris que sa mission, pourtant fondamentale, était restée
dans un anonymat total. La suite des opérations de transport frumentaire vers la
capitale ne dépendait plus de lui mais d’un autre magistrat, le questeur d’Ostie.
En fait, le rôle et l’œuvre d’un questeur comme Cicéron à Lilybée restaient totalement ignorés des contemporains. Pour un questeur d’Ostie, il suffisait que les
magistrats chargés d’expédier le blé soient moins scrupuleux26 que Cicéron pour
que le processus se grippe et que le quaestor Ostiensis n’ait pas de chargements à
faire livrer à Rome.
En définitive, le questeur d’Ostie, malheureuse victime du tirage au sort,
devait sans doute faire face à la quadrature du cercle, car il représentait le dernier
Cic. Planc. 26-27, 64-65 (trad. P. Grimal, Paris, Les Belles Lettres, 1976).
On sait qu’il s’agissait parfois d’actions volontaires pour bloquer ces approvisionnements
et provoquer ainsi des troubles urbains, suite au manque de céréales. On doit aussi souligner les
problèmes liés à la piraterie en Méditerranée, endémiques jusqu’aux interventions de Pompée
qui permit de sécuriser la mer et l’arrivée des navires à blé.
25
26
60
qvaestor ostiensis: une fonction ingrate?
maillon de la chaîne d’approvisionnement de l’annone de Rome. À partir des
rôles qui en 267 av. J.-C. étaient strictement limités à l’approvisionnement des
armées engagées à l’extérieur de la péninsule et à la vérification des êquipements
navals, la croissance de la population urbaine et les problèmes annonaires inférant ont à partir de la 2e Guerre punique monopolisé la mission de ce magistrat. Il est certain que les frumentationes de Caius Gracchus ont encore accru la
charge du travail du questeur d’Ostie. Hélas, ce magistrat en début de carrière ne
fut pas doté de pouvoirs qui lui auraient permis d’avoir une prise sur l’arrivage
de l’approvisionnement. Il avait certains pouvoirs y compris judiciaires à Ostie
quand arrivaient les chargements de blé, des rapports plus ou moins amicaux
avec les transporteurs du blé et sans doute tout pouvoir pour l’acheminement
par le Tibre ou par terre des céréales.
Ainsi, L. Appuleius Saturninus fut limogé de ce poste car il était impuissant
pour répondre à une situation frumentaire difficile; en fait, il lui manquait les
pouvoirs qui furent conférés à son remplaçant Marcus Aemilius Scaurus le prince
du sénat avec la cura annonae. On peut aussi émettre l’hypothèse que la présence
de Publius Clodius Pulcher, mentionné sur l’inscription de Porta Romana à
Ostie en tant que tribun27 de la plèbe, correspond à un moment où le bouillant popularis s’était imposé à Ostie. Il s’est sans doute substitué illégalement au
questeur d’Ostie pour assurer l’approvisionnement des horrea de Rome, dans le
cadre son programme de frumentationes. Auguste, qui dota son beau-fils Tibère,
questeur d’Ostie, d’une partie de ses pouvoirs de sa propre cura annonae avait
compris les difficultés de cette charge dont pouvaient dériver des conséquences
parfois dramatiques pour l’annone de Rome. Tout en créant la préfecture de
l’annone, il conservait la magistrature républicaine en la vidant totalement de
sa fonctionnalité. L’empereur Claude en 44 ap. J.-C. en tira les conséquences en
abolissant la questure d’Ostie.
Quaestor Ostiensis: fonction ingrate? Sans aucun doute. On peut même
supposer que l’absence du titre de quaestor Ostiensis dans des inscriptions lapidaires a été un acte volontaire de la part des titulaires ou des dédicants des textes
dont le but était de passer sous silence une étape peu glorieuse du cursus. En fait,
ce n’est pas un hasard si seuls deux textes polémiques de Cicéron mentionnent
ce titre.
27
Zevi 1996-97.
61
mireille cébeillac-gervasoni
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62
FRANCESCA CENERINI
Il ruolo delle donne nelle città
alla fine dell’età repubblicana: il caso di Mutina
Gli studi sulla condizione femminile in età antica hanno da tempo evidenziato una sorta di dicotomia nella rappresentazione della vita delle donne romane1.
Da un lato continua a essere operativo il modello cosiddetto ideale o idealizzato, che rappresenta la donna integralmente dedita alla vita domestica, al matrimonio e all’educazione dei figli2. Da un altro la documentazione soprattutto
epigrafica e, con valutazione per lo più negativa, quella letteraria attestano che
le donne, nel corso dell’età repubblicana, hanno notevolmente esteso il campo
della loro azione e hanno valicato i confini strettamente domestici, soprattutto
attraverso l’impiego della propria ricchezza.
È noto che il luxus femminile diventa un problema politico tra la fine del III
e l’inizio del II sec. a.C., come racconta lo storico di età augustea Tito Livio a
proposito del dibattito che si sarebbe svolto in senato nel 195 a.C. sulla abrogazione (o meno) della lex Oppia. Si tratta di «un pubblico confronto, insieme politico e ideologico, sul modo di intendere la posizione della donna nella
società»3. Doveva essere deliberato, cioè, il mantenimento in vigore (oppure la
sua abrogazione) della legge Oppia, votata nel 215 a.C., durante la guerra annibalica e dopo la sconfitta disastrosa di Canne, che limitava il possesso di gioielli (che non potevano superare il valore di mezza oncia d’oro) e di altri status
symbol (abiti costosi e carrozze) da parte delle donne. Nel 195 a.C. il console
Catone pronuncia un discorso a favore del mantenimento in vigore della legge.
Catone supporta questa sua dichiarazione di voto argomentando che le donne
Ad es. Cenerini 2013a e ivi la bibliografia precedente.
Il riferimento d’obbligo è alla VI Satira di Giovenale.
3
Desideri 1984, 63-64.
1
2
63
francesca cenerini
non si dovevano adornare né con oro, né con pietre o vesti preziose, ma con la
modestia e la moderazione, unite all’amore per il marito e per i figli, per le leggi
della città, per gli eserciti, per le vittorie e per i trionfi4.
A questo atteggiamento nel contempo etico e politico si oppongono i due
tribuni della plebe fautori dell’abrogazione, M. Fundanio e L. Valerio. Essi argomentano che le donne non hanno a Roma nessun ruolo pubblico, mentre, invece, sarebbe giusto che fossero partecipi delle migliorate condizioni economiche del paese che si era prontamente risollevato dopo la seconda guerra punica.
L’eleganza, gli abiti, le acconciature e i gioielli sono il mezzo con cui le donne
possono comunicare all’esterno il livello sociale ed economico della loro famiglia, in una parola sono gli ‘ornamenti delle donne’5. Come si può ben vedere, si
tratta per entrambi gli interlocutori, della convinta definizione del ruolo subalterno delle donne nella società degli uomini, sia pure con modalità differenti6.
Addirittura, con una sorta di rovesciamento dei ruoli, c’è chi ha visto nelle parole dei tribuni un auspicio in favore di un maggior controllo sulle donne da parte
degli uomini di famiglia, mentre per Catone il controllo doveva essere innanzi
tutto quello delle pubbliche istituzioni7.
A mio parere questo dibattito evidenzia che il luxus femminile era diventato un problema politico, come conseguenza di decenni di conflitti bellici che
avevano visto Roma conquistare mercati sempre più redditizi, ma che avevano
anche consentito alle donne di diventare proprietarie anche di ingenti patrimoni, a causa di una demografia maschile in sofferenza, appunto, per le continue
guerre. «Nell’esperienza giuridica romana l’ingresso della donna nel sistema
ereditario è da collegare alla patrimonializzazione dell’hereditas e all’acquisto
da parte della donna stessa di adeguate capacità patrimoniali e successorie»8. Lo
studio di queste capacità è complesso e, in tanti aspetti, ancora oscuro. Sembra,
però, evidente che nel pensiero giuridico romano la proprietà femminile fosse, in
un certo qual modo, considerata provvisoria, in attesa di essere trasferita, appena
possibile, agli uomini della famiglia. In buona sostanza, i Romani avevano preferito non disperdere gli assi patrimoniali consentendo la proprietà femminile,
Dio Cass. (ap. Zon.) XVIII 9, 17.
Liv. XXXIV 7, 8-9.
6
Mastrorosa 2006.
7
Agati Madeira 2004.
8
Venturini 1997, 617.
4
5
64
il ruolo delle donne nelle città
anche se avevano pensato di istituire una sorta di controllo pubblico sui patrimoni femminili attraverso le diverse forme della tutela mulierum9.
Questo diverso approccio alla ricchezza femminile può essere confermato
dalla narrazione di Polibio a proposito del comportamento di Scipione Emiliano10. La moglie di Scipione Africano, Emilia Terza, si distingueva per uno stile
di vita di alto profilo e spesso faceva sfoggio delle sue ricchezze, soprattutto in
occasione delle processioni matronali. Si vestiva e si ingioiellava con grande sfarzo, incedeva su un ricco cocchio (si tratta, a ben vedere, delle stesse forme di
ricchezza che erano state censurate dalla lex Oppia, abrogata nel 195 a.C.), si
faceva seguire da un gran numero di schiavi e di ancelle che trasportavano gli
oggetti (in metallo prezioso) che erano necessari alla pratica cultuale. Il nipote
adottivo Scipione Emiliano, cioè il figlio naturale di L. Emilio Paolo Macedonico adottato dal figlio omonimo di P. Cornelio Scipione Africano, dopo il funerale di Emilia Terza, regalò tutte queste ricchezze alla propria madre naturale,
Papiria che da tempo era separata dal marito e che possedeva mezzi inferiori
a quelli che sarebbero stati conformi alla sua nobiltà. Emilia Terza era nonna
adottiva di Scipione Emiliano, nonché sua zia naturale, in quanto sorella di
L. Emilio Paolo Macedonico, a riprova delle strette alleanze che le principali
gentes repubblicane stringevano sulla base dei matrimoni e delle adozioni. Non
a caso, i nuovi assetti economici e finanziari della repubblica romana dopo la
conquista dei mercati mediterranei sono tra le cause della «profonda trasformazione dell’etica coniugale»11. Le argomentazioni dei tribuni della plebe M.
Fundanio e di L. Valerio, addotte al tempo del dibattito sull’abrogazione della
lex Oppia, trovano, nelle azioni di Scipione Emiliano, una precisa applicazione: senza gioielli che ne sottolineino lo status aristocratico una donna nobile
non può più apparire in pubblico. Scipione Emiliano vuole reintegrare la madre
naturale all’interno del rango che le spettava, anche allo scopo di favorire la
propria carriera politica, presentandosi come rispettoso del codice aristocratico di comportamento. Polibio12, infatti, registra il suo successo, scrivendo che
tutte le matrone furono colpite dalla sua onestà e dalla sua grandezza d’animo e,
con le mani protese, vollero pregare per il suo bene. Scipione Emiliano, inoltre,
come pater familias, interviene anche nella delicata questione della dote delle
Venturini 1997, 669.
Polyb. XXXI 26.
11
Giunti 2004, 438.
12
Polyb. XXXI 26, 8.
9
10
65
francesca cenerini
sue zie adottive, tra cui la famosa Cornelia, madre dei Gracchi, e onora tutti i
suoi impegni, anche con maggiore generosità del dovuto.
Mi sembra che questo racconto polibiano illustri molto bene la necessità, da
parte delle élites repubblicane, e anche delle donne, di ostentare il proprio status
attraverso l’esibizione delle ricchezze. Si tratta del fenomeno della tryphé, cioè
dell’ostentazione funzionale dell’opulenza, ben noto in ambito etrusco13. Nel
caso delle donne, però, il discorso è più complesso, in quanto questa necessità
deve sempre fare i conti con il modello della rappresentazione matronale basato
sulla moderazione in tutti i campi. Sono perciò consentiti l’uso e l’ostentazione della ricchezza femminile negli spazi e nei tempi convenienti (ad esempio
nel caso delle processioni cultuali delle matrone), mentre l’esibizione fine a se
stessa o l’eccesso sono sempre e comunque da condannare, secondo la mentalità corrente. Non può essere un caso che la stessa Cornelia, figlia dell’Africano,
dotata, come abbiamo appena visto, da Scipione Emiliano, diventi l’icona della
madre senza gioielli, secondo il racconto di Valerio Massimo14: alla vanitosa
ospite campana che faceva sfoggio dei suoi monili preziosi, Cornelia contrappone i suoi due figli maschi come i suoi gioielli, aderendo in tutto e per tutto al
modello retorico della matrona ideale.
Recenti studi hanno indagato le modalità e gli spazi di intervento femminile
in campo ‘pubblico’15. L’importanza del matrimonio nella politica dei nobili è
sempre più evidente e il ruolo femminile nella trasmissione del mos maiorum è
sempre più importante. In età tardo-repubblicana, alcune matrone sono presenti sulla scena politica, attraverso l’appropriazione di strumenti dell’agire politico, ad esempio la possibilità di parlare in pubblico. Non si tratta, come è stato
giustamente notato16, di una improbabile contestazione del modello matronale ideale, ma della necessità di adeguare le risorse femminili, prima fra tutte la
disponibilità economica, progressivamente consentita dalla coeva legislazione,
alle necessità della nuova società che si delinea nel corso del I sec. a.C. e, soprattutto, in età augustea. I patrimoni femminili alla metà del I sec. a.C. hanno
raggiunto una consistenza notevole. Lo attesta, in primis, il famoso discorso di
Ortensia, la figlia dell’oratore Q. Ortensio Ortalo, in opposizione a una tassa-
Torelli 1997.
Val. Max. II 4.
15
Valentini 2012, 201-247.
16
Rohr Vio c.d.s.
13
14
66
il ruolo delle donne nelle città
zione esclusivamente femminile imposta dai triumviri Antonio e Ottaviano17.
La storia è nota da Appiano18: era stato emanato un provvedimento fiscale straordinario che obbligava millequattrocento donne ricche a fornire un contributo
per le spese militari dei triumviri, sulla base di una stima delle loro proprietà.
Ortensia si assume l’onere di contestare questo provvedimento davanti al tribunale dei triumviri nel foro, dopo che la via della mediazione familiare era fallita. La linea di difesa di Ortensia è del tutto pragmatica: le donne sono state
rese orfane, vedove e senza figli maschi e fratelli, private, cioè, degli uomini di
famiglia, a causa delle guerre civili; se i triumviri le spogliano anche delle loro
ricchezze, non possono più vivere conformemente a quello stile di vita di nobile
e alto profilo cui i padri e i mariti le avevano destinate. Ortensia afferma, inoltre,
che le donne non debbono pagare le tasse perché sono escluse a priori dall’esercizio delle magistrature e del potere politico e militare. Ortensia rifiuta anche
la giustificazione, evidentemente addotta dai triumviri, della necessità dovuta
allo stato di guerra: già nel passato le donne avevano contribuito volontariamente con donazioni di gioielli, ma non era mai stato chiesto loro di intaccare
la proprietà terriera e la dote, beni necessari alla vita di una donna nobile, come
chiosa lo stesso Appiano.
Il diritto e il mos maiorum, infatti, avevano concesso, nel corso dei secoli,
alle matrone alcuni diritti in campo giuridico e patrimoniale, ma non c’era
mai stata nessuna apertura agli organi di governo delle città o della res publica.
L’ordo matronarum, sicuramente privilegiato e in qualche modo organizzato,
era già stato investito di compiti legati al culto, esercitati anche per la salvezza dello stato19, ma non ha mai portato avanti (qualora fosse stato possibile)
nessuna rivendicazione di tipo istituzionale e ha sempre rispettato le gerarchie
tradizionali.
Alcuni documenti epigrafici, databili nel I sec. a.C., possono essere analizzati
in questo contesto. A Pompei20 Annedia Q.f. ex testamento suo de sua pequnia
heredes suos iusit fieri monumentum sibi et L. Caesio C.f., duoviro iure dicundo
viro suo; a Teate Marrucinorum21 Aufidia Minata mater L. Poditio L.f. filio suo
fecit in quanto is obieit annorum XVI e sull’edicola sepolcrale è raffigurato a rilieCf., da ultimo, Cenerini 2013a, 73-78.
App. BC IV 32-34.
19
Boels-Janssen 1993.
20
CIL, I2 3132.
21
Buonocore 1983, 183-184, nr. 25 = CIL, I2 3262.
17
18
67
francesca cenerini
vo un giovane defunto in toga; nel Polesine, in località Selva di Crespino22, è
stato rinvenuto il monumento sepolcrale che Maxima dedicò sibei, alla nuora
Curtia L.f. Secunda e ai due nipoti Q. Novellius Q.f. Crescens e Sex. Novellius
Q.f.; a Patavium23 Cipia P.f. Secunda fierei iussit locus in fronte p. XX, in agrum p.
XXV; sempre a Patavium24 Ostiala Gallenia è raffigurata sulla stele funeraria a
fianco del marito sul carro guidato dall’auriga in una scena di ‘viaggio agli Inferi’:
la stele è bilingue, in quanto l’onomastica del marito, probabilmente Mn. Gallenius Mn.f., e della moglie, Ostiala Gallenia, è seguita da una parola venetica,
equpetars, di incerto significato, ma che potrebbe alludere all’alto rango dell’uomo, appartenete all’ordine equestre25. Si tratta di un ottimo esempio epigrafico e iconografico di incontro tra due culture, quella romana e quella venetica:
l’uomo è togato, mentre la donna indossa il tipico abbigliamento locale: gonna
a pieghe verticali, mantello e disco sul capo26. Successivamente, in età augustea,
le donne della domus imperiale sono interpreti di modelli di comportamento
che creano consenso e che vengono imitati nelle città italiche e in provincia. È
famoso il caso di Eumachia di Pompei27 e quello di Salvia Postuma, indagato in
maniera esemplare da Monica Chiabà28.
Ritengo, però, che questi esempi sporadici non possano servire a delineare
uno sviluppo coerente dell’evoluzione della condizione femminile tra repubblica e impero, quale può essere documentata dall’epigrafia, intesa come specchio di una prassi sociale condivisa, pur nella sua complessità. È già stato, infatti,
ampiamente notato che non si può parlare di ‘epigraphic habit’ in senso univoco, come espressione di una uniforme pratica culturale in sintonia con lo ‘spirito’
del tempo, ma che esistono molteplici forme di espressione epigrafica, anche
coeve, che cambiavano e interagivano l’una con l’altra, dando luogo a esiti diversi. Tale diversità è causata dai differenti contesti geografici, ambientali, sociali,
economici, e anche da scelte personali29. Io aggiungerei anche da differenze di
CIL, I2 2192 = CIL, V 2452.
CIL, V 2928; l’iscrizione è datata alla seconda metà del I sec. a.C. in Veronese 2012, 91.
24
CIL, I2 3408.
25
CIL, ad loc.
26
Cf., da ultimo, Veronese 2012, 89-96, e ivi la bibliografia precedente.
27
Cenerini 2013a, 132-133; evidenzia l’autonomia di Eumachia rispetto al modello
imperiale Cooley 2013, 31-36.
28
Chiabà 2005.
29
Mouritsen 2005, 62-63.
22
23
68
il ruolo delle donne nelle città
appartenenza di genere. Ho pensato, pertanto, che potesse essere utile tentare
di approfondire queste dinamiche sociali all’interno di una singola città, ove la
documentazione lo permetta. In segno di omaggio al professore Gino Bandelli
e alle sue magistrali ricerche sulla romanizzazione della Cisalpina30, propongo
un’analisi della documentazione epigrafica relativa alla città di Modena, antica
Mutina.
La colonia romana di Mutina è dedotta nel 183 a.C. ad opera di un triumvirato di cui faceva parte Marco Emilio Lepido, il costruttore dell’omonima via31.
La colonia riveste una importante funzione strategica e militare per il controllo
della provincia della Cisalpina. Mutina viene ricordata dalle fonti letterarie in
occasione delle guerre contro i Liguri nel 177 a.C., della rivolta di Marco Emilio
Lepido e di Marco Giunio Bruto nel 77 a.C. e della campagna militare contro
Spartaco nel 72 a.C.32. La vicenda più nota che riguarda la città è la cosiddetta
guerra di Modena del 44-43 a.C., che vide Mutina e il governatore della Cisalpina Decimo Bruto assediati da Marco Antonio, a sua volta attaccato dai consoli
della res publica, Aulo Irzio e Vibio Pansa, coadiuvati dal giovane Ottaviano33.
Mutina viene registrata da Plinio nell’elenco delle colonie augustee34 e ha potuto godere indubbiamente di prosperità economica, attestata dalle fonti letterarie
ed epigrafiche35 e dalla documentazione archeologica36. La città vede la propria
edilizia urbana progressivamente espandersi e le necropoli monumentalizzarsi;
l’agricoltura si specializza e l’artigianato si diversifica in numerose produzioni,
soprattutto ceramica e tessile.
Come è usuale in Cispadana, anche a Modena le attestazioni epigrafiche relative al II e alla prima metà del I sec. a.C. sono quasi del tutto assenti. A partire
dalla seconda metà del I sec. a.C., invece, le testimonianze si fanno più numerose,
anche con monumenti funerari di notevoli dimensioni, ispirati a prototipi urbani, che vengono riprodotti con manufatti di alta qualità37. Le iscrizioni modeAd esempio Bandelli 2008.
Analisi dettagliata delle fonti in Calzolari 2008, 12-13.
32
Cf. Calzolari 2008, 13-15.
33
Cf. Calzolari 2008, 15-27.
34
Plin. nat. III, 115-116: cf. Susini 1976.
35
Già Cicerone (Phil. 5, 24) la definisce firmissima et splendidissima populi Romani colonia
e Pomponio Mela (II 60) opulentissima.
36
Modena 1988.
37
Donati 2005, 33.
30
31
69
francesca cenerini
nesi, nella stragrande maggioranza dei casi di tipologia funeraria, anche grazie
ai numerosi recenti rinvenimenti ci offrono il quadro di una società mobile, con
fenomeni di marcata integrazione e di ascesa sociale. In particolare evidenza è il
ceto dei liberti e la componente femminile, che sono in grado di raggiungere una
posizione economica di rilievo e una notevole volontà di autorappresentazione.
A Modena, tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio di quella imperiale,
alcune donne costruiscono da vive il sepolcro per sé e per altri. È il caso della
nota ara monumentale di Vetilia Egloge, rinvenuta nel 2007 lungo la via Emilia
Est e pubblicata da Angela Donati38. Il sepolcro è composto da un podio, da
una base a gradoni e da un altare per un’altezza complessiva di oltre 4 m. L’indicazione della pedatura (in fronte pedes XX, in agro pedes XXX) è incisa sullo
zoccolo inferiore della base, «in una posizione non frequente» che «ci riporta a un’area piuttosto ampia per Mutina e anche per le città vicine, in sintonia con la monumentalità del sepolcro»39. L’iscrizione ricorda Vetilia Egloge,
liberta di una donna che fece costruire il monumento per sé e per il marito L.
Valerius Constans di condizione ingenua e decurione di Mutina e per il figlio
L. Valerius Constans, liberto di Lucio, Apollinaris et Augustalis, nato, evidentemente, quando Vetilia Egloge era ancora di condizione servile. Va rilevato che
una liberta, indubbiamente ricca, già schiava di una donna, sposa un decurione, se intendiamo i termini viro optumo et carissimo come prova di un effettivo
iuxtum matrimonium. Il figlio di Vetilia, però, non è nato all’interno di questo
matrimonio, dato che è liberto di L. Valerio Costante e presumibilmente è il
figlio naturale della coppia, nato prima del matrimonio, acquistato e manomesso dal padre. Come è ampiamente noto, infatti, i bambini nati da un iuxtum
matrimonium seguivano la condizione del padre, mentre il frutto di un’unione irregolare seguiva quella della madre: se la madre era di condizione servile,
il bambino era di proprietà del padrone della madre40. Coerentemente al suo
status libertino, egli non può aspirare alle magistrature civiche, ma può essere
Apollinaris et Augustalis. Tali collegi sacerdotali, infatti, per lo più appannaggio di ricchi liberti, assicuravano ai loro sodali una dignità e una visibilità non
perseguibili diversamente, di cui erano espressione diretta gli ornamenta, simili
a quelli riservati ai decurioni (toga praetexta, sella curule, fasci senza scure) e
Donati 2008.
Donati 2008, 164.
40
Corbier 2008, 318.
38
39
70
il ruolo delle donne nelle città
posti riservati a teatro, nelle processioni e nei banchetti pubblici41. Un altare del
tutto simile a quello di Vetilia è quello di Q. Petronius Q.f. Apollinaris, rinvenuto
in un sepolcreto familiare in località Ramo di Freto nel territorio a nord-ovest
di Modena42. Petronio per via testamentaria dispone di dedicare il monumento funerario sibi, alla madre Sulpicia L.f. Rutila, al fratello uterino P. Vavisulanus T.f. e alla liberta Atilia T.l. Nais. Anche in questo caso, la composizione del
nucleo familiare sembra ruotare attorno a una figura femminile, Sulpicia Rutila, madre dei due uomini ricordati dall’iscrizione. La stele monumentale dei
Salvii, dei Plotii e dei Sosii si deve alla volontà (fecit) di una donna libera43. Si
tratta di una stele a tabernacolo con doppia fascia di ritratti, rispettivamente un
uomo e una donna, inquadrati da semicolonne tortili, alternati a iscrizioni che
costituiscono la ‘didascalia’ del ritratto stesso. È una tipologia che rispecchia un
orizzonte epigrafico adriatico, dall’area patavina a quella ravennate e romagnola,
ma di cui non mancano esempi rinvenuti lungo la direttrice segnata dalla via
Emilia44. La stele fu reimpiegata nel Duomo di Modena e i ritratti furono rilavorati dai maestri campionesi al momento del riutilizzo. Sono raffigurati, ciascuno
in una propria nicchia: C. Salvius C.l. Auctus Apollinaris e, al suo fianco, Salvia
C.f. Prima, colei che fecit. Nella fascia inferiore ci sono i ritratti di P. Plotius P.l.
Urbanus Apollinaris e di Sosia, liberta di una donna, Amaryllis, entrambi preceduti dalla sigla V(ivus-a). La pietra non ci fornisce nessuna informazione sui
legami tra i quattro personaggi rappresentati ed epigrafati. Sicuramente i primi
due appartengono alla stessa gens Salvia, ma non si tratta di una patrona e di un
liberto (l’uomo è C.l.); la loro collocazione sulla stele potrebbe alludere a un
loro legame coniugale, che potrebbe essere confermato dal sacerdozio rivestito
dall’uomo. Lo stesso discorso può valere per i due liberti (la donna è liberta di
una donna) del registro sottostante. I casi di Vetilia (mulieris) l. Egloge e Salvia
C.f. Prima sono comunque da sottolineare, perché la documentazione epigrafica nel suo complesso, in realtà, è parca di attestazioni di matrimoni tra liberi e
liberti, a parte il caso delle liberte che sposavano il proprio patrono45.
Abramenko 1993; Mouritsen 2011, 250-260.
CIL, XI 854; Giordani - Paolozzi Strozzi 2005, 249-251.
43
CIL, XI 855; Giordani - Paolozzi Strozzi 2005, 242-244.
44
Su questa tipologia rimane fondamentale Mansuelli 1967.
45
Mouritsen 2011, 297.
41
42
71
francesca cenerini
Tra i recenti rinvenimenti epigrafici provenienti dall’area denominata Novi
Sad situata a ovest dell’attuale centro urbano di Modena46 è attestata Sepunia
T.f. Secunda47 che viva fecit una stele monumentale coronata da frontone triangolare per sé, per il fratello T. Sepunius T.f. Pollia (tribu) Postumus, centurione
della XV legione Apollinare, e per un altro personaggio L. Pugilius Expectatus,
di cui non viene menzionato nessun rapporto di parentela o altro che lo legasse
alla titolare del sepolcro. La XV legione Apollinare fu reclutata da Ottaviano
durante la guerra civile e contava tra i suoi esponenti molti Cisalpini. Nella stessa area è stata rinvenuta una stele monumentale abbastanza simile alla precedente48 posta da viva da Maria P.l. Sperata sibi e per il patrono, P. Marius P.l. Fuscus,
membro del collegio degli Apollinares e per i probabili figli naturali della coppia
P. Marius P.l. Oriens e Maria P.l. Prima.
La liberta Peducaea Sex.l. Hilara fecit un sarcofago in pietra d’Istria sibi et Sex.
Peducaeo Sex. l. Hilaro49. Il sarcofago riproduce le caratteristiche del monumento funerario a donario dorico; lungo il bordo superiore, infatti «corre, sui quattro lati, un fregio dorico continuo con metope alternate a triglifi; nelle metope
sono scolpiti bucrani, rosette di vario tipo, anche a girandola, scudi o patere»50.
Sicuramente si tratta di colliberti, forse uniti da un vincolo di tipo coniugale.
La donna sceglie come sepolcro un prodotto che si ispira a un modello proprio
dell’aristocrazia romana della media età repubblicana, e, nel contempo, sceglie
il rito dell’inumazione, in un momento in cui il rito più comune era quello
dell’incinerazione. In questo caso, la disponibilità economica si accompagna
a una precisa scelta ideologica. Parimenti due liberte dedicano un sepolcro a
un uomo, il cui segnacolo è costituito da una stele timpanata: Masura Suavis,
liberta di una donna, viva fecit a M. Paccius M.l. Orinus, magister Apollinaris51;
Domitia Nicarium, parimenti liberta di una donna, fecit sibi et T. Propertio T.l.
Acanto viro suo52.
Donati - Cenerini 2013.
Donati - Cenerini 2013, 411-412, nr. 1.
48
Donati - Cenerini 2013, 417-418, nr. 8.
49
CIL, XI 904.
50
Giordani - Paolozzi Strozzi 2005, 197.
51
AEp 1945, 61.
52
AEp 2003, 655; cf. Lapidario Romano 2002, 31, nr. 5.
46
47
72
il ruolo delle donne nelle città
Una stele, tutta al femminile, è quella che Salvia, liberta di una donna, Italia
fa erigere sibi e per Salvia Sex. L. Cypris, la sua patrona53. Nella parte superiore
sono ritratte affiancate le due donne, che indossano la palla e che sono pettinate secondo i canoni del modello urbano rappresentato da Agrippina Maggiore,
moglie di Germanico e madre di Caligola. La rappresentazione di un diverso
rapporto di patronato è, invece, quello relativo a Visinia Baccis e Marcus54. La
documentazione è data da due cippi che delimitavano l’area sepolcrale della
liberta. Su entrambi, di seguito all’onomastica, è riportata la stessa frase: quaad
(sic) vixit patrono suo placuit. Tale rapporto può essere paragonato con quello
che doveva intercorrere tra la perugina Allia Potestas e il proprio patrono, Aulo
Allio, probabile autore del suo elogio funebre55, databile entro la prima metà
del I sec. d.C.56. Le prime parole dell’elogio rispecchiano i canoni matronali
della descriptio mulieris: fidissima custos, lanifica, esiguo sermone, et cetera. Segue
una descrizione più intima sulle sue qualità fisiche, che mal si adatta al pudore
matronale, ma che rappresenta una liberta, concubina, forse poliandrica, come
si evincerebbe da un passo molto discusso della stessa iscrizione57; la sua qualità
principale, comunque, è quella di non considerarsi mai libera (numquam sibi
libera visa). Di tale carmen è stata di recente sottolineata l’eccezionalità, dovuta
all’ «insistita descrizione fisica della defunta», al «tono della trattazione» e all’
«ampiezza del testo, 52 versi», nonché la compresenza di «aspetti elegiaci» e
di «aspetti più strettamente epigrafici»58.
Sebbene il patrono non potesse esercitare una potestas formale sui suoi liberti, tuttavia egli godeva di determinati diritti e privilegi attraverso gli istituti
dell’obsequium e delle operae, oltre che da possibili garanzie in campo matrimoniale e patrimoniale59. La realtà fotografata dalle iscrizioni, però, contempla
un’ampia gamma di tali rapporti. È comunque stato notato60, e mi sembra che
lo stato della documentazione mutinense lo confermi, che una delle più grandi
conquiste sociali dei liberti (e delle liberte) è la possibilità di contrarre un iuxtum
Giordani - Paolozzi Strozzi 2005, 156-158.
CIL, XI 947; Giordani - Paolozzi Strozzi 2005, 180-181.
55
CIL, VI 3765.
56
Evangelisti 2012.
57
Evangelisti 2012 e ivi la discussione della bibliografia precedente.
58
Cugusi 2013, 234-235 e 248.
59
Mouritsen 2011, 51-65.
60
Mouritsen 1995, 60.
53
54
73
francesca cenerini
matrimonium garantito dalla legge, in una parola di potere formare una famiglia
legalmente riconosciuta. Tale diritto incide sulle forme di autorappresentazione
dei liberti che scelgono i monumenti funerari, spesso accompagnati da ritratti, per rendere esplicita l’acquisizione del diritto di avere dei figli legittimi, dei
liberti e degli schiavi, che dovevano essere sepolti, nelle intenzioni del titolare,
all’interno dell’area di cui sovente vengono indicate le misure che sono segnalate da appositi cippi. Di fronte a questo ‘epigraphic habit’ diffuso tra i liberti che
erano nella condizione di aspirare a una promozione sociale, la reazione delle
élites civiche è di segno opposto: la autorappresentazione non avviene più con
il sepolcro, ma attraverso i monumenti onorari concessi dalle autorità civiche e
collocati in spazi pubblici.
Lo studio dell’evoluzione della condizione femminile in età romana è difficile e contraddittorio, causa la complessità delle fonti. Quelle letterarie iniziano
a rappresentare la crisi sociale del modello ideale, in particolare dopo la II guerra punica che, come è noto, aveva sconvolto i tradizionali assetti economici e
politici della res publica romana (la famosa «eredità di Annibale»61). È emblematica, a questo proposito, la figura dell’uxor dotata messa in scena dal commediografo Plauto tra la fine del III e l’inizio del II sec. a.C. L’uxor dotata è donna
ricca, in quanto provvista di una dote notevole, ma incarna tutti i peggiori difetti femminili che l’immaginario maschile possa prefigurare, che diventeranno
topici in letteratura: è brutta e ha un pessimo carattere, è morosa, cioè fastidiosa
nei confronti del marito. Come è già stato rilevato62, le commedie di Plauto,
a prescindere dalla derivazione formale dal modello della nea attica, riflettono
precisamente i mutati orientamenti giurisprudenziali relativi alle nuove capacità patrimoniali femminili e i loro riflessi sulla società romana. Plauto mette in
scena ‘donne forti’, indipendenti e autonome nella propria capacità di giudizio
che, nello spazio della rappresentazione comica, sono in grado di contrastare
la supremazia maschile. In realtà, l’etica plautina vuole riaffermare la gerarchia
tradizionale tra i sessi, a favore dell’uomo, mettendo in scena ed enfatizzando il
lato grottesco di una aborrita ‘supremazia’ femminile.
La progressiva affermazione di questi nuovi comportamenti femminili era
stata resa possibile dal mutamento dell’assetto della ricchezza romana che, dopo
la conquista del bacino del Mediterraneo, non si basava più sul solo possesso
fondiario. La dote femminile diventava così un mezzo di transazione economica
61
62
Toynbee 1965.
Rei 1998.
74
il ruolo delle donne nelle città
tra gli esponenti delle famiglie dell’aristocrazia repubblicana e il matrimonio
era uno strumento per stipulare alleanze politiche e commerciali, allo scopo di
implementare tali ricchezze. La dote doveva essere amministrata con profitto
dal marito che, però, doveva assicurare alla moglie un tenore di vita consono
alla sua posizione economica e sociale. Il marito, inoltre, in caso di divorzio, era
tenuto a restituire la dote alla moglie, principio che fu progressivamente tutelato
da un’apposita legislazione63. La matrona plautina, ancorché caratterizzata da
un carattere impossibile, è, comunque, sempre impegnata sulla scena a difendere
l’integrità economica e morale della propria domus, come pure le poche matronae virtuosae messe in scena da Plauto (ad esempio Cleostrata della Casina), la
cui caratterizzazione meno incisiva, per altro, risente maggiormente dei modelli
convenzionali della commedia greca. La ricchezza e la superiorità sociale della
matrona sono giustificate, secondo l’etica del tempo, dall’adesione a un codice
di corretto comportamento morale (mos maiorum), cui la matrona dovrebbe
sempre adeguarsi, per mantenere e giustificare il suo stato privilegiato, ad esempio nei confronti della familia degli schiavi.
Come ho accennato all’inizio, questo modello ideale femminile rimane
sempre valido e operativo nella mentalità romana nel corso dei secoli, secondo
modalità ascrivibili ai ben noti fenomeni storici legati al concetto di ‘lunga durata’64. Tutte le donne, reali o letterarie che siano, sono viste dagli autori antichi
esclusivamente secondo questa ottica. Anche le donne note dalle loro iscrizioni sepolcrali sono generalmente optimae, pulcherrimae, lanificae, piae, pudicae,
frugi, castae, domisedae e rispondono appieno al modello ideale femminile di età
romana, primo fra tutti quello esemplato dalla celeberrima iscrizione di Claudia65. Nelle fonti letterarie tutte le femminilità, per così dire, devianti, si riducono, sostanzialmente, a un duplice aspetto: la donna depravata da un punto
di vista sessuale e la donna che ambisce a un potere politico. Ma le stesse fonti
letterarie non possono non descrivere la evoluzione di questo modello: è il caso,
ad esempio, della narrazione di Plutarco66 e di Valerio Massimo67 del suicidio di
Porcia, moglie del cesaricida Marco Giunio Bruto. La donna, quando viene a
conoscenza della morte del marito dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.), si suiciCenerini 2013a, 49-50.
Aymard 2010.
65
CIL, I2 1211 = ILLRP 973.
66
Plut. Brut. 53, 5-7.
67
Val. Max. IV 6, 5.
63
64
75
francesca cenerini
da, ingoiando carboni ardenti68. Porcia può essere sicuramente ricordata dalle
fonti come modello di fedeltà coniugale (cui per altro è intitolata la rubrica di
Valerio Massimo), che preferisce uccidersi, piuttosto che vivere senza il marito;
a mio parere, però, dobbiamo leggere nella scelta di questa morte atroce anche la
rivendicazione di una ben precisa volontà di essere fedeli al proprio marito non
soltanto da un punto di vista sessuale, ma anche da un punto di vista politico. Le
matrone non condividono più soltanto il letto e la tavola, come le concubine,
ma vogliono essere in grado di manifestare la propria opinione. Alla fine dell’età
repubblicana le matrone rivendicano anche la capacità di essere soggetti economici, come è esemplificato dai casi citati nelle fonti letterarie: quello di Terenzia,
la moglie di Cicerone69, e di Fundania, la moglie di Varrone, proprietaria di un
fondo agricolo cui sono indirizzati alcuni consigli tecnici relativi al suo sfruttamento nel primo libro del De re rustica del marito70. Oppure, anche in questo
caso, possiamo attingere alle fonti epigrafiche, ad esempio, la cosiddetta laudatio
Turiae71 e l’elogio di Murdia72, databili entrambi alla fine dell’età repubblicana.
Anche le iscrizioni documentano, come abbiamo visto nel caso di Mutina,
questa evoluzione della condizione femminile tra la fine dell’età repubblicana
e l’inizio del principato. Le donne diventano soggetti attivi nella vita sociale
ed economica delle città e sono in grado di usufruire della propria ricchezza
soprattutto ai fini della rappresentazione del proprio nucleo familiare attraverso la edificazione del sepolcro. Tale evoluzione continuerà in modo sempre più
evidente in età imperiale, quando le Augustae possono diventare un punto di
riferimento nelle dinamiche politiche della corte imperiale73, ma, soprattutto,
sono rappresentate come modello del sempre più diffuso impiego della ricchezza femminile in campo pubblico.
L’evergetismo femminile è, infatti, motivato dalle stesse ragioni di quello
maschile74. I merita e gli onori femminili, fatti e ricevuti dalle donne, accrescono la dignitas personale della donna stessa, ma soprattutto quella di tutta la sua
famiglia (l’ascendenza materna acquisisce una sempre maggiore importanza
Cenerini 2012; Rohr Vio 2012.
Treggiari 2007.
70
Strothmann 1998.
71
ILS 8363 su cui cf. Cenerini 2013a, 78-81 ed ivi la bibliografia precedente.
72
CIL, VI 10230, Cenerini 2013a, 83.
73
Cf., ad esempio, Cenerini 2009.
74
Cenerini 2013b.
68
69
76
il ruolo delle donne nelle città
nella caratterizzazione del profilo di un membro dell’aristocrazia), contribuendo alla creazione di una memoria civica collettiva, funzionale all’esercizio, da
parte degli uomini della famiglia stessa, delle cariche municipali e alla promozione agli ordines superiori, in una parola all’affermazione di un ‘regime di
notabili’ 75.
75
Cf., ad esempio, Melchor Gil 2009.
77
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81
MONICA CHIABÀ
A proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad Aquileia, comunità di frontiera.
Le pietre ‘raccontano’…
In occasione del recente Convegno Internazionale Tra l’Adriatico e le Alpi.
Forme e sviluppi dell’organizzazione territoriale e dei processi di integrazione nella
X Regio orientale e nelle regioni contermini, ho ripreso un tema a me caro, vale a
dire l’analisi delle modalità d’interazione fra i coloni aquileiesi del 181 a.C. e del
169 a.C. e gli incolae, i residenti indigeni, con particolare attenzione alle donne1.
Dallo studio sistematico dei gentilizi, condotto su base quasi esclusivamente
epigrafica2, è emerso che la componente femminile della popolazione aquileiese,
al pari degli uomini, vanta nomina la cui origine, sul piano etnico-linguistico, è
latina, osca e, in senso lato, cisalpina3.
Dall’analisi dei tituli che documentano mogli e mariti di condizione giuridica ingenua, vorrei ora, in questa sede, tentare di estrapolare qualche dato sulle
unioni fra ‘conterranei’ e su quelle fra gli indigeni (ex incolae divenuti prima
coloni poi municipes) e gli esponenti della compagine romano-latino-italica, vale
Chiabà c.d.s.
Allo stato presente della ricerca, il corpus repubblicano aquileiese ammonta a 206 iscrizioni, come è risultato dal censimento e dalla revisione sistematica di tutte le epigrafi riconosciute
come repubblicane da me effettuati al fine della pubblicazione delle stesse nella Banca Dati
EDR (Chiabà c.d.s, n. 10). In merito all’onomasticon aquileiese, ai 122 nomina a suo tempo
censiti (Chiabà 2003, 82 n. 18, e 97-106) vanno ora aggiunti undici gentilizi che, per ragioni
diverse, non erano stati individuati e quindi inseriti nel repertorio preliminare: Chiabà c.d.s,
n. 12. Dei 133 nomina individuati, 41 risultano attestati al femminile: Chiabà c.d.s, n. 15.
3
Sull’apporto delle diverse componenti, romana, latina, italica (di provenienza sia peninsulare che cisalpina), alla compagine coloniaria, si veda: Chiabà 2003; Chiabà 2004; Chiabà
2007; Chiabà 2009a, 12, Chiabà 2009b; Chiabà c.d.s. Sul tema già Bandelli 1988,
124-126.
1
2
83
monica chiabà
a dire i discendenti dei coloni oppure i vari elementi emigrati spontaneamente
ad Aquileia in epoche successive al 181 e al 169.
Verranno presi in esame, senza nessuna presunzione di esaustività, tre casi
atti a dimostrare come questo tipo di indagine, applicato alla documentazione
di una terra di frontiera, si riveli complesso, articolato e spesso senza soluzione.
Desidero offrire, con affetto e riconoscenza, questo piccolo omaggio a Gino
Bandelli, mio Maestro da vent’anni, che mi ha insegnato il mestiere di Storico
e che mi ha indirizzato allo studio dell’Aquileia delle origini e, in particolare, al
tema dell’origo delle famiglie deductae nella colonia Latina altoadriatica.
1. Sepstinia e C. Appulleus C.f. Tappo
«Tra le molte pietre anticamente lavorate, sopra alcune delle quali eranvi
delle iscrizioni», che Gian Domenico Bertoli vide venire alla luce nel 1726 «in
una cava fatta fare, non ha guari, dalle Monache d’Aquileja poco lunge da lor
Monisterio», vi è la dedica funeraria, oggi perduta, posta a C. Appulleus Tappo,
pontufex, da Sepstinia, sua moglie (fig. 1)4:
C(aio) Appulleo C(ai) f(ilio) Tapponi,
pontufici,
Sepstinia uxor.
Fig. 1. Dedica funeraria posta da Sepstinia
al marito C. Appulleus Tappo (da Bertoli
1739).
Bertoli 1739, 128, nr. CXXI. CIL, I 1458; CIL, V 861; CIL, I2 2199; ILLRP 540;
InscrAq 50; EDR118682. Cf. Bandelli 1983, 198, nr. 25; Bandelli 1984, 221, nr. 46;
Bandelli 1988, 104-105, nr. 48, e 156-157, nr. 26; Buora 2001, 92.
4
84
a proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad aQuileia
Si tratta, come si evince dal disegno riportato dal canonico, di una tabula
il cui testo epigrafico è disposto su tre righe: le prime due attestano rispettivamente il nome e la carica del dedicatario, declinati al dativo, mentre la terza riga,
parecchio distanziata dalla seconda, ricorda il nome e la qualifica di moglie della
dedicante, al nominativo.
I principali strumenti onomastici, dalla monografia di Wilhelm Schulze, al
repertorio di Heikki Solin e Olli Salomies, e al più recente Onomasticon Provinciarum Europae Latinae, elencano, sotto il gentilizio Sepstinius, un’unica testimonianza, quella della Sepstinia aquileiese5.
In realtà c’è una seconda epigrafe che documenta il nomen, portato, per pura
casualità, ancora da una donna. Una Sepstinia è ricordata ad Ostia in ciò che
rimane di una lastra funeraria, datata da Maria Floriani Squarciapino, editrice
del pezzo, tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.6.
L’esiguità delle attestazioni del nome, tra l’altro cronologicamente molto
distanti, non consente di formulare nessuna ipotesi sulla comunità o sull’area
geografica originaria dei portatori del gentilizio, che, comunque, su base onomastica, non mi sembra cisalpino7.
Ciò che è certo è che la Sepstinia aquileiese appartiene ad una famiglia del
più alto livello, considerato che il marito, il pontefice Gaio Appulleo Tappone,
appartiene al medesimo ramo familiare del pretore urbano C. Appulleius M.f.
Tappo, uno dei primi senatori aquileiesi8.
Schulze 1991 (19041), 71 n. 5, e 277, add. 192; Solin - Salomies 1988, 167; OPEL
IV, 68, s.v. Sepstinius.
6
Floriani Squarciapino 1961, 172, fig. 28; AEp 1964, 219b; EDR074438.
7
Schulze 1991 (19041), 277 fa derivare Sepstinius dall’etrusco sep-u / śep-u. Da ultimo,
sulla base sep- da cui sep-u / śep-u, Roncalli 2009, 512.
8
Da Bertoli 1739, 299-300, nr. 419, risulta che il contesto di rinvenimento, in reimpiego,
dell’epigrafe è il medesimo di quello della tabula del pontufex: C(aius) Appulleius / M(arci)
f(ilius) Tappo, / pr(aetor), aed(ilis), tr(ibunus) pl(ebis), q(uaestor), / iudex / quaesitionis / rerum
capital(ium). Vd. anche CIL, V 862; ILS 906; CIL, I2 814, cf. p. 954; ILLRP 436; InscrAq 29;
EDR093906. Oltre a Klebs 1895, 269, cf. Syme 1964, 111; Wiseman 1971, 213, nr. 34;
Alföldy 1982, 331, nr. 3; Bandelli 1983, 200-201, nr. 34; Bandelli 1984, 223, nr. 54;
Alföldy 1984, 95, nr. 77; Bandelli 1988, 106, nr. 56, e 163, nr. 38; Buora 2001, 90; e, da
ultimo, Bandelli 2013, 192 n. 53, e 193. Il personaggio presenta un cursus senatorio inverso
attribuibile ancora al periodo tardo-repubblicano per la compresenza dell’edilità e del tribunato
della plebe, onori che, dopo la riforma augustea delle carriere, occupavano il medesimo gradino
del cursus e venivano quindi rivestiti in alternativa. Singolare è la posizione extra ordinem della
5
85
monica chiabà
Il cognomen ereditario Tappo, non latino, attestato ulteriormente nel patronato di C. Appuleius Philomusus, liberto del pontefice o del pretore9, rimanda al
sostrato linguistico celtico10.
Appul(l)e(i)us, gentilizio ben diffuso a partire dall’età repubblicana nell’Italia
centrale11, potrebbe essere un nomen originario e di conseguenza gli Appul(l)ei
aquileiesi i discendenti dei coloni o di soggetti trasferiti al Nord per immigrazione spontanea, ma non si può nemmeno escludere che esso sia una riformazione
latina di un Ap(u)lō illirico12. Se così fosse, il marito di Sepstinia, che esercitò il
pontificato municipale o, meno probabilmente, il pontificato urbano13, sarebbe
testimone, assieme al suo parente, dell’inserimento precoce delle élite indigene
nelle carriere pubbliche romane, locali e ‘nazionali’14.
funzione di iudex quaesitionis (titolo attribuito ai presidenti della quaestio, di rango edilizio),
che dovrebbe stare tra l’edilità e la pretura: al riguardo, vd., da ultimo, Mantovani 2009,
32-35. Se è indubbio che i due Appullei siano consanguinei, rimane incerto, considerata l’impossibilità di un riscontro paleografico dei documenti, il grado di parentela fra i due. Sui primi
senatori aquileiesi: Wiseman 1971, 213, 231, 238-239, 266; Alföldy 1982, 331-333 e
Alföldy 1999, 285-289. Vd. anche Chiabà 2007, 146-147.
9
C(aius) Appuleius / Tapponis l(ibertus) / Philomusus v(ivus): Pais, SupplIt 1174; CIL, I2
2205, cf. p. 1091; InscrAq 3397; Lettich 2003, 48-49, nr. 48. Si tratta di una lastra funeraria
conservata, in evidente rapporto con le iscrizioni del pontefice e del pretore, la cui paleografia
rimanda alla seconda metà del I secolo a.C.
10
Holder 1904, 1724.
11
Chiabà 2003, 85 n. 35.
12
Crevatin 1991, 84. Cf. Untermann 1961, karte 13.
13
Considerano il pontificato di Appulleo Tappone un sacerdozio locale (la lex Ursonensis, cap. 68, prevedeva per le realtà municipali un collegio pontificale e augurale composto di
tre membri ciascuno: da ultimo, Rüpke 2006a, 42-44 e Rüpke 2006b, 17-21): ILLRP, p.
462 (fra i «sacerdotes civitatium»); Bandelli 1983, 198, nr. 25; Bandelli 1984, 221, nr.
46; Bandelli 1988, 156-157, nr. 26; Bassignano 2001, 329 n. 18; Zaccaria 2003, 304;
Bassignano - Boscolo 2008, 49, 56; Rüpke 2008, 774. In questo caso il nostro personaggio
sarebbe il pontefice municipale più antico non solo di Aquileia, ma di tutta l’Italia settentrionale. Diversamente non hanno escluso, alla luce del rango senatorio della famiglia, un pontificato
urbano Gregorutti 1891, 187 («certamente di Roma»), e Howe 1904, 24, nr. 107.
14
Da ultimo, Chiabà 2007, 147-151 (con bibliografia precedente).
86
a proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad aQuileia
2. Raia M.f. e Sex. Attius [- f.]
Una famiglia composta di quattro personaggi, appartenenti all’aristocrazia
locale, è ricordata in un titulus funerario disperso15: Raia M.f. è moglie di Sex.
Attius [- f.] e madre di due figli maschi, Sex. Attius e P. Attius, il secondo dei
quali risulta esser stato decurione (fig. 2)16:
Sex(tus) Attius [- f(ilius)],
Raia M(arci) f(ilia),
Sex(tus) Attius Sex(ti) f(ilius),
P(ublius) (Attius) Sex(ti) f(ilius),
Vel(ina), dec(urio).
Fig. 2. Iscrizione sepolcrale di Raia M.f. e della gens
Attia (da Bertoli 2003).
La perdita dell’iscrizione che, stando al disegno riportato dal Bertoli, rivela un’impaginazione alquanto singolare, non consente una verifica sul piano
paleografico17. Tuttavia una datazione all’età repubblicana (I secolo a.C.) è stata
proposta da Gino Bandelli sulla base di vari elementi, tra cui l’uso del nominativo, la mancanza dei cognomina e il risparmio del nomen, ed è comunemente
accolta18.
Se l’iscrizione fosse di Roma o di una comunità dell’Italia centro-meridionale, non avremmo nessuna esitazione nel considerare Raius ed Attius due nomi di
famiglie di origine peninsulare.
L’iscrizione, collocata dal Bertoli (Bertoli 2003, 89, nr. 1037) «in Giassico villa soggetta alla Badia di Rosazzo presso i conti Modena» (così anche in CIL, V 973), è stata cercata
invano già dal Brusin («frustra titulus quaesitus est»).
16
CIL, V 973; InscrAq 47; EDR118689. Cf. Bandelli 1983, 198, nr. 26; Bandelli 1984,
222, nr. 50; Bandelli 1988, 105, nr. 52, e 157, nr. 27; Zaccaria 1989, 146, nr. 10.
17
Bertoli 2003, 89, nr. 1037. Il disegno del canonico è riproposto in CIL, V 973; impaginazione completamente differente nel facsimile riportato in InscrAq 47.
18
Bandelli 1983, 198, nr. 26; Bandelli 1984, 222, nr. 50; Bandelli 1988, 157, nr. 27;
Zaccaria 1989, 146, nr. 10. Vd. anche il commento ad InscrAq 47 («titulus… aetatis fortasse
liberae rei publicae esse potest»).
15
87
monica chiabà
Il fatto di trovarci ad Aquileia, in origine fondazione di diritto latino in
una terra di confine fra i Veneti e i ‘barbari’ Galli, Istri e Illiri, rende molto più
complessa l’indagine e vari gli esiti.
Il gentilizio Raius, nella forma più arcaica Rahios, risulta documentato, nella
media repubblica, nel Latium vetus: L. Rahios è uno dei due edili testimoniati
in un’iscrizione di fine III - inizi II secolo a.C., rinvenuta in agro Norbano e
attribuita da Silvio Panciera alla colonia latina di Norba19. Le varianti Rahius e
Raius sono rispettivamente presenti, in età repubblicana, anche a Minturnae e
a Venusia20.
I Raii aquileiesi, tuttavia, potrebbero essere una gens di ascendenza venetica:
il nome Raius (come anche Raienus) si sarebbe formato, sulla base di un’ipotesi
di Aldo Luigi Prosdocimi, da un Rako- veneto21.
Anche per quanto concerne Attius ci si trova di fronte ad un bivio: il gentilizio potrebbe essere originario e il suo portatore provenire dall’Etruria, o essere,
secondo un’ipotesi formulata da Geza Alföldy, una riformazione latina di un
nome norico (Atta, Atto, Attu)22.
Nemmeno l’uso del ‘risparmio del gentilizio’23, prassi funeraria certamente
importata ad Aquileia dai coloni di provenienza peninsulare, può essere considerato un elemento a favore della tesi che Raia e Sex. Attius, o almeno uno
dei due, appartengano a gentes di provenienza centro-italica. Il caso della nota
tabula funeraria dei Fruticii, famiglia di rango senatorio di certa origine veneta,
L. Rahio(s) L.f., C. [--- / aidiles [d]e[dere] (vel [co]e[ravere]): ILLRP 631; CIL, I2 363. Vd.
Panciera 1960, 13-15 = Panciera 2006, 595-596. Sulla colonia latina di Norba (odierna
Norma, LT), dedotta nel 492 a.C. e che, dopo lo scioglimento della Lega latina (338 a.C.), non
mutò la condizione giuridica latina originaria, vd. Chiabà 2011, 66-71.
20
Minturnae (odierna Minturno, LT) fu dedotta come colonia di diritto romano assieme
a Sinuessa (odierna Mondragone, CE) nel 295 a.C.: CIL, I2 2679; ILLRP 736. CIL, I2 2683;
ILLRP 735 (Rahius). Venusia (odierna Venosa, PZ) venne fondata come colonia di diritto
latino nel 291 a.C.: CIL, I2 1701; ILLRP 692 (Raius). Il gentilizio, presente a Capua in 6
esemplari di età protoaugustea (D’Isanto 1993, 213, nr. 292), continua ad essere ampiamente
diffuso nell’Italia centro-meridionale in età imperiale.
21
Pellegrini - Prosdocimi 1967, II, 155-156 (rako-, dativo rako.i). Il gentilizio Raienus
ad Aquileia è attestato in CIL, V 8443; InscrAq 1414.
22
Origine e diffusione di Attius, come nome originario, in Chiabà 2003, 93-94 n. 70.
Attius, come riformazione latina di un nome norico, in Alföldy 1978-79, 97, nr. 20. Sulla
diffusione di Attius nel Norico: Scherrer 2002, 35, Karte 9.
23
Il fenomeno è stato studiato da Zaccaria 1989.
19
88
a proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad aQuileia
dimostra che questa tipologia sepolcrale, una volta trapiantata in ambiente aquileiese, viene fatta propria anche dalle gentes locali24.
Pertanto la questione della natura del matrimonio di Raia M.f. e di Sex.
Attius (fra indigeni? fra allogeni? misto?), in assenza di altri elementi, è destinata a rimanere senza soluzione.
Un ulteriore motivo d’interesse dell’iscrizione è che nel sistema onomastico
del secondogenito della coppia, P. Attius Sex.f., decurio, è inserita la tribù degli
Aquileiesi, la Velina: si tratta dell’unica menzione della tribù in tutto il corpus
delle iscrizioni repubblicane.
Ci si chiede quali fossero le motivazioni che portarono Publio Attio, a differenza del padre25 e del fratello, a ricordare l’iscrizione alla Velina: l’aver forse,
lui solo tra gli uomini della famiglia, rivestito una carica pubblica? Potrebbe
essere questa la risposta più immediata, sulla base della considerazione che di
norma la tribù viene indicata principalmente per quegli individui che hanno
occupato una posizione di rilievo, sociale o politico, all’interno della comunità
di appartenenza26.
Resta comunque il fatto che Publio Attio è l’unico a ricordare la tribù non
solo nell’ambito della sua famiglia, ma in seno ad una realtà municipale in cui,
in età repubblicana, come si evince chiaramente dall’epigrafia, anche quella
magistratuale, non era in uso dichiarare l’appartenenza alla tribù prevalente nei
monumenti iscritti, né pubblici né privati27.
Mi domando a questo punto, con la dovuta cautela, se la condizione di cittadino romano iscritto alla Velina, che il decurione Publio Attio attesta forse con
vanto nel suo monumento funerario, anziché dipendere dallo statuto municipale della città, attribuitole nell’89 a.C., non abbia piuttosto origine da un conferiM. Fruticius Q.f., / L. (Fruticius) Q.f., / L. (Fruticius) L.f., / M. Fruticius M.f., / pr(aetor),
aed(ilis), tr(ibunus) pl(ebis), / M. (Fruticius) M.f. / L. (Fruticius) M.f., / ------: CIL, V 3339,
cf. p. 1095; CIL, I2 826, cf. p. 956; ILLRP 440. Vd. anche Wiseman 1971, 231-232, nr. 181;
Alföldy 1982, 332, nr. 3; Bandelli 1983, 200, nr. 33, Bandelli 1984, 151; Bandelli
1988, 106, nr. 55, e 162, nr. 36; Zaccaria 1989, 145, nr. 5, tav. IV, fig. 12; Alföldy 1999,
286, nr. 4. La lastra si trova oggi conservata presso il Museo Archeologico del Teatro romano di
Verona: sul ‘viaggio’ dell’iscrizione, vd. Zaccaria 1984, 151-152. Origo veneta dei Fruticii, in
Chiabà 2003, 92 n. 58.
25
A meno che anche il padre non avesse dichiarato la tribù nella lacuna che segue il gentilizio.
26
Sullo status dei soggetti per i quali è dichiarata la tribù, con riferimento alla parte orientale
della Regio X, vd. Mainardis - Zaccaria 2010, 247.
27
Da ultimo, Mainardis - Zaccaria 2010, 247.
24
89
monica chiabà
mento di civitas straordinario e individuale da inquadrare, invece che nella fase
del municipium civium Romanorum, negli ultimi tempi della colonia latina, in
cui, a partire dalla seconda metà del II secolo a.C. (forse dal 124) in virtù del
ius adipiscendae civitatis per magistratum28, gli ex magistrati (e le loro famiglie)
acquisivano la cittadinanza e si iscrivevano in una tribù che, nel caso degli Aquileiesi, anche prima dell’89 a.C., si presume essere stata per l’appunto la Velina29.
3. Beria M’.f. e L. Aratrius C.f.
Una grossa lastra funeraria in calcare riferibile, per aspetti paleografici (la C
quasi quadrata, l’appendice orizzontale della Q come una linea retta, i punti
diacritici quadrangolari30) e tipologico-strutturali (risparmio dei nomina) ai
primi decenni del I secolo a.C.31, è la più antica attestazione dell’importante
famiglia aquileiese degli Aratrii32. Il documento ricorda almeno quattro individui maschi di condizione ingenua e una donna, Beria M(ani) f., che molto
probabilmente è la moglie del secondo dei personaggi menzionati nella tabula
(fig. 3)33:
Al riguardo, Tibiletti 1953; Luraschi 1979, 301-329; Laffi 2001 (= Laffi 1987),
146; García Fernández 2009, 380-381.
29
L’ipotesi alternativa, meno accreditata, è che i neocittadini venissero, di anno in anno,
inseriti in tribù differenti, scelte di volta in volta. Al riguardo Forni 1989, 58 e, da ultimo,
Zaccaria 2010, 104.
30
Nell’iscrizione i punti quadrangolari perdurano accanto a quelli triangolari.
31
CIL, V 1092: «litteris antiquis fortasse liberae rei publicae»; InscrAq 3400: «litteris
antiquioribus aetatis liberae rei publicae». Sulla cronologia dell’iscrizione: Bandelli 1984,
172-173, e 226, nr. 77; Bandelli 1988, 58-59, e 111, nr. 78; Zaccaria 1989, 146, nr. 8;
Zaccaria 2003, 307, nr. 1; Zaccaria 2008, 350.
32
Dossier epigrafico della gens Aratria in Zaccaria 2003, 307-313 e Zaccaria 2008,
350-352, figg. 2-3. Sull’attribuzione (ad Altino o ad Aquileia) delle due epigrafi che menzionano membri della famiglia rinvenute a Venezia (CIL, V 2157; EDR099157. CIL, V 2198;
EDR099198), vd. anche Cresci Marrone 2011, 127.
33
CIL, V 1092; InscrAq 3400; EDR118819. Cf. Bandelli 1984, 226, nr. 77; Bandelli
1988, 111, nr. 78; Zaccaria 1989, 146, nr. 8; Zaccaria 2003, 307-308, nr. 1. L’iscrizione
si trova oggi conservata a Buttrio (UD) nel parco di Villa Florio, ex Toppo, murata, con altri
reperti di età romana, presso la sponda del laghetto superiore.
28
90
a proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad aQuileia
Fig. 3. Tabula funeraria di Beria
M’.f. e della gens Aratria (da
Zaccaria 2003).
C(aius) Aratrius C(ai) f(ilius),
L(ucius) (Aratrius) C(ai) f(ilius) Aquino,
Beria M(ani) f(ilia),
L(ucius) Aratrius C(ai) f(ilius),
L(ucius) (Aratrius) C(ai) f(ilius),
------.
Come ho già avuto modo di dimostrare, non ci sono dubbi sull’origine
osca della gens Beria, che con ogni probabilità proviene dal centro di Teanum
Sidicinum34.
Diversamente, come noto, l’origo della gens Aratria è discussa35. Essa potrebbe essere cisalpina, se si considera che la presenza dei portatori del gentilizio è
attestata esclusivamente nel settore nord-adriatico e se si interpreta il termine
Aquino, che segue il patronimico del secondo degli Aratrii menzionati, come
un cognome indigeno (celtico?) al nominativo; oppure peninsulare, se si traduce Aquino come un ablativo di provenienza riferito al secondo o piuttosto ad
entrambi i primi due personaggi ricordati (fratelli?), che in tale prospettiva si
sarebbero trasferiti ad Aquileia dalla città laziale di Aquinum36.
Rispetto ad alcuni lavori precedenti, in cui privilegiavo l’origine indigena
della famiglia e ritenevo quindi l’unione fra Lucio Aratrio (cisalpino) e Beria
Origo dei Berii da Teanum Sidicinum (odierna Teano, CE), in Chiabà 2003, 94-95 n. 74.
Sulla questione, vd. Chiabà 2003, 94-95 (che privilegia un’origo cisalpina della famiglia)
e Zaccaria 2003, 313-317 (che propende per un’origine aquinate della gens). Da ultimo,
ritorna sull’interpretazione di Aquino come cognome e non come ablativo del luogo di provenienza, Salomies 2009, 521 n. 28.
36
Non del tutto chiare sono le relazioni che intercorrono tra i quattro individui maschi
della famiglia, che risultano tutti e quattro figli di Gaio, e dei quali il primo porta il prenome
Gaio e gli altri tre lo stesso prenome, Lucio. Zaccaria 2003, 314 avanza l’ipotesi, a mio avviso
convincente, che i primi due personaggi siano fratelli piuttosto che padre e figlio.
34
35
91
monica chiabà
(sidicina) un esempio di matrimonio misto, ci sono alcune importanti novità
di natura archeologica dal centro di Aquinum che mi hanno fatto ripensare alla
questione37.
Indagini di scavo realizzate in una parte del settore occidentale dell’immediato suburbio della città laziale, avviate nel 2004 e portate a compimento nel
2009, hanno messo in evidenza il primo complesso funerario aquinate, datato
alla fine del IV secolo a.C. e connesso al primo assetto della via Latina38. Gli
aspetti strutturali e materiali della necropoli, identici, secondo il parere degli
archeologi, a quelli delle necropoli di Teano Sidicino, hanno confermato gli
stretti rapporti politici, culturali, cultuali, economici e familiari, già ipotizzabili sulla base di alcuni indizi di natura epigrafica e di cultura materiale39, che a
partire dal IV secolo a.C. legano Aquinum a Teanum, e che si possono seguire
per secoli40.
Mi chiedo allora, alla luce delle suddette acquisizioni e considerazioni, se il
controverso Aquino della tabula aquileiese non sia alla fine proprio un ablativo
di provenienza, e di conseguenza se il matrimonio fra L. Aratrius, originario di
Aquinum, e Beria, originaria di Teanum Sidicinum, non derivi da un legame fra
gentes che precede l’immigrazione delle stesse ad Aquileia, e che perdura poi
nella metropoli altoadriatica.
Ringrazio il collega e amico Carlo Molle per la segnalazione e per la bibliografia che
gentilmente mi ha indicato. Lo studioso ha tra l’altro pubblicato un lavoro monografico sulle
fonti letterarie ed epigrafiche della città di Aquinum (Aquino, FR): Molle 2011.
38
Ultimi risultati delle indagini archeologiche in Bellini - Trigona 2011.
39
Coarelli 2007, 27-28. Sulla dedica in osco a Popluna (che rievoca la Popluna sidicina),
vd., da ultimo, Antonini 2008, 30-37.
40
Su Aquinum, ‘città sidicina’, la cui urbanizzazione sarebbe stata promossa e sostenuta
dall’aristocrazia di Teano (sotto il controllo romano): Bellini - Trigona 2011, 489-491.
Sulle relazioni familiari fra i due centri che perdurano ancora ai tempi di Marco Aurelio,
Camodeca 2011, in part. 237.
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92
a proposito dei matrimoni fra indigeni e coloni ad aQuileia
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98
FILIPPO COARELLI
I quaestores classici e la battaglia delle Egadi
Nella storia delle istituzioni politiche romane, il caso della questura è forse il
più intricato e controverso. Ciò dipende in gran parte dall’insufficienza dei testi
che ce ne hanno trasmesso il ricordo, sia relativamente alle origini (che affondano nella storia più antica della città) sia per quanto riguarda le trasformazioni
più rilevanti della magistratura, introdotte in un momento storico (il III secolo
a.C.) le cui vicende ci sono in gran parte sconosciute per la perdita della seconda
decade di Livio.
Non stupisce perciò che la trattatistica moderna abbia assunto nel corso del
tempo (sostanzialmente a partire dalla seconda metà dell’800)1 posizioni del
tutto diverse in merito alla storia e alle funzioni dei questori, senza raggiungere
mai una soluzione generalmente condivisa: del resto, dopo il contributo radicalmente critico di W. Harris2, la discussione sembra essersi arenata in una sorta
di non liquet, in mancanza di qualsiasi elemento di novità suscettibile di aprire
nuovi spiragli di conoscenza3.
Se oggi mi accingo a riprendere il tema è solo perché una recente scoperta
archeologica, rilevante da molti punti di vista, ha introdotto un dato nuovo,
determinante per la soluzione del problema certamente più spinoso: la natura
e le ragioni della riforma che le testimonianze antiche fissano al 267 a.C. Prima
di considerare i nuovi dati, è però opportuno riprendere lo status quaestionis, a
partire dalle poche fonti disponibili.
Mommsen 1887, 523-525, 571-573; De Martino 1973, 241-246.
Harris 1976.
3
Mattingly 1969; Meiggs 1973, 24-25; Harris 1976; Smith 1978; Harris 1979;
Loreto 1993; Cébeillac-Gervasoni 2002; Zevi 2002, 33-35; Steinby 2007, 71-72.
1
2
99
filippo coarelli
L’introduzione della magistratura è variamente attibuita al periodo regio4 o
all’inizio della repubblica5, quando sarebbero esistiti due questori, già da allora
investiti dei poteri finanziari, oltre che giudiziari, che conservarono in seguito
fino alla fine della loro storia. Ciò risulta in primo luogo dal nome stesso, ovvio
esito di quaesitor, il cui significato primario di ‘esattore’ non può essere messo in
dubbio6, come pure la sua funzione di ausiliario dei consoli, che si deduce anche
dal loro numero di due7. Questa funzione sembra confermata anche dalla prima
riforma, attribuita al 401 a.C.8, che ne raddoppiò il numero, verosimilmente
quando i poteri dei consoli divennero prevalentemente militari e richiesero di
conseguenza la creazione di due nuovi questori, accanto ai due precedenti di
carattere urbano.
Quella che qui particolarmente interessa è la successiva riforma, databile nel
corso del III secolo a.C., che è la più controversa. Di essa siamo informati esclusivamente da tre autori: Livio, Tacito e Giovanni Lido9, in base ai quali siamo
anche in grado di fissare la data dell’evento: secondo Livio, «Tunc primum populus R(omanus) argento uti coepit. Umbri et Sallen<ti>ni victi in ditione accepti
sunt. Quaestorum numerus ampliatus est, ut essent <…>» (purtroppo, il numero è
caduto in una lacuna). La notizia segue immediatamente quella relativa all’introduzione a Roma della moneta d’argento e quella sull’assoggettamento dei Sallentini: la prima databile, in base a Plinio10, al 269, la seconda intorno al 264 a.C.11.
Un’informazione più precisa si trova in Giovanni Lido, che indica l’anno
230 (il 243° dall’istituzione dei consoli, secondo la correzione di Mommsen)
e il consolato di «Regulus e Iunius», dove il secondo nome va certamente
corretto in Iulius, e corrisponde quindi al 267 a.C.12: data accettata da tutti che,
Tac. ann. V 34, 6; 96; 7, 53.
Sia Cicerone (rep. II 60) sia Livio (II 41) ne segnalano per la prima volta l’esistenza nel 505
a.C., in relazione al processo di Sp. Cassio. È da notare però che si tratta solo di un terminus ante
quem, che non pregiudica per l’origine una data più antica, in età regia. L’argomento più rilevante contro questa possibilità è che i questori venivano eletti nei comizi tributi (Mommsen
1887, 524-525): ma potrebbe trattarsi di una norma introdotta in un secondo tempo.
6
Quaestor = quaesitor: Ernout - Meillet 1967, 550.
7
Mommsen 1887, 525.
8
Secondo la lettura di Mommsen (1887, 562) di Tac. ann. XI 22.
9
Liv. perioch. XV; Tac. ann. XI 22, 4-6; Lyd. Mag. I 27.
10
Plin. nat. XXXIII 44; Coarelli 2011; Coarelli 2013, 17-29.
11
Plin. loc. cit.; Torelli 1978, 246-247.
12
Mommsen 1887, 570 n. 2.
4
5
100
i qvaestores classici e la battaglia delle egadi
certamente non a caso, coincide quasi esattamente con quella d’introduzione
della moneta d’argento, e quindi potrebbe riferirsi anche a una riorganizzazione
generale dell’Erario.
Più difficile è comprendere il significato della riforma, sulla quale solo Lido
fornisce qualche informazione non generica. Per quanto riguarda il numero di nuovi magistrati (notizia perduta nel testo di Livio) Tacito afferma che
«mox duplicatus numerus»: dunque i nuovi questori sarebbero stati quattro, da
aggiungere ai quattro precedenti. Lido invece indica un numero complessivo di
dodici, notizia che è concordemente respinta dagli autori moderni13. Tuttavia,
prima di accettare tale soluzione, sarà opportuno considerare un altro dettaglio:
Tacito infatti introduce una motivazione sconcertante per spiegare l’aumento
del numero dei questori: «stipendiaria iam Italia et accedentibus provinciarum
vectigalibus». Si è giustamente osservato14 che tali indicazioni contrastano
vistosamente con una data della riforma al 267: in quell’anno infatti l’Italia non
era stipendiaria e non esistevano ancora province.
Questa aporia è stata risolta in due modi: o attribuendola a un errore di
Tacito15 – proposta comunque rischiosa, se si considera l’autorità della fonte
e lo stato lacunoso della documentazione superstite – oppure, recentemente,
abbassando la data agli anni intorno al 22016 – soluzione ancora più discutibile, perchè prescinde del tutto dai dati delle fonti17, ora confermati, almeno per
quanto riguarda la cronologia, dai nuovi documenti cui alludevamo in precedenza e che esamineremo più avanti.
Come si vede, l’impasse è totale. Prima di rassegnarci a un non liquet, tuttavia, ci si deve domandare se non sia possibile pensare a una soluzıone alternativa,
anche se del tutto ipotetıca, che permetta di salvare l’intera serie dei dati ricavabili dalle fonti: tra l’altro, questa possibilità sembra confermata in pieno, almeno
sul piano cronologico, dalla nuova scoperta cui si accennava sopra.
Tra il 267 a.C. e il periodo sillano (quando il numero dei questori fu portato
a venti) corre un ampio spazio cronologico, nel corso del quale è teoricamenAd. es., Harris 1976.
Mommsen 1887, 527-528; Harris 1976.
15
Ibid.
16
Loreto 1993.
17
Cébeillac-Gervasoni 2002; Càssola 1962, 179, che collega giustamente l’istituzione dei quaestores classici con la preparazione della prima guerra punica.
13
14
101
filippo coarelli
te possibile collocare un’eventuale riforma intermedia, non attestata dai testi
superstiti: le contraddizıoni che in questi appaiono potrebbero allora dipendere, oltre che dalla loro estrema sinteticità, dall’esistenza di una tale riforma,
introdotta tra quella del 267 e quella dell’80 a.C. Ciò permetterebbe di spiegare i due ‘errori’ di Giovanni Lido e di Tacito: il numero di dodici questori nel
primo andrebbe in tal caso attribuito a una riforma successiva, mentre l’allusione del secondo all’Italia stipendiaria e ai provinciarum vectigalia permetterebbe
di fissarne la data a un periodo successivo al 227 a.C. e anteriore al 218 (quando
ricomincia il testo conservato di Livio, che certo non avrebbe taciuto una novità
di questa portata) oppure successiva al 167 (definitiva interruzione del testo di
Livio). Anche Mommsen18 si riferisce a una tale possibilità, quando ritiene verosimile che la creazione di nuove province e di nuovi pretori avvenuta nel corso
del III e del II secolo abbia provocato un aumento progressivo anche del numero
dei questori, concluso con la riforma di Silla, che li portò a venti.
Comunque, in assenza di qualsiasi testimonianza ulteriore, tale soluzione
deve restare ipotetica. Possiamo almeno riconoscere, sulla base dei nuovi dati,
che l’abbassamento al 220 circa della riforma che Giovanni Lido e Livio attribuiscono al 267, proposto da Loreto, non è sostenibile.
Veniamo ora alla nuova documentazione19. Si tratta della scoperta, avvenuta
a partire dal 2004, di parti di navi militari (in particolare dei rostri) affondate
certamente nel corso della battaglia delle Egadi, che concluse, nel 241 a.C., la
prima guerra punica. Di questi relitti facevano parte anche alcuni elmi (sette)
di tipo ‘Montefortino’20, che confermano la datazione proposta: si tratta infatti del tipo più recente (fig. 1 D)21, caratterizzato da una forma ad ogiva molto
allungata e da paragnatidi dotate di incassi accentuati, databile con certezza alla
seconda metà del III secolo a.C.
È interessante il confronto con alcuni elmi identici, recuperati nelle acque
antistanti ad Eraclea e conservati nel Museo archeologico di Agrigento22: si tratta certamente di relitti di una delle tante battaglie o dei naufragi avvenuti lungo
la costa della Sicilia meridionale nel corso della prima guerra punica.
Mommsen 1887, 527.
Tusa 2005; Tusa 2010; Tusa 2012; Tusa - Royal 2012; Gnoli 2011; Gnoli 2012;
Gnoli 2012a; Gnoli c.d.s.
20
Tusa - Royal 2012, 25-28.
21
Coarelli 1976.
22
Castellana 2006, 122, fig. 76 (sala XIV).
18
19
102
i qvaestores classici e la battaglia delle egadi
Ma veniamo ai reperti che riguardano direttamente il nostro argomento: si
tratta di cinque rostri di bronzo (oltre a quelli anepigrafi), ognuno dotato di
un’iscrizione in latino, incisa sul taglio superiore del fendente23:
1.
C. SESTIO P.F.
Q. SALONIO Q.[F.]
SEXVIROEN[…]
PROBAVE[RE]
2.
M. POPVLICIO L.F.
Q. P.
C. PAPERIO TI.F.
3.
C. PAPERIO. TI.F.
Q. P.
M. POPVLICIO. L.F.
4.
5.
??---------S. C. QVAISTOR. PROBAVET
L. QVINCTIO L.F. QVAISTOR PROBAVET
In 1 (fig. 2), 2 e 3 (fig. 3) l’iscrizione è a rilievo; in 4 e 5 incisa. Nei rostri 2 e
3, prima delle iscrizioni, è rappresentata a rilievo una Vittoria; in 1, lateralmente, si trovano quattro rosette, mentre in 4 e 5, sempre al di sopra dell’iscrizione,
si riconosce un elmo del tipo D, sormontato da tre penne. A parte questo, le
cinque iscrizioni sono sostanzialmente simili in tutti gli aspetti, e quindi coeve24:
non possono esservi dubbi sulla coerenza del ritrovamento, e quindi sulla sua
pertinenza a un unico evento che, data la sua posizione geografica, non può che
identificarsi con la battaglia delle Egadi del 241 a.C., come giustamente è stato
stabilito dagli editori. Le caratteristiche morfologiche e paleografiche appaiono perfettamente coerenti con una tale cronologia: per le prime, il nominativo della seconda declinazione in –o, le forme verbali (probavet per probavit), la
mancata assimilazione di Populicio (per Publicius), il dittongo ai per ae (quaistor
Si veda soprattutto Gnoli 2012, 79-113; Gnoli 2012a.
Non è accettabile la distinzione in tre fasi cronologicamente successive, proposta in
Gnoli 2012 (84-85): si tratta in realtà di leggere varianti, attribuibili certamente alla presenza
di diverse maestranze.
23
24
103
filippo coarelli
per quaestor); per le seconde, la Q con traversa brevissima, la P aperta e ad angoli
retti, la R con barra inferiore breve, la L ad uncino. Appare evidente, ad esempio,
la vicinanza a iscrizioni come quella funeraria del figlio di Scipione Barbato25,
databile intorno al 230 a.C.
L’analisi prosopografica dei nomi conservati, appartenenti ad altrettanti
questori del 241 o degli anni immediatamente precedenti, può dare solo risultati parziali, tenuto conto della scarsa conoscenza per questo periodo dei magistrati minori, a causa della perdita di Livio. Tuttavia, possiamo supporre che
qualcuno dei personaggi in questione abbia percorso in seguito una carriera
ulteriore, pervenendo ai più alti gradi delle magistrature, dei quali ci è rimasta
testimonianza.
Nel caso di Q. Salonius e di C. Sestius questa possibilità non si verifica. Un
figlio del primo potrebbe essere Q. Salonius Sarra, pretore di Sardegna nel 192
a.C.26. Per C. Papirius Ti.f. si può almeno proporre un contesto familiare: conosciamo infatti un C. Papirius L.f. Maso, decemvir sacrorum, morto nel 213 a.C.27
e un C. Papirius C.f., C.n. Maso, console nel 231, che nel 241 è legato (?) di
Q. Lutatius Cerco nel corso della guerra contro Falerii28: sembra interessante in
questo caso il collegamento di un Papirius con il fratello del C. Lutatius Catulus,
console del 242, vincitore alle Egadi. In ambedue questi casi, tuttavia, la filiazione è diversa: il prenome Tiberius non è attestato per i Papirii Masones, e appare
solo, ma molto prima, per i Papirii Crassi: si tratta di Ti. Papirius Crassus, trib.
procos. nel 380 a.C.29.
Più interessante è il caso di M. Publicius L.f.: conosciamo infatti un personaggio omonimo, M. Publicius L.f. Malleolus30, edile31 insieme al fratello L. Publicius L.f. Malleolus32, nel 241 o piuttosto nel 238 a.C.33 Solo per il primo è nota
una carica successiva, il consolato del 232 a.C. Sembra dunque molto proba-
CIL, I2 2834; Coarelli 1972; Gnoli 2012, 85.
Broughton 1951-52, I, 350.
27
RE, s.v. Papirius 58; Broughton 1951-52, I, 266.
28
RE, s.v. Papirius 57; Broughton 1951-52, I, 220, 225.
29
RE, s.v. Papirius 50; Broughton 1951-52, I, 105.
30
RE, s.v. Publicius 22; Broughton 1951-52, I, 219.
31
Si tratta di edilità plebea secondo Varro ling. V 158: Cf. Ov. fast. V 283-284; curule secondo Tac. ann. II 49, 1.
32
RE, s.v. Publicius 20; Broughton 1951-52, I, 219.
33
241: Vell. I 14, 8; 238: Plin. nat. XVIII 286.
25
26
104
i qvaestores classici e la battaglia delle egadi
bile, per la corrispondenza del prenome e della filiazione (oltre, beninteso, alla
compatibilità cronologica) che si tratti del questore il cui nome appare in uno
dei rostri, che quindi avrà occupato la carica nel 241, o forse l’anno precedente:
ciò che, tra l’altro, sembrerebbe confermare la data del 238, fornita da Plinio per
l’edilità.
Per il L. Quinctius L.f. non c’è molto da dire. L’unica possibilità, sulla base
dei dati prosopografici noti, è che possa trattarsi del padre di T. Quinctius L.f
L.n. Crispinus, legato nel 213-212, pretore nel 209 e console nel 20834.
Comunque, il dato che più ci interessa è la menzione di cinque questori, in
un contesto navale attribuibile a un periodo di pochi anni posteriore alla riforma
del 267. L’indicazione abbreviata Q. appare due volte, confermata da due casi
in cui essa appare scritta per esteso: quaistor. Va quindi respinto lo scioglimento
q(uaestoria) p(otestate) proposto da Gnoli, in alternativa all’evidente q(uaistor)
p(robavit). L’indicazione della probatio è quindi in due casi abbreviata P., scritta
per esteso in altri due.
Qualche problema di lettura pone solo l’iscrizione n. 1, che richiede un
esame più approfondito. La lettura SEXVIROEN non dà senso. Gnoli35 propone la restituzione sexvir{i} en(bolum), identificando in enbolum lo stesso rostro,
sottoposto alla probatio dei questori. Tuttavia del tutto anomala sarebbe la
presenza, in luogo di questi ultimi, di un ignoto sevirato, che Gnoli tenta di
spiegare tramite un’improbabile evocazione dei seviri Augustales36. Teoricamente, si potrebbe pensare a una magistratura di carattere straordinario, analoga ad
altre che riscontriamo saltuariamente in età repubblicana: ma si tratta sempre
di un numero minore di membri, in genere da due a cinque. Nel nostro caso,
ci sarebbe anche da spiegare la sostituzione dei questori, attestati negli altri tre
esempi contemporanei, con un collegio straordinario di seviri. In realtà sembra
più probabile postulare che si tratti non di un’entità diversa, ma semplicemente
dell’associazione di un gruppo di magistrati già esistenti, riuniti per uno scopo
particolare.
Tutto ciò induce a riconsiderare il testo dell’iscrizione, piuttosto mal conservato nel punto cruciale, dove la lettura della parte iniziale e di quella finale non
sembra dubbia: sexvir(i) e en[bolum] probave[re]. Resta da spiegare la lettera
interposta, letta come O.
RE, s.v. Quinctius 38; Broughton 1951-52, I, 265, 286, 289.
Gnoli 2012, 81-83; Gnoli 2012a.
36
Gnoli 2012, 97-114.
34
35
105
filippo coarelli
La forma della Q, che appare più volte nelle altre epigrafi, è caratterizzata
da una traversa inferiore brevissima: così, anche senza un controllo autoptico,
appare evidente la possibilità che non si tratti di una O, ma di una Q. In tal caso,
la lettura sarebbe la seguente: sexvir(i) q(uaistores) en[bolum] probave[ront].
Si tratterebbe quindi di un gruppo di questori composto di sei membri, a cui
apparterrebbero i due menzionati in precedenza.
Dall’insieme di tutte queste testimonianze sembra emergere la competenza esclusiva dei questori nell’operazione di probatio indicata nei cinque rostri
iscritti: sia di singoli (nrr. 4-5), sia di coppie (nrr. 2-3), sia infine di coppie appartenenti a un collegio di sei magistrati (nr. 1). Da quest’ultima testimonianza
ricaviamo un primo dato importante: al più tardi nel 241 a.C. sembra attestato
un numero di questori non inferiore a sei, anzi certamente superiore a questa
cifra, dal momento che dobbiamo postulare l’esistenza di altri due di essi, destinati alle funzioni urbane. Risulta così definitivamente provato che l’incremento
del numero di questi magistrati (da quattro a otto, almeno in un primo tempo)
risale a prima di tale data, e quindi certamente al 267, epoca indicata dalla tradizione antica. Ciò permette di escludere definitivamente l’ipotesi di L. Loreto.
Il numero di sei (corrispondente alla totalità dei questori non urbani) potrebbe spiegarsi con l’incorporazione in un unico collegio dei sei magistrati ‘militari’, già esistenti in seguito alla riforma del 267. Non è del tutto da escludere,
tuttavia, che in seguito il numero fosse aumentato, per le esigenze connesse con
la creazione delle prime province: un incremento è possibile infatti se si accetta
la notizia di Giovanni Lido, che parla di dodici questori: ciò che permetterebbe di spiegare anche il collegamento di Tacito con l’Italia stipendiaria e con i
provinciarum vectigalia.
Ma il dato più rilevante che emerge dalla nuova documentazione è un altro:
l’esistenza di questori (da identificare certamente con quelli aggiunti nel 267)
con una specifica competenza ‘navale’.
Questa possibilità, più volte evocata a partire dal testo di Lido37, è stata categoricamente esclusa da W. Harris38, che ritiene che i nuovi questori non avessero
alcun rapporto con la flotta. Ma una tale funzione sembra risultare dall’esistenza
di un quaestor Ostiensis, le cui competenze originarie non potevano essere quelle, di carattere annonario, emerse certamente in seguito39: vari autori hanno in
Ad es., Càssola 1962, 179.
Harris 1976.
39
Cébeillac-Gervasoni 2002.
37
38
106
i qvaestores classici e la battaglia delle egadi
effetti rivalutato il rapporto originario con la flotta40, anche se mancavano fino
ad oggi dati suscettibili di confermare definitivamente questa possibilità.
È quindi necessario, prima di ogni altra considerazione, riprendere l’analisi
dell’unico testo, che accenna esplicitamente all’originaria funzione navale dei
nuovi questori introdotti nel 26741:
τῷ δὲ τρίτῳ καὶ τεσσαρακοστῷ καὶ διακοσιοστῷ τῶν ὑπάτων ἐνιαυτῷ ἐπὶ τῆς ὑπατείας
Ῥηγούλου καὶ Ἰουνίου κρινάντων Ῥωμαίων πολεμεῖν τοῖς συμμαχήσασι Πύρρῳ τῷ
Ἠπειρώτῃ κατεσκευάσθη στόλος καὶ προεβλήθησαν οἱ καλούμενοι κλασσικοὶ, οἱονεὶ
ναυάρχαι, τῷ ἀριθμῷ δυοκαίδεκα κυαίστωρες, οἷον ταμίαι καὶ συναγωγεῖς χρημάτων.
La «guerra contro gli alleati di Pirro» è quella contro i Sallentini42, che
fu seguita dalla fondazione della colonia di Brindisi. Venne allora creata una
flotta (stolos) e, in relazione con questa, quaestores classici (interpretati da Lido
come comandanti navali, «navarchi»). Questa caratteristica ‘navale’ dei nuovi
questori, accettata in un primo tempo da Mommsen, ma nel senso di magistrati incaricati della costruzione della flotta, è stata, come sappiamo, negata, in
particolare da Harris43. Tuttavia, l’esplicita affermazione di Lido difficilmente
può essere stata inventata di sana pianta, anche se è certamente errata la natura
di ‘comandanti navali’ dei nuovi magistrati, che mal si concilia con le normali
funzioni dei questori, sempre di carattere finanziario (funzione che comunque è
menzionata anche da Giovanni Lido)44.
Non resta che aderire all’interpretazione di Mommsen, che conferma il ruolo
amministrativo, ma precisa che in questo caso esso doveva consistere essenzialmente nel riunire i contingenti di navi e di uomini degli alleati45. In conclusione,
la flotta creata nel 267 richiedeva la presenza di una nuova figura istituzionale,
cui affidare gli aspetti finanziari e organizzativi che una tale operazione ovviamente imponeva, come riconosce opportunamente Ch. Steinby46. Ciò permette
Càssola, loc. cit.; Meiggs 1973, 25-26; Zevi 2002; Steinby 2007, 71- 72.
Lyd. Mag. I 27, con le correzioni di Mommsen 1887, 570-571 n. 1.
42
Zonar. VIII 7, 3. Le altre fonti in Torelli 1978, 247-248.
43
Harris 1976.
44
Così giustamente Gnoli 2012, 91.
45
Mommsen 1887, 572.
46
Steinby 2007, 72: «The new quaestores were probably involved in preparing the fleet. At
this time, Rome had several cities supplying ships. It is therefore very plausible that the Romans
needed officials to supervise the work of maintaining and equipping ships».
40
41
107
filippo coarelli
tra l’altro di spiegare la destinazione a Ostia di uno dei questori, che in questo
periodo non poteva esercitare quella che sarà in seguito la sua funzione principale, il controllo dell’approvvigionamento di Roma47. L’unica ragione possibile
della sua presenza nel porto negli anni che precedono la prima guerra punica
può essere solo la necessità di occuparsi della flotta militare: ovviamente, si
trattava essenzialmente di amministrazione, non di comando militare. Non ha
quindi alcun senso la pretesa contraddizione con i duoviri navales, introdotti nel
311, che sono probabilmente comandanti militari48.
I nuovi documenti epigrafici permettono ora di risolvere il problema nel
modo più soddisfacente, fornendoci una serie di dati di notevole ricchezza e
complessità, che ora vanno riconsiderati. Da essi si deduce:
1. l’associazione probabile dei questori in un collegio di sei membri, sexviri
q(uaestores), che però in pratica operavano in gruppi di due;
2. la presenza di coppie di questori per i quali non è indicata l’appartenenza a un
collegio di seviri;
3. l’azione di un questore isolato.
In mancanza di altri dati, non è possibile chiarire fino in fondo le ragioni di
queste discrepanze: se siamo in presenza cioè di un’articolazione di carattere
cronologico, oppure semplicemente funzionale. Si può ipotizzare anche che,
nell’iscrizione 2, si possa trattare solo di un’omissione e che anche in questo
caso le coppie indicate facessero parte di un collegio di sei membri, non indicato
per brevità. Se è così, la menzione esplicita del sevirato potrebbe riferirsi a un
momento iniziale della nuova organizzazione. D’altra parte, è anche possibile
che i rostri conservati non appartenessero tutti esattamente allo stesso momento
cronologico: anche se nel 241 venne creata una nuova flotta, è presumibile che
le parti metalliche dell’equipaggiamento, come i rostri, potessero venir riutilizzate per nuove imbarcazioni.
Le varie coppie di questori dovrebbero infatti appartenere a momenti successivi, e la menzione della stessa coppia in due rostri diversi potrebbe essere indice
di un’attività più intensa, da attribuire forse allo stesso 242-241. Quanto all’indicazione di un solo magistrato, si potrebbe pensare a una soluzione di ripiego,
spiegabile con la necessità di procedere rapidamente all’armamento di un gran
Sulle mansioni del questore ostiense si veda Meiggs 1973, e recentemente, Zevi 2002;
Cébeillac-Gervasoni 2002.
48
Liv. IX 30, 4. Steinby 2007, 60-63.
47
108
i qvaestores classici e la battaglia delle egadi
numero di navi. Se questa spiegazione fosse accettabile, l’ordine cronologico
delle epigrafi sarebbe 1, 2, 3, 4, 5. Naturalmente, altre soluzioni sono possibili.
Il dato essenziale è comunque la prova dell’intervento dei questori nell’attività navale poco dopo il 267, negli ultimi anni della prima guerra punica.
Quanto alla loro funzione, essa risulta chiaramente dalla formula utilizzata, che
menziona sistematicamente la probatio: i magistrati avevano dunque il compito
di collaudare le navi, piuttosto che i soli rostri: la seconda possibilità risulterebbe infatti solo dall’integrazione en(bolum), tutt’altro che sicura. La scelta dei
rostri può spiegarsi, a mio avviso, con la particolare visibilità e solidità di questo
supporto.
Tale operazione di probatio, che è testimoniata in età repubblicana da un gran
numero di iscrizioni, si riscontra principalmente nell’attività edilizia di carattere
pubblico. Ciò permette anche di chiarire il sistema utilizzato per l’armamento
delle grandi flotte di questo periodo: come era facile prevedere, i cantieri erano
affidati, previo appalto, a imprese private, ciò che richiedeva necessariamente la
cura e il collaudo finale (probatio) di un magistrato, in questo caso del questore.
Si tratta quindi di operazioni di carattere finanziario, che presuppongono
un largo impiego di moneta: ciò che contribuisce a spiegare il contemporaneo
inizio della coniazione dell’argento (da identificare certamente con il quadrigato) a partire dal 269, due anni prima dell’introduzione dei quaestores classici49.
Il rifiuto di accettare questo dato è all’origine di affermazioni aberranti, come
quella che fissa a 1/70 il rapporto tra la quantità della moneta argentea romana
coniata nel corso della prima guerra punica rispetto a quella cartaginese50.
In realtà, le necessità di finanziamento imposte dalla prima guerra punica –
in particolare per l’armamento di numerose, costosissime flotte di quinqueremi
– rendono del tutto inaccettabile un calcolo del genere. Purtroppo, la perdita
totale della tradizione annalistica relativa al III secolo (solo assai parzialmente
sostituita dal riassunto di Polibio) non permette di ricostruire nel dettaglio la
storia economica del periodo, come è stato possibile fare per la seconda guerra
punica51. Tuttavia, informazioni in merito non sono del tutto assenti: ad esempio, l’attestazione di un prestito richiesto dallo stato ai privati per finanziare la
Coarelli 2013.
Burnett 1989, 45.
51
Marchetti 1978.
49
50
109
filippo coarelli
nuova flotta52, poi vittoriosa alle Egadi, cui appartengono i rostri qui esaminati.
A tale prestito va probabilmente collegata la prima riduzione ponderale, quella
semilibrale, dell’asse, che ritengo databile agli anni immediatamente anteriori
al 24153 .
In conclusione, i nuovi documenti epigrafici, oltre a risolvere l’annoso problema della riforma del 267 a.C., permettono di aprire uno spiraglio sulla storia
economica e finanziaria di Roma nel corso del III secolo a.C., la cui importanza
è solo pari alla scarsità della documentazione disponibile.
Opportunamente evocato da Gnoli 2012, 94-95: Polyb. I 59, 6-7. Coarelli 2013, 78,
130-131, 142.
53
Coarelli 2013, 115-139.
52
110
i qvaestores classici e la battaglia delle egadi
Fig. 1. Serie cronologica degli elmi tipo “Montefortino”.
Fig. 2. Apografo dell’iscrizione 1.
Fig. 3. Apografo dell’iscrizione 3.
111
filippo coarelli
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114
GIOVANNELLA CRESCI MARRONE
ANNA MARINETTI
Messaggio iscritto e modelli di romanizzazione:
il caso di Montebelluna*
1. Montebelluna: la documentazione epigrafica
Il sito di Montebelluna si colloca nell’alta pianura trevigiana, in corrispondenza di un rilievo a sud-est del complesso del Montello. Il centro antico, situato
nell’area collinare e pedecollinare, si forma a partire dal IX sec. a.C. e conosce
un notevole sviluppo nelle epoche successive, dalla piena Età del ferro alla fase
romana. Allo stato attuale, le evidenze documentarie provano che Montebelluna doveva costituire uno fra i più importanti centri della cultura veneta; la
rilevanza del sito è probabilmente da mettere in rapporto con la sua collocazione topografica, in prossimità dello sbocco della valle del Piave, all’incrocio
di direttrici di collegamento sia nell’asse sud-nord, tra la pianura veneta e l’area
prealpina ed alpina, sia nell’asse est-ovest, tra il Veronese e il Veneto orientale.
La recente pubblicazione del volume Carta geomorfologica e archeologica
del Comune di Montebelluna1 ha fornito l’occasione non solo per un generale
apporto di nuove conoscenze a proposito del sito in età antica, ma anche per
un aggiornamento della realtà documentaria. Ci appuntiamo qui in particolare
sulla documentazione di ambito funerario che, in età di romanizzazione e in età
* Ci è gradita l’occasione per offrire all’amico e Maestro Gino Bandelli questo breve contributo ad un tema a lui molto caro, i processi della romanizzazione in area veneta; da lui molto
abbiamo appreso nel corso di un dialogo scientifico pluriennale, che ci auguriamo prosegua,
condito dal sale della sua intelligenza e dallo zucchero della comune amicizia.
1
Carta geomorfologica 2012.
115
giovannella cresci marrone - anna marinetti
romana, risulta oggetto di particolare interesse in quanto registra la presenza del
messaggio iscritto2.
I due principali nuclei sepolcrali sono costituiti dalle necropoli di Posmon e
di S. Maria in Colle, disposte entrambe lungo il dosso collinare, che si interpongono tra due aree di abitato collocate rispettivamente a nord (area sommitale
di Mercato Vecchio e, in parte, nella stessa zona di S. Maria in Colle), e a sud
alle pendici della collina; più ad est, la località Caonada ha restituito 32 tombe
di età romana, mentre altre tombe isolate sono state rinvenute anche in contesti di abitato e in aree di pianura. Pare opportuno premettere che la situazione
si prospetta di difficile decodificazione: da una parte l’articolazione delle aree
necropolari è caratterizzata da differenti situazioni contestuali e da una pluralità
di poli ubicativi; dall’altra il complesso dei materiali costituisce la risultanza di
recuperi scanditi nel tempo3 e dunque con modalità disomogenee: dai ritrovamenti occasionali tra metà Ottocento e metà Novecento, alle indagini e agli
scavi regolari condotti tra il 1953 e il 1969, ben documentati ma non caratterizzati da moderne metodiche stratigrafiche, fino ai consistenti ritrovamenti
avvenuti negli ultimi decenni, puntualmente e rigorosamente documentati; tali
nuove accessioni si prospettano come molto promettenti sotto il profilo quantitativo e qualitativo ma risultano per ora oggetto di solo parziale pubblicazione4.
Si registra inoltre un’elevata dispersione conservativa, conseguente anche alla
costituzione di collezioni private nel corso dell’Ottocento5.
I sepolcreti di Montebelluna sembrano connotati da un excursus cronologico
amplissimo, che si protrae dal VII sec. a.C. fino al I sec. d.C. e hanno restituito
un elevato numero di tombe, quasi tutte a cremazione diretta o indiretta, da
Cresci Marrone - Marinetti 2012, 225-232 di cui si ripropongono qui alcune
considerazioni in forma ampliata.
3
Per una ricostruzione della storia degli studi e i frutti della ricerca di archivio De Min
2012, 49-51.
4
Vd. Pusilai 2000 ove sono illustrati i corredi di alcune tombe del sepolcreto di Caonada e
di S. Maria in Colle; sul profilo solo preliminare della pubblicazione delle tombe del sepolcreto
di Posmon e sulla selezione (tombe 201, 282, 417, 100, 174) ispirata da esigenze soprattutto di
tipo conservativo vd. Casagrande (- Larese) 2012, 175.
5
I reperti sono in parte conservati a Treviso presso il Museo di Santa Caterina, altri sono
esposti presso il Museo Civico di Montebelluna, ma un numero cospicuo è ancora depositato
nei magazzini dello stesso museo e in quelli della Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Veneto.
2
116
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
cui deriva un impressionante numero di materiali di corredo6. I recuperi più
imponenti si devono agli scavi condotti in località Posmon tra gli anni 1997
e 2012; qui, in via Cima Mandria, sono state riportate alla luce oltre trecento
sepolture, delle quali circa duecento pertinenti all’Età del ferro7, e 129 del periodo compreso tra la romanizzazione e la piena età imperiale (II a.C.-III d.C.)8.
La documentazione epigrafica funeraria di Montebelluna − alla quale riferiamo, per stretta prossimità geografica, anche alcuni epitaffi di analoga tipologia, provenienti dalla vicina località di Covolo di Pederobba9 − comprende
attualmente oltre una trentina di iscrizioni (riportate qui nell’Appendice), cui
si associa un numero molto cospicuo di inediti10, che presumibilmente porta
ad un complesso di circa un centinaio di testi. Si tratta per la maggior parte di
epitaffi sui vasi che contenevano i resti combusti del defunto, e minoritariamente di attestazioni di proprietà su altri oggetti (coppe, patere, etc.) di corredo. La
datazione delle iscrizioni, sulla base dei dati archeologici, non risale ad epoca
precedente alla fine del II-inizio del I secolo a.C.
Gli epitaffi sono redatti sia in alfabeto e lingua venetica, sia in alfabeto e lingua
latina, con forme di incrocio e sovrapposizione di aspetti grafici e linguistici. La
cronologia così avanzata delle prime attestazioni propone una questione, che
sarà da approfondire, legata alla pratica della scrittura: la presenza di iscrizioni venetiche, alcune delle quali pienamente inserite nel solco di una tradizione
grafica locale, e prive di forme di interferenza con il latino, farebbe ipotizzare
in fase veneta una già radicata consuetudine con la scrittura, di cui tuttavia non
abbiamo alcuna traccia documentale. Nessuna delle sepolture dell’Età del ferro
finora edite11 ha restituito iscrizioni venetiche e, se pur la cautela è d’obbligo
data l’ampiezza di quanto è ancora inedito, il dato è particolarmente significativo; va peraltro precisato che l’assenza di iscrizioni venetiche anteriori al II sec.
Per un inquadramento generale delle necropoli d’età del ferro vd. Tomaello 2012,
138-146, per quelle di età romana Casagrande - Larese 2012, 163-224.
7
Carta geomorfologica 2012, 374-375, sch. 52.
8
Carta geomorfologica 2012, 376-377, sch. 53.
9
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I, 404-426; nuove letture da parte di Luciani 2007;
cf. anche Luciani 2012, 58-59.
10
Si tratta delle iscrizioni presenti nelle tombe non ancora pubblicate di Posmon-via Cima
Mandria. Le ricognizioni effettuate nei depositi dove sono conservati i materiali ci consente di
quantificare l’inedito, anche se con qualche approssimazione.
11
Cf. in particolare Manessi - Nascimbene 2003; Locatelli 2003.
6
117
giovannella cresci marrone - anna marinetti
a.C. può essere correlata, oltre che alla casualità dei ritrovamenti, ad una tradizione d’uso in rapporto a specifiche classi di materiali: la pratica dell’epitaffio su
ossuario (che, ad esempio, a Padova è del tutto sconosciuto) nella stessa Este non
è documentata prima della fine del III a.C., mentre in precedenza la menzione del defunto è affidata a monumenti esterni, quali cippi, stele, ciottoloni di
pietra, che Montebelluna non ha restituito. L’assenza, per ora, di aree di culto −
da cui, nel Veneto, proviene buona parte dell’epigrafia locale − impedisce anche
la possibilità di valutare appieno la consistenza di tradizione scrittoria in area,
tradizione che peraltro va posta come necessaria precondizione alla produzione
di iscrizioni venetiche: se − quale ipotesi astratta − la sollecitazione alla scrittura fosse sorta dal contatto con la romanità, come la tardissima cronologia delle
iscrizioni venetiche potrebbe far supporre, è verosimile che sarebbe stato utilizzato direttamente l’alfabeto latino.
2. I problemi di esegesi del messaggio iscritto: prime considerazioni12
La pratica della scrittura in tomba in età di romanizzazione è fenomeno ben
noto in area veneta. Si tratta, sotto il profilo rituale, di epigrafia cosiddetta ‘cieca’
che è destinata, cioè, ad essere visionata solo nell’occasione della deposizione
delle ceneri e in quella delle eventuali riaperture del sepolcro occasionate dall’immissione di nuove accessioni funerarie13; non sembra, dunque, svolgere né la
funzione di riconoscimento del sepolcro, affidato evidentemente ad altri segnalatori, né di ostentazione memoriale verso l’esterno, come invece di prassi per il
mondo romano. A Montebelluna, se si eccettuano i bolli presenti sui manufatti
ceramici utilizzati nei corredi (quindi un messaggio seriale che si potrebbe definire accidentale rispetto al contesto funerario), l’espressione scritta intenzionale
si sostanzia quasi esclusivamente in graffiti a freddo, o d’uso o vergati per l’occasione; i primi sono apposti per segnalarne la proprietà su stoviglie (soprattutto
ciotole) abitualmente impiegate per i pasti e utilizzate poi come coperchi del
cinerario, i secondi sono invece scritti su alcune olle-ossuario, ma non su tutte.
Quanto si dirà in seguito costituisce una valutazione preliminare, condotta esclusivamente sulla base dell’edito. Cf. nn. 7, 8, 10.
13
Sulla pratica della riapertura del sepolcro per l’inserimento di nuovi vasi ossuario ancora in
età di romanizzazione vd. Chieco Bianchi - Calzavara Capuis 1985, 252-264; Gamba
1987; Gambacurta 1999; Capuis - Chieco Bianchi 2006, 27-294, 301-319.
12
118
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
Un primo problema che si prospetta, dunque, meritevole di approfondimento, è rappresentato, qui come altrove, dalla selettività del messaggio funerario.
È necessario domandarsi, infatti, le motivazioni che indussero, all’interno di
sepolture multiple, a dotare d’iscrizione solo i cinerari di alcuni soggetti; si tratta di una prassi comune, condivisa anche in altre situazioni. Per un confronto,
si può richiamare il caso della necropoli Benvenuti di Este14: qui la tomba 123
(prima metà III-inizi I sec. a.C.) comprende 10 ossuari, di cui solo 4 iscritti (in
due casi, con epitaffi riferiti a due defunti); la più tarda tomba 125 (fine II-I sec.
a.C.) contiene 21 ossuari, di cui 10 con iscrizione.
Nella casistica di Montebelluna, per limitarsi alle evidenze documentarie
di recente pubblicazione del sepolcreto di Posmon, nella tomba 201 (databile
alla fine del I sec. a.C.) due risultano le olle-ossuario all’incirca coeve contenute
nell’anfora segata che ospita anche gli oggetti di corredo, ma solo una conserva
memoria del titolare della deposizione, esprimendone il nome (verosimilmente)
in genitivo: Ti(beri) V^et^ûri. Un rapporto parentale fra i due soggetti deposti,
entrambi maschili, è altamente probabile e la selettività della memoria scritta
potrebbe dipendere da scelte personali, da fattori di ordine sociale, dall’acquisizione di nuovi comportamenti collettivi15.
Più complessa si presenta invece la situazione quando le deposizioni nel sepolcro si presentano più numerose; è questo il caso della tomba 282, databile all’età
tardo-augustea/proto-tiberiana in cui solo un’olla, fra i dieci contenitori di ceneri presenti nella sepoltura e compresi in un compasso cronologico assai ristretto,
esibisce un testo graffito: Secundo M(arci) Horati16. In tale contesto il dato si rivela
assai significativo perché si qualifica come una vistosa caratterizzazione nell’ambito della tradizione familiare, e potrebbe derivare dal rapporto di dipendenza che
il titolare della sepoltura intrattenne con la gens Horatia, una delle più eminenti
in zona dal momento che espresse un magistrato locale di segnalata carriera17.
Capuis - Chieco Bianchi 2006.
Per l’esame complessivo della tomba e degli oggetti di corredo vd. (Casagrande -)
Larese 2012, 180-182; per l’iscrizione Cresci Marrone (- Marinetti) 2012, 226.
16
Per l’esame complessivo della tomba e degli oggetti di corredo vd. (Casagrande -)
Larese 2012, 182-193; per l’iscrizione Cresci Marrone (- Marinetti) 2012, 227.
17
Si tratta di Lucio Orazio Longo, che fu a Roma tribuno della seconda coorte dei vigili e
ricevette il tributo onorifico di due liberti pubblici, Caio Publicio Anterote e Lucio Publicio
Perenne, che forse collaborarono con lui al tempo della magistratura municipale. L’iscrizione
in cui è menzionato, ancora inedita, proviene dalla tomba 339 della Frazione Posmon, Lotto 9.
14
15
119
giovannella cresci marrone - anna marinetti
Un secondo tema su cui sembra necessario far convergere le ricerche future riguarda la presenza nello stesso cinerario di formule onomastiche plurime;
tale fenomeno risulta numericamente non episodico e potrebbe dipendere sia
dall’inserimento in uno stesso contenitore dei resti combusti di più defunti,
secondo la prassi rituale documentata in area veneta della commistione delle
ceneri18, sia rispecchiare la dialettica dedicante/dedicatario. Nel caso, ad esempio, della dedica sepolcrale con la dicitura Ostia Samnio (tomba 174: cf. avanti)
si dimostrano percorribili almeno tre scenari interpretativi19: il primo prospetta l’ascrizione del cinerario a un’unica donna che avrebbe esibito una formula
onomastica binomia, il secondo delinea la compresenza nello stesso ossuario dei
resti di due soggetti (uno femminile, Ostia, e uno maschile, Samnius o Samnio)
ricordati con formula onomastica monomia, il terzo ipotizza la predisposizione dell’offerta al titolare della sepoltura per iniziativa della donna (Ostia per
Samnius). Decisive in tal senso si dovrebbero rivelare le risultanze delle indagini
osteologiche, il cui contributo di chiarimento e di conoscenza per la ricostruzione delle microstorie degli antichi abitanti del sito sembra imprescindibile20.
Un altro aspetto stimolante ma problematico dei titoli sepolcrali di Montebelluna riguarda una loro connotazione evidente, cioè la commistione tra
elemento indigeno ed elemento romano ad ogni livello del messaggio iscritto
- alfabeto, lingua, testo; la selezione e la distribuzione dei due codici assumono
talora, tuttavia, percorsi in parte inaspettati, soprattutto se confrontati con le
trafile più lineari che connotano le esperienze di altre aree, a partire da Este, ove
la transizione vede una gradualità scandita in senso unidirezionale, dal venetico
al latino. Saranno forse da prevedere, per queste aree, modalità di romanizzazione diverse rispetto al modello rappresentato da Ateste che finora, grazie al ricco
record documentario di natura sepolcrale ed alle ricerche approfondite dedicate
a tale caso, ha costituito in area veneta (e non solo) il punto di riferimento principale per lo studio delle fasi di transizione alla romanità21.
Di quanto detto si può proporre un’esemplificazione con il caso della tomba
174 di Posmon22, ove le sepolture, talora con ricco corredo, si dilatano lungo
Ruta Serafini 2013, 95.
Cresci Marrone (- Marinetti) 2012, 228.
20
In questo caso l’esame del corredo, per cui vd. Casagrande (- Larese) 2012, 204-205,
non fornisce indicazioni risolutive; i materiali associati alla sepoltura corrispondono a sei balsamari, due simpula, un bicchiere, una fibula, due aghi da cucito, tre monete.
21
Pellegrini - Prosdocimi 1967, Lejeune 1978.
22
Per l’esame complessivo della tomba e degli oggetti di corredo vd. Casagrande
18
19
120
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
un arco cronologico relativamente ampio, e in cui il messaggio iscritto compare
in sette cinerari sui dieci complessivi; non è inoltre escluso che alcuni cinerari
contengano i resti di più defunti23. L’accurata analisi dell’organizzazione degli
spazi della tomba ha permesso di riconoscere una stratificazione delle sepolture in
tre fasi successive, anche se cronologicamente molto vicine, scalate fra la seconda
metà del I sec. a.C. e la fine del I d.C. (fig.1): una prima fase comprende sei deposizioni, e in ben cinque di esse è presente l’epitaffio sull’ossuario; sia nella seconda che nella terza fase compaiono due ossuari, di cui solo uno dei due iscritto:
Fig. 1. Schema della tomba 174 di Montebelluna Posmon-via Cima Mandria.
Tra parentesi il numero di possibili deposizioni in uno stesso ossuario.
prima fase:
- 1 deposizione maschile; ossuario IG 304173 con iscrizione (alfabeto latino) A(?) M(?) Pulio Lucretis;
- 1 deposizione maschile; ossuario IG 304165 con iscrizione (alfabeto latino) Ostruo Luccaticos T. f. (fig. 2);
(- Larese) 2012, 197-218; per le iscrizioni Cresci Marrone- Marinetti 2012, 227-232.
23
La molteplicità delle deposizioni in un unico cinerario è per ora indiziata, in assenza di
analisi osteologiche dei resti, da una combinazione degli elementi del corredo e della possibile
interpretazione dell’iscrizione.
121
giovannella cresci marrone - anna marinetti
Fig. 2. Tomba 174 di Montebelluna Posmon-via Cima Mandria. Corredo della US 1449 con
ossuario IG 304165 e disegno dell’iscrizione (da Carta geomorfologica 2012).
- 1 deposizione femminile; forse un secondo individuo; ossuario IG 304155
con iscrizione (alfabeto venetico) Iskos A Lukatka (?);
- 1 deposizione, non precisabile; ossuario IG 304152 senza iscrizione;
- 1 deposizione femminile; forse un secondo individuo; ossuario IG 304135
con iscrizione (alfabeto latino) Ostia Samnio (fig. 3);
- 1 deposizione, non precisabile; ossuario IG 304132 con iscrizione (alfabeto
venetico) Lu I(?) Gon (?) -;
122
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
Fig. 3. Tomba 174 di Montebelluna Posmon-via Cima Mandria. Corredo della US 1445 con
ossuario IG 304135 e disegno dell’iscrizione (da Carta geomorfologica 2012).
seconda fase:
- 1 deposizione femminile; ossuario IG 304154 senza iscrizione;
- 1 deposizione femminile; forse altri individui; ossuario IG 304110 con
iscrizione (alfabeto venetico) Ostś Bagsonia Akloniaka (fig. 4);
terza fase:
- 1 deposizione femminile; ossuario IG 304099 senza iscrizione;
- 1 deposizione femminile; ossuario IG 304093 con iscrizione (alfabeto
venetico): - Lukatka.
123
giovannella cresci marrone - anna marinetti
Fig. 4. Tomba 174 di Montebelluna Posmon-via Cima Mandria. Corredo della US 1443 con
ossuario IG 304110 e disegno dell’iscrizione (da Carta geomorfologica 2012).
Oltre ad oggettivi problemi di lettura, che in qualche caso lasciano dubbi
sulla trascrizione delle forme, si rilevano peculiarità linguistiche, onomastiche,
formulari talora di difficile interpretazione. A titolo di esempio: un presupposto quasi ovvio, cioè l’identificazione del ruolo del titolare mediante le uscite
morfologiche dei nomi, qui è spesso disatteso, sia perché i nomi possono essere soggetti ad abbreviazioni non standard, sia soprattutto perché la transizione
dalla lingua venetica a quella latina potrebbe produrre l’occorrenza di forme
peculiari. L’emergere, ad esempio, di numerose forme onomastiche con desinenza in -o (Pulio, Samnio, Ostruo) potrebbe corrispondere all’abbreviazione di
124
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
un nominativo in -os come pure al dativo di una flessione latina; oppure ad un
nominativo in -o, secondo la morfologia dei temi in nasale (-on-), che è frequente nell’onomastica locale e che potrebbe aver fornito un modello cui si è adeguata in parte anche l’onomastica latina.
I legami familiari sembrano segnalati dalla ricorrenza delle medesime basi
onomastiche; oltre alla base tipicamente veneta Osti-, da cui il femminile Ostia
(peraltro nome molto frequente) e il maschile Ostś, ad un maschile Luccaticos
(formalmente trasposizione in veste latina di un appositivo venetico in -ko-),
due volte abbreviato nella sigla Lu, si affiancano due femminili Lukatka, una
nella stessa generazione, ed un’altra a distanza di tempo.
L’alternanza tra alfabeto latino e alfabeto venetico risponde probabilmente
a motivazioni di auto-rappresentazione: per uno stesso individuo l’ufficialità di
una formula latina completa di filiazione (Ostruo Luccaticos T. f.) sull’ossuario
contrasta con l’informalità del marchio di proprietà sulla coppa, ove il nome
abbreviato è in grafia venetica (Lu). Sorprende tuttavia che nella t. 174 la scansione cronologica veda attestati alfabeto e formularità latine nella fase d’uso più
antica, mentre in seguito è l’alfabeto venetico ad essere usato. Senza generalizzare una fenomenologia che potrebbe essere circoscritta a questo caso singolo (ma
che sarà da verificare nel resto della documentazione), pare quasi che la latinità
abbia visto un exploit in un momento che è forse da associare ad eventi specifici, di natura storica e/o istituzionale, per poi conoscere un ripiegamento ed un
riflusso in forme legate a consuetudini precedenti24.
Il primo approccio, seppur limitato e parziale, alla documentazione scritta ha
già fatto emergere con evidenza non solo nomi mai prima attestati, destinati ad
arricchire lo stock dell’onomastica di romanizzazione in area veneta, ma anche
altre peculiarità che è lecito riferire al contesto appartato dell’insediamento,
e le cui dinamiche di transizione alla romanità risultano finora scarsamente
note. L’articolazione delle formule onomastiche, ad esempio, incrocia modalità proprie della tradizione locale con tratti tipici della formula latina (prenomi
abbreviati, filiazione), con esiti ibridi, forse consentiti proprio da quell’assetto
Non pare sussistano qui le condizioni per ipotizzare quanto è stato proposto per il santuario di Auronzo di Cadore (BL), ove il mantenimento di espressioni di cultura materiale, di
grafia e di lingua tipiche della cultura veneta potrebbero essere interpretate non come forme di
attardamento periferico, ma nella direzione di un voluto recupero da parte romana di tradizioni locali; su ciò Gangemi 2003; Marinetti - Prosdocimi 2011.
24
125
giovannella cresci marrone - anna marinetti
istituzionale non ancora del tutto assestato che consente ancora una relativa flessibilità nella denominazione pubblica degli individui.
Le basi onomastiche e l’articolazione delle relative formule sembrano qui
documentare tradizioni appellative differenti: ai nomi veneti (Ostś, Ostia, Iskos,
Akloniaka) si accompagnano non solo nomi romani (Pulio, Lucretis, Samnio?;
cf. Ti(beri) Veturi della t. 201 e Secundo M. Horati della t. 282) ma nomi forse di
base celtica (Luccaticos) o − ma è da accertare − celtico-germanica (Ostruo?). Si
tratta del portato della ‘perifericità’ dell’area, che si colloca in una fascia territoriale pedemontana connotata da diverse presenze etniche, ed esposta per la sua
collocazione sul corso del Piave alla circolazione di individui. Se dall’onomastica risulta una composizione più variegata rispetto alla maggior compattezza
etnica del Veneto centrale, non sembra però agevole risalire da tali dati all’etnia
di appartenenza dei titolari; a ciò si aggiungono il noto fenomeno della mimetizzazione volontaria dell’origine indigena e l’evoluzione normativo/istituzionale, che interferiscono in maniera incisiva nell’assegnazione e nell’esibizione
del nome, anche in un ambito privato come quello sepolcrale.
Se riflessi epigrafici della transizione culturale e politica costituiscono un
aspetto già noto, e anzi distintivo dell’area veneta, a Montebelluna l’interazione tra le due componenti assume i caratteri di un intreccio a volte inestricabile. Rispetto al modello di Ateste, le manifestazioni scrittorie sembrano meno
mediate da istanze culturali, pregresse e in atto, forse per i caratteri della comunità, tutto sommato periferica rispetto a centri in cui sia la tradizione locale sia
la presenza di Roma si avvertono con maggiore intensità. I documenti epigrafici di Montebelluna appaiono lontani da forme di standardizzazione: in taluni
casi, affiora quasi una volontà di elaborare un autonomo linguaggio epigrafico,
finalizzato direttamente alla comunicazione più che attento alla riproduzione
di modelli culturali, che porta a sperimentare forme di contaminazione nella
scrittura e nella lingua.
3. Le prospettive di un’indagine integrata: alla ricerca di un nome per la
comunità antica
Già dalla prospettiva, pur parziale, della documentazione edita si aprono
spazi di indagine di sicuro interesse, che indubbiamente si amplieranno con il
procedere della pubblicazione dei contesti e degli altri materiali iscritti: l’opportunità di coniugare nomi, tradizioni grafiche e aspetti di lingua con i dati
126
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
archeologici di contesto consentirà di delineare per le necropoli montebellunesi
un quadro evolutivo delle trasformazioni in itinere e di riflettere con approccio
interdisciplinare sugli indicatori di cambiamento. Il fine sarà quello di accertare
la possibilità di fenomeni di accoglienza o di interferenza di soggetti esogeni
all’interno della comunità (matrimoni misti? rapporti di patronato?), nonché
di tracciare le fasi e le modalità dell’omologazione dei soggetti indigeni all’orizzonte culturale romano.
Non si esclude, inoltre, che i risultati delle ricerche prosopografiche coinvolgano in una nuova riflessione anche i profili più specificamente istituzionali ed
amministrativi dell’insediamento il quale, allo stato attuale delle nostre conoscenze, si presenta come una comunità di lunga esistenza, di evidente rilevanza, ma totalmente ‘senza nome’. Sia per il periodo preromano che per quello
romano infatti le fonti sembrano non aver lasciato traccia di un toponimo, di
un etnonimo, di un polionimo ascrivibile al nostro sito; tale evenienza sembra
quanto meno singolare per un complesso insediativo che, se non ha ancora
restituito evidenze architettoniche pubbliche che ne documentino il profilo
urbano, conta però un corpus epigrafico che al termine della pubblicazione si
pensa possa esibire un centinaio di titoli. Si è invocato finora a giustificazione di
tale anonimia l’argomento della marginalizzazione dai grandi percorsi consolari (in primis la via Postumia) che avrebbe comportato una precoce decadenza
del centro preromano decretandone la scomparsa, ma, se l’ipotesi del passaggio da Montebelluna del ramo altinate della via Claudia Augusta deve essere
considerata fededegna25, tale spiegazione sembra perdere cogenza e dimostrarsi
operativa solo in riferimento al ritardo o alle peculiari modalità del processo di
romanizzazione, non già in relazione ai connotati della romanità. Sarà dunque
necessario che i risultati della ricerca si confrontino anche con questo tema in un
quadro di revisione profonda dei dati in nostro possesso.
Le iscrizioni della necropoli di Montebelluna potranno offrire un contributo
essenziale per delineare il quadro sociale e culturale della comunità insediata
nell’area e, per quanto riguarda la fase della romanizzazione, per tracciare le coordinate di un processo di trasformazione che investì gli abitanti dell’insediamento antico nel passaggio dalla cultura indigena alla romanità. Per questa ragione
pare tanto più importante ed urgente impostare un progetto che si proponga lo
studio totale della documentazione, con un approccio pluridisciplinare ormai
25
Rosada 1990-91; Rosada 2001, XXI; Rosada 2002, 54.
127
giovannella cresci marrone - anna marinetti
ineludibile e con particolare focus riservato alle evidenze scrittorie. Lo studio
integrale della documentazione iscritta potrebbe ambire a ricostruire un’anagrafe, per quanto incompleta e condizionata dalla parzialità dei rinvenimenti,
degli abitanti del sito in età di romanizzazione; ma, attraverso l’applicazione
del metodo prosopografico26, potrebbe altresì contribuire a illuminare aspetti
di lingua, esperienze scrittorie, modalità di formulazioni onomastiche, rapporti
di dipendenza o prossimità sociale, articolazioni di reti parentali, per delineare
le fasi e i modi di un percorso di trapasso nel quale le realtà culturali in contatto
(quella locale e quella romana) furono coinvolte secondo processi di reciproca
contaminazione.
Appendice - Iscrizioni funerarie da Montebelluna e territorio
(l’ordine topografico segue la disposizione della Carta geomorfologica 2012)
Sui principi e le finalità del metodo prosopografico vd. Nicolet - Chastagnol 1970;
Cébeillac-Gervasoni 2011.
26
128
localizzazione
latino
iscrizione
A(?) M(?) Pulio
Lucretis
supporto
Olla ossuario
cronologia
Seconda metà I
a.C.
129
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
latino
Ostruo Luccaticos
T. f.
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
venetico
Lu
Coppa coperchio
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
venetico
Iskos A Lukatka (?)
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
latino
Ostia Samnio
Olla ossuario
Seconda metà I sec.
a.C.
riferimenti
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
199, figg. 44 e 46
Cresci Marrone (- Marinetti)
2012, 228-229
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
200-202, figg. 48 e 49
Cresci Marrone (- Marinetti)
2012, 229
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
200-202, figg. 48 e 49
(Cresci Marrone -) Marinetti
2012, 229
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
202, figg. 50 e 51
(Cresci Marrone -) Marinetti
2012, 229-230
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
204, figg. 53 e 54
Cresci Marrone (- Marinetti)
2012, 228
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
alfabeto
venetico
Lu / Gon (?) T
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
venetico
Ostś Bagsonia Akloniaka
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
130
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
venetico
Lukatka
Olla ossuario
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 201
latino
Ti. Vet^ûri
^
Olla ossuario
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 282
latino
Secundo M. Horati
Olla ossuario
Fine I d.C.
Metà I d.C.
Fine I a.C.
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
213-214, figg. 66 e 67
(Cresci Marrone -) Marinetti
2012, 231-232
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
(Casagrande -) Larese 2012,
180-182, fig. 13
Cresci Marrone (- Marinetti)
2012, 226
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
(Casagrande -) Larese 2012,
182-193, figg. 19 e 20
Cresci Marrone (- Marinetti)
2012, 227
giovannella cresci marrone - anna marinetti
Posmon via Cima
Mandria
Tomba 174
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
206, figg. 55 e 57
(Cresci Marrone -) Marinetti
2012, 227-228
Carta geomorfologica 2012, 377-378,
sch. 53
Casagrande (- Larese) 2012,
207-211, figg. 60 e 61
(Cresci Marrone -) Marinetti
2012, 230-231
Posmon via Monte
Civetta
Tomba 6
C. Epaei
latino
M. At[..]n[i]us L. f.
/ Lucanus sibi et
/ [P]ontiae Sex. f.
[Se]cund[ae] /
[u]xori [s?]u[ae?]
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Urna funeraria
Primi decenni I
a.C.
Carta geomorfologica 2012, 395-396,
sch. 62, fig. 75
Manessi - Buonopane 2002
(Casagrande -) Larese 2012, 167
131
Carta geomorfologica 2012, 401, sch.
65, figg. 80 e 81
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
424, Tr VIII
Carta geomorfologica 2012, 431, sch.
83
Luciani 2012, 57, nr. 65 con foto
Posmon via Monte
Valderoa
Tomba 19
latino
P. Catronius C. f.
Olla ossuario
Prima metà I d.C.
S. Maria in Colle
fondo Tessari
latino
L. Neppiacus
Olla ossuario
Fine I sec. a.C.
S. Maria in Colle
fondo Tessari
latino
L. Neppiacus Sex. f.
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Carta geomorfologica 2012, 431, sch.
83, fig. 98
Luciani 2012, 56, nr. 64 con foto
S. Maria in Colle
fondo Tessari
latino
L. Nêppiacus L. f.; T.
^
Nêppiacus L. f.
Olla ossuario
Prima metà I d.C.
Carta geomorfologica 2012, 431, sch.
83
Luciani 2012, 57, nr. 66 con foto
S. Maria in Colle
fondo Tessari
venetico
Molo Arbonkos Ostiako[
Olla ossuario
Fine I sec. a.C.
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
409-411, Tr 1
^
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
Posmon via Monte
Civetta
latino
Carta geomorfologica 2012, 389, sch.
59
(Casagrande -) Larese 2012,
168, fig. 3
Cresci Marrone (- Marinetti)
2012, 225
latino
(a)
venetico
(b)
(a) Ostiako Usedica
(b) Ostiako Uśe[dik]a
Olla ossuario
S. Maria in Colle
fondo Tessari
latino
Frema Tuina
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Luciani 2012, 56, nr. 63 con foto
S. Maria in Colle
fondo Tesser
latino
segnalazione di
un’iscrizione
Ossuario
Fine I a.C.-inizi I
d.C.
Carta geomorfologica 2012, 468-469,
sch. 104
Fine I a.C.-inizi I
d.C.
Fine I a.C.-inizi I
d.C.
Carta geomorfologica 2012, 468-469,
sch. 104
Carta geomorfologica 2012, 468-469,
sch. 104
Fine I a.C.-inizi I
d.C.
Carta geomorfologica 2012, 468-469,
sch. 104
S. Maria in Colle
fondo Tesser
S. Maria in Colle
fondo Tesser
S. Maria in Colle
fondo Tesser
latino
latino
latino
segnalazione di
un’iscrizione
segnalazione di
un’iscrizione
segnalazione di
un’iscrizione
Ossuario
Ossuario
Coppa a gratuggia
Luciani 2012, 58, nr. 67 con foto
Guarda Alta
proprietà Pizzolotto
latino
D. Messius Timo
Olla ossuario
Inizio I sec. d.C.
Guarda Alta
proprietà Pizzolotto
latino
M(---) Antoniai
Maxumae C. f.
Olla ossuario
Inizio I sec. d.C.
Guarda Alta
proprietà Pizzolotto
latino
Caesia
Olla ossuario
Metà I a.C.-inizio
I d.C.
Carta geomorfologica 2012, 471, sch.
105, figg. 120 e 121
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
423, Tr VI
Carta geomorfologica 2012, 471, sch.
105
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
426, Tr XIII
Carta geomorfologica 2012, 471, sch.
105
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
425, Tr X
giovannella cresci marrone - anna marinetti
132
S. Maria in Colle
fondo Tessari
Guarda Alta
proprietà Pizzolotto
latino
segnalazione di
un’iscrizione
Pris[---]
Coppa in ceramica grigia
Olla ossuario
Inizio I sec. d.C.
Prima metà I sec.
d.C.
133
Caonada
tomba 4
latino
Pusilai
Olla ossuario
Inizio I sec. d.C.
S. Andrea
latino
C. Canius Voltiio
Olla ossuario
Metà I a.C.-inizio
I d.C
latino
Fausto
Olla ossuario
Metà I a.C.-inizio
I d.C
Contarini
via dei Venturato
latino
T. Duronius Niger
Olla ossuario
Inizio I sec. d.C.
Covolo di Pederobba
venetico
tiiiφericosezico (?)
Olla ossuario
S. Andrea
Carta geomorfologica 2012, 471, sch.
105
Carta geomorfologica 2012, 473, sch.
106, fig. 122
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
426, Tr XI
Carta geomorfologica 2012, 477-478,
sch. 108
Manessi 2000
Casagrande - Larese 2012, 219220, fig. 2
Carta geomorfologica 2012, 492-493,
sch. 116
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
422, Tr V
Carta geomorfologica 2012, 492-493,
sch. 116, fig. 127
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
426, Tr XII
Carta geomorfologica 2012, 498, sch.
119
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
425, Tr IX
Pellegrini - Prosdocimi 1967, I,
411-412, Tr 2
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
Guarda Alta
via Piave
latino
latino
C. Fulvius Scorpio
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Luciani 2012, 58, nr. 68 con foto
Covolo di Pederobba,
loc. Cente
latino
F(r)ema Martricai
Olla ossuario
Seconda metà del
I a.C.
Luciani 2012, 59, nr. 69 con foto
Covolo di Pederobba,
loc. Cente
latino
Sequn(d)a T. f., Futiaci (uxor)
Olla ossuario
Fine I a.C.-inizio
I d.C.
Luciani 2012, 59, nr. 70 con foto
134
giovannella cresci marrone - anna marinetti
Covolo di Pederobba,
loc. Cente
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
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De Bon ad alcune note topografiche e di metodo, «Padusa», XXVI-XXVII (1990-91),
229-246.
Rosada 2001
G. Rosada, Sessant’anni dopo. Per “capire” una strada, in La Via Claudia Augusta Altinate, Venezia 2001 (rist. anast. 1938 con postfazione di Guido Rosada), XI-XXXI.
136
messaggio iscritto e modelli di romanizzazione
Rosada 2002
G. Rosada, ... viam Claudiam Augustam quam Drusus pater… derexserat, in V.
Galliazzo (cur.), Via Claudia Augusta. Un’arteria alle origini dell’Europa: ipotesi,
problemi, prospettive. «Atti del Convegno, Feltre, 24-25 Settembre 1999», Feltre 2002,
37-68.
Ruta Serafini 2013
A. Ruta Serafini, Alla riva che non ha sole, alla riva delle tenebre, in Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti antichi, Venezia 2013, 93-97.
Tomaello 2013
E. Tomaello, Le necropoli dell’età del ferro, in Carta geomorfologica 2012, 138-146.
137
FRANCO CREVATIN
Verteneglio
Il tema di questo contributo è il toponimo istriano Verteneglio, croato Brtonigla, documentato nel 1234 nella forma Ortoneglo, Ortonegla nel 1275 e nel
1337 come Ortonegio. È un toponimo etimologicamente difficile e non sono
purtroppo in grado di fornire una soluzione sicura ai problemi che esso pone,
ma solo di additare qualche prospettiva; le spiegazioni finora proposte non solo
sono contraddittorie, ma anche linguisticamente poco fondate.
Nel 1640 circa il vescovo di Cittanova G. F. Tommasini scriveva nei suoi
Commentari storico-geografici della provincia dell’Istria1 a proposito di Verteneglio: «Il suo vero nome è Orto Negro, credo perché quivi la terra comincia ad essere
negra, essendo nel resto del territorio di Cittanova terra rossa, ora dai slavi che chiamano l’orto Verthe fu corrotto il vocabolo in Vertenelio». La motivazione fattuale
è insussistente, ma mons. Tommasini anticipava due temi etimologici, hŏrtus e
nĭger, destinati a grande fortuna.
È stato il romanista croato P. Skok ad occuparsi per primo diffusamente del
toponimo e della sua resa slava2. Egli partì da due assunti, ossia 1) che si tratti di
un derivato del latino hŏrtus 2) formato col suffisso diminutivo -ĭcŭlu-. Nell’individuazione dell’elemento suffissale lo Skok ha certamente ragione ed è corretto sostenere che il toponimo è stato recepito quando gli antichi gruppi consonantici con liquida erano ancora saldi: ciò non implica affatto una data remota,
come egli vorrebbe, né si tratta di una conservazione eccezionale, è semplicemente un tratto pre-veneziano. Sul riconoscimento del latino hŏrtus lo studioso croato è stato certamente influenzato – come tutti, ed è comprensibile – da
forme come varto (Dignano, Gallesana, Sissano) «orto», vartàl (ibid.) «brolo,
1
2
Tommasini 1837, 266.
Fedele rassegna dei diversi lavori dello studioso in Putanec 1987.
139
franco crevatin
campetto», arto (Fasana) e come vart nel veglioto, ma i problemi sono solo
apparentemente semplici. Innanzi tutto le forme romanze hanno storie diverse,
poiché nel veglioto sono attestate altresì le forme uart e vuart, assolutamente
regolari perché in questa parlata è ben noto il passaggio ŏ > wa, passaggio ignoto
ai dialetti istrioti; inoltre un *ort- neolatino, se recepito anticamente, avrebbe
dovuto evolvere nelle lingue slave in *rat- / *rot- 3; infine la protesi consonantica
di v- è un fenomeno diffuso. Davanti a vocale velare è molto comune nei dialetti
italiani, anche in quelli di nord-est4, ma l’apertura di -o- in -a- delle forme istriote non è facilmente spiegabile. In breve: se è certo che alla base di molte delle
forme croate ci sono derivati del latino hŏrtus, è altrettanto probabile che ci sia
stata interazione tra strato linguistico romanzo e strato slavo, per cui in nessun
caso esiste, tranne forse per il veglioto, una continuità lineare.
Più incerto si dimostra lo Skok nella valutazione dell’origine della -n- interna,
avendo pensato in successione ad un tipo lessicale *hŏrtīna, forma inusitata affine al cortina di qualche dialetto italiano settentrionale «corte, cortile» oppure
ad un cumulo suffissale diminutivo -īnu- + -ĭcŭlu-, non impossibile ma palesemente costruito ad hoc. Oltre tutto, le forme antiche del toponimo mostrano
chiaramente che la vocale ante-suffissale era probabilmente una -o-.
V. Putanec5 si stacca nettamente dalla via battuta dallo Skok e propone di
riconoscere un *ertu-negru «colle nero», del quale il toponimo croato črni vrh,
«cima, vetta nera» sarebbe un calco. Anche se ammettessimo – e ciò non mi
pare possibile – che il gruppo -gr- si sia dissimilato in -gl-, una protesi consonantica davanti a e- è impensabile e un *ertu- < erctus «eretto» non ha mai
avuto i valori supposti dallo studioso, per cui il composto sarebbe un assurdo
‘eretto-nero’.
Da ultimo, M. Doria6 ha ripreso, non molto pensosamente a dire il vero, l’etimo di mons. Tommasini.
Questa è dunque la situazione e in mancanza di nuovi documenti antichi
temo che la soluzione definitiva tarderà a venire, tuttavia è opportuno segnalare qualche prospettiva sinora non presa in considerazione, ossia che si tratti
alla fin fine di un toponimo preromano passato attraverso una riformulazione
latina. Riconosco volentieri che l’ipotesi preromana è spesso un modo eleganRocchi 1990, 200.
Rohlfs 1966, § 341.
5
Putanec 1987.
6
Doria 1960, 30.
3
4
140
verteneglio
te per confessare la nostra ignoranza, tuttavia in questo caso la tentazione è
forte e questi sono gli argomenti. Fonti d’archivio e ricostruzione linguistica
ci restituiscono un *Orton-ĭcŭla, ma il diminutivo non presuppone un lessema
primitivo latino e la somiglianza con hŏrtus è casuale: l’assonanza può esser stata
sentita solo nel Medio Evo, quando la ragione del toponimo era andata perduta. Il confronto più evidente è con il toponimo Ortōna, noto nell’Italia antica7
e ancor vivo in Abruzzo; anche il toponimo sloveno Vrtovin, presso Gorizia,
presuppone un Ortōna non troppo anticamente recepito8. Il formante -ōna è
ben noto in Istria (ad es. Flanōna, Albōna, *Montōna) ed è ampiamente diffuso in ambito circumadriatico (ad es. Salōna, Scardōna, Aenōna in Dalmazia).
Non credo che Ortōna in età romana fosse lessicalmente trasparente e dunque
la fattispecie etimologica è diversa da quella del toponimo istriano dell’interno Krsikla (presso Pisino) < *Cars-ĭcŭla, anch’esso un diminutivo (un «piccolo
campo carreggiato, terreno pietroso»), dal prelatino *karso a tutt’oggi conservato, anche con derivati, nei dialetti istriani.
I diminutivi in toponomastica segnalano di frequente un luogo minore dipendente da uno maggiore e, se così è, e preso atto che Verteneglio era un castelliere
continuatosi ancora in età romana, pare più che probabile che esso dipendesse
dal vicino e ben più grande castelliere di Villanova del Quieto9, anch’esso abitato ancora in età romana; da questa dipendenza deriverebbe l’uso del diminutivo.
Dovremmo dunque concludere che Ortōna era il nome del centro maggiore.
Oggi Villanova è frazione di Verteneglio: sic transit gloria mundi.
van Buren 1942.
Mutuato da una antica forma romanza è anche il toponimo Vrtojba, sempre vicino a Gorizia, il cui etimo preromano è stato frainteso da Snoj 2009, 471: il nome presuppone un *Ortovia, corradicale di *Ortōn(icul)a; per la formazione, cf. Poetovio. Ricordo ancora il toponimo
Tolmino (1063–68 in Tulmine, posteriore ad a. 1068 super Tulminum, 1139 apud Tulmin): in
questo caso tuttavia il preromano *Talamōna è passato anticamente via un dialetto romanzo
allo sloveno e dallo sloveno è stato successivamente mutuato nelle parlate neolatine. Evidenti
ragioni fonistoriche escludono un iniziale *Tolm- antico; vd. anche Snoj 2009, 430, che tuttavia si mostra inutilmente incerto. Aggiungo – e dovrebbe trattarsi di cosa nota – che il nome del
fiume Vipacco, anch’esso certo preromano, non è di tradizione diretta nelle lingue romanze.
Insomma, le vicende linguistiche dell’antico Friuli sud-orientale sono state decisamente non
uniformi nell’alto Medioevo.
9
Sakara Sučević 2004; Hoernes 1894.
7
8
141
franco crevatin
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
van Buren 1942
[A. W.] van Buren, s.v. Ortona in RE XVIII-2 (1942), 1506.
Doria 1960
M. Doria, Ai margini orientali della friulanità, «Ce Fastu?» XXXVI (1960), 10-38.
Hoernes 1894
M. Hoernes, Ausgrabungen auf dem Castellier von Villanova am Quieto in Istrien,
«Mittheilungen der Anthropologischen Gesellschaft in Wien» XXIV (1894), 155183.
Putanec 1987
V. Putanec, La reprise du problème étymologique du toponyme Brtonigla en Istrie, in
G. Holtus - J. Kramer (cur.), Romania et Slavia Adriatica. «Festschrift für Žarko
Muljačić», Hamburg 1987, 455-458.
Rocchi 1990
L. Rocchi , Latinismi e romanismi antichi nelle lingue slave meridionali, Udine 1990.
Rohlfs 1966
G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino 1966.
Sakara Sučević 2004
M. Sakara Sučević, Kastelir. Prazgodovinska naselbina pri Novi vasi / Brtonigla
(Istra), Annales Mediterranea, Koper 2004.
Snoj 2009
M. Snoj, Etimoloski Slovar Slovenskih Zemljepisnih Imen, Ljubljana 2009.
Tommasini 1837
G. F. Tommasini, De Commentari storico-geografici della provincia dell’Istria, «Archeografo Triestino» IV (1837).
142
ELIZABETH DENIAUX
La famille des Marii et l’histoire de la colonie romaine de Byllis
L’épigraphie coloniale de la zone adriatique à laquelle je me suis intéressée
est une épigraphie un peu plus tardive que celle à laquelle G. Bandelli a consacré
une bonne partie de ses travaux de recherche mais je suis heureuse de lui offrir
cet article sur l’émergence d’une famille de la colonie romaine de Byllis.
La colonie de Byllis fut fondée par Auguste; une notation de Pline1 l’atteste. Cependant l’histoire de cette colonie est mal connue. L’archéologie
avait permis la mise au jour de monuments de la ville qui la précéda. C’est
l’épigraphie qui permit la localisation de la colonie romaine et qui témoigna de sa riche histoire, en attestant d’abord même de son nom, grâce à une
grandiose inscription rupestre située près d’une porte de l’enceinte de la
ville, sur laquelle le nom de colonia Byllidensium fut identifié2. La découverte plus récente d’inscriptions sur ce site est liée à la réalisation d’un important programme de fouilles. Elle confirme que la fondation coloniale remontait à l’époque d’Auguste. En effet, une inscription conservée sur place
dans le mur d’une porte de la cité permet de suggérer qu’Auguste aida finan-
Plin. nat. IV, 10.
La cité avait déjà été identifiée dans les années 1820, par Pouqueville 1826, 340-341,
grâce à une grandiose inscription rupestre située près d’une porte de l’enceinte de la ville, sur
laquelle le nom de colonia Byllidensis. Elle fait mention des travaux entrepris par M. Valerius
Lollianus pour rendre carrossable, ut vehiculis commeetur la route qui conduisait per Astacias
région inconnue, ainsi que des ponts qu’il avait fait construire sur les rives et le lit du fleuve
Argya, qui est peut-être le torrent Povlies (CIL, III 600 = 14203 (35) (D 2724); CIA 178; LIA
188. Sur M. Valerius Lollianus, cf. PME II, V, 17 et Deniaux 2008, 438-441.
1
2
143
Elizabeth deniaux
cièrement la colonie pour la construction de son enceinte de la colonie mentionne le nom d’Auguste3.
Byllis est une colonie fondée à l’intérieur des terres, sur la rive droite de
l’Aoos, la Vjosa. L’ancienne cité est située sur la colline de Gradista, à plus de
500 mètres de hauteur, qui domine le village de Hekalj non loin de la ville de
Ballsh. Une immense enceinte faite de murs d’époques diverses l’entoure. Elle
est surtout célèbre aujourd’hui par ses monuments paléochrétiens. On y a, en
effet, retrouvé 5 magnifiques basiliques du IVe au VIe siècle ap. J.-C.4.
La fondation d’une colonie romaine à l’intérieur des terres permet de contrôler l’accès au cours inférieur de l’Aoos, élément indispensable d’une stratégie de
surveillance d’une voie à l’intérieur des terres. Il est vrai que, dans l’Antiquité,
la ville grecque d’Apollonia, aujourd’hui loin de la mer, était dotée d’un port
à l’embouchure de l’Aoos. La zone de confluence de l’Aoos et du Drino est une
zone importante de communications et un lieu où se rencontrent différentes
communautés ethniques5. Sur le territoire de la future colonie existait un koinon
des Bylliones mentionné dans l’épigraphie.
Une inscription a été trouvée sur un bloc de calcaire dans la muraille près de la porte n˚5
du mur romain de la cité. Cf. Ceka 1987b, 100, nr. 51, fig. 32 = CIA 184 = LIA 192. On
peut y lire: [Im]p(erator) Caesar Diui f(ilius) / [Aug]ustus dedit. Sur la colonie augustéenne, cf.
Deniaux 2007a. Une inscription précoce trouvée dans la basilique paléochrétienne B de Byllis
faisant mention du mot «colonia»: Lycotas / Asclepio / et Coloniae d(e) s(ua) p(ecunia) f(ecit).
Ceka 1987b, 104-105, nr. 63, fig. 39 = CIA 195= LIA 189. Une autre inscription mise au
jour récemment fait référence à la colonie de Byllis à la fin du IIe siècle ap. J.-C. Cf. Deniaux Quantin - Vrekaj 2013 (à paraître).
4
Cf. les communications du IVe colloque international sur l’Illyrie méridionale et l’Epire
dans l’Antiquité, 2004: Haxhimihali 2004, 417-461; Muçaj 2004, 417-429; Sodini 2004,
431-446; Chevallier 2004, 447-453.
5
C’est là que Philippe V avait voulu interdire aux Romains toute progression vers l’Est en
s’installant dans les gorges de l’Aoos. Dans cette région qu’eut lieu en 199 une bataille célèbre,
celle des défilés, entre Philippe V de Macédoine et T. Quinctius Flamininus (Liv. XXXII 11, 1).
Une partie (Cabanes 1976, 272) importante des Epirotes et notamment Charops, vint en aide
au consul par l’envoi d’un berger chargé de guider les Romains par des sentiers de montagne
jusque sur les arrières des Macédoniens. Nous savons par ailleurs que, quelques années plus tard,
Hannibal avait conseillé à Antiochos et à ses alliés de placer la flotte devant Corcyre pour empêcher les Romains d’y débarquer et les troupes de terre sur le territoire de Byllis (in Bullinum
agrum) pour interdire aux Romains l’élargissement d’une tête de pont en Illyrie méridionale
(Liv. XXXVI 7, 18-19 sur lequel Cabanes 1976, 281).
3
144
la famille des marii et l’histoire de la colonie romaine de byllis
La première inscription concernant l’existence d’un koinon des Bylliones est
une inscription consacrée à Krison Sabyrtiou à Dodone dans les années 2322196. Le koinon, qui frappait des bronzes autonomes pendant les IIIe-IIe siècle
av. J.-C.7, possédait sur la rive droite de l’Aoos une contrée géographique assez
claire8. Les habitants du koinon semblent avoir pris le parti de César au moment
des guerres civiles. Ils avaient tenté, comme les Amantes, d’apporter du ravitaillement à César bloqué par Pompée9.
La ville de Byllis se développa dans la seconde moitié du IVe siècle et dans la
première moitié du IIIe siècle sur une surface d’environ 30 hectares et elle s’entoura d’un rempart. Les fouilles entreprises par les archéologues albanais, particulièrement par N. Ceka, ont permis de mettre au jour une agora, un théâtre
et des portiques. C’est à l’occasion de ces fouilles que des inscriptions latines
ont été mises au jour, qui permettent de faire émerger la colonie augustéenne10.
Nous ne connaissons pas l’origine des colons qui peuplèrent Byllis alors qu’à
Dyrrachium, nous savons qu’une des vagues de migrants fut formée par des
Italiens chassés de leurs terres par la colonisation triumvirale11. Le nombre des
inscriptions latines concernant Byllis est beaucoup moins important que ce-
Cf. Ceka 1987a.
Des monnaies furent frappées entre 238 et 168 qui portent le nom de habitants du koinon
Byllionôn et celui de la cité, Byllis, cf. Head 1911, 314-315.
8
Limité à l’Ouest par les terres d’Apollonia, sur la première ligne des collines de Malakastra,
ce territoire se rétrécissait en forme de trapèze vers la rive droite d’un petit fleuve, confluent de
l’Aoos. En plus de Byllis, il y avait deux autres villes, Klos (Nikaia) et Gurzeze, une petite ville,
Margëllic et deux forteresses de frontières.
9
Cf. Caes. civ. III 12 et III 40. Il est intéressant de constater que César parle des Byllidenses
dans le premier texte et de la ville de Byllis dans le second. Quelques années auparavant, lors
d’un conflit qui pourrait être un conflit financier, ils avaient fait appel à l’arbitrage de Pompée.
C’est le terme de Bulliones, nom des habitants du koinon, qui est utilisé par Cicéron dans les
lettres où il recommande L. Lucceius. L. Lucceius a un litige avec les Bulliones et un arbitre,
Pompée, a été choisi par les deux parties. La présence de procurateurs de L. Lucceius à Byllis,
alors que L. Lucceius est resté en Italie , renforce l’idée qu’il s’agissait d’une affaire financière. La
présence d’un ami de Cicéron à la tête de la province de Macédoine devait permettre d’accélérer l’application de la sentence d’arbitrage de Pompée, cf. Cic. epist. XIII, 41 et 42 et Deniaux
1993b, 266-267.
10
Cf. Deniaux 2010, 65-70.
11
Dio Cass. V 4, 6 affirme qu’on y installa, ainsi qu’à Philippes, des Italiens chassés de leurs
terres par la colonisation des triumvirs.
6
7
145
Elizabeth deniaux
lui de Dyrrachium une quarantaine alors que Dyrrachium en a environ 14012.
Trois inscriptions ont retenu notre attention; elles éclairent l’émergence
d’une famille de notables et quelques aspects de la carrière des membres de celleci. Une partie de la famille s’illustra dans l’Empire par une carrière militaire. Des
trois documents qui permettent de connaître quelques éléments de l’histoire
de cette famille, deux documents sont de Byllis et un document a été trouvé à
Rome. Le premier document de Byllis est un document figuré, une stèle de calcaire haute de 51 cm, large de 47 cm, avec 13 cm d’épaisseur (fig. 1)13. On y lit:
[---] et Marius [---] frater (?) de s(uo) f(ecerunt) p(onendum) c(urauerunt).
Trois personnages sont représentés dans un cadre monumental. Il n’en subsiste que la partie droite qui permet de voir trois personnes debout, deux en
toge, un autre avec un manteau. Le personnage de droite et le personnage du
milieu sont des hommes qui portent une toge. Le personnage du centre semble
plus jeune. Nous voyons que l’homme qui est à droite a une main qui sort d’un
pli de la toge. Un personnage féminin semble représenté à gauche, qui porte un
vêtement long et un manteau au dessus. Le gentilice Marius qui apparaît d’une
manière sûre, même si la lecture du reste de l’inscription est hypothétique. Il
s’agirait de la tombe d’un enfant avec ses parents et son frère. C’est la seule stèle
funéraire figurée de Byllis, alors que les stèles figurées sont nombreuses à Dyrrachium et sur son territoire14. Signe d’affirmation identitaire, cette stèle suggère l’appartenance à une famille aisée dont on retrouve le nom dans une autre
inscription de Byllis, et aussi, d’une manière plus surprenante, à Rome dans la
capitale de l’Empire. Les Marii sont connus à Byllis; il s’agit d’un nomen bien représentés dans la colonie de Byllis, une funéraire et une inscription en l’honneur
des membres de leur famille font mention de ce nom.
Le second document qui nous intéresse est une pierre tombale de grandes dimensions. Ces dimensions suggèrent la richesse de la famille. La stèle a une hauteur
de 1,86 cm et une largeur de 65 cm. La stèle, qui date vraisemblablement du Ier
En incluant Elbasan, vicus de Dyrrachium, sur lequel cf. Deniaux 2010, 65-70.
Cf. Ceka 1987b, nr. 76, fig. 48; CIA 216 = LIA 219. Cf. fig. 1 de cet article.
14
Cf., par ex., à Dyrrachium, CIA 111 = LIA 70 et, sur son territoire, à Elbasan, vicus
de Dyrrachium. Cf. aussi les inscriptions récemment publiées par Ceka - Muçaj 2009-10,
111-130.
12
13
146
la famille des marii et l’histoire de la colonie romaine de byllis
siècle ap. J.-C., est de belle facture15. L’inscription funéraire est précoce dans sa
formulation. Le texte est:
Sacrum / P(ublio) Terentio / P(ubli) f(ilio) Rufo / et M(arco) Mario Gemello
Aug(ustali) / Maria M(arci) l(iberta) Saluia / uiro et fratri d(e) s(ua) f(aciendum)
c(urauit) / haue.
Une femme, Maria Salvia, affranchie d’un Marcus Marius, a réalisé un monument funéraire pour Publius Terentius Rufus, fils de Publius, son mari, et pour
Marcus Marius Gemellus, son frère, qui fut Augustalis. M. Marcus Gemellus est le
seul Augustalis connu à Byllis; il exerce une fonction municipale liée à la célébration du culte impérial. L’inscription funéraire révèle une des particularités de la
vie publique de la cité de Byllis, comparable à celle d’autres cités, avec l’existence
d’Augustales chargés de célébrer le culte impérial16. L’affranchi Marcus Marius
Gemellus est le seul personnage connu comme Augustalis à Byllis. Sa sœur Maria
Salvia a réalisé ce monument pour son frère ainsi que pour son mari. Elle est
associée par son mariage à un membre de la gens Terentia, qui semble avoir été
une gens très importante à Byllis. En effet, un autre individu nommé Terentius
apparaît à Byllis au premier siècle ap. J.-C. Il s’agit de Titus Terentius Aquila,
personnage très fortuné, qui offrit, avec son propre argent, un monument en
l’honneur de l’empereur Vespasien. Sur une plaque de calcaire trouvée dans
la basilique paléochrétienne B de la ville est gravée une inscription17 qui peut,
grâce à la titulature impériale, être datée de 73, année de la censure de Vespasien,
moment important pour l’histoire des provinces après les troubles qui avaient
suivi la mort de Néron et la crise du pouvoir impérial:
Imp(eratori) Caesar(i) / Vespasiano Aug(usto) / pont(ifici) max(imo) trib(unicia)
pot(estate) / V Imp(eratori) XI p(atri) p(atriae) co(n)s(uli) IV desig(nato) V
censori / T(itus) Terentius T(iti) f(ilius) Aem(ilia) Aquila / d(e) s(uo) f(aciendum)
c(urauit).
Cf. Ceka 1987b, nr. 65, fig. 40; CIA 196 = LIA 223. La partie centrale a été creusée pour
placer le champ épigraphique; les lettres ont de 4,5 à 9 cm de hauteur; des pilastres en relief
décorent les deux faces latérales de la stèle.
16
Cinq inscriptions mentionnent des Augustales à Dyrrachium: CIA 61 = LIA 69; CIA 63
= LIA 65; CIA 74= LIA 47; CIA 78 = LIA100; CIA 81 = LIA 115.
17
CIA 192 = LIA 198. Il s’agit d’une plaque de 79 cm de longueur sur 59cm de largeur.
15
147
Elizabeth deniaux
L’homme qui construisit le monument en l’honneur de l’empereur a pour
nom T. Terentius Aquila. Le gentilice Terentius est attesté à Dyrrachium18. Titus
Terentius Aquila est peut-être un citoyen venu de Dyrrachium puisqu’il est inscrit dans la tribu Aemilia qui est celle de cette colonie19.
Il est enfin intéressant d’associer au dossier de l’histoire des Marii de Byllis,
un document venu de Rome, un fragment de table de marbre trouvé en 1853
sur la via Appia20:
C. Mari[ ] / C. Mari Secund[i] / p. p. fil. / domo Byllid[ ] / C. Iulius Vindex / cliens
/ f ]aciundu[m curauit].
Nous n’en connaissons pas les dimensions et le lemme présente peu de détails. L’auteur du CIL, VI propose de restituer p. p. en p(rimi) p(ilaris); pour
l’origine de ce personnage, il pense à Byllide, ce qui renvoie à la ville de Byllis. Il
me semble possible de restituer l’inscription ainsi:
C(aio) Mari[o ---] / C(ai) Mari Secund[i] / p(rimi) p(ilaris) / fil(io) / domo Byllid[e]
/ C(aius) Iulius Vindex / cliens / faciundu[m curauit].
Il s’agit d’une dédicace faite à Caius Marius, fils de Caius Marius Secundus,
primipile, originaire de Byllis, par son client Caius Iulius Vindex. Le prénom des
deux individus nommés Marius connus à Rome est Caius. Caius Marius, qui bénéficie de la générosité de son client, affirme fièrement que son père est citoyen,
car il porte les tria nomina. Il donne la nomenclature onomastique complète de
son père, pour bien montrer qu’il est fils d’un citoyen romain; il affiche aussi
sa fierté pour la carrière de son père qui a servi dans l’armée romaine comme
Les autres Terentii connus à Dyrrachium sont P. Terentius Aper, CIA 70; LIA 122.
Terentius Dionysius CIA 70; LIA 122; Terentia Chrysopolis CIA 70; LIA 122 et M. Terentius
Syrus CIA 129; LIA 123.
19
Sur la tribu Aemilia, cf. Deniaux 2010, 65-70. Nous pouvons nous poser la question de
la tribu dans laquelle sont inscrits les citoyens de la colonie romaine de Byllis; en effet, Marcus
Valerius Lollianus, qui énonce ses titres et ses générosités à l’égard de la colonie, est inscrit dans
la tribu Quirina, cf. CIA 178; LIA 188 et cf. supra n. 2.
20
CIL, VI 22178; Le commentaire du CIL renvoie à l’inscription bien connue du CIL,
III 600; (CIL, III 600 = 14203 (35); CIA 178; LIA 188, celle de Marcus Valerius Lollianus,
signalée ci-dessus.
18
148
la famille des marii et l’histoire de la colonie romaine de byllis
centurion, et qui a atteint le grade le plus élevé des centurions des légions, celui
de primipile. Lui-même est sans doute aussi un militaire qu’un de ses clients honore. L’indication fournie par le nom de son client, Caius Iulius Vindex, est intéressante. Elle pourrait suggérer que son client, ou un ancêtre de celui-ci, dont
nous ne connaissons pas l’origine géographique, a bénéficié d’une introduction
dans la citoyenneté romaine grâce au patronage de César ou d’Auguste.
La mention de l’origo d’un soldat n’est pas exceptionnelle. Mais notre personnage est originaire de Byllis. C’est la seule mention d’une origo de la colonie
de Byllis, avec l’expression domo Byllid[e]21, dans la capitale de l’Empire et dans
tout le monde romain. A ce propos, nous pouvons noter la relative fréquence
de l’utilisation d’un ethnique dans le monde colonial de l’Illyrie du Sud et de
l’Epire. Localement, près de Byllis, une inscription funéraire22, gravée sur une
plaque de calcaire, signalait deux personnages dont l’ethnique était mentionné:
Caecilia L(ucii) f(ilia) / Venusta Byllid(ensis) / cum Lartidio Naisso / marito suo
hic sita est / cum quo annis XXXXII / sine querella sanctissime uixit.
Dans cette région, en effet, où le monde des cités se mêlait au monde des
koina, l’utilisation des ethniques était fréquent dans la nomenclature à l’époque
romaine. Caecilia Venusta, fille de Lucius Caecilius, est dite Byllid(ensis). Le mari
de Caecilia Venusta, de Byllis, porte le cognomen de Naissus, signalant ainsi qu’il
était originaire de la ville de Nish23.
L’inscription de Rome évoque le descendant d’une famille de colons, illustre
à Byllis, qui a fait une carrière militaire et est arrivé au grade de primipile24, ainsi
que son fils, d’autant plus fier de l’ élévation sociale de son père qu’il est originaire de la colonie de Byllis, située au milieu des montagnes de l’Epire.
En élargissant notre recherche à un même secteur géographique, celui des
colonies de la future Albanie à l’époque romaine, nous pouvons nous interroger
sur la présence d’individus portant aussi le nomen Marius à Dyrrachium. Un
Cela pourrait être aussi domo Byllid[ensi].
Cf. CIA 214 = LIA 206; l’inscription avait été signalée par Praschniker 1922-24,
198-199, nr 13; cf. aussi Ceka 1987b, nr. 74, fig. 46. L’ethnique est mentionné après le cognomen. Il s’agit d’une plaque de calcaire de 44 cm de hauteur trouvé encastrée dans le mur de
l’église Saint Trifon dans le village Shekisht, situé à l’ouest de Byllis.
23
Sur l’utilisation fréquente de l’ethnique dans cette région, cf. Deniaux 2011, 197-202.
24
Je remercie M. Dondin Payre et P. Cosme que j’ai sollicités à propos de cette carrière
militaire.
21
22
149
Elizabeth deniaux
Caius Marius Probus y est attesté. Le monument qui exalte sa mémoire est modeste, l’inscription est très simple. Le monument funéraire lui-même évoque les
premiers temps de la fondation coloniale25. Un second monument appartient à
un ensemble plus riche, un autel décoré du premier siècle ap. J.-C.; l’inscription
mentionne trois personnages portant le nom de Marius, un M. Marius, fils de
Caius, Licinianus, un Marius Peculiaris et une Maria Secunda26. Nous ne pouvons pas savoir s’il existait un lien entre les familles des deux colonies, ce qui
n’est pas impossible à imaginer.
L’épigraphie montre l’émergence d’une famille de notables, dans l’histoire
de Byllis romaine; trois inscriptions identifient des membres de cette famille.
A Byllis, dans une colonie dans laquelle l’absence de documents figurés est à
remarquer27, la seule image de défunts connue à ce jour est celle de membres
de la famille des Marii. Le nomen Marius est aussi le nomen du seul Augustalis
connu à Byllis; affranchi, il exerce une fonction municipale qui l’associe au culte
de l’empereur; l’exercice de cette charge permet de supposer qu’il dispose d’une
large disponibilité financière. Marcus Marius Gemellus Augustalis semble avoir
un réseau de relations très honorable; il est lié à la gens Terentia sans doute venue
de Dyrrachium, dont l’un des membres finance un monument en l’honneur de
Vespasien. C’est vraisemblablement au premier siècle aussi qu’un Caius Marius
Secundus recruté dans la légion romaine s’illustre comme centurion et atteint le
grade de primipile. Le fils de ce primipile, sans doute militaire aussi, bien inséré
dans son milieu, est honoré par un client appelé Caius Iulius Vindex. Les documents étudiés ici sont modestes; ils sont destinés à perpétuer la mémoire des
membres d’une famille de descendants de colons, dont la capacité financière,
l’attachement à la colonie sont remarquables.
Nous ne savons pas dans quelles légions le primipile Caius Marius Secundus a servi et nous ignorons dans quelles provinces il s’est illustré. Cependant,
pour conclure, il est intéressant de noter l’aptitude au métier des armes de deux
des citoyens connus de Byllis. Au nombre des descendants des colons de Byllis
Il s’agit d’un Caius Marius Probus, cf. CIA 122 = LIA 95. La forme du cippe funéraire évoque la forme des cippes grecs de Dyrrachium, nombreux dans le Corpus réalisé par P.
Cabanes et F. Drini, 1995.
26
Cf. CIA 60 = LIA 94: D(is) M(anibus) s(acrum) / M(arco) Mario /C(aii) f(ilio) Liciniano
/ M(arius) Peculiaris / et Maria Secun / da patrono /optime merito / et sibi u(iui) posuer(unt).
27
La colonie romaine de Dyrrachium et la cité libre d’Apollonia présentent une plus riche
collection de documents figurés.
25
150
la famille des marii et l’histoire de la colonie romaine de byllis
émergent deux grands militaires, un primipile et un officier supérieur qui a exercé d’importants commandements sous les Antonins. L’inscription rupestre de
Byllis est exceptionnelle par ses dimensions28 et par la carrière qui y est décrite.
Elle évoque les étapes de la carrière d’ un chevalier romain, sans doute originaire
de Byllis, qui a géré des fonctions équestres aussi bien à l’Ouest qu’à l’Est de
l’Empire. Il a exercé, entre autres fonctions, celle de tribun de la légion VII Gemina dans la péninsule ibérique, mais il a aussi été en Cappadoce avant d’être
choisi pour commander de nombreuses vexillationes lors de la guerre parthique
de Lucius Verus. Revenu dans la cité qui lui avait donné naissance, il a, avec son
propre argent, renforcé une via publica dans ce pays très accidenté où la circulation était très dangereuse, renforcé les rives d’un fleuve impétueux et reconstruit
des ponts pour permettre la circulation des véhicules dans sa région29. L’honneur que lui accorda la cité en lui permettant de graver ses exploits militaires et
le détail de ses générosités enrichit l’histoire d’une colonie créée pour exercer un
contrôle sur un point de passage important, mais que seule l’épigraphie permet
de faire émerger.
Fig. 1. La stèle des Marii de Byllis, photo CIA.
L’inscription est gravée sur le rocher non loin de la porte occidentale du rempart de la ville
de Byllis; elle mesure 3m de longueur sur 2 m de largeur.
29
Il s’agit de Marcus Valerius Lollianus ( CIL, III 600 = 14203 (35) (D 2724); CIA 178;
LIA 188. Sur M. Valerius Lollianus, cf. PME II, V, 17 et Deniaux 2008, 438-441. Cf. la fin de
l’inscription concernant la rénovation de la route: uiam pub(licam)que a col(onia) Byllid(ensium) par astacias ducit angustam fragosam [pe]riculosamq(ue) ita munit ut uehiculis commeetur
item [pon]tes in Argya [ f ]lumine et riuis d(e) s(uo) p(osuit).
28
151
Elizabeth deniaux
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155
ANGELA DONATI
Il linguaggio della guerra e della pace
nell’epigrafia di Augusto
L’immagine e la parola sono indubbiamente due fra i più importanti mezzi
di diffusione e di propagazione delle idee, nell’antichità come oggi. L’Ara Pacis
costituisce un esempio quanto mai significativo dell’uso del primo dei due
elementi di questo binomio, l’immagine, nell’ideologia augustea in quanto il
monumento – è quasi superfluo dirlo – non aveva iscrizione, né poteva averla
in quanto essa non era prevista nell’economia dell’Ara, che affidava ogni suo
messaggio proprio alle immagini.
Le testimonianze epigrafiche relative alla trattazione dei due temi, quello
della guerra e quello della pace, sono molto numerose e non consentono, in
questa sede, altro che un semplice richiamo di singoli elementi, dei dati e delle
costanti che si possono evidenziare nelle iscrizioni1. Il primo aspetto che emerge
con evidenza è il diverso comportamento assunto dall’epigrafia ‘ufficiale’, cioè da
quelle iscrizioni che appaiono dettate dalla cancelleria imperiale, rispetto all’epigrafia ‘privata’, quella, cioè, che emana da singoli, comprendendo fra questi
non solo persone, ma gruppi e addirittura intere comunità. Le due tipologie di
messaggi scritti evidenziano comportamenti diversi, che nascono da situazioni e motivazioni differenti che esplicitano – più o meno intenzionalmente, o
meglio coscientemente – un modo vario di sentire; a voler trarre da questo degli
elementi di carattere generale, credo si possa giungere a dire che l’epigrafia ‘uffiFra la sterminata bibliografia sull’età di Augusto mi limito a ricordare le trattazioni che si
riferiscono in particolare alla documentazione epigrafica: Alföldy 1991; Hickson 1991;
Panciera 1994; Pani 2013. Da ricordare anche il volume miscellaneo Contributi all’epigrafia d’ età augustea 2007, che pubblica gli Atti della XIIIe rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain, e la raccolta di saggi (già precedentemente èditi): Alföldy 1992.
1
157
angela donati
ciale’, di palazzo, evoca la guerra perché è dalla guerra che per Augusto nascono
l’ordine e la pace. Questo concetto è chiaramente espresso nelle Res Gestae Divi
Augusti, dove tornano più volte espressioni verbali come pacare, pacificare2, e
dove, a giustificazione della chiusura del tempio di Giano Quirino, si sottolinea che la pace è conseguenza delle vittorie riportate, senza che venga utilizzata la parola bellum: cum [p]er totum i[mperium po]puli Roma[ni terra marique
es]set parta victoriis pax3; immediatamente dopo Azio, invece, nell’iscrizione del
monumento di Nicopoli4, commemorativo della conclusione della guerra con
Antonio, l’indicazione è molto più esplicita: vict[oriam ma]ritimam consecutus
bell[o].
La vittoria in una guerra porta alla pacificazione: questo concetto è ribadito,
ad esempio, nel caso delle zone alpine ed emerge chiaramente dal confronto fra
le Res Gestae ove, nel già citato cap. 265, si parla di pacificazione con particolare
attenzione a quelle province confinanti con i territori di popolazioni non sottomesse al dominio romano, e il celeberrimo ‘Trofeo delle Alpi’6: mentre nelle Res
Gestae Augusto scrive pacari feci, nell’iscrizione si legge gentes Alpinae omnes…
sub imperium p(opuli) R(omani) sunt redactae, cui fa seguito il lungo elenco7
delle gentes Alpinae devictae. Appare inoltre singolare che proprio in questo
contesto delle guerre alpine sia stato inserito nelle Res Gestae l’inciso nulli genti
bello per iniuriam inlato che, secondo quanto afferma Svetonio8, sarebbe stata
una norma generale delle guerre dell’imperatore; le gentes Alpinae devictae
Ad esempio in RGDA 25: mare pacavi a praedonibus; 26: a Gadibus ad ostium Albis
flum[inis pacavi]. Mitchell - French 2012: a questa edizione faccio riferimento nei rinvii.
Vedi Fugmann 1991.
3
RGDA 13.
4
I 25 frammenti dell’iscrizione sono pubblicati in: Oliver 1969; un nuovo frammento è
stato èdito in Carter 1977; cf. AEp 1977, 778. L’iscrizione si data all’anno 29 a.C.: Schäfer
1993; Murray - Petsas 1989, 125-130.
5
Omnium prov[inciarum populi Romani] quibus finitimae fuerunt gentes quae n[on parerent
imperio nost]ro fines auxi. Gallias et Hispaniam provi<n>cia[s item Germaniam qua inclu]dit
Oceanus a Gadibus ad ostium Albis flum[inis pacavi. Alpes a re]gione ea quae proxima est Hadriano mari [ad Tuscum pacari fec]i nulli genti bello per iniuriam inlato.
6
CIL, V 7817.
7
Sui problemi connessi all’identificazione di alcune di queste gentes si vedano alcuni dei
saggi contenuti nel volume Epigrafia delle Alpi 2007. L’elenco è in parte ripetuto, in parte integrato nelle dediche a Livia (AEp 1954, 241) e a Giulia (AEp 1952, 212, 213) sul Magdalensberg.
8
Svet. Aug. 21: Nec ulli genti sine iustis et necessariis causis bellum intulit.
2
158
il linguaggio della guerra e della pace
dell’iscrizione – che si data al 6 a.C. – sono divenute, nel momento della redazione delle Res Gestae, semplicemente redactae sub imperium come conseguenza di un mutamento nell’interpretazione della politica imperiale e nel lessico
utilizzato. D’altra parte la catena alpina ha da sempre costituito un ostacolo da
superare, geografico ma anche politico: così Cesare9 al Gran San Bernardo iter
per Alpes patefieri volebat, e più tardi Drusus pater Alpibus bello patefactis derexerat la via Claudia Augusta, come indicano i due cippi miliari di età claudiana10
posti lungo il percorso della strada.
Nessuna qualità pacifista, ma solo clementia, iustitia e pietas erga deos
patriamque manifestate dall’imperatore11 sono menzionate nel clipeo aureo
dedicato dal Senato e dal popolo di Roma, ricordato dalle fonti e noto anche da
copie in marmo, la più completa delle quali è quella di Arles12; un esemplare in
marmo, ricostruito da più frammenti, è stato individuato anche a Roma, all’interno del Mausoleo di Augusto ed era probabilmente collocato sopra alla porta
di accesso13 dello stesso.
L’epigrafia ufficiale nomina la pax come esito di guerre vittoriose, come si
può constatare anche nella dedica collocata a Roma, nel Foro di Augusto, sulla
base di una statua (?) aurea donata dalla provincia della Hispania Ulterior Baetica all’imperatore quod beneficio eius et perpetua cura provincia pacata est14.
La pace, quindi, regna grazie alle vittorie, ed anche il culto di Pax viene introdotto in connessione con la fine delle guerre civili e con la restaurazione augustea; ad analoghi aspetti si collegano alcune iscrizioni di privati, come quella
forlivese di C. Castricio15, il bonus agricola che detta il codice comportamentale
da rispettare per una buona amministrazione e conduzione della familia agraria,
seguendo l’esempio di quanto viene realizzato a livello centrale.
Caes. Gall. III 1.
CIL, V 8002, 8003. Su una possibile paternità dello stesso Augusto a questo insolito inciso discorsivo presente nel testo: Donati 1989.
11
L’elenco delle virtutes dell’imperatore risulta, dalle fonti, molto più ampio come indicato
in Classen 1991; Noreña 2001. Sul significato ideologico delle virtutes dell’imperatore si
veda anche Pani 2013, 87-89.
12
AEp 1952, 165; 1954, 39; 1955, 82; 1994, 27.
13
Panciera 1994, 113-118.
14
CIL, VI 31267, cf. p. 3778; Alföldy 1991, 309.
15
CIL, XI 600.
9
10
159
angela donati
È da questi sentimenti, da questa constatazione, che nasce tutta una serie
di iscrizioni a Pax, Pietas, Salus, Libertas, Victoria, Iustitia, Concordia, Tutela
(seguite dall’epiteto di Augusta) e ad altre divinità che, come queste, si identificano con idee divenute realtà nella manipolazione dei media. L’epiteto Augustus
/ Augusta venne attribuito a quasi tutte le divinità del panteon romano16 e si
protrasse nel tempo senza più un preciso riferimento all’imperatore Augusto,
ma piuttosto all’idea che l’autorità del principe rappresentava. Un esempio di
questa valenza può essere costituito da una dedica da Mancha Real17 ove due
coniugi18, quasi sicuramente liberti, dedicano a loro spese il monumento a un
imperatore, alla Pax Augusta ed alla Concordia Augusta; la donna inoltre si
qualifica come ministra Tutelae Augustae: una vera e propria antologia di teonimi indicanti i sentimenti comportamentali della gente comune nei confronti
di un nuovo clima politico che non è però quello instaurato da Augusto, ma
da Vespasiano al termine della guerra civile seguita all’uccisione di Nerone in
quanto a quegli anni si data, su base paleografica, l’iscrizione. Alle stesse condizioni storiche vanno fatte risalire anche due dediche alla Concordia Augusta da
Tarragona19 da parte di due donne, entrambe flaminicae perpetuae di quel culto.
Fra le numerose testimonianze di omaggio da parte di intere comunità segnalo le due grandi are da Praenestae, decorate con festoni, entrambe opistografe,
dedicate dai decuriones populusque coloniae rispettivamente alla Pax Augusta20
ed alla Securitas Augusta21: la loro collocazione nello stesso contesto pubblico
testimonia il significato attribuito, in questo momento, alle due divinità intese
non come concetti astratti, ma come la personalizzazione delle più caratteristiche forme della mentalità religiosa romana per la quale beni concreti, come
appunto la pace e la sicurezza fisica, potevano essere raggiunti solo con l’identificazione come specifiche divinità.
Se ne veda un ampio elenco in Panciera 2003 (= Panciera 2006, 521-540).
CIL, II 3349 (ove era segnalata come perduta), ora in CIL, II2/7, 7,3.
18
O anche padre e figlia, come supposto in CIL, II2/7, 7,3.
19
CIL, II2/14, 1221 e 1222. Vedi anche: Bassignano 2013, nrr. 69 e 70.
20
CIL, XIV 2898; Granino Cecere 2005, nr. 5.
21
CIL, XIV 2899; Granino Cecere 2005, nr. 4.
16
17
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il linguaggio della guerra e della pace
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162
DANIELE FORABOSCHI
I primi Romani sul Nilo1
Già coi primi trattati romano-cartaginesi2 (magari mediati da alleati italici); successivamente, dopo il trattato con Taranto e la guerra vittoriosa contro
Pirro, Roma si qualifica sempre più come nascente potenza mediterranea che si
consoliderà con le guerre illiriche contro Teuta. Anzi ancor prima, se si segue la
mitologia dell’Alessandra di Licofrone.
Del resto già nella seconda metà del VI secolo a.C. ad Alalia, presso la Corsica nel mar Sardonio, si erano scontrati Focesi, Cartaginesi ed Etruschi italici,
dove i Focesi ottennero una «vittoria di Cadmo»3, cioè una vittoria simile a
quelle di Pirro, quando i vincitori subiscono tali perdite che devono lasciare il
campo e fuggirsene (sulle coste del Tirreno e a Marsiglia, nel caso dei Focesi).
Dopo l’ultima guerra sannitica Roma rafforzerà inevitabilmente la sua vocazione mediterranea.
Non sorprende quindi che nel 273 a.C. i Tolemei chiedano un’alleanza ai
Romani, con cui concluderanno un trattato internazionale4 gravido anche di
conseguenze culturali: una serie della monetazione romano-campana è chiaramente ispirata dallo stile delle monete di Arsinoe II Filadelfo5 e iscrizioni
in latino, oltre quella trilingue (latino, greco, geroglifico) di Cornelio Gallo6,
Questo lavoro mi è stato suggerito dalla splendida relazione di B. Legras al Convegno
Egitto. Dai Faraoni agli Arabi, a cura di Silvia Bussi (Legras 2013).
2
Scardigli 1991.
3
Hdt. I 166.
4
Liv. perioch. XIV;Dio Cass. X 41; Eutr. II 15.
5
Foraboschi 1987; Cavagna 2008.
6
P.Philae 128, del 29 a.C.; P.Philae 63 del 32 a.C. è un proskunema alla dea Iside di un eparchos romano. L’iscrizione di Cornelio Gallo esalta con un politicamente pericoloso stile regale
1
163
daniele foraboschi
si troveranno anche sull’isola di File ancor prima della nascita di Cristo7.
Già nella prima metà del II secolo a.C. Roma appare una potenza egemone
in Egitto e nell’area circostante, anche se il racconto del cosiddetto «Cerchio di
Popilio» sembra un poco leggendario.
Secondo Polibio8 e Livio9 nel 169 a.C. Antioco IV Epifane di Siria, che aveva
invaso l’Egitto, viene affrontato da un’ambasceria romana guidata da Gaio
Popilio Lenate. I Romani intimano al re di ritirarsi immediatamente. Antioco,
alle cui spalle era schierato tutto il suo poderoso esercito, chiede di consultarsi
con i membri della sua corte. Ma Popilio Lenate traccia con una verga (un ramo
di vite) un cerchio attorno a lui e gli intima con prepotenza di ritirarsi immediatamente, cosa che il re, ben consapevole della forza e della potenza dei Romani,
esegue, malgrado gli ambasciatori romani fossero inermi mentre lui aveva alle
spalle un esercito poderoso. Il fatto è indubbiamente significativo, anche se forse
Antioco prorogò di qualche tempo il suo tentativo di occupazione del regno
egiziano10.
Ma la leggenda servì a inorgoglire il patriottismo romano.
Il più antico papiro relativo ad un romano in Egitto sembra per ora un contratto di credito del 252 a.C.11 di cui è testimone un tale «Dinnos Romaios», che
risulta essere membro del corpo di mercenari guidati da Automedonte12.
Di qualche decennio successivo è un documento in cui dei Romani13 appaiono coinvolti in un contratto di credito marittimo14 assieme a persone di dispale sue imprese belliche nell’Egitto meridionale, le sue vittorie, la tutela concessa al re degli Etiopi. Il testo è complesso, anche per alcune disparità tra diverse versioni. Per questo la bibliografia
è così ampia che mi limito a citare gli ultimi studi: Hoffmann - Minas-Nerpel - Pfeiffer
2009. Più in generale: Locher 1999; Lembke - Minas-Nerpel - Pfeiffer 2010. Per il testo
geroglifico: Bresciani 1989.
7
P.Philae 147. Sulla presenza dei Romani nell’Egitto ellenistico esiste una buona bibliografia ottimamente utilizzata nel saggio sullo stesso tema: Heilporn 2010. Per questo non elenco
tutte le attestazioni, ma quelle più significative o dimenticate.
8
Polyb. XXIX 27.
9
Liv. XLV 12.
10
Foraboschi 1996.
11
P.Lond. VII 1986.
12
In P.Heid. VIII 412, 5 del 186 a.C. troviamo ancora menzionato un comandante militare
(lochagòs) dei soldati di Automedonte.
13
«Kintos» di r. 23 può essere un Quintus?
14
SB III 7169.
164
i primi romani sul nilo
rate nazionalità: Spartani, Marsigliesi, Tessalonichesi, Eleati, Cartaginesi. Sono
tutti coinvolti nel credito attraverso un romano di nome Gneo, ma (particolare
affascinante) hanno come meta quella di navigare verso Sud, verso una mitica ed
indefinita terra degli aromi15.
Nel 112 a.C. si data il ben noto papiro dei preparativi per la visita di un senatore romano16. Il visitatore romano deve essere accolto con i massimi onori e
regali, ospitato nelle camere migliori e trattato come un turista di rispetto, cui si
devono mostrare il tempio di Petesuchos, i coccodrilli e il Labirinto.
Il senatore è Lucio Memmio «Romaios», di cui si conosceva il rango politico, se si dice che occupava una posizione di grande prestigio nel Senato17. La
gens Memmia costituiva un prestigioso clan romano e un Lucius Memmius fu
anche monetiere proprio verso la fine del II secolo a.C.18. Era indubbiamente
parente di C. Memmio che nel 99 a.C. fu assassinato dalla fazione aristocratica
di Saturnino19.
Tra le altre attestazioni più interessanti ci sono quelle della gens dei Peticii,
commercianti attestati in tutto il Mediterraneo da un’ottantina di iscrizioni e
forse originari di Amiternum20, in Abruzzo. All’Aquila si conserva un curioso
bassorilievo raffigurante un uomo che su di un dromedario trasporta anfore di
vino. Ma come spiegare la presenza di un dromedario nell’Abruzzo del I secolo
a.C.? Due graffiti21 trovati sulla strada che dal porto nilotico di Koptos conduceva a quello di Myos Hormos sul Mar Rosso possono sciogliere l’enigma. Uno
recita in latino «C. Peticius», l’altro in greco «Γάιος Πετίκιος». Si trattava di un
clan di commercianti di vino verso i mercati orientali (India?) che fecero conoscere il dromedario ai propri compaesani dell’Abruzzo22. Erano commercianti a
largo raggio: Peticius Marsus si trova sia su un dolium tra i resti del naufragio di
Diano Marina sia sul basamento di una statua bronzea di Ercole trovata vicino a
Sulmona23: grandi commercianti non insensibili alla cultura.
Strabo XVI C783.
Select Papyri II 416.
17
Ibid., r. 3.
18
RRC 304/1.
19
Cavaggioni 1998, 140.
20
Vd. Segenni 1985.
21
CIL, III 1, 29.
22
Tchernia 1997, 238-249.
23
Gianfrotta 1989.
15
16
165
daniele foraboschi
Diverso è il rilievo della presenza in Egitto di grandi politici come Cesare,
Antonio ed Ottaviano.
Per restare alla minuta documentazione dei papiri, quando, dopo il 55 a.C.,
Tolemeo XII Aulete si è così indebitato coi Romani da non riuscire a restituire
la cifra deve nominare come dioiketés dell’Egitto Rabirio Postumo, che in poco
tempo cercherà di risucchiare le ricchezze dell’Egitto. Nell’omonima orazione
Cicerone lo difenderà, ma non ne eviterà la condanna all’esilio e il disprezzo
espresso in un frammento di papiro24 in cui si ricordano le sue malversazioni e
la sua rapina (ἁρπαγή). Forse non è un caso che il termine ἁρπαγή a favore dei
Romani ricorra anche in altri papiri del I secolo a.C.25
Va infine accennato al cosiddetto papiro di Cleopatra26 la cui ultima scrittura
(γενέσθωι) è stata attribuita da alcuni, con poca credibilità, alla stessa regina.
Qui si fanno alcune concessioni fiscali ad un generale di Marco Antonio sul
trasporto di alcune centinaia di migliaia di kg di grano e litri di vino, oltre ad
altri favori27.
Tra gli ultimi personaggi nati in epoca precristiana che sono attratti e affascinati dall’Egitto troviamo Seneca , il filosofo. Prima del 31 d.C. fu molto malato,
fino al punto di pensare di togliersi la vita28. Forse si trattava di una grave bronchite ed asma che si manifestavano in un senso insopportabile di soffocamento29. Per questo cercò sollievo nel vivificante clima dell’Egitto, di cui era prefetto
suo cognato Gaio Galerio30. Qui ebbe in donazione una tenuta (senekané ousia)
disseminata in varie parti dell’Egitto e che, come tutte le altre donazioni di terre,
verrà poi confiscata per essere trasformata in terra imperiale (ousiaké gé)31.
Balconi 1993 = SB XXII 15203.
BGU XIV 2430; XVI 2577.
26
P. Bingen 45 del 23 Febbraio del 33 a.C. All’iscrizione di Cornelio Gallo ho già accennato
all’inizio.
27
Legras 2013, 159 n. 1.
28
Sen. epist. 78, 1-2.
29
Sen. epist. 54, 1-4.
30
Qualcosa si può indurre da Sen. nat. IV 2, 1-8; Sen. dial. XI 19, 4-6 (ad Helviam de
consolatione).
31
Parassoglou 1978, 82.
24
25
166
i primi romani sul nilo
Ma anche quando divenne provincia imperiale l’Egitto non conobbe una
fitta presenza di Romani, anche perché una sola legione bastava normalmente a
difenderla e controllarla.
Si formano comunque delle colonie di veterani che, dopo il servizio militare,
si stanziano su quelle terre fortunate, come i veterani della kome di Karanis, sul
bordo dell’oasi del Fayum32. I Romani e i romanizzati costituiscono circa il 14%
della popolazione di un villaggio di circa 2/3000 abitanti, cioè poche centinaia
di persone che lasciano scarse tracce di latinizzazione.
Sempre nel Fayum, attorno al villaggio di Euemeria, si stanzieranno altri
Romani. Tra essi (ma siamo ormai nel I secolo d.C.) spicca Lucius Bellienus
Gemellus33, un veterano che, come molti nell’impero, dopo il congedo non
tornò a casa, ma restò nella terra dove aveva svolto il servizio militare e divenne
un apprezzabile proprietario terriero. Visto il cognomen Bellienus (da collegarsi
al Dio celtico Beleno, Bellenus34) poteva essere discendente di una famiglia di
Celti romanizzati e arruolati nell’unica legione normalmente stanziata in Egitto: i soldati romani erano abituati a lunghi spostamenti. Belleno Gemello era
un uomo di rango e di stile: in un’elegante scrittura letteraria scrive a un suo
addetto di prendersi cura del concime della tenuta35. Allo stesso modo il figlio
Bellieno Sabino scrive per avere abbondanti quantità di mostarda di senape36. È
il solito mondo della piccola nobiltà di provincia.
In un discorso più generale si può dire che i Romani conquistarono e sfruttarono l’Egitto, ma ne furono presto affascinati. È a Roma che nasce presto l’egittomania, in parallelo con altri fenomeni di disprezzo dell’Egitto.
Nella seconda decade prima di Cristo il ricco Caio Cestio Epulone fece
costruire in poche centinaia di giorni la famosa piramide Cestia, perché fosse il
suo sepolcro, vincolando i tempi della costruzione con il suo testamento37.
Ancor oggi Roma ostenta 18 obelischi, di cui 9 furono trafugati dall’Egitto38. E anche a Istanbul è stato trasportato un obelisco di Tuthmosis III. L’egit-
Alston 1995, 117-142.
Hohlwein 1957.
34
Zaccaria 2008.
35
P.Fay. 110 del 94 d.C.
36
P.Fay. 122 di circa il 100 d.C.
37
Signorini 2013, 343-355.
38
Zardo 2007.
32
33
167
daniele foraboschi
tomania ha un’origine ben antica39: in tutto il mondo si contano una trentina di
obelischi faraonici…
Sull’interessante e articolato fenomeno culturale dell’egittomania gli studi sono innumerevoli. Mi limito a citarne alcuni: Piacentini 2000 e Ead. 2011; Capriotti Vittozzi 2000; Mor 2002; De Caro 2006; Colla 2007: «the pedagogical mission of the British Museum certainly did present its objects as instruments. The antiquities on display were
conceived of as instruments for the edification of museum goers». Ma secondo filosofi come
Heidegger, Horkheimer e Adorno questo non è solo un errore epistemologico. È anche una
potenziale violenza perché trasforma il mondo percepito come se fosse il mondo oggettivo.
Qui nel nostro concreto si passa dalla egittologia alla egittomania. Nell’Egitto post-romano
la figura del Faraone è vista negativamente in quasi tutta la tradizione araba, fino ai Fratelli
Mussulmani (76-77; 245-249). Ma il ‘faraonismo’ (il recupero di un’‘identità faraonica’ sembra
un fenomeno essenziale del nazionalismo egiziano, fino ai Presidenti Sadat e Mubarak (273277). Del resto forse ancora oggi la guardia d’onore della tomba di Sadat è formata da soldati
in abbigliamento faraonico.
Anche se su un piano più divulgativo (opera comunque di noti specialisti) mi sembra interessante il fascicolo 17 di «Dossier de l’art», Egyptomania (Dijon, Février-Mars 94), dove si
illustrano gli influssi e l’origine dell’egittomania nella scultura, la pittura, le arti decorative e la
gioielleria.
Vd. anche Sena Chiesa 2013 e Brier 2013 (che è così egittomane che pare che abbia
come nickname Mr. Mummy).
39
168
i primi romani sul nilo
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171
ESTELA GARCÍA FERNÁNDEZ
Estrabón (III 2, 1) y la fundación de Córdoba.
Una nueva propuesta de interpretación*
En un conocido trabajo dedicado al estudio de la colonización romana en
Hispania afirmaba el profesor Bandelli que la posibilidad de reconstruir, dentro
de ciertos límites, el marco general de las fundaciones romanas de la Península
Ibérica dependía en parte
dalla ricognizione e dall’esegesi di notizie saltuarie contenute in autori diversi,
come gli storici Diodoro, Livio e Appiano, i geografi Strabone e Tolomeo, il lessicografo Stefano di Bisanzio1.
Asumiendo esta recomendación de trabajo quisiera presentar en estas páginas en homenaje a Gino Bandelli una pequeña aportación a la exégesis histórica
de un pasaje de Estrabón referido a Corduba, ciudad fundada por Roma en la
Hispania Ulterior en la primera mitad del siglo II a.C. El fragmento estraboniano, que posee un valor histórico particular por cuanto describe las circunstancias que acompañaron a dicha fundación, es el siguiente2:
πλεῖστον δ’ ἥ τε Κόρδυβα ηὔξηται, Μαρκέλλου κτίσμα, καὶ δόξῃ καὶ δυνάμει καὶ ἡ
τῶν Γαδιτανῶν πόλις, ἡ μὲν διὰ τὰς ναυτιλίας καὶ διὰ τὸ προσθέσθαι Ῥωμαίοις κατὰ
συμμαχίας, ἡ δὲ χώρας ἀρετῇ καὶ μεγέθει, προσλαμβάνοντος καὶ τοῦ ποταμοῦ Βαίτιος
Este trabajo se enmarca dentro del proyecto de investigación Nuevas bases documentales
para el estudio histórico de la Hispania romana de época republicana Ref. HUM 2011-26561.
Ministerio de Economía y Competitividad. Gobierno de España.
1
Bandelli 2002, 106.
2
Strabo III 2, 1.
*
173
estela garcía fernández
μέγα μέρος. ᾤκησάν τε ἐξ ἀρχῆς Ῥωμαίων τε καὶ τῶν ἐπιχωρίων ἄνδρες ἐπίλεκτοι. καὶ
δὴ καὶ πρώτην ἀποικίαν ταύτην εἰς τούσδε τοὺς τόπους ἔστειλαν Ῥωμαῖοι. Μετὰ δὲ
ταύτην καὶ τὴν τῶν Γαδιτανῶν ἡ μὲν Ἵσπαλις ἐπιφανής, καὶ αὐτὴ ἄποικος Ῥωμαίων.3
Además de destacar la importancia de Cádiz y Córdoba en la Turdetania,
Estrabón detalla que esta última fue fundada por Marco Claudio Marcelo,
quien en la primera mitad del siglo II a.C. estuvo en dos ocasiones en Hispania4,
y además que la ciudad fue poblada por individuos escogidos entre romanos e
indígenas. Asimismo después de alabar la amplitud y fertilidad de su territorio,
añade también el geógrafo que Corduba fue la primera colonia (apoikía) enviada
por los romanos a estos lugares.
Este pasaje que ha recibido mucha atención de la investigación ha sido
interpretado de un modo prácticamente unánime en una misma dirección: la
información suministrada por Estrabón haría referencia exclusivamente a las
circunstancias que acompañaron a la fundación de la colonia latina de Corduba
en época republicana5. Sin embargo a pesar de este consenso casi general sobre
el sentido del texto, parece aún posible realizar una nueva lectura del mismo
parcialmente divergente de la interpretación habitual, que permitiría devolver
al texto estraboniano la complejidad que a mi modo de ver encierra, enriquecer nuestro conocimiento sobre la historia constitucional de la ciudad y además
explicar algún desajuste, en relación a los datos de que disponemos, detectado
en el pasaje. Es sabido que de la lectura de este fragmento se deriva una contraHe seguido la edición del texto griego de Lassarre 1966, 30-31; asimismo he tenido
presente la edición alemana de RADT 2002, 348.
4
M. Claudio Marcelo estuvo en dos ocasiones en Hispania, una primera como pretor y
propretor de las dos provincias hispanas durante los años 169/168 a. C. a causa de la tercera guerra Macedónica (Liv. XLV 4) y nuevamente en los años 152/151 a.C., esta vez como
procónsul de la Hispania Citerior (App. Iber. 48-49). Es preferible la fecha más alta porque
como ha observado con un punto de ironía Canto (1997, 262-266) parece difícil que un
general romano se detenga a invernar en una ciudad que previamente hay que tomarse la molestia de fundar (Polyb. XXXV 2, 2). Un tratamiento detenido sobre la cronología de la fundación
con referencia a la bibliografía anterior, Jimenez 2008, 306-308.
5
La única excepción, Canto 1991 y Canto 1997 que identifica al Markéllos del pasaje
estraboniano con el sobrino de Augusto. Por razones de espacio remito a una publicación anterior donde discuto pormenorizadamente la tesis de esta autora, García Fernández 2002,
268-270. Además de la monografía de Knapp 1983, los trabajos más recientes de Jimenez
2008, Jimenez - Carrillo 2011 recogen toda la bibliografía anterior. Sobre la condición
latina de Córdoba recientemente, Beltrán 2010, 138-139, 142-143.
3
174
estrabón (III 2, 1) y la fundación de córdoba
dicción inmediata que ya ha sido observada y explicada por diferentes autores,
aunque no resuelta aún de un modo satisfactorio en mi opinión. Al atribuir toda
la información suministrada por el pasaje al momento fundacional de la ciudad,
por tanto al siglo II a.C., parece evidente que la consideración de Córdoba como
«proté apoikía», esto es, como la «primera colonia» enviada a estos lugares,
entraría en abierta colisión con la existencia de otras fundaciones de cronología
más temprana llevadas a cabo por Roma en Hispania. Aunque pueda ser fácil
desembarazarse de la fundación de Italica en el 205 a.C. o de Gracchurris en el
179 a.C. arguyendo que es discutible el carácter colonial de ambas ciudades,
queda en pie sin embargo la irrefutable condición colonial latina de Carteia
fundada en el año 171 a.C.6. Sería por tanto la existencia de esta última colonia hispana la que requiere una explicación para evitar la colisión con el pasaje
de Estrabón donde se afirma que fue Corduba la primera colonia enviada por
los romanos. Habitualmente este pequeño escollo se salva limitando el alcance geográfico de la expresión estraboniana «a estos lugares» (εἰς τούσδε τοὺς
τόπους) al valle del Guadalquivir, de este modo el conflicto cronológico entre
ambas fundaciones desaparecería al entenderse que la ubicación geográfica de
una y otra ciudad en la Hispania Ulterior es diferente7.
A mi modo de ver esta contradicción brota no tanto del texto en sí, como de
la lectura que se hace del mismo. Estas páginas tendrán pues como objetivo el
análisis del pasaje de Estrabón con el fin de brindar argumentos que demuestren
que el geógrafo no se limitó a describir únicamente las circunstancias que acompañaron a la fundación de Corduba en el siglo II a.C., sino que proporciona un
apretado (y valioso) resumen de la historia constitucional de la ciudad, tanto de
su etapa latina como de la romana. El pasaje estaría informando efectivamente acerca de una fundación (κτίσμα) llevada a cabo por M. Claudio Marcelo
en Hispania que se nutrió de población mixta escogida, «romana» e indígena.
Aquí se acabaría en mi opinión toda la información institucional referida a la
antigua etapa colonial latina de Córdoba. Pero además, prosigue inmediatamente Estrabón, esta misma ciudad sería la primera ἀποικία, la primera colonia,
«enviada por los romanos a estos lugares», en referencia a la posterior condición de colonia romana que adquirirá Córdoba inmediatamente después de la
muerte de César a través del envió de un contingente colonial, esta vez proveLiv. XLIII 3, 1-4.
Este criterio discriminador de carácter geográfico ya había sido señalado por Galsterer
1971, 9 n. 21; Canto 1991, 847-848 nn. 13-14 y Stylow 1996, 80.
6
7
175
estela garcía fernández
niente de Roma. La primacía en la obtención de un status colonial romano
estaría en consonancia con la importancia y peso de la ciudad en la provincia,
con independencia del carácter de castigo que hubiera tenido o no esta segunda
fundación8.
En apoyo de esta interpretación acude el hecho de que si se insiste en atribuir
todo el pasaje a un mismo momento fundacional, como viene siendo la exégesis
habitual, de la propia exposición de los hechos que realiza Estrabón brotaría
una primera contradicción interna en la que no se ha reparado. La fundación de
Córdoba parece seguir el procedimiento fundacional simplificado que Roma
utilizó para crear ciudades de tipología colonial en Hispania durante la República, de acuerdo al cual el reclutamiento de la población la realizaría el propio
general que sería el responsable de elegir in situ los contingentes de población,
«romanos» e indígenas que van a ocupar la colonia9. Los futuros colonos elegidos por Marcelo en un simulacro de adscriptio, no serían población trasladada
«desde fuera de Iberia», sino contingentes militares que ya estaban en Hispania, veteranos quizá del ejército licenciados tras las campañas efectuadas por
Marcelo contra celtíberos y lusitanos en el 152 a.C. que deciden quedarse aquí
y no volver a Italia, a los que se añadiría población local proveniente del cercano
poblado turdetano10.
Ahora bien, si se defiende que la elección de los contingentes fue realizada por el propio Marcelo y tuvo lugar en territorio hispano y haciendo uso de
población romano-itálica que estaba en Hispania además de indígenas, no puede
aceptarse a la vez que estos contingentes fueran enviados por los romanos desde
Italia, como afirma el pasaje estraboniano (πρώτην ἀποικίαν ταύτην εἰς τούσδε
τοὺς τόπους ἔστειλαν Ῥωμαῖοι), sin que salte a la vista una evidente contradicción
en el procedimiento de elección de los colonos que, o bien se reclutan in situ en
territorio hispano como hizo Claudio Marcelo o bien son enviados (ya reclutados y elegidos) desde Roma; o una cosa u otra11.
Bell. Hisp. 3, 1.
García Fernández 2009a, 381-385.
10
Rodríguez Neila 2005, 317-320, para las diversas hipótesis sobre el origen de los dos
grupos de población. Este autor contempla en cualquier caso, que ambos contingentes fueron
seleccionados en territorio provincial.
11
No puede interpretarse que el verbo stéllo pueda indicar de un modo genérico el envío de
tropas a Hispania, entre las cuales se eligió tiempo después parte de los contingentes poblacionales de Córdoba. El texto precisa que el envío tuvo forma ‘colonial’, es decir, que la población
ya venía elegida y organizada.
8
9
176
estrabón (III 2, 1) y la fundación de córdoba
Esta contradicción, que una lectura detenida permite advertir en el pasaje
estraboniano, desaparece sin embargo, además de la señalada más arriba, si se
reconocen dos fases distintas de información relativas a la ciudad y por tanto la
referencia a dos procedimientos de «deducción» colonial diferenciados y separados en el tiempo que se corresponden estrechamente con las dos condiciones
coloniales poseídas por Córdoba en diferentes momentos de su vida constitucional: una primera condición colonial latina disfrutada en época republicana
y una posterior condición colonial romana que había de adquirir al finalizar las
guerras civiles.
El argumento filológico puede acudir en ayuda de esta interpretación. Ambas
fases están separadas en el texto por la partícula καὶ δὴ καὶ que se utiliza tras
puntuación fuerte y cuya función es introducir una acción relacionada con la
anterior pero distinta, señalando un nuevo punto de partida, uso que está atestiguado con este valor en Estrabón en numerosos pasajes12. A mi modo de ver
es importante interpretar correctamente el matiz que introduce esta partícula
porque de ello depende la intelección del texto en una u otra dirección. Si el
valor que se atribuye es causal o explicativo quedan necesariamente vinculadas
ambas acciones, esto es, la fundación de Córdoba por Claudio Marcelo con un
contingente poblacional mixto con el hecho que sea la primera colonia enviada
a estos lugares13. Si por el contrario se confiere a la traducción un valor adverbial
de cantidad, ambas acciones quedan separadas, no derivándose la una de la otra,
sino que la última se sumaría a la anterior. La traducción realizada por Meana y
Piñero recoge a mi modo de ver el matiz correcto y facilita la comprensión del
texto «desde un principio la habitaron gentes escogidas de los romanos y los
indígenas, y además (καὶ δὴ καὶ) fue ésta la primera colonia que enviaron a estos
lugares los romanos»14, es decir ambas características o acciones se suman, no se
Strabo I 3, 2; I 3, 9; III 2, 3; IV 1, 5; V 2, 6; VI 2, 4 entre otros. Sobre el uso de esta partícula, Denniston 1954, 255-257. Agradezco a Carlos Molina Valero la consulta de esta obra.
13
Ciñéndome exclusivamente a las traducciones en lengua española se puede observar el
establecimiento de esta conexión en la antigua y valiosa traducción de García y Bellido
(1986, 70) donde se dice «Habitáronla desde el comienzo un núcleo selecto de rhomaíoi y
de indígenas vecinos, pues fue ésta la primera colonia que los rhomaíoi enviaron a dicho territorio». Asimismo en la más reciente traducción de Gómez Espelosín et alii (2007, 163) se
mantiene la misma interpretación del texto: «la habitaron desde el principio individuos elegidos de los romanos y de los indígenas; efectivamente Corduba fue la primera colonia que los
romanos enviaron a estas regiones».
14
Meana-Piñero 1992, 48-49.
12
177
estela garcía fernández
derivan la una de la otra. Desde esta interpretación del pasaje se colige perfectamente que en la mente de Estrabón estaba la idea de introducir dos informaciones relativas a Córduba que consideró de interés y que seguramente obtuvo de
dos fuentes distintas15.
Además en la composición sintáctica del pasaje se puede observar que Estrabón utiliza dichas partículas para introducir una transición en el texto y hacerlo
avanzar. De este modo deja atrás la descripción fundacional de Córdoba y pasa
a su posterior etapa romana para conectar con la condición colonial romana
que a continuación afirma que también disfruta Hispalis «colonia también ella
de los Romanos (καὶ αὐτὴ ἄποικος Ῥωμαίων)». Si Estrabón no hubiese pasado a
hacer referencia a Córdoba como colonia (romana) como indica además el uso
del término apoikía, no se entiende por qué traducir la conjunción copulativa
kaí con el valor adverbial de ‘también’, que no indica sino la idea de igualdad o
semejanza con una cosa ya nombrada. Y la única ciudad de las citadas en el pasaje inmediatamente anterior cuya condición pueda asimilarse a la que disfruta
Hispalis, es Corduba, dado que Gades no poseyó condición colonial alguna ya
que de ciudad federada pasó a convertirse en un municipio optimo iure de la
mano de César16. Parece claro que Estrabón quiere decir que «también Hispalis», como Córdoba (el otro término de semejanza) es colonia romana. Dado
que esta condición en modo alguno puede haber sido disfrutada ni por una ni
por otra ciudad en el II a.C., hay que situar esta información en una fecha inmediatamente posterior al mes de marzo del año 44 a.C. cuando se empieza a aplicar en la Ulterior el programa de promoción cesariano, lo que indica el avance
cronológico que de un modo casi imperceptible se realiza en el texto.
El pasaje estraboniano constituiría entonces un apretado y actualizado resumen de la vida constitucional de Córdoba que abriga dos horizontes cronológicos diferentes. Aludiría primero a su inicial condición de colonia latina fundada
por Claudio Marcelo con población mixta escogida en la primera mitad del siglo
II a.C. y además (καὶ δὴ καὶ) a su posterior condición de primera colonia romana
de la Ulterior adquirida en el 44-43 a.C. Esta interpretación del texto además
de procurar un mayor rendimiento histórico disolvería las dos contradicciones
señaladas anteriormente. En primer lugar no sería necesario recurrir a restricción geográfica alguna para explicar la presencia de Carteia en fecha anterior a la
Una de ellas podría ser el propio Asinio Políon habida cuenta de que el fue el deductor
de la colonia romana Corduba Patricia, Caballos 2006, 338- 362; Ventura 2006, 93-94.
16
Liv. perioch. CX; Dio. Cass. XLI 24, 1.
15
178
estrabón (III 2, 1) y la fundación de córdoba
fundación de Córdoba, puesto que su carácter de proté apoikía correspondería a
su segunda vida constitucional como colonia romana y no a su más antigua etapa
republicana. Y en segundo lugar desaparecería la paradoja a que inevitablemente conduce la interpretación unitaria del fragmento que obligaría a aceptar un
doble y contradictorio lugar de origen de los colonos: reclutados in situ, pero a
la vez enviados desde Roma, cuando en realidad Estrabón está describiendo dos
modos de reclutamiento colonial claramente diferenciados en cuanto a función,
estatus jurídico y cronología. El autor describe en primer lugar el procedimiento
fundacional característico de las ciudades de tipología colonial latina que Roma
fue creando en Hispania en época republicana (ᾤκησάν τε ἐξ ἀρχῆς Ῥωμαίων τε
καὶ τῶν ἐπιχωρίων ἄνδρες) y en segundo lugar se alude sucinta e implícitamente
al protocolo habitual empleado para deducir colonias romanas al menos desde
época postgracana (καὶ δὴ καὶ πρώτην ἀποικίαν ταύτην εἰς τούσδε τοὺς τόπους
ἔστειλαν Ῥωμαῖοι).
En el primer caso en la descripción estraboniana están presentes las dos características principales que adquiere el expediente colonial latino en Hispania:
la modificación de su perfil poblacional y la simplificación del procedimiento
fundacional. Frente a las colonias latinas fundadas por Roma en Italia y Galia
Cisalpina donde la población de origen romano es dominante17, en Hispania el
expediente adquiere un carácter mixto al nutrirse de un modo significativo de
población local además de población de origen probablemente itálico, que no
romano, como corrobora la documentación arqueológica en el caso de Córdoba18. A pesar del uso del término Phomaíoi, utilizado en ocasiones en lengua
griega con un valor genérico19, es improbable que puede ser romana la población
foránea asentada en Córdoba por razones de diverso signo. La ubicación transmarina y no exenta de peligros de las fundaciones hispanas; el mayor interés de
Me refiero claro está a las colonias latinas deducidas por Roma después del 338 a.C., no a
las deducidas en los siglos V y IV a.C. en el marco de la colaboración federal, sobre las mismas,
Chiabá 2011, 59-128.
18
La documentación arqueológica arroja resultados coherentes con la idea de una fundación mixta de carácter colonial y con las circunstancias fundacionales descritas por Estrabón,
Murillo - Jiménez 2002, 184-85; Jiménez- Carrillo 2011, 60-63.
19
Rodríguez Neila 2005, 318, para el caso concreto de este pasaje; asimismo Chiabá
2011, 22-23 y 132-134, sobre la referencia a los habitantes de colonias latinas de Italia como
cives Romani o coloni Romani especialmente por T. Livio.
17
179
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los soldados licenciados por recibir tierras en Italia o en la Galia Cisalpina20, la
renuencia cada vez mayor de la población romana a perder su propia ciudadanía
hecho al que le aboca el perfil constitucional de las colonias latinas y el diseño
jurídico de la ciudadanía romana21 y que de alguna manera provocó el abandono
de este expediente en Italia y en la Galia Cisalpina, son razones que hacen poco
probable el asiento permanente de ciudadanos romanos en estas fundaciones
en la primera mitad del siglo II a.C. A su vez las aspiraciones de la población
latina, a juzgar por los testimonios contemporáneos, pasan por la adquisión de
ciudadanía romana o al menos eso parece deducirse de las expulsiones masivas
de latinos de Roma en los años 187 a.C.22 y 177 a.C.23 o de la vía heterodoxa
(novum ius) que ensayan en la misma época los Ferentinates para obtener la
ciudadanía romana24. De hecho en Italia se inicia el cambio del modelo colonial
con el abandono del expediente latino, Aquileia en el 181 o quizá Luca en el 180
a.C. son las últimas colonias latinas que se deducen, a la vez que se va abriendo
camino el recurso cada vez más frecuente a la colonización de derecho romano25.
Pero además de todas estas circunstancias, el texto de Estrabón suministra
algún dato adicional de valor. La utilización por este autor del término epílektoi, muy utilizado por Polibio en contextos militares para hacer referencia al
reclutamiento de tropas escogidas, abundaría en la interpretación que ofrecemos y suministra una información preciosa sobre la función militar de Córdoba
y el carácter definitivamente no romano de sus efectivos. Aclara Polibio en un
conocido pasaje de su obra26 que el adjetivo epílektoi es el que traduce el término
latino extraordinarii, que hace referencia a su vez a soldados que se agrupaban
en contingentes de carácter mixto, turmas y cohortes, escogidos entre las tropas
aliadas, y empleados fuera del alineamiento manipular. No quiero decir que
técnicamente el término tenga un valor y función similar en la mención estraboniana, pero sí que su uso (habida cuenta además de que Polibio en este pasaje
podría ser una de las fuentes de Estrabón) señalaría la aplicación de un criterio
militar para la elección de la población que había de integrarse como colonos
Bandelli 2002, 122.
Cic. Caecin. 100 y Cic. Balb. 28; 30.
22
Liv. XXXIX 3, 4-6.
23
Liv. XLI 8, 6-12; 9, 9-12.
24
Liv. XXXIV 42, 5-6.
25
Laffi 2002, 23; Salmon 1969, 98 y 95-109.
26
Polyb. VI 26, 6.
20
21
180
estrabón (III 2, 1) y la fundación de córdoba
en Córdoba. Los elegidos serían entonces, probablemente, los más aptos para
el servicio activo siendo la edad para combatir el criterio aplicado, ya que la
leva se haría en función del número de iuniores de una comunidad27. De hecho
González Román ya había señalado que la población indígena escogida que se
integra en la fundación se limitaría a aquellos contingentes de tropas auxiliares
que habían participado en las operaciones militares contra los celtíberos28 Todo
ello abundaría en la naturaleza militar de estas fundaciones de las que probablemente se espera que sean capaces de suministrar unidades militares operativas,
turmas o cohortes, como aquellas cohortes colonicae que en plena guerra civil se
encontraban en las inmediaciones de Córduba29.
Pero el empleo del término epílectoi y su aroma militar tiene un interés añadido pues indica que el procedimiento de reclutamiento seguido tuvo probablemente un carácter coactivo y no voluntario, lo que descarta en principio a
población romana. El enrolamiento en una colonia era voluntario para los
ciudadanos romanos, entre otras razones porque podía implicar, como sería el
caso de Corduba (o de cualquier comunidad latina o peregrina), una pérdida de
ciudadanía romana, y ningún ciudadano romano podía cambiar de ciudadanía
contra su voluntad, o al menos así lo afirma Cicerón30.
Este origen no romano de la población que va a habitar en Córdoba, ya sean
los indígenas integrados en la misma o los efectivos foráneos de origen probablemente itálico, es a mi modo de ver la causa de la segunda característica que
Ilari 1974, 143-146, quien cita entre otros textos unas cohortes delectae (Liv. XXXIV
14, 7; 20, 5) en Hispania (195 a.C.); los pasajes en Polibio en los que se hace uso del término
epílektoi en contextos militares son abundantes: Polyb. IV 19, 1; V 91, 6; V 96, 6; VI 31, 6 y 8,
etc. Sobre la edad del reclutamiento, De Ligt 2012, 55-63 con discusión.
28
González Román 1989, 203.
29
Cohortes quae colonicae appellabantur (Caes. civ. II 19, 3); a esta mención cabe añadir
la referencia al reclutamiento de una legión constituida por colonos de la Ulterior (facta ex
colonis qui fuerunt in his regionibus, Bell. Hisp. 7, 4) o la leva de caballeros romanos realizada
en todos los conventos y colonias de la Provincia Ulterior (ex omnibus conventibus coloniisque
conscriptos, Bell. Alex. 56, 4). Sobre el valor técnico de estas expresiones, García Fernández
2009b, 219-230. Este tipo de leva ex coloni(i)s es similar al realizado por César (civ. III 87, 4)
en la Galia Transpadana entre las colonias latinas de la zona: et plerique sunt (copiae) ex coloniis
Transpadanis.
30
Cic. dom. 78; Cic. Caecin. 98; Gaius Inst. I 131 sobre el cambio de ciudadanía que afecta
a todo aquel enrolado en una colonia latina. Sobre el carácter voluntario del enrolamiento, a
veces una simple fiction juridique Moatti 1993, 12-14.
27
181
estela garcía fernández
asiste en Hispania a estas fundaciones: la simplificación del procedimiento
fundacional31. El general asume mayores responsabilidades en el protocolo colonial al encargarse personalmente de la fundación y de la elección in situ de los
contingentes poblacionales que van a integrar la nueva ciudad, como es el caso
de Claudio Marcelo; es sintomático al respecto que en Hispania no se documenta la existencia de comisiones triunvirales, ni el protocolo habitual aplicado
por Roma en las deducciones coloniales, hecho éste que ya había sido señalado por Bandelli32. Precisamente hay pasajes de Livio que nos permiten entrever
que en la propia Italia también los trámites constitucionales habituales, es decir,
la necesidad de un mandato previo del senado o del pueblo y el nombramiento de una comisión triunviral encargada de llevar a efecto la deducción sólo se
sigue escrupulosamente cuando la población que se deduce es romana; si no es
así parece que el proceso fundacional de una colonia se vuelve constitucionalmente más informal, quizá porque desde el punto de vista romano se considera
que técnicamente no se asiste a una deducción33. Así se observa también en la
fundación de Carteia34 donde se prescindió de todo nombramiento de comisión
alguna, se encargó simplemente al pretor L. Canuleyo que procediera a registrar
como coloni a los hijos de soldados romanos habidos con mujeres indígenas, y
también a la población indígena que lo desease.
Si el reclutamiento realizado ἐξ ἀρχῆς para fundar Corduba se hace en el
mismo territorio provincial donde la ciudad se funda, inmediatamente después
Estrabón alude a un procedimiento que nada tiene que ver con el anterior por
cuanto los contingentes poblacionales son enviados desde Roma formando ya
una colonia (ἀποικίαν... ἔστειλαν). Esta sucinta descripción nos sitúa en un escenario cronológico y estatutario totalmente diferente por cuanto alude por un
lado al procedimiento habitual de deducción coloniaria de derecho romano y
Sobre esta cuestión García Fernández 2009a, 386-387.
Bandelli 2002, 124.
33
Este es posiblemente el motivo, como ha observado Salmon (1969, 67-68), por el cual
Asconio (Pis. 3 Clark) no incluye este reforzamiento sui generis de Cosa entre las 53 fundaciones coloniales existentes en el momento de la segunda deductio de Placentia en el año 190
a.C. Su solicitud de un suplemento de colonos fue finalmente atendida permitiendo el senado
simplemente que dicha colonia reclutase por su cuenta mil colonos de cualquier parte de Italia
siempre y cuando no hubiesen sido enemigos de Italia desde el 218 a.C. (Liv. XXXIII 24, 8).
Una interpretación diferente del número de colonias suministrado por Asconio, Marshall
1985, 88-90.
34
Liv XLIII 3, 1-4.
31
32
182
estrabón (III 2, 1) y la fundación de córdoba
por otro a la circunstancia política inmediatamente posterior a la finalización
de las guerras civiles, momento en el que la arrasada ciudad de Corduba recibe
su primera deducción de ciudadanos romanos. El envío de una colonia, como
literalmente dice el texto, implica que previamente se ha activado un complejo
protocolo que incluye, además de la aprobación de una ley al efecto, la elaboración de listas de candidatos (adscriptio) con aquellos que han dado su nombre
al magistrado (nomen dare), quienes tras su aceptación, convertidos en coloni,
quedan a la espera de ser enviados a su destino provincial35. Todo este procedimiento que se realiza siempre en Roma (y no en ámbito provincial) y a la vista
del pueblo romano (in conspectu populi Romani) puesto que éste tenía el derecho
a ejercer el control, al menos formal, de sus efectivos y patrimonio36, es el que
estaría implícito en la aparentemente sencilla expresión estraboniana.
Precisamente a este contexto parece apuntar también el uso del nominativo
plural Phomaíoi de la segunda parte del texto que a diferencia del anterior, que
encubriría a población no romana, tendría un carácter técnico ya que estaría
haciendo alusión a la autorización de la deductio colonial por una ley comicial,
es decir, por el pueblo de Roma, que en este caso sería la misma ley que propone
Caballos para la deducción de Urso, la lex Antonia de coloniis in agros deducendis
del año 44 a.C. destinada a ejecutar proyectos cesarianos37. En apoyo de esta
interpretación se podría aludir al uso del término apoikía por Estrabón (anteriormente la fundación fue denominada ktísma indicio añadido de que se trata
de procedimientos diferentes), empleado para designar colonias romanas38.
Pero sobre todo si la población era elegida por el propio Claudio Marcelo como
parece ser el procedimiento habitual en Hispania, difícilmente iba a conceder
La adscriptio que tenía lugar en Roma era la primera de las tres operaciones fundamentales
(adscriptio, deductio y sortitio) que había que llevar a cabo para fundar una colonia y que podía
realizarse paralelamente a la limitatio de las tierras coloniales; un análisis del protocolo colonial orientado especialmente al caso Hispano, Caballos 2006, 362-376 (aquí especialmente
366-367); asimismo Moatti 1993, 11-12 y 14-16. Señala la autora el lazo estrecho existente
entre la adscriptio y la condición de colono; para la descripción del complejo proceso de deducción colonial en Italia, Gargola 1995, 51-70.
36
Cic. leg. agr. I 3, 7; II 20, 55 ; vd. Moatti 1993, 14-15 y Caballos 2006, 367.
37
Sobre esta ley y la realización en la Ulterior del programa cesariano de colonización,
Caballos 2006, 332-338.
38
Tengo presente la observación de Bandelli (2002, 110) que señala la similitud entre la
frase empleada por Polibio para referirse a la fundación de la colonia romana de Sena Gallica en
el año 283 a.C. y la de Estrabón referida a Córdoba.
35
183
estela garcía fernández
el estado romano a un general la capacidad de elegir personalmente (y lejos de
Roma) a los ciudadanos romanos que habrían de poblar la colonia.
La conversión de la colonia latina Corduba en la colonia romana Patricia de
la mano de su deductor el procónsul Asinio Polión tendría lugar entre los años
44-43 a.C. con veteranos adscritos a la tribus Sergia en el marco de un amplio
programa cesariano de deducción colonial en el que habría que incluir las fundaciones coloniales de Hasta, Hispalis, Ucubi y Urso39. Ahora bien entre todas estas
ciudades, se reservó a Corduba, el honor, dudoso por lo que tuvo de castigo, de
ser la proté apoikía de la provincia Ulterior.
39
Ventura Villanueva 2008, 98-99.
184
estrabón (III 2, 1) y la fundación de córdoba
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187
SILVIA GIORCELLI BERSANI
L’«egregium commentarium» di Catavignus
La Biblioteca Reale di Torino, creata da Carlo Alberto di Savoia e allestita
dall’architetto di corte Pelagio Palagi, conserva non soltanto documenti straordinari, fra i quali il celeberrimo autoritratto di Leonardo da Vinci, ma anche
fondi archivistici di considerevole importanza storica. Uno di questi è l’Archivio
Promis. Esso raduna l’epistolario di Carlo, Domenico e Vincenzo Promis, autorevoli intellettuali che operarono a Torino nella seconda metà dell’Ottocento
e si distinsero per aver ricoperto incarichi importanti a corte e nelle istituzioni cittadine. Il più illustre dei tre fu Carlo, professore di Architettura presso la
Regia Università, ispettore ai Monumenti di Antichità nei Regni Sardi e direttore di numerosi scavi archeologici cittadini1. Interessa in questa sede il fatto che
egli fosse intimo amico di Theodor Mommsen e principale referente dell’illustre studioso tedesco in ordine alla compilazione della sezione ‘piemontese’ del
CIL, volume V (1877). Oggetto di questo brevissimo studio, che libenter offro
a Gino Bandelli, è un breve episodio di questa collaborazione: sullo sfondo, la
cultura antichistica torinese nei decenni successivi all’unità d’Italia e i legami
degli intellettuali torinesi con la cultura europea, e segnatamente tedesca2.
Focus dello scambio epistolare fra Mommsen e Promis è un’epigrafe proveniente da Cuneo, ritrovata nel 1866, successivamente pubblicata nel CIL e da
Ferrua nelle InscrIt, e più recentemente in SupplIt (G. Mennella) e in EDR (E.
Cimarosti)3: si tratta dell’iscrizione funeraria, in calcare, di Catavignus, figlio
Fasoli 1991 e Fasoli - Vitulo 1993.
Richiamo qui alcune considerazioni già espresse nel mio Giorcelli Bersani 2012 e ora
in Giorcelli Bersani c.d.s.
3
CIL, V 7717; ILS 2560; InscrIt IX, 1, 93 (con foto); SupplIt 13, 310 ad nr. (G. Mennella);
EDR010597.
1
2
189
silvia giorcelli bersani
di Ivomagus, che ebbe in sorte di morire nei pressi dell’attuale Cuneo dopo soli
sei anni di servizio militare. Conservata nel Museo Civico di Cuneo, è un raro
esemplare di iscrizione con ritratto del defunto4: non presenta alcuna difficoltà
di lettura ed è stata datata al 68-69 d.C., in base al contenuto (fig. 1):
D(is) M(anibus) / Catavigni / Ivomagi f(ili) / milit(is) coh(ortis) / 5 III Britan=/
norum ((centuria)) / Gesat^i, / vix(it) ann(os) XXV, / sti(pendiorum) VI, exerci=
/ tus Raetici. /10 Paternus / h(eres) f(acendum) c(uravit) / commilitoni / carissimo.
Se le ottime edizioni esistenti richiedono, al massimo, qualche aggiornamento, più interessante è seguire la storia dell’edizione e lo sviluppo delle riflessioni
storiche sui temi che il contenuto dell’iscrizione solleva. Il primo accenno al
ritrovamento risale a Carlo Promis che il 15 marzo 1870 compì una ‘missione’
a Cuneo, il cui esito registrò in un quadernetto privato che lo accompagnava da
quando, nel 1837, era stato nominato ispettore ai Monumenti. La Biblioteca
Reale di Torino conserva questo manoscritto inedito, intitolato Giornale delle
Antichità, che raccoglie sostanzialmente i verbali di quarant’anni di sopralluoghi compiuti in numerose località piemontesi dove erano conservate iscrizioni
romane o si facevano, o si erano fatti, scavi archeologici più o meno improvvisati: i commenti alle iscrizioni sono tutti corredati da minuziosi e delicati disegni e
fotografano lo stato di conservazione del patrimonio epigrafico piemontese tra
la fine degli anni trenta e gli anni settanta del XIX secolo5. Apprendiamo, da un
appunto vergato a matita nella prima pagina del manoscritto, che nel 1868 tutto
il materiale raccolto fino a quel momento, e in quelle pagine documentato, era
stato trasferito a Mommsen, che se ne servì evidentemente per la realizzazione
del CIL, in lavorazione proprio in quegli anni. Accanto al disegno dell’epigrafe,
a pag. 35, leggiamo (fig. 2):
Il rilievo è molto rozzo e caratterizzato, scrive Promis nel volume del 1870 (vd. infra), «da
una certa ineleganza, si direbbe opera di scalpello Gallico, anziché Latino» (p. 3); sul ritratto
cf. Franzoni 1987 e Mercando - Paci 1998, 144-145, nr. 71, tav. LXXXII (con foto): la
figura non è stata rifinita e non sono state abbassate le due parti ai lati; il soldato sembra indossare la paenula e stringere nella mano destra una specie di clava (messa in relazione da Ferrua
con il tipo di combattimento svolto da questi corpi); sul fianco destro si intravede un lungo
gladio caratterizzato da una impugnatura con pomolo sferico; è incerto se si debba riconoscere
un pugio nella parte opposta del cinturone.
5
Il manoscritto è in corso di studio da parte di chi scrive.
4
190
l’«egregivm commentarivm» di catavignvs
Fig. 2. Biblioteca Reale di Torino, per gentile concessione.
Fig. 1. Museo Civico di Cuneo,
per gentile concessione.
Con lettera 19 dic(embre) 1869 il Sig. Lorenzo Bertano avevami mandato copia
di questa lapide, leggendovi Ivomagi e Gesai. Con lui fui a vederla; sta in una
casaccia a sinistra, entrando da porta Torino, in faccia a san Sebastiano, strada di
Mondovì e verso il Gesso e l’antico baluardo detto del Gesso; nella prima strada
dell’anzidetta porta di Torino. Fa da spalla ad un arcaccio v(edi) la sua lettera.
La lastra è grossa 0,19 e di marmo locale. In alto è un fante armato di spada ma
corroso assai, sicché un poco più si capisce.
La prima A non ha la trattina; il G è fatto sempre così.
La casa ov’è posta ha all’incirca 200 anni ed è ignobile e vecchia; nel cortile v’è
il macello degli ebrei.
La figura sta in un incavo così [disegno] in sezione orizzontale. È circondato da
un solo listello di 4 centimetri. Il Sig. Bertano mi scrisse da Cuneo (24 marzo
1870) che c’è proprio IVOMAGI.
L’epigrafe era murata nella ‘casaccia’ da almeno un paio di secoli e nel CIL
Mommsen, dichiarando la propria dipendenza da Promis, sottolinea che l’iscri-
191
silvia giorcelli bersani
zione si trovava presso il notaio Borgarino6: dunque, fra il 1870 e il 1877, anno
di pubblicazione del CIL, V, l’iscrizione dovette essere rimossa per finire in
casa del notaio7. L’iscrizione era stata rivelata a Promis dallo studioso cuneese
Lorenzo Bertano8 con una lettera del 19 dicembre 1869; insieme erano andati a
vedere l’iscrizione, il 15 marzo 1870, e ancora Bertano, il 24 dello stesso mese,
era tornato a controllare la lettura del testo. Dell’autopsia del 15 marzo resta
anche traccia in una lettera scritta da Promis a Mommsen il giorno successivo, il
16 marzo, conservata a Berlino, nella quale descrive la stessa situazione, cioè la
condizione del bassorilievo, la curiosa forma della lettera G, la lettura del nome
del centurione, e abbozza un breve commento9; ancora un paio di giorni dopo,
il 18 marzo, Promis riscrive all’amico berlinese10 sulla questione della coorte
di appartenenza del soldato Catavignus, in relazione al diploma bavarese che
Mommsen gli fa conoscere11.
A Promis la nuova iscrizione sembrò un testo importante, o quanto meno
insolito nel panorama della documentazione della regio IX, e ne scrisse subito
a Mommsen per avere lumi e conforto: e, in effetti, un’iscrizione decorata con
il ritratto di un soldato, il ricordo di una breve carriera militare e soprattutto
l’onomastica indigena del defunto costituivano elementi di assoluta originalità
nell’epigrafia locale che Mommsen osava dichiarare, senza mezzi termini, démoL’iscrizione rimase dal Borgarino fino al 1930 per poi finire al Museo di Cuneo: InscrIt IX,
1, 93 e Conti 1980, 51, nrr. 4-5.
7
Nella stessa pagina del manoscritto, un breve appunto di Promis rivela che nel 1866 a
Cuneo era venuta alla luce un’altra iscrizione: «Scritto sulla faccia di un trovante; trovato nella
strada comunale (Cascina Brissa, da Cuneo a Villafalletto ed a 3 chilometri circa da Cuneo, sito
detto Tetto Taricco; ora tiensi nella cascina detta, di proprietà del si(gnor) Giuseppe Quaglia.
Tanto di lettera del detto Quaglia al prof. Muratori (13 febbraio 1870), da questo comunicatomi il 26 maggio id. Trovata nel 1866». L’iscrizione riportata da Promis recita: CARIVS /
VOLIANIVS / ET CAIVS F. ma meglio C(aius) Arius / Volianius / et Gaius f(ilius). Si tratta
di CIL, V 7718 = InscrIt IX, 1, 209 = SupplIt 13, 269 ad nr. (G. Mennella) = EDR010599.
8
Lorenzo Bertano (1827-1904) fu uno studioso di storia locale autore di una storia di
Cuneo medievale: vd. Caseforti 2005. L’archivio Promis conserva una sua lettera a Carlo nella
quale è espresso un sentito ringraziamento per avere l’occasione di accompagnare Mommsen in
un sopralluogo epigrafico a Caraglio, nella primavera del 1871: Biblioteca Reale Torino (d’ora
in poi BRT) 13/XXI/2 (1 aprile 1871).
9
DSB, Nl. Mommsen, Promis, Carlo, Bl. 38 (16 marzo 1870).
10
DSB, Nl. Mommsen, Promis, Carlo, Bl. 39 (18 marzo 1870).
11
BRT 16/XXV/10 (25 febbraio 1870).
6
192
l’«egregivm commentarivm» di catavignvs
ralisée, deprimente12. Mommsen, in una lettera del febbraio 1870, conferma13:
l’inscription de Couneo est bien intéressante. Vous permettrez, que je l’insère
dans mon III volume, comme elle se rapporte à la Rétie. Vous connaîtrez le beau
diplôme récemment trouvé à Weissenburg en Bavière, où parmi les troupes en
garnison en Rétie en 107 cette cohorte est mentionnée aussi. De plus elle se trouve dans une pierre de 211 trouvée à Eining près de Regensbourg (Grut. 24, ll. 7
etc.) et maintenant à Munich.
Promis, in realtà, non conosceva il diploma bavarese che Mommsen provvide
immediatamente ad inviargli («Voici le diplôme de Weissenburg en Bavière, que
vous ne connaissez pas»)14. Quindi, forte dei suggerimenti e dell’incoraggiamento dell’amico e illustre studioso, Promis subito decise di dedicare a questo
testo una monografia che infatti comparve nelle «Memorie dell’Accademia
delle Scienze» con il possente titolo: L’iscrizione cuneese di Catavignus Ivomagi
filius miles cohortis III Britannorum exercitus raetici illustrata da Carlo Promis
coll’accertamento del diverso significato delle voci Britanni e Brittones. La dimostrazione della romana cittadinanza data agli abitanti della pianura Transpadana
ma non a quelli dell’Alpi che la recingono e gli argomenti provanti l’origine gallica
di tre nostri oppidi (Torino, Stamperia Reale). Sappiamo che lo studio fu realizzato nella prima metà dell’anno, se in una lettera a Mommsen dell’agosto 1870
si legge «Je Vous ai envoyé le Mémoire sur Catavignus Ivomagi Filius comme
aussi all’Académie de Berlin»15: in risposta, Mommsen pospone la lettura della
Memoria perché impegnato in altri lavori16 ma, anni dopo, nel CIL scriverà «de
hoc titulo Carolus Promis scripsit egregium commentarium l’iscrizione Cuneese di Catavigno insertum vol XXVI actorum Taurinensium (1870. 4. p. 84)»17.
Lo studio è costruito con uno schema di ampio respiro e appare molto lontano dalla dimensione campanilistica e retorica che caratterizzava non pochi lavori antichistici coevi: non stupiscono, leggendolo, le ragioni sulle quali si costruì
e consolidò la stima di Mommsen per il suo autore. Promis parte dall’iscrizioBRT 16/XXV/17 (29 settembre 1872).
BRT 16/XXV/9 (8 febbraio 1870).
14
BRT 16/XXV/10 (25 febbraio 1870).
15
DSB, Nl. Mommsen, Promis, Carlo, Bl. 46 (agosto 1870).
16
BRT 16/XXV/12 (8 settembre 1870).
17
CIL, V 7717.
12
13
193
silvia giorcelli bersani
ne cuneese per fare una riflessione sull’appartenenza etnica dei soldati reclutati nelle coorti di stanza in Raetia, e soprattutto sul loro status: sullo sfondo,
l’autore colloca il quadro, per come era allora conosciuto, dell’organizzazione
provinciale della Cisalpina e dei distretti alpini, del processo di romanizzazione di istituzioni e di individui, inserendo alcune riflessioni sulle modalità di
ottenimento della cittadinanza da parte dei soldati; la singolare onomastica
del defunto, il solo idionimico seguito dal patronimico, suggerisce interessanti
osservazioni sull’onomastica indigena di tradizione celtica che conservano oggi
la loro freschezza; gli ultimi capitoli sono dedicati ad alcune iscrizioni piemontesi che ricordano personaggi in qualche modo collegati con campagne militari
in Britannia o con unità militari composte da Britanni18. L’obiettivo del lavoro
non era soltanto quello di sostenere che Catavignus fosse un oriundo ligure in
via di romanizzazione per mezzo del servizio militare, ma altresì di suggerire che
la diversa denominazione delle coorti Br(itannorum) e Br(ittonum) alludesse
allo status giuridico dei soldati in esse militanti, in possesso del diritto latino i
primi, peregrini i secondi; il termine Br(ittonum) si sarebbe conservato in modo
esclusivo dopo il 212 d.C. colorandosi via via di un valore identitario per definire il territorio britannico.
Se nel volume non mancano riferimenti letterari molto puntuali e cronologicamente estesi, le fonti privilegiate dello studio sono senz’altro le iscrizioni,
i diplomi militari soprattutto e le funerarie di soldati ma anche le moltissime
iscrizioni piemontesi con onomastica indigena la cui peculiarità non sfuggì allo
studioso. Occorre forse ricordare che la tradizione dell’Accademia delle Scienze di Torino, da dove Promis culturalmente proveniva, non offriva ancora, alla
metà del XIX secolo, esempi di indagini antichistiche scientificamente sostenute da documentazione epigrafica affidabile19: certo, non mancavano fini studiosi
e illustri eruditi che si muovevano tra Accademia e Società storiche, molto attive
a Torino, ma le loro biblioteche ‘mentali’ di riferimento erano sature di histoires généalogiques e di bibliografie lapidarie patrie che poco avevano di scientifico20; nell’Ateneo torinese la storia di Roma antica era appannaggio di filologi,
di giuristi, talora di teologi: in realtà, in quegli anni, il biellese Luigi SchiapaCIL, V 7559 = EDR010455 e CIL, V 7567 = EDR010462 da Hasta.
Per un inquadramento della realtà culturale torinese nell’Ottocento si vd. almeno I due
primi secoli 1985; Roda 1987; Lana 2000; Roda 2000; Cracco Ruggini 2001; Giorcelli Bersani 2009b e Giorcelli Bersani 2013 c.d.s.
20
Venturino Gambari - Gandolfi 2009.
18
19
194
l’«egregivm commentarivm» di catavignvs
relli, titolare della cattedra di Storia Antica e Archeologia (dal 1862 al 1897),
aveva orientato gli studi verso una direzione decisamente italica, romana e aveva
percorso con qualche buon risultato la via della storia locale21, mentre il perugino
Ariodante Fabretti, direttore del Museo di Antichità ed Egizio (dal 1872), riservava un’attenzione particolare all’epigrafia italica consolidando i legami con la
grande storiografia europea contemporanea22. Nel complesso tuttavia, i corpora
ai quali Promis attinse per la composizione del suo lavoro, furono di prim’ordine: alcuni lavori di Mommsen (l’edizione della tavola di Cles, le Inscriptiones confoederationis Helveticae Latinae e le Inscriptiones Regni Neapolitani)23,
cui poteva avere facilmente accesso perché i due erano soliti scambiarsi scritti
e volumi, l’edizione di Wilhelm Christ dei diplomi di Weissenburg24, gli studi
epigrafici di Wilhelm Henzen (segretario dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma)25, le edizioni di iscrizioni spagnole di Emil Hübner (collaboratore
di Mommsen per l’edizione del CIL, II, la cui prima edizione è del 1869)26, o il
Corpus Inscriptionum Rhenanarum di Wilhelm Brambach27; poi alcune sillogi
settecentesche quali l’amplissima Collectio di Johan Caspar Orelli28 e nell’apparato critico allude qua e là anche a Scipione Maffei. Inevitabilmente Promis cita
studi e volumi ‘sospetti’, come ad esempio quello di J. W. Chr. Steiner sulle legioni di stanza lungo il limes29, lavoro non esattamente affidabile ma che offriva una
carrellata di iscrizioni militari non altrimenti documentate. Interessante è anche
dare uno sguardo alla ‘biblioteca’ locale di Promis: se parte delle iscrizioni che
Roda 2000, 283-284.
Novarino - Xoccato 2013, 87-120.
23
Mommsen 1852; Mommsen 1854; Mommsen 1869.
24
Christ 1868.
25
Johann Heinrich Wilhelm Henzen (1816-1887): cf. Kolbe 1984 e Andreae 1992.
26
Emil Hübner (1834-1901), autore di CIL, II: cf. Rebenich 1995, 169-172 e Le Roux
2011a (= Le Roux 1984a).
27
Wilhelm Brambach (17 December 1841 - 26 February 1932), fu professore di filologia
all’Università di Friburgo dal 1868 al 1904: vd. sub voce «Neue Deutsche Biographie» Band
2, Berlin 1955.
28
Johann Caspar Orelli (1787-1849), pedagogista e filologo classico svizzero, autore
di Inscriptionum Latinarum Selectarum Collectio, 1828 (ed. a cura di W. Henzen 1856), ma
Promis forse consultò anche le Inscriptiones Helvetiae collectae et explicatae, Zurich 1844.
29
Steiner 1837: vd. Borghesi 1839. Questo il giudizio del Mommsen sulla sua opera
(CIL, III, p. 481 n. XXIV): «Pessimum et incredibiliter confusum librum ego ut fieri debuit
sprevi eaque citavi tantummodo quae propria habet».
21
22
195
silvia giorcelli bersani
cita erano già state oggetto di studio nella sua Storia di Torino, pubblicata nel
1863, lo studioso attinge alle monografie dell’amico e confratello accademico
Giovanni Francesco Muratori sulle iscrizioni dei Vagienni30, al Sanguineti delle
Iscrizioni romane della Liguria31, ai lavori di Pietro Nallino32 e a quelli di Jacopo
Durandi33, che rappresentavano a quel tempo una sicura base documentaria di
riferimento, fino a che le nuove metodologie di ricerca, scaturite anche dalla
pubblicazione del CIL, non li spazzò via relegandoli per sempre nell’antiquaria.
I volumi citati sono tutti conservati nella Biblioteca Reale che si confermava
dunque un centro di studio importante, aggiornato e aperto alle sollecitazioni
culturali più specialistiche e raffinate: e non è inutile ricordare come la notorietà
delle biblioteche torinesi, ma pure delle collezioni di antichità classiche e dell’Archivio regio, ricevesse grande impulso dai giudizi lusinghieri di Mommsen che
non esitò a definire la città «capitale des études sérieuses»34.
Torniamo all’iscrizione di Catavignus. Promis introduce e inquadra tutti i
temi e i problemi che l’iscrizione solleva e la monografia si configura come un
buon tentativo di applicare una metodologia di indagine in Italia ancora alla
ricerca di un proprio statuto, di aprirsi ad una dimensione storica ampia e di
riservare, al contempo, attenzione per la storia locale. Sono innanzitutto molto
ampie le riflessioni che Promis dedica alla prassi del reclutamento di celti e liguri
e di altri popoli non italici nelle coorti romane e per far questo analizza molte
iscrizioni piemontesi di soldati con onomastica indigena e ragiona complessivamente sulle testimonianze autoctone sacre e militari, specie quelle provenienti
da contesti alpini, ove sono in effetti più numerose. La ricostruzione dei passaggi istituzionali di concessione della civitas procede principalmente sulla base
di tradizionali fonti letterarie ma Promis mostra di fare buon uso delle recenti
riflessioni mommseniane sulla Tavola di Cles; osserva che, in contesti provinciali e periferici l’arruolamento nell’esercito romano rappresentava uno strumento
di emancipazione da situazioni socio-economiche disagiate o emarginate e si
trattava di una prassi, in epoca altoimperiale quasi obbligata, per conseguire la
cittadinanza: che i soldati fossero britanni o liguri, non faceva gran differenza.
Muratori 1869a e Muratori 1869b.
Sanguineti 1864.
32
Sembrerebbe citare Il corso del fiume Pesio, che però è successivo al 1870, o studi manoscritti precedenti: cf. Giaccaria1994, 111-116 e Comba 2004.
33
Durandi 1774: cf. Ordano 1969 e Giorcelli Bersani 2009a.
34
BRT 16/XXV/3 (25 febbraio 1869).
30
31
196
l’«egregivm commentarivm» di catavignvs
Non è oziosa la domanda di Promis, se cioè Catavignus fosse un celta-britanno
o un celta-cisalpino. L’onomastica non consentiva, allora come ora, di sciogliere
il dubbio risultando impossibile attribuire all’idionimo una chiara influenza del
celtico insulare (e questo vale anche per Ivomagus)35. Certo il nostro soldato
morì dopo pochi anni di servizio militare e il commilitone-erede Paternus, privo
di civitas anch’egli e di origine incerta, si fece carico di seppellirlo nel luogo della
morte o di riportarlo a casa, senza quindi doverne indicare l’origo, come in genere accadeva per i soldati defunti lontano dalla patria d’origine; in realtà, l’epigrafe privilegia la dimensione militare di Catavignus, che insieme all’identità
celtica ne definiva il profilo, e nessun indizio consente, contra Promis, di riconoscerlo senz’altro come un indigeno cisalpino. Antony Birley, che si schiera per
Catavignus soldato britanno, non nasconde tuttavia la difficoltà di individuare
criteri certi per l’attribuzione etnica dei soldati appartenenti a coorti di questo
tipo36: lo studioso affronta proprio il problema della dicitura Br(itannorum)/
Br(ittonum) proponendo una differenza tra Britanni arruolati nei territori dell’originaria provincia e Brittoni che sarebbero stati arruolati nei territori
conquistati in età flavia, ma in realtà nelle file delle cohortes Br(itannorum) erano
presenti individui di varia provenienza, anche per ragioni di sicurezza, come del
resto suggerisce lo stesso Promis alludendo all’episodio del 68-69 d.C. accaduto
ad Augusta Taurinorum con coorti di soldati batavi37. Patrick Le Roux, che si
muove con le stesse incertezze38, scrive:
Parmi les noms ethniques qui posent des problèmes de lecture ou de développement, les appellations abrégées des unités formées dans les îles Britanniques sont
les plus incertaines
e tuttavia azzarda:
Les trois formes essentielles s’écrivent indifféremment avec un seul ou avec deux
t: Brit(t)onum, Brit(t)annica, Brit(t)an(n)orum. Leur signification est relativement claire: Brittonum désigne collectivement les indigènes conquis quelle que
fût leur civitas d’origine; Britannica rappelle le territoire romain de la province de
La radice catu- allude alla battaglia e catu-uegnos a un carro da combattimento: Holder
1893-1917, I, 839; Delamarre 2007, 60 (Catauignus, Lig.).
36
Birley 1980, 103.
37
Tac. hist. II 66.
38
Le Roux 2011b, 157 (= Le Roux 1984b).
35
197
silvia giorcelli bersani
Britannia; Britannorum suggère qu’on se trouve en présence de Britanni, c’està-dire d’indigènes intégrés dans les cadres de la province romaine de Bretagne39.
La datazione del testo, sia per Promis sia per Mommsen nel CIL, è l’età antonina40 sulla base di tracce epigrafiche della presenza della cohors III Br(itannorum)
nel diploma militare bavarese datato al 106-10741 e in un’iscrizione da Eining
/ Abusina in Raetia, del 103 d.C.42; ma forse la coorte era operativa già negli
anni 69-70 d.C.43. Fu Ferrua, sulla base di un passo di Tacito44, ad anticipare alla
guerra civile post-neroniana l’iscrizione, collegandola a un episodio che interessò la Cisalpina occidentale: nel tardo inverno del 69 d.C., il legato vitelliano
Aulo Cecina, proveniente dal territorio degli Elvezi, scese in Italia attraverso il
colle del Gran San Bernardo per unire le proprie forze a quelle di Fabio Valente;
superate le Alpi, venne a sapere che l’ala Siliana, da lui comandata quando era
proconsole in Africa, era passata ai suoi ordini e occupava a nome dei vitelliani
alcune città della Transpadana (Milano, Novara, Ivrea e Vercelli); poiché un’ala
sembrava insufficiente per difendere un territorio così vasto, decise di chiamare
altre truppe per garantire la sicurezza delle città: tali truppe erano coorti di galli,
di lusitani, di britanni appunto e alcuni distaccamenti di cavalleria45. Non abbiamo altre notizie della III cohors Br(itannorum) nei mesi che seguirono, quando
le operazioni militari si spostarono verso Cremona e Bedriaco; sappiamo che
furono le truppe di Valente a contrastare in Liguria gli otoniani sbarcati nei
pressi di Albintimilium, lasciando di fatto indisturbato Cecina. È chiaro che il
grosso delle truppe di Cecina si mosse verso oriente, lasciando a presidio delle
città transpadane un numero minimo di effettivi. Come spiegare la morte di
Op. cit., 157.
In Liguria è attestata anche l’iscrizione di [M(arcus) A]ẹm
. ị[lius] M(arci) f(ilius) Fal(erna)
Bassus, [trib(unus)] coh(ortis) pr(imae) Britton(um), vd. SupplIt 10, p. 114, nr. 4 (G. Mennella)=
AEp 1992, 662 = EDR000119; in Transpadana conosciamo L(ucio) Alfio Restituto praef(ecto)
coh(ortis) II Br(ittonum) eq(uitatae) trib(uno) coh(ortis) I Br(itannicae) (milliariae) eq(uitatae),
vd. CIL, V 6995, entrambe di inizio II secolo d.C.
41
Wagner 1956-57.
42
CIL, III 11950 (p. 2288) = IBR 00336; Birley 1980 cita anche CIL, XVI 55, del 107
d.C.
43
Birley 1980, 188.
44
Tac. hist. I 70 (commento Chilver 1979, 133 e 264-273).
45
Soldati britanni si erano uniti a Vitellio già prima (Tac. hist. I 61) ma questa coorte di
britanni chiamata in Italia da Cecina proveniva dalla Raetia, come segnala del resto anche
l’iscrizione di Catavignus: Momigliano 1992 (= Momigliano 1931).
39
40
198
l’«egregivm commentarivm» di catavignvs
Catavignus nei pressi di Cuneo appare quindi difficile, a meno di non ipotizzare,
con Promis, un’origine ligure del soldato.
Quali osservazioni avesse avanzato Mommsen al lavoro di Promis non
sappiamo, almeno stando alla documentazione conservata a Torino: la scheda
CIL presuppone un’autopsia diretta del monumento da parte dello studioso
tedesco, forse eseguita nella primavera del 187246, che conferma la lettura, cui
si aggiunge una lode per l’autore dell’«egregium commentarium» su Catavignus cui Mommsen rimanda per l’approfondimento. La riflessione di Promis,
pur con tutti i limiti di un lavoro colto di stampo e di linguaggio ottocentesco,
sottolinea in modo esemplare lo sforzo di non pochi intellettuali piemontesi di
rinnovare le proprie metodologie di indagine alla luce delle potenti sollecitazioni d’oltralpe47 e di veicolare il superamento di una tradizione antiquaria che
aveva segnato la storia del territorio per molti secoli.
BRT 13/XXI/31 (4 aprile 1872): documenta un viaggio di Mommsen a Bene, Caraglio,
Cherasco, Centallo (CN).
47
D’Orsi 2001 e Romagnani 2009.
46
199
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203
GIAN LUCA GREGORI
Ancora sull’iscrizione dell’atestino Marco Billieno, veterano di Azio
(CIL, V 2501 = ILS 2243)*
Indubbiamente nel ricco dossier epigrafico relativo ai numerosi legionari
attestati nell’epigrafia latina di Ateste l’epitaffio di M. Billienus M.f. Rom(ilia
tribu), rinvenuto a Cologna Veneta nelle fondazioni della chiesa di S. Zenone e
da tempo conservato al Museo di Vicenza (Inv. EI-68), è uno dei più studiati e
citati1 (fig. 1).
Il testo ricorda uno dei cosiddetti Actiaci, un veterano dunque della battaglia
di Azio: egli condivise quest’appellativo con altri soldati della sua stessa legione XI, ma non con quelli di altre legioni che pure presero parte a quello scontro, alcuni dei quali parimenti dedotti ad Ateste (è almeno il caso dei legionari
della V Urbana, mentre per quelli di altre legioni sussiste il dubbio che possano essere arrivati qui successivamente o che fossero originari di Ateste stessa)2.
* Ringrazio il mio allievo Giovanni Almagno, che con competenza e generosità mi ha aiutato nella ricerca, Silvio Panciera e Elena Tassi per i loro sempre opportuni consigli, Francesca
Romana Berno per i controlli autoptici e per le foto eseguiti presso il Museo Naturalistico
Archeologico di Vicenza.
1
Cf. per la bibliografia precedente Bassignano 1997, 59-60, che l’attribuisce a Poiana
Maggiore (prov. Vicenza), dove a quanto pare la stele giunse solo in un secondo tempo. La
maggior parte delle iscrizioni di legionari atestini proviene, come la nostra, dal territorio e
non dalla città, essendo essi stati sepolti dove avevano ricevuto il loro appezzamento di terra
al momento della deduzione: Keppie 1983, 195-200; Crawford 1989, 198-199; Buchi
1993, 65-79; Bassignano 1997, 31-32. Sia a Poiana Maggiore, sia a Cologna Veneta sono
state rilevate tracce di centuriazione: Zerbinati 1987, 241-245; Bassignano 1997, 27-28;
sull’assetto del territorio atestino e la viabilità interna cf. anche Buchi 1993, 89-96.
2
Cf. Keppie 1971; Keppie 1983, 44-45 (che nota come l’uso epigrafico di veteranus
legionis si afferma solo dalla tarda età augustea), 111-112, 196 n. 65; Buchi 1993, 66-67 nn.
205
gian luca gregori
A differenza delle iscrizioni degli altri legionari, quella di Billieno è tuttavia
meno stringata. A parte la menzione che se ne fa nei Fasti (Amiternini, Cuprenses e Venusini) l’unico altro ricordo esplicito della battaglia di Azio è nell’epitaffio di C. Baebius T.f. Clu(stumina tribu), tribuno di legione e praefectus orae
maritimae nella Spagna Citeriore proprio al tempo del bellum Actiense3. L’iscrizione di Billieno e degli altri Actiaci è finora servita a supportare l’ipotesi che
Ateste sia da annoverare tra le colonie posteriori al 31 a.C., senza tuttavia che si
riuscisse a spiegare in maniera soddisfacente perché solo i veterani della legione
XI avessero fatto uso di quest’epiteto4.
Così come, per restare in Cisalpina, Cremona a Ovest e Concordia a Est sono
reputate colonie dedotte rispettivamente da Antonio, dopo Filippi, e dai triumviri5, mi domando se anche Ateste non possa aver conosciuto una prima fase
coloniale in quello stesso periodo (con l’invio dei legionari della V Urbana che
forse avevano partecipato alla battaglia di Modena del 43 a.C.)6 e una seconda
224-229, 56-57 n. 202 (anche per la provenienza della nostra iscrizione da Cologna Veneta);
Keppie 2000, 249-250. L’epigrafia funeraria atestina ci ha conservato il ricordo di soldati di
almeno 9 legioni: IV Macedonica (AE 2000, 615; Pais, Suppl. It. 514; Bassignano 1997, nrr.
18, 19); V Urbana (CIL, V 2510, 2514, 2515, 2518; Bassignano 1997, nrr. 20-23); VI (CIL,
V 2500); IX (CIL, V 2507); XI (CIL, V 2495, 2501, 2503, 2512; Bassignano 1997, nr. 24);
XII (CIL, V 2502, 2520); XIIII (CIL, V 2497); XV Apollinaris (CIL, V 2476, 2516); XVIII
(CIL, V 2499). Non è convinto che fossero reduci di Azio i veterani della legione IIII Macedonica dedotti ad Ateste Gómez Pantoja 2000; quanto poi ai veterani della XV Apollinare
Wheeler 2000 ritiene che l’epiteto sia derivato alla legione non dalla sua partecipazione alla
battaglia di Azio, ma risalga a Cesare.
3
CIL, XI 623 = ILS 2672; cf. Cenerini 1992, 45-46. Come sappiamo da Oros. VI 19, 8
Ottaviano imbarcò sulle navi per affrontare la flotta di Antonio otto legioni (tra le quali evidentemente anche la XI) e cinque coorti pretorie.
4
La legione XI, che più tardi assunse gli epiteti di Claudia Pia Fidelis, che combatté a Farsalo, fu sciolta nel 45 a.C. e i veterani stanziati a Boviano; nel 42 a.C. fu ricostituita da Ottaviano:
combatté a Filippi e a Perugia e infine ad Azio; terminate le guerre civili fu inviata nei Balcani:
Fellmann 2000, 127-131.
5
Cf. Folcando 1996, 82-84, 105 (su Concordia, Cremona, Ateste e le altre colonie da
attribuire ai triumviri o ad Augusto). Sulle colonie militari dedotte dopo Filippi e dopo Azio:
Keppie 1983, 58-69, 73-82. Sugli avvenimenti che interessarono le comunità venete nel
convulso decennio compreso tra il bellum Mutinense e il bellum Actiacum, che vide nei primi
anni l’operato in Cisalpina e quindi anche nell’area veneta dell’antoniano Asinio Pollione:
Capozza 1987, 30-34.
6
Keppie 1988, 199-203.
206
ancora sull’iscrizione dell’atestino marco billieno
deduzione dopo Azio, con i veterani della XI, i quali avrebbero assunto l’appellativo di Actiaci sia per l’orgoglio di aver contribuito alla grande vittoria di
Ottaviano, sia anche per distinguersi dagli altri veterani già presenti ad Ateste7.
D’altra parte l’espressione deductus in coloniam non permette di affermare con
certezza che il nostro veterano sia arrivato ad Ateste al momento della deduzione stessa della colonia e non in un momento posteriore. Si consideri il caso di
numerosi veterani dedotti da Vespasiano a Reate senza per questo che egli vi istituisse una colonia, o il caso di quel veterano dedotto da Nerva a Nola, che dopo
Augusto aveva subito una nuova deduzione coloniale sotto i Flavi8.
Ciò che distingue Billieno dagli altri Actiaci e in genere dagli altri legionari
attestati ad Ateste è poi la sua adlectio nell’ordo decurionum: l’unico altro caso ad
Ateste di militare divenuto decurio adlectus è probabilmente posteriore e riguarda
L. Blattius L.f. Rom(ilia) Vetus, che era stato centurione della IV Macedonica9.
In un’età, quale quella tardorepubblicana, in cui i casi di adlectio o di cooptatio negli ordini decurionali epigraficamente attestati sono ancora decisamente pochi10, il caso di Billieno merita dunque una particolare attenzione, anche
Zaccaria 1986, 69, riprendendo Keppie 1983, 197, prospetta la possibilità che Ateste
sia stata interessata da una assegnazione di terre nel 14 a.C. Bisogna del resto tenere conto del
fatto che dopo Azio le colonie antoniane furono disciolte e i coloni inviati in Oriente per far
posto ai veterani di Ottaviano: Gabba 1951, 243. Si consideri poi il caso di Benevento, colonia
triumvirale, dove solo in un secondo tempo sarebbero stati inviati veterani della legione V e XX;
il nome stesso della colonia del resto conserva il ricordo di deduzioni successive (colonia Iulia
Concordia Augusta Felix Beneventum): Iasiello 2001, 476 n. 14; Torelli 2002, 331 n. 114.
8
Spadoni 2000, 34. Per il veterano di Nola: CIL, X 1263.
9
Bassignano 1997, 165, nr. 18; cf. Keppie 1983, 109. Come sappiamo, i veterani godevano dell’immunitas, anche là dove erano semplici incolae; ciò non impediva loro, se lo volevano,
di accollarsi spontaneamente honores e munera (D. 49, 18, 2); inoltre essi e i loro figli godevano
degli stessi privilegi dei decurioni, quindi non potevano essere condannati ad metalla o in opus
publicum o ad bestias, né potevano essere uccisi mediante fustigazione (D. 49, 18, 3); in particolare per la vacatio munerum a favore dei veterani vd. anche D. 50, 4, 18; 50, 5, 7. Sui privilegi dei
veterani cf. anche CIL, XII 3179 = ILS 2267 = AE 1994, 1174 (Nemausus): Ti. Caesaris / divi
Aug. f. Augusti / miles missicius T. Iulius / Festus militavit annos XXV / in legione XVI decreto
decurion(um) / accepit frumenti m(odios) L, balneum et / sui (?) gratuitum in perpet(uum) et
aream in/ter duos (!) turres per P. Pusionium Pere/grinum IIIIvir(um) et XIvir(os) adsignatam.
10
In generale vd. ora Melchor Gil - Rodríguez Neila 2012, 109-137: a parte il nostro
Billieno, i primi casi di decurioni adlecti / cooptati provengono da Anagni con C. Abuttius L.f.
Laco, M. Arrius M.f. L.n. e L. Vitorius C.f. (CIL, I2 1521 = X 5914; I2 1520 = X 5916, su cui
Gabba 1959, 319-320) e da Ostia, con il noto P. Lucilius Gamala (CIL, XIV 375; da ulti7
207
gian luca gregori
perché, se non sbaglio, si tratta ad oggi del più antico caso di soldato semplice
ammesso a far parte dei decurioni, circostanza questa che rimase sempre piuttosto rara anche durante l’Impero rispetto ai casi più frequenti di centurioni e di
primipili11.
mi con discussione dei numerosi problemi suscitati da questo testo: Cébeillac-Gervasoni
- Caldelli - Zevi 2010, 99-104 nr. 11.1); Gamala e Laco però ricoprirono anche cariche
municipali; cf. pure Rampazzo 2007, 201-208, che distingue per le forme di ingresso in Senato tra cooptatio, dove il singolo accedeva per scelta dei suoi futuri colleghi in sostituzione di
membri deceduti o decaduti, e adlectio, che consisteva nell’aggregazione di nuovi membri che
non avevano rivestito alcuna magistratura e anche in soprannumero, quindi senza che si fosse
verificata una diminuzione dei componenti ordinari. Cf. in proposito le norme previste nella
Tab. Her. linn. 86, 106 (testo e traduzione ora in Cappelletti 2011, 199-200, 202-203; cf.
Laffi 1998, 386-387) e per l’Impero D. 50, 4, 6 pr. Sul verbo cooptare in testimonianze letterarie ed epigrafiche che si riferiscono sia al Senato di Roma, sia a senati locali: Laffi 1983, 72
e nn. 85-86; Laffi 1998, 394-395 (dal momento che l’adlectio avveniva di norma su deliberazione degli stessi decurioni, si configurava come una cooptatio in senso proprio, ma consentiva
di potere fare nomine anche in soprannumero). Il verbo cooptare, usato in maniera non tecnica,
compare anche nella base aquileiese che ricorda le benemerenze del triumvir coloniae deducendae T. Annius T.f., che hance aedem / faciundam dedit / dedicavitque legesq(ue) / composivit
deditque / senatum ter co(o)ptavit (AE 1996, 685; Lettich 2003, nr. 31). Da Appiano (V 128,
531) e Cassio Dione (XLIX 14, 3) sappiamo che nel 36 a.C. Ottaviano accordò il rango di
decurione nei loro municipi ai centurioni e forse ai tribuni congedati, mentre la deduzione di
soldati della medesima legione trasformava i tribuni e di centurioni in magistrati e decurioni
delle nuove colonie: Gabba 1951, 247; Keppie 1983, 105-109.
11
Sono infatti più tardi i seguenti casi di veterani ammessi negli ordini decurionali (a
prescindere qui da quelli, più frequenti, di centurioni, primipili, beneficiarii e altri graduati)
e pochissimi in ogni caso quelli attestati in Italia: CIL, III 854 = 7657 (Napoca: ex signifero
della V Macedonica); 1093 (Apulum: veterano della XIII Gemina); 1196 (Apulum: veterano
della XIIII Gemina Martia Victrix); 1478 (Sarmizegetusa: signifero della XV); 1914 (Novae:
veterano della XI); 2066 (Salona: veterano della XIIII Gemina); 4298 (Brigetio: veterano della
I Adiutrix pia fidelis); 8194 (Scupi: veterano della VII Claudia pia fidelis);11223 (Savaria: veterano della XIIII Gemina); XI 2956 (Tuscana: signifero della XVI Gemina); AE 1910, 172
(Sirmio: veterano della IIII Flavia); 1910, 173 (Scupi: soldato della V Macedonica); 1938, 95
(Ratiaria: veterano della VII Claudia pia fidelis); 1960, 337 (Troesmis: veterano della V Macedonica); 1977, 687 (Sarmizegetusa: veterano della IIII Flavia Felix); 1999, 647 (Nuceria Apula:
veterano della IIII Macedonica); 1999, 1304 (Sarmizegetusa: veterano della XIII); RIU, II 596
(Brigetio: veterano della I); pochissimi poi i veterani che ottennero gli ornamenta municipali:
CIL, III 503 (Patrae: veterano della X Equestris).
208
ancora sull’iscrizione dell’atestino marco billieno
Ancor meno attenzione è stata data alle lettere che si conservano nella mutila
riga 8.
Finora è stato letto [- - -]MO ERVC[- - -] o ERVG[- - -] e l’unica ipotesi
che è stata formulata è che qui potesse comparire la domus del defunto, espressa
come di consueto all’ablativo (domo…)12. In realtà, com’è noto, l’origo del militare compare di norma subito dopo la formula onomastica del soldato e prima
della sua qualifica professionale; d’altra parte nessuno dei veterani dedotti ad
Ateste, in quanto ormai divenuti cittadini della colonia, menziona la sua patria
d’origine, a prescindere dal fatto che, comunque, non si conosce alcuna città cui
siano riconducibili le lettere conservate nell’epitaffio di Billieno13.
In realtà io credo che la lettera finora interpretata come una E a causa dell’andamento della scheggiatura della pietra proprio in quel punto, al di là dell’apparenza possa essere intesa come una F, tanto più che non sembra vedersi traccia
della pronunciata graffia al termine del supposto tratto orizzontale inferiore
presente invece nelle altre E del testo (fig. 2)14.
Ma se anche fosse stata incisa una E (la frattura potrebbe effettivamente
seguire il tratto inferiore di questa lettera), potremmo sospettare un errore del
lapicida, probabilmente dovuto a una confusione tra le forme corsive di E e di F
a due tratti verticali e forse corretto già in antico.
In sostanza credo che le righe 7-8 possano essere così interpretate:
… decurio alle[c/tus, ho]mo frug[i] / - - - - - -
L’epiteto di frugi non è da considerare qualità manifestata da Billieno durante
il suo servizio militare, o una volta entrato nell’ordine dei decurioni (a differenKeppie 1983, 196 n. 65 (che tuttavia non è convinto che qui potesse essere ricordata la
patria di Billieno); Buchi 1993, 57 n. 202: … allec[tus - - - do?]mo Eruc[- - -]; cf. Bassignano
1997, 60.
13
Non possiamo fare ipotesi sulla patria d’origine di Billieno, in quanto il suo gentilizio è
presente sia nell’Italia centro-meridionale (Roma, Praeneste, Larino, Pompei, Capua), sia in
quella settentrionale (Libarna, Mediolanum, Aquileia, Pola); tuttavia sulla base della terminazione in –ienus si può ritenere che esso si sia diffuso a partire dalla prima: cf. Cristofori
1992, 144-146. Tutti i veterani dedotti ad Ateste uscirono dalla loro tribù d’appartenenza e
furono iscritti nella tribù Romilia nella quale erano stati registrati gli abitanti di questa comunità (così come quelli di Sora, dove fu dedotta una colonia in età triumvirale): cf. Boscolo
2010, 266-268, 273-278.
14
Il calco esposto a Roma al Museo della Civiltà Romana per quanto riguarda la lettera
incriminata è ingannevole, essendo stata riprodotta una indiscutibile E.
12
209
gian luca gregori
za di altri adlecti egli non ricoprì poi alcuna magistratura nella colonia), ma una
qualità intrinseca nella sua stessa natura di uomo, caratterizzata dalla propensione al risparmio e quindi alla frugalità15.
A partire dall’età tardorepubblicana l’espressione (homo) frugi ricorre nelle
iscrizioni da sola o abbinata ad altri epiteti (amabilis, amator veritatis, castus,
diligens, doctus, fidelissimus amicorum, formonsus, integrae existimationis, parcus,
pius, pudens, sobrius …)16. Solo in alcuni casi conosciamo anche la professione
esercitata dal defunto (ampullarius, mercator bovarius, mercator, praeco, tonsor)17.
In alternativa alla lettura che qui propongo, meno probabile mi parrebbe
la possibilità che le ultime lettere della riga 8 possano appartenere al gentilizio della moglie, un’Erucia, anche se questo gentilizio nell’Italia settentrionale
è attestato nel vicino agro veronese18. Per le lettere [- - -]MO che precedono, si
potrebbe in questa seconda ipotesi immaginare un epiteto, ad esempio opti[mo]
(carissimo pare troppo lungo), ma a parte il fatto che esso non è finora mai attestato nella pur ricca epigrafia funeraria atestina, dovremmo immaginare, per far
posto a tale epiteto, che in un testo del tutto privo di abbreviazioni alla riga 7
fosse stato inciso adlec(tus) e non adlec/[tus], dal momento che all’inizio di riga
8 non dovrebbero essere andate perdute più di cinque lettere. Si aggiunga che
nelle iscrizioni dei veterani sepolti ad Ateste solo raramente è menzionata anche
la moglie19 e che in questi pochi casi i titolari del sepolcro compaiono tutti in
ThLL, VI/1, 1457-1458 (= frugalis, probus). In quanto aggettivo indeclinabile, frugi si
trova ovviamente anche attribuito a donne.
16
Segnalo qui alcuni significativi riscontri da Roma: CIL, VI 28422 (= I2 1408; ILS 8396,
ILLRP 934); 32311 (= I2 1210; ILLRP 808); 37806 (= I2 1259; ILLRP 802); Marruvium:
CIL, IX 3686; Capua: CIL, X 4014; Falerii: CIL, XI 3163; Luna: CIL, XI 7004; Mevania:
CIL, XI 7959; Ariminum: AE 1932, 62; Forum Fulvi: CIL, V 7446; Narbo: CIL, XII 4455,
4492; Carta Archéologique de la Gaule, XI, 1, p. 336; Madauros: CIL, VIII 4703=16871; Thugga: CIL, VIII 27313.
17
Vd. rispettivamente CIL, XII 4455 (ampullarius); VI 37806 (= I2 1259; ILLRP 802:
praeco); 32311 (= I2 1210; ILLRP 808: mercator bovarius); Carta Archéologique de la Gaule,
XI, 1, p. 336 (tonsor); CIL, XII 4492 (mercator). Sull’atteggiamento di sospetto, quando non
di condanna, ostentato in ambiente aristocratico, sul finire della Repubblica, nei confronti della
ricerca del guadagno perseguita con attività di natura commerciale o finanziaria e sull’insistenza nelle iscrizione sepolcrali sulle qualità del vir bonus: Panciera 2006, 384.
18
Calzolari 1986, 235-236 (Gazzo Veronese): Dis M(anibus). / Q. Erucio / Vibiano / C.
Fulvius H[el]lenae (!) / amico bono.
19
CIL, V 2515, 2518; Bassignano 1997, nr. 23.
15
210
ancora sull’iscrizione dell’atestino marco billieno
caso nominativo, senza l’attribuzione al militare di alcun epiteto eulogistico, né
è mai documentato il passaggio dal nominativo al dativo20.
Ciò non vuole dire naturalmente che non potessero comparire nel nostro
testo la moglie (come nei pochi casi che ho ricordato) ed eventualmente anche
altri familiari di Billieno, ma ciò dipenderà da quanto è andato perduto in basso.
Solitamente le iscrizioni funerarie atestine sono incise o su cippi ossuari
cilindrici (in pietra tenera di Vicenza, in trachite, in pietra di Nanto), connotati
da testi molto succinti, o su stele, talora di tipo architettonico, inserite in una
base (in calcare, in trachite, in pietra di Costozza, in pietra di Aurisina – oltre
alla stele di Billieno, è questo il caso anche di CIL, V 2515 e del testo edito da
Bassignano 1997, nr. 18 – o in calcare di Verona), con la menzione del defunto e di altri membri della famiglia21. Meno frequenti si rivelano i casi di lastre
affisse sulla fronte dei sepolcri22. Se il supporto originario dell’iscrizione non era
dunque una lastra, come oggi si presenta, ma una stele, è verosimile che in basso
manchi non poco; potevano in tal caso trovare qui posto l’età del defunto e il
ricordo dei suoi congiunti, ammettendo che il testo si allontanasse dallo schema
ripetitivo riprodotto negli epitaffi degli altri legionari (ma Billieno in fondo era
divenuto un decurione).
Per la datazione dell’iscrizione un sicuro termine di riferimento è ovviamente rappresentato dall’epiteto di Actiacus; non sappiamo quanto Billieno sia
sopravvissuto alla celebre battaglia cui aveva preso parte23. Sotto il profilo paleografico, segnalo la presenza di segni d’interpunzione triangolari e con vertice in
Minore difficoltà farebbe l’assenza all’inizio di riga 8 del rapporto di parentela, non
essendoci spazio per un’espressione quale viro optimo: sia pure rari, non mancano in generale
casi in cui il rapporto di parentela tra il defunto e il/la dedicante viene esplicitato solo dopo
l’indicazione del nome di quest’ultimo/a; limitatamente a defunti definiti optimi vd. CIL, V
169 (Pola); VI 9857, 24267a, 26802 …
21
Sulle necropoli atestine: Baggio Bernardoni 1987, 232-233; Zerbinati 1987,
248-251; la colonia di Ateste sembra aver goduto di particolare crescita nel I sec. d.C., collegata
proprio all’arrivo dei veterani, ma già nel secolo successivo sarebbe cominciato il suo declino:
de Ligt 2008, 169.
22
Sulla varietà dei materiali lapidei provenienti dalle cave del Veneto: Buonopane 1987;
sulla varietà dei supporti utilizzati per gli epitaffi dei veterani atestini: Keppie 1983, 47.
23
Sulle circostanze che determinarono la vittoria di Ottaviano su Antonio vd. da ultimo le
considerazioni di Lange 2011 che ricorda la nutrita bibliografia moderna e le principali fonti
antiche. Molte incertezze regnano ancora sulle legioni che furono dalla parte di Ottaviano e su
quelle che stavano con Antonio: vd. Keppie 1983, 27-29.
20
211
gian luca gregori
basso, le O praticamente rotonde, anche se non vi è traccia di ombreggiatura, le
R con coda rigida che muove da metà occhiello e non dalla sua giunzione con
la verticale: in complesso i caratteri mi sembrano piuttosto tardorepubblicani
che augustei e non incompatibile con tale datazione si rivela la presenza della
cornice a delimitazione del campo destinato alla scrittura24.
Cf. Panciera 2006, 39-41. All’età augustea pensa Chiabà 2007, 145, come già Bassignano 1997, 60.
24
212
ancora sull’iscrizione dell’atestino marco billieno
Fig. 1. La stele di Marco Billieno (Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico. Foto F. R. Berno).
Fig. 2. Particolare della riga 8 della stele di Marco Billieno (Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico. Foto F. R. Berno).
213
gian luca gregori
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217
GIUSEPPE LEPORE
La colonia di Sena Gallica: un progetto abbandonato?1
Già da tempo numerosi studiosi hanno messo in evidenza come la fondazione di Ariminum nel 268 a.C. segni di fatto una fase nuova nel processo di
conquista promosso da Roma verso l’Italia settentrionale: «fino a questa data,
infatti, la colonizzazione romana dell’Italia centro-settentrionale si era inserita, marcando le tappe dell’espansione e della conquista, in ambiti geografici e
antropici consueti e non aveva profondamente modificato i loro tradizionali
sistemi di vita e di economia… L’organizzazione del territorio coloniario si sarà
caratterizzata piuttosto come una catastazione nuova e non deve aver comportato modifiche strutturali rispetto alla tradizione o ai caratteri imposti dalle
condizioni naturali dell’ambiente»2.
Ma appena i Romani si affacciano sulla piana del Po, capiscono subito che
le condizioni della conquista devono mutare radicalmente: abituati ai paesaggi del Lazio e dell’Italia centrale, i Romani restano stupefatti dalla larghissima
disponibilità di terre e dalla loro evidente fertilità, come ricorda con chiarezza
Polibio:
Lungo questa catena montuosa, alla quale bisogna pensare come se fosse la base
del triangolo, a mezzogiorno giace la pianura della quale si parla appunto ora,
Questo contributo completa e approfondisce quanto esposto nel Convegno tenutosi a
Macerata nell’aprile 2013 (Epigrafia e Archeologia Romana nel territorio marchigiano): Lepore 2013. Ringrazio la dott.ssa Monica Chiabà per il cortese invito a partecipare alla Collana Polymnia e il dott. Michele Silani per le proficue discussioni su questo elaborato. Tutti i
dettagli di questa ricerca saranno compresi nella sua tesi di dottorato in Archeologia presso
l’Università di Bologna dal titolo: Città e territorio: la formazione della città romana nell’Ager
Gallicus.
2
Gabba 1989, in part. 24. Sul tema cf. anche Chevalier 1983 e Bandelli 1988.
1
219
giuseppe lepore
estremità di tutta l’Italia verso nord, che supera per fertilità ed estensione quante
in Europa sono rientrate nell’ambito della nostra ricerca. La forma complessiva anche della linea che delimita questa pianura è triangolare… Funge da base
dell’intera figura la costa del golfo Adriatico; l’estensione della base è, dalla città
di Sena fino alla parte più interna, di oltre duemilacinquecento stadi, sicché l’intero perimetro di questa pianura non è molto inferiore a diecimila stadi.
La sua fertilità non è davvero facile da descrivere. Nella zona si ha, infatti, una
così grande abbondanza di grano che spesso ai nostri tempi un medimno siculo
di frumento costa quattro oboli, uno d’orzo due, un metrete di vino come l’orzo3.
In una pianura padana così definita era possibile intervenire profondamente sull’ambiente naturale, liberi anche dal condizionamento delle popolazioni
indigene che, per quanto belle e valorose, sempre secondo Polibio, furono eliminate o marginalizzate come elemento servile in modo da non costituire più un
serio ostacolo alla diffusione del nuovo sistema romano.
Gli studi più recenti condotti sulla colonia di Sena Gallica, che dovette
precedere di circa un ventennio la deduzione di Ariminum, ci permettono ora
di retrodatare il processo sopra esposto e di ipotizzare che i Romani abbiano
attuato nella colonia latina alla foce del Marecchia un programma coloniario
che, con buona probabilità, era stato pensato per Sena Gallica e poi, a causa
delle mutate condizioni storiche e politiche, fu messo in pratica solo in parte nel
territorio marchigiano.
Questa linea di ricerca si scontra, però, con la definizione di Sena come colonia maritima, ovvero come punto permanente di difesa costiera, senza particolari interessi e proiezioni nell’ager (almeno nelle prime fasi) e, in virtù di questo
ruolo ‘marittimo’, esentato anche dal servizio militare (anche qui con le opportune eccezioni)4.
***
Polyb. II 14-15: l’Autore continua descrivendo l’abbondanza di miglio e panìco, di ghiande e di suini, nonché la prestanza e bellezza fisica degli uomini. Si nota con chiarezza inoltre che
per Polibio la colonia di Sena delimita verso sud questa fertilissima pianura.
4
Sull’argomento Gros - Torelli 1988, in part. 128. Vedremo come nel 191 a.C. Sena è
menzionata nell’elenco delle sei colonie marittime che chiedono esenzione dal fornire contingenti militari a Roma (la sacrosancta vacatio) (Liv. XXVII 38).
3
220
la colonia di sena gallica
Il nostro punto di partenza sarà, dunque, la constatazione che le fonti antiche
consideravano l’area dove verrà dedotta la colonia di Sena come il limite meridionale della pianura padana, evidente obiettivo strategico dell’avanzata romana verso nord all’indomani della battaglia di Sentinum nel 295 a.C.5. Questo
dato topografico può essere lo spunto per una revisione, sia giuridica sia strategica, della forma della colonia dedotta alla foce del Misa, anche in virtù di alcune
considerazioni di carattere più generale: la politica adriatica di Roma, infatti, si
manifesta con chiarezza nel corso del III sec. a.C., soprattutto durante la terza
guerra sannitica, e mira primariamente a spezzare l’alleanza tra Etruschi e Galli
a nord e Sanniti a sud, ma intende anche dare inizio ad una penetrazione in quel
mare Adriatico che era stato interdetto dai patti di capo Lacinio del 303 a.C.6.
I capisaldi di questa nuova politica adriatica saranno, innanzitutto, Sena e
Castrum Novum, le prime colonie di diritto romano dedotte sulle coste dell’Adriatico, fondate secondo la tradizione, rispettivamente nel 290 o nel 283 a.C.
la prima e nel 289 a.C. la seconda7.
Tutte le ricostruzioni della forma urbana di Sena, proprio in relazione alla
sua definizione giuridica di colonia maritima, si sono dunque attestate sugli
elementi ‘canonici’ di questo particolare tipo di città-presidio: ridotte dimensioni, forma castrense, numero minimo di coloni (forse 300), proiezione sul mare
Polyb. II 14: l’Autore ricorda con chiarezza come la pianura padana abbia la forma di un
triangolo, il cui vertice inferiore è costituito proprio dalla città di Sena.
6
Sulla politica ‘adriatica’ di Roma, che comprende anche interventi sulla sponda orientale
dell’Adriatico (a partire dalla creazione di un avamposto a Brundisium nel 244 a.C. fino al 229
a.C. con l’inizio delle guerre contro gli Illiri), si rimanda a Bandelli 1999, Bandelli 2003
e Bandelli 2004.
7
La ‘doppia datazione’ della colonia di Sena, sulla quale torneremo, si riferisce alle due
diverse posizioni di Livio (perioch. XI) e Polibio (II 19): sull’argomento si rimanda a Bandelli 2008. Per la seconda colonia optimo iure si acquisisce, in questa sede, la tesi che identifica la
Castrum del passo liviano (perioch. XI) con l’attuale Giulianova nel Piceno, mentre la Castrum
ricordata da Velleio (I 19, 8) risulta essere, più realisticamente, la città sul Tirreno. In generale: Sommella 1988, in part. 55-82 e Gros - Torelli 1988, in part. 127-147. In realtà sul
versante adriatico, anche se non sulla costa, nel 289 a.C. viene fondata anche la colonia latina
di Hatria (Liv. perioch. XI): in questa sede ci limiteremo a prendere in considerazione solo le
due coloniae che le fonti e la tradizione di studi considerano come maritimae (Sena e Castrum
Novum appunto), mentre la colonia latina di Hatria si trova nell’entroterra dell’ager Praetuttianus. In generale cf. Bertrand 2012.
5
221
giuseppe lepore
etc.8. Ed è su questa base che Alfieri, che per primo propose una forma urbana
della città, ricostruisce una città proiettata verso la costa e orientata sulla base di
alcune murature che si riveleranno poi non essere di età romana9 (fig. 1).
Fig. 1. Sena: l’estensione dell’originaria colonia maritima per Nereo Alfieri (rielaborazione da
Ortolani - Alfieri 1978, con l’inserimento dell’area archeologica “La Fenice”).
Già negli anni ’90 i primi scavi estensivi nell’area del teatro “La Fenice”
mettono in evidenza una maggiore estensione della città verso sud, all’interno
di quello che Alfieri a suo tempo definì il «suburbio» della colonia10. I nuovi
La bibliografia su Sena non è sterminata: dopo i pionieristici lavori di Nereo Alfieri insieme a Mario Ortolani (Ortolani - Alfieri 1953 e Ortolani - Alfieri 1978), ricordiamo
per completezza di quadro d’insieme Polverari 1979 e Stefanini 1991; cf. anche Luni
2003 e Perna 2012.
9
La Stefanini nel 1989 dimostrerà che le strutture considerate in situ da Alfieri sono in
realtà reimpieghi di età medievale, anche se conservano il medesimo orientamento delle costruzioni romane: Stefanini 1989. In realtà il riesame della documentazione, tutt’ora in corso, sta
dimostrando che un livello romano esisteva in questa area ed era costituito da alcune strutture
murarie e forse da pavimentazioni in cocciopesto, collocate nel settore nord della torre della
metà del 1300 intorno alla quale sorgerà la Rocca Malatestiana prima e Roveresca poi.
10
Sugli scavi sotto il teatro “La Fenice” si rimanda a Salvini 2003 e Lepore et alii 2013.
8
222
la colonia di sena gallica
scavi confermano oggi che la colonia occupava l’intera platea alluvionale, con
una perfetta aderenza tra insediamento urbano e conformazione geografica del
sito prescelto (fig. 2).
Fig. 2. Sena: l’estensione della colonia maritima secondo i recenti studi (elaborazione Michele
Silani).
I nuovi scavi hanno messo in luce un breve tratto della mura urbiche, che ha
fornito il punto di partenza per una ricostruzione del circuito complessivo11:
sappiamo ora con certezza che le mura di età romana, larghe 2,60 m (9 piedi),
erano costituite in blocchi di arenaria gialla provenienti da una cava collocabile
sulle prime alture a sud di Senigallia12. Poco possiamo dire sull’altezza complesVa segnalato che Alfieri, pur non conoscendo i suddetti scavi, aveva già ipotizzato un corretto
allineamento degli assi urbani principali: il primo nord-ovest sud-est (parallelo alla linea di
costa) e il secondo ortogonale al primo.
11
Una diversa ricostruzione del circuito murario di Sena è in Perna 2012a (vd. in part.
74-75).
12
Si tratta, in realtà, del cavo di spogliazione delle mura, riempito con i residui dell’asportazione dei blocchi di arenaria. Tali blocchi, delle dimensioni ricostruibili di 3 piedi x 2 x 1 (90 x
223
giuseppe lepore
siva della struttura: i dati archeologici permettono di ricostruire con certezza un
basamento in blocchi alto almeno 3 m, senza escludere un completamento, nella
parte alta, in materiali diversi (argilla e legno)13. All’interno le mura presentavano almeno due terrapieni sovrapposti, larghi nell’insieme 9 m (30 piedi) che
definivano anche una strada intramuranea larga 3 m (10 piedi)14.
In attesa di ulteriori riscontri di tipo archeologico, saranno le indagini geofisiche e lo studio geomorfologico dell’intera platea, integrate da considerazioni urbanistiche, a precisare meglio il percorso murario complessivo, di cui si
presenta qui l’ipotesi ricostruttiva più recente: il lato ovest doveva presentare
con buona certezza una linea spezzata dovuta alla conformazione dell’ansa del
Misa prima della sua rettificazione alla metà del 170015; la ricostruzione del lato
nord è più sicura dal momento che appare comunque vincolata dal corso del
Misa stesso: pur restando alcune incertezze sul numero dei tratti della cortina, è
possibile comunque restituire una linea spezzata in almeno due tratti, che verrà
poi riutilizzata e aggiornata all’interno delle cd. ‘mura malatestiane’, messe in
opera da Pandolfo Malatesta alla metà del 140016. Anche il lato meridionale
del circuito può essere ricostruito con sufficiente certezza: il corso del canale
60 x 30 cm) si trovano reimpiegati in tutte le murature storiche della città (cd. ‘tufi’): Villani
2008, 25-29. Lo studio sulle cave è condotto dal prof. Mauro De Donatis dell’Università di
Urbino. La larghezza delle mura è congruente con quanto sappiamo delle mura di altre città
romane della Gallia Cisalpina (Ariminum, Ravenna, Placentia): Guarnieri 2000, in part.
119. Sulle mura di Ariminum si rimanda a Ortalli 1990.
13
Le mura dovevano essere sicuramente più alte: per avere un’idea ricordo che quelle di
Pisaurum, nei punti meglio conservati, raggiungono i 7 m di altezza: Di Cocco 2004.
14
La presenza di terrapieni è nota anche per la colonia di Ariminum, di pochi anni successiva
a Sena: Ortalli 2000, in part. 34-35. La presenza di due terrapieni sovrapposti ci induce ad
ipotizzare una necessità costruttiva per cui all’inizio il terrapieno funga da piano inclinato per
la messa in opera dei blocchi e successivamente diventa un’area rilevata e percorribile dall’interno delle fortificazioni per la difesa della città. Terrapieni simili sono stati recentemente messi in
luce a Potentia, colonia del 184 a.C.: Vermeulen et alii 2011, in part. 192-193.
15
La conformazione del lato ovest della platea è ricostruibile in questo punto anche grazie
alle indagini geoelettriche condotte nel 2011; i carotaggi eseguiti nel 2013, in corso di studio,
avvalorano questa ricostruzione che trova la definitiva conferma nei progetti di rettificazione
del corso del Misa databili nella prima metà del 1700 che presentano tutti una vistosa ansa: sui
progetti di rettificazione si rimanda a Fazi 1985, con le relative illustrazioni.
16
Pandolfo Malatesta non ebbe né il tempo né le risorse per dotare la città di un nuovo
circuito murario e dunque riattivò, in buona parte, quello precedente, di età romana: sulle mura
malatestiane si rimanda ai lavori di Paola Raggi (Raggi 2004).
224
la colonia di sena gallica
Penna delimitava l’intera platea verso sud ed è anzi è probabile che tale canale fosse un originario torrente che viene rifunzionalizzato come fossato delle
mura17. Il lato est è forse quello più problematico, ma alcune considerazioni di
tipo urbanistico possono suggerire una linea di studio: l’attuale corso della città
(Corso II giugno) si presenta come una strada obliqua e di dimensioni anomale
rispetto al resto del tessuto urbano, rappresentando un evidente ‘taglio’ nella
magliatura urbana. Recentissime indagini sismiche sembrano confermare l’assenza di strutture antiche nel sottosuolo del Corso, mentre lasciano ipotizzare
che il corso sorge sopra un più antico canale, che a sua volta sembra sfruttare un
salto di quota molto più antico18. Il lato est delle fortificazioni, dunque, poteva
sfruttare tale anomalia (almeno in una prima fase), magari con fortificazioni più
semplici (legno, sul modello di quanto avvenne dopo poco per Ariminum il cui
lato a mare non fu fortificato se non in età tardo imperiale)19. È anche possibile
ipotizzare, senza poterlo dimostrare per ora, che il lato est fosse del tutto privo
di fortificazioni almeno nella fase di progettazione della città dal momento che
la palude costiera che doveva occupare lo spazio compreso tra il dislivello del
corso e la linea di costa costituiva già di per sé una ‘difesa passiva’, senza contare
che, almeno nelle prima fasi di vita della città, i pericoli potevano provenire più
dall’entroterra che dal mare.
Le nuove indagini hanno inoltre messo in luce diverse porzioni di abitazioni
private, sempre riferibili all’età repubblicana. Almeno 7 domus emergono dallo
studio dei vecchi scavi (Via Cavour, convento di S. Martino, Fenice) e dalle
nuove indagini (Via Cavallotti, Via Gherardi)20 (fig. 3). Si tratta per lo più di
In questo caso la doppia viabilità, conservata fino all’età moderna, di via IV Novembre
(ex corso del canale Penna interrato agli inizi del ‘900) e via Baroccio costituisce un eccezionale
caso di ‘fossile urbanistico’ in cui la stretta fila di case compresa tra le due vie sopra citate rappresenta il reimpiego dello spazio delle mura (forse sfruttato anche come fondazione) a partire
dall’età basso medievale in poi.
18
Le indagini sono state condotte nel 2013 dalla dott.ssa Federica Boschi dell’Università di
Bologna per le indagini geofisiche (georadar) e dalla ditta “Servizi Sismici s.n.c.” di Antonello
Donnini e Fabrizio Mantoni per le indagini sismiche; i dati sono ancora in corso di elaborazione, ma appare già evidente l’assenza di strutture costruite nel sottosuolo di Corso II Giugno.
19
Il lato verso il litorale fu fortificato solo in età tardo antica (forse nel III sec. d.C.): Ortalli
1995, in part. 516-517.
20
Uno studio complessivo sull’edilizia privata a Senigallia è in corso di elaborazione da
parte dello scrivente e del gruppo di studio collegato a Sena Gallica. La revisione dei dati sulle
domus sotto la Fenice è in Lepore et alii 2013a, mentre sulle domus di Via Cavallotti e di Via
Gherardi si rimanda a Lepore et alii 2012 e Lepore et alii 2012a.
17
225
giuseppe lepore
Fig. 3. Una delle domus dell’area archeologica “La Fenice” (da Salvini 2003).
domus ad atrio canoniche, con la ben nota sequenza di vestibulum-fauces, atrio
con alae, tablinum e cubicula ai lati. Due botteghe completano l’affacciamento
sugli assi stradali. Le dimensioni medie di queste case, a quanto è possibile vedere
finora, si aggirano sui 27 x 17 m e i materiali ceramici rinvenuti in contesti sigillati confermano che la costruzione delle singole domus dovette avvenire a partire
dalla fine del III sec. a.C.: i singoli lotti urbani, dunque, devono essere stati divisi
e assegnati già nel corso del III sec. a.C. (subito dopo la fondazione della colonia)
e, dalla fine del secolo, devono essere state avviate le operazioni di costruzione
delle domus. Ancora una volta i primi apprestamenti sono eseguiti con tecniche
edilizie molto semplici, ma già ben sperimentate: muri in argilla cruda su zoccolatura in tegole oppure in blocchetti di arenaria, vero e proprio ‘fossile guida’ per
le fasi più antiche della colonia21. Anche se l’aspetto esteriore di queste abitazioni sembra piuttosto semplice (prevalgono nettamente gli apprestamenti di tipo
‘rustico’ e funzionale e i cocciopesti predominano sul mosaico o sui pavimenti
in pietra), alcuni dettagli lasciano percepire che si tratta comunque delle abitazioni della nuova classe dirigente, che utilizza tutti i simboli del nuovo potere
Una revisione dello schema abitativo delle domus dell’area archeologica “La Fenice” è
in Lepore et alii 2013a. Nelle prime fasi di vita della colonia l’arenaria viene utilizzata sia
nelle zoccolature dei muri delle abitazioni (in blocchetti) sia nelle pavimentazioni (all’interno
di battuti). I materiali contestuali confermano che il momento della divisione dello spazio e
dell’impostazione delle domus si aggira alla metà del III sec. a.C.
21
226
la colonia di sena gallica
Fig. 4. Panoramica del santuario di Via Baroccio.
proveniente da Roma: la presenza del vestibulum nelle fauces, ad esempio, lascia
trasparire l’esistenza del ben noto sistema tipicamente romano dei clientes, così
come altri indicatori (la decorazione in cd. ‘primo stile’ delle pareti) rivelano
una precisa volontà di autorappresentazione di queste nuove classi che si stanno
strutturando all’interno della nuova colonia e che con l’architettura intendono
comunicare la loro adesione al nuovo sistema romano22.
Un santuario extraurbano è stato poi messo in luce in corrispondenza del
principale accesso alla città da sud (fig. 4). In località “Portone”, infatti, è stata
scavata una porzione di un santuario, da porre in relazione con le più antiche
fasi della costituzione della colonia romana. Il sito è straordinario: un dosso alla
confluenza del fiume Misa e del torrente Penna, che a sua volta controllava un
Un quadro d’insieme per l’edilizia in Gallia Cisalpina è in Ortalli 2001. Sull’utilizzo
del cd. ‘primo stile pompeiano’ come indicatore di romanizzazione si rimanda a Marcattili
2011.
22
227
giuseppe lepore
percorso terrestre che proveniva da sud (dalla strada che poi porterà a Jesi) e
che entrava in città mantenendosi sempre sulla destra del Misa. Qui un semplicissimo santuario a cielo aperto si organizzava intorno ad uno (o più) cippi in
arenaria e ad almeno due escharai23. In questa fase, che i materiali più antichi
collocano addirittura tra la fine del IV e i primissimi anni del III sec. a.C., il
culto si concentra intorno a questi cippi con offerte di commestibili (liquidi
e solidi), come attestano i contenitori in ceramica comune (uno con uovo), le
coppette a vernice nera e le numerose valve di conchiglie deposte ritualmente nel fango del santuario. Ma il dato principale è che il santuario, a quanto è
possibile vedere, non sfrutta un sito preesistente e si colloca in un’area ancora
extraurbana: solo durante la successiva fase di costruzione delle mura, infatti,
il santuario è inglobato all’interno della città e subisce un’azione di cospicua
monumentalizzazione: si costruiscono due sacelli in muratura (uno dei quali
ingloba al suo interno uno dei cippi originari), si pavimenta tutta l’area con un
battuto di arenaria gialla, la medesima utilizzata per la costruzione delle mura.
La colonia è dunque nata e le mura, come sempre, costituiscono l’atto fondativo
del nuovo impianto urbano: nam urbs ipsa moenia sunt, civitas autem non saxa,
sed habitatores vocantur24. È probabile che le due fasi individuate nel santuario
di Via Baroccio possano rappresentare anche due momenti distinti della fondazione della città, suggerendo una possibile coesistenza tra le due date suggerite
da Livio e da Polibio: una prima fase (290 a.C. ca.) vede l’arrivo dei coloni che
si aggregano intorno ad un santuario e si installano, forse, in un accampamento
fortificato; solo alcuni anni dopo, quando la situazione politica è stabilizzata e il
pericolo gallico è stato eliminato (283 a.C.) si procede all’insediamento definitivo, con l’erezione delle mura e la sistemazione urbanistica generale (vd. infra).
A tutti i dati sopra esposti aggiungiamo, infine, alcune nuove considerazioni provenienti dall’analisi del territorio riferibile alla colonia di Sena (fig. 5).
I cippi in arenaria, purtroppo anepigrafi, sono di forma tronco piramidale, molti simili a
quelli del lucus Pisaurensis. Anche l’aspetto complessivo di questo primitivo santuario potrebbe
suggerire la forma originaria del più famoso lucus, chiarendo anche il motivo della sua mancata identificazione sul terreno: in assenza di una fase strutturale più consistente il luogo sacro
era costituito essenzialmente dai suoi cippi votivi e dalle sue offerte. Sul lucus si rimanda a
Coarelli 2000 e Di Luca 2004.
24
Isid. Etym. XV 2, 1. Il santuario, dunque, viene incluso all’interno delle mura e l’orientamento che si dà ai sacelli è quello della futura colonia, con un asse parallelo alla linea di costa e
un altro ad esso ortogonale.
23
228
la colonia di sena gallica
Fig. 5. Carta con la probabile estensione dell’ager Senogalliensis (elaborazione Michele Silani).
Lo studio di dettaglio del sito di Madonna del Piano di Corinaldo, posto
a controllo di un guado sul fiume Cesano (a nord del Misa) nonché l’analisi
della maglia centuriale della valle del Misa ci hanno indotto a produrre alcune ipotesi sull’effettiva estensione dell’ager Senogalliensis. Il catasto di Sena
comprende certamente la bassa e media valle del Misa almeno fino all’attuale
località di Casine di Ostra, dopo la quale inizia la catastazione del municipium
di Ostra)25. Tuttavia la recente individuazione, nella limitrofa valle del Cesano, all’interno del sito di Madonna del Piano di Corinaldo, di alcune tracce di
divisione agraria congruenti con quelle individuate nella vicina valle del Misa26,
25
Sul catasto di Sena si rimanda a Dall’Aglio - Bonora Mazzoli 1991, in part. 30-32.
Sull’argomento si rimanda a Lepore et alii 2013a. Ovviamente la datazione precisa di
una persistenza centuriale è praticamente impossibile, ma, anche volendo immaginare una
progressione anche cronologica nella divisione dell’ager dalla costa verso l’entroterra, è altamente probabile che il limite meridionale del territorio della città fosse stato individuato già
al momento della fondazione della colonia, magari sfruttando una viabilità precedente che si
26
229
giuseppe lepore
ha permesso di ipotizzare che l’estensione dell’ager della colonia di Sena fosse
molto più vasto di quello precedentemente immaginato e che potesse comprendere anche il bacino del fiume Cesano a nord e una parte del bacino del fiume
Esino a sud27.
Il limite occidentale di questo vasto ager potrebbe essere rappresentato,
infatti, da un asse viario trasversale che congiunge, con buona probabilità, il sito
di Madonna del Piano con la bassa valle esina28. A nord il limite del territorio
potrebbe trovare un caposaldo nella villa rustica in località Cesano di Senigallia
(che recentissime indagini hanno dimostrato essere notevolmente più ampia e
complessa di quanto finora ipotizzato e con materiali collocabili tra III e II sec.
a.C.), mentre a sud tale limite potrebbe essere costituito dalla dorsale della valle
del fiume Esino29.
Ovviamente proporre una cronologia precisa per una persistenza centuriale
è praticamente impossibile, ma ancora una volta le nuove ricerche ci possono
fornire qualche spunto di approfondimento: diversi materiali provenienti dal
sito di Madonna del Piano (monete, frammenti di dolia, anfore greco italiche e
ceramiche a vernice nera) possono essere riferibili a fattorie (o impianti produttivi) anche precedenti alla distribuzione viritana del 232 a.C., a testimonianza
di un’occupazione già consistente dell’ager publicus30. Il discorso è complesso e
richiede ulteriori approfondimenti, ma sembra verosimile che la colonia maritima di Sena possa aver controllato da subito un ager molto vasto, con una
precocissima attitudine allo stanziamento agricolo, forse eco di quella occupatio
incardinava sull’antico guado di Madonna del Piano. Sulla possibilità di un’estensione del catasto di Sena anche nella bassa valle del fiume Cesano, fino alla zona di Madonna del Piano di
Corinaldo, si veda anche Dall’aglio - Bonora Mazzoli 1991, in part. 34 n. 27.
27
Si tratta di una linea di ricerca tutta da approfondire: questa ipotesi, infatti, potrebbe
anche spiegare l’anomala assenza di una città romana nelle testate dei fiumi Cesano (a nord) e
Esino (a sud). Tutti gli altri fiumi marchigiani presentano una città alla foce. Anche in questo
caso, forse, il confronto con la colonia di Ariminum può essere significativo: anche l’ager della
colonia alla foce del Marecchia comprendeva diversi bacini fluviali: l’Uso a nord e il Conca a
sud. Cf. Bottazzi 1995 e Bonora 2000.
28
Un approfondimento su questo tema è proposto in Lepore et alii 2013a.
29
Sulla villa rustica in località Cesano di Senigallia si rimanda a Salvini 2003, 76-79. Una
recente revisione ha permesso di individuare un frammento di dolio con iscrizione di III-II sec.
a.C.: Branchesi 2012, 87-89.
30
I materiali di Madonna del Piano sono pubblicati in Lepore et alii 2013a.
230
la colonia di sena gallica
che sembra partire, in forme più o meno ufficiali, già dall’inizio del III sec. a.C.
all’indomani dello scontro di Sentinum31.
***
Il quadro che si sta configurando, alla luce delle più recenti ricerche, risulta
decisamente differente rispetto a quanto noto finora e potrebbe comportare una
forte revisione di quanto detto a proposito dell’origine e della forma urbana
della colonia maritima di Sena Gallica.
I nuovi dati archeologici sembrano avvalorare quanto già a suo tempo suggerito da Alfieri: la doppia datazione ricordata dalle fonti potrebbe rappresentare due fasi del medesimo processo di strutturazione della città32. Nel 290 a.C.
(secondo la datazione di Livio), pochi anni dopo la battaglia di Sentinum, un
nucleo di coloni arriva sulla platea che ospiterà la futura colonia di Sena: i nuovi
arrivati apprestano un nuovo santuario a cielo aperto (scavi di Via Baroccio) e
molto probabilmente si sistemano in un accampamento fortificato (non ancora individuato) in una posizione sicura, in un settore favorevole della platea,
forse vicino al porto; sicuramente distruggono tutte le preesistenze (scavi di Via
Cavallotti)33. Dopo pochi anni, nel 283 a.C. (secondo la datazione di Polibio),
quando la situazione è ormai pacificata e i Galli Senoni sono stati sterminati da
Manio Curio Dentato, inizia lo stanziamento stabile: vengono edificate le mura
e, contestualmente, viene monumentalizzato il primitivo santuario extraurbano
(scavi di Via Baroccio); vengono inoltre tracciate le strade urbane e impostate le
prime domus (scavi sotto il teatro la Fenice)34.
Si definisce, in questo modo, una città dalle dimensioni del tutto anomale
rispetto alle altre coloniae maritimae: siamo di fronte a circa 18 ha rispetto ai
Sul fenomeno dell’occupatio si rimanda a Hermon 2001, Bandelli 2005, Malnati
2008 e Giorgi 2010.
32
Ortolani - Alfieri 1978, in part. 33-34.
33
Sugli scavi di Via Cavallotti si rimanda a Lepore et alii 2012 e Lepore et alii 2012a; su
Via Baroccio vd. Lepore 2012 e Lepore et alii 2012b.
34
Nuovi dati provengono dalla revisione della documentazione dell’Area Archeologica “La
Fenice”: Lepore et alii 2013.
31
231
giuseppe lepore
2 - 2,5 ha delle più antiche coloniae maritimae del Tirreno35. Inoltre la presenza
di un vasto ager, verosimilmente collegato alla nuova città già dalla fase iniziale
(scavi di Madonna del Piano di Corinaldo36), sembra testimoniare, già nel corso
del III sec. a.C., la vocazione all’insediamento e allo sfruttamento agricolo di
questi nuovi territori, da poco divenuti ager publicus populi Romani.
Sena si configura, dunque, come un nuovo tipo di colonia, in cui si associano
le tradizionali ‘funzioni marittime’ con una forma più simile a quella di una colonia di diritto latino. Siamo di fronte, con buona probabilità, a quella ‘nuova fase’
del movimento coloniario prima ricordata, aperta dalla deduzione di Ariminum
nel 268 a.C. ma forse anticipata dalla ‘sperimentazione’ che fu attuata proprio
a Sena37.
Ad avvalorare questa tesi, poi, giunge l’ulteriore considerazione che una
simile ‘anomalia’ era già stata notata proprio a proposito dell’altra colonia optimo iure fondata sull’Adriatico: Castrum Novum (Giulianova). Recenti studi
sembrano confermare che anche la colonia maritima fondata nell’ager Praetuttianus potrebbe avere anch’essa una notevole dimensione, stimata in 10 ha ca.,
a conferma della necessità di una revisione delle rigide distinzioni formali tra
colonie di diritto romano e di diritto latino e a vantaggio di una maggiore varia-
Brandt 1985. È pur vero che le ridotte dimensioni iniziali delle prime coloniae optimo
iure, così contrastanti con le coeve colonie di diritto latino, lasciano ben presto spazio ad evidenti fenomeni di ampliazione già dagli inizi del II sec. a.C.: Migliorati 1994, in part. 281.
36
Sugli scavi di Madonna del Piano di Corinaldo si rimanda, da ultimo, a Lepore et alii
2013a; si veda inoltre Lepore 2010: questo fertile territorio sembra essere occupato dai romani già nel corso del III sec. a.C., anche prima della Lex Flaminia del 232 a.C.
37
Se tale valutazione coglie nel segno, si renderebbe opportuna la necessità di una revisione
critica delle fonti che definiscono Sena come colonia di diritto romano: non esiste, ad oggi, una testimonianza univoca che definisce esplicitamente Sena come colonia di diritto romano. Sena, secondo
il testo di Polibio (II 19), il più vicino ai fatti narrati, è definita semplicemente APOIKIA, mentre
l’inserimento all’interno della categoria delle coloniae maritimae si basa solo su due testimonianze:
la prima è ex silentio e riguarda la non menzione, da parte di Livio (XXVII 9) all’interno delle
triginta… coloniae populi Romani alle quali Roma chiede aiuto contro Annibale. Di contro Sena è
menzionata nell’elenco delle sei colonie marittime che chiedono esenzione dal fornire contingenti
militari a Roma (la sacrosancta vacatio) (Liv. XXVII 38): Livio ricorda che tra i coloni, etiam maritimos, si presentarono in Senato Ostiensis, Alsiensis, Antias, Anxurnas, Minturnensis, Sinuessanus et,
ab supero mari, Senensis. Infine nelle Periochae di Livio (XI) si ricorda chiaramente Curius Dentatus
cos. Samnitibus caesis et Sabinis, qui rebellaverant… coloniae deductae sunt Castrum, Sena, Hadria,
senza specificare quale tipo di colonia fu dedotta sul Tirreno o in Adriatico.
35
232
la colonia di sena gallica
bilità e flessibilità del modello urbanistico che deve inevitabilmente adattarsi ad
ogni singola situazione, topografica e politica38.
Se poi aggiungiamo quanto ricordato in apertura a proposito della collocazione di Sena all’ingresso della pianura padana, risulta quanto mai verosimile
l’ipotesi per cui, se la politica romana muta in rapporto alle necessità di presidiare il mare Adriatico e di occupare la Gallia Cisalpina, questo mutamento può
essere stato ‘sperimentato’ per la prima volta nelle uniche due coloniae maritimae
della costa adriatica e, forse, prima nella colonia di Sena e, subito dopo, in quella
di Castrum Novum39.
Ad avvalorare questa sequenza cronologica Sena-Castrum Novum potrebbe
venire anche la sopra ricordata questione della doppia datazione della colonia
di Sena: il caposaldo alla foce del Misa viene concepito, nel 290 a.C. (datazione di Livio), come presidio militare e pertanto dotato, in ottemperanza a
quanto prescritto per le coloniae maritimae, solo di un piccolo apprestamento
e di un santuario (Via Baroccio); nel 283 a.C. (datazione di Polibio) le mutate
condizioni della conquista (i nemici Senoni sono stati annientati) determinano una nuova conformazione della città, che viene concepita come una vera e
propria colonia di diritto latino, con ampia area urbana, mura che assecondano
la conformazione del terreno e un ampio ager da gestire40. In questo modo si
potrebbe accettare la datazione del 290 a.C. per Sena e del 289 a.C. per Castrum
Novum.
Le diverse necessità politiche e strategiche, poi, dopo soli 20 anni dalla deduzione di Sena, devono aver rivelato come il sito di Ariminum fosse più adatto a
fungere da caposaldo territoriale per l’avanzata verso nord: ovviamente la città
di Sena non fu abbandonata ma ‘l’investimento pubblico’ dovette diminuire
Su Castrum Novum si vedano, in particolare, Migliorati 1994, Bandelli 2002 e
Bertrand 2013, in part. 90-91. Anche questa colonia doveva presentare dimensioni notevoli
già nel progetto originario e la sua forma doveva aderire, già da subito, ai condizionamenti
imposti dall’orografia (vd. la presenza di terrazzamenti sin dalla fondazione). Cf. anche Angeletti 2006.
39
Una maggiore ‘flessibilità’ nella distinzione tra colonie romane e latine è anche in
Hermon 2001, in part. 209-213.
40
Si spiegherebbero, così, anche le incertezze delle fonti antiche che però si attestano sulla
definizione del progetto originario della colonia come optimo iure. Esistono anche altri casi di
‘cambiamento in corso d’opera’: Luni è stata pensata come colonia latina e dedotta nel 177 a.C.
come romana all’interno del territorio dei Liguri, cui seguì una deportazione in massa della
bellicosa popolazione: Gros - Torelli 1988, 148.
38
233
giuseppe lepore
considerevolmente, come dimostra il fatto che già nel 220 a.C., all’apertura ufficiale della Via Flaminia, il nuovo percorso taglia fuori, di fatto, tutta la valle del
Misa, privilegiando la valle del fiume Metauro e il percorso più settentrionale
meglio collegato con il caposaldo di Ariminum. E la presenza romana, ormai
ben attestata nel corso del III sec. a.C. in numerosi siti posti ben più a nord di
Sena (Lucus Pisaurensis, Cattolica, Ravenna, Spina etc.), potrebbe confermare
questa prematura ‘proiezione’ di Roma verso il nord e soprattutto verso le fertili
terre della pianura padana, anche grazie all’alleanza stabilita coi Veneti41.
Negli anni successivi Sena sembra ‘scomparire’ dalla storia, se escludiamo un
momento di (probabile) distruzione durante le guerre civili del I sec. a.C., che
però non sembra incidere sull’assetto urbanistico complessivo42. Questo ‘declassamento’ sembra perdurare anche in età augustea perché il Princeps, a quanto
sappiamo finora, punta i suoi interventi su altre città marchigiane (pensiamo
soprattutto a Fanum Fortunae, posta proprio allo sbocco in Adriatico della Via
Flaminia)43. Per l’antica colonia di Sena, invece, non abbiamo che pochissime
tracce di un’edilizia pubblica e pochissimi dati epigrafici riferibili all’età imperiale44. L’immagine che sembra delinearsi è quella di un centro urbano non
fittamente popolato già a partire dall’età repubblicana, con abitazioni piuttosto semplici in cui, come si è detto, predomina il cocciopesto e la terra battuta, mentre i mosaici (oppure le pavimentazioni di pregio) sono pochissimi45.
Numerosissimi sono gli ambienti intravisti archeologicamente che sembrano
assolvere a funzioni ‘rustiche’ e produttive anche se inseriti nell’area urbana46.
Ottime sintesi sull’espansionismo di Roma verso l’alto Adriatico sono in Bandelli
1999 e Bandelli 2003. Si vedano anche Malnati 2008 e Gaucci 2013.
42
Durante le guerre civili Senigallia fu messa a sacco nell’82 a.C. dalle truppe di Pompeo,
dopo uno scontro con la flotta di Mario (App. BC X 88): Ortolani - Alfieri 1978, in part.
35. Ugualmente significativo sembra essere il silenzio su Sena durante il racconto della rapida
avanzata di Cesare da Rimini ad Ancona: Ab Arimino… Pisaurum, Fanum, Anconam… singulis
cohortibus occupat (Caes. civ. I 11, 4).
43
Una panoramica generale è in Paci 1999.
44
Anche la sostanziale assenza di dati epigrafici può essere significativa, a meno di non dover
ammettere ancora una volta la presenza di un ‘caso archeologico’. Sull’epigrafia di Sena si rimanda a Paci 1982. Attualmente tutte le epigrafi rinvenute a Senigallia sono state schedate da
Fabiola Branchesi (Università di Macerata) in http://www.edr-edr.it/Italiano/index_it.php.
45
Le attestazioni di lacerti di mosaico, quasi tutti in tessere bianche e nere, sono in Stefanini 1991. Per una panoramica sui modi dell’edilizia rurale si rimanda a Bacchetta 2003.
46
Il caso più evidente è quello della domus rinvenuta in Via Cavallotti: Lepore et alii 2012
e Lepore et alii 2012a.
41
234
la colonia di sena gallica
Non si riesce a vedere, allo stato attuale, quella edilizia di prestigio che caratterizza le aree pubbliche di tutti centri romani: nessun dato, allo stato attuale,
possediamo sul Foro e sui monumenti annessi.
Questa situazione di sostanziale tenuta sembra perdurare per tutta l’età tardo
antica e altomedioevale, senza sensibili cambiamenti, ovviamente sempre a livello di macro-urbanistica, fino alla crisi della metà del 1300: già Dante ricordava
(Paradiso XVI, 67-75) «Se tu riguardi Luni et Urbisaglia / come son ite e come
se ne vanno / di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia /…», segnalando una crisi che
sembrava irreversibile. I documenti ci parlano per questo periodo di soli «250
fumanti», cioè famiglie indicate simbolicamente dai camini delle case abitate47.
Agli inizi del 1400, stando ai codici vescovili, la città è ridotta ad un piccolo
castrum addossato al Vescovado; per il resto abbiamo un gran numero di spazi
vuoti, di orti e di appezzamenti di terra all’interno dell’area urbana48. È solo in
questo periodo che, molto probabilmente, si iniziano a creare cospicui accumuli
di terreno (forse anche a causa di apporti delle esondazioni fluviali) per lo più
utilizzato con destinazione di coltivo all’interno dell’area urbana.
Solo a partire dalla metà del 1400, come attesta la documentazione dei recenti scavi archeologici di Via Gherardi, in perfetta sintonia con le fonti storiche,
alcune nuove strutture ‘tagliano’ i precedenti accumuli di terreno, in probabile
rapporto con gli interventi di Sigismondo Pandolfo Malatesta: la città, anche
se abitata in maniera molto discontinua e rarefatta, conserva ancora il circuito
murario di età romana che, per la sua potenza, solo ora inizia ad essere smontato
capillarmente (vd. la spogliazione delle mura romane attestata in Via Baroccio)
e solo in parte riutilizzato per apprestare le nuove difese: Sigismondo Pandolfo
Malatesta, infatti, opera una generale risistemazione delle strutture esistenti e
crea, per la prima volta dopo l’età romana, una nuova cinta muraria, molto più
piccola di quella romana e tutta proiettata verso il mare, tra l’Episcopio e la
Rocca49. Con l’arrivo dei Della Rovere, nella metà del 1500, la città assume
di nuovo una dimensione murata, che sarà di nuovo ampliata solo alla metà
del 1700, con l’estensione del perimetro murario verso l’ansa del Misa (come
attestano le fornaci settecentesche rinvenute in Via Baroccio). Solo alla metà
Bonvini Mazzanti 1994, 33-35: per avere un termine di confronto si pensi che nello
stesso periodo Pesaro aveva 2.500 fumanti, mentre quelli di Fano erano 4.500.
48
Villani 2008, in part. 123-170.
49
L’ultima ricostruzione del circuito murario di età malatestiana è in Raggi 2004, 109-134.
47
235
giuseppe lepore
del XVIII secolo, dunque, la città di Senigallia ‘ritorna’ ad occupare gli spazi
che aveva già occupato in età romana, riconquistando ad area abitativa i vecchi
“prati della Maddalena”50 (fig. 6).
Fig. 6. Carta con le diverse cinte murarie di Senigallia (elaborazione Michele Silani).
Una panoramica di queste dinamiche urbanistiche è in Bonvini Mazzanti 1994,
Raggi 2004 e Villani 2008.
50
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la colonia di sena gallica
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Aquileia e l’entroterra venetico e retico: alcune considerazioni
Nell’ambito della generale descrizione dei territori alto-adriatici, il geografo
Strabone, vissuto tra la metà del I secolo a.C. e i primi decenni del I secolo d.C.,
ricorda in alcuni noti passi che l’antico centro di Aquileia ricopriva un importante ruolo emporico, trovandosi al punto d’incontro e diramazione di differenti reti di collegamento formate da vie d’acqua e di terra. Unita al mare da un
fiume navigabile, il Natisone, la colonia latina svolgeva la funzione di luogo di
mercato e di scambio tra l’Adriatico e le regioni dell’Illirico per merci e prodotti
di varia natura, tra cui beni condotti via mare, come vino e olio, e altri provenienti dai territori transalpini, come schiavi, bestiame e pelli1. Strabone altrove
descrive con maggiore dettaglio il percorso commerciale e la via che attraverso il
massiccio dell’Ocra (od. Nanos) portava al centro di Nauportus (Vhrnica), sulle
rive del fiume omonimo (Ljubljanica), vero e proprio punto di accesso al bacino
idrografico danubiano, caratterizzato dalla navigabilità del grande fiume e dei
suoi affluenti. A Nauportus, infatti, le merci potevano essere caricate su imbarcazioni che sfruttavano il corso del fiume discendendolo fino alla confluenza nella
Sava, lungo la quale proseguivano verso il Danubio2.
La colonia latina costituiva, inoltre, l’estrema entità nord-orientale di un
sistema di insediamenti e di una rete di comunicazioni litoranee, fluviali ed
endolagunari che aveva origine a Ravenna e si estendeva lungo la frangia lagunare e costiera alto-adriatica, coinvolgendo i centri venetici di Patavium, Altinum,
Opitergium (Oderzo), Concordia, Atria (Adria), Vicetia e altri ancora. Caratterizzati da connotati ambientali comuni, questi insediamenti erano collegati al
Strab. V 1, 8, C 214.
Strab. IV 6, 10, C 207; la descrizione è ripresa più ampiamente dallo stesso Strabone nel
VII libro (VII 5, 2, C 313-314).
1
2
243
stefano magnani
mare da brevi corsi d’acqua che non solo favorivano la loro funzione emporica
ma anche apportavano il ricambio d’acqua necessario a garantire la straordinaria salubrità dei luoghi nonostante la vicinanza delle paludi3. L’inserimento di
tali località in un contesto di paludi e lagune, reso tuttavia salubre dai sistemi
naturali e artificiali che favorivano il processo di flusso e riflusso delle acque, era
stato messo in evidenza pochi anni prima anche da Vitruvio, che aveva indicato
Ravenna, Altino e Aquileia quali exempla di impianti urbani sorti in tali realtà
ambientali apparentemente ostili4. Entrambi gli autori in tal modo miravano ad
esaltare le capacità di intervento dei Romani e del nuovo regime augusteo, in
grado di sottomettere le avverse forze della natura attraverso l’abilità organizzativa e le competenze tecniche5.
Nella visione del geografo, in sostanza, la posizione di Aquileia nell’interfaccia tra acqua e terra travalicava la dimensione locale dell’ambito perilagunare
per acquisire un ruolo centrale nelle relazioni tra le regioni adriatiche, quelle
alpine e i territori transalpini, tra lo spazio mediterraneo e quello continentale,
sia dal punto di vista delle comunicazioni sia da quello, strettamente dipendente, dello sviluppo commerciale.
Scrivendo in epoca tardo-augustea e tiberiana, per la descrizione di Aquileia e
dei territori alto-adriatici Strabone sembra avere utilizzato informazioni recenti,
forse risalenti alla riorganizzazione augustea dell’Italia e all’opera di Agrippa6,
e altre desunte da fonti precedenti, in particolare Polibio e Posidonio, più volte
menzionati nello stesso contesto7, senza operare una netta e soprattutto chiara
distinzione. Risulta pertanto difficile ricondurre molti dei dati e delle notizie da
lui forniti a una precisa fonte e a un determinato contesto cronologico, permanendo il dubbio che le realtà descritte siano, almeno parzialmente, più antiche
di almeno un secolo rispetto alla stesura dell’opera.
Strab. V 1, 7-8, C 213-214.
Vitr. I 4, 11.
5
Cf. Magnani 2003, 72-74.
6
Si veda Lasserre 1967, 21-24; cf. inoltre Vedaldi Iasbez 2007, 51. Sull’organizzazione augustea si rimanda a Nicolet 1989, 227-248.
7
Entrambi sono ricordati, ad esempio, in occasione della descrizione del Timavo (Strab. V
1, 8, C 214-215). Si può pensare, con le dovute cautele, che per quanto riguarda la Cisalpina
orientale le informazioni fornite da Strabone nei libri IV e VII siano almeno in parte più recenti rispetto alle realtà descritte nel V libro; cf. in tal senso, Bandelli 2009a, 104.
3
4
244
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
Forse perché interessati soprattutto a segnalare il ruolo di polo commerciale nei confronti delle regioni transalpine, Strabone e le sue fonti non pongono
particolare attenzione all’esistenza di rapporti commerciali con le altre regioni dell’Italia settentrionale che pure la documentazione archeologica e quella
epigrafica mostrano ben consolidati e organizzati per il tramite delle grandi
arterie costituite dalla via Annia e dalla via Postumia, realizzate già nei decenni immediatamente successivi alla fondazione della colonia, ricalcando piste e
percorsi precedenti. Fin dai primi tempi della sua esistenza, infatti, nel centro
alto-adriatico si riscontra la presenza di individui di origine cisalpina, in particolare venetica, che probabilmente parteciparono al processo di fondazione della
colonia o che comunque si integrarono rapidamente al suo interno8. Anche al
livello della cultura materiale, la documentazione archeologica risulta sufficientemente eloquente. In particolare, la distribuzione della ceramica grigia, caratteristica del mondo venetico ma ampiamente attestata negli insediamenti e lungo
gli assi viari del territorio aquileiese, sembra documentare una presenza variegata che si accompagnò al processo di organizzazione e gestione del territorio
da parte della colonia nel suo primo secolo di esistenza e, più in generale, al
fenomeno della romanizzazione dello spazio compreso tra l’Adriatico e le Alpi9.
Si rimanda a Chiabà 2003, in part. 91-97, e a Chiabà 2009.
Un quadro di sintesi per quanto riguarda la presenza di ceramica grigia nei siti friulani è fornito da alcuni recenti saggi: Cassani - Cipriano - Donat - Merlatti 2007, in
part. 262-273; Donat 2009, 117-119; Cassani - Donat - Merlatti 2009. A proposito
dei rinvenimenti relativi alle primissime fasi dell’insediamento aquileiese, si veda Scotti Mandruzzato - Tiussi 2009, in part. 264-271. Importante è il confronto con i dati emersi
in seguito alle indagini condotte a Sevegliano, ove in prossimità del percorso della via Postumia,
coincidente con il cardine massimo della centuriazione, sorgeva un insediamento caratterizzato dalla presenza di un luogo di culto probabilmente dedicato a Ercole e legato al fenomeno
della transumanza (Buora 2009; Buora 2000; si vedano anche i diversi contributi raccolti
in Sevegliano romana 2008). Dall’area proviene, tra l’altro, una coppa in ceramica grigia con
iscrizione venetica (su cui Buora - Marinetti 1991, 211-213; Prenc 2002, 260-261). Per
una panoramica delle presenze epigrafiche venetiche in Friuli, si rimanda a Crevatin 2001,
Crevatin 2003 e Crevatin - Righi - Vitri 2012. Senza entrare nel merito della delicata
questione riguardante l’utilizzo della moderna categoria di ‘romanizzazione’, si rimanda, per
quanto concerne la Cisalpina orientale, alle considerazioni formulate da Bandelli 2009b. Cf.
anche Galsterer 2009.
8
9
245
stefano magnani
Una recente indagine10, condotta su materiali conservati presso il Museo
Archeologico Nazionale di Aquileia e rinvenuti nel corso degli scavi condotti da Luisa Bertacchi in occasione della realizzazione delle moderne fognature
di Aquileia, tra il 1968 e il 1972, ha consentito di portare alla luce un piccolo oggetto che nella sua semplicità può fornire tuttavia informazioni utili a
comprendere la natura di alcuni dei rapporti intercorsi tra gli ambiti venetico e
retico e il territorio aquileiese. Si tratta di un frammento di bicchiere carenato
in ceramica grigia chiara che reca sul fondo esterno, attorno all’anello del piede,
un testo graffito dopo la cottura e inciso apparentemente con andamento orario
e scrittura destrorsa (figg. 1-2). L’alfabeto utilizzato non è latino ma sembra
riconducibile all’ambito retico meridionale e, in particolare, alla variante ben
documentata nelle iscrizioni di Magrè. Il testo, di cui si è proposta la lettura
si tiuvas o sitiuvas, potrebbe corrispondere a un’indicazione di possesso, recante
il nome del proprietario dell’oggetto stesso11.
Fig. 1. Disegno del bicchiere
carenato in ceramica grigia
rinvenuto ad Aquileia (MAN
82.619).
I primi risultati della ricerca, presentati in occasione di un incontro di studio svoltosi ad
Aquileia, sono ora raccolti in Ceramica 2011.
11
Per ulteriori dettagli si rimanda a Magnani 2011, 147-148.
10
246
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
Fig. 2. Riproduzione del graffito sul piede del bicchiere.
Il bicchiere proviene da un ampliamento degli scavi effettuati in prossimità
di Piazza Monastero, nel settore nordorientale della città, all’esterno del circuito murario di epoca imperiale12, e si trovava in associazione casuale con altri
frammenti variamente databili tra il I secolo a.C. e l’inizio del II secolo d.C.13.
Presumibilmente tutto il materiale fu oggetto di rimaneggiamento già in epoca
antica, così che non è possibile ricavarne alcuna indicazione precisa per quanto
riguarda la collocazione originaria e l’ambito cronologico.
Più interessanti appaiono i possibili confronti relativi alla tipologia dell’oggetto e al graffito su di esso inciso. Ad Aquileia è nota la presenza di un bicchiere
simile, proveniente anch’esso da un contesto scarsamente indicativo, essendo
stato recuperato durante lo spurgo di un fosso che scaricava l’acqua del foro
verso la zona del porto fluviale14. Apparentemente, questo esemplare sembrerebbe privo di iscrizione, ma occorre notare che, almeno sulla base della descrizione
fornita, appariva danneggiato nella parte inferiore, così che non si può del tutto
MAN Aquileia, Registro di inventario, nr. 82.619. Il settore in questione, in corrispondenza di un antico tratto viario, sembra essere riportato sulla carta di Aquileia elaborata da
Luisa Bertacchi (Bertacchi 2003, tav. 12).
13
MAN Aquileia, Registro di inventario, nnr. 82.600-82.635.
14
Guida 1961-62, 18, 20, fig. 23.
12
247
stefano magnani
escludere che anch’esso in origine recasse qualche segno graffito. Inizialmente ritenuto una singolare imitazione della ceramica campana a vernice nera15,
questo secondo bicchiere è stato inquadrato in seguito come una forma tipica della ceramica grigia di produzione venetica16. Purtroppo, in assenza di un
numero d’inventario e delle indicazioni riguardanti la sua collocazione, non è
stato possibile effettuare un riscontro autoptico.
La ceramica grigia, sviluppata a partire da modelli etrusco-padani, ebbe
grande successo nel territorio venetico a partire già dalla fine del V secolo a.C.,
perdurando fino alla prima metà del I secolo d.C. con una diffusione ampia e
capillare, una grande variabilità tipologica e con lo sviluppo di differenti centri
di produzione locale, tra cui Padova e Altino, meglio documentati archeologicamente, e probabilmente Este, Vicenza e Adria17. Nelle regioni nord-orientali, corrispondenti all’attuale Friuli, tale tipologia ceramica si diffuse solo in
una fase relativamente tarda, a partire dal II secolo a.C., successivamente alla
fondazione di Aquileia, seguendo inizialmente le principali direttrici costituite
dagli antichi percorsi protostorici e dalle prime importanti arterie romane, le
vie Annia e Postumia. La si trova, infatti, nei centri di precoce presenza romana,
tra i quali in primo luogo Aquileia stessa, e la sua diffusione sembra essere divenuta capillare accompagnando il processo di romanizzazione del territorio18.
Le forme utilizzate appaiono molto standardizzate, riducendosi sostanzialmente a coppe con fondo decorato a stampo, coppe-mortaio e olle, mentre sono
praticamente assenti altre forme, tra le quali i bicchieri19. Nel caso specifico,
entrambi gli esemplari ritrovati ad Aquileia sembrano appartenere alla produzione di bicchieri carenati ascrivibili al tipo XVII della classificazione proposta
da Mariolina Gamba e Angela Ruta Serafini20, al cui interno andrebbero distinti
due sottotipi, l’uno caratterizzato da corpo allungato (a) e l’altro da corpo tozzo
Sulla base delle indicazioni fornite da Guida 1961-62, infatti, fu elaborata la forma 7422
Morel per la ceramica a vernice nera (cf. Morel 19942, 409).
16
Leonardi - Ruta Serafini 1981, 48; Fogolari 1981, 46.
17
Si rimanda alle indicazioni fornite da Gamba - Ruta Serafini 1984, 71, 74 e 76-78,
con carta della diffusione e dei centri produttivi. Cf. inoltre Mattioli 2011, in part. 125-127;
Cassani - Cipriano - Donat - Merlatti 2007, 254-261.
18
Si rimanda alla bibliografia indicata supra n. 9.
19
Donat 2009, 116-117, che però riferisce il bicchiere edito da Paola Guida alla serie
Morel 7441.
20
Gamba - Ruta Serafini 1984.
15
248
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
(b)21. Recentemente Giovanna Gambacurta ha proposto di definire due tipologie diverse all’interno della stessa forma: tipo 125 per il bicchiere carenato di
aspetto tozzo; tipo 126, per il bicchiere carenato di aspetto slanciato22. Il primo
sarebbe leggermente più antico rispetto al secondo, anche se le due tipologie
sembrano essere coesistite per un lungo periodo23.
La frammentarietà in un caso e il mancato riscontro autoptico nell’altro
rendono difficile stabilire con esattezza a quale dei due sottotipi o tipi possano
essere attribuiti i due bicchieri, anche se entrambi sembrerebbero ascrivibili con
maggiore probabilità alla tipologia a corpo allungato24.
I bicchieri carenati in ceramica grigia risultano piuttosto diffusi nel territorio
venetico centro-orientale, dove sono stati spesso rinvenuti non solo nei maggiori
centri (Padova, Vicenza, Este, Adria, Altino) ma anche in numerose altre località25, e sembrano essere tutti attribuibili al IV periodo atestino, cronologicamente inquadrabile tra l’inizio del IV e la fine del II secolo a.C.26. In particolare, il
sito nel quale è stato ritrovato il maggiore numero di esemplari è l’insediamento del Bostel di Rotzo (VI), una realtà periferica rispetto al territorio venetico, in un’area che presenta forti elementi di commistione e osmosi culturale tra
questo e il mondo retico. Posto a circa 900 metri di quota, ai margini occidentali
dell’Altopiano di Asiago, il luogo è noto dalla fine del Settecento per i ripetuti
rinvenimenti ed è stato oggetto di alcune campagne di scavo che hanno messo in
luce una parte degli edifici dell’antico abitato. Preceduto da più antiche fasi di
frequentazione, l’insediamento appare inquadrabile, dal punto di vista cronologico, approssimativamente tra V e II secolo a.C.27.
Leonardi - Ruta Serafini 1981, 48; Gamba - Ruta Serafini 1984, 54.
Gambacurta 2007, 89-90.
23
Gambacurta 2007, 125.
24
Secondo Leonardi - Ruta Serafini 1981, 48, il bicchiere descritto da Paola Guida
sembrerebbe ascrivibile alla tipologia con forma tozza, ma in Gamba - Ruta Serafini 1984,
56, fig. 13, viene indicato come forma allungata.
25
Si veda la figura 3, con la carta di distribuzione di questi manufatti, rielaborazione di
quella fornita in Leonardi - Ruta Serafini 1981, 49, fig. 47, successivamente aggiornata in
Gamba - Ruta Serafini 1984, 56, fig. 13.
26
Per alcuni recenti sviluppi nella definizione della cronologia del IV periodo, si rimanda a
Bondini 2010 e Bondini 2012.
27
Per un quadro sintetico degli scavi condotti nel 1912, nel 1969 e, più recentemente, tra il
2003 e il 2010, si rimanda a Pellegrini 1915-16, Leonardi - Ruta Serafini 1981, Ruta
Serafini 1984, 771-772, e ai saggi compresi in Bostel di Rotzo 2011, 168-183.
21
22
249
stefano magnani
Tra gli oggetti rinvenuti al Bostel di Rotzo spiccano i numerosi bicchieri
carenati in ceramica grigia, integri o frammentari, molti dei quali recano segni
graffiti, posti in genere sul piede o sulla parete. Oltre ad almeno un bicchiere noto già dall’Ottocento28, dieci esemplari frammentari tutti recanti lettere
o segni incisi furono rinvenuti nel corso degli scavi condotti nel 191229. Altri
sedici bicchieri, di cui alcuni integri, furono portati alla luce durante la campagna di scavo condotta nel 196930. Infine, sei bicchieri, tutti con lettere o segni
graffiti, provengono dagli scavi condotti tra il 2003 e il 201031. La presenza di
segni e lettere sembra costituire una caratteristica peculiare dei bicchieri carenati
rinvenuti a Rotzo. Nel complesso, infatti, degli oltre trenta bicchieri trovati al
Bostel, sia pure anche in condizioni di estrema frammentarietà, solo tre non
sembrano recare tracce di incisioni, ma è possibile che questo dipenda proprio
dal loro stato frammentario e che eventuali graffiti fossero incisi nelle porzioni
mancanti.
Altrove, invece, almeno in base alla ricognizione dell’edito, il rapporto si
rovescia completamente e solo due dei bicchieri carenati noti e pubblicati recano un graffito. Si tratta di un esemplare frammentario rinvenuto a Padova, che
presenta un paio di simboli o pseudolettere a forma di stella a quattro e cinque
punte32, e di un bicchiere recuperato a Este, che reca un graffito anch’esso vagamente a forma di stella33. Non risultano invece apparentemente iscritti gli altri
bicchieri trovati in diverse località del Veneto34.
La scrittura utilizzata nei graffiti sui bicchieri di Rotzo presenta caratteri
comuni alle iscrizioni retiche diffuse nel Veneto settentrionale e, in particolare, è possibile rilevare stringenti confronti grafici e onomastici con le iscrizioni
di Magrè35, il sito meglio noto e documentato36. Nei casi nei quali le iscrizioni
Si veda Fiorelli 1881, 154-155.
Pellegrini 1915-16, in part. 120-123; cf. Mancini 2010, 264-268, nnr. ROT 4-14.
30
Leonardi - Ruta Serafini 1981, 34-36 e 67-68.
31
Migliavacca - Padovan - Ferrari 2011, 177-178; Marinetti 2011.
32
Maioli 1976, 93 e tav. 11, nr. 157.
33
Capuis - Chieco Bianchi, 2006, 265 e tav. 140, 3.
34
Elenchi dei rinvenimenti, sia pure parziali, sono forniti da Leonardi - Ruta Serafini 1981, 49; Gamba - Ruta Serafini 1984, 54 n. 105; Gambacurta 2007, 89-90 e 125;
Bondini 2007-08, 190, 193-195, 230, 247, 257, 270 e 296.
35
Si veda Marinetti 2011, 201.
36
Dal nome della località, Magrè (Vicenza), che ha fornito una prima e ricca documentazione; cf. Pellegrini 1918, sui primi scavi e il rinvenimento di una stipe votiva con numero28
29
250
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
sui bicchieri rinvenuti al Bostel di Rotzo risultano complete e più chiaramente
leggibili sembra possibile interpretarle come attestazioni di possesso indicanti il
nome del proprietario dell’oggetto37. In alcuni bicchieri, inoltre, sono riscontrabili evidenti tracce di riparazioni, in seguito alla rottura parziale dei manufatti.
Tre di essi presentano, infatti, dei fori regolari riconoscibili come risultato di un
intervento di restauro antico, mentre uno risulta segato e riadattato per essere
utilizzato, evidentemente in seguito alla rottura del bordo38. Se ne può dedurre
che tali recipienti fossero ritenuti di particolare pregio e valore, tanto da essere
riparati accuratamente e conservati anche dopo avere subito dei danni.
Le più recenti indagini condotte al Bostel di Rotzo hanno condotto inoltre
al rinvenimento di un laboratorio dotato di forni per la cottura della ceramica, presso uno dei quali sono stati trovati alcuni dei bicchieri carenati. In base
alla loro posizione, si è supposto che facessero parte dell’ultima produzione
realizzata prima dell’abbandono dell’impianto39, genericamente datato alla fase
dell’«avanzata romana»40. Sembra, dunque, che i bicchieri di Rotzo non fossero esclusivamente oggetto d’importazione dall’area veneta, come si era precedentemente sostenuto41, ma al contrario costituissero delle produzioni locali42.
È questo un dato di estremo interesse, la cui importanza va valutata considerando che la presenza del graffito sull’esemplare proveniente dagli scavi delle
moderne fognature di Aquileia, con caratteri del tutto simili a quelli dei reperti
di Rotzo, è apparentemente un unicum al di fuori del ristretto ambito del Bostel.
Inoltre, si deve riflettere sul fatto che i due esemplari rinvenuti nel centro altoadriatico parrebbero costituire, almeno al momento, le attestazioni più orientali
della diffusione dei bicchieri carenati in ceramica grigia. Si tratta di una duplisi frammenti di corna di cervo recanti iscrizioni. Per una recente messa a punto si rimanda a
Lora - Ruta Serafini 1992. Cf. Marinetti 2002, 188-192, e Mancini 2010, 223-261,
per quanto concerne, nello specifico, la documentazione epigrafica.
37
Marinetti 2011, 201-203.
38
Leonardi - Ruta Serafini 1981, 36; 19, fig. 16, nr. 13; 35, fig. 32, nrr. 145 e 146;
Migliavacca - Padovan - Ferrari 2011, 178 e 177, fig. 10, nr. 5.
39
Si rimanda a Bressan 2011.
40
Bressan - Ferrari 2011, 174. I materiali rinvenuti nel corso degli scavi più recenti indicano che gli edifici indagati furono utilizzati per un periodo che può essere compreso approssimativamente tra la fine del IV e il II secolo (Migliavacca - Padovan - Ferrari 2011),
confermando l’inquadramento generale ipotizzato da Leonardi - Ruta Serafini 1981, 66.
41
Pellegrini 1915-16, 119; Leonardi - Ruta Serafini 1981, 48.
42
Migliavacca - Padovan - Ferrari 2011, 178.
251
stefano magnani
ce occorrenza che non sembra casuale. Se la scoperta di un singolo bicchiere
carenato ad Aquileia non poteva che confermare l’esistenza di legami fecondi
col mondo venetico e la presenza stessa di individui di origine venetica nella
colonia latina, il ritrovamento di un secondo bicchiere recante un’iscrizione che
ha come unico termine di confronto i rinvenimenti del sito del Bostel di Rotzo
induce a formulare alcune ulteriori considerazioni.
La peculiarità degli oggetti e il significato di indicatore di possesso attribuibile al graffito consentono di supporre che gli individui che ne furono proprietari − e che, evidentemente, si trovavano più o meno stabilmente ad Aquileia
− intrattenessero delle relazioni molto strette con gli abitanti dell’antico insediamento del Bostel di Rotzo o che, eventualmente, provenissero essi stessi da
quella località. Sia pure a livello preliminare e ipotetico, si può inoltre tentare di
comprendere quali potessero essere i motivi di queste presenze e la natura degli
eventuali rapporti tra due realtà apparentemente distanti spazialmente e culturalmente, quali appunto l’antico insediamento del Bostel e la colonia latina di
Aquileia.
L’areale di diffusione dei bicchieri carenati, ricostruibile sulla base della documentazione edita, copre un vasto ambito territoriale che si estende dal Veneto
occidentale (S. Maria di Zevio-VR), all’area prealpina (Rotzo), all’arco altoadriatico (Adria-Altino-Aquileia) (fig. 3), al cui interno si possono evidenziare
alcuni assi gravitazionali preferenziali. Il primo di questi è senz’altro rappresentato dalla fascia di insediamenti pedemontani, collinari e prealpini che va da S.
Maria di Zevio, il sito più occidentale, al Bostel di Rotzo, il sito più settentrionale, passando per Colognola ai Colli e Montebello Vicentino, con attestazioni orientali fino a Montebelluna e a Oderzo. Un secondo asse, che si innesta
direttamente al centro di questa fascia, coincide con la via fluviale costituita dai
corsi dell’Astico e del Bacchiglione, con le maggiori concentrazioni presenti tra
Vicenza e Padova, mentre più isolati appaiono l’area di Este e, verso l’Adriatico,
i centri di Adria e Altino. Sembra pertanto che i rinvenimenti dei bicchieri si
distribuiscano secondo precise direttrici coincidenti con piste e percorsi antichi che attraversavano la pianura veneta seguendo l’andamento di alcuni corsi
d’acqua per poi ramificarsi tra le vallate prealpine, collegando queste ultime ai
principali centri venetici della pianura interna e a quelli costieri. Questi ultimi parrebbero costituire a tutti gli effetti i terminali di tale sistema. Si trattava
evidentemente di un complesso organico dal punto di vista geografico, ben delimitato e fortemente connotato sul piano culturale, tra i cui caratteri e funzioni
doveva esservi anche quello di collegare realtà economiche differenti, secondo
252
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
Fig. 3. Carta di distribuzione dei bicchieri carenati in ceramica grigia; il simbolo quadrato
identifica i bicchieri a corpo allungato, mentre il simbolo circolare identifica i bicchieri a
corpo tozzo:
1) Bostel di Rotzo; 2) Santorso; 3) Magrè; 4) Vicenza; 5) Isola Vicentina; 6) Costabissara;
7) Trissino; 8) Montebello Vicentino; 9) Colognola ai Colli; 10) S. Maria di Zevio; 11)
Padova Bacchiglione; 12) Padova; 13) Padova Roncaiette; 14) Arquà Petrarca; 15) Este;
16) Carceri d’Este; 17) Adria; 18) Altino; 19) Castello di Godego; 20) Montebelluna; 21)
Treviso; 22) Oderzo; 23) Aquileia.
Fonti: Gamba - Ruta Serafini 1984, 52-55 e 56, fig. 13; Gambacurta 2007, 89-90 e
125; Bondini 2007-08, 90, 193, 195, 230, 247, 257, 270 e 296.
una declinazione completa che andava dagli spazi alpini e prealpini, alla fertile
pianura e infine alle aree lagunari costiere.
In particolare e, probabilmente, non a caso, l’area di distribuzione dei
bicchieri carenati in ceramica grigia presenta una sostanziale coincidenza con
quella di irradiazione delle vie armentarie tra le zone prealpine e i centri della
pianura interna e della costa43. In effetti, i rinvenimenti effettuati al Bostel di
Si confronti la carta di distribuzione dei bicchieri carenati con la carta dell’assetto topografico-viario della Venetia centrale in Bonetto 2004, 62, fig. 7.
43
253
stefano magnani
Rotzo hanno dimostrato l’importanza fondamentale dell’allevamento, che a
livello locale doveva costituire una risorsa ineludibile a fianco dello sfruttamento
delle risorse agricole e forestali e delle produzioni artigianali, tra le quali anche
la lavorazione di metalli44. La posizione del sito era particolarmente favorevole
da diversi punti di vista. Dominando la confluenza della Val d’Assa con quella
dell’Astico, che costituisce la via di accesso naturale alla pianura vicentina, l’insediamento si trovava nella situazione ideale per lo sfruttamento e il controllo delle zone di pascolo sull’altipiano di Asiago e delle vie di collegamento tra
questo e gli insediamenti della pianura45.
Tutta la vasta regione caratterizzata dalla distribuzione dei rinvenimenti di
bicchieri carenati a partire dalla metà del II secolo a.C. si trovò ad essere inserita
di fatto all’interno di un più ampio sistema di comunicazioni le cui fondamentali arterie, la via Annia e la via Postumia, sviluppando la preesistente rete di piste
e percorsi, ancoravano concretamente il territorio venetico all’Italia romana46.
La via Postumia, la cui stesura avvenne a partire dal 148 a.C. per volontà del
console Spurio Postumio Albino, attraversava alla lettera tutta l’Italia settentrionale da Genua (Genova) ad Aquileia, mettendo così in collegamento il
Tirreno con l’Adriatico, e costituiva non solo uno strumento di comunicazione
ma anche di appropriazione dello spazio transpadano e della sua conseguente
trasformazione in territorio romano47. Essa collegava, infatti, i centri degli alleati
liguri, Genua e Dertona (Tortona)48, quest’ultima forse contestualmente dedot44
45
Si veda, in proposito, Vidale - Ehrenreich - Micheli 1988, 15-43.
Leonardi - Ruta Serafini 1981, 67-68; Ruta Serafini 1984, 772; Bressan 2011,
171.
L’esistenza di una precedente arteria, la cosiddetta ‘Via Emilia Altinate’, che sarebbe stata
realizzata da Marco Emilio Lepido per collegare Bononia e Aquileia, rimane ancora oggi del
tutto ipotetica (cf. Wieseman 1989; Bonini 2010). La notizia appare chiaramente falsata già
nella fonte (Strab. V 1, 11, C217), che attribuisce ai due consoli del 187 a.C., Caio Flaminio
e Marco Emilio Lepido, la realizzazione della via Flaminia, da Roma ad Ariminum, e della via
Aemilia, di qui fino a Bononia, confondendo il Caio Flaminio che fu censore nel 220 con il
probabile figlio, console appunto nel 187, quando effettivamente Emilio Lepido avviò la realizzazione della via Aemilia.
47
Per quanto riguarda il percorso e le vicende storiche della via Postumia si rimanda ai
numerosi contributi apparsi in Optima via 1998 e in Tesori della Postumia 1998; inoltre: De
Feo 1997; Tozzi 1999; Cera 2000.
48
Che la località da cui prendeva avvio la strada fosse Genua è attestato dal più noto documento epigrafico relativo alla via Postumia, ovvero il cippo miliare di Postumio Albino rinve46
254
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
ta come colonia latina49, le antiche colonie di Placentia (Piacenza) e Cremona,
uno dei principali centri dei Cenomani, Verona, e alcuni dei Veneti, quali Vicetia
e Opitergium, per giungere infine alla remota colonia di Aquileia. Univa dunque
terre ed etnie diverse ponendole sotto il diretto controllo romano, contribuendo al tempo stesso al processo di romanizzazione e al loro graduale amalgama
nella compagine statale romana50.
A Placentia la via Postumia incrociava la via Aemilia, innestandosi in tal
modo sul lungo asse viario, costituito da questa e dalla via Flaminia, che collegava Roma alla pianura del Po attraverso l’importante nodo di Ariminum (Rimini). Questa colonia era a sua volta il punto di partenza di un percorso litoraneo,
formato dall’intersezione della via Popillia e della via Annia, che conduceva fino
ad Aquileia.
nuto forse nelle vicinanze di Verona e conservato presso il Museo Maffeiano di Verona. Oltre
a menzionare il nome del console che presiedette alla realizzazione della via, il miliare conserva la distanza dal caput viae a Cremona e un’ulteriore indicazione, probabilmente riferibile
alla distanza tra quest’ultimo centro e il luogo nel quale il miliare stesso era originariamente
posizionato (CIL, I2 624 = CIL, V 8045 = ILLRP 452): S(purius) Postumius S(purii) f(ilius)
S(purii) n(epos) / Albinus co(n)s(ul) / C[X]XỊỊ Genua Cr[e]m
. ọ[nam] / XXVII // VIII. Per
alcune considerazioni a favore di una collocazione originaria presso Redondesco, in coincidenza del bivio con la via che portava a Mantova, si rimanda a Calzolari 1992 e Calzolari
1998, 150-155. Cf. Basso 1986, 20-21, nr. 3; De Feo 1997, 80.
49
A proposito della datazione e della condizione giuridica della colonia di Dertona, di cui
già dubitava Velleio Patercolo (II 16, 5: de Dertona ambigitur), e per una disamina di alcune
differenti ipotesi moderne, si rimanda a Torelli 1998, 23-24, che propone di datare la deduzione della colonia, ritenuta di tipo latino, in stretta connessione con la realizzazione della via
Postumia, inquadrandola dunque nel progetto condotto da Spurio Postumio Albino. L’attività
di quest’ultimo andrebbe dunque vista e rivalutata in una dimensione assai più ampia, quale
per altro è deducibile semplicemente dalla considerazione della lunghezza dell’itinerario e della
valenza politica che esso rivestiva nei rapporti tra Roma e le popolazioni cisalpine.
50
Sull’importante funzione della via Postumia nell’ambito del processo di integrazione
della Cisalpina si rimanda in particolare a Bandelli 1998, Torelli 1998 e Tozzi 1999,
20-23. Per un quadro generale della viabilità in relazione al processo di urbanizzazione della
Cisalpina si veda Bandelli 2007.
255
stefano magnani
La via Popillia, realizzata presumibilmente nel 132 a.C. dal console Publio
Popillio Lenate51, congiungeva Ariminum ad Atria e Altinum52. Il suo percorso
era proseguito fino ad Aquileia dalla via Annia53, la cui stesura è attribuibile
all’iniziativa di Tito Annio Lusco, console nel 153 a.C.54, o, in alternativa, di
Tito Annio Rufo, console nel 128 a.C.55. Le due vie in alcuni tratti compresi
tra il ramo meridionale del Po e Altinum erano parzialmente parallele − forse la
Popillia con un percorso paralitoraneo e l’Annia con un itinerario più interno −
se non addirittura coincidenti in alcuni luoghi (Atria e Altinum)56, e formavano
La testimonianza viene ancora una volta da un miliare, rinvenuto alla periferia meridionale di Adria e attualmente conservato presso il locale Museo (CIL, V 8007 = CIL, I2 637 =
ILLRP 453): P(ublius) Popillius C(aii) f(ilius) / co(n)s(ul) / LXXXI.
52
Cf. Uggeri, 1978, 53-56; Basso 1986, 156-160, nr. 69; Bosio 1991, 58-67; Maccagnani 1994, 69-105; Bottazzi 2000, 81-83; Lachin - Rosada 2011, 61-66.
53
Alcuni monumenti di età imperiale documentano il riassetto della via in prossimità di
Aquileia (CIL, V 7992 = IncrAq 2894a = AEp 2007, 264; CIL, V 7992a = InscrAq 2894b) o
interventi che presuppongono l’arrivo della via fino al centro urbano (InscrAq 2892a-b = AEp
1979, 256-257 = AEp 1990, 384 = AEp 2000, 604; CIL, V 1008a, per la cui provenienza da
Aquileia si rimanda a Gregorutti 1886, 171; cf. Magnani 2007a, 176).
54
Da identificare con uno dei membri del collegio triumvirale incaricato dal Senato romano del supplementum di coloni ad Aquileia nel 169 a.C. (Liv. XLIII 17, 1). Le attività da lui
svolte nella colonia sono note grazie a un’iscrizione rinvenuta nel foro di Aquileia, ma non vi
è menzione dell’eventuale realizzazione della via (Zaccaria 1996 = AEp 1996, 685 = AEp
2003, 678). Si veda ora il contributo di Claudio Zaccaria in questo volume.
55
La questione dell’attribuzione della paternità della via è discussa da tempo (si rimanda
in particolare a Wiseman 1989 e Rosada 2010). Il recente rinvenimento di un miliare presso Codigoro ha rinnovato il dibattito, moltiplicando i dubbi e i problemi relativi non solo al
promotore e al momento della realizzazione ma anche al percorso seguito e, in particolare, al
caput viae. Il miliare è costituito da un fusto cilindrico alto 89 cm, con diametro superiore di
42,5, e reca sul piano superiore un’iscrizione il cui testo è stato edito da Donati 2009, 73-75
= AEp 2009, 393: CCL[---] / T(itus) Annius T(iti) f(ilius) / co(n)s(ul). Il numero delle miglia,
corretto in un secondo tempo, sembra da riferire alla distanza del luogo da Roma (così Donati
2009, 80-81, ma si veda la discussione di altre ipotesi in Rosada 2010, 137-138). La forma
corrisponde a un modello che trova un confronto preciso e stringente con un analogo cippo
rinvenuto nel 1953 a S. Onofrio, presso Vibo Valentia, sul cui piano superiore è inciso un testo
ascrivibile probabilmente allo stesso personaggio ma a una fase precedente della sua carriera,
allorché ricopriva la pretura; CIL, I2 2936 = ILLRP 454a= AEp 1955, 191 = AEp 1956, 148 =
AEp 1963, 131c: CCLX / T(itus) Annius T(iti) f(ilius) / pr(aetor).
56
Oltre ai testi citati alla nota precedente, per una recente messa a punto delle principali
questioni si rimanda ai saggi contenuti nel volume …viam Anniam 2010.
51
256
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
nel complesso un asse perilagunare che convergeva in Aquileia con la via Postumia, la quale attraversava invece la media e alta pianura.
L’insieme di queste strade dava vita, dunque, a un articolato sistema viario
che comprendeva e univa l’intera Cisalpina e che, collegato a Roma tramite
la via Flaminia, era destinato a costituire la struttura portante dei processi di
organizzazione del territorio, di sviluppo dell’urbanizzazione e, in generale,
del fenomeno di romanizzazione delle realtà provinciali. Nel caso specifico, a
partire dalla metà del II secolo a.C., attraverso la realizzazione delle vie Annia e
Postumia, la colonia di Aquileia, unica fondazione coloniaria a nord del Po, se
si esclude la più occidentale Cremona, veniva a costituire per i centri e le popolazioni del Veneto il naturale referente verso il quale erano programmaticamente indirizzati e agevolati i contatti e i rapporti di natura economica, politicoamministrativa e culturale.
In questo contesto rientravano presumibilmente anche le relazioni tra la
colonia latina e gli ambiti venetico settentrionale e retico alle quali rimanda la
presenza ad Aquileia dei bicchieri carenati in ceramica grigia. In particolare, si
può individuare la via preferenziale per questi collegamenti nella lunga arteria
costituita dalla Postumia. Nei tratti compresi tra Verona, Vicetia e Opitergium,
attorno ad essa e, certamente, ai percorsi protostorici che l’avevano preceduta, sono distribuiti non a caso gli insediamenti caratterizzati dalla presenza dei
bicchieri in ceramica grigia (S. Maria di Zevio, Colognola ai Colli, Montebello
Vicentino, Trissino, Costabissara, Vicenza, Isola Vicentina, Castello di Godego, Montebelluna e Oderzo). Transitando per Vicetia essa doveva fungere da
elemento di raccordo tra i diversi assi di percorrenza trasversali che collegavano
la fascia prealpina − dunque anche gli insediamenti d’altura come quello del
Bostel di Rotzo − alla pianura e alla costa adriatica e che la via intercettava. In
tal modo, essa rivestiva un ruolo di cerniera tra differenti ambiti territoriali e
culturali che trova altri paralleli nel suo percorso.
A questo proposito, va ricordato che per quanto riguarda il tratto terminale
da Opitergium ad Aquileia mancano evidenze e prove inconfutabili che consentano di individuare e ricostruire l’itinerario della via Postumia. Che questa arrivasse ad Aquileia fu assodato solo a partire dalla metà dell’Ottocento, allorché
fu rinvenuto nell’antico centro un cippo inscritto nel quale era menzionata la
realizzazione di un raccordo tra la via Postumia e il foro pecuario della città57.
CIL, V 8313 = CIL, I2 2197 = ILLRP 487a = Imagines 208 = InscrAq 53. Cf. Magnani
2007a, 172-173.
57
257
stefano magnani
Fino a quel momento si era ritenuto che la strada giungesse a Oderzo e il suo
prolungamento in territorio friulano era stato solo vagamente intuito58. In epoca
recente, sulla base della raccolta e del confronto di dati toponomastici e topografici, dell’interpretazione dell’unica testimonianza epigrafica e di considerazioni di natura storico-geografica, sono state formulate alcune ipotesi che attribuiscono alla strada alternativamente percorsi di alta, media o bassa pianura.
Nel primo caso, si è proposto un percorso settentrionale, da Oderzo ad Aquileia,
ricalcato ancora da alcune vie moderne, quali la ‘Maestra vecchia’ e la ‘Stradalta’,
attraverso Fontanafredda, Cordenons, Valvasone, Codroipo e Sevegliano59. In
alternativa, si è voluto individuare per la Postumia un percorso più meridionale, che da Oderzo sarebbe andato ad Aquileia passando per Annone Veneto e
Concordia e il cui tratto finale sarebbe coinciso con quello della via Annia60. Una
terza ipotesi ha identificato l’antico tracciato con un percorso ormai in disuso,
tra Pasiano e Orcenigo, e con la ‘Stradalta’ da Codroipo a Sevegliano, da dove
avrebbe raggiunto Aquileia innestandosi sul cardine massimo della centuriazione della colonia61.
Quest’ultima ricostruzione presenta elementi degni di interesse, anche se
non dirimenti. Innanzitutto, non vi sono dubbi sulla corrispondenza di questi
due segmenti viari con antichi percorsi romani che sono stati indagati archeologicamente in alcuni punti e che risultano individuabili tramite le fotografie
aeree62. In secondo luogo, l’andamento complessivo a grandi rettifili, raccordati tra loro anche tramite angoli accentuati, rientra pienamente nella tipologia
itineraria che caratterizza la via Postumia nella sua interezza. Altrettanto può
dirsi dell’originaria conformazione dei due segmenti, costituiti da ampi terrapieni rilevati, di cui rimane traccia nella toponomastica attuale non solo per la
‘Stradalta’ vera e propria ma anche per il percorso occidentale, che nelle carte
Filiasi 1796, II, 256.
Fraccaro 1957, 219-227.
60
Bosio 1964-65, 314-318; Bosio 1991, 53-57. Cf. Rosada 1998; Rosada 1999a;
Rosada 1999b.
61
Tagliaferri 1986, I, 169-181.
62
Per un saggio condotto sul tratto occidentale, presso Casarsa, si rimanda al recente scavo
condotto dalla Soprintendenza presso Casarsa (Ventura - Spanghero 2006). Tracce di
questi antichi percorsi risultano evidenti nelle fotografie aeree realizzate negli ultimi decenni
dal Servizio Cartografico della Regione Friuli Venezia e rese ora disponibili sul sito internet
(http://irdat.regione.fvg.it/WebGIS/), oltre che su Google Earth. Alcune immagini aeree
furono pubblicate già da Tagliaferri 1986, 176-179.
58
59
258
aQuileia e l’entroterra venetico e retico
seicentesche reca il nome di Levadda sive Strad-alta63. Quest’ultimo tratto, inoltre, appare pienamente integrato nel reticolo della centuriazione concordiese,
tanto da essere stato individuato come decumano massimo di tale pianificazione, nonostante la marginalità rispetto al centro abitato64. È possibile, in questo
caso, che l’asse viario fosse preesistente rispetto all’assetto agrario, di cui avrebbe
influenzato l’ordinamento. Inoltre, a occidente del Tagliamento alcuni toponimi attestati in epoca medioevale sembrano conservare il ricordo della presenza
nel territorio di una via denominata Postumia65. Su un piano generale, va infine
osservato che, eccettuati i due terminali, per così dire marittimi, ovvero Genua
e Aquileia, il percorso della via Postumia si dipanava completamente all’interno
della Pianura padana, andando persino a lambire le fasce marginali pedemontane. Appare dunque più logico ritenere che anche nella pianura friulana l’andamento fosse analogo, interno e non costiero o perilagunare qual era quello
ricalcato dalla via Annia.
In questo senso, la via Postumia ‘intermedia’ si porrebbe in pieno rapporto di
continuità rispetto al percorso più occidentale. Analogamente a quanto rilevabile in Veneto, nella media e alta pianura friulana essa potrebbe avere svolto la
medesima funzione di raccordo non solo tra i percorsi che collegavano la fascia
prealpina e quella alpina alla costa alto-adriatica ma anche tra forme differenti
di sfruttamento territoriale. Qualora si identifichi la sezione orientale della via
Postumia con i due segmenti costituiti dalla Levadda e dalla ‘Stradalta’, infatti,
il suo percorso si sarebbe trovato alla giunzione tra aree geomorfologicamente
ed economicamente distinte, quali i magredi e le colline moreniche a nord e la
fascia delle risorgive a sud, definendo in tal modo due territori a diversa vocazione economica prevalente, silvo-pastorale l’uno, agricola l’altro.
In mancanza di attestazioni inequivocabili circa l’estremo settore orientale, rimane comunque il dato di fatto che la coincidenza tra il percorso della
via Postumia, comunque lo si voglia individuare, e l’areale di distribuzione dei
bicchieri carenati consente di individuare in Aquileia il terminale ultimo e remoto di un complesso sistema di circolazione di uomini e beni, di cui ovviamente i
bicchieri stessi sono solo un indicatore parziale.
Si rimanda alla documentazione segnalata da Armando D’Agnolo nel volume Le ricerche
della Postumia 2004.
64
Bosio 1965-66, 211-217.
65
Si tratta di due documenti databili al 19 e 21 settembre 1214, nei quali è menzionata una
Postoima o Postoyma presso Campo mollo; quest’ultima località è identificata con Camolli, tra
Sacile e Fontanafredda (si rimanda a Fraccaro 1957, 222-223).
63
259
stefano magnani
Quanto alla natura di tali rapporti, è indubbiamente significativo il fatto
che il termine e una delle funzioni della via Postumia siano documentati dalla
già menzionata iscrizione che ricorda, a pochi anni dalla stesura della strada,
la realizzazione di un raccordo tra questa e il forum pequarium, il mercato del
bestiame di Aquileia66. Si può ragionevolmente ipotizzare che le presenze e i
contatti che possono essere supposti sulla base del rinvenimento dei bicchieri carenati ad Aquileia riflettano l’esistenza di rapporti di natura economica
connessi all’allevamento transumante tra gli altipiani del Veneto orientale e la
frangia delle aree lagunari e perilagunari alto-adriatiche e sul commercio del
bestiame, delle pelli, della lana, dei latticini e delle carni67.
La realizzazione della via Postumia attraverso il territorio venetico contribuì
probabilmente non solo a rafforzare la rete dei collegamenti su scala locale e
regionale ma ne ampliò il raggio d’azione, indirizzando parte delle attività e dei
prodotti fino alla lontana colonia di Aquileia, il cui forum pequarium sembra
essere uno dei più antichi in Italia, l’unico noto per ora in Italia settentrionale
in epoca repubblicana68. Al tempo stesso, intercettando i più antichi percorsi
tra la pianura e gli altipiani, con un ruolo di raccordo tra gli ambiti territoriali
a valenza agricola e quelli a valenza silvo-pastorale che si riscontra anche nel
settore friulano, che la via Postumia dovette contribuire a integrare nello stesso
contesto, la presenza della strada consolare indusse e favorì quasi certamente il
graduale passaggio del controllo gestionale delle attività economiche nelle mani
delle autorità romane.
Che l’iscrizione e la realizzazione del collegamento tra la via Postumia e il forum pequarium risalgano allo stesso momento della costruzione della via o ad anni molto vicini è stato
sostenuto e argomentato in maniera convincente da Bandelli 1984, 190-192. L’ubicazione
del forum pequarium aquileiese rimane del tutto ipotetica. Per la disamina delle varie ipotesi
si rimanda a Tiussi 2004, 258-273; Bonetto 2007, 696-708; Chiabà 2007, 735-736. A
favore dell’ubicazione del foro pecuario nella zona settentrionale della città, anche sulla base
dei rinvenimenti effettuati presso il Canale Anfora, si veda ora il contributo di Franca Maselli
Scotti in questo volume.
67
A proposito dei percorsi della transumanza nel territorio veneto e in quello friulano si
rimanda a Bonetto 1999; Modugno 1999; Modugno 2000; Bonetto 2004; Rosada
2004; Rosset 2004; Bonetto 2007; Basso - Bonetto - Busana 2011.
68
Tiussi 2004, 261.
66
260
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269
FULVIA MAINARDIS
Realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
nel territorio di Iulium Carnicum (Zuglio, UD)
In epoca protostorica la parte montana dell’attuale regione Friuli Venezia
Giulia e, in particolare, l’area carnica − compresa tra il bacino del Tagliamento,
la catena alpina e il Canal del Ferro (fig. 1) − si trovò a essere un trait d’union tra
l’orizzonte venetico, caratterizzato da una civiltà avanzata, che usava la scrittura,
e il mondo transalpino, molto più arretrato da questo punto di vista, ma ricco
di materie prime e anche di prodotti, che esercitavano una forte attrattiva sulle
genti meridionali1.
Sebbene la composizione etnica preromana dell’area montana nord-orientale, almeno in epoca storica, sia ancora oggetto di discussione e di indagine2, appare indubbio l’influsso esercitato dalle vicine culture (retica e paleoveneta), che si
coglie prima nelle sporadiche attestazioni di scritture alloctone3, di solito su oggetti mobili, e poi successivamente nella probabile adozione da parte delle genti
autoctone del sistema scrittorio maggiormente diffuso, vale a dire quello venetico4. Le caratteristiche grafiche e linguistiche di alcuni dei documenti noti (come
Bandelli 2001, 36 e Bandelli 2003, 308. Per un quadro sintetico di materiali e prodotti circolanti cf. Faleschini 2003.
2
Vd. Bandelli 1999, Bandelli 2001 e sintesi della problematica in Zaccaria 2009,
73-77 con ulteriore bibliografia.
3
Riferimenti bibliografici in Zaccaria 2009, 73-76.
4
Sul concetto di ‘venetizzazione’ dell’epigrafia indigena dell’area carnica e della Carinzia
meridionale vd. Bandelli 2009, 45-46. La documentazione per l’area carnica è edita in
Crevatin 1995, Crevatin 2001, Crevatin 2003, Marinetti 1991, Marinetti 1999,
Marinetti 2001 e Marinetti 2004. Per una mappatura del settore orientale (compresa
l’attuale Slovenia) vd. Istenič 1985 e Turk et alii 2009, 48.
1
271
fulvia mainardis
Fig. 1. I centri del territorio di Iulium Carnicum menzionati nel testo.
l’iscrizione lapidea di Ovaro5) lasciano supporre l’adozione e l’adattamento del
sistema venetico per notare lingue indigene, la cui matrice è ancora discussa,
ma che si può certamente, anche se in maniera semplificata, definire celtica6.
Se la sporadicità e la casualità non consentono di individuare direttrici di
diffusione della scrittura o punti di irradiazione di questo nuovo strumento7,
oltre a una generica dipendenza da più modelli scrittori e testuali provenienti
dal Veneto di pianura (come, ad es., nella norica Gurina della valle del Gail)8, va
Marinetti 1991, Marinetti 1999, 396 e 432, nr. 50 e Akeo 2002, 205, nr. 34.
Oltre al testo di Ovaro, tra i documenti ‘problematici’ rientrano anche le iscrizioni rupestri
di Würmlach, nella valle del Gail (Pellegrini - Prosdocimi 1967, I, 621-628, Pellegrini
1971-72, 9-10 n. 20, Istenič 1985, 319-320, Prosdocimi 1988, 323-324 e Marinetti Prosdocimi 2011, 320-322) e quella del valico di Findenig-Thörl (Pellegrini 1971-72,
Pellegrini 1975, 130-131 e Prosdocimi 1988, 318-319 e 323).
7
Vd. le considerazioni metodologiche, legate alla romanizzazione linguistica dei Paleoveneti, ma in realtà estensibili anche ad altri contesti di epigrafie locali, di Marinetti 2008,
151-157 e in generale sul rapporto tra epigrafia locale e romana Bandelli 2008.
8
Marinetti 2008, 157-158.
5
6
272
realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
comunque notato che, dove scavi sistematici hanno messo in luce realtà santuariali o presunte tali, quasi sempre sono emerse testimonianze − come sul Colle
Mazéit di Verzegnis9 o sul Monte Sorantri di Lauco10 − a indicare l’uso della
scrittura in tutti quei contesti significativi per il mondo antico, dove normalmente ci attenderemmo di trovarne traccia. Per quanto ci è dato sapere, la documentazione preromana attiene in prevalenza al sacro11, che, del resto, come
è noto anche dall’epigrafia latina, è l’ambito in cui si contano in genere i primi
documenti scrittori (esemplare il caso di Roma12).
In questo quadro rientrano, in quanto pertinenti, come sembra, al territorio
di Iulium Carnicum romana, anche i santuari di Lagole di Calalzo13 e di Monte
Calvario di Auronzo di Cadore14, sebbene la direttrice plavense li porti a gravitare, da un punto di vista linguistico e scrittorio, sui centri dell’area propriamente
veneta e la loro collocazione a ridosso delle Alpi ne connoti il carattere di santuari misti, punto di incontro tra la cultura veneta e quella celtica settentrionale.
Da Monte Calvario ci giunge anche la testimonianza, per ora la più tarda, della
sopravvivenza della scrittura venetica, come si ricava dal denario d’argento di
Traiano, che fa parte delle monete sovrascritte rinvenute nel santuario, monete
defunzionalizzate e assurte al rango di offerta votiva per il dio (o gli dei, come
pare probabile)15.
Se passiamo alla fase successiva, oggetto di questo contributo, vale a dire
all’affermazione del sistema scrittorio latino usato dalla potenza dominante,
osserviamo che sempre al mondo del sacro, ma legato alla sfera pubblica, appartengono anche le più antiche testimonianze di scrittura lapidaria latina
pertinenti alle fasi organizzate dell’abitato nella valle del Bût, che poi diverrà
appunto Iulium Carnicum. Il passaggio dal primo insediamento a vocazione
commerciale all’agglomerato inserito nella parcellizzazione territoriale romana
Su Colle Mazéit di Verzegnis da ultimo vd. Vannacci Lunazzi in Faleschini et alii
2009, 153-162, mentre sul coltello iscritto Morandi 2004, 717, nr. 299.
10
Donat - Righi - Vitri 2007; su un frammento di lamina votiva in venetico vd. recentemente Crevatin - Righi - Vitri 2012.
11
Per un quadro generale del sacro in epoca preistorica e sulla sua continuità in epoca romana e sugli effetti poi nell’organizzazione plebanale tardoantica vd. Vannacci Lunazzi 2012.
12
Panciera1989-90, 21. Cf. per l’area nord-orientale Zaccaria 2009, 82-88.
13
Fogolari - Gambacurta 2001.
14
Gangemi 2003, Gangemi 2006, Gangemi 2009 e Gangemi 2011; sull’alfabeto vd.
Marinetti - Prosdocimi 2011.
15
Marinetti 2008, 162-163.
9
273
fulvia mainardis
(il vicus), in cui sono epigraficamente documentate associazioni professionali e
religiose, segue modalità che si riscontrano anche altrove. Infatti le prime espressioni insediative del II sec. a.C.16 hanno caratteri simili a quelli propri delle comunità di negotiatores italici note non solo in Oriente ma anche in Occidente. Nell’organizzazione spaziale e architettonica del centro carnico si colgono
evidenti somiglianze, ad esempio, con un abitato di carattere commerciale del
II sec. a.C. identificato a La Cabañeta, nella valle dell’Ebro. Sono presenti le
medesime strutture rettangolari, affiancate e affacciate su una piazza, centro di
vendita e redistribuzione di prodotti italici17. Un’iscrizione musiva in un pavimento in opus signinum nel caso spagnolo segnala il passaggio dall’impianto
commerciale all’insediamento dotato di strutture funzionali, con due magistreis
libertini che aram, pavimen[t]u[m] c[ell]a, [o]pere tectorio, faciendu(m) cura[v]ere18. Anche per l’emporio carnico si assiste a un fenomeno simile nel momento del passaggio all’organizzazione vicanica, con magistri che si prendono
carico, lasciandone testimonianza epigrafica, di opere legate al collegio ma di
chiara pertinenza pubblica. Anche nel centro prealpino si osserva dunque che
«la prassi di comunicare attraverso monumenti lapidei iscritti […] viene introdotta gradualmente a partire dalle dediche pubbliche e […] si collega con la crescita dei centri abitati e della loro monumentalizzazione»19. Faccio riferimento
alle note iscrizioni commemoranti i lavori di ripristino e di abbellimento del
santuario di Beleno20, del santuario di Ercole21 o ad altre attestanti dediche sacre22 o comunque lavori che sembrano rientrare sempre nello stesso ambito.
I diversi aspetti della vita dell’abitato repubblicano sono strettamente interconnessi, con modalità per noi difficilmente riconoscibili e districabili, dal momento che coloro che lasciano testimonianza scritta sono persone coinvolte non
solo nella vita religiosa, ma anche in quella economica e politica, trattandosi di
liberti e schiavi, che in qualità di magistri di culto operano per la gestione del saSulle prime fasi della frequentazione romana, attribuibili al II sec. a.C., e sugli sviluppi
successivi vd. Vitri et alii 2007.
17
Tran c.d.s.
18
Ferreruela Gonzalvo et alii 2003, 217-230, AEp 2003, 970, Díaz Ariño 2008,
179-180, C105 e ultim. Tran c.d.s.
19
Zaccaria 2009, 77.
20
CIL, V 1829, Mainardis 2008, 85-88, nr. 1.
21
Come CIL, V 1830, Mainardis 2008, 93-96, nr. 7 e CIL, V 1831, Mainardis 2008,
96-97, nr. 8.
22
Come AEp 1994, 673, Mainardis 2008, 106-108, nr. 16, probabilmente il documento
più antico per ora noto nell’epigrafia iuliense.
16
274
realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
Fig. 2. Le iscrizioni di Aquileia-Tricesimo, di Nauportus e di Iulium Carnicum a confronto.
cro23, ma al contempo (ovviamente solo i liberti) costituiscono una sorta di élite
locale, che controlla la conduzione della ‘cosa pubblica’, fornendo ogni anno i
magistri vici che regolano la vita dell’insediamento.
L’uso del medium epigrafico sembra completo appannaggio di tali categorie, che in virtù proprio dei loro compiti molteplici e interconnessi − mediatori
economici probabilmente organizzati sotto il patrocinio di divinità proprie di
attività specifiche, come la mercatura (vedi Ercole) − sono coloro che hanno la
piena visibilità nell’ambito della produzione scritta di queste prime fasi.
Sui magistri, intesi come i membri del collegio, vd. Nock 1972, 411, Hasenohr 2002,
71-72 e Hasenohr 2008, 58-59.
23
275
fulvia mainardis
Fig. 3. L’epitaffio di Luincis con il risparmio del gentilizio.
Va notato che a livello tipologico, formulare, paleografico e anche monumentale esiste una forte omogeneità tra i documenti del vicus di Iulium Carnicum e
quelli, ad es., del coevo vicus di Nauportus24 e quelli ancora che possono essere
i monumenti iscritti aquileiesi contemporanei (fig. 2). Emblematica in questo
senso è la composizione spaziale-compositiva di una lastra tardo-repubblicana
da Luvincis (probabilmente Luincis, nella Val di Gorto)25, ove compare l’omisEmblematica dal punto di vista compositivo, linguistico e paleografico è CIL, III 3777
add. p. 1729, CIL, III 10719, CIL, I2 2286, ILLRP 34, RINMS, 117-120, nr. 1.
25
CIL, V 1848, Mainardis 2008, 177-179, nr. 76 con bibliografia precedente e discussione sulla provenienza.
24
276
realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
sione del gentilizio con relativo spazio bianco, secondo modalità che sono state
ben indagate nell’epigrafia repubblicana aquileiese, a cui del resto l’epitaffio si
richiama anche nella paleografia26 (fig. 3). Tutto ciò non significa soltanto una
dipendenza dalle medesime botteghe, che evidentemente in queste prime fasi
hanno il monopolio su un territorio ampio e sottoposto comunque a un’unica entità amministrativa (Aquileia quasi certamente27), ma anche il fatto che il
modello epigrafico è unico e appunto omogeneo, senza quelle possibili varianti
locali che la successiva diffusione di maestranze, maggiormente radicate sul territorio, porterà a sviluppare.
La perizia esecutiva di queste iscrizioni documenta senza ombra di dubbio la
presenza di officine lapidarie che si mettono al servizio della nuova comunità,
la quale, da quel momento in poi, diverrà anche il punto di irradiazione della
cultura romana per il territorio circostante e per quello montano in particolare,
caratterizzato dalla presenza di diversi abitati preistorici, nessuno dei quali però,
per quanto ci è dato sapere, destinato a diventare un centro romano dotato di
una qualche autonomia.
Oltre alla diffusione di modelli monumentali e scrittori, l’affermarsi di una
scrittura epigrafica lapidea ha anche altre ricadute su un territorio privo di altri
centri culturalmente rilevanti. L’influsso esercitato da questa produzione scritta
si esplica anche in quei fenomeni di alfabetizzazione spontanea28, ben noti in altre parti del mondo romano, ma che ora sappiamo verificatisi anche nella montagna carnica, in virtù anche della mancanza, come già ripetuto, di molteplici
punti di riferimento per la diffusione della cultura romana.
Ci indirizzano in questo senso i graffiti latini su ceramica venuti alla luce
nell’area santuariale del Sorantri, dove, al contrario di quello che accade per
le scritte su questa classe di instrumentum, la scrittura usata non è la corsiva ma la capitale, di chiara derivazione dalla capitale delle iscrizioni lapidee,
come dimostrano l’imitazione del solco triangolare per l’incisione delle letZaccaria 1989.
Sebbene sia stata notata, per lo meno a livello onomastico e nella diffusione di alcuni
gentilizi, una stretta correlazione piuttosto con Concordia su cui Zaccaria 1995, 184-185.
Sulle tre aree importanti, da un punto di vista espansivo e difensivo, dell’hinterland aquileiese
tra età cesariana e prima età augustea (la regione di Iulium Carnicum, Tergeste-Aegida e Nauportus-Emona) vd. la sintesi in Šašel-Kos 2012, 89-90.
28
Vd. ad es. il caso di San Servolo nel territorio di Tergeste in Mainardis 2006 e il caso di
Cerrione, in Piemonte, su cui ultim. Cresci Marrone 2012, 307-312.
26
27
277
fulvia mainardis
tere e l’utilizzo dei punti distinguenti di forma volutamente triangolare29.
Chi si ingegna a scrivere ha come modello le iscrizioni su pietra che in
quest’epoca (siamo nella prima metà del I sec. d.C.) caratterizzano le aree
pubbliche di Iulium Carnicum e dei suoi dintorni. E, anzi, questi graffiti su
ceramica Auerberg30, reperto quindi datante che ci spinge, insieme ai dati archeologici, a circoscrivere all’età claudia le fasi finali di uso del santuario del
Sorantri, ci forniscono anche altre preziose informazioni riguardo alle modalità di convivenza tra il sistema scrittorio preromano, che abbiamo detto essere preso a prestito dal venetico, e il nuovo sistema romano, che si andava diffondendo. Infatti sui graffiti del Sorantri non abbiamo solo esempi di scrittura
latina ma anche esempi di scrittura venetica, testimoniando in questo modo
come i due alfabeti abbiano conosciuto un periodo più o meno lungo di coesistenza, sicuramente maggiore di quello che la critica moderna tende a ritenere.
Lo stesso fenomeno del resto si osserva nella documentazione di Lagole, dove
la mancanza di stratigrafie e di altri elementi datanti poteva, fino ad oggi, far
pensare a un generico attardamento. Come sappiamo invece dallo scavo, tuttora
in corso, di Monte Auronzo, il santuario fu frequentato da fedeli che usavano i
due idiomi e le due scritture e potevano esprimere una preferenza nei confronti
del venetico o del latino nel manifestare la loro devozione.
Questa possibilità di scelta, a cui la critica moderna è tentata di dare un valore
ideologico intendendola come espressione e rivendicazione della propria appartenenza etnica, l’Abstand su cui recentemente molto si scrive31, si coglie anche in
un’iscrizione che viene dall’area di Socchieve32, dove in epoca protostorica esisteva un centro significativo a cui si affiancò poi anche una realtà romana, tuttora
da indagare33, altrettanto significativa, almeno stando al numero di testimonianze epigrafiche recuperate da questa zona (ma ora in gran parte perdute). Non è
secondario il livello officinale del manufatto e del testo incisovi sopra, un’urna
con epitaffio, che documenta chiaramente come nella prima metà del I sec. d.C.
fossero operanti botteghe lapidarie di buona qualità, che potevano, come dimostra questo caso, mettersi al servizio di una committenza autoctona, disposta
Mainardis 2007.
Su questo tipo di materiale nella regione nord-orientale vd. Produzione 2007.
31
Marinetti - Prosdocimi 1994, 32-33, 44-45, Marinetti - Prosdocimi - Solinas 2000, 88-92, 100-101, Solinas 2002, 294-297, Adams - Swain 2002, 8 e Adams 2005,
30-40, 292-293.
32
AEp 1991, 792, Mainardis 2008, 207-208, nr. 107.
33
Per gli scavi nella Pieve di Castoia vd. De Monte 2012.
29
30
278
realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
Fig. 4. L’epitaffio di Amaro della famiglia
degli Ammonii.
ad adattare e a tradurre il proprio nome epicorio pur di autorappresentarsi nei
modi e negli stilemi romani. L’urna di Volta Veroparis f., ancor oggi conservata
in una cappelletta all’ingresso della Pieve di Socchieve34, manifesta chiaramente
questa volontà di uniformarsi a quella che è percepita come la cultura dominante, anche se siamo in una località relativamente lontana dal capoluogo carnico.
Non sempre però la diffusione della cultura epigrafica risulta legata alla maggiore o minore distanza rispetto al centro principale, né la vicinanza alle vie di
comunicazione è sempre un elemento di per sé acculturante. Infatti l’unica epigrafe finora a noi nota dall’area di Amaro35 − altro punto nevralgico della mobilità del territorio, vista la posizione alla confluenza dei fiumi Fella e Tagliamento
e dove recenti scavi stanno progressivamente mettendo in luce l’entità dell’abitato36 – mostra invece strette dipendenze dalla scrittura corsiva. Difficilmente
tale manufatto si potrebbe definire frutto di manodopera specializzata, ma semAEp 1991, 792, AEp 1994, 693, Mainardis 2008, 207-208, nr. 107.
AEp 1994, 687, Mainardis 2008, 191-193, nr. 92.
36
Sintesi recente e quadro interpretativo (fase abitativa della prima età del Ferro, frequentazione forse cultuale della seconda età del Ferro, due fasi costruttive romane in epoca repubblicana e abbandono in età augustea) in Vitri - Righi 2009 e in Faleschini et alii 2009, 162-169.
34
35
279
fulvia mainardis
bra piuttosto il risultato del ricorso a chi del posto sapeva leggere e scrivere ed
era disposto a cimentarsi, per necessità, su un nuovo supporto e in una nuova
tipologia testuale (l’epigrafia funeraria), di cui conosceva sommariamente le caratteristiche, ma di cui non si poteva certo dire esperto (fig. 4).
La cronologia di tale monumento, situabile genericamente nella prima metà
del I sec. d.C., potrebbe ora essere circoscritta alla fine dell’età augustea, quando il
sito, stando alle indagini archeologiche recenti, risulta essere abbandonato. Così
appaiono meglio spiegabili anche alcune particolarità onomastiche dell’epitaffio, che lasciano incerti gli interpreti moderni37, ma che potrebbero riflettere la
realtà giuridica di generazioni precedenti a quella del committente, le quali erano
ancora di condizione peregrina (una avia chiamata Petronia Veneti f. Secunda).
Purtroppo in questo quadro non può rientrare a pieno diritto un altro monumento, di per sé eccezionale in quanto figurato38, ancora conservato nella chiesa
di San Giorgio di Comeglians39 (fig. 5). Per questa parte di territorio, privo di
altra espressione scritta, si tratta di un unicum, dal momento che ci troviamo
di fronte a un’ara figurata con i ritratti dei defunti sui lati, secondo la migliore
tradizione aquileiese40.
È evidente che risulta difficile affermare l’origine locale di un tale monumento, supponendo il ricorso a maestranze specializzate di cui neppure Iulium Carnicum ha sinora fornito indizi, oppure all’acquisto del pezzo non finito in una
bottega e al suo successivo trasporto in una recondita vallata montana. D’altro
canto anche spiegarne l’attuale collocazione non è compito che si presenti privo
di difficoltà in mancanza di documenti, sebbene si sappia che dall’antichità le
pietre scritte e figurate non hanno mai smesso di circolare e di spostarsi anche
per lunghe distanze.
In questo caso la particolarità del ritratto femminile41, per molto tempo l’unico visibile della lapide murata all’esterno della chiesa e identificato nel SetteBuora 1987, 20-21 e restante bibliografia in Mainardis 2008, 191-193, nr. 92.
L’unico altro esempio di scultura funeraria è una testina nella Pieve di Maria di Oltrebut
di Tolmezzo, non lontana da Terzo, situata sulla strada che portava a Zuglio lungo l’altra riva del
Bût (vd. Buora 1983, 79 e 85, fig. 42).
39
CIL, V 1865, Mainardis 2008, 205-207, nr. 106.
40
L’analisi del monumento si trova in Sperti 2012 che riscontra puntuali somiglianze
con alcuni esemplari aquileiesi, prodotti dallo stesso atelier, mentre l’iconografia della donna,
rappresentata proprio mentre fila la lana (non semplicemente ritratta, come di solito, insieme a
strumenti atti alla filatura) resta per ora, a detta dello studioso, senza confronti.
41
Vd. l’ampia discussione in Sperti 2012.
37
38
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realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
Fig. 5. Il lato figurato dell’ara di Comeglians con Regia Ommonta nell’atto di
filare.
cento come la rappresentazione di una Parca nell’atto di filare, potrebbe giustificare lo sforzo economico di un prelato sensibile alle antichità e capace di farsi
arrivare (da Aquileia sembrerebbe) materiali di un certo interesse.
Come si è detto non sempre funzionano, almeno stando alla documentazione finora in nostro possesso, le relazioni direttrice viaria – romanizzazione
– diffusione della scrittura. Il caso di Moggio e della Valcanale è certamente
emblematico in questo senso, dal momento che quest’area, pur offrendoci nella
cultura materiale ampi indizi di una frequentazione romana piuttosto antica42,
nelle testimonianze scrittorie registra invece la prevalenza di (poco) materiale di
epoca imperiale43. Questo vuoto documentario risulta ancora più sorprendenSu Moggio vd. ultim. Faleschini 2009 in Faleschini et alii 2009, 169-174.
Da Moggio CIL, V 1827, Mainardis 2008, 165-166, nr. 64 e SupplIt 12, 141, nr. 38,
Mainardis 2008, 164, nr. 62; da Resiutta CIL, V 1828, Mainardis 2008, 185-186, nr. 83 e
AEp 1923, 46, Mainardis 2008, 103-104, nr. 13.
42
43
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fulvia mainardis
te, se pensiamo che tale percorso dovrebbe essere, secondo la critica moderna44,
quello preferito per la più antica penetrazione romana in area transalpina. Tuttavia, la morfologia della Valcanale, certamente soggetta a importanti modifiche
nel corso dei secoli, ma pur sempre, per un buon tratto, vallata stretta e impervia
dominata dai capricci del fiume Fella, sembrerebbe piuttosto giustificare la sua
natura di via di transito, finalizzata a raggiungere il Norico e il Magdalensberg
in particolare, mentre la vallata del Bût parrebbe essere una vera via di penetrazione e di romanizzazione di un territorio.
Finora sono stati ricordati e discussi monumenti che appartengono per così
dire alla parte montana del territorio di Iulium Carnicum: tale scelta appare determinata dal fatto che la zona collinare e in generale tutta la fascia di confine,
che arriva sino all’area morenica, manifestano chiaramente di gravitare, dal punto di vista culturale e anche scrittorio, come del resto tutta la pianura friulana,
sul centro romano più importante della regione, Aquileia.
I siti antichi, su cui oggi insistono, ad esempio, i paesi moderni di Ospedaletto e di Osoppo45, mostrano un tipo di produzione che è il risultato di botteghe
di matrice aquileiese, che operavano nei centri più intensamente abitati. Non è
possibile stabilire se le maestranze che hanno prodotto tali manufatti fossero itineranti e avessero la loro sede privilegiata nel centro della costa o se, più probabilmente, si trattasse di officine locali, che accoglievano gli influssi, riguardo a tecnica e gusto, prevalenti ad Aquileia. Va comunque notato che influsso culturale e
appartenenza amministrativa non sempre coincidono. In tutta l’area a ridosso del
confine meridionale ritorna con una certa frequenza nei nomi dei defunti la menzione della tribù Claudia (la tribù degli abitanti di Iulium Carnicum), secondo
un uso che si riscontra frequentemente proprio sui confini, dove era più importante che altrove individuare, per così dire, a colpo d’occhio, l’appartenenza amministrativa a uno o all’altro centro antico delle persone menzionate nel testo46.
Questo influsso nord-sud ha ovviamente funzionato fin dalle origini anche
per l’insediamento su cui poi sarà costruita Iulium Carnicum, tuttavia, nel momento in cui fu raggiunta l’autonomia, il centro carnico divenne il volano per la
diffusione della cultura anche epigrafica, senza che questo significasse comunque l’interruzione anche di altre correnti culturali, per così dire, trasversali, che
avevano funzionato egregiamente sin dalla Preistoria.
Vd. bibliografia e discussione in Bandelli 2003, 308-309.
Su Osoppo vd. Villa 1997 e Villa 2007.
46
Su questi aspetti vd. Zaccaria 2010.
44
45
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realtà insediative e diffusione della scrittura epigrafica
Si inserisce in questo quadro il manico di simpulum trovato a Invillino47, che
seppur unico caso, documenta comunque l’influsso che i grandi santuari veneti
della valle del Piave, al di là del Passo della Mauria, continuavano ad esercitare. Il
manico infatti rientra nella tradizione dei simpula di cui si conoscono numerosi
esemplari a Lagole, ma non si tratta però di un pezzo erratico, dato che la divinità a
cui è dedicato non è la discussa e poco nota Trumusiat. poi identificata con Apollo
del centro cadorino, bensì Saturno, dio che nelle Alpi conosce una certa fortuna
in quella che viene definita l’area dei Brandopferplätze, grandi santuari preistorici, alcuni dei quali sopravvissuti in epoca romana, legati ai culti della fertilità48.
Tralasciando la questione del significato del ritrovamento in un sito come
Invillino, da cui vengono anche altre iscrizioni votive, tra cui sicuramente una
dedica a Fortuna, è interessante notare, ancora una volta, come soprattutto il
mondo del sacro, almeno nelle sue manifestazioni epigrafiche, possa travalicare
le dipendenze amministrative e seguire percorsi che rispondono ad altri bisogni
e ad altre necessità.
La diffusione della cultura epigrafica e soprattutto il numero delle sue evidenze in epoca storica non ricalcano dunque fedelmente, per quanto possiamo ricavare dalla documentazione, il quadro del popolamento antico, dato che appaiono concentrate in alcuni siti significativi, in primo luogo quelli a vocazione sacra, poi in quelli – ma non tutti − legati alla viabilità e in particolare alla viabilità
nelle aree di confine. Così accade presso il valico di Monte Croce Carnico, sullo
spartiacque alpino, dove la tradizione di apporre in prossimità del passo epigrafi
rupestri di carattere sacro, con valore propiziatorio o di ringraziamento per l’esito felice del passaggio, iniziata in epoca protostorica49, è continuata anche in
epoca successiva. In una dedica rupestre alle divinità tipiche della viabilità, Triviae e Quadriviae, associate a tutti gli altri dei, si unisce anche un intento celebrativo e commemorativo, come si evince dal testo voluto dallo schiavo Hermias50
per ricordare il proprio ruolo rivestito nei lavori di ripristino di una delle strade
per il passo e la propria capacità, emblematica per la sintesi che abbiamo sin qui
delineato, di trasformare un elemento naturale e selvaggio, come un monte alpino, in un immenso titulus grazie all’incisione di un’epigrafe in caratteri latini.
Mainardis 2004.
Vd. la bibliografia in Mainardis 2004.
49
Questo il significato delle iscrizioni di Würmlach e Findenig-Thorl menzionate alla n. 6.
50
CIL, V 1863 su cui specificatamente Mainardis 1994. Per le iscrizioni del passo vd.
Bandelli 1992 e Bandelli 2003.
47
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290
ARNALDO MARCONE
Forme di ‘scrittura quotidiana’ a Roma e nel mondo romano
tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale1
Roger Bagnall ha avuto il merito in un una recente monografia particolarmente ricca di implicazioni di riconsiderare il fenomeno del ricorso alla scrittura nel mondo greco-orientale anche in riferimento con gli aspetti più banali
e meno impegnativi della vita quotidiana2. Si tratta di una rivisitazione della
questione in un’ottica che prescinde dalla storia propriamente culturale così da
mettere in discussione il presupposto che nel mondo antico il ricorso alla scrittura così come la possibilità di leggere fossero appannaggio di una ristretta élite
di persone3.
Lo stretto legame intercorrente tra lo sviluppo del commercio e le sue necessità e la scrittura ha trovato crescente riconoscimento nella ricerca recente. Ma
una relazione viene spesso presupposta anche in riferimento all’attività politica
nella realtà complessa presupposta dalla democrazia ateniese. Secondo Turner
«la diffusa capacità di leggere e scrivere è un presupposto fondamentale della
democrazia ateniese»4. Poter rispondere alla domanda, apparentemente banale,
Questo mio contributo ne presuppone un altro in corso di stampa in una miscellanea di
scritti in onore di Jean Andreau: Marcone 2014.
2
Bagnall 2011. «Everyday Writing» deve essere inteso in senso ovviamente estensivo,
che va al di là dei testi di regola considerati documentari e di quelli pubblici o privati.
3
È l’argomento del libro di William Harris (Harris 1989). Le tesi minimaliste di Harris
sul ricorso da lui ritenuto generalmente ridotto alla scrittura nel mondo antico sono state
oggetto di valutazioni diverse. La discussione più articolata si può leggere in Literacy 1991.
Considerazioni significative anche in Horsfall 2003 (in particolare: Appendix (al cap. 5):
the issue of literacy, 72-74). Altro, ovviamente, è presupporre per il mondo antico un’alfabetizzazione ‘di massa’.
4
Turner 1989, 9.
1
291
arnaldo marcone
su quanti Ateniesi fossero in grado di leggere e scrivere nel V secolo a.C. consentirebbe indubbiamente di acquisire un quadro più preciso di aspetti fondamentali della vita pubblica di Atene5.
A proposito del commercio conviene ricordare come già Aristotele, nel
considerare l’utilità della scrittura nei vari campi delle attività umane, sottolineasse la sua importanza nella sfera economica6. Per quanto problematica sia la
ricostruzione delle fasi iniziali della scrittura greca appare difficilmente condivisibile sostenere perentoriamente che per essa «we have no commercial uses in
any regular sense of the term»7. E Michele Faraguna ha dimostrato, al di là di
ogni ragionevole dubbio, come le città greche, pur prive di una compiuta organizzazione burocratica, avessero archivi organizzati con registrazioni minuziose
della proprietà immobiliare8. E archivi simili sembrano accertabili anche in altre
aree del mondo antico9.
Il caso romano, che qui si considera alla luce di qualche esempio e di qualche
caso specifico, presenta caratteri peculiari anche in considerazione della rapida
crescita della componente economica nella tarda età repubblicana. I progressi
dell’alfabetizzazione a Roma risultano determinati, a partire in particolare dal
III secolo a.C., e dalla crescente complessità della vita sociale e dall’incontro con
Cf. Harvey 1966. Rimane una ipotesi suggestiva, ma indimostrabile, che le prime forme
di organizzazione di un sistema scolastico pubblico ad Atene, di cui abbiamo notizia per l’inizio
del V secolo a.C., siano da porre in diretta relazione con l’‘invenzione’ della democrazia. Vero
è che un’organizzazione scolastica concepita a favore della collettività lascia presupporre un
netto incremento nel livello di alfabetizzazione (Harvey 1966, 629-632). Si consideri la netta
posizione di Pébarthe (Pébarthe 2006, 347): «Les réformes de Clisthène interviennent alors
que l’alphabétisation a déjà une histoire ancienne à Athènes. Elles ne développent pas le recours
à l’écriture, elles en prennent acte et pensent la cité en termes de communication écrite».
R. Thomas, al contrario, sulla base delle tracce di scrittura conservate dagli ostraka che ci sono
giunti, ritiene che molti «can barely write». Per questo «functional literacy, in the sense of
enough literacy to function in the democratic process, could have been extremely basic in the
480s, even 460s» (Thomas 2009, 23).
6
Arist. Pol. VIII, 3 (1338A). Cf. Lombardo 1989, 105.
7
Cf. Johnston 1983, 67. Sulla possibilità che i commercianti siano da considerarsi i
promotori del ricorso alla scrittura, anche in considerazione della scomparsa di importanti
supporti scrittori (che giustificherebbe la scomparsa dei numeri nei primi due secoli dell’epigrafia greca), cf. Harris 1996.
8
Cf. Faraguna 2000.
9
Cf. Bagnall 2011, 47-48.
5
292
forme di ‘scrittura Quotidiana’ a roma
il più evoluto mondo ellenistico. La parola scritta assunse un crescente valore
pratico anche in relazione alle esigenze specifiche delle relazioni commerciali10. Forse ci si potrebbe chiedere, in merito alla diffusione della scrittura e delle
pratiche di lettura a Roma, come mai queste abbiano impiegato tanto tempo a
diffondersi. Ma vero è che alfabetizzazione e oralità non sono mai vicendevolmente esclusive né a Roma né in alcun altra cultura11. La vita economica, d’altra parte, determinava di per sé la necessità di istituti giuridici evoluti. Plutarco, nella Vita di Catone il Censore (21, 5-7), ci ha lasciato testimonianza di un
contratto di prestito marittimo che appare già di notevole complessità12. Lo
stesso De Agricultura catoniano presuppone il ricorso esteso alla scrittura per la
gestione della proprietà agricola e per i contratti di tipo commerciale. È dunque
anche dalle necessità dei proprietari terrieri che la scrittura sembra trarre una
ragione decisiva per il suo sviluppo13.
È probabile, poi, che nelle città latine di III secolo un numero consistente
di cittadini comuni sapesse leggere e scrivere14. I progressi della vita sociale nel
mondo italico di questo periodo hanno vari riscontri. Uno dei più significativi
appare essere quello di Chiusi che è stato oggetto di ricerche approfondite da
parte di Enrico Benelli15. Questa città etrusca sembra conoscere, alla fine delle
guerre annibaliche, un profondo rinnovamento di cui abbiamo testimonianza dall’archeologia funeraria. Le tombe chiusine offrono testimonianze senza
paralleli per quantità e varietà e, in particolare, le migliaia di iscrizioni funerarie
che corredano le sepolture costituiscono un corpus documentario senza paralleli. Se ne deduce che, all’interno della società chiusina ci fu un incremento eccezionale nel numero di persone, non solo in condizione di destinare una parte
delle loro risorse alla propria sepoltura, ma anche di raggiungere il livello di alfabetizzazione che consentisse loro di superare la cosiddetta soglia epigrafica. Il
Per il mondo greco è fondamentale Bresson 2000. In proposito cf. Faraguna 2002.
Osserva in particolare Faraguna (254): «Appare lecito concludere che, per lo meno dalla tarda
età arcaica, il rapporto tra commercio e scrittura nel mondo greco dovette essere ben più stretto
di quanto sinora generalmente supposto e che le pratiche scrittorie dovettero, in maniere diverse, interessare direttamente anche le forme e gli istituti giuridici che regolavano lo svolgimento
dei traffici, dando luogo ad una articolata produzione di testi di varia natura».
11
Cf. Habinek 2009, 115-116.
12
Cf. Purpura 1987 (= Purpura 1996).
13
Cf. Woolf 2009, 64.
14
Cf. Harris 1989, 178.
15
Cf. Benelli 2009.
10
293
arnaldo marcone
dato epigrafico è di per sé impressionante: a Chiusi si registra probabilmente il
rapporto più alto fra iscrizioni e numero di defunti del mondo antico16.
La necessità di tener conto in modo ordinato dei crediti e dei debiti appare
una delle condizioni decisive di sviluppo e di definizione delle pratiche scrittorie. Un debito poteva essere soddisfatto in contanti o in natura. Nel mondo
degli affari romani della fine della Repubblica esisteva anche la possibilità che
un titolo di credito potesse essere oggetto di commercio. I pagamenti potevano
avvenire tramite delegatio, vale a dire tramite un atto con il quale il delegante
richiedeva che chi aveva un debito verso di lui lo estinguesse con un versamento
fatto verso il suo creditore. Queste forme di pagamento, nelle fonti designate
spesso con il termine non tecnico di adtributio, che compensavano l’assenza a
Roma di una valuta fiduciaria, risultavano molto utili per i senatori che risolvevano così i loro cronici problemi di liquidità (nella corrispondenza di Cicerone
queste forme di pagamento sono attestate soprattutto negli anni 45-44 quando scarseggiava il contante)17. Ad ogni buon conto si trattava di un’operazione
complessa, che esponeva a rischi considerevoli e richiedeva l’assistenza di personale specializzato. Una forma di pagamento di questo tipo doveva suscitare non
di rado la diffidenza di colui che riceveva la delegatio. Gli agenti finanziari, d’altra parte, erano competenti anche nelle operazioni di permutatio che consentivano il trasferimento di somme senza spostamento di liquidi18. Da questo
complesso intreccio di relazioni personali concernenti transazioni economiche
emerge incontestabilmente un ricorso crescente della scrittura in tutte le possibili forme di utilizzazione. Verso la metà del I secolo a.C., come ha sottolineato
Harris, i contratti scritti costituiscono la norma almeno per i cittadini romani
Cf. Benelli 2009 e Benelli 2001.
Cf. Ioannatou 2006, 386-394. Un termine non tecnico riferito a transazioni risulta
anche essere perscriptio che deve verosimilmente significare tanto la registrazione scritta di un
movimento di denaro nei propri registri (degli interessi in Cic. Att. IX 12, 3 del 49 a.C.: viri
boni usuram transcribunt, come già in Plauto Truc., 72: ubi aera perscribant nummaria) quanto
l’obbligazione scritta di pagamento o, comunque, un pagamento documentabile per iscritto:
cf. Petrucci 1991, 120-121.
18
Secondo Barlow 1978 (cit. da Ioannatou 2006, 322 n. 128) «the transfer of funds
from place to place in the Roman Republic through paper transactions was Rome’s greatest
contribution to ancient banking».
16
17
294
forme di ‘scrittura Quotidiana’ a roma
delle classi elevate19. Cicerone menziona le stipulationes tra gli atti che si fanno
«per iscritto»20.
Nella società romana si assiste parallelamente a una crescita esponenziale
dell’importanza del testo scritto come documento probatorio negli atti giuridici
e con riferimento alle transazioni economiche e rispetto ad atti di diritto privato
come i testamenti e le adozioni. La stessa falsificazione dei documenti pubblici
acquista crescente rilevanza anche ai fini della lotta politica21. Il termine tecnico
cui si ricorre per designare la prova documentale in contrapposizione a quella
testimoniale è instrumentum cui è accostabile anche quello di scriptura22. Tipi
documentali più precisamente definiti erano il chirographum e la testatio distinti
tra loro essenzialmente per lo stile, soggettivo il primo e oggettivo il secondo.
La forza probatoria del chirographum, in cui il redattore parlava in prima persona, scaturiva fondamentalmente dall’essere un testo autografo. Le stesse lettere,
per quanto documenti ‘deboli’, in quanto necessitanti di una forma di accreditamento per poter avere funzione probatoria23, possono rivestire una rilevanza
giuridica24. Se ne ha un riscontro in un passo di Scevola che riporta un rescritto
di Marco Aurelio e Lucio Vero nel quale i due imperatori prendono posizione
sulle prove che andavano considerate in merito alla legittimità dei figli e al loro
diritto ad ereditare: oltre a quelle fornite per via testimoniale potevano essere
addotte quelle contenute in lettere inviate alla madre si de fide earum constet 25.
Evidentemente il problema riguardava la possibilità di accertare il valore probatorio di tali lettere, soprattutto se si trattava di corrispondenza privata.
Sulle possibili contestazioni di autenticità delle lettere forniscono significativi riscontri alcuni passi dell’Apologia di Apuleio26. In questo discorso, risalente
alla metà del II secolo d.C., l’unica sopravvivenza di eloquenza forense di tutta
la latinità di età imperiale, lo scrittore si difende dall’accusa di magia rivolta nei
Cf. Harris 1989, 216. Harris peraltro è scettico sul ricorso a documenti scritti in tutte
le attività di una certa consistenza.
20
Non magis in legibus quam in testamentis, in stipulationibus, in reliquis rebus quae ex scripto aguntur (Cic. top. 96). Harris, l. c., osserva che «sappiamo molte cose sulla legge delle obbligazioni, ma la sua storia sociale deve essere ancora scritta».
21
Cf. Fezzi 2003.
22
Cf. Schiavo 2007, 4-7.
23
Cf. Schiavo 2007, 6-7.
24
Secondo Serangeli 1996 si può parlare di negotia per corrispondenza.
25
D. 22, 3, 29. Cf. Schiavo 2007, 25-30.
26
Cf. Meyer 2004, 238-240.
19
295
arnaldo marcone
suoi confronti. È notevole come nel corso del processo vengano prodotte delle
lettere, tanto da parte sua che da parte dei suoi accusatori. Tra l’altro Apuleio fa
riferimento a una lettera prodotta da Rufino che sosteneva che l’accusato avesse
scritta di proprio pugno. Tuttavia la lettera era scritta in un greco scorretto, cosa
che rendeva impensabile che potesse essere di Apuleio data l’ottima conoscenza
che lui aveva di quella lingua. Non solo: Rufino aveva letto speditamente quella
lettera mentre aveva avuto difficoltà prima a leggere quella di Pudentilla, la ricca
vedova che Apuleio era accusato di aver sposato grazie a un incantesimo. Se ne
deduceva quindi che Rufino stesso, e non Apuleio, era l’autore della lettera.
Le tavolette campane presentano numerosi esempi di chirografi, come è il
caso delle apochae, rilasciate dal creditore al debitore ad attestazione di un avvenuto pagamento27. Le modalità redazionali avevano, ovviamente, un riflesso
sull’affidabilità dei documenti. La duplice scrittura e la sigillazione conferivano autorevolezza ai documenti scritti su tabulae28. Le tabulae, erano di regola
raccolte in dittici o trittici (con una pagina in più)29. Nelle tavolette dell’archivio
puteolano dei Sulpicii abbiamo indicazioni in merito al contenuto dell’avviso
d’asta, l’ordine delle relative aggiudicazioni, le condizioni di bando, le modalità
di pagamento per l’aggiudicatario acquirente, il luogo e il tempo di svolgimento dell’asta così come l’intervallo rispetto alla proclamazione della successiva30.
Va tenuto presente come ogni asta che avesse a che fare con patrimoni o beni
commerciali iniziasse di regola con la proscriptio o bando scritto31.
Un campo in cui si registra un uso generalizzato della scrittura a partire almeno dal II secolo a.C. è quello che riguarda la contabilità e la gestione patrimoniale. Le prime forme di registrazione del bilancio familiare, di tenuta conto di
Cf. Camodeca 1992.
Cf. Meyer 2004. Sulla polisemia del termine tabula il cui significato differisce se usato
al singolare o al plurale (tabulae sono fondamentalmente le tabulae publicae, vale a dire lastre
di pietra, di legno o di metallo destinate alla pubblicazione dei documenti ufficiali) cf. Ioannatou 2006, 73-75.
29
Secondo Camodeca 1999 i dittici tendono a diminuire con il passar del tempo a favore
dei trittici.
30
Si è sostenuta la sostanziale corrispondenza tra i riferimenti ricavabili dalle tavolette dei
Sulpicii e dai dati estrapolabili dalle commedie plautine: cf. Donadio 2007. Sulle peculiari
condizioni di ritrovamento dell’archivio, nell’edificio con triclini in località Murecine, conservato in una cesta di vimini a due manici, collocata sul letto inferiore del triclinio centrale si veda
ora Camodeca 2011.
31
Cf. Garcia Morcillo 2008.
27
28
296
forme di ‘scrittura Quotidiana’ a roma
uscite e entrate, gestite dal pater familias devono probabilmente essere considerati gli adversaria, forse una sorta di appunti giornalieri di carattere miscellaneo.
Una forma più evoluta di scrittura contabile, di tipo personale, è rappresentata
dal codex accepti et expensi, vale a dire del registro delle entrate e delle uscite che
i capifamiglia romani tenevano per visualizzare l’andamento delle loro spese e
delle loro entrate32.
Si devono anche considerare i numerosi casi di ricorso alla scrittura per le
occorrenze più banali della vita quotidiana: è rivelatore il caso messo in luce
dalla quarantina di laminette trovate nella zona adiacente al duomo di Feltre
che probabilmente dovevano servire come ‘scontrini’ dei capi di vestiario trattati
nella locale fullonica33. Ancora diverso è il significato che ha il ricorso alla scrittura sugli stampi degli oculisti romani particolarmente diffusi in Gallia34, o sulle
stampigliature su vasetti per medicamenti35.
Lo sviluppo del ricorso alla scrittura ha un ulteriore riscontro importante
nell’esercito. L’uso della scrittura, sia pure in forme limitate, era presupposto già
nel II secolo a.C.36. Ben presto le esigenze dell’organizzazione interna delle legioni crearono le condizioni per il formarsi di personale specializzato con capacità
Cf. Thilo 1980; JouaniQue 1968. Jouanique, come anche Andreau 2001, 92, ritiene
che il codex sia caduto in disuso nel corso dell’Alto Impero. Contra Minaud 2005, 135, che,
sulla base di un luogo di Ausonio (Ad Gratianum imperatorem discipulum gratiarum actio pro
consulatu 24), ritiene che il codex fosse di piena attualità ancora verso la fine del IV sec. d.C.
Al ricorso di registrazioni scritte nei più diversi ambiti della vita pubblica romana, le banche,
la vita politica e religiosa, le distribuzioni alimentari, l’amministrazione delle terre pubbliche,
sono dedicate due raccolte di studi Memoire perdue 1994 e Memoire perdue 1998. Cf. anche gli
atti della tavola rotonda curati da Moatti 2001.
33
Cf. Buchi 1995 e Marcone 2014. Si veda ora Frei-Stolba 2011. A titolo di esempio
si veda l’etichetta di piombo rinvenuta nel 1997 a Eschenz (AE 1999, 1178 a-b) su cui si legge
sul recto: Musius | (denarium) I (duo asses) ? e, al verso, [-] IMM | Pitti. «Musius (deve pagare)
un denario e due assi» «[-] IMM | (appartenente) a Pittius» (Frei-Stolba 2011, 331).
34
Cf. Voinot 2009. È notevole come in taluni casi risulti che questi stampi, che sembrano
accreditare l’ipotesi di una produzione in serie destinata agli specialisti, avessero un formulario
prestabilito.
35
Cf. Taborelli - Marengo 2010 e, da ultimo, Arena 2013, spec. 17-29 (con discussione che parte dalla considerazione dei microcontenitori fittili di Priene).
36
Harris 1989 riferisce di aver trovato nei papiri riscontri di un gran numero di soldati analfabeti delle unità ausiliarie ma solo un caso di un legionario (un veterano): «legionary
soldiers must very commonly have been fully literate or semi-literate; legionaries on the Rhine,
for example, were able to scratch their names on the underside of their drinking vessels» (con
riferimento a Galsterer 1983, 55-57).
32
297
arnaldo marcone
tecniche e un grado elevato di alfabetizzazione37. Le tavolette di Vindolanda
offrono una documentazione di prima mano di come la scrittura informasse la
vita di una guarnigione di frontiera a tutti i livelli della vita collettiva38.
L’uso quotidiano, più o meno specializzato, della scrittura per le finalità più
diverse presuppone, ovviamente, una diffusione nei ceti alti della cultura libraria
con il prestigio che questa implicava. Basterà una menzione di un noto passo
della Vita di Lucullo di Plutarco (42)39: «Degno di un caldo elogio è quanto fece
per allestire una biblioteca. Radunò molti libri, scritti bene, e mise le raccolte a
disposizione di chiunque, così che l’uso che ne fece fu ancora più lodevole del
loro acquisto. I portici attorno alla biblioteca e le sale di studio erano aperti
senza restrizioni anche agli Elleni; essi vi rifugiavano come nella dimora delle
muse e vi passavano le giornate in compagnia, tra loro, abbandonando volentieri
le altre occupazioni. Lucullo stesso trascorreva molte ore in mezzo a loro sotto i
portici, ed aiutava gli studiosi ed i politici in quanto avevano bisogno. Insomma
la sua casa era un po’ il focolare e il pritaneo di tutti gli Elleni che giugevano a
Roma».
D’altra parte gli sviluppi della diffusione della cultura possono avere esiti
sorprendenti e, in parte, non facilmente valutabili. Le citazioni virgiliane
presenti sulle case di Pompei sembrano avere funzioni differenti: la cultura dei
graffiti pompeiani rimane fondamentalmente enigmatica40. Ed è notevole come
il primo verso dell’Eneide sembra aver goduto di una significativa popolarità
nei contesti e nelle collocazioni più varie senza riferimento al resto del poema: è
verosimile che fosse riprodotto da persone che in molti casi non avevano se non
una vaga idea del rapporto che quei versi avevano con il resto del poema epico41.
Pompei, d’altra parte, con i suoi oltre 10.000 graffiti e dipinti, ha indubbiamente contribuito più di qualsiasi altro luogo a dare l’impressione di un’ampia
Cf. Albana 2010.
Cf. Bowman 1983.
39
Cf. Dix 2000. La villa di Lucullo probabilmente era a Tusculum anche se Plutarco non lo
specifica. Il primo condottiero ad includere una biblioteca nel proprio bottino di guerra risulta
essere stato Emilio Paolo che portò a Roma quella di Perseo (Isid. Etym. VI 5, 1).
40
Cf. Milnor 2009, 288-319.
41
Cf. Milnor 2009, 304. Notevole sembra il caso dell’esametro inciso sulla parete esterna
della cosiddetta casa di Fabius Ululitremulus (CIL, IV 9131). Una raffigurazione pittorica di
Enea, Ascanio e Anchise è accompagnata da una singolare iscrizione: Fullones ululamque cano,
non arma virumque che forse allude ironicamente alla professione del proprietario (Milnor
2009, 299-300).
37
38
298
forme di ‘scrittura Quotidiana’ a roma
diffusione dell’alfabetizzazione a Roma42. La stessa frequenza dei programmata
elettorali pompeiani è stata messa plausibilmente in relazione con la densità di
frequentazione delle varie strade43. Persino il presupposto, largamente condiviso, che nel mondo romano ci fosse una sorta di frontiera invisibile nella diffusione dell’alfabetizzazione tra città e campagna44, appare ora messo in discussione
dal fatto che in un villaggio come Tebtunis si è accertata l’esistenza di un centinaio di individui in grado di leggere e scrivere45.
Non c’è dubbio che l’alfabetizzazione, perché si possa sviluppare e radicare in
una società, deve avere un valore e un significato, evidenti e importanti finalità,
ed è necessario che sia effettivamente patrimonio delle persone che apprendono
a leggere46. Lo stesso dicasi del mattone, proveniente dall’agro di Cavour, riproducente il primo verso del XIII libro delle Metamorfosi di Ovidio47. Alla fine
abbiamo una serie di oggetti che appartengono alla cosiddetta cultura materiale
che, nella loro apparente banalità, con i testi che veicolano, appaiono “rivelatori
della mentalità dei fabbricanti e dei loro clienti”48.
Cf. Wallace-Hadrill 2011. Wallace-Hadrill presta rinnovato credito alle informazioni contenute nelle pubblicazioni di Matteo della Corte. Ovviamente il grado di diffusione dell’alfabetizzazione che si presuppone per Pompei è funzionale all’idea che ha della qualità
del suo sviluppo economico.
43
Cf. Laurence 1994, 98-99.
44
Harris 1989, 190-193.
45
Cf. Hopkins 1991, 152.
46
Cf. Thomas 2009, 13 con riferimento alla formulazione conclusiva della conferenza
dell’Unesco del 1997 sul Making of a Literate Society (cf. Making of Literate Societies 2011,
XII): «in order to bring about cultural and social transformation, literacy must be seen as an
activity embedded in social and cultural practice».
47
Cf. Cresci Marrone 1996 (il reperto è conservato nel Palazzo del Senato di Pinerolo)
e Marcone 2014.
48
Si tratta spesso di oggetti con poche parole: un saluto, un augurio, un invito a bere, un
messaggio erotico: cf. Cullin-Mingaud - Dardaine 2011, 389. È notevole come il testo di
alcuni oggetti lasci percepire un rapporto stretto con l’oralità come risulta, ad esempio, dagli
errori che si riscontrano sullo stilo in bronzo conservato al museo di Colonia: hego/ scribo/
sinem/ manum (CIL, XIII 229). Cf. anche Clermont-Ganneau 1918. Un caso particolare è rappresentato dalle ampolle di Baia che, oltre a raffigurazioni paesaggistiche, contengono
dediche che certo si potevano adattare a diverse tipologie di acquirenti ma nelle quali sembra
prevalente la finalità di ricordi di viaggio con riproduzioni di paesaggi di località celebri. Cf.
Gianfrotta 2011.
42
299
arnaldo marcone
Appare evidente che a Roma in età tardorepubblicana ci troviamo in una fase
evoluta di una società in cui il ricorso alla scrittura corrisponde ad esigenze, a
pratiche, a usi e a finalità diverse in cui il confine tra alfabetizzazione e analfabetismo è reso labile dal fatto che anche i poco o per nulla alfabetizzati presuppongono l’uso della scrittura o vi fanno comunque riferimento. Si tratta di uno degli
aspetti, in qualche modo moderni, di una società ‘premoderna’.
300
forme di ‘scrittura Quotidiana’ a roma
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305
SILVIA M. MARENGO
Appunti per la ‘riscoperta’ di CIL, IX 5311
Tra le iscrizioni di Cupra Maritima, il Mommsen pubblicava nel 1883 un
documento che aveva conosciuto dal Paciaudi1 e dalle carte manoscritte del
Lancellotti2; ne dava una duplice versione, rispettando, come in altri casi dubbi,
le differenti forme degli apografi in mancanza di un riscontro autoptico decisivo.
Paciaudi 1845, 81 localizza il documento «nella villa de’ PP. dell’Oratorio».
La lettura del Lancellotti non dipende dal Paciaudi e la sua trascrizione della linea 1 è di
gran lunga migliore.
1
2
307
silvia m. marengo
Il documento venne ritrovato alcuni anni dopo dal Gamurrini3 che ne diede
comunicazione nelle Notizie degli Scavi del 1888:
in cima alla collina di S. Basso vedesi murato nella casa colonica un blocco di travertino, con grandi lettere bene incise: CRVSTENV / aeDIFICANDAM. Lì presso
giace un grosso frammento, pure di iscrizione in travertino con il principio L.AE /
AI.
Pur senza fornire una fotografia o un disegno, lo studioso dava atto di una
realtà archeologica diversa da quella che si poteva intuire dal Corpus e dalle sue
fonti: non un’epigrafe disposta su quattro linee e mutila a destra, ma due grandi
frammenti che potevano costituire l’inizio e la parte destra di un’iscrizione su
due linee, con sviluppo orizzontale, ampiamente mutila della parte centrale e
finale. La trascrizione proposta fu la seguente:
L. AE(milius l .f.?) C. RVSTENV(s c? f. vel)
AE(diles)……..aeDIFICANDAM (coiraverunt)
La ripresa da parte dell’Ephemeris epigraphica (VIII 228ab) non rese pienamente ragione dell’autopsia del Gamurrini per quanto riguarda la reciproca
posizione dei due blocchi: infatti, in questa edizione il frammento più grande,
che veniva indicato come (a) precedeva il più piccolo (b); ne derivava l’implicito
suggerimento che (a) precedesse anche nella ricomposizione del testo, cosa che,
come vedremo, non rispetta la realtà archeologica ed epigrafica. Questa l’edizione dello Ihm:
3
Gamurrini 1888, 566. Nella trascrizione è omessa la E di EDIFICANDAM.
308
appunti per la ‘riscoperta’ di cil, IX 5311
Le prime fotografie del documento si devono a Patrizia Fortini4; pubblicate
nel 1981 mostrano che il frammento più grande (fig. 1), murato nelle strutture
esterne della casa colonica, è in realtà a sua volta costituito di due blocchi contigui sui quali corre l’iscrizione delimitata in basso da un listello che ne costituisce la cornice inferiore; quanto al frammento minore (fig. 2), l’iscrizione risulta
incisa dopo un ampio spazio anepigrafe, così che risulta confermata la supposizione del Gamurrini che il blocco contenesse l’inizio del testo, e sembra aver
perduto la E della l. 2 che Paciaudi e Lancellotti avevano ancora visto e trascritto.
Quella contenuta nel lavoro della Fortini è una documentazione preziosa
perché il blocco minore (fig. 2) è stato trafugato nel corso degli anni Ottanta del
Fig. 2. Il frammento minore (Archivio
fotografico dell’Archeoclub di Cupra
Marittima).
Fig. 1. I due blocchi del frammento maggiore murati nella casa colonica del Colle
Morganti (Archivio fotografico dell’Archeoclub di Cupra Marittima).
Fig. 3. Ascoli Piceno, Museo archeologico. Il frammento maggiore
ricostruito e restaurato (foto G. Paci).
4
Fortini 1981, tav. VIIa,b. Si vedano inoltre Mostardi 1977, 133 n. 14; Fortini 1993,
84 e n. 5; Pompa 2004, 113, nr. 54 con fotografie e altra bibliografia; Marengo 2012, 367, nr. 7.
309
silvia m. marengo
secolo scorso e risulta attualmente irreperibile5; altrettanto preziosa risulta una
scheda di Gianfranco Paci che vide, copiò e misurò il frammento oggi perduto documentandone le dimensioni (alt. 42, largh. 51, sp. 23; alt. lett. 8,5/10)6;
si aggiunge l’autopsia di Maria Elisa De Simone, che conferma la presenza del
listello, per quanto «meno chiaramente» leggibile, sul blocco minore7.
Un importante intervento di salvaguardia dei due blocchi che compongono
la porzione maggiore - attualmente in giacenza nel Museo di Ascoli - data al
1998. Il distacco dalla parete dove erano stati murati e il restauro consentono
di apprezzarne l’aspetto archeologico e riconoscere i resti di un architrave di
travertino alto cm 39, largo cm 92, spesso cm 23, fratto in due frammenti e mutilo della parte superiore (fig. 3). Il retro è sommariamente sbozzato, lavorato il
lato superiore, irregolarmente rotti i fianchi. Si tratta di un elemento strutturale
dell’edificio sul quale era incisa l’iscrizione che ne commemorava la costruzione.
La possibilità di ricomporre un’unica epigrafe, secondo la proposta del
Gamurrini, trova conferma nell’uguale altezza (39 cm) e spessore (23 cm) dei
due frammenti, nella presenza in entrambi del listello che corre a 13,5 cm dal
bordo inferiore8, nella qualità della pietra9 e nei caratteri della scrittura: uguale
l’altezza e il modulo delle lettere, uguale la paleografia che ripete modelli di età
tardo repubblicana.
L’iscrizione è impaginata con la seconda linea a rientrare, mentre la prima,
mutila della parte superiore, conserva solo la base delle lettere. A l. 1 il Paciaudi
poté vedere, dopo le lettere LAE del primo blocco, un segno verticale che trascrive come I e questo farebbe escludere lettere curve o con aste oblique; restano
tracce di una interpunzione tra L e A; sempre a l. 1 tracce della base della lettera
incerta all’inizio del secondo blocco consentono di ricostruire un’asta10 e quin-
Ne dà notizia Paci 1982, 212.
Ringrazio Gianfranco Paci per aver messo a disposizione i suoi quaderni e la fotografia di
fig. 3 e Mario Chighine che ha realizzato i disegni delle figg. 4 e 5.
7
Ricavo questi dati dalla tesi discussa presso l’Università di Macerata nell’a.a. 1971-72,
relatore il Prof. Lidio Gasperini (De Simone 1971-72).
8
Visibile, nel primo blocco, grazie ad alcune tracce sotto la A viste da De Simone 1971-72,
81.
9
Riconosciuta come travertino dal Gamurrini 1888 e dalla De Simone 1971-72. Diversamente Fortini 1981, 10 descrive come travertino il frammento maggiore, come calcare il
minore.
10
Il Lancellotti (CIL, IX 5311) trascrive come I.
5
6
310
appunti per la ‘riscoperta’ di cil, IX 5311
di, nel contesto di una formula onomastica, la lettera F o N11; ancora alla linea 1
si conferma uno spazio non iscritto di separazione tra le due formule onomastiche; a l. 2 la seconda lettera oggi non più visibile è stata trascritta come E sia dal
Paciaudi e dal Lancellotti sia dal Gamurrini che videro la pietra in condizioni
migliori. La fotografia e i riscontri autoptici del Gamurrini, della Fortini, di Paci
e della De Simone fanno escludere la presenza della lettera C che Paciaudi e
Lancellotti indicano all’inizio della l.112. Si potrà dunque leggere:
L. Ae[---]+ vac. C. Rusten[us ---]
ae[--- a]edificandam [---].
Sul confronto di una numerosa serie di epigrafi che ricordano i magistrati
municipali come responsabili di interventi di edilizia pubblica, la ricostruzione del Gamurrini offre una traccia plausibile. Si vedano, ad esempio, l’iscrizione ariminense ILLRP 545 che recita C. Obulcius C.f. / M’. Octavius M’.
[ f.] / duovir(i) / hoc opus fac(iundum) quraverunt13; l’iscrizione della cella del
tempio di Ercole a Cora14 su epistilio come nel nostro caso: M. M[a]tlius M.f.,
L. Turpilius L.f. duomvires de senatus / sente[n]tia aedem faciendam coeraverunt
eisdemque probavere; quelle sull’architrave delle porte interne dell’arce di Ferentinum15: A. Hirtius A.f., M. Lollius C.f. ce(n)s(ores) fundamenta / fornices faciunda coeravere eidemque / probavere. In zona, il confronto più stringente è con i
blocchi architettonici della basilica di San Vittore-Planina dove si legge l’ iscrizione dei duoviri che finanziarono a proprie spese e curarono come magistrati i
lavori di abbellimento dell’edificio16: [---]liei C. f. II vir(i) iter(um) basil(icam)
/[c]laudendam, poliendam / pingendam, subaurandam d(e) s(ua) p(ecunia)
f(acienda) c(uraverunt).
Va perciò esclusa anche la menzione della tribù Vel(ina) dei Cuprenses mentre restano
aperte altre possibilità.
12
Ne conseguivano la lettura C(aius) Lae[lius ---] e un ampliamento della superficie iscritta.
13
CIL, I2 2129 e add. p. 1082; XI 400 con altro esempio in CIL, I2 2129b e add. p. 1082,
XI 401. Prima del 90 a.C.
14
CIL, I2 1511 e add. p. 1001; X 6517; ILS 5396; ILLRP 300; Imagines 119 a-d. Fine
II-inizio I sec. a.C.
15
CIL, I2 1524-1525 e add. p. 1002; X 5839-5840; ILS 3344-3345; ILLRP 585-586;
Imagines 236 a-b. Primi decenni del I sec. a.C.
16
CIL, IX 5688; SupplIt 22, 156, nr.15 (G. Paci). Tra l’età cesariana e l’età triumvirale.
11
311
silvia m. marengo
Fig. 4. Ipotesi di ricostruzione (a) (disegno Arch. M. Chighine - Università di Roma Tor Vergata).
Un’ipotesi di ricostruzione grafica come quella che si propone tenendo
conto della proposta del Gamurrini (fig. 4 ) appare perciò del tutto verisimile :
L. Ae[--- - f.] C. Rusten[us – f.]/ ae[d(iles) a]edificandam [cur(averunt)].
Mentre per il gentilizio del primo individuo si danno diverse possibilità17, per il
secondo la lettura Rustenus, per quanto priva di confronti, sembra la sola proponibile; peraltro un nomen in -enus formato da Rustius come Vettenus da Vettius non
crea difficoltà. Nel disegno la formula onomastica di entrambi è stata completata
con il patronimico sulla scorta del resto di lettera visibile all’inizio della prima linea
che non può appartenere alla desinenza in -s di un nominativo, ma potrebbe ben
essere l’asta della F di filius o anche della N di nepos.
Gli aediles costituiscono il collegio inferiore nell’amministrazione del municipio di Cupra; le loro competenze ne giustificano l’attenzione per un edificio pubblico come avviene in ambito regionale a Septempeda18. Magistrati con analoga potestas di altre località dell’Italia tardo repubblicana non sembrano indirizzare la loro
cura verso specifici edifici come si ricava dalla documentazione raccolta nel volume
‘repubblicano’ del Corpus, nelle Inscriptiones Latinae liberae reipublicae, negli additamenta al CIL I2 di A. Degrassi e H. Krummrey.
Il verbo aedificare è piuttosto raro nelle iscrizioni di età repubblicana rispetto al comunissimo facere19 e non sembra avere specializzazioni nel formulario:
ricorre a Capua nel 108 a.C. dove i magistri di Venere Iovia murum aedificanSolin - Salomies 19942, 6-8.
18
SupplIt 13, 214, nr. 3 (S. M. Marengo). Fine I sec. a.C.- età giulio claudia.
19
Si aggiungono talora verbi tecnici che esprimono la natura specifica dell’intervento effettuato come pingere, calecare, expolire e altri.
17
312
appunti per la ‘riscoperta’ di cil, IX 5311
Fig. 5. Ipotesi di ricostruzione (b) (disegno Arch. M. Chighine - Università di Roma Tor Vergata).
dum coiraverunt 20 e i magistri di un anno tra il 108 e il 105 cu[n]eum ab [imo ad
summum gra]dum aedifi[c]arunt 21, a Curubis in Africa nel 45 a.C. dove un duoviro
aedific(andum) coer(avit) il murum oppidi totum ex saxo quadrato22, a Crotone dove
i duoviri quinquennali balneum aedeificandum courav(e)ru(nt)23, a Roma dove un
privato hoc monumentum aedificandum expoliendum curavit24.
Va detto tuttavia che sono possibili anche altre soluzioni, se consideriamo, come
già è stato suggerito25, che l’inizio della l. 2 contenga non la carica dei magistrati,
bensì l’oggetto della costruzione che sarebbe allora, date le iniziali, aedem o aediculam, seguita eventualmente dal nome della divinità dedicataria, mentre la carica, se
presente, andrebbe inserita alla prima linea dopo il nome dei due magistrati, come
nell’ipotesi proposta alla figura 5:
L. Ae[--- - f.] C. Rusten[us - f. e.g. duovir(i)]/ ae[dem a]edificandam [curav(erunt)].
È una ricostruzione che potrebbe risultare teoricamente vantaggiosa sia per
l’organizzazione logica della comunicazione epigrafica (una linea per i soggetti e
la loro funzione, una linea per l’oggetto e l’azione), sia perché, se il complemenCIL, I2 676 e add. p. 931; X 3777; EphEp 8, 460; Chioffi 2005, 93 s., nr. 89, fig. 83 con
altra bibliografia (cf. altro esemplare in CIL, I2 675 e add. p. 931; X 3776; ILS 3185; ILLRP
709; Imagines 263; Chioffi 2005, p. 94).
21
CIL, I2 2946 e add. p. 930; ILLRP 711.
22
CIL, I2 788 e add. p. 951; VIII 977 e 12451; ILS 5320; ILLRP 580.
23
CIL, I2 2542 e add. p. 737, 844, 1022; ILLRP 575.
24
CIL, I2 1274 e add. p. 974; VI 10326 e add. p 3909; ILS 7878; ILLRP 767.
25
Così De Simone 1971-72, 82.
20
313
silvia m. marengo
to oggetto non fosse espresso, ci aspetteremmo una desinenza al neutro (aedificandum) da concordare con un sottinteso hoc opus, mentre il femminile aedificandam sembra esigere un sostantivo femminile esplicitato nel testo. Tuttavia la
varietà delle composizioni epigrafiche anche in presenza di modelli ben collaudati invita alla prudenza26. Peraltro l’uso epigrafico di specificare l’aedes con il
nome della divinità introduce un possibile teonimo alla linea 2, modificando
ancora la lunghezza del testo e introducendo altre varianti alla linea 1 quale la
presenza dell’avonimico o di cognomi troncati. Si sottolinea perciò il carattere
ampiamente ipotetico di queste ricostruzioni che il rinvenimento di altri frammenti potrà correggere e precisare con il ricordo della probatio, di un decreto del
senato locale, con la fonte del denaro impiegato e così via.
Queste incertezze dovute alle lacune del discorso epigrafico lasciano aperte anche le questioni riguardanti la fisionomia archeologica dell’edificio e la
sua funzione. Della sua originaria ubicazione non abbiamo notizie. Il luogo
di reimpiego dei blocchi è documentato da Patrizia Fortini sull’altura di San
Basso, sul pianoro detto ‘collina Morganti’27, nella facciata della casa colonica
che vi sorgeva e all’interno della rimessa, laddove li aveva visti il Gamurrini nel
1888; seppure più generiche, la notizia del Paciaudi che parla di «villa de’ PP.
dell’Oratorio»28 e quella del Lancellotti che identifica più precisamente i blocchi «in facie domus colonicae PP. Oratorii prope ecclesiam S. Bassi bipertitam,
vv. 3-4 in angulo stabuli»29 corrispondono a questa collocazione. Non si hanno
Si veda però ad esempio CIL, I2 2711 e add. p. 954 (altare davanti al tempio C di Largo
Argentina a Roma) dove si legge semplicemente reficiundam curavit con complemento oggetto
(aram) sottinteso.
27
Fortini 1981, 10 scrive: «la prima iscrizione murata all’esterno dell’edificio principale… la seconda… si trova inserita all’interno della pertinenza». Attualmente la casa colonica è
scomparsa, in parte inglobata nelle strutture di una abitazione moderna; ne restano le immagini nell’archivio fotografico dell’Archeoclub di Cupra Marittima che ho potuto consultare
per la cortesia del Presidente, Prof. Vermiglio Ricci; lo ringrazio, insieme al Sig. Giovanni
Ciarrocchi, per avermi guidata nella topografia e nella toponomastica della collina di San
Basso.
28
Vd. supra n. 1.
29
Apud CIL, IX 5311. La sistemazione dei due frammenti al momento della ricognizione
del Lancellotti, l’uno sulla facciata della casa colonica, l’altro «in angulo stabuli», corrisponde
perfettamente a quanto descriverà nel 1981 Patrizia Fortini (supra n. 27); il riferimento del
Lancellotti alla prossimità della chiesa di San Basso si riferisce evidentemente non all’appartenenza alle strutture della chiesa, ma alla vicinanza delle due aree archeologiche.
26
314
appunti per la ‘riscoperta’ di cil, IX 5311
quindi notizie di una presenza di questi materiali in un’area diversa dalla ‘collina
Morganti’ dove è verisimile siano stati originariamente messi in opera30.
Si tratta di un’area di grande interesse archeologico: qui affiorano lacerti di
muri e di un basamento che la Fortini descrive e documenta attribuendoli ad
«una struttura templare»31, già riconosciuta come tempio della dea Cupra32.
Peraltro in anni recenti si è affermata una diversa ipotesi che localizza il tempio
di Cupra nell’area della Pieve di San Basso ‘fora’33 ; secondo questa lettura della
topografia cuprense, la ‘collina Morganti’ avrebbe ospitato l’‘acropoli preromana’ della città34.
A questa problematica di grande interesse, ma ancora irrisolta, i frammenti iscritti qui in esame, così lacunosi e reticenti, non possono dare contributi,
se non confermare la presenza di un edificio pubblico di notevoli dimensioni
come documenta la monumentalità dell’iscrizione35; tuttavia, anche a partire da
questi pochi dati, si possono avanzare alcune considerazioni.
Se l’iscrizione apparteneva all’area archeologica della ‘collina Morganti’,
escluderei che si trattasse di un edificio a destinazione civile data la sua posizione isolata rispetto all’area del foro, nel quale si dovevano concentrare i luoghi
simbolo della nuova realtà istituzionale cittadina quali il capitolium, la curia, la
basilica36.
L’uso del verbo aedifico fa ritenere che si tratti di una costruzione elevata
ex-novo37.
Erroneamente i frammenti vengono riferiti alla zona di S. Basso alla Civita o San Basso
‘fora’ da Capriotti 2010, 157.
31
Fortini 1981, 10-11; pianta del sito in Ciarrocchi 1993, 276.
32
Fortini 1981, 10-15 (ma cf. Catani 1988, 200-206 e n. 23 e Catani 1993, 200-204
per la localizzazione degli scavi del Pievano Angelo Trenta nell’area forense e non sulla ‘collina
Morganti’); cf. già Mostardi 1977, 130 e Mercando 1980, 285. Status quaestionis in Paci
1982, 208-209. Recentemente Luni - Uttoveggio 2001, 251.
33
Sisani 2006, 383; Capriotti 2010.
34
Da ultima Capriotti 2010, 131.
35
I due frammenti misurano in larghezza rispettivamente cm 51 e cm 92; anche nell’ipotesi
ricostruttiva (a) l’iscrizione poteva raggiungere l’ampiezza di 2 metri.
36
L’area del foro in loc. La Civita è stata studiata da Bacchielli 1993, 33-45.
37
Non l’originario tempio di Cupra, quindi, che aveva già una storia plurisecolare e
che poteva essere restaurato e abbellito in questa epoca, ma non edificato. Tuttavia, se fosse
accertato essere questa l’area del tempio romano della dea eponima della città, si potrà pensare
ad un annesso al tempio vero e proprio come una culina o una crypta, una porticus.
30
315
silvia m. marengo
Le caratteristiche della scrittura inquadrano il documento intorno alla metà
del I sec. a.C. e ne fanno una delle epigrafi più antiche della città, molto vicina,
come sembra, alla fondazione del municipio e quindi al momento in cui l’edilizia pubblica si adeguò ai modelli urbani. Se veramente sono menzionati gli aediles a l. 2, allora dobbiamo pensare che la nuova costituzione municipale, attestata al più presto per l’anno 47 a.C., fosse già in vigore38, ma se anche si dovesse
leggere aedem, la nozione espressa dal gerundivo presupporrebbe comunque una
funzione pubblica dei due costruttori in quanto l’assunzione di una cura implica
una responsabilità amministrativa: non avremmo però elementi per definire il
tipo di amministrazione nella quale essi operarono.
38
Paci 1993, 71-82.
316
appunti per la ‘riscoperta’ di cil, IX 5311
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318
FRANCA MASELLI SCOTTI
Riflessioni sul paesaggio aquileiese all’arrivo dei Romani
Spunti per questo contributo sono stati suscitati dall’interesse per il paesaggio
di Aquileia a seguito di recenti indagini non invasive1 e dal ripensare quanto è
noto circa le vie d’acqua che creavano un circuito navigabile attorno alla città2. A
partire dagli anni Novanta del secolo scorso un vivace interesse per la conoscenza del paesaggio antico aquileiese ha suscitato una serie di studi multidisciplinari; l’antesignano è stato il progetto SARA (Subacquea Archeologia Romana
Aquileia), promosso dall’allora Ministero per i Beni Culturali e coordinato
dal locale Museo archeologico in collaborazione con le Università di Udine,
Dipartimento di Georisorse e Territorio, e di Trieste, Dipartimento di Scienze
Geologiche, Ambientali e Marine. Il progetto comprendeva la realizzazione di
sondaggi geognostici o per meglio dire geoarcheologici3. I risultati erano implementati dai dati acquisiti con ricerche d’archivio nel Museo archeologico nazionale di Aquileia e da ricognizioni di superficie in un territorio più vasto che, a
partire dal perimetro delle mura urbiche, si estendeva ai limitrofi territori di
Fiumicello e Terzo4.
Nel 2001 gli studi, in particolare la ricerca sul reticolo idrografico d’Aquileia, hanno avuto nuovo impulso5 grazie alla possibilità di applicare tecnoloGroh 2011.
Maselli Scotti c.d.s. a.
3
Sui primi risultati nella zona settentrionale della città e sul fiume che l’attraversava cf.
Maselli Scotti - Paronuzzi - Pugliese 1999; si veda anche Carre - Marocco Maselli Scotti - Pugliese 2003; Maselli Scotti c.d.s. b.
4
Maggi - Oriolo 1999; in particolare sulla rete viaria cf. Maggi - Oriolo 2004.
5
Una nuova convenzione è stata stipulata non solo con studiosi italiani ma anche francesi,
in particolare: il ministero per i BAAAAS del Friuli Venezia Giulia, l’Università di Trieste
1
2
319
franca maselli scotti
gie geologiche anche innovative, invasive (carotaggi, scavi) e non (rilevamento
geomorfologico, rilevamento aereofotogrammetrico con immagini multi spettrali, prospezioni geofisiche). Si sono ottenuti così dati geomorfici di superficie
e litologici, paleontologici e geofisici di sottosuolo sempre più completi, ciò al
fine di ricostruire la successione paleoambientale e climatica dell’insediamento
antropico con una ben definita griglia cronologica, grazie anche alle datazioni al
radiocarbonio di campioni selezionati, oltreché dei resti archeologici rinvenutivi. I primi risultati che fanno il punto sulle conoscenze del reticolo idrografico
aquileiese sia da un punto di vista archeologico che ambientale sono già stati
parzialmente pubblicati6. A queste specifiche ricerche si aggiungono i dati di
alcuni scavi recenti quali quelli condotti all’Essiccatoio nord dove si è raggiunto, a circa 3/3,50 m di profondità, l’abitato protostorico, sorto nel IX-VIII sec.
a.C.7, e la riconsiderazione di nuovi rinvenimenti e di più antica data dove la
presenza di zone umide ha reso necessaria, in età romana, una serie di modifiche
del paesaggio naturale con l’attuazione di bonifiche8 e la realizzazione di canali,
fossae9. Foto aeree e prospezioni geofisiche, magnetiche e georadar, queste ultime
effettuate nel 201110, hanno aperto nuove prospettive sulla zona settentrionale
e occidentale della città, anche se la mancanza di una verifica archeologica ne
impedisce la collocazione in una precisa griglia cronologica, inficiando quindi
la conoscenza dell’evoluzione urbanistica di età romana.
Dai dati in nostro possesso risulta che in base all’analisi della micromorfologia della piana su cui sorgerà Aquileia, eseguita sulla base dei dati altimetrici
della Carta Tecnica Regionale (scala 1: 5.000), vi sono delle aree in rilievo a
nordest della città, in corrispondenza dei dossi fluviali del Natiso cum Turre e
dell’Isonzo e aree depresse a occidente nella zona di canale Anfora. A sud si
(Dipartimento di Scienze Geologiche, Ambientali e Marine, Geolab, Istituti di Fisica, Dipartimento di Studi Umanistici), Centre Camille Jullian, CNRS-Université de Provence, l’Université Paris 7 - Denis Diderot e l’École Française de Rome.
6
Maselli Scotti - Degrassi - Franchini - Montenegro - Pugliese 1996;
Arnaud-Fassetta et alii 2003; Carre 2004.
7
Sull’abitato Maselli Scotti 2004; Maselli Scotti - Rottoli 2007; sulle indagini
archeobotaniche ad Aquileia, quartieri settentrionali, cf. Rottoli 2001; sul paesaggio aquileiese, in particolare prima dell’arrivo dei Romani cf. Maselli Scotti c.d.s. b.
8
Maselli Scotti 1998; Maselli Scotti c.d.s. a.
9
Notizia sulle recenti indagini a Canale Anfora: Maselli Scotti 2005.
10
Cf. Groh 2011 dove si tiene conto anche dei dati delle foto aeree; cf. Buora - Roberto
2010.
320
riflessioni sul paesaggio aQuileiese all’arrivo dei romani
stagliano i rilievi delle cosiddette dune di Belvedere-San Marco di genesi ancora
molto dibattuta. Si individuano comunque una serie di dossi e depressioni di
forma allungata nel sottosuolo che evidenziano lo sviluppo del reticolo fluviale
recente e antico.
Quanto al sito della città romana va ricordato che alla fine del IX-VIII secolo,
nella zona settentrionale a nord del foro, esistevano dossi fluviali in prossimità
di un ambiente umido in riva ad un antico fiume. Qui sorse l’abitato, rinvenuto
ad una profondità di circa 3/3,5 m sotto l’attuale piano di campagna, costruito
su una grande bonifica, fatta con tavole e travi fondate su pali di quercia, similmente a quanto avviene nei centri coevi del vicino Veneto orientale, Concordia
e Oderzo11; analisi al C14 calibrato pongono la bonifica fra il 916 e il 790.
Le esondazioni del vicino fiume determinarono una prima distruzione alla
fine dell’VIII - inizi del VII secolo e, nel V- inizi IV secolo, quella definitiva;
dopo, appena nel II secolo, il sito venne rioccupato dai Romani.
Per la conoscenza del paesaggio si possono ricordare gli elementi desunti dai
resti carpologici, combusti e non, riferibili all’abitato e al primo insediamento
romano in età repubblicana. La vegetazione indica come la zona fosse soggetta
a forti variazioni del livello d’acqua tipica delle sponde dei fiumi o dei laghi.
La documentazione rilevata è più completa per l’età romana quasi vi fosse una
maggior influenza di acque circolanti o stagnanti in quel periodo, esito forse
di una bonifica in zone che, dopo l’abbandono nel IV sec. a C., erano divenute
stagnanti12. La vegetazione è quella tipica dei depositi sabbiosi e limosi fluviali, tuttavia vi sono indizi della coltivazione di cereali vestiti e della presenza di
faggi, forse indiziaria di una limitrofa copertura forestale.
Ulteriori dati per conoscere il paesaggio aquileiese si possono dedurre sia
dalla localizzazione in età romana di alcuni complessi monumentali che dai
lavori di bonifica del territorio; esempi del primo caso sono il foro e l’anfiteatro, entrambi posti in bassure. Per il foro13 gli scavi hanno permesso di appurare che la zona scelta era una piana oggetto di frequenti esondazioni, deducibili
dalla sedimentazione massiva di limi argillosi e sabbie pelitiche grigie, accertate, mediante un carotaggio, sino alla profondità di 11 m. A sud del complesso
forense il decumano, voluto in età augustea dall’evergetismo di Aratria Galla,
Maselli Scotti 2004.
In particolare si veda l’analisi di Rottoli in Maselli Scotti - Rottoli 2007,
805-896.
13
Muzzioli 2004, in particolare 132-134.
11
12
321
franca maselli scotti
viene realizzato in una zona umida, confermata dal sondaggio 5, per cui è stata
necessaria una bonifica con anfore Dressel 6A14.
Altro elemento caratterizzante il paesaggio aquileiese è dato dai corsi d’acqua,
che, in età romana, vengono utilizzati per creare, nella zona esterna alla città, un
articolato sistema stradale dove la viabilità terrestre è strettamente connessa a
quella che sfruttava vie d’acqua naturali e artificiali15.
La rete idroviaria aquileiese, di conseguenza, si configura come un circuito
chiuso attorno alla città che permette di circumnavigare anche con l’utilizzo
di barche trainate da animali e persone lungo le vie helciariae16, similmente a
quanto documentato in altri centri nord adriatici. Tra di essi spicca Altino17 che
risulta circondata da un anello di corsi d’acqua, monumentalizzato nel corso
della I metà del I sec. a.C.
In questo sistema una particolare attenzione va posta a Canale Anfora che,
posto in prosecuzione ideale del decumano massimo aquileiese, si inserisce
perfettamente nella pianificazione territoriale. Il canale è una creazione in gran
parte artificiale che utilizza corsi d’acqua esistenti e già frequentati anticamente
come attesta l’abitato dell’età del bronzo recente18; la sua realizzazione, oltre a
motivazioni di navigazione commerciale, risponde ad esigenze di salubrità dei
luoghi attraverso lo sgrondo delle acque del territorio, problema che verrà riproposto al tempo di Maria Teresa per le bonifiche in questa zona. Solamente due
indagini, relative sempre al tratto limitrofo alla città, hanno sinora interessato il
canale; quelle effettuate nel 2004-05 che hanno investito la parte più prossima
alla città, a 400 m dalle mura tardoromane19, in prosecuzione e su impulso del
recupero effettuato, per un tratto di 300 m circa, da L. Bertacchi nel 1988 in
occasione di lavori idraulici effettuati dal Consorzio di Bonifica, ente che ha
finanziato le recenti indagini. Lo scavo ha interessato la metà meridionale del
Sulle bonifiche con anfore ad Aquileia cf. Maselli Scotti 1998; in particolare sulla
zona cf. Maselli Scotti 1998a, 107.
15
In particolare riassume la situazione Carre 2004 e, più recentemente, Groh 2011; da
ultimo cf. Maselli Scotti c.d.s. b.
16
Bertacchi 2003, 12 ipotizza percorsi lungo la riva sinistra del porto, del Natisone a
Panigai, dell’Anfora e probabilmente del fiume Terzo.
17
Si vedano i risultati del convegno tenutosi nel 2009, Altino 2011.
18
Il sito, indagato negli anni ’80 del secolo scorso (cf. Gnesotto 1981), è stato oggetto di
indagini nel 2013 da parte dell’Università di Udine sotto la direzione di E. Borgna.
19
Per una prima notizia cf. Maselli Scotti 2005.
14
322
riflessioni sul paesaggio aQuileiese all’arrivo dei romani
canale per una lunghezza di 30 m e una larghezza di 16 m; in base agli elementi
dedotti dallo scavo effettuato con metodo stratigrafico, risulta che, in questo
tratto, il canale è il risultato di un unico intervento antropico, realizzato a scapito
di suoli argillosi che apparentemente non recano traccia di precedenti frequentazioni (US 34, 31, 6), ma che ad una attenta indagine dei resti carpologici, ivi
rinvenuti, rivelano attività antropiche nelle vicinanze. Quanto ai termini cronologici del canale nella zona indagata, in base ai materiali recuperati in particolare
anforacei e servizi da tavola di provenienza orientale e africana, questi sembrano
compresi tra la metà - seconda metà del I sec. d.C. e la fine del III- inizi IV sec.,
quando il canale venne disattivato, almeno nel tratto esaminato, con lo scarico di
macerie (US 19,18, 17, 16, 5, 2) a matrice sabbiosa provenienti da bacini caratterizzati da materiali edilizi in cotto e frammenti di materiali ceramici e anforacei.
A questa proposta cronologica non sembrano d’ostacolo i materiali recuperati
in modo selettivo20 da L. Bertacchi nel tratto ben più vasto che precede quello indagato. Quanto ai materiali rinvenuti si deve segnalare la preponderanza
delle anfore, che non comparivano fra i reperti raccolti precedentemente, forse
per una scelta operata sul campo. Le anfore provengono dall’Italia, dall’Africa
settentrionale, dal Mediterraneo orientale e dal Pontus Euxinus, area che in
epoca romana, specialmente nella media età imperiale, doveva rivestire un ruolo
non certo marginale nell’economia del Mediterraneo antico.
Il vasellame ceramico comprende servizi in terra sigillata italica, gallica,
orientale e africana, vasellame potorio a pareti sottili, coppe corinzie, oltre alla
presenza di ceramica da cucina sia orientale che africana. Le particolari condizioni anaerobiche dei depositi hanno consentito anche la conservazione di
materiali organici quali legno, osso, cuoio.
Dall’esame di questi elementi sembra potersi delineare un quadro delle
importazioni molto vasto e articolato, indiziario di una pluralità di bacini di
approvvigionamento, che ben si accordano all’importante ruolo emporiale
della città di Aquileia tra la seconda metà del I sec. d.C. e la fine del III.
Notizie sugli stanziamenti lungo il canale ci vengono fornite indirettamente
dall’esame dei numerosi resti faunistici rinvenuti e determinati dal Laboratorio
di Archeobiologia dei Musei Civici di Como. Il maggior numero di esemplari
appartiene a bovini a cui seguono i suini, gli ovini, i caprovini e gli equini; tali
Mancano completamente i materiali anforacei e non sono riuscita a trovare le lucerne
‘di tradizione ellenistica’ databili alla seconda metà del I sec. a.C., menzionate da Bertacchi
2000, 31.
20
323
franca maselli scotti
dati, confortati dalla presenza nel canale di letame bovino e semi/frutti derivanti
da prati-pascoli, hanno consentito di ipotizzare un loro stanziamento presso il
canale sin dalla sua costruzione (vedi supra). Queste presenze potrebbero essere
legate allo sfruttamento carneo, in quanto i resti sono esiti di macellazione; non
si può escludere, tuttavia, che rappresentino anche lo scarto secondario per la
lavorazione dell’osso e del pellame.
Si deve rammentare, inoltre, che l’opera si colloca in un paesaggio antropizzato, come è attestato dal grande quantitativo di reperti di cereali frantumati
rinvenuti nello strato alla base del canale, per altro privo di manufatti; queste
presenze possono essere dovute ad un campo nelle vicinanze, oppure essere il
residuo di una lavorazione di cereali, oppure ancora essere lo scarico di materiali
in rapporto a latrine, o rifiuti, o infine attestare, lungo il canale, impianti per la
lavorazione e lo stoccaggio di cereali21.
Tutto ciò fornisce un ulteriore apporto alla conoscenza delle attività, che
si svolgevano lungo il canale, dove alle evidenze monumentali, già note, ora
si possono aggiungere i dati acquisiti dalle recenti misurazioni geofisiche che
hanno fatto prospettare un impianto portuale sul lato meridionale del canale
Anfora22.
Si deve tuttavia osservare che lo stanziamento di questi animali potrebbe riaprire il problema della localizzazione del forum pequarium menzionato
in un’iscrizione di età repubblicana, rinvenuta fuori contesto23, che ricorda la
realizzazione, su decisione del senato locale, di una bretella di collegamento fra
il forum pequarium e la via Postumia. Il tracciato finale di questa importante
arteria è da taluni considerato coincidente con il tracciato della strada diretta
a nord, probabile cardine massimo della centuriazione aquileiese, da altri con
quello della via Annia, la cui datazione è particolarmente discussa24.
Per la localizzazione ad Aquileia dell’importante mercato si sono formulate due ipotesi25: l’una lo pone a sud della città, tesi rafforzata dal rinvenimento fuori contesto di un’ara, di età tardo repubblicana, dedicata ad Ercole nel
Tali dati sono forniti nello studio ancora inedito di M. Rottoli, Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como, sui resti carpologici.
22
Groh 2011, 161-162.
23
CIL, V 8313 = CIL, I² 2197 = ILLRP 487a = Immagines 208 = InscrAq 5.
24
Riprende le due ipotesi Tiussi 2004, 260-261.
25
Cf. Bonetto 2007 dove vengono esaminate le problematiche dell’allevamento e dello
sbocco commerciale del bestiame ad Aquileia.
21
324
riflessioni sul paesaggio aQuileiese all’arrivo dei romani
vasto complesso venuto in luce a sud del fiume Natissa. A questa identificazione
sembrerebbero d’ostacolo la cronologia del complesso che non sembra risalire
all’età repubblicana e la funzione residenziale, rilevata in alcuni ambienti, anche
mosaicati, apparsi in scavi successivi26. Un’altra possibile collocazione per il
forum pequarium è prospettata nella zona settentrionale, dove la connessione
con la via Postumia, identificata col cardine massimo, sarebbe stata più breve e
avrebbe permesso un più agevole trasferimento delle greggi secondo percorsi già
usati dall’età del ferro, se non prima in relazione anche all’approvvigionamento
di sale, elemento indispensabile per l’allevamento. Il foro pequario aquileiese
dunque avrebbe potuto trovarsi a nord della città, al termine di un percorso
contraddistinto dai piccoli luoghi di culto a Ercole a Cisis, presso Strassoldo, e a
Sevegliano; i rinvenimenti di canale Anfora potrebbero avvalorare quest’ultima
ipotesi in quanto il sito presentava caratteristiche adeguate quali la vicinanza
con un percorso adatto alla transumanza nonché la presenza di acqua e pascoli27.
Accogliendo questa ipotesi si rafforzerebbe la tesi che pone la realizzazione di
canale Anfora poco dopo l’accrescimento della colonia nel 16928; i dati archeologici in nostro possesso, tuttavia, ci riportano alla metà del I sec. d.C., periodo che vede una particolare attenzione alle strutture pubbliche, quali il foro
e la monumentalizzazione dell’attiguo porto canale29; la parte più vicina alla
città del Canale Anfora potrebbe essere stata realizzata, o ristrutturata, proprio
nell’ambito di questo progetto di rivitalizzazione di Aquileia.
Maselli Scotti - Tiussi 1999.
Da ultimo Maselli Scotti - Rubinich 2009, 107-108.
28
Strazzulla 1989; Bertacchi 1979, 274-275 prospetta l’età tardo repubblicana,
tra Cesare e Ottaviano, per la rispondenza delle caratteristiche del canale alle prescrizioni di
Vitruvio (I 4) circa la realizzazione di condizioni di salubrità nelle città poste in zone paludose
nell’Italia Settentrionale.
29
Carre - Maselli Scotti 2001, 228.
26
27
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franca maselli scotti
326
riflessioni sul paesaggio aQuileiese all’arrivo dei romani
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329
ATTILIO MASTROCINQUE
Marsia e la civitas Romana
Mi sarebbe piaciuto offrire al carissimo amico Gino Bandelli un lavoro più
ampio di storia e diritto , ma non ho avuto tempo a sufficienza. Posso offrire solo
un breve contributo su una figura simbolica della libertà delle città nel mondo
romano: Marsia, che divenne l’emblema dei municipi e delle colonie.
Per una città che faceva parte della romanità l’acquisizione della libertà corrispondeva con l’acquisizione della cittadinanza romana a pieno titolo. All’interno di questo processo di estensione della civitas, specie dopo la guerra Sociale
e la lex Iulia de civitate, la figura del satiro greco-anatolico fu oggetto di rivisitazioni in chiave ideologica quasi totalmente svincolate dalla tradizione greca.
Due famosi passi del commento di Servio all’Eneide e un passo dei Saturnali
di Macrobio riferiscono quanto segue:
quod autem de Libero diximus, haec causa est, ut signum sit liberae civitatis: nam
apud maiores aut stipendiariae erant, aut foederatae, aut liberae. sed in liberis
civitatibus simulacrum Marsyae erat, qui in tutela Liberi patris est.1
Questa è la ragione se abbiamo che Libero sia il segno di una città libera: infatti
al tempo dei nostri antenati le città erano o stipendiarie, o federate, o libere. Ma
nelle città libere c’era una statua di Marsia, che era sotto la protezione di Liber
pater.
1
Serv. Aen. III 20; la stessa cosa si trova ripetuta nel Mythogr. III 2, 1: sed et libertatis eum deum
esse plerique sanxerunt: unde inter initia urbium condendarum cum ceteris numinibus auspicibus coeptorum operum, illi quoque, ut libertatem civibus conservaret, sacrificabatur. Civitates enim aut stipendiariae erant, aut foederatae, aut liberae. In liberis autem civitatibus in signum libertatis simulacrum
Marsyae erat, qui in tutela Liberi patris est.
331
attilio mastrocinQue
patrique Lyaeo {dictus Lyaeos ἀπὸ τοῦ λύειν, quod nimio vino membra solvantur}. Qui, ut supra diximus, apte urbibus libertatis est deus; unde etiam Marsyas,
eius minister, est in civitatibus, in foro positus, libertatis indicium, qui erecta
manu testatur nihil urbi deesse.2
Al padre Lyaeo (aggiunta: è detto Lyaeus da lyein, perché le membra si sciolgono
a causa del troppo vino). Egli, come abbiamo già detto, giustamente è il dio della
libertà delle città. Per questa ragione anche Marsia, suo inserviente, si trova nelle
città, nel Foro, come segno della libertà, il quale attesta con la mano alzata che
alla città non manca nulla.
Lyaeus vero, id est Liber, urbibus libertatis est deus, unde Marsyas eius minister
in civitatibus libertatis est indicium.3
Lyaeo, cioè Libero, è il dio della libertà delle città, e per questo Marsya, suo ministro, è segno di libertà nelle città.
Charax di Pergamo fornisce una testimonianza lievemente diversa:
Φασὶ γάρ ποτε τὸν Διόνυσον ἐπὶ τὸν πρὸς Τυρσηνοὺς ἀπιόντα πόλεμον τοὺς
γεγηρακότας τῶν Σειληνῶν μετὰ τῆς ἀχρήστου ἡλικίας ἐν Ἰταλίᾳ καταλιπεῖν·τοὺς δὲ
τραπῆναι ἐπὶ ἀμπέλων ἐπιμέλειαν, καὶ εὔοινον γενέσθαι τὴν Ἰταλίαν· τοὺς δὲ γεωργοὺς
οἱ Ἰταλοὶ κολώνους ἐκάλουν· ὡς καὶ ἱδρύσασθαι τοιαῦτα ἀγάλματα οἰνοφοροῦντα
ἐν ἀσκοῖς. Ἐσπούδαζον δὲ, καὶ ἃς ᾤκουν πόλεις οἱ Ἰταλοὶ, τιμὴν ταύταις παρέχειν,
ἀνιστάντες δαίμονά τινα ὡς πρεσβύτην ὅμοιον Σειληνῷ, ἵνα καὶ τῇ κοινωνίᾳ τῶν
ἱερῶν συγκραθῶσιν. Αἱ δὲ πέδαι περιτιθέμεναι δηλοῦσι τὸ ὑπήκοον, τῷ συνδεδέσθαι
αὐτοῖς τὰς πόλεις τὰς ἐχούσας τὰ τοιαῦτα ἀγάλματα.4
Dicono infatti che un tempo Dioniso, partendo dopo la guerra contro i Tirreni, lasciò in Italia i Sileni più vecchi e quelli troppo giovani per essere arruolati.
Questi si dedicarono alla viticultura e l’Italia ebbe buoni vini. Le genti italiche
chiamano coloni i contadini, e per questo eressero statue di portatori di otri di
vino. Gli Italici che abitavano le città si premurarono anche di venerarle, e innalzarono statue di un demone simile al vecchio Sileno, affinché fossero uniti anche
nella comunanza dei culti. I ceppi che lo legano indicano la sua soggezione,
poiché le città che hanno tali statue sono unite a loro.
2
Serv. Aen. IV 58.
Macr. III 12.
4
Charax FGrHist 103, fr. 31.
3
332
marsia e la civitas romana
Un recente contributo dei miei amici e colleghi Alfredo Buonopane e Patrizia Basso5 ha messo in luce come un passo di Isidoro di Siviglia fornisca l’unica
testimonianza che leghi la statua di Marsia e la sua simbologia con la libertà delle
città nel mondo romano. Scrive infatti questo autore:
Marsi gens Italiae dicta a comite Liberi Marsya, qui usum illis vitium ostendit, et
ob hoc illi statuam fecerunt, quam postea Romani victis Marsis tulerunt.6
I Marsi sono una popolazione dell’Italia che prende il nome da Marsia, compagno di Libero, il quale insegnò loro la coltivazione della vite. Per questo i Marsi
gli fecero una statua. Dopo che i Marsi furono sconfitti, i Romani la portarono
a Roma.
Con una certa prudenza, Basso e Buonopane avanzano l’idea che la statua di
Marsia, raffigurata per la prima volta nell’82 su un denario di L. Marcius Censorinus (fig. 1)7, fosse quella portata durante la guerra Sociale, o guerra Marsica
che dir si voglia. In questa sede vorrei chiarire solo due punti relativi alle tre testimonianze: cosa si intendeva qui parlando di libertas delle città e cosa dicendo
che alle città non mancava nulla.
Fig. 1. Denario emesso a nome
di L. Marcius Censorinus raffigurante Marsia.
Già il Paoli8 aveva messo in luce l’inconsistenza del rinvio di Servio all’antica
classificazione delle città: apud maiores aut stipendiariae erant, aut foederatae,
aut liberae. Tale classificazione infatti si riferiva alle civitates peregrinae, mentre
5
Basso - Buonopane 2008, in part. 146-147.
Isid. orig. IX 2, 88.
7
Crawford 1974, nr. 363, 1d.
8
Paoli 1938 (che confermò un’intuizione già di Eckhel); cf. più di recente Veyne 1961, e
Basso - Buonopane 2008.
6
333
attilio mastrocinQue
le molte testimonianze numismatiche, epigrafiche e archeologiche relative alle
statue di Marsia sono tutte riconducibili a municipi o colonie romane, sia in
Italia che in molte province. Erano dunque le città che avevano ottenuto la
civitas Romana che si dotavano di una statua di Marsia9. La statua del Marsia
di Paestum e il bassorilievo degli anaglypha Traiani che mostra il Marsia del
Foro romano raffigurano Marsia con i ceppi alle caviglie, come, del resto, esso è
descritto anche da Charax di Pergamo. Però i ceppi non risultano legati da catene, probabilmente perché si trattava di Marsia liberato dalla prigionia. Charax,
in questo, sembra non avere capito che i ceppi non sono simbolo di servitù, ma
della fine della servitù, cioè della libertà.
La statua di Paestum assume il suo valore simbolico non come semplice
simbolo di una colonia, ma piuttosto dell’acquisizione della cittadinanza romana e della trasformazione in municipium10. Il significato liberatorio diverrebbe
ancora più completo se si potesse prendere seriamente in considerazione una
notizia del liber coloniarum11, secondo cui Paestum era divenuta praefectura. Lo
status di praefectura implicava una soggezione diretta a Roma e una privazione
di autonomia. Nelle praefecturae il magistrato giurisdicente non era più il quattuorviro o altro magistrato analogo di tradizione locale, ma un praefectus nominato annualmente dal pretore romano. Un simile statuto era imposto in genere
dai Romani alle città sottomesse con la forza. In simili città Marsia non avrebbe potuto che essere concepito in catene. Tuttavia ci manca qualunque notizia
relativa ad una defezione di Paestum e ad una sua conseguente sottomissione e
perdita di indipendenza. Purtroppo la sola analisi stilistica della statua non può
fornire certezze cronologiche.
La statua di Marsia in ceppi è una creazione italica, indipendente dal mito
greco. Essa è simile alle varie statue di divinità legate o incatenate, conosciute
9
Coarelli 1985, 95-100 ritiene che la statua del Marsia trovata nel Foro di Paestum risalisse
all’epoca della fondazione della colonia latina di Paestum, nel 273 a.C., e che l’uso simbolico di tale
tipo di statue fosse nato presso le colonie di diritto latino. La cronologia della statua pestana però
non è affatto sicura, e potrebbe benissimo scendere al I secolo a.C., come sosteneva Piganiol 1944.
Cf. bibliografia sulle diverse proposte di datazione in Coarelli 1985, 96 n. 27; Denti 1991, in
part. 159 n. 88; Basso - Buonopane 2008, 152.
10
Cf. Piganiol 1944, 273.
11
Lib. col. I p. 209 Lachmann: in provincia Lucania praefecturae. Iter populo non debetur. Vulcentana, Pestana, Potentina, Atenas et Consiline, Tegenensis.
334
marsia e la civitas romana
nel mondo antico12. Incatenare Marsia fu sentito come un simbolo dell’incatenare i Marsi, visto che il collegamento pseudo-etimologico fra Marsia e i Marsi
è attestato già dall’annalista Cneo Gellio13. Togliere le catene a Marsia era poi il
simbolo della liberazione dei Marsi, che giustamente è stata connessa con la fine
della guerra Marsica14.
Se le cose stanno così, è possibile dare una spiegazione della libertà cui fanno
riferimento gli autori che menzionano le statue di Marsia e anche della relativa
menzione del fatto che alle città adornate dal Marsia non mancava nulla.
Libertà non era la qualifica delle civitates peregrinae liberae, ma delle città che
ottenevano la civitas Romana. In un modo o in un altro, l’accento cade sempre,
nelle fonti da cui siamo partiti, sull’essere liberi. Civitas e libertas erano due
concetti profondamente connessi uno all’altro. Ottenere la libertà e ottenere
la cittadinanza romana erano due fatti concomitanti per tutti i servi liberati, ma
anche per le comunità che vedevano trasformata la loro civitas sine suffragio in
civitas optimo iure15.
Cicerone afferma chiaramente che la libertà era un elemento connaturato
con la cittadinanza romana:
Aliae nationes servitutem pati possunt, populi Romani est propria libertas.16
In tal modo diventa anche comprensibile quanto afferma Servio, dicendo:
Marsyas … erecta manu testatur nihil urbi deesse.
Una città sottomessa ai Romani, una di quelle i cui cittadini erano stati considerati cives sine suffragio, mancava di magistrati civici, perché in genere i Romani
la facevano amministrare da praefecti, nominati a Roma. Le mancava un senato
municipale che potesse prendere decisioni in autonomia, le mancava un territorio civico adeguato, visto che, in genere, i Romani punivano le città ribelli privandole di una parte consistente di territorio. Questi fattori di indipendenza civica17,
Cf. MastrocinQue 1981.
Gell. hist. 8 Peter = 7 Chassignet.
14
Tibiletti 1962; Letta 1972, 108; Basso - Buonopane 2008, 146.
15
Mommsen 1885, in part. 255; Wirszubski 1957, 11-12 e 102-109; Levy 1961.
16
Cic. Phil. VI 19.
17
Sui quali hanno recentemente concentrato la loro attenzione Bandelli - Chiabà 2005 e
Bandelli - Chiabà 2008.
12
13
335
attilio mastrocinQue
e molti altri ancora, venivano ripristinati nel momento in cui la città era trasformata in municipio (o, eventualmente, in colonia). Anche dal punto di vista
urbanistico il municipio si dotava delle strutture monumentali necessarie per lo
svolgimento della vita politica locale.
Il mito di Marsia era diffuso nell’Italia antica, allontanandosi dai modelli
greci, prima della guerra Sociale, ma esso assunse allora valori nuovi. Marsia era
entrato a far parte delle leggende centro-italiche di Ercole.
Racconta infatti Solino:
Caco abitò il luogo chiamato Saline, dove ora c’è la porta Trigemina, come ha
riferito Gellio. Fu allora, quando venne come ambasciatore del re Marsia, insieme al suo compagno frigio Megale, che egli fu imprigionato e, liberatosi dai legami, tornò da dove era venuto. Occupò con grandi presìdii un regno in Campania, presso il Volturno, ma quando osò metter mano anche alle terre concesse agli
Arcadi, egli fu sconfitto da Ercole, che per caso si trovava in quei luoghi a capo di
un esercito. I Sabini accolsero Megale e da lui impararono la dottrina augurale.18
Un racconto evemeristico analogo ritorna anche in Dionisio di Alicarnasso:
Quando Eracle prese possesso dei passi, dopo aver costretto i Liguri alla resa,
alcuni popoli, di loro spontanea volontà, gli affidarono le città, soprattutto quelli
di stirpe greca o non dotati di forze sufficienti, altri, la maggior parte, furono
sottomessi con la guerra e l’assedio. 2 Fra questi ultimi, vinti in battaglia, era
anche quel Caco della tradizione mitica romana, sovrano decisamente di razza
barbarica e capo di selvaggi. Si tramanda che costui entrò in conflitto con Eracle,
poiché questi si era stabilito in luoghi fortificati ed era, per questa ragione,
minaccioso nemico per i confinanti. Quando venne a conoscenza che Eracle si
era accampato nella pianura vicina, preparatosi all’agguato secondo la tattica dei
briganti, nell’oscurità piombò all’improvviso sull’esercito immerso nel sonno e,
afferrato tutto il bottino che trovò, se lo portò via. 3 Infine, chiuso in assedio
dai Greci, che avevano preso d’assalto le fortezze, mentre da solo ancora tentava
18
Sol. 1, 8: qui Cacus habitavit locum, cui Salinae nomen est: ubi Trigemina nunc porta. hic, ut
Gellius (hist. 7 Peter = 6 Chassignet) tradit, cum a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu
Marsyae regis, socio Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et unde venerat redux,
praesidiis amplioribus occupato circa Vulturnum et Campaniam regno, dum attrectare etiam ea audet,
quae concesserant in Arcadum iura, duce Hercule qui tunc forte aderat oppressus est. Megalen Sabini
receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti.
In questo racconto si è riconosciuta l’eco della guerra Sociale: Rawson 1976, 716; Chassignet 1999, L.
336
marsia e la civitas romana
di opporsi ai nemici, fu soppresso. Le sue fortezze furono rase al suolo e le terre
limitrofe furono assegnate agli altri Greci che si erano uniti spontaneamente ad
Eracle, alcuni Arcadi con Evandro e Fauno, il re degli Aborigeni. Si potrebbe
congetturare che i Greci rimasti in queste terre, gli Epei, gli Arcadi di Feneo e i
Troiani fossero lasciati a sorvegliare la regione.19
Jocelyn Penny Small20 ha riconosciuto nell’iconografia etrusca, sia di epoca
classica che di epoca ellenistica, le figure di Marsia e di Caco, il quale comparirebbe come un indovino, o profeta, e non come un ladro di bestiame, quale
venne descritto da Virgilio. Qui non tratteremo di Caco, e ci limiteremo al solo
Marsia, il quale era considerato come un lidio o un frigio venuto in Italia al
tempo di Fauno. Scrive infatti Plinio:
Gellianus auctor (hist. 8 Peter = 7 Chassignet) est lacu Fucino haustum Marsorum oppidum Archippe, conditum a Marsya duce Lydorum.
Secondo l’autore Gellio, Archippe, città dei Marsi fondata da Marsia, comandante dei Lidii, fu sommersa dal lago Fucino.21
I miti lidii di Marsia e del Sileno (che con Marsia tendeva a identificarsi)
erano popolari a Roma, tanto che furono usati per concepire la leggenda di
Numa che fa prigionieri Fauno e Pico, per farsi rivelare da loro l’arte della procuratio dei fulmini. Scrive infatti Ovidio:
Numa giunge in questi luoghi (frequentati da Fauno e Pico), immola una pecora presso la fontana, e quindi, posando sui bordi di questa delle coppe di vino
profumato, si nasconde in fondo ad una grotta col suo seguito. Le due divinità
campestri giungono alla fontana all’ora abituale, e bevono il vino a grandi sorsi.
L’ubriachezza li porta al sonno. Numa esce dalla grotta e lega i loro polsi. Al
risveglio quelli cercano di liberarsi, ma gli sforzi non fanno che stringere i nodi.
«Dei di queste foreste – grida Numa – perdonate la mia audacia! Non ho alcuna
intenzione di compiere un atto sacrilego. Desidero solo conoscere da voi il modo
di scongiurare il sinistro presagio di un fulmine».22
Servio, per parte sua, notava come Virgilio si fosse ispirato allo storico greco
Teopompo nell’accennare alla storia del Sileno addormentato:
19
Dion. Hal. I 42, 1-3 (trad. Guzzi).
Small 1982, in part. capp. I e II.
21
Plin. nat. III 108, 3.
22
Ov. fast. III 295-310.
20
337
attilio mastrocinQue
Questa leggenda su Sileno non fu inventata da Virgilio, ma questi la prese da
Teopompo. Egli infatti dice che Sileno fu preso dai pastori del re Mida, mentre
dormiva dopo essersi ubriacato. Essi, avvicinatisi di nascosto, legarono il
dormiente; in seguito, liberato, egli discuteva con Mida che lo interrogava, delle
cose della natura e dei fatti antichi...23
Marianna Scapini24 ha notato come le leggende lidie e frigie furono una fonte
di ispirazione privilegiata per concepire storie romane fittizie, collocate all’epoca delle origini o al tempo dei re di Roma. Era infatti la leggenda troiana che
rendeva tali leggende particolarmente gradite, perché i Lidii e i Frigi erano ritenuti parenti stretti dei Troiani.
È interessante notare come il mito stesso di Marsia, ad un certo punto, fu
integrato nel mito troiano di Roma. Scrive infatti Servio:
Sciendum tamen, sicut veteres auctores adfirmant, peritissimos auguriorum et
Aeneam et plurimos fuisse Troianos. non nulli autem dicunt a Marsya rege missos
e Phrygia regnante Fauno, qui disciplinam auguriorum Italis ostenderunt.25
Ma bisogna sapere che, come affermano gli autori antichi, Enea e molti
Troiani erano espertissimi nell’arte dell’augurio. Non pochi autori dicono che i
Troiani, mandati dal re Marsia dalla Frigia al tempo del regno di Fauno, insegnarono alle genti italiche l’arte degli augùri.
Erodiano26, per parte sua, afferma che Marsia era sepolto a Pessinunte, vale a
dire nel centro di culto della Magna Mater, la dea anatolica che Enea non aveva
pensato di trasportare in Italia, lasciando il compito ai Romani del tempo della
guerra Annibalica.
Nella prima metà del I secolo a.C. gli abitanti della Frigia erano orgogliosi
della loro leggenda di Marsia, come provano le emissioni monetali di Apamea
(fig. 2)27.
23
Serv. ecl. VI 13 (= Theopompus FGrHist 115, F 75b): sane hoc de Sileno non dicitur fictum a
Vergilio, sed a Theopompo translatum: is enim apprehensum Silenum a Midae regis pastoribus dicit,
crapula madentem et ex ea soporatum; illos dolo adgressos dormientem vinxisse; postea vinculis sponte
labentibus liberatum de rebus naturalibus et antiquis Midae interroganti disputavisse.
24
Scapini 2011, 292.
25
Serv. Aen. III 359.
26
Herodian. pros. cath. III 1, p. 243 Lentz: <Πεσσινοῦς> πόλις Γαλατίας … ἀπὸ πηγῆς ῥεούσης τοῦ
λόφου τοῦ ἐν ᾧ ἐτάφη ὁ Μαρσύας.
27
SNGCop, nr. 187; BMCPhrygia 78, nrr. 49-50.
338
marsia e la civitas romana
Fig. 2. Moneta bronzea tardoellenistica di Apamea raffigurante Marsia.
Il processo di integrazione dei popoli italici nel sistema romano e nella civitas
Romana portò a valorizzare i miti anatolici. Fu così che l’ascendenza paflagone
dei Veneti e la leggenda di Antenore furono in auge nel momento della romanizzazione, Telefo, l’eroe pergameno, e Capys, il compagno di Enea, furono
popolari a Capua al tempo dell’alleanza con Roma, gli Etruschi valorizzarono
la leggenda delle loro origini lidie e dimenticarono più antiche saghe di fondazione greca, per sottolineare la loro parentela coi Romani. Tacito ricorda come,
al tempo di Tiberio, le città della provincia d’Asia rivaleggiassero per ottenere
il diritto a ospitare il tempio del culto imperiale, e i delegati di Sardi, davanti al
Senato romano,
lessero un decreto etrusco, come attestato di consanguineità: infatti Tirreno e
Lido, figli del re Ati, avevano diviso il loro popolo, troppo numeroso; Lido rimase nel territorio dei padri e a Tirreno toccò di fondare nuove sedi; e dal nome dei
capi s’eran tratti i nomi dei popoli, l’uno in Asia e l’altro in Italia; e l’opulenza
dei Lidi era ancora cresciuta con l’invio di colonie in quella parte della Grecia,
che prese in seguito il nome di Pelope.28
Il Marsia rivale di Apollo fu dimenticato nelle leggende italiche, mentre fu
valorizzato il suo legame con Dioniso - Liber Pater. Leggende nate già prima
della guerra Sociale sembra parlassero di Marsia in relazione con una prigionia,
fosse quella del suo emissario Caco, fosse quella del suo alter ego Fauno. Le tradizioni romane conoscevano anche altre leggende di indovini fatti prigionieri,
come apprendiamo dal famoso esempio dell’aruspice etrusco catturato durante
l’assedio di Veio29. Evidentemente, con la fine della guerra Sociale e la concessione della cittadinanza ai Marsi e ai loro parenti Sanniti, la liberazione di Marsia
assunse un’enfasi nuova e un significato politico.
28
29
Tac. ann. IV 55.
Liv. V 15.
339
attilio mastrocinQue
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341
ELVIRA MIGLIARIO
A proposito di penetrazione romana e controllo territoriale
nel Piemonte orientale: qualche considerazione
Le brevi riflessioni che seguono traggono spunto da alcuni importanti saggi
che nel corso degli ultimi decenni hanno contribuito a chiarire, pur entro i limiti
imposti da fonti e documenti che restano comunque quantitativamente modesti, le tappe della penetrazione romana nella Cisalpina occidentale e le modalità
operative con cui fu assicurato il controllo del territorio1; l’area che qui brevemente si considererà corrisponde al Piemonte orientale, l’orizzonte cronologico
al periodo compreso fra la fase finale della guerra annibalica e gli anni ’30 del II
secolo a.C.
Premessa dell’avanzata romana verso il Nordovest fu la definitiva sottomissione degli Insubri, il gruppo etnico più forte fra quelli stanziati nella Cisalpina
occidentale e come tale in grado di imporsi sulle limitrofe entità galliche minori.
Già nel 222 a.C. le vittorie di M. Claudio Marcello a Clastidium e di Gn. Cornelio Scipione Calvo a Acerrae li avevano indotto a una resa che procurò loro una
pace a condizioni moderate2, di cui, secondo un’opinione largamente condivisa, avrebbero goduto anche i loro alleati. Fra costoro rientravano i Comenses di
Comum, i Laevi e i Marici di Ticinum e i Vertamocorii di Novaria, popolazioni
galliche e liguri su cui, a detta del geografo Tolomeo3, gli Insubri estendevano la
propria influenza, sicché l’ambito territoriale da loro controllato giungeva fino
al Po a sud, ai piedi delle Alpi a nord, all’Adda a est, e a ovest senz’altro fino al
In particolare, Gabba 1984, spec. 209-217; Bandelli 1998; Bandelli 2007, spec.
19-20; Bandelli 2009, spec. 184-205.
2
Plut. Marc. 7, 8.
3
Ptol. Geog. III 1, 33.
1
343
elvira migliario
Ticino, se non, più probabilmente, fino all’Agogna4; ne restavano dunque esclusi, oltre ai gruppi etnici cispadani (ad esempio, i liguri Anares/Anamares che
abitavano l’Oltrepò pavese), anche i transpadani più occidentali, quelli cioè −
per lo più di stirpe ligure − stanziati fra l’Agogna (o il Ticino) e la Sesia, nonché
fra la Sesia e la Dora Baltea.
Tale situazione generale fu tuttavia gravemente compromessa dall’invasione
annibalica del 218 a.C., come già divenne chiaro dopo la prima vittoria cartaginese al Ticino, che segnò l’inizio delle defezioni galliche ad Annibale5; negli
anni seguenti, a quello che di fatto fu il ritiro dei Romani dalla Pianura Padana,
indotto dalla necessità di inseguire e affrontare Annibale che scendendo lungo
la penisola trascinava il conflitto verso l’Italia centromeridionale, le popolazioni indigene reagirono variamente, anche con frequenti attacchi alle colonie di
Piacenza e Cremona, riuscendo tuttavia a conquistare la prima − la seconda resistette − soltanto nel 200 a.C., a guerra oramai terminata6. In ogni caso, all’inizio
del II secolo a.C. si manifestava la necessità di una riconquista completa della
Cisalpina7, con l’assoggettamento definitivo delle popolazioni sia galliche sia
liguri8, che fu intrapresa seguendo anche una nuova direttrice − dalla costa alla
Pianura Padana attraverso l’Appennino ligure − apertasi grazie all’alleanza con
Gabba 1984, 208. Il territorio fra Ticino e Agogna, l’odierna Lomellina, è detto ‘agro
insubre’ in Livio XXI 45, 3.
5
All’indomani della battaglia del Ticino (ottobre 218 a.C.) ambascerie di Galli chiesero
di incontrare Annibale (Liv. XXI 47, 7), evidentemente per aderire alla sua causa; alla vigilia
della successiva battaglia della Trebbia, 2200 fra fanti e cavalieri galli arruolati come ausiliari
nell’esercito romano si ribellarono e passarono ad Annibale, che li rinviò nelle rispettive civitates a fare opera di convincimento presso i connazionali (Liv. XXI 48, 1-3); i Cenomani furono
l’unica Gallica gens rimasta fedele ai Romani (Liv. XXI 55,4).
6
Nel 207 a.C., Piacentini e Cremonesi denunciarono gli attacchi e le devastazioni subiti
da parte dei vicini Galli col conseguente spopolamento delle due città e delle campagne (Liv.
XXVIII 11, 10-11); Piacenza infine cadde nel 200 a.C. sotto l’attacco congiunto di Boi, Insubri, Cenomani (che avevano anch’essi defezionato), nonché di altri gruppi minori, guidati dal
cartaginese Amilcare, che si volsero quindi all’assedio di Cremona, non riuscendo però a prenderla (Liv. XXXI 10, 2-11, 1-3): Gabba 1984, 212-213; Bandelli 1998, 149 e nn. 35-36.
7
De Sanctis 1923, 407.
8
Si mantiene qui convenzionalmente la distinzione fra Galli e Liguri presente nelle fonti,
benché la ricerca recente propenda oramai, come è noto, a includere il mondo ligure cisalpino
nell’area della celticità norditaliana: per una sintesi della questione rimando a Arnaud 2008,
spec. 305-308 e, in generale, a Bourdin 2012, 78-87 (Liguri); 89-97 (Celti).
4
344
penetrazione romana e controllo territoriale
Genua9. Nel 197 a.C., il console Q. Minucio Rufo attaccò varie popolazioni
insediate fra l’Appennino genovese e la pianura a sud del Po, conquistandone
gli oppida, fra cui Clastidium10; l’esito favorevole di tale campagna consentì al
console di dislocare le proprie forze unendole a quelle del collega G. Cornelio Cetego, impegnato fra Piacenza e Cremona contro gli Insubri e altri gruppi
minori alleati11.
La Cisalpina occidentale fu di nuovo direttamente coinvolta nel conflitto gallico nel successivo anno 196, quando gruppi di Boi, mossisi verso ovest
all’inseguimento dell’esercito romano che li aveva sconfitti sul loro territorio e
si dirigeva ora contro i loro alleati liguri, avevano attraversato il Po e compivano
pesanti scorrerie ai danni dei Laevi e dei Libui12. Gli attacchi a queste due popolazioni, stanziate rispettivamente nel Pavese e nel Vercellese odierni13, entrambe
di stirpe ligure ma evidentemente non alleate dei Boi, indicano da un lato che
questi ultimi provenendo dall’Emilia erano passati dalla sponda destra a quella
sinistra del Po, probabilmente nel tratto fra la confluenza del Ticino e quella
della Sesia, dall’altro che i Laevi si erano oramai staccati anche dall’antica alleanza con gli Insubri, così come pure i Libui14, se mai ne avevano fatto parte (non
compaiono infatti fra le popolazioni che Tolomeo assegna all’orbita insubre).
Sulla via del ritorno, avendo probabilmente riattraversato il Po e proseguendo in
riva destra verso il confine ultimo del territorio dei Liguri (dunque percorrendo
l’Oltrepò in direzione dei colli piacentini), i Boi si imbatterono nell’esercito
romano e ne furono annientati15, ma non definitivamente. Due anni dopo infatGabba 1984, 213; Bandelli 2009, 190.
Liv. XXXII 29.
11
Questi, dopo una prima sconfitta nel 197, saranno nuovamente battuti l’anno dopo da
M. Claudio Marcello iunior. Per una ricostruzione dettagliata degli eventi degli anni 197 e
seguenti, basata sui libri XXXII e XXXIII di Livio, rimando ai lavori citati qui supra alla n. 1.
12
Liv. XXXIII 37, 6.
13
I Laevi (Laoi in Polyb. II 17, 4-6), gruppo di stirpe ligure stanziato circa Ticinum flumen
(Liv. V 32, 2), insieme con i Marici avevano fondato Ticinum (Pavia) non procul a Pado (Plin.
nat. III, 124): Gabba 1984, 207; il territorio controllato dai Libui o Libici, anch’essi di origine
ligure (Liv. V 35, 2; Ptol. Geog. III 1, 32; Plin. nat. III, 124: Vercellae Libiciorum), giungeva a
nord al pedemonte alpino, a sud al corso del Po fino al punto di confluenza della Sesia, a est
alla Sesia, a ovest alla Dora Baltea: Giorcelli Bersani 2002, 250-251; Migliario 2012,
111-112.
14
Gabba 1984, 213.
15
Liv. XXXIII 37, 6 (redeuntes inde per Ligurum extremos fines cum agresti praeda in agmen
incidunt Romanum).
9
10
345
elvira migliario
ti (194 a.C.) tornarono all’attacco insieme con gli Insubri, per essere nuovamente vinti in battaglia campale presso Mediolanium: ciononostante, i Boi saranno
definitivamente domati soltanto nel 190, mentre la gravità della sconfitta segnò
la fine della resistenza insubre16.
Secondo l’opinione più accreditata, nello stesso anno della capitolazione
(194 a.C.), che senz’altro comportò la loro deditio, o comunque pochi anni
dopo, gli Insubri furono vincolati a Roma da un foedus che doveva fra l’altro
obbligarli al regolare pagamento di un tributo e, quando richiesto, alla fornitura di contingenti militari, ma che garantiva loro sia il possesso di un territorio i cui confini venivano formalmente riconosciuti, sia il mantenimento degli
assetti sociopolitici tradizionalmente vigenti all’interno della loro comunità17.
Resta più incerto il destino dei diversi gruppi etnici minori loro alleati: benché
si possa ragionevolmente accogliere l’ipotesi per cui alcuni sarebbero stati di
fatto associati agli Insubri condividendone il trattamento, per altri è invece
possibile immaginare che avessero stipulato accordi con Roma a condizioni e
in tempi diversi. Fra costoro, ad esempio, potrebbero essere annoverati proprio
i Laevi e i Libui, per difendere i quali, come già si è detto, i Romani avevano
combattuto i Boi nel 196 a.C., con un’azione militare che risulterebbe pienamente giustificata in caso di una precedente deditio, o che, meglio ancora,
avrebbe potuto fornirne l’occasione18; in entrambi i casi, l’intervento romano
Liv. XXXIV, 46-47; Gabba 1984, ibid. Solo la pressoché totale eliminazione dei Boi
consentì il pieno e incontrastato controllo romano della vasta regione fra Rimini e Piacenza,
che comportò già nello stesso anno il consolidamento delle colonie di Piacenza e Cremona (vi
furono inviati 6000 nuovi coloni) e nel successivo 189 la deduzione di Bononia: Bandelli
2009, 190-192.
17
Gabba 1984, 211, e Gabba 1986, 249; Bandelli 1998, 150 e Bandelli 2007, 18 e
nn. 71-72. Sui foedera concessi alle popolazioni della Cisalpina, i lavori di riferimento restano
Luraschi 1979, 7-8 e Luraschi 1986, 48 n. 9; si vedano però le recenti considerazioni di
Rich 2008 (ivi anche aggiornamento della letteratura), spec. 58-65, che, pur specificamente
rivolte alla natura dei rapporti di alleanza fra Roma e le comunità italiche, inducono a una
riconsiderazione complessiva del problema, rimettendo fondatamente in discussione la presunta generalizzata estensione dell’istituto federativo alla totalità delle comunità extraitaliche, che
sarebbero piuttosto entrate nell’orbita romana mediante deditiones: si veda alla nota successiva.
18
Sulla deditio: in generale Nörr 1989a, e Nörr 1989b, 13-22; si veda anche Rich
2008, 62: «deditiones were made not only by communities already under attack, but also by
those seeking to avert attack and sometimes by communities voluntarily siding with Rome».
Qualunque fosse in particolare la condizione di Laevi e Libui (vincolati da deditio o meno
16
346
penetrazione romana e controllo territoriale
pare confermare che nessuno dei due popoli era oramai alleato degli Insubri.
Se nel 190 a.C. le guerre galliche potevano considerarsi concluse, lo stesso non poteva dirsi per quelle liguri, che si protrassero ancora per più di un
trentennio mediante una lunga serie di operazioni rivolte contro varie tribù
dell’Appennino19 e che terminarono soltanto nel 155 a.C. Almeno una di queste
campagne fu rivolta contro una tribù del Piemonte meridionale appenninico,
gli Statellates, che nel 172 furono deportati dalla loro zona d’origine (l’Acquese
odierno, nell’alto Monferrato); non pare invece riferibile con certezza allo stesso Monferrato la definizione di ager Ligustinus et Gallicus con cui Livio indica
un’ampia area − più verosimilmente da collocare nell’entroterra a sud di Modena e Parma − ove l’anno precedente era stata attuata un’ampia e cospicua adsignatio viritana20. Non risulterebbe dunque che le operazioni militari attestate
dalle fonti per questi decenni siano state rivolte o abbiano coinvolto i Liguri
di pianura, vale a dire i gruppi etnici stanziati nell’ampia fascia pianeggiante
dell’odierno Piemonte meridionale che è attraversata orizzontalmente dal corso
del Po e compresa fra il pedemonte appenninico a sud e quello alpino a nord.
Ne sarebbe derivata una situazione di sostanziale non belligeranza che
avrebbe potuto costituire l’esito di una perdurante osservanza di accordi
formali (foedera oppure deditiones), almeno alcuni dei quali potevano risalire,
come si è visto, al primo decennio del II secolo, e che potevano così garantire la stabilità dell’area anche quando gruppi etnici di connazionali stanziati in
zone non lontane (o addirittura limitrofe) erano oggetto di pesanti interventi
militari. Tale quadro di presunta generale stabilità giustificherebbe non soltanto una costituzione anche precoce dei vari nuclei urbani sorti nel Piemonte
cispadano (pur non facendoli risalire fino al 170 ca. né collegandone necessariamente la nascita con le già ricordate assegnazioni viritane del 173 a.C.)21,
probabilmente da un foedus), si deve comunque escludere, contrariamente a quanto in generale
si ritiene, che essi condividessero il foedus concesso agli Insubri.
19
Rimando all’esaustiva sintesi di Bandelli 2009, 197-201 (ivi anche bibliografia aggiornata sulle guerre liguri).
20
Liv. XLII 4, 3, su cui Bandelli 2009, 203-204, e Bandelli 2006, 19-20; contra,
Torelli 1998, 30-31, e, ultimamente, Zanda 2011, 44-46, che mette in relazione le assegnazioni del 173 a.C. con le tracce di centuriazione aventi il medesimo orientamento riconosciute
nell’ampia area del Piemonte meridionale compresa fra Tortona, Valenza, Casale M.to e il basso
Vercellese.
21
Benché oggetto di numerosi studi, la data di fondazione di Pollentia, Potentia, Valentia
e Industria resta di fatto questione irrisolta, in assenza di dati che consentano di attribuirla
347
elvira migliario
ma anche l’associazione delle denominazioni augurali di alcuni di questi con
toponimi indigeni che, come è stato osservato, attesterebbero la permanenza in
loco di consistenti nuclei di popolazione autoctona22. Lo stesso potrebbe valere
anche per la colonia di Dertona, recante anch’essa un toponimo epicorio23; la sua
fondazione intorno al 118 e non prima del 123 a.C.24 potrebbe in effetti apparire troppo posticipata rispetto al 148 a.C., anno di costruzione della via Postumia
la quale, in quanto «grande strada di arroccamento, che congiungeva i maggiori
caposaldi di prima linea del dominio romano nella Cisalpina»25, toccava anche
Dertona; la promozione del centro ligure e la sua evoluzione in comunità romana
avrebbero dunque potuto attuarsi entro pochi anni, anziché dopo tre decenni.
Negli anni ’40 del II secolo a.C., per la prima volta dopo la conclusione
della guerra annibalica, la Transpadana occidentale, e in particolare la fascia
territoriale compresa fra la confluenza della Sesia e quella della Dora Baltea, fu
coinvolta dal passaggio e dalla presenza di truppe romane; l’occasione fu offerta dalla campagna contro i Salassi guidata dal console Appio Claudio Pulcro
nel 143 a.C., e che forse proseguì nel biennio successivo26. Fu allora evidente
con certezza o agli anni ‘70 oppure agli anni ‘20 del II secolo a.C.: per una sintesi rimando a
Bandelli 1998, 150-151, e Bandelli 2007, 19-20 (con ampia bibliografia). In particolare,
per la nascita di Industria è stata recentemente proposta una datazione non anteriore al I secolo
d.C.: Zanda 2011, spec. 50-52.
22
Carreum-Potentia, Bodincomagus-Industria: Bandelli 2007, 20.
23
Fraccaro 1957, 126.
24
Così come già lo era per Velleio Patercolo (I 15, 5: de Dertona ambigitur), la datazione
della colonia tortonese rimane incerta, benché l’ipotesi avanzata da P. Fraccaro di una fondazione fra il 123 e il 118 a.C. (Fraccaro 1957, 129-130) resti tuttora la più accreditata (così
ad es. Gabba 1986, 216); si veda però la revisione di Torelli 1998, ibid. (accolta con cautela
da Bandelli 2007, ibid.), che propende per una maggiore antichità della deduzione tortonese
(i cui coloni erano iscritti alla tribù Pomptina) rispetto alle città ‘graccane’ dai nomina bene
ominata del 125 ca. a.C. (iscritte alla Pollia).
25
Fraccaro 1957, 125.
26
La fonte principale sulle vicende e sul territorio dei Salassi è Strab. IV 6, 7 (per un’analisi
del passo rimando a Migliario 2012, 109-116). Appio Claudio riuscì vittorioso solo dopo
una sconfitta che arrecò gravi perdite al suo esercito e compromise il suo trionfo: Liv. perioch.
LIII; Dio Cass. XXII frg. 74; Oros. V 4, 7; Obseq. 21 p. 157 Rossbach; Val. Max. V 4, 6; Cic.
Cael. 34; di un proseguimento delle ostilità fino al 140 a.C. fa dubitativamente cenno Fraccaro 1957 (1941), 95 n. 12, riprendendo un’ipotesi già di E. Pais. Sulla penetrazione romana
nel Piemonte transpadano si vedano anche Cracco Ruggini - Lizzi Testa 2001, 35-38, e
Cresci Marrone 2004.
348
penetrazione romana e controllo territoriale
che il territorio tortonese − con le sue adiacenze orientali fino a Clastidium −
costituiva un’area di primaria importanza strategica anche per la penetrazione
nella Transpadana occidentale. L’esercito romano infatti raggiunse la zona delle
operazioni muovendo o da Genua attraverso l’Appennino ligure oppure, più
probabilmente, da Piacenza; in entrambi i casi, lasciando la Postumia nel tratto
fra Clastidium e Dertona, dovette raggiungere il Po e attraversarlo in un punto
fra la confluenza del Ticino e quella della Sesia, per poi dirigersi verso nordovest
percorrendone la sinistra idrografica.
A detta di Strabone, l’intervento romano fu motivato dalla necessità di
soccorrere i Libui/Libici stanziati nel Vercellese, che i Salassi, captando e deviando le acque della Dora per le proprie attività estrattive, privavano dell’acqua
necessaria a irrigare i loro campi27; non si trattava della prima volta che i Romani
muovevano in difesa dei Libui, dato che, come si è visto, già lo avevano fatto nel
196 a.C., attaccando i Boi reduci da un raid nei territori di Laevi e, appunto,
Libui, e cogliendo probabilmente allora l’occasione di vincolare a sé entrambi
i popoli.
Principale risultato della campagna contro i Salassi (la prima di una serie che
si sarebbe definitivamente conclusa solo più di un secolo dopo, nel 25 a.C.) fu
la confisca del settore meridionale del loro territorio28, divenuto ager publicus
I Salassi occupavano per intero il territorio attraversato dalla Dora Baltea (Strab. IV 6, 5),
dunque dalla Valle d’Aosta fino alla pianura vercellese, dove il fiume confluisce nel Po all’altezza
dell’odierna Crescentino. Sui Libui/Libici (comunemente identificati con i vicini danneggiati
dai Salassi a cui Strabone allude come a «coloro che coltivavano le terre di pianura sottostanti») si vedano Brecciaroli Taborelli 1996, 25-26; Gambari 1996, 17-18; Giorcelli
Bersani 2002, 250-251 (fonti qui supra alla n. 13).
28
Ne venne confiscata la fascia meridionale (Fraccaro 1957 [1941], 101; Luraschi
1979, 8-9 n. 19, e 12 n. 28), fra Canavese e Vercellese odierni, che confinava appunto col territorio dei Libui, i quali forse ne ricavarono qualche ampliamento territoriale come premio per il
supporto prestato ai Romani (le operazioni avevano probabilmente avuto come base Vercellae:
Gambari 1996, 19). Come è noto, la parte più consistente del territorio ex-salasso fu destinata
a essere assegnata a cittadini romani mediante la deduzione della colonia di Eporedia: Fraccaro 1957 (1941), 101. Nell’area nota come Bessa (4,4 kmq. in tutto), fra le odierne Biella e
Ivrea (zona corrispondente alla fascia meridionale del territorio salasso oggetto dell’esproprio
post-143 a.C.), restano tracce consistenti di attività estrattive praticate fino al I sec. d.C. in un
giacimento aurifero (esaurito già anticamente), in cui vengono comunemente riconosciute le
miniere d’oro citate da Strabone: Segard 2009, 146-149 (ulteriore letteratura in Migliario
c.d.s.).
27
349
elvira migliario
populi Romani; questo comprendeva anche un’area mineraria aurifera (nota
come Victimulae) il cui sfruttamento, già praticato dai precedenti occupanti,
venne appaltato a detta di Strabone a societates publicanorum29. La notizia straboniana è confermata da un passo di Plinio, assai noto e dibattuto, attestante tra
l’altro che gli addetti alle attività estrattive ammontavano a diverse migliaia30,
cioè a un numero tale da far ritenere che la produzione complessiva raggiungesse dimensioni imponenti. Proprio tale presumibile notevole quantità dell’oro
ricavato dal giacimento di Victimulae, insieme alla precocità del suo sfruttamento31, pongono il problema del trasporto del prodotto, come pure della mobilità
umana nell’area, in anni in cui la creazione di un’efficiente rete stradale nella
Cisalpina occidentale era ancora agli inizi, contando di fatto la sola Postumia,
la cui importante diramazione verso ovest denominata via Fulvia non sarebbe
stata tracciata prima del 125-124 a.C.32.
Strab. IV 6, 7: τοῖς δημοσιώναις τοῖς ἐργολαβήσασι τὰ χρυσεῖα. Il passo sembra non lasciare
dubbi sullo sfruttamento diretto delle miniere da parte dei publicani, benché di solito le societates publicanorum si assicurassero la sola esazione delle imposte sulle miniere, lasciandone lo
sfruttamento a terzi: Domergue 2008, 192-196. Secondo l’ipotesi più accreditata, i χρυσεῖα
straboniani sono identificabili con le Victimularum aurifodinae citate in Plin. nat. XXXIII, 78
(riportato alla nota seguente): Migliario c.d.s..
30
Plin. nat. XXXIII, 78: extat lex censoria Victumularum aurifodinae in Vercellensi agro, qua
cavebatur, ne plus quinque milia hominum in opere publicani haberent. La complessa e dibattuta
problematica relativa alla lex censoria citata da Plinio, che avrebbe vietato di impiegare più di
5000 uomini nelle miniere, è stata ultimamente trattata in Balbo c.d.s. (a cui si rimanda). A
fronte della modesta estensione dell’area della sola Bessa, che non giustificherebbe l’impiego di
un così alto numero di addetti, è stato di recente ipotizzato che le aurifodinae fossero impiantate sui tratti rivieraschi di più corsi d’acqua locali (i torrenti Elvo, Cervo e Olobbia, nonché
la Dora Baltea), tutti egualmente ricchi di sabbie aurifere, che avrebbero costituito un ben più
ampio distretto minerario: Quaglino 2013. Le Prealpi occidentali, in particolare piemontesi,
contavano numerosi depositi alluvionali alimentati dai giacimenti primari del massiccio del
Monte Rosa: Domergue 1998, 208, fig. 183; Domergue 2008, 129-130; Segard 2009,
149-151.
31
Se si accoglie l’ipotesi della datazione della lex agli ultimi anni ’20 del II secolo a.C., in
un contesto storico-politico orientato allo smantellamento delle riforme graccane e alla limitazione del potere dei publicani (Balbo c.d.s.), lo sfruttamento intensivo mediante impiego di
una più numerosa manodopera risalirebbe al primo decennio post-confisca, cioè agli anni ’30.
Il giacimento della Bessa risulta abbandonato entro la prima metà del I secolo d. C.: Brecciaroli Taborelli 2012.
32
Fraccaro 1957, 127-128; Tozzi 1998, 57; Zanda 1998, 91-93 e fig. 1.
29
350
penetrazione romana e controllo territoriale
Era tuttavia disponibile una valida alternativa: la via di comunicazione
fluviale costituita dal Po e dai suoi affluenti, in particolare dalla Dora Baltea,
che era navigabile almeno a partire dal punto presso cui nel 100 a.C. sarebbe
sorta Eporedia33 e che attraversando il basso Canavese scorreva a poche miglia
dall’area del distretto minerario, per proseguire fino alla confluenza nel Po, fra
gli odierni Verolengo (TO) e Crescentino (VC). A breve distanza dal punto di
confluenza, ma sulla destra idrografica del fiume, sarebbe sorta Industria, nei
pressi del centro indigeno di Bodincomagus, località a partire dalla quale secondo Plinio il corso del Po raggiungeva la massima profondità34.
Il toponimo ligure, traducibile come ‘mercato sul Po’, rivela una funzione
mercantile e di scalo fluviale anteriore alla romanizzazione della zona, mentre
la sua sopravvivenza − attestata epigraficamente nel I secolo d.C. − può essere
assunta quale indicatore della perdurante rilevanza del sito anche nell’età della
romanizzazione. A seguito della penetrazione romana nel Piemonte orientale,
e del conseguente immediato sfruttamento delle risorse locali, Bodincomagus
conobbe evidentemente una valorizzazione funzionale alla quale contribuì
senz’altro il suo ruolo di punto nodale del traffico di merci, materiali e uomini
generato da un distretto minerario che solo il sistema di comunicazioni fluviali incentrato sul Po35 rendeva relativamente agevole da raggiungere. Nella fase
iniziale dei processi di romanizzazione, le logiche dello sfruttamento sottese
all’espansione, con le connesse esigenze di controllo territoriale, imponevano
la progettazione di una rete di comunicazioni adeguata, ma anche la fruizione
Zanda 2011, 51.
Plin. nat. III, 122: Ligurum quidem lingua amnem ipsum [il Po] Bodincum vocari, quod
significet fundo carentem. Cui argumento adest oppidum iuxta Industria vetusto nomine Bodincomagum, ubi praecipua altitudo incipit. Il toponimo compare anche in CIL, V 7464: per un’analisi esaustiva delle testimonianze si veda Zanda 2011, 46-47.
35
Il trasporto fluviale dell’oro piemontese nel primo tratto del suo viaggio verso le zecche
di Roma sarebbe stato di fatto imposto dalla mancanza di valide alternative terrestri; l’ipotesi
di Wilson 2012, 134-135 (dietro un parere di C. Domergue), secondo cui i metalli preziosi
destinati alle zecche di Roma erano trasportati sotto scorta militare per via di terra, appare del
tutto plausibile per l’oro o l’argento provenienti dalla Spagna, che avrebbero così evitato i rischi
connessi con la navigazione marittima. In genere, i trasporti fluviali erano più sicuri ed economici di quelli stradali: Campbell 2012, 215-217; le forti perplessità sul ruolo del Po quale
via commerciale già espresse in Harris 1989 (= Harris 2011), peraltro oggetto di successivo ripensamento (ibid., 4-5), sarebbero smentite proprio dallo sviluppo di Industria, costruita
quale città-mercato e città-santuario affacciata sul Po: Zanda 2011, 49-54.
33
34
351
elvira migliario
e la rifunzionalizzazione delle vie di terra e d’acqua preesistenti: l’una e le altre,
come il caso piemontese sembra indicare, venivano a costituire i fattori primari
della riorganizzazione strutturale e della gerarchizzazione insediativa delle aree
di recente acquisizione.
Fig. 1. La Cisalpina occidentale.
352
penetrazione romana e controllo territoriale
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Archeologia in Piemonte 1998
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357
MANUELA MONTAGNARI KOKELJ
Note su Ludwig Karl Moser, Carlo Marchesetti
e le indagini di fine ‘800 - inizi ‘900 nelle grotte del Carso triestino
Premessa
Lo storico, il numismatico godono di parecchi vantaggi in confronto al paletnologo: ad essi la testimonianza della storia, le rivelazioni delle epigrafi, l’appoggio
delle monete; al paletnologo unica luce a rischiarare il suo cammino tenebroso
sono le analogie di forma e di materiale, onde sono costruiti gli oggetti ed il loro
giacimento, onde rintracciare popoli estinti, civiltà scomparse, affinità e comunanze di origini, perdute nell’ombra dell’oblio.
Questa frase, che sintetizza la differenza forse principale nel modus operandi
degli storici e dei paletnologi, è tratta dalla relazione su La necropoli di Vermo
presso Pisino nell’Istria presentata da Carlo Marchesetti nel maggio 18831, in un
periodo in cui la ricerca archeologica preistorica nelle regioni del Caput Adriae
era solo agli inizi.
Alla ricostruzione sia della storia antica (anche pre-romana) di queste terre,
sia della storia moderna e contemporanea, intesa come ambiente culturale e politico nel quale si muovevano intellettuali e studiosi di ambiti disciplinari diversi,
ha dedicato ampia parte della sua attività di ricerca Gino Bandelli: ed è stata
proprio la figura di Marchesetti a consolidare la convergenza fra i suoi interessi
Marchesetti 1883, 274. Dato che in questo contributo tornerò sull’argomento delle
attività parallele dei due principali attori della ricerca paletnologica in questo territorio, anticipo che fu questa relazione a spingere Ludwig Karl Moser a intraprendere nell’agosto dello
stesso anno degli scavi nella necropoli, finanziati dalla Commissione Preistorica dell’Accademia delle Scienze di Vienna: sulla ‘questione Vermo’, che vide coinvolti Marchesetti, Moser,
Amoroso e altri, vd. Mihovilić 2012.
1
359
manuela montagnari kokelj
di storico e i miei di paletnologa, spingendoci a organizzare insieme il convegno
svoltosi a Duino (Trieste) nel novembre 2003, cent’anni dopo la pubblicazione
della monografia dello studioso sui castellieri della Venezia Giulia e dell’Istria2.
Dieci anni prima, infatti, entrambi avevamo partecipato all’incontro internazionale realizzato in occasione del centenario del volume nel quale Marchesetti
presenta i risultati degli scavi fatti dal 1884 al 1902 nella necropoli di S. Lucia
di Tolmino3.
Più recentemente, nel 2008, sempre seguendo questo filone di ricerca Bandelli ha preso parte alla giornata internazionale di studi dedicata a Ludwig Karl
Moser, una personalità che fino ad allora era stata spesso contrapposta negativamente a quella dello studioso italiano contemporaneo, e comunque largamente
trascurata4.
Trovo molte similitudini nell’impostazione dei due volumi di Atti, chiaramente finalizzata a una lettura interdisciplinare integrata delle due figure più
importanti delle origini della paletnologia nelle regioni del Litorale austriaco. I
numerosi contributi – 18 nel primo caso, 16 nel secondo – si occupano di definire il contesto storico-culturale nel quale vivevano, non certo limitato a Trieste
e al territorio immediatamente circostante; il profilo umano e professionale, che
in entrambi i casi spaziava in ambiti diversi, ‘scientifici’ e ‘umanistici’, al tempo
fortemente interconnessi; il metodo e i gli esiti delle attività di ricerca sul campo
e dello studio dei depositi scavati e degli oggetti rinvenuti.
Per l’interesse dei risultati acquisiti nel volume più recente, ai quali ancora una volta Gino Bandelli ha dato un contributo sostanziale, di seguito farò
alcune osservazioni su questioni attinenti alla paletnologia, in particolare sullo
stato delle conoscenze sui siti in grotta indagati da Moser e sui problemi tuttora
aperti.
Il Fondo Moser del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste
A conclusione del suo intervento Bandelli, dopo aver detto che un’analisi
comparata delle bibliografie di Marchesetti e di Moser, raccolte e pubblicate
Carlo Marchesetti 2005.
Carlo Marchesetti 1994.
4
Ludwig Karl Moser 2012.
2
3
360
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
rispettivamente da Claudia Morgan5 e da Matej Župančič6, permetterebbe di
«ricostruire la concorrenza, l’interferenza e l’autonomia dei contribuiti scientifici» dei due autori, aggiunge:
Ma l’indagine sull’edito non basta. La quantità di materiali archeologici, documentari, epistolari non pubblicati che risale a Carlo Marchesetti, custodita non
solo a Trieste ma pure altrove, è cospicua e i sondaggi effettuati da Giorgio Alberti, Federico Bernardini, Ambra Betic, Anna Crismani e altri [71] dimostrano
la grande rilevanza scientifica di questo patrimonio7. Lo stesso può dirsi degli
inediti moseriani, reperti e carte, non meno consistenti e ancora più dispersi (da
Trieste a Postumia e Parenzo, da Padova a Vienna e Boston), come segnalano
le indagini preliminari di Lawrence Barfield, di Federico Bernardini, Ambra
Betic, Anna Crismani e Brigitta Mader, di Stanko Flego, Lidija Rupel e Matej
Župančič e di Kristina Mihovilić [72]. È dunque necessario, prima di tutto,
completare l’individuazione, lo studio e la pubblicazione di questo complesso
di testimonianze8.
Bandelli, oltre a segnalare (nelle note) in modo pressoché esaustivo gli studi
che si sono susseguiti negli ultimi 20 anni circa, mette dunque l’accento su due
questioni cruciali: la quantità di materiali inediti, sia documenti che reperti, e la
loro dispersione in sedi diverse.
Su questi problemi insistono anche molti altri autori, fra i quali in particolare Deborah Arbulla e colleghi, Stanko Flego e Matej Župančič, che nei loro
contributi presentano e analizzano in modo preliminare, ma già sufficientemente approfondito, proprio un lotto importante di inediti (ri)scoperto negli ultimi
anni del secolo scorso nel Museo Civico di Storia Naturale di Trieste: il c.d.
Fondo Moser.
Nella relazione sull’attività del museo negli anni 1922-1930 l’allora direttore Giuseppe Müller segnalava l’acquisizione di quanto posseduto dal disciolMorgan 1994.
Župančič 2012.
7
Alle indagini citate vanno aggiunte sia quelle effettuate più recentemente da Ambra Betic
nell’Archivio Diplomatico della Biblioteca Civica di Trieste (Betic c.d.s.), sia le ricognizioni
sistematiche sui materiali conservati presso il Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste svolte negli ultimi due anni nell’ambito di attività di tirocinio e tesi (Salvador 2012) da miei
studenti del corso di Paletnologia.
8
Bandelli 2012, 23-24.
5
6
361
manuela montagnari kokelj
to Club Touristi Triestini, inclusi i materiali lasciati in deposito da Moser, che
aveva ricoperto la carica di presidente del CTT dal 1895 al 1900, prima dello
stesso Müller9. Apparentemente, però, questo complesso proveniente da uno dei
gruppi escursionistici/speleologici locali più antichi10 non ha suscitato l’interesse degli archeologi fino al ritrovamento dei diari di scavo di Moser e all’identificazione, nei depositi del museo, di materiali provenienti dalle sue indagini in
grotta11.
Il Fondo Moser è costituito, infatti, principalmente da materiale archivistico,
che include: 6 quaderni manoscritti in tedesco, che contengono testi, mappe
e disegni, datati fra 1883 e 191512, oltre a numerosi fogli sciolti di appunti; la
copia personale della monografia Der Karst und seine Höhlen (1899), con note,
correzioni e aggiunte manoscritte; 23 articoli firmati, pubblicati su periodici
e quotidiani; 29 fotografie siglate Moser, parecchie delle quali riproducono
le principali cavità da lui indagate; una raccolta di 13 lavori di altri autori, nei
quali lo studioso viene citato. Ma del Fondo fa parte anche, come accennato,
un nucleo di materiali archeologici, alcune centinaia, provenienti principalmente dalla grotta del Pettirosso, e in misura minore da Teresiana, Pocala, Orso e
Caterina, costituiti soprattutto da resti di fauna e malacologici, e da manufatti
fabbricati quasi esclusivamente su palco e osso13.
Arbulla - Bernardini - Boschin - Fogar 2012, 89.
Il Club fu fondato nel 1884 con finalità escursionistiche, e nel 1891 fu istituito al
suo interno un Comitato Grotte per sviluppare la ricerca speleologica (Rupel 2012, 55);
già prima, nel 1883, nasceva il Comitato alle Grotte della Società Alpina delle Giulie (www.
boegan.it/la-nostra-storia/la-speleologia-triestina-dal-1940-al-1970/i-gruppi-grotte/?no_
cache=1&sword_list%5B%5D=speleologici).
11
I diari furono scoperti nel 1999 dall’allora conservatore del museo Ruggero Calligaris,
mentre i reperti sono stati individuati nel corso di lavori di riordino e catalogazione dei materiali conservati nei depositi (vd. Bernardini - Betic 2001). Successive verifiche sui materiali hanno portato a parziali modifiche dei dati (vd. il contributo degli stessi studiosi in Carlo
Marchesetti 2005 e l’articolo citato a n. 9).
12
È interessante notare che i diari non coprono tutti gli anni compresi in questo intervallo
di tempo. Ad es., la data riportata sull’ultima pagina del diario n. 3 è 9/8/1892, mentre quella
sulla prima pagina del diario n. 4 è 4/3/1902; ma, per citare un solo caso, fra la metà di maggio
1892 e luglio 1898 risultano documentati scavi nella grotta del Pettirosso per un totale di 220
giorni di lavoro (Flego - Župančič 2012, 145): possiamo, quindi, pensare che esistano altri
diari, conservati altrove, o andati dispersi?
13
Arbulla - Bernardini - Boschin - Fogar 2012, 95. Fra questi reperti vi sarebbe
9
10
362
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
È del tutto verosimile che i reperti rappresentino soltanto una selezione dei
materiali trovati in queste cavità: questo è sicuro per Pettirosso e Teresiana,
nelle quali fu raccolta anche molta ceramica soprattutto preistorica, conservata
(in toto o in parte?) a Vienna14; è probabile per Caterina, dove fu recuperata
ceramica sia preistorica che romana, la cui attuale collocazione non è nota; è
possibile anche per Pocala e Orso, ma in questi casi la selezione potrebbe essere
stata quantitativa piuttosto che qualitativa, perché la maggioranza dei materiali
scavati da Moser risulta costituita da resti di fauna pleistocenica, che dunque
potrebbero essere quelli in deposito al museo di Trieste.
È peraltro evidente che per convalidare queste ipotesi sarebbero necessari
sia un’analisi comparata dei dati pubblicati e di quelli presenti nei diari tuttora
ampiamente inediti, per cercare di definire l’entità dei materiali raccolti originariamente, sia un tentativo di rintracciare i materiali nelle diverse sedi in cui
potrebbero essere conservati, per valutarne la natura e la consistenza alla luce di
quanto emerso dalla precedente analisi.
La documentazione sui siti in grotta del Carso triestino indagati da Moser
Un’ottima base da cui partire per sviluppare queste linee di ricerca è data
dal lavoro fatto da Flego e Župančič sui diari a confronto con l’edito, usato in
uno dei loro contribuiti proprio per riunire la documentazione sulle indagini
di Moser nelle grotte del Carso triestino15. Questo studio è utile per conoscere tipologia, cronologia e quantità dei materiali trovati (anche se al presente
determinabili in molti casi solo con ampio margine di incertezza), ma lo è anche
per muovere i primi passi verso una valutazione comparata delle personalità di
Moser e di Marchesetti e del loro modus operandi.
Alcuni dati sono più rilevanti di altri per le finalità indicate: oltre a quelli
già menzionati, sono importanti, ad es., i tempi e i modi in cui Moser visitò
una grotta (probabilmente già recuperando materiali) e vi effettuò sondaggi o
anche un resto di pesce con decorazione, che rientrerebbe fra quelli considerati probabili falsi
(ibid., 96): in merito vd. Župančič - Flego 2012.
14
I materiali ceramici delle grotte Pettirosso, Teresiana, Moser e Cotariova sono stati
pubblicati da Lawrence H. Barfield una quindicina d’anni fa (Barfield 1997-98).
15
Flego - Župančič 2012.
363
manuela montagnari kokelj
scavi16. Una tabella aiuta a visualizzare meglio la situazione, anche se la sintesi
che questa necessariamente comporta può escludere informazioni utili per ricostruire il contesto delle ricerche17.
Flego e Župančič non usano mai il termine «recupero», mentre sembra che spesso usino
«sondaggi» e «scavi» come sinonimi: nella misura del possibile ho cercato di distinguere,
anche se la questione resta comunque ambigua perché in una «visita» Moser avrebbe potuto
effettuare anche dei «recuperi» o dei «sondaggi», mentre il limite fra «sondaggi» e «scavi»
potrebbe essere definito essenzialmente dalla durata degli interventi.
17
Il testo di Flego e Župančič dal quale sono tratti i dati in tabella è logicamente la prima
fonte per completare il quadro, nonché per risalire alla letteratura originale per approfondimenti. Per una visione d’insieme delle indagini compiute contemporaneamente e dopo Moser
nelle grotte da lui visitate/scavate vd. www.units.it/criga.
16
364
Grotta
Anni
←1880-1889
Anni
1890-1899
Anni
1910 →
1907 sondaggi
Ubicazione
interventi
pianta
VG 7 Orso
1879 visita;
1884, 1885,
1886 sondaggi
pianta
VG 49 Bac
1883 visita;
1894 sondaggi 1900 sondaggi
1889 sondaggi
pianta
365
VG 62 Alce
1894 visita;
1896 scavi
VG 91 Pocala
1893, 1894
sondaggi
VG 225 Diavolo
zoppo
pianta
1904, 1905
1910
scavi; 1906,
sondaggi
1909 sondaggi
1886 visita
dati
no dati
Tipologia
materiali
ceramica
fauna
pleistocenica;
scarsa
ceramica
ceramica;
manufatti su
osso; fauna
fauna
pleistocenica
fauna
pleistocenica;
ceramica;
litica
breccia
ossifera;
ceramica?
ceramica;
fauna;
conchiglie
marine
Cronologia materiali
preistoria
preistoria
?
Pleistocene
Pleistocene; preistoria
Pleistocene; preistoria
VG 237 Lesa
1892, 1893
sondaggi
1907, 1909
sondaggi
no dati
VG 239 Caterina
1892 visita;
1893, 1895
scavi
1905, 1906,
1907 scavi
no dati
ceramica;
scarsa litica
VG 256 Radici /
jama na Dolech III
1896 Perko; 1898 → 1906
visite/sondaggi discontinui
no dati
ceramica
(Perko); litica; preistoria
fauna (Perko)
preistoria
preistoria;
età romana
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
VG 2 Gigante
Anni
1900-1909
1892
sondaggi/
scavi
VG 257 Azzurra
VG 260 Pettirosso
366
1893 sondaggi
no dati
1891-92 scavi
1886 sondaggi (22 giorni
totali)
VG 301 Russa spila 1886 sondaggi
VG 365 grotta 1
presso la fermata
ferroviaria DuinoTimavo
1914
scoperta di
scheletro
ricoperto
di calcite;
pianta e
1915 ultimo stratigrafia
scavo
riportato da
Moser nei
diari
pianta e
stratigrafia
visite/sondaggi discontinui negli anni di
scavo alla grotta del Pettirosso
1900, 1907,
1908 visite
pianta
no dati
preistoria
ceramica;
litica;
manufatti su
osso; fauna
preistoria; età romana
ceramica;
fauna;
conchiglie
marine
ceramica;
litica;
manufatti su
osso e corno;
fauna
ceramica;
litica;
manufatti su
osso; fauna
preistoria
preistoria
preistoria
ceramica;
1 lama d’ascia preistoria
in quarzo
manuela montagnari kokelj
1890
sondaggi;
1886 sondaggi 1892-98 scavi 1907 scavi
(220 giorni
totali)
VG 261 caverna
presso il viadotto
ferroviario di
Aurisina
VG 264 Cotariova
pianta
ceramica;
scarsa litica;
fauna;
conchiglie
marine
VG 495 grotta a N
di Sales
no dati
pre-1904
sondaggi
no dati
1886 visita
367
VG 529 Piccola
1886 visita
Pocala
VG 818 caverna sul
Monte Vides
1891 sondaggi
VG 850 Romana
1892 visita
VG 859 caverna a N
di S. Croce / Siršca
1893
sondaggi;
1894-1895
scavi
VG 932 Gialla
1900 visite
negli anni successivi, fino al
1913, scavi discontinui
1905
sondaggio
anfore e
età romana
lucerne; fauna
ceramica;
preistoria
fauna
Moser scrisse che frammenti di vasi e ossa umane di
due scheletri furono consegnati (da altri) al Museo
Civico di Storia Naturale di Trieste
fauna
pleistocenica;
no dati
1 vaso con
Pleistocene?
“decorazione
ondulata”
fauna
no dati
Pleistocene
pleistocenica
resti di Equus
no dati
Pleistocene
primig.
ceramica al
tornio; oggetti
no dati
età romana?
in bronzo
(Perko)
ceramica;
pianta e
litica;
preistoria; età romana
stratigrafia manufatti su
osso; fauna
ceramica;
pianta
manufatti su preistoria; età romana
osso
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
VG 366 grotta 2
presso la fermata
1884, 1885
ferroviaria Duinovisite
Timavo / Alexander
Höhle
Vg 414 grotta di
Visogliano
VG 425 caverna
in Val Rosandra /
1886 visita
Tasso
VG 939 Fioravante
/ Teresiana
1885
sondaggi;
1886 scavi
1900 visita
preistoria
no dati
no dati
?
pianta e
stratigrafia
ceramica;
litica;
2 scheletri
ricoperti di
pietre (1898)
preistoria
368
VG 1102 Tre
Querce
1891 visita
VG 1265 Trincea
1891 visita
no dati
VG 2432 Frassino
1891 visita
no dati
VG 2435 Grotta
della Finestra
1891, 1898
visite
no dati
VG 5143 Edera
1903 sondaggi
1902 visita
no dati
ceramica;
1 manufatto
in osso con
tracce di
colorazione
verde
scarsa
ceramica
?
ceramica (1
coccio);
1 valva di
Spondylus
ceramica (2
cocci);
1 manufatto
in selce
«molto
piccolo»
preistoria
?
?
preistoria
preistoria?
manuela montagnari kokelj
«Nonostante gli appunti del Moser nei diari siano alquanto
VG 1095 grotta
confusi, è molto probabile che la definizione ‘Jama na
presso Bristie / jama Dolech II’ indichi proprio questa grotta, dove [Moser] fece
na Dolech II
dei sondaggi saltuariamente.» (Flego - Župančič 2012,
169; vd. anche 172-174).
1894, 1895
visite (al
VG 1096 Moser /
tempo scavi
negli anni successivi, fino al
jama na Dolech /
Pettirosso);
1912, scavi discontinui
Muschio
1898-1899
scavi
pianta
ceramica;
(disegno J.
manufatti su
Szombathy)
osso; fauna
e stratigrafia
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
Qualche osservazione su Moser e Marchesetti a confronto
Una prima osservazione riguarda il numero piuttosto alto di cavità indagate,
spesso ripetutamente, da Moser in un lasso di tempo di circa 30 anni: 32, alle
quali va aggiunta la grotta sul castelliere di Nivize (VG 4616), che visitò nel
1891, disegnandone la pianta, dopo il rinvenimento di alcune monete di bronzo
fatto da un cacciatore18. Il numero sale a 35 se si considerano anche altre due
caverne nei pressi di Aurisina, che però sono citate con nomi che non ne hanno
permesso un’identificazione sicura19.
Se questi dati vengono messi a confronto con quelli inseriti in C.R.I.G.A. Catasto Ragionato Informatico [georiferito] delle Grotte Archeologiche, si rileva
che sei delle cavità identificate sono note oggi soltanto grazie alle indagini di
Moser. La mancanza di interventi più recenti è facilmente spiegabile nei casi
sia di Fioravante/Teresiana – che, fino alla ri-scoperta nel febbraio 201320, non
risultava più rintracciabile a causa del totale riempimento con materiali di risulta avvenuto nel 1950 circa –, sia di Diavolo zoppo e caverna sul Monte Vides
che, invece, non sono state più ritrovate; è meno comprensibile per altre cavità
tuttora accessibili ubicate presso il viadotto ferroviario di Aurisina, a N di Sales
e a N di S. Croce/Siršca.
In quattro di queste cavità Moser si sarebbe limitato a singole visite, durante
le quali recuperò materiali di superficie o fece, forse, qualche sondaggio, ma non
così nella Teresiana e nella Siršca: nella prima effettuò dei saggi nel 1885, seguiti
l’anno dopo dai primi scavi sistematici svolti in Carso, finanziati dalla Commissione Preistorica dell’Accademia delle Scienze di Vienna e, nel 1886, anche da
privati21; la seconda è, dopo Pettirosso e Moser/jama na Dolech, la grotta più a
lungo e più intensamente indagata22.
Flego - Župančič 2012, 180.
Flego - Župančič 2012, 183-184.
20
La notizia è riportata nel quotidiano di Trieste, Il Piccolo, in data 8 agosto 2013.
21
Flego - Župančič 2012, 167. Ben pochi altri scavi di Moser sarebbero stati finanziati,
almeno in parte, da istituzioni o privati: Siršca e Moser/jama na Dolech dalla Commissione
Centrale per i Monumenti di Vienna; Pocala dalla Società di Antropologia di Vienna e da
privati; Alce, dalla Camera di Commercio di Trieste. È curioso il fatto che gli scavi più importanti, quelli nella grotta del Pettirosso, non avrebbero ricevuto fondi degni di nota.
22
Flego - Župančič 2012, 169.
18
19
369
manuela montagnari kokelj
Oltre alle ultime cavità citate, anche Cotariova, Caterina, Pocala e Alce
sembra siano state oggetto di scavi regolari: di quasi tutte esistono piante con il
posizionamento delle aree investigate23, di Teresiana, Pettirosso, Moser, Siršca e
Cotariova anche sezioni stratigrafiche.
La realizzazione di piante e di stratigrafie da parte di Moser è indizio di un
certo rigore nella raccolta dei dati e di un livello di conoscenza dei depositi e dei
metodi di scavo che sembra piuttosto buono per i suoi tempi. Resta da capire se
i materiali rinvenuti fossero poi tenuti separati in base ai livelli di provenienza,
ma per stabilirlo sarebbe necessario esaminare a fondo la documentazione edita
e inedita.
Nel caso di Marchesetti24, un esame preliminare ha messo in evidenza che lo
studioso aveva riconosciuto delle relazioni ricorrenti fra profondità degli strati
nelle grotte indagate e caratteristiche dei materiali in essi contenuti: una capacità ampiamente comprovata dalle indagini in castellieri e necropoli, e comunque
abbastanza facile da cogliere negli scritti sulle cavità scavate sistematicamente,
che sono soltanto grotta Tominz e Osca spila a S. Canziano, Orso, Azzurra e
Pocala nel Carso triestino. Queste, però, non esauriscono assolutamente l’elenco delle Caverne visitate in generale, un documento manoscritto che ne contiene
ben 4825, a riprova del fatto che l’interesse di Marchesetti per castellieri e necropoli fu prevalente ma non esclusivo.
La preferenza di Moser per le grotte fu, invece, molto netta. A questo punto
sarebbe interessante tentare di identificare i siti elencati da Marchesetti, così
come Flego e Župančič hanno fatto per quelli citati da Moser, per stabilire in
quali cavità – oltre a Orso, Azzurra e Pocala – avrebbero lavorato entrambi,
magari con qualche interferenza26.
Esistono piante anche di altre grotte che sarebbero state oggetto solo di sondaggi: Gigante,
Orso, Bac, Azzurra, Russa spila e Gialla.
24
Le osservazioni che seguono sono tratte da un articolo in cui ne avevo ribadito più volte
il carattere preliminare (Montagnari Kokelj 1994), che purtroppo conservano anche a
distanza di quasi vent’anni (vd. supra nel testo e n. 7).
25
L’elenco sarebbe stato compilato verosimilmente fra 1890 e 1906 (Montagnari
Kokelj 1994, 194 e n. 8), e quindi il numero delle grotte potrebbe essere maggiore di 48, dal
momento che Marchesetti continuò le sue ricerche anche successivamente.
26
Secondo Flego e Župančič, Moser avrebbe rinunciato a scavare nelle grotte Orso e Azzurra proprio perché indagate anche da Marchesetti (Flego - Župančič 2012, 136 e 144), ma,
in base agli anni degli interventi, le interferenze sono più probabili in Orso e Pocala, meno in
Azzurra (vd. n. 1 per un altro caso di sovrapposizione di indagini, in questo caso non in grotta).
23
370
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
Un’altra differenza che sembra abbastanza evidente dalla documentazione
finora consultata è quella relativa alla capacità di inquadrare i materiali cronologicamente e culturalmente.
Moser distingue i macro-periodi – preistoria, età romana, medioevo27 (oltre,
naturalmente, a Pleistocene) –, ma tende ad attribuire i materiali preistorici
pressoché sempre al Neolitico, come si rileva banalmente anche dalla sola lettura
dell’elenco di cavità visitate pubblicato a fondo di Der Karst und seine Höhlen28.
In molti casi si tratta certamente di attribuzioni riduttive, che non riconoscono gli elementi più tardi, dell’età del rame e protostorici: lo ha dimostrato lo
studio di Barfield sui materiali ceramici delle grotte Teresiana, Pettirosso, Moser
e Cotariova conservati a Vienna29, lo suggeriscono i disegni di frammenti di vasi
trovati, ad es., nella Gigante e nella Caterina30.
Marchesetti sembra più avanti di Moser nell’identificare componenti cronologicamente diverse, anche se non sempre porta le sue osservazioni alle possibili
conseguenze interpretative. Ad es., pur scrivendo a proposito dei rinvenimenti
nella grotta di S. Daniele del Carso che
si rinvennero tra l’argilla, alla profondità di pochi centimetri… cocci, che per la
loro pasta grossolana e per la loro cottura superficiale… rassomigliano perfettamente a quelli, che non rari rinvengonsi tra le macerie de’ nostri castellieri. Sono
specialmente rimarchevoli alcuni frammenti d’una pasta nera con numerosi
granuli di spato calcare.
e, analogamente, citando fra quelli di S. Canziano «cocci a granuli di calcite, caratteristici de’ castellieri», in quelle pubblicazioni non si spinge a datare
questi materiali ceramici alla protostoria31; diversamente, nello stesso articolo
su S. Canziano lo studioso attribuisce correttamente un’ascia piatta in rame
Materiali di età romana sarebbero stati trovati da Moser nelle grotte Caterina (insieme
anche a materiali medievali), Pettirosso, Alexander Höhle, Romana (?), Siršca e Gialla (vd.
schede dei siti in Flego - Župančič 2012 e www.units.it/criga).
28
Moser 1899, 117-118.
29
Vd. n. 14.
30
I disegni sono riportati in Flego - Župančič 2012, figg. 5, 11 e 12. Nella tabella di
sintesi in questo testo ho preferito comunque usare il termine meno specifico ‘preistoria’ perché
ri-attribuzioni più precise non possono prescindere da una verifica diretta dei materiali.
31
Montagnari Kokelj 2005, 449.
27
371
manuela montagnari kokelj
all’epoca «eneo-litica»32. Di fatto, negli scritti di fine ‘800 i manufatti ritenuti
discriminanti ai fini dell’attribuzione cronologico-culturale sono soltanto quelli litici e metallici, mentre negli ultimi lavori anche la ceramica sarà considerata
un indicatore valido33.
Questo cambiamento va probabilmente imputato al buon livello di aggiornamento di Marchesetti in relazione agli sviluppi delle conoscenze scientifiche, basato su studio, esame diretto di materiali e collezioni museali, contatti
personali34. Questi elementi non sembrano mancare, però, neanche nella vita di
Moser35, ma al momento gli studi su di lui non sono così avanzati da permettere
di valutare in che misura essi si siano riflessi nei suoi scritti.
I testi editi da Moser sono quantitativamente numerosi – ben 261 in totale,
inclusi quelli che non trattano argomenti archeologici36 – e qualitativamente
diversificati, perché sono di carattere sia scientifico che giornalistico e divulgativo. Gli esiti dei suoi interventi nelle grotte del Carso furono pubblicati quasi
sempre37: per quanto sia verosimile che i testi a stampa non contengano tutti i dati
presenti nei diari, questa relativa completezza di comunicazione contrasterebbe
con la scarsa diffusione di informazioni talora imputata a Marchesetti. È un dato
di fatto che soltanto due delle Caverne visitate in generale – Orso di Gabrovizza e Azzurra di Samatorza – furono pubblicate da Marchesetti. Tuttavia, nelle
recenti ricognizioni nei depositi del Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste,
dove sono conservati i reperti paletnologici delle sue indagini, oltre a quelli di
Orso e Azzurra sono stati rintracciati nuclei piuttosto esigui con indicazione
di provenienza da tre sole altre cavità del Carso triestino presenti nell’elenco:
Finestre (indicata nel manoscritto come « Gr. d. Gallerie Botac »), Fernetti («
Grotte abbinate di Fernetic ») e Orle (« Grotta d’Orleg (N 1), Grotta d’Orleg
(N 2), Gr. presso Orleg… [illeggibile] »)38. In questi casi la scarsità dei materiali
Montagnari Kokelj 1994, 201.
Ibid.
34
Molti dei contributi ai volumi Carlo Marchesetti 1994 e Carlo Marchesetti 2005, così
come l’articolo in corso di stampa di Betic, contengono dati e commenti su questi aspetti.
35
Nel volume Ludwig Karl Moser 2012 sono in particolare i testi di Lidija Rupel, Karl Mais
e Brigitta Mader a trattare queste tematiche.
36
Župančič 2012.
37
Dall’analitico lavoro di confronto fra diari e pubblicato fatto da Flego e Župančič ricavo l’impressione che siano rimasti sostanzialmente inediti soltanto gli interventi nelle grotte
Gigante, Lesa, Radici, Trincea e Frassino.
38
Vd. n. 7.
32
33
372
note su l. k. moser, c. marchesetti e le indagini nelle grotte
e la loro sostanziale atipicità potrebbero aver spinto Marchesetti a non render
noti i reperti di luoghi che forse contava di visitare nuovamente. Quando, invece, i nomi delle grotte sulla lista restano privi di riscontro, si può supporre che
lo studioso vi avesse effettuato semplici sopralluoghi, senza recuperare oggetti
e senza aprire saggi di scavo. È peraltro innegabile la fondatezza delle critiche
mosse da Raffaello Battaglia a proposito, ad es., della mancanza di una monografia sulla grotta Pocala, o della pubblicazione dei dati sulle sepolture trovate
in alcune grotte carsiche39: in questi casi, però, gli scavi non ancora conclusi e la
parzialità della documentazione furono dichiaratamente per Marchesetti motivi sufficienti per rimandarne la divulgazione40.
Per concludere... mi sembra palese che il recente volume su Moser ne ha
ampliato molto la conoscenza, aprendo nuove prospettive di studio; che i dati in
esso contenuti mettono in evidenza il fatto che il confronto fra le due principali
figure della ricerca paletnologica di fine ‘800-inizi ‘900 è fino ad ora soltanto
abbozzato; che, quindi, molto resta da fare, soprattutto per rintracciare i materiali delle indagini di quegli anni, in particolare di quelle di Moser. I risultati
importanti acquisiti attraverso le recenti indagini sul patrimonio di dati ancora
inediti di Marchesetti lasciano presumere che anche questi materiali, per quanto
forse scarsi, atipici, decontestualizzati, potrebbero comunque aumentare l’attuale percezione delle dinamiche insediative del territorio carsico nella preistoria.
Desidero ringraziare vivamente uno degli studiosi che più a fondo hanno
lavorato sulla figura di Karl Ludwig Moser, Matej Župančič, per la rilettura
critica di questo testo.
39
40
In merito vd. Montagnari Kokelj 2013.
Per spiegazioni di questo tipo date da Marchesetti vd. Montagnari Kokelj 1994, 194.
373
manuela montagnari kokelj
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374
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375
manuela montagnari kokelj
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M. Župančič - S. Flego, Non ad personam sed ad rem (o della libellula e della tartaruga), in Ludwig Karl Moser 2012, 191-199.
www.boegan.it
Sito web della Commissione Grotte Eugenio Boegan.
www.units.it/criga
Sito web del Progetto C.R.I.G.A. - Catasto Ragionato Informatico delle Grotte Archeologiche del Carso.
376
MARIA PIA MUZZIOLI
Il problema delle assegnazioni sillane nel Tuscolano
Sui vasti stravolgimenti territoriali seguiti alle confische e alle redistribuzioni di terre operate da Silla molto si è discusso, sia sul piano storico generale,
sia analizzando singoli interventi. Le difficoltà derivano dal fatto che in gran
parte i dati relativi sono dedotti da passi dei Libri coloniarum, la cui attendibilità è molto controversa. Senza affrontare il problema nel complesso si vuole
qui analizzare la situazione del territorio tuscolano, che – grazie ad una serie di
studi con capillare documentazione topografica1 – offre possibilità di indagine
maggiori che altrove.
Nel Liber coloniarum I (p. 238, 10-11 Lachmann)2 si legge: Tusculi oppidum
muro ductum. iter populo non debetur. ager eius mensura Syllana est adsignatus.
Numerosi altri vicini centri del Lazio (Aricia, Bovillae, Castrimoenium, Gabii)3,
oltre ad alcuni centri della Campania, hanno, nel Liber, riferimenti a interventi
di Silla. L’indicazione mensura Syllana ricorre solo nel caso di Tusculum, negli
altri casi troviamo interventi lege Sullana (oltre ai centri già ricordati, Capua,
Capitulum, Suessula) o limitibus Sullanis (Nola, Suessula)4.
Il primo dato del Liber riguarda la fortificazione del sito: di essa sono conservati solo alcuni resti5, ampiamente distrutti e trasformati nell’epoca medievale.
È però da ricordare che una importante fase di ristrutturazione urbanistica del
Innanzitutto i volumi della collana «Forma Italiae» Quilici 1974 e Valenti 2003.
Cf. Pais 1923, 66; ChouQuer et alii 1987, 77; Campbell 2000, 186-187; Libri coloniarum 2008, 11.
3
Riferimenti completi nella tabella in ChouQuer et alii 1987, 88-90.
4
Cf. tabella in ChouQuer et alii 1987, 249.
5
Quilici - Quilici Gigli 1993. Per un quadro topografico della città Quilici - Quilici Gigli 1990; Quilici - Quilici Gigli 1991.
1
2
377
maria pia muzzioli
centro, realizzata nella prima parte del I secolo a.C., individuata sia nell’ambito prettamente urbano (foro, teatro, basilica), che in quello immediatamente
extraurbano (monumentale struttura attribuita ad un santuario, con confronti
con altri vicini centri del Lazio6), viene generalmente ricondotta ad un vasto
intervento sillano, dopo il dissesto della guerra civile7.
Ma qui interessa affrontare il problema dell’agro. Tranne pochissime ecce-
Fig. 1. La divisione definita Bovillae-Tusculum
(ChouQuer et alii
1987, fig. 2).
zioni, tutti gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che non vi fu a Tuscolo
– che conservò la sua condizione di municipium – deduzione coloniaria, ma
solo, probabilmente, una serie di assegnazioni ai veterani di Silla, con funzione
di ricompensa e di presidio militare8. Che queste assegnazioni siano avvenute
Quilici - Quilici Gigli 1995; Ghini 2002.
Dupré Raventós 2003; Dupré Raventós 2007, 67-68.
8
Pais 1923, 269; Beloch 1926, 163; Mc Cracken 1943, 1470; Salmon 1969,
128-131; Gabba 1973, 174 (tra le assegnazioni incerte); Brunt 1971, 300-312, 349-350;
Humbert 1978, 306 n. 76; Rossi 1980, 372-373; Keaveney 2010, 128. Una voce molto
6
7
378
il problema delle assegnazioni sillane nel tuscolano
secondo schemi regolari, come il Liber coloniarum potrebbe suggerire, è da verificare, come è da capire in quali aree eventualmente esse siano state realizzate, e
il loro rapporto con le grandi ville della prima metà del I secolo a.C.9
L’analisi deve tener conto innanzitutto dell’estensione del territorio tuscolano, che, pur con vari elementi ipotetici, ha avuto, sulla base di alcune fonti indicative, una ricostruzione soddisfacente da parte di M. Valenti10. Lo stesso Valenti, pur non respingendo totalmente la notizia del Liber coloniarum, si dimostra
assai scettico sulle concrete ricostruzioni di vaste divisioni agrarie presentate
negli anni Ottanta del secolo scorso11. Due di queste ricostruzioni, che non
sarebbero estese al territorio di una singola
città, interesserebbero parzialmente l’area
tuscolana: il reticolo definito BovillaeTusculum (fig. 1) comprenderebbe anche
l’area di Castrimoenium12 e avrebbe uno
schema con quadrati di 14 actus di lato e
un orientamento 25°30’ E; un altro reticolo, definito Collatia-Gabii (fig. 2), riguardante una piccola parte nordoccidentale
del territorio tuscolano, presenterebbe
uno schema con quadrati di 16x16 actus
e un orientamento di 42° O. Ambedue
risalirebbero ad epoca sillana, ma non vi
sarebbe compresa Aricia, citata ugualmente nel Liber tra gli interventi sillani.
Fig. 2. La divisione definita CollatiaGabii (ChouQuer et alii 1987, fig. 3).
critica a proposito dell’utilizzazione dei dati del Liber coloniarum è quella di Hinrichs 1974,
51 n. 15, 66-68, che pensa per i centri intorno a Roma piuttosto a vendite che ad assegnazioni.
È anche importante ricordare l’opinione di Rudorff 1852, 333, secondo cui le indicazioni del
Liber del tipo di quelle ricordate, ricorrendo anche per territori che poi ebbero forme di colonizzazione in età imperiale, potrebbero avere solo un valore tecnico e non indicare specifiche
operazioni di intervento in età repubblicana.
9
Era opinione di Pais 1923, 269, che vi fosse un legame tra le grandi ville e le ricchezze
ottenute con le proscrizioni, ma il rapporto è certamente meno automatico.
10
Valenti 2003, 57-58.
11
ChouQuer et alii 1987.
12
ChouQuer et alii 1987, 87-94.
379
maria pia muzzioli
Non sto qui a ripercorrere le critiche metodologiche che da più parti questi
studi hanno suscitato13, e la necessità di singole revisioni. Per quanto riguarda
Tusculum e le aree adiacenti preme sottolineare che le caratteristiche geomorfologiche del territorio (che non risultano nei quadri presentati, su base cartografica quasi completamente muta) rendono molto difficile una soluzione di grande
estensione con un unico schema. La città occupa infatti un elevato pianoro, a
una quota di oltre 600 m, cui fanno riscontro altre notevoli alture; il declivio
verso nord è più dolce, e più adatto alle coltivazioni, soprattutto della vite14,
nelle aree a quote al di sotto dei 400 m, fino alla via Labicana. Inoltre la storia
stessa di Tuscolo, il suo essere municipio di vecchia data, la presenza già dal II
secolo a.C. di possedimenti e ville anche di personaggi importanti di Roma
rendono impossibile pensare ad un azzeramento generalizzato delle situazioni
precedenti. Tuttavia, pur tenendo conto che delle aree confiscate alcune venivano vendute15, non si possono escludere, per settori limitati, distribuzioni ai
veterani di Silla, e quindi anche operazioni agrimensorie sul terreno.
Penso sia quindi lecito, almeno in via ipotetica e con molte cautele, qualche
tentativo di individuazione di tracce di divisioni regolari del suolo. Il lavoro è
reso complesso dai grandissimi stravolgimenti cui è andato soggetto negli ultimi
decenni il territorio considerato, con sviluppo di una edilizia diffusa che non
permette, tranne che in aree limitate, un controllo topografico adeguato, ed è
anche da tener presente che già a partire dal Rinascimento gli interventi per gli
impianti delle grandi ville nobiliari hanno in parte distrutto e alterato il tessuto
antico, anche se non mancano casi di riutilizzazione e di continuità sia per quanto riguarda le strutture monumentali che singoli tratti viari. Con l’ausilio di una
cartografia non aggiornata si possono comunque evidenziare16, pur nei limiti di
una ricerca ancora incompleta e che per molti versi necessita di ulteriori indagini, alcuni elementi lineari (strade, sentieri, limiti di campi, confini comunali),
con andamento di circa 30° O, adeguato alla generale pendenza del terreno e ai
Sintesi e riferimenti in Muzzioli 2010, 16.
Oltre alla viticoltura (per cui abbiamo delle indicazioni in Varro ling. VI, 16 ; Macr. sat.
III 13, 3; VII 7,14), ancora oggi praticata, nel Tuscolano si produceva frutta , cipolle, viole gialle
(cf. Valenti 2003, 26-27) .
15
Per le caratteristiche e le modalità vd. soprattutto Shatzman 1975, 37-46; Hinard
1985, 67-195.
16
Un riferimento a ricerche in questo senso, a quel tempo in fase preliminare, in
Castagnoli 1993 [1984], 808 n. 14.
13
14
380
il problema delle assegnazioni sillane nel tuscolano
corsi d’acqua, e con distanze uguali a multipli dell’actus, tracce talora confortate
da rinvenimenti archeologici. Molto limitati sono invece gli elementi trasversali,
ciò che si spiega con la natura del suolo.
Si propone qui un quadro di sintesi (fig. 3)17, in cui si è preferito indicare solo
i tratti principali che è sembrato possibile collegare tra loro. Le loro distanze
sono prevalentemente di multipli di 20 o 10 actus, e permetterebbero quindi la
ricostruzione di uno schema classico (centuria di 20 actus di lato o, in alternativa, quadrati di 10 actus di lato), che non si è voluto in questa sede presentare
in maniera compiuta per evitare conclusioni definite. Preciso comunque che lo
schema che sembra adattabile alle realtà evidenziate presenta un valore per i 20
actus un po’ al di sotto dei 710 m18.
Procedendo da ovest a est i segmenti individuati come possibili cardini sono
i seguenti: un breve tratto della via di Colle Pizzuto, che sicuramente ricalca
almeno in parte una via antica19; ad una distanza di 50 actus un lungo tratto di
via in località Sterparoni, segnata in parte da un confine comunale, che tocca
il complesso di Grotta di Donna20; ad una distanza di circa 20 actus un tracLa base cartografica è costituita da stralci di tavolette I.G.M. 1:25.000 in vecchi rilevamenti, ritenuti i più adatti per questa indagine: F. 150 I S.O. (Colonna), II N.O. (Rocca di
Papa), III N.E. (Frascati), IV S.O. (Tor Sapienza). Lo spessore della linea utilizzata per evidenziare i tratti (1 mm su base 1:25.000, cioè equivalente a 25 m) può sembrare eccessiva, ma,
oltre al fatto che si è dovuto tener conto della riduzione in pubblicazione, va anche considerato
che, soprattutto nei casi in cui consideriamo tracciati moderni originati dagli antichi, una certa
oscillazione (traslazione) è un fenomeno frequente e va quindi computata (sui vari problemi
relativi all’utilizzazione di elementi topografici moderni per la ricostruzione dei tessuti centuriali vd. riferimenti bibliografici in Muzzioli 2010, 12-14).
18
I valori leggermente diversi per il lato della centuria possono dipendere da vari fattori (cf.
Muzzioli 2010, 14-15, 42), compresa anche l’incidenza delle eventuali servitù di passaggio
(iter populo debetur o non debetur, come nel caso di Tusculum nel Liber coloniarum). Non è però
possibile qui affrontare un tema così complesso e discusso.
19
Valenti 2003, 123, nrr. 84, 85, 87; fig. 21, tracciato g (p. 100).
20
Quilici 1974, 866-867, nr. 794, figg. 1955-1958. Poco ad est di questo asse una via
lastricata con lo stesso orientamento, ma interna ai supposti quadrati del reticolo (e quindi non
segnata nella fig. 3) correva a lato della via moderna che porta dalla fronte di Villa Mondragone
al Barco Borghese: Valenti 2003, 228, nr. 420, fig. 207 (cf. p. 102). Il tracciato si trova disegnato con precisione in Valenti 2008, fig. 1. Può essere interessante notare che i resti antichi
sotto e nei pressi di Villa Mondragone (Valenti 2003, 226-228, nrr. 414-418) hanno in parte
un andamento conforme all’orientamento di cui si parla, in parte completamente divergente,
come d’altra parte il grande complesso del Barco (Valenti 2003, 230-236, nr. 426).
17
381
maria pia muzzioli
Fig. 3. Possibili assi della divisione agraria nella nuova proposta.
382
il problema delle assegnazioni sillane nel tuscolano
ciato indicato come antico da Th. Ashby 21 (ad est e all’incirca parallelo a via di
Prataporci)22; ad una distanza di 60 actus, ad est di Monte Mellone, un sentiero
costeggiato da un confine comunale; ad una distanza di 50 actus, presso Fontana del Piscaro, un altro sentiero costeggiato da confine comunale, che nel suo
prolungamento verso nord è segnato antico da Ashby 23 (riguardo a quest’ultimo tracciato bisogna però dire che si trova a nord della via Labicana e vicinissimo al centro di Colonna, quindi verosimilmente nel territorio Labicano e non
Tuscolano).
Gli elementi perpendicolari, come si è detto, sono molto meno evidenti;
segnalo però una distanza di 20 actus tra un percorso in località Cisternole e
uno in località Spinetta. Bisogna stare comunque attenti a distinguere interventi
recenti, che possono anche riprendere gli stessi orientamenti, ma senza continuità: vedi ad esempio la strutturazione regolare intorno alla via di Prataporci,
che non compare nella base cartografica utilizzata agli inizi del Novecento da
Ashby24.
I dati emersi potrebbero bene combinarsi con la proposta25 di generalizzare
a tutti gli interventi sillani quanto testimoniato da Cicerone nell’orazione de
lege agraria II 78. Cicerone, nel contrastare la rogatio agraria di P. Servilio Rullo
(63 a.C.), che pur conteneva un limite massimo di 10 iugeri inalienabili (dena
iugera) nelle assegnazioni previste nel territorio Campano, prevedeva che tale
limite non venisse poi nei fatti rispettato, rammentando come una tale prescrizione, già presente nella lex Cornelia, fosse stata dopo pochissimi anni disattesa,
e citando ad esempio il territorio prenestino (ne per Corneliam quidem licet; at
videmus, ut longinqua mittamus, agrum Praenestinum a paucis possideri).
Questa disposizione, qualunque fosse poi l’esito nel tempo, renderebbe assai
probabile un tipo di divisione che permettesse un tessuto regolare di parcelle,
senza monconi tra un quadrato e l’altro, quindi si potrebbe pensare a fasce di
2 x 10 actus o a rettangoli di 4 x 5 actus entro centurie di 200 actus di lato. Nel
Ashby 1910, 325 e Ashby 1907, tav. II.
Dell’antichità della vecchia via di Prata Porci, oggi via di Pietra Porzia, ad andamento
rettilineo e conforme allo schema che qui si ricostruisce, si è discusso sulla base di informazioni
non chiare: precisazioni topografiche sulla zona e sui riferimenti toponomastici in Valenti
2004.
23
Ashby 1902, tav. V.
24
Ashby 1907, tav. II.
25
In particolare Hermon 2006a, 37; Hermon 2006b, 443 con n. 26.
21
22
383
maria pia muzzioli
primo caso risulterebbero significative le tracce di delimitazione a distanza di 10
actus sia per i cardini che per i decumani, determinando in sostanza quadrati di
10 x 10 actus, nel secondo caso assi a distanza di 10 actus risulterebbero solo in
una direzione.
L’altro aspetto molto importante da considerare per valutare l’eventuale
presenza ed estensione di assegnazioni è la distribuzione delle ville. Il territorio
di Tuscolo era famoso per le sue ville di altissimo livello. Soprattutto grazie agli
scritti di Cicerone veniamo a conoscenza dei nomi di molti proprietari e in vari
casi di ripetuti passaggi di proprietà, alcuni dei quali anche dovuti alle proscrizioni sillane e alle relative confische, che segnarono in maniera drammatica gli
anni seguenti l’82, con conseguenze e strascichi ancora ben presenti nella proposta di Rullo del 63 a.C.26
Se si confrontano gli elenchi di proprietari di un Tusculanum prima e dopo la
guerra civile salta immediatamente agli occhi quanti pochi siano i gentilizi che
compaiono in ambedue le liste27 (ricordo tra i principali M. Aemilius Scaurus28,
L. Licinius Lucullus, Q. Lutatius Catulus). Per il resto appaiono numerosissimi
i nuovi nomi nell’età successiva a Silla (Q. Caecilius Metellus Pius, A. Gabinius,
A. Hirtius, Q. Hortensius Hortalus, M. Iunius Brutus, Cn. Pompeius Magnus29,
M. Pupius Piso Frugi Calpurnianus, Q. Tullius Cicero), anche se, quanto a percentuali, le nostre conoscenze sono falsate perché basate in grandissima parte sugli
scritti di Cicerone, che qui ebbe una delle sue più amate residenze e che nelle sue
lettere e in altri scritti è ricchissimo di menzioni anche sulle ville vicine, cosa che
non si verifica per altri periodi. Cicerone dice di aver acquistato la sua villa, che
in precedenza era stata di Catulo, da Vettio (Att. IV 5, 2); Plinio (nat. XXII 6)
sostiene che il Tusculanum di Cicerone era stato in precedenza di Silla. Se, come
sembra, si tratta dello stesso fondo, dobbiamo vedere un ulteriore passaggio di
proprietà in un brevissimo spazio di anni. È significativo che Cicerone (leg. agr.
III 2, 9) precisi che doveva pagare una tassa ai Tuscolani per la fornitura dell’
In particolare Hinard 1985, 67-223 e 327-411.
Cf. gli elenchi redatti, sulla base della documentazione raccolta da Shatzman 1975,
da Valenti 2003, 56 e 59 (dettagli sui personaggi 66-91). Per un’epoca successiva cf. anche
Andermahr 1998, 50-51 (elenco).
28
Per la complessa situazione delle proprietà tuscolane di M. Emilio Scauro pretore nel 56
a.C. cf. Valenti 2003, 69.
29
La proprietà di Pompeo, a seguito della proscrizione, venne nelle mani di Antonio, poi
reclamata dal figlio Sesto.
26
27
384
il problema delle assegnazioni sillane nel tuscolano
aqua Crabra, tassa che non avrebbe pagato se il fondo gli fosse stato dato da
Silla (si a Sulla mihi datus esset). Il passo è significativo anche per una indiretta conferma della presenza nello stesso territorio di fondi attribuiti da Silla e
che godevano di particolari privilegi, in una situazione delle proprietà fondiarie
complessa e varia.
Le ricerche archeologiche, a partire dal Cinquecento, molto concentrate
sulla possibilità di identificare sul terreno le residenze note dalle fonti, hanno
portato alla luce numerosissimi e ricchissimi materiali, confermando la presenza
nelle ville tuscolane di opere d’arte e oggetti di arredo di straordinario livello,
mentre d’altra parte la capillare ricerca topografica ha permesso di riconoscere
una diffusa distribuzione di insediamenti, che attestano diversi gradi di disponibilità economiche a seconda delle varie aree. Un dato importante è la generale
assenza, tra i resti conosciuti delle grandi ville, di settori e ambienti destinati alla
produzione30. Questo fa pensare a una tipologia di villa esclusivamente residenziale, altrove poco sviluppata, favorita anche dalla scarsa superficie di terreno
che restava a disposizione per coltivazioni tra un complesso e l’altro, considerando la sicura rilevanza dei giardini. Inoltre, come si è detto, le zone più elevate, più prossime alla città e meglio disposte per avere delle buone prospettive
panoramiche, erano proprio quelle che meno si prestavano per loro natura a
coltivazioni di una certa estensione.
Qualche considerazione merita comunque il fatto che vari dei resti noti di
strutture si dispongono secondo orientamenti piuttosto vicini a quelli delle
supposte divisioni del terreno. Pur con i limiti che queste indicazioni sono in
grado di fornire alla ricostruzione di un tessuto regolare di divisione31, e tenendo
anche presente che gli orientamenti proposti si adeguano alla naturale morfologia
del territorio, si possono identificare vari casi, concentrati in grande prevalenza
Quilici 1974, 40 n. 4; Valenti 2003, 61. Scarsi i resti riferibili a torcularia (Quilici
1974, 40, attrezzature nella zona sotto Tuscolo verso la via Labicana; Valenti 2003, 182, nr.
257, 208, nr. 340, 291, nr. 605) e a macine granarie (Valenti 2003, 194, nr. 298), a quote non
oltre i 300 m e non nelle vicinanze della città. In particolare i nrr. 257, 298 e 340 si trovano nei
pressi degli allineamenti proposti per la divisione agraria.
31
È bene tener presente che comunque, all’interno degli appezzamenti assegnati, non vi era
alcuna specifica necessità di costruire le residenze in maniera perfettamente conforme agli assi
delle divisioni, si tratta quindi sempre di rapporti approssimativi: Muzzioli 2009, 175.
30
385
maria pia muzzioli
nei pendii a nord di Tusculum e Monte Porzio32, che potrebbero essere stati
influenzati dalla strutturazione regolare di cui si è parlato.
In via ipotetica, tenendo conto della sussistenza di elementi lineari paralleli, di vari orientamenti conformi e di presenze di materiali relativi ad aspetti
produttivi, è quindi in quest’area, estesa verso nord fino alla via Labicana, che
proporrei di localizzare assegnazioni e divisioni agrarie, limitate nello spazio e
in parte sicuramente anche nel tempo. Ben presto infatti qui, ancor più che a
Praeneste, dato il valore di questi terreni per l’aristocrazia romana, le proprietà
dei veterani dovettero vedere abbandoni, passaggi di mano, concentrazioni e
riorganizzazioni fondiarie, insieme con trasformazioni delle strutture residenziali, lasciando solo saltuariamente una impronta riconoscibile sul terreno.
Con una tolleranza di ± 5°, si segnalano i seguenti resti documentati in Valenti 2003,
nrr. 239, 250, 269, 271, probabilmente 395-396, 414, 419, 816, tutti nelle pendici a nord di
Tuscolo e Monte Porzio. Presentano orientamenti simili, ma apparentemente in situazioni
isolate, i nrr. 603, 775, 786, gravitanti sulla via Latina.
32
386
il problema delle assegnazioni sillane nel tuscolano
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389
DAVID NONNIS
A proposito del ‘monumento dei Calpurnii’ a Cales:
una nuova proposta interpretativa
Un importante articolo di Werner Johannowsky, scritto oltre mezzo secolo
fa, costituisce ancor oggi un punto di riferimento essenziale per la storia e l’archeologia dell’antica Cales (presso l’attuale Calvi Risorta), dalle fasi che precedono la deduzione della colonia latina nel 334 a.C. alla piena età romana1. L’attenzione sarà qui rivolta ad un interessante documento epigrafico ascrivibile alla
media età repubblicana, reso noto appunto in quella sede; il testo è successivamente confluito nei principali repertori epigrafici e, più di recente, nelle banche
dati epigrafiche consultabili in rete2.
In tale contributo, in cui si rendeva conto di saggi archeologici condotti (agli
inizi degli anni ’60 del secolo scorso) all’interno del perimetro urbano della città
antica e negli immediati dintorni, lo Johannowsky dà notizia della scoperta di
un’area necropolare a ovest del centro urbano presso il torrente Pezza Secca,
lungo il plausibile tracciato della antica via Latina (loc. Pezza Secca - S. Casto
Vecchio) e in connessione con uno degli ingressi della città antica3. Accanto a
Cf. Johannowsky 1961 [= Id. 2010, 14-25]; vd. anche Id. 1964. Per recenti messe a
punto sui rinvenimenti effettuati nell’area urbana e nel comprensorio caleno cf., con bibl. prec.,
Passaro et alii 2009 (con carta archeologica); Passaro 2012; De Caro 2012, 109-128.
2
Johannowsky 1961, 264 e 267 n. 46 [= Id. 2010, 22 con n. 46]; testo poi ripreso, con
miglioramento nella lettura, in CIL, I2 2874 b (con facsimile)= AEp 1987, 251 k = EDR080356
(G. Camodeca).
3
Cf. Johannowsky 1961, 264-265 [= Id. 2010, 22-23]; Id. 1976, 277-278 (per la fase di
1
391
david nonnis
deposizioni più antiche (tombe a fossa e a cassa di tufo, ascritte al IV sec. a.C.),
furono scoperti alcuni monumenti sepolcrali di epoca romana, tra i quali i resti,
sommariamente descritti, di un tempietto funerario su podio con ante sporgenti
sulla facciata; la struttura viene datata dallo Johannowsky al III sec. a.C., ma non
escluderei un suo inquadramento più tardo, in considerazione della sua stessa
tipologia architettonica e della cronologia dei monumenti addotti a confronto dall’editore4. Di fronte al podio vennero inoltre alla luce, ancora in situ, tre
segnacoli funerari in tufo, due dei quali iscritti e riferibili alle sepolture (cremazioni) di membri della gens Orofia/Orfia (entrambi figli di un L. Orofius); aspetti tipologici e paleografici ne suggeriscono una datazione piuttosto risalente,
compresa tra la seconda metà del II sec. a.C. e gli inizi del secolo successivo5.
Alla struttura sepolcrale ora richiamata, lo Johannowsky ha attribuito anche
il monumento epigrafico oggetto di questa breve nota, il quale è attualmente
conservato a Santa Maria Capua Vetere (CE), nei depositi del Museo Archeologico Nazionale dell’Antica Capua6.
II-I sec. a.C.); Passaro et alii 2009, 148-149 sito 31 (C. Passaro e A. De Filippis); vd. anche
Passaro 2012, 21 n. 14; De Caro 2012, 122 e 127-128. Per l’individuazione (e il successivo
scavo) di un’officina ceramica nei dintorni cf. Coletti 2011-12, 291-292, CO19.
4
Johannowsky 1961, 264, con proposta di datazione che si fonda sul profilo della sagoma del podio, sui materiali ceramici rinvenuti al suo interno e sui resti della decorazione dipinta; i confronti planimetrici segnalati (tombe della Licinella e del Gaudo nei pressi di Paestum
e monumento della necropoli lungo la via Ostiense, Ostia) sembrerebbero tuttavia ricondurre
ad un ambito cronologico più tardo (II-I sec.a.C.): per le tombe pestane (e per un monumento
affine da Roma) cf. von Hesberg 1994, 34 e 144 con figg. 68-69; Torelli 1999, 82; per il
sepolcro ostiense cf., di recente, Pavolini 2006, 45. Per la progressiva diffusione a Roma, tra II
e I sec. a.C., dei monumenti funerari ad edicola su alto podio cf. ora Giatti 2011, 138-142 (tra
gli esempi più antichi il monumentum di Scipione l’Africano fatto costruire nella sua proprietà
di Liternum, come ricorda Livio [XXXVIII 56, 3-4]). Una datazione al III secolo è comunque
stata di recente proposta per una tomba ad edicola, su alto podio, della necropoli in località
Orto Ceraso presso Teanum Sidicinum, centro situato a pochi Km di distanza da Cales: cf.
Miele 2005, 512, con fig. 2 a p. 511 (l’autrice sottolinea peraltro la precocità del monumento
teanese rispetto a strutture funerarie affini).
5
Si tratta di CIL, I2 3118 a-b (= AEp 1989, 154 e 162 = EDR081320 (G. Camodeca) e
EDR08328 (G. Camodeca); cf. anche Chioffi 2011, 42-43 nrr. 043-044), riferibili rispettivamente a un C. Orofius L.f. e a M’. Orofius L.f. (stele con busto-ritratto).
6
Deposito III, Sala interna; cf. ora Chioffi 2011, 42 nr. 042, con fotografia a fig. 47 (che
qui si riproduce a fig. 1a).
392
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
Si tratta di un blocco parallelepipedo di tufo, mancante a destra e a sinistra
(mis.: 28 x 62 x 44); l’iscrizione, incisa a campo libero su una delle facce maggiori, è disposta su quattro righe con lettere di altezza decrescente (3,5-7 cm), non
potendosi escludere che il testo continuasse anche nella porzione inferiore del
blocco, andata perduta (figg. 1a-1b). Nella trascrizione che segue si accoglie la
lettura, che sensibilmente migliora quella dell’editio princeps, proposta da Heikki Solin, Giuseppe Camodeca e Laura Chioffi7:
C. Calpu[rnio(s) - f.],
C. Apruc[io(s) - f.],
L. Calpu
r[nio(s) - f.],
L. Vib io(s) [- f.]
------?
Il primo editore, nell’ipotesi che il blocco iscritto fosse pertinente al vicino
monumento a tempietto, ha pensato ad un’iscrizione funeraria, riconoscendo
nei quattro (o più) individui di condizione libera che vi sono ricordati i destinatari dell’edificio sepolcrale. I loro nomi, privi della formula di filiazione a causa
della frattura che ha interessato la porzione sinistra del blocco, sono indicati
Fig. 1a. Blocco iscritto dalla loc. Pezza Secca - San Casto Vecchio presso Cales (da Chioffi
2011, 42, fig. 47).
Fig. 1b. Apografo dell’iscrizione dalla loc. Pezza Secca - San Casto Vecchio presso Cales (CIL,
I2 2874 b).
Cf. Solin 1986, 159-160 (= AEp 1987, 251 k) [= Id. 1998, 271-272]; dalla trascrizione
di H. Solin dipende anche quella di CIL, I2 2874 b (H. Krummrey); per i contributi di G.
Camodeca e L. Chioffi vd. supra a nn. 2 e 6.
7
393
david nonnis
in caso nominativo, con uscita ancora desinente in –io(s), come risulta dalla r.
4, meglio conservata delle precedenti8. Tale tratto linguistico appare coerente
con il dato paleografico: da notare in particolare, oltre alla A con traversa ormai
orizzontale, la L ad uncino, la P con occhiello ancora aperto, la R con appendice
che non raggiunge la base della lettera, nonché l’uso di interpunti circolari9. Gli
elementi a nostra disposizione concorrono pertanto ad inquadrare ragionevolmente il nostro documento ancora nel III sec. a.C., con probabilità nel corso
della seconda metà del secolo, come del resto già suggerito dagli studiosi che in
precedenza si sono interessati all’epigrafe.
Il blocco iscritto dalla necropoli in loc. Pezzasecca può pertanto essere accostato, sul piano cronologico, ad altri documenti epigrafici caleni che si collocano
ancora nel corso del III sec. a.C. Tra questi va in primo luogo ricordata la nutrita
serie di ‘firme’ e bolli nominali impressi sulla ceramica a vernice nera fabbricata
nel comprensorio della colona latina, sia quella ‘liscia’ che quella, più conosciuta
e di maggior pregio, con decorazione a rilievo realizzata a matrice10. Di notevole
interesse risulta, anche per la peculiare tipologia del supporto (una mano fittile
Fig. 2. Apografo della dedica ad Apollo dal santuario di Ponte delle Monache presso Cales (da
Ritschl 1878, tav. XVII, fig. A).
Cf. già, in questo senso, Solin 1986, 160 [= Id. 1998, 271-272].
Cf. in merito Zucca 1994, 130-132, con raccolta della relativa documentazione a
141-144.
10
Una parte rilevante della documentazione è raccolta in CIL, I2 405-417 e 2487-2493
cf. pp. 720-721 = 832, 884-885; 431/2 cf. p. 886; 2881. Per una trattazione complessiva della
ceramica calena e del suo corredo epigrafico cf. Pedroni 2001 (in part. 62-116 con elenco e
analisi delle firme, cui si aggiunga AEp 2003, 347; 207-227 per il gruppo degli ‘stampigli erculei’); cf. anche Morel 1994; Compatangelo-Soussignan 1999, 31-33 e Di Giuseppe
2012, 48-53 e 87-89 (con acute considerazioni sui luoghi e le modalità di produzione, nonché
su alcune firme impresse sulla ceramica a rilievo); per le aree produttive all’interno dell’area
urbana cf. anche Coletti 2011-12, 283-290, C022.
8
9
394
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
recante una cassetta o cista iscritta, presumibilmente pertinente ad una statua
votiva di offerente), una dedica ad Apollo, posta da un liberto nel pieno III sec.
a.C., come suggeriscono, in primo luogo paleografia e lingua dell’iscrizione (fig.
2); del singolare manufatto è stata di recente accertata la provenienza da un
ingente scarico di materiali votivi, da connettere ad uno dei principali santuari
urbani (loc. Ponte delle Monache)11.
Se la datazione del documento non appare nel complesso problematica,
altrettanto forse non si può dire in merito alla sua interpretazione come epigrafe
sepolcrale, legata evidentemente al contesto di provenienza. Osta a una simile
lettura del monumento iscritto, sostanzialmente accolta da chi se ne è occupato
sino ad oggi, in primo luogo la sua stessa tipologia, se rapportata al suo inquadramento cronologico in età medio-repubblicana. Non si conoscono infatti,
ad oggi, iscrizioni sepolcrali di carattere monumentale esposte sulla fronte di
edifici funerari prima dei decenni finali del II sec. a.C. (a meno di non pensare
a iscrizioni dipinte andate successivamente perdute), né a Roma12, né in altri
CIL, X 4632 = I2 399 cf. p. 882 = ILLRP 46 (iscrizione incisa a crudo sul coperchio
del cofanetto): C. Hinoleio(s) C.l. / Apolone dono(m) ded(et); per un facsimile dell’epigrafe cf.
Ritschl 1878, tab. XVII fig. A. Per la provenienza della mano fittile (che dovrebbe conservarsi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ma non è inclusa nel catalogo di Ciaghi
1993), rinvenuta in occasione di scavi condotti dal Marchese di Salamanca (1863) nel fondo
Marco Zona cf. Passaro et alii 2009, 145-146, sito 27 (C. Passaro e A. De Filippis); Ead.
2012, 19 n. 9; De Caro 2012, 119. L’iscrizione in questione rientra peraltro tra le più antiche
dediche poste da liberti (o liberte) nell’Italia romana sino ad ora note: cf. in merito Panciera
1989-90, 912 (con nn. 78-79) [= Id. 2006, 27, con ulteriore documentazione segnalata a p.
29, nella nota complementare]; accanto a questo ristretto gruppo (6 iscrizioni) si possono poi
ricordare due donari offerti a Roma verso la fine del III sec. a.C.: CIL, I2 31 cf. p. 862 e 976
cf. p. 964. Conto di tornare in un prossimo futuro su questo manufatto iscritto di Cales (forse
dedicato dallo stesso coroplasta che lo ha plasmato, tenuto anche conto della tecnica scrittoria
che riconduce l’ex-voto alla fase officinale).
12
Per un quadro sull’epigrafia sepolcrale di Roma della media età repubblicana (con osservazioni anche sul periodo successivo) cf. Berrendonner 2009: come è noto, alla serie delle
iscrizioni incise sui sarcofagi del sepolcro dei Cornelii sulla via Cristoforo Colombo (CIL, VI
40892-40893 = I2 2834-2835) e a quelli pertinenti al sepolcro degli Scipioni (CIL, VI 12841294 cf. pp. 466-4674 = I2 6-16 cf. pp. 718, 739, 831, 859-860), destinati ad una fruizione
interna, non sembrano corrispondere iscrizioni monumentali sulla fronte dei rispettivi sepolcri
gentilizi. Carattere eccezionale assume il ‘sepolcro di Fabio’, immediatamente all’esterno della
porta Esquilina, con affreschi evocanti le imprese militari del defunto (riflesso di tabulae triumphales pictae) dipinti sulla parete esterna della camera sepolcrale: nel caso specifico le immagini
11
395
david nonnis
centri dell’Italia romana, dove pure non mancano iscrizioni funerarie risalenti
almeno agli inizi del III sec. a.C., se non prima13.
Suscita inoltre qualche perplessità il fatto che vengano contestualmente ricordati, come eventuali destinatari di un edificio sepolcrale, individui, tutti di sesso
maschile, appartenenti ad almeno tre distinte gentes (Calpurnii, Aprucii e Vibii);
soltanto nel caso del primo e del terzo individuo ricordati (rispettivamente C.
Calpurnius e L. Calpurnius), sarebbe infatti possibile prospettare un qualche
rapporto di parentela agnatizia, in ogni caso non ulteriormente precisabile.
Le osservazioni critiche in merito alla natura funeraria del documento, inducono a cercare altre possibili soluzioni interpretative, che meglio rispondano
alla tipologia del monumento iscritto (un blocco, presumibilmente inserito in
una struttura muraria), agli elementi testuali conservati (le formule onomastiche bimembri, al nominativo, di quattro individui) e alla sua stessa cronologia.
Gli indizi a nostra disposizione porterebbero, a nostro giudizio, a pensare ad
un testo di natura ufficiale, una dedica o un’iscrizione che commemorava lavori
edilizi, presumibilmente in connessione ad un contesto santuariale o pubblico. La scoperta dell’epigrafe all’interno di un’area sepolcrale e la sua eventuale
pertinenza al monumento funerario in precedenza richiamato potrebbero spiegarsi in relazione ad un reimpiego strutturale del blocco iscritto nelle murature del sepolcro o, comunque, ad un suo rinvenimento in giacitura secondaria14.
risultano corredate, in funzione di didascalia, dei nomi dei personaggi rappresentati (Q. Fabius
e M. Fannius: CIL, VI 29827 cf. 36612 = I2 1011 cf. pp. 728, 840, 967); sul monumento cf. da
ultimo Coarelli 2012. Tra i più antichi monumenti sepolcrali provvisti di corredo epigrafico
esterno si può ricordare il sepolcro a naiskos di Ser. Sulpicius Galba (CIL, VI 31617 cf. pp.
3799, 4773 = I2 695 cf. p. 936), con probabilità da identificare con il cos. del 108 a.C. (se non
con il suo omonimo, cos. nel 144 a.C.): cf. in merito Giatti 2011, 138-139.
13
Penso, in primo luogo, alla cospicua serie di segnacoli sepolcrali (cippi a pigna e busti
ritratto) della necropoli prenestina della Colombella (documentazione raccolta in Franchi
de Bellis 1997; vd. anche Granino Cecere 2005, nrr. 442-596), o alle urne iscritte (e vasi
con graffiti nominali) degli ipogei dei Furii (CIL, I2 50-58 cf. pp. 718 = 831, 867), dei Rabirii
(CIL, I2 2850-2854 e 2904) o di altri complessi funerari nei pressi di Tusculum (CIL, I2 28482849); per la tomba dei Furii cf. ora Díaz Ariño - Gorostidi Pi 2010, 175-183; per quella dei Rabirii cf. Gorostidi Pi 2009. Di notevole interesse è inoltre l’isolata testimonianza
anziate CIL, I2 3041 = Aep 1991, 429.
14
L’ipotesi di un reimpiego edilizio sarebbe ulteriormente avvalorata se fosse possibile
dimostrare la seriorità del monumento sepolcrale rispetto all’iscrizione, così come prospettato
in precedenza (vd. supra nel testo con la n. 4).
396
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
Non si potrebbe, peraltro, forse escludere una qualche relazione topografica e
funzionale con la contigua sede stradale della via Latina (lungo il tracciato della
quale era disposta la stessa necropoli in loc. Pezza Secca-San Casto Vecchio) o
con lo stesso circuito murario della colonia.
Nella eventuale parte mancante dell’epigrafe (che poteva eventualmente
continuare anche su un blocco sottostante) dovevano, con probabilità, trovare
posto, oltre ai nomi di ulteriori persone, la qualifica dei quattro (o più) individui
e un verbo (o sintagma) verbale che specificava l’entità dell’intervento (ad es.,
dedica, costruzione/rifacimento, delimitazione); a queste informazioni potevano aggiungersi, nell’ipotesi di un testo maggiormente articolato, la menzione
dei fondi utilizzati, nonché della struttura oggetto dei lavori15.
Se la lettura alternativa del documento che qui si propone cogliesse nel segno,
dovremmo preferibilmente individuare negli individui menzionati altrettanti
magistrati locali della stessa Cales nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, attivi durante la fase coloniaria; la cronologia piuttosto risalente del
documento (e forse anche il numero stesso delle persone) porterebbe invece ad
escludere che ci si possa trovare di fronte ai rappresentanti (magistri) di collegia (cultuali o di altra natura) o a funzionari (quali magistri, aediles, quaestores)
di contigui distretti rurali, il cui ricordo epigrafico in Italia raramente risale a
prima della metà del II sec. a.C.16.
Se effettivamente si trattasse di magistrati della colonia latina, ci si deve
interrogare sulla possibilità di definire con maggiore precisione la loro carica. La
documentazione epigrafica della stessa Cales, generalmente di epoca posteriore, fornisce pochi dati, di natura indiziaria sull’ordinamento istituzionale della
colonia latina, dedotta nel 334 a.C. (come sembra, rifondata nel 313 a.C.) e
Quest’ultima informazione poteva in ogni caso essere omessa, in quanto resa superflua
dal rapporto diretto tra epigrafe e monumento/struttura in cui era in origine inserita.
16
Per la documentazione epigrafica relativa ai distretti rurali dell’Italia romana e ai loro
funzionari rinvio alle ampie disamine di Todisco 2011, 109-132 (magistrati dei vici) e di
Sisani 2011, 611-626 e 636-678; tra le testimonianze più antiche (III - decenni iniziali del
II sec. a.C.) si possono ricordare alcune dediche dal territorio dei Marsi e Paeligni: cf. Sisani
2011, 671-676; Letta 2012, 65 e 69. Per i vici documentati nel comprensorio caleno (uno dei
quali, il vequs Esqelinus, attestato nel pieno III sec. a.C. da una delle firme vascolari sulla ceramica calena a rilievo [CIL, I2 416 cf. pp. 720-721 e 885], cf. da ultima, con diversa attribuzione
all’Urbe, Di Giuseppe 2012, 49-53), variamente interpretati come quartieri della città o come
insediamenti nel territorio, cf. Guadagno 1993, 430-434; Coarelli 1995, 377; Stek 2009,
135-137; Di Giuseppe 2012, 51.
15
397
david nonnis
rafforzata, con l’invio di un contingente di nuovi coloni, poco prima del 184
a.C.17.
In analogia a quanto noto in altre colonie latine dedotte dopo lo scioglimento della lega Latina, possiamo forse presupporre che ai vertici della colonia fosse,
almeno sino al pieno II sec. a.C., una coppia di praetores18; quella prestigiosa (ma
ormai antiquata) denominazione potrebbe forse trovare un riflesso indiretto in
alcune iscrizioni d’età tardo repubblicana che ricordano, quali magistrati supremi del municipium sorto dopo la guerra sociale, dei quattuorviri praetores19.
I dati sono sinteticamente richiamati oltre che in CIL, X p. 451 (Th. Mommsen), da
Degrassi 1959, 317 [= Id. 1971, 83]; la notizia relativa a un invio supplementare di coloni,
coordinato da P. Claudius Ap.f. Pulcher poco prima del suo consolato nel 184 a.C. è fornita
esclusivamente da un perduto elogium urbano (CIL, VI 1283 a cf. 31586 a cf. pp. 3799 e 4669
= InscrIt XIII, 3, 709: [P. Claudius Ap.f. P.n. Pulcher colono]s adscripsit Cales…). Sulle vicende
che portarono alla deduzione della colonia e al successivo invio di coloni cf. CompatangeloSoussignan 1999, 21-23 e 33; De Caro 2012, 109-110. Più in generale, sul contesto storico
in cui si inseriscono, dopo il 338 a.C., le deduzioni delle più antiche colonie latine tra Lazio
meridionale e Campania, cf. Coarelli 1998, 29-32.
18
Cf., ad es., CIL, I2 396 cf. p. 882, 1729 cf. p. 1030 e 1747 cf. p. 1032 (Beneventum; una o
due testimonianze forse da riferire alla fase municipale: cf. Torelli 2002, 80-81; Panciera
2006, 91 n. 53 [per CIL, I2 1729]); 3275, cf. Buonocore 2009, 286 nr. 247 (Alba Fucens);
3292a = AEp 1984, 370, cf. Buonocore 2009, 303 nr. 406 (Hadria); 3376, cf. Sisani 2007,
399 nr. 94 (Spoletium); per la eventuale presenza di praetores anche ad Aquileia nella fase finale
della colonia latina (sulla base del possibile scioglimento pr(aetores) al posto di pr(aefecti) per la
coppia di magistrati preposti alla costruzione di mura e porte a Tricesimo [o la stessa Aquileia?]
in CIL, I2 2648 cf. p. 1093 = InscrAq 46) cf. Zaccaria 2003, 301 n. 44 e Id. 2007, 132 (diverso inquadramento in Sisani 2011, 680 n. 490). Un praetor della colonia latina di Paestum
(Q. Laureius) è attestato da legenda monetale su semisse: cf., di recente, Pera 1995, 115-118
(passim). Praetores, magistratura suprema caratteristica di diverse comunità latine, compaiono
anche, nella fase pre-municipale, in priscae Latinae coloniae del Lazio meridionale, quali Signia
(CIL, I2 1504 cf. p. 1001; Cifarelli [- Ambrosini - Nonnis] 2002-2003, 247-249 con fig.
2) e Setia (CIL, I2 1517 cf. pp. 730, 1001-1002; AEp 1997, 283; per lo statuto giuridico del
centro cf. Chiabà 2011, 122-123); praetores sono peraltro attestati anche in epoca risalente
a Cora (CIL, I2 1513 cf. p. 1001), sul cui status coloniario prima del 338 a.C. sono stati però
espressi dubbi: cf. Palombi 2003, 202-205; Termeer 2010, 52 n. 1; Chiabà 2011, 5-9.
19
Cf. CIL, X 3923 = I2 1574 cf. p. 1008 = EDR005764 (M. Foglia - G. Camodeca); 4657 =
EDR 1155836 (M. Stefanile); AEp 1973, 135 = EDR075455 (G. Camodeca); a Cumae, e non
a Cales, vanno assegnati due cippi terminali che attestano l’attività del praetor M. Marius M.f.
(CIL, I2 1575 cf. pp. 740, 840, 1009): cf., in merito, Camodeca 2010, 68. Si tenga peraltro
conto del fatto che il titolo prestigioso, ma al tempo stesso antiquato, di praetores (in alcuni
17
398
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
Alcune altre iscrizioni calene, di inquadramento cronologico incerto, menzionano invece dei censores quali magistrati preposti alle operazioni di censimento
e di lectio senatus 20, con una titolatura che trova, similmente, riscontro in altre
colonie latine negli anni che immediatamente precedono il bellum Sociale 21.
È forse, piuttosto, il confronto con il quadro istituzionale di altre affini realtà
coloniarie del III-II sec. a.C. a fornire una possibile chiave di lettura per il nostro
testo. Come è noto, alla coppia di magistrati giusdicenti (variamente definiti
consules, praetores e, come sembra in epoca posteriore, duoviri), nelle colonie
latine si affiancavano altre magistrature minori che ricalcano, nella titolatura,
cariche omologhe dell’Urbe, quali l’edilità, la censura, il tribunato della plebe
e la questura22. Il numero degli individui ricordati nel testo (almeno quattro)
farebbe in particolare pensare ad un collegio di quaestores, peraltro documentati nella città campana anche da alcune iscrizioni di età imperiale23. Come è da
centri inteso come equivalente di praetores duoviri o praetores quattuorviri) resta una denominazione usuale per i magistrati supremi di città dell’Italia romana (e anche in ambito provinciale) ancora tra tarda Repubblica e età augustea, e non soltanto in antiche colonie (dove già,
verso la fine del II sec. a.C., si era ufficialmente passati ai duoviri): cf. Degrassi 1950, 315-317
[= Id. 1962, 140-142]; Cébeillac Gervasoni 1994, in part. 16; Buonocore 2009, 564
(in merito ai praetores di Aesernia). Per attestazioni epigrafiche di praetores duoviri in colonie
attribuite all’età graccana (tra cui Abellinum, Telesia e Grumentum, nonché Narbo Martius) cf.,
di recente, Camodeca 2008, 30-31 e 33-34; vd. anche, in questo stesso volume, il contributo
di M. Buonocore.
20
Cf. CIL, X 4633; 4662-4663.
21
Cf., ad es., le testimonianze aquileiesi CIL, I2 3420 = InscrAq 35 e (forse) 3419, sulle quali
cf. Bandelli 1988, 102 e 148-149 (nn. 9-10); Zaccaria 2003, 302 con n. 48; cf. anche CIL,
I2 1694 cf. p. 1022, da Copia-Thurii (forse della fine del II sec. a.C.: cf. Paoletti 1994, 535).
Per la censura nella prisca latina colonia di Setia cf. CIL, I2 1518 cf. p. 1018.
22
Per quadri di sintesi sull’ordinamento delle colonie latine cf., accanto a Degrassi
1959, 309 [= Id. 1971, 73-74], Laffi 1987, 39-46 [= Id. 2001, 148-152]; Zaccaria 2003,
299-302 (entrambi in relazione al caso aquileiese, per il quale vd. anche Chiabà 2009, 12-13).
Sul rapporto (convivenza o successione cronologica delle due cariche?) di consules e praetores,
in rapporto a Beneventum cf., di recente, Torelli 2002, 78-80.
23
Cf. CIL, X 3910 e 4658 = ILS 6300, su cui vd. anche Petraccia Lucernoni 1988,
100-101 nrr. 133-134; vd. anche CIL, X 4631 = InscrIt XIII, 1, 16 (frammento dei fasti locali).
A Cales è stato, di recente, riferito anche un altro frammento di fasti municipali (InscrIt XIII, 1,
14 = AEp, 2008, 385, in precedenza attribuito a Teanum Sidicinum), in cui compaiono, per il
45 d.C., altri due quaestores della città: cf. Camodeca 2007, 173-174 [= Id. 2008, 331-333].
Questori erano presenti, peraltro, in epoca risalente anche nella vicina Teanum (allora civitas
399
david nonnis
tempo noto, in primo luogo grazie agli studi di Attilio Degrassi, un elemento
caratteristico dell’assetto istituzionale delle colonie latine a partire dalla media
età repubblicana è costituito da collegi composti da un numero variabile di tali
magistrati minori in carica simultaneamente24. Gruppi di cinque questori sono
attestati epigraficamente a Paestum (pieno III sec. a.C.)25, a Firmum Picenum
(decenni centrali del III sec. a.C.)26 e ad Aquileia (fine II sec. a.C.)27; a Venusia una mutila (e perduta) iscrizione documenta invece l’attività di un collegio composto forse da sei questori (III/II sec. a.C.?)28, mentre a Beneventum
sembrano addirittura sette i magistrati ad assumere nel medesimo momento tale
incarico29. Altri questori sono inoltre testimoniati, durante il II sec. a.C. (anche
foederata), come veniamo a sapere da un frammento di orazione attribuita a Caio Gracco (Gell.
N.A. X 3, 2-3, M. Marius quaestor Sidicinus): cf. Camodeca 2007, 169-170 n. 8 [= Id. 2008,
326 n. 8].
24
Cf. Degrassi 1963, 141-143 [= Id. 1967, 3-4]; Degrassi 1965 [= Id. 1967, 337-341];
Degrassi 1967a [= Id. 1967, 342-343 = Id. 1971, 65-66]; cf. anche Laffi 1987, 44-45 [=
Id. 2001, 150]; Todisco 2011, 126-127; Silvestrini 2013, 176 con n. 40.
25
CIL, I2 3151= ILP 150 (dall’area forense); in un iscrizione di poco più antica è attestato
invece un gruppo di quattro questori (CIL, I2 3152 = ILP 139); per un’ulteriore testimonianza
coeva di quaestores della colonia latina cf. CIL, I2 3153 = ILP 141. Sui questori pestani cf., in
particolare, Voza 1967; Degrassi 1967a [= Id. 1967, 342-343 = Id. 1971, 65-66]; Petraccia Lucernoni 1988, 144-146 nrr. 209-211.
26
CIL, I2 383 cf. p. 879, su cui, da ultimo, SupplIt, n.s. 23, Roma 2007, 82-83 ad CIL, IX
5351 (F. Squadroni).
27
CIL, I2 3423 = InscrAq 45; per un’ulteriore attestazione di un quaestor della colonia
latina cf. CIL, I2 2209 cf. p. 1094 = InscrAq 32 su cui vd. Zaccaria 2009, 82 con fig. 5;
Bertrand 2012, 56 e 65 nr. 3. Sui quaestores aquileiesi della fase coloniaria cf. anche Bandelli 1988, 102-103 (nrr. 35-36) e 147-148 (nrr. 5-6); Petraccia Lucernoni 1988, 252-253
nrr. 393-394; Zaccaria 2003, 302 con nn. 50-53. Alla documentazione epigrafica relativa ai
quaestores aquileiesi si potrebbe peraltro aggiungere anche CIL, I2 2648 = InscrAq, 46 (da Tricesimo), in cui, accanto a praefecti/praetores compaiono anche due questori: per questa iscrizione
vd. supra n. 18.
28
CIL, I2 402 cf. p. 883, su cui di recente, SupplIt, n.s. 20, Roma 2003, 59-69, ad CIL, IX
439 (M. Chelotti); Barreda Pascual 2007, 117. Per la possibile menzione di un questore su
una legenda monetale della fine del III sec. a.C. cf. Silvestrini 2013, 175.
29
CIL, I2 1731 cf. p. 1030, con fotografia a tab. 69 fig. 4: sul blocco i sette nomi sono disposti, con allineamento a destra, su altrettante righe; in corrispondenza del quarto (e quindi in
posizione centrale) è incisa, a fianco, la sigla q(uaestores), da riferire a tutti i membri del collegio. La datazione del documento risulta problematica: un tratto linguistico risalente, come il
400
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
se in alcuni casi potrebbero essere ascritti alla successiva fase municipale), non
soltanto per via epigrafica ma anche attraverso legende monetali, nelle colonie
latine di Hadria30, Cosa31, Copia (emissioni monetali)32e Brundisium (emissioni
monetali e, come sembra, epigrafia anforica)33, come anche nelle affini comunità
latine di Carteia e Valentia fondate in Spagna nel corso del II sec. a.C. (emissioni
monetarie per entrambe le colonie)34.
La consistente documentazione relativa ai questori delle colonie latine
mostra con una certa evidenza un loro diretto coinvolgimento nella realizzazione di opere pubbliche o di ambito sacro35, con facoltà di attingere per il
finanziamento anche al denaro ricavato dalla riscossione di multae, come attestano espressamente iscrizioni medio-repubblicane da Firmum Picenum e da
nominativo in –io(s) (difficilmente posteriore alla fine del III / inizi del II sec. a.C.), non appare
coerente con la paleografia, che suggerisce invece un inquadramento non anteriore alla fine
del II sec. a.C. (se non addirittura nel secolo successivo); non escluderei pertanto che si possa
pensare, in questo caso, ad una copia di un testo più antico. Sulla questura a Beneventum nella
fase coloniaria cf., di recente, Torelli 2002, 81-82.
30
CIL, I2 1894 cf. p. 1051; vd. anche Buonocore 2009, 303 nr. 410 (con datazione verso
la metà del I sec. a.C.) e Bertrand 2012, 56 e 68 nr. 28. Ad Hadria nella fase coloniaria sono
attestati, in successione cronologica, anche praetores (vd. supra n. 18) e, come sembra, [duovir]ei:
cf. Buonocore 2008, 585.
31
Iscrizione inedita, esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Cosa; si tratta di un
frammento di piccola base in travertino (inv. CG247) trovata durante gli scavi americani della
città, nell’area forense; l’epigrafe ([---] Cn. f. q(uaestor): cf. Bace 1983, 97-98, IIIA6) risale
forse ancora alla fine del II sec. a.C. Ringrazio i proff. R.T. Scott e K. Bowes per avere permesso
e agevolato la consultazione degli archivi di scavo conservati presso l’American Academy in
Rome.
32
Cf., con bibl. prec., Petraccia Lucernoni 1988, 146-147 (appendice); Silvestrini
2013, 176.
33
Accanto a sigle onomastiche presenti su emissioni monetali del II sec. a.C., alcuni peculiari impronte su coeve anfore olearie brindisine potrebbero riferirsi a questori della colonia: i
nomi di quattro individui sono infatti seguiti dalla sigla Q, ragionevolmente, ma non concordemente, sciolta in q(uaestor): cf., con bibl. prec., Silvestrini 2013, 175-180; [Grelle] - Ead.
2013, 128-130 (che sottolinea inoltre significative coincidenze onomastiche tra le sigle riferibili ai magistrati monetali e i gentilizi attestati dai bolli anforari). Sul rapporto tra questura e
emissioni monetali cf. anche Barreda Pascual 2007.
34
Cf. Barreda Pascual 2007, 115-116; [Grelle] - Silvestrini 2013, 128.
35
Ad es., tra le testimonianze più esplicite, CIL, I2 1894 (vd. supra n. 30, dal territorio di
Hadria): recinzione di un sacellum; 2209 (vd. supra n. 27, da Aquileia): erezione di un altare.
401
david nonnis
Paestum36; in un contesto analogo, il collegio pestano di quaestores risulta anche
operare in conformità a una lex non meglio definita37. In una perduta iscrizione
venosina i questori interrogano invece, forse in relazione ad una controversia, il
senato locale in merito alla destinazione (sacra o pubblica) di una struttura o un
terreno38. Alcune emissioni monetali di alcune colonie dell’Italia meridionale
(Copia, Venusia e Brundisium) e della Spagna (Carteia e Valentia), da ultimo
valorizzate da Adela Barreda Pascual e da Marina Silvestrini, sembrerebbero poi
indicare come nell’ambito delle loro competenze finanziarie rientrasse anche
una forma di controllo sulla monetazione locale39.
Analoghi ambiti di intervento sono del resto testimoniati, in età repubblicana per i questori di altre comunità della penisola, talora ancora formalmente
autonome dallo Stato romano40; ci limitiamo a ricordare, in questa sede, tra i
casi più evidenti, alcune iscrizioni magistratuali (latine e osche) della Praeneste
libera41, di Casinum42 e della Pompeii sannitica (II sec. a.C.)43.
Cf. rispettivamente CIL, I2 383 (vd. supra n. 26) e 3151 (vd. supra n. 25); a Paestum
ad utilizzare l’aes multatic(i)um è anche un anonimo tresvir (CIL, I2 3156 = ILP 161, ora in
studio da parte della Dott.ssa Rossella Turi). Sulla gestione delle multae cf. Marengo 1999
e Estienne - de Cazanove 2009, 28-34 (entrambi con riferimenti ai nostri documenti).
La facoltà questoria di irrogare multa è del resto codificata anche in una clausola della cd. lex
oscae tabulae Bantinae (ImagItal, Lucania / Bantia 1, col. I, 3): cf. Marengo 1999, 82 n. 26;
Cappelletti 2011, 37-41 (cf. anche ibid., 89-91 sulla questura italica, che a Banzi occupava
la posizione più bassa del cursus honorum [col. I, 27-28]); status quaestionis sulla datazione dello
statuto bantino in [Grelle] - Silvestrini 2013, 33, 220-221 e 237.
37
CIL, I2 3152 = ILP 139 (…/ qaistores (!) // de leged fe/cere).
38
CIL, I2 402 (v. supra n. 28); cf. anche in merito Marengo 1999, 82-83.
39
Cf. Barreda Pascual 2007; Silvestrini 2013, 171-179 (passim); [Grelle] - Silvestrini 2013, 125-130.
40
Cf. Petraccia Lucernoni 1987 (con analisi della principale documentazione d’età
repubblicana).
41
CIL, I2 1466 cf. p. 997 (restauro di vigliae), 1470 cf. p. 997 (lastricatura di strade), 1471
cf. p. 998 (erezione di una culina e acquisto di un locus); 3044 (intervento nel santuario di
Fortuna Primigenia, finanziato aere Fortunai) e, forse 3085; cf. anche Petraccia Lucernoni 1988, 39-40 nrr. 29-32; [Granino - Nonnis] - Ricci 2012, 391 con n. 23 (in relazione a
bolli laterizi che menzionano questori locali).
42
AEp 2007, 333 [= AEp 1996, 332] e 334 (interventi edilizi finanziati aere Fortunai in un
santuario extra-urbano).
43
ImagItal, Campania / Pompei 19 (erezione di una base di statua), 20 (intervento edilizio), 21 (erezione di una meridiana, intervento finanziato con il ricavato di multe), 23 (messa
36
402
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
Tornando al nostro testo, qualora fosse corretta l’ipotesi interpretativa qui
avanzata, l’epigrafe ci restituirebbe i nomi di almeno quattro magistrati della
colonia latina, fornendo pertanto preziose indicazioni sulla composizione
dell’élite coloniaria, sino ad oggi pressoché sconosciuta, in assenza di fonti
documentarie così risalenti nel tempo. Nel corso della tarda Repubblica alcuni
membri dell’aristocrazia municipale (anche di rango equestre) risultano peraltro appartenere a gentes già documentate, nel III sec. a.C., tra i fabbricanti locali
di ceramica a vernice nera, quali i Paconii44, i Planii45 e, forse, i Vitrasii46.
Tra i gentilizi presenti nell’iscrizione, soltanto Calpurnius (C. e L. Calpurnii),
rispettivamente menzionati alle rr. 1 e 3) trova un ulteriore riscontro epigrafico a Cales (in associazione al prenome Lucius), in un’epigrafe funeraria della
prima età imperiale, relativa a un L. Calpurnius L.l. Dio[---] e a due suoi liberti47;
un altro membro della gens ricoprì invece il duovirato giusdicente nella vicina
Teanum Sidicinum in età giulio-claudia48. Anche il nomen dell’ultimo persoin opera del pavimento all’ingresso del tempo di Apollo, intervento finanziato con il denaro
del dio), 24 (appalto e collaudo di una costruzione, finanziati con lascito testamentario), 25
(appalto e collaudo, finanziato con il denaro della vereia).
44
Punzone C. Paco(ni-) C.f. Q.n. (impronte da Roma, da Cales e da Teanum Sidicinum:
CIL, I2 431/2 cf. p. 886; Morel 1991, 30; Pedroni 2001, 71 nr. 15), cui si può accostare forse
anche l’impronta Q.PA, sempre da Cales (Pedroni 2001, 71 nr. 16). Lontano discendente dei
ceramisti caleni è il IIII vir quinquennalis Q. Paconius Q.f. Lepta onorato nella città campana
(CIL, X 4654 = I2 3118) e, con probabilità da identificare con Q. Lepta, amico di Cicerone
e praefectus fabrum in Cilicia (cf. Nicolet 1974, 970 nr. 258); cf. anche CompatangeloSoussignan 1999, 52.
^ ^
45
Impronte Q.PLA e Q.PLAN da Cales (Pedroni 2001, 72 nr. 18); alla stessa gens appartiene il cavaliere d’età ciceroniana M. Planius Heres, familiarissimus del già ricordato Q. Lepta
(cf. Nicolet 1974, 983-984 nr. 274); sui Planii caleni vd. anche Camodeca 2008, p. 23 con
n. 81.
46
Impronta M.VTR in nesso, da un contesto votivo di Cales (CIL, I2 2881, 19; cf. Pedroni
2001, 74 nr. 33). Un Vitrasius adottato da un Clodius ricoprì il quattuorvirato a Cales nel corso
del I sec. a.C. (CIL, X 4657 = Chioffi 2005, 175 nr. 219 = EDR115836 [M. Stefanile]). Si
tratta di una delle più rilevanti famiglie della città campana dall’età giulio-claudia, che raggiunse, con l’ingresso in senato (e legami di parentela con la stessa casa imperiale), l’apice del suo
prestigio politico nel corso del II sec. d.C.: cf., di recente, Camodeca 1991, 64-65 e Id. 2008,
137-148.
47
EphEp, VIII 334 = EDR108424 (G. Camodeca); cf. Solin 1998, 240 e 271.
48
CIL, X 4823 = EphEp VIII 570 = EDR101496: [-] Calpurnius C.f. Stel(latina) [---], II
vir i(ure) d(icundo); cf. Camodeca 2007, 179 [= Id. 2008, p. 340]. Per altre attestazioni dei
Calpurnii in Campania cf. D’Isanto 1993, 89-90 (soprattutto a Capua e Puteoli).
403
david nonnis
naggio (L. Vibio(s) [- f.]), presumibilmente di origine locale e piuttosto diffuso
in Campania, ricorre nello stesso centro sidicino, dove è anche attestato, grazie
a un frammento di fasti municipali recentemente edito da Giuseppe Camodeca, un M. Vibius che fu aedilis nell’8 a.C.49; alcuni Vibii sono poi attestati tra i
magistri della non lontana Capua già verso la fine del II sec. a.C.50. Risulta invece
notevolmente più raro il gentilizio di C. Apruc[io(s) - f.], che, privo di confronti
nella regione, appare esclusivamente documentato ad Interamna Lirenas, altro
centro di origine coloniaria nella media valle del Liri: qui una donna di un certo
rango (Aprucia M.f. Galla) viene onorata con una statua eretta a spese della
comunità nel corso del I sec. d.C.51; non è escluso forse, vista l’estrema rarità del
nomen (variante del più comune Apricius?) e la relativa vicinanza geografica dei
centri di Cales ed Interamna (entrambe, in origine, colonie latine), che le due
testimonianze possano essere ricondotte ad un originario ramo comune della
gens Aprucia52.
Nel complesso, soprattutto grazie al notevole contributo fornito dalle firme
e dai bolli nominali presenti sulla ceramica a vernice nera di produzione locale,
siamo in grado di distinguere oltre venti diversi gentilizi documentati a Cales in
età medio-repubblicana (soprattutto nel corso del III sec. a.C.)53. Si viene così
a disporre di una base documentaria non irrilevante per impostare auspicabili
ricerche sulla composizione sociale della colonia latina e sull’origine geografica
dei coloni54. Va rilevato peraltro che, allo stato attuale delle nostre conoscenCIL, X 4820; per il frammento di fasti cf. AEp 2008, 387 = EDR100160 (G. Camodeca),
con menzione di M. Vibius a r. 3. Sulla diffusione della gens Vibia in Campania cf. D’Isanto
1993, 259-261; Camodeca 2007, 182 con n. 59 [= Id. 2008, 343 con n. 59].
50
Vd. D’Isanto 1993, 259-260 nrr. 2, 3, 5, 7 e 11.
51
CIL, X 5337, iscrizione incisa su uno dei lati di una base, presumibilmente dall’area
forense (attualmente conservata presso l’Abbazia di Montecassino: cf. Pantoni - Giannetti
1971, 431 nr. 28): Apruciae M.f. / Gallae / publice; la base venne riutilizzata nel II sec. d.C. per
incidervi il titulus onorario CIL, X 5348 = ILS 5698.
52
Per il possibile accostamento Apricius/Aprucius cf. Schulze 1904, 110.
53
Livio (VIII 16, 14) ricorda la deduzione di 2500 coloni nel 334 a.C. Per un elenco dei
gentilizi attestati dai bolli sulla ceramica a vernice nera e un tentativo di analisi cf. Pedroni
2001, 90-95; alla documentazione ivi raccolta si possono aggiungere, oltre ai nomina attestati
dalla nostra iscrizione, i gentilizi Claudius (ImagItal, I, Campania / Cales 1: A. Claudius C. (f.),
graffito su ceramica a vernice nera dalla loc. Pastorano), Fa[---] (AEp 2003, 347, bollo su ceramica a vernice nera) e Hinoleius (CIL, I2 399, vd. supra n. 11).
54
Per alcune osservazioni in merito cf. Compatangelo-Soussignan 1999, 32; Roselaar 2011, 534-535.
49
404
a proposito del ‘monumento dei calpvrnii’ a cales
ze, molte delle famiglie della colonia latina non sembrano essere ulteriormente
attestate a Cales in epoca successiva. Il fenomeno costituisce forse un riflesso
di quelle difficoltà (economiche e demografiche), con eventuale estinzione (o
trasferimento) di famiglie, che la colonia sembra avere attraversato a partire
dagli anni della guerra annibalica, se in questo senso leggiamo il rifiuto di Cales
(e di altre undici colonie latine) di fornire aiuti (denaro e contingenti di truppe)
a Roma nel 209 a.C., di cui riferisce Livio, e il successivo invio di un supplemento di coloni poco prima del 184 a.C.55.
Volgendo alla conclusione, se da un lato una rivisitazione del nostro documento costituisce un eventuale tassello alla ricostruzione dell’assetto istituzionale della colonia latina, rimangono, dall’altro, insoluti alcuni interrogativi tra
loro correlati. Restano infatti da definire, in modo più circostanziato, il rapporto tra blocco iscritto e contesto archeologico di provenienza (reimpiego nel
contiguo monumento funerario o piuttosto, come sembra preferibile, pertinenza a struttura di altra natura, anche in considerazione della contiguità topografica con la via Latina e con una delle porte urbiche) e la natura dell’intervento
condotto, presumibilmente nell’esercizio di una funzione ufficiale, dagli individui menzionati nel testo. Risposte a queste domande potranno forse venire
da un riesame complessivo delle evidenze archeologiche di questo settore del
suburbio dell’antica Cales o da una auspicabile ripresa delle indagini nella zona.
Liv. XXVII 9, 7; cf. XXIX 15 (per i provvedimenti punitivi decretati nel 204 a.C.); per
il supplemento di coloni vd. supra nel testo e n. 17. Cf., in merito alle vicende di quegli anni,
Compatangelo-Soussignan 1999, 33; De Caro 2012, 110.
55
405
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413
GIANFRANCO PACI
La nascita della colonia romana di Urbisaglia
L’avvio della moderna ricerca, negli anni 70 del secolo scorso, sulla città di
Urbs Salvia ne ha cambiato profondamente le conoscenze, come credo si sia
verificato per poche città dell’Italia antica. Lasciando qui da parte i risultati
delle indagini archeologiche, che comunque avrò modo di ricordare, è sufficiente pensare, in proposito, alla questione della sua condizione giuridica, oggetto
di un lungo avvicendarsi di ipotesi, che è istruttivo, oltre che utile, ripercorrere.
Nel capitolo del CIL dedicato a questa città del Piceno il Mommsen sottolineava come nei documenti allora noti Urbs Salvia avesse il titolo di colonia
romana, attestato non prima dell’età di Traiano. Lo studioso non mancava però
di rilevare, con sorpresa, come i magistrati fossero quattuorviri ed aediles1, dei
quali i primi – possiamo aggiungere – ricorrono frequentemente nelle città a
statuto municipale: come a dire che l’ordinamento coloniario, documentato
dall’età imperiale, doveva essere subentrato, secondo una evoluzione tutt’altro
che inconsueta, ad un più antico ordinamento municipale, di cui appunto si
trova talvolta menzione nella bibliografia locale anche recente. L’idea del municipio venne prepotentemente alla ribalta con il rinvenimento, negli anni 20 del
secolo scorso, del frammento maggiore dei Fasti trionfali, subito ritenuto dipendente da una redazione urbana anteriore a quella dei Fasti Capitolini: adombrata dapprima da G. Moretti, l’editore di quell’importante documento, che parla
di una fondazione della città «nel I secolo av. Cr., e probabilmente nei primi
decenni», questa idea fu risolutamente difesa da F. Altheim, il quale collegò i
Fasti alla concessione, appunto, della cittadinanza romana alla città, che sarebbe
avvenuta con la legge Giulia del 902.
1
2
CIL, IX p. 526.
Moretti 1925, 126, cf. anche 127; Altheim 1935, 298-305.
415
gianfranco paci
Il Degrassi ha poi dimostrato in modo inoppugnabile che i Fasti trionfali di
Urbisaglia dipendono dall’analogo testo dei Fasti Capitolini. Tuttavia questo
non bastava ad inficiare, di per sé, l’ipotesi del municipio creato dopo la guerra sociale, che sembrava accreditata dai quattuorviri. D’altra parte la scoperta
in tempi più recenti dei primi frammenti dei Fasti consolari portava chi scrive,
seguito poi più esplicitamente da Christiane Delplace, a pensare alla necessità di
una retrodatazione ormai della colonia all’età augustea, in cui bene si inquadrava la pubblicazione di questo genere di documenti3.
Ma la storia procede secondo una propria logica, che non sempre coincide con quella che lo studioso mette in campo nel suo lavoro di ricostruzione
dell’antico. Proprio il lavoro appena citato della collega francese richiamava l’attenzione su un particolare, che si trovava in una delle due epigrafi di Flavio Silva,
il costruttore dell’Anfiteatro di Urbisaglia: un particolare passato fino allora
inosservato, anche – penso – per essere mancata una vera e propria edizione
scientifica di quei testi4. Si trattava della carica di praetor che il personaggio aveva
rivestito come magistrato della città di Urbs Salvia. Ebbene, la pretura è una
carica incompatibile con la costituzione del municipio, in modo particolare con
quella dei municipi del Piceno (regio V) che, essendo stati creati su agro Romano
dopo il 49 a.C., sono normalmente governati da duoviri.
Troviamo invece la pretura, in ambito regionale, in due colonie romane del
II sec. a.C., Auximum e Potentia ed è molto probabile che i medesimi magistrati
avesse anche Pisaurum, fondata nel contiguo agro Gallico dai medesimi triunviri e nello stesso anno di quest’ultima. Ma non si fa fatica a ritrovare questa magistratura in altre colonie romane dedotte in Italia in questo medesimo periodo5.
La scoperta dei pretori induceva dunque ad ipotizzare per Urbs Salvia un’origine come colonia romana fondata nel II sec. a.C., spazzando via d’un colpo
Paci 1981, 62-63; Delplace 1983. Il mio ragionamento, evidente ma non esplicito,
sembrava trarre poi forza dalla contemporanea pubblicazione dell’epigrafe di G. Fufio Gemino
(AEp 1982, 237), che attestava la condizione di colonia già agli inizi del regno di Tiberio: cf.
Paci 1981, 76.
4
I testi, ben più di due, sono ora pubblicati da chi scrive (Paci c.d.s. b). Le iscrizioni sono
speculari, ma con qualche minima differenza: nello specifico in uno dei due testi meglio conservati la carica è quella di pr(aetor) quinq(ennalis), in un’altra semplicemente quinq(uennalis). La
scoperta induce a ricondurre ad Urbs Salvia anche l’attestazione di CIL, IX 5793, d’età imperiale.
5
Sull’importanza di questo tipo di carica vd. Salmon 1969, 188 n. 200 in riferimento ad
Auximum.
3
416
la nascita della colonia romana di urbisaglia
sia il municipio sia la colonia augustea. Anche la menzione che Plinio fa degli
abitanti della città, chiamandoli Urbe Salvia Pollentini, contribuiva a rinforzare
l’ipotesi, assegnando alla colonia un nome, quello di Pollentia, particolarmente
in voga tra le fondazioni di quell’epoca6.
Alla emozione per quella che appariva una autentica scoperta, si affiancò allora in chi scrive anche una certa esitazione, perché, a parte il dato pur importante
della pretura, a supporto di quella conclusione non v’era nessun altro appiglio
concreto. Il suolo di Urbisaglia non restituiva testimonianze sicuramente anteriori all’età imperiale7, inoltre non si vedeva come conciliare la Pollentia del II
secolo con la Urbs Salvia dell’età imperiale, sia per quanto riguarda il problema
del cambiamento di nome8, sia per quanto riguarda quello della continuità, o
meno, topografica. Infine, la fondazione della colonia doveva per forza cadere
nella seconda metà del II sec., o comunque dopo il 167 a.C., anno con cui si
chiude la parte conservata di Livio; ma faceva specie che un fatto di tale rilevanza
non avesse trovato eco presso altri scrittori antichi e, soprattutto, che ne mancasse il ricordo nell’elenco delle colonie di Velleio Patercolo. Il timore, insomma,
era di creare a tavolino una realtà che poteva non avere alcun riscontro storico.
Un primo, importante conforto all’ipotesi della colonia di II secolo venne
tuttavia dalle ricerche sul terreno. Gli scavi sul sito di Urbisaglia, condotti a
partire dal 1995 dalla Prof.ssa Fabrini dell’Università di Macerata portarono
presto in luce le prime sporadiche testimonianze di vita insediativa risalenti
all’età repubblicana, fino appunto al II secolo a.C., le quali sono divenute poi
con il prosieguo delle ricerche stesse sempre più consistenti e significative9. La
più recente scoperta, in un punto a sud ovest dell’area forense, di una zona artigianale facente capo all’impianto d’una fornace per la produzione di ceramica
di uso comune databile nel corso della prima metà del II sec. a.C. ha portato a
prefigurare addirittura l’esistenza in loco di una realtà insediativa preesistente
alla colonia10. Tali scoperte hanno permesso di ricavare, tra l’altro, il dato significativo della continuità topografica tra la città repubblicana (Pollentia) e quella
Su tutto ciò Paci 1990, 85-89 = Paci 1995, 97-101.
Le epigrafi tardorepubblicane CIL, IX 5557 (= I2 1929, add. p. 1053; ILLRP 974) e, forse,
CIL, IX 5541, add. p. 700 non risultavano indicative per il nostro assunto.
8
Su cui da ultimo Mayer 2012.
9
Fabrini 2003; Fabrini 2009, 194-206.
10
Perna c.d.s.
6
7
417
gianfranco paci
dell’età imperiale (Urbs Salvia)11. D’altra parte anche l’acquisizione, avvenuta
in quegli anni, del nome antico – di Salaria Gallica – della strada di fondovalle
che attraversava la città romana tagliandola in due12, mentre mostrava da un lato
l’importanza storica di questa arteria13, di maggiore comodità e rapidità per i
collegamenti del Piceno centro-settentrionale con Roma, risultando essi assai
più facili e più brevi che non attraverso la Flaminia, aiutava in qualche modo a
spiegare anche la scelta, da parte di Roma, del sito della colonia.
Nel frattempo la riflessione storiografica ha anche cercato di trovare una
soluzione per i quattuorviri attestati da alcune epigrafi, i quali sono chiaramente
inconciliabili con una colonia di II secolo a.C.14. Ma nonostante il moltiplicarsi
delle acquisizioni, specie di natura archeologica, l’idea della colonia di II secolo, se togliamo le pubblicazioni di quanti impegnati nelle ricerche sul sito della
città romana, ha certamente fatto fatica ad imporsi15. Le ragioni sono evidentemente molteplici e tra esse ci sono certamente quelle indicate più sopra.
Questo, dunque, lo stato delle cose fino ad oggi. Ora alcune nuove scoperte
ci consentono di tornare con utili dati proprio sulla colonia di II secolo. Negli
ultimi anni è venuto sensibilmente aumentando, rispetto ai due rinvenuti nel
1978, il numero dei frammenti dei Fasti consolari di Urbisaglia, tanto che si è
arrivati al numero di otto. Il moltiplicarsi delle scoperte ha portato, innanzitutto, ad avere un’idea molto più precisa per quanto riguarda il funzionamento del
testo, consentendo tra l’altro di datare in modo sicuro il secondo dei frammenti
recuperati nel 1978 e di migliorare l’edizione dell’altro. Per l’insieme dei testi e
per tutti questi aspetti si rinvia alla loro pubblicazione che è ora in corso16.
Interessa qui notare che i Fasti consolari di Urbisaglia riportano, da un certo
punto in poi i magistrati locali, due soltanto per ogni anno, che evidentemente
corrispondo ai magistrati superiori della città. Essi non compaiono, oltre che nel
Resta, invece, ancora oscura la vicenda del mutamento del nome, se di questo si tratta, da
Pollentia ad Urbs Salvia, sia per quando riguarda le ragioni, sia per quanto riguarda il momento
in cui sarebbe avvenuto.
12
Alfieri - Gasperini - Paci 1985.
13
Intuita già dal Nissen 1902, 422.
14
Marengo 1990.
15
Di fatto la scoperta non ha trovato una particolare accoglienza al di fuori degli studi su
Urbisaglia. È accolta ad es., seppure in forma dubitativa, da Bandelli 2005, n. 78, nonché da
Bandelli 2007, 18-19.
16
Paci c.d.s.
11
418
la nascita della colonia romana di urbisaglia
frammento più antico, contenete i consoli degli anni 240-236 a.C. (fr. 1), in due
altri – contigui ma che non attaccano – degli anni 164-161 (fr. 2) e 160-158 (fr.
3). Li troviamo invece nel fr. 4, con gli anni 104-102 a.C.17 e poi nei successivi. Il
quadro dei dati, per quanto riguarda i magistrati locali, che recuperiamo dai vari
frammenti è il seguente18:
Fr. 4
104.
103.
[- Nu?]micius
[- Pe]tronius
[- - - - - - - - ]
[- - - - - - - - ]
App., fr. 1.
102.
101.
T. Peduc[aeus]
C. [- - - - - - -]
[- - - - - - - - ]
[- - - - - - - - ]
Fr. 5
91.
90.
89.
[- - - - - - - -]
[- - - - - - - - ]
[- - - - - - - - ]
[- - - - - - -]us
[-] Oculatius
L. Claudius
Fr. 6
21.
20.
[- - -]I[- - - -]
[- R]utilei[us C. f.?]
[- - - - - - - ]
[- - - - - - - ]
L’incisione di questi nomi sulle lastre dei Fasti consolari solleva due ordini
di questioni: una è quella della logica a cui la registrazione dei magistrati locali
ubbidisce, l’altra concerne il dato che se ne può ricavare sulla data di fondazione
della colonia di Urbisaglia. Comincio dalla prima, per affrontare la quale bisogna partire dal fr. 5, di cui riporto qui il testo (fig. 1):
91. [L. Marcius Q. f. Q. n. Philippus
[- - - - - - - - - -]
90. [L. Iulius L. f. Sex. n. Caesar
[- - - - - - - -]
89. [Cn. Pompeius Sex. f. Cn. n. Strabo]
Sex. Iulius C. f. L? n.] Ca[esar]
[- - - - - - - - ]us
P.Rutili]usL.f.Lupusinpr(oelio)[occ(isus)e(st)]
[-]Ọculatius
L. Porcius M. f. Cato in proel[io]
occiss(us) est.
[- - - - - - - - - -]
L. Claudius
[P. Licinius M. f.] M. n. Crassus
[cens(ores)]
l(ustrum) f(ecerunt) L[XVI]
[L. Iulius L. f. Sex.] n. Caesar
Per la datazione di questo frammento, pubblicato a parte (Paci 2006; AEp 2006, 404) e
oggetto di qualche divergenza in proposito tra me e Tansey 2011, si rinvia alla pubblicazione
cit. alla n. 16.
18
La numerazione dei frammenti è quella dell’art. di cui alla n. 16.
17
419
gianfranco paci
Fig. 1. Il fr. 5 dei Fasti consolari di Urbisaglia, con gli anni 91-89 a.C.
Come si vede sotto l’anno 89 a.C. i magistrati locali, di cui resta qui solo il
secondo, sono riportati subito dopo quelli dei consoli e prima dei censori: si
tratta di una modalità che non trova confronti, per quanto ho potuto vedere, in
altre redazioni municipali dei fasti, dove i magistrati cittadini, quando riportati,
sono sempre in fondo al testo relativo all’anno. Credo la scelta adottata ad Urbisaglia miri a rimarcare la precisa ed assoluta pariteticità tra i magistrati superiori
di Roma (i consoli) e quelli della colonia, non ultimo per quanto riguarda la
funzione eponimica; inoltre, coerentemente con la natura del documento, come
per Roma sono riportati i soli consoli così anche per Urbisaglia vengono indicati i soli magistrati superiori, i praetores, contrariamente a quanto accade invece
in altre redazioni municipali di fasti, dove troviamo anche gli aediles e talvolta
anche i questori e i prefetti. Per i magistrati cittadini, poi, non viene indicata la
denominazione della carica19, così come non viene riportata per i magistrati di
19
La cosa si deduce dal frammento relativo agli anni 102-101 a.C.
420
la nascita della colonia romana di urbisaglia
Roma: prevale dunque, anche su questo particolare, la volontà di uniformarsi al
criterio usato per quelli di Roma, nonostante che la denominazione dei magistrati locali cambi da città a città. Si capisce insomma che quando ad Urbisaglia
si decise, in una data che potrebbe essere il 2 a.C. o subito dopo20, di esporre in
pubblico una copia dei Fasti consolari, si decise anche di aggiungervi i magistrati
cittadini, ma limitatamente a quelli superiori, affiancandoli direttamente – come
rivela la loro posizione prima dei censori – ai consoli, non solo a sottolinearne
la pari dignità, ma a dimostrazione, ancora una volta, di come la colonia non
fosse che una parva imago di Roma, nella cui storia gli Urbisalvienses inserivano,
appunto, la propria, scandita dal susseguirsi dei magistrati cittadini nel tempo.
Apprendiamo così che la pubblicazione dei Fasti urbisalviensi ha comportato altresì l’operazione di ricostruire la serie dei magistrati cittadini, a partire,
evidentemente, dalla data di fondazione della colonia. Ci si chiede quanto si sia
trattato di un’operazione semplice o difficoltosa, se inoltre la lista approntata,
che doveva coprire uno spazio di tempo che andava ben oltre il secolo, fosse
assolutamente rispondente ai fatti, nonché con quali mezzi (archivi, documenti
pubblici, memoria collettiva) abbiano ricostruito la lista21. Certo, un indizio che
non si disponesse di una documentazione bell’e pronta, ufficiale, traspare dalla
costante omissione dei patronimici, riportati invece per i consoli di Roma: fatto
ancor più rilevante trattandosi di formule onomastiche bimembri. Per il resto
non si può fare a meno di notare come i personaggi portino dei bei gentilizi di
stampo romano, tra i quali non compare, ad es., anche se il materiale è esiguo,
nessun gentilizio in -enus.
Il fr. 4 dei Fasti consolari ci mostra comunque che nella città si conosceva
l’anno di fondazione della colonia e che devono aver ricostruito la serie dei
magistrati eponimi fino a quella data. La lista dei magistrati costituiva il filo
conduttore della storia cittadina e che l’operazione abbia in qualche modo inteso essere una riappropriazione, da parte della comunità (il documento era esposto in un punto della zona del Foro), della propria storia a me pare indubbio: nel
contempo l’operazione va ricondotta ad un ambiente coloniario, cosa che gli
fa assumere una connotazione diversa, almeno in parte, a mio vedere, rispetto
alle attestazioni di coscienza e conoscenza della propria storia che traspare inve-
Ciò in base alle considerazioni esposte nell’art. cit. alla n. 16, con l’ipotesi che dietro
l’operazione possa esserci il console suffetto del 2 a.C., G. Fufio Gemino, originario della città.
21
Sull’esistenza di archivi in ambito coloniario vd. Moatti 1993, 73-78.
20
421
gianfranco paci
ce in altri contesti cittadini, come ad es. a Interamna Nahars o a Padua22, o di
altro genere.
Veniamo ora alla nascita della colonia. L’esistenza di magistrati cittadini
almeno a partire dal 104 a.C. dimostra una volta per tutte che Urbisaglia è una
colonia romana la cui fondazione risale al II sec. a.C. e poiché i magistrati locali
non compaiono ancora nel fr. 3 dei Fasti consolari urbisalviensi, essa deve essere
collocata tra il 158 a.C. e il 104 a.C. È da ritenere che il documento epigrafico
segnalasse nel punto debito l’evento fondativo: o facendo partire da quell’anno
l’inserimento dei magistrati locali, accanto ai consoli, o con una annotazione
esplicita dell’evento stesso. Con la speranza che prima o poi la sorte ci restituisca
qualche frammento di questo punto del testo, penso che si possa sin d’ora cercare di restringere tale forchetta di tempo e ad arrivare ormai a collocare, addirittura, in un preciso contesto storico la deduzione di questa colonia.
Come è noto la storia della colonizzazione del II sec. a.C. vede esaurirsi con
Aquileia (181 a.C.) la colonizzazione latina, mentre – a partire dal 184, piuttosto che dal 183, come anch’io credo – avviene il cambiamento di fisionomia
delle colonie romane, che rispetto alle precedenti, costituite di un esiguo numero di cittadini, passano a comprendere nuclei cittadini in cui i coloni ammontano, quando se ne conoscono i numeri (come nel caso di Mutina, Parma, Luna),
a qualche migliaio. Quest’ultima esperienza coloniaria s’interrompe, tuttavia,
abbastanza presto, precisamente nel 177 a.C. con la fondazione di Luna, per il
mutare delle condizioni storiche dell’Italia di allora23. Essa riprenderà, quindi,
nel penultimo decennio del secolo, con la colonizzazione dell’età graccana, per
terminare, proprio sul finire dello stesso, con la colonizzazione mariana, che ha
caratteristiche diverse e che – va subito detto – essendo successiva al 104 a.C.
non interessa il nostro discorso.
Questo quadro dei fatti porta o porterebbe automaticamente a ricondurre la
deduzione di Urbs Salvia nell’ambito della colonizzazione graccana. Ma c’è un
problema. In mezzo, tra il 177 e il 131 a.C., si pone l’episodio, del tutto isolato, della deduzione della colonia di Auximum (Osimo), che tra l’altro si trova
proprio nel Piceno, per di più a non troppa distanza da Urbs Salvia, e per la
quale Velleio fornisce la data del 157 a.C.
Circa la fondazione di Auximum gli storici non hanno mancato di sottolineare il carattere eccezionale della data, non trovandosi alcun elemento che possa
22
23
Cf. in proposito Panciera 2003, con ampia bibliografia.
Sulle ragioni vd. Salmon 1969, 112.
422
la nascita della colonia romana di urbisaglia
giustificare un fatto del genere, né per quell’anno specifico, né più in generale in
questo momento storico24. A ciò si aggiunga che il testo di Velleio, che ricorda
l’episodio, è molto confuso e pieno di contraddizioni, al punto da resistere ai più
seri tentavi di comprensione25. Il Salmon, che ha dedicato un spazio insolitamente ampio al problema della colonia di Auximum, ha cercato di dimostrare che il
testo di Velleio – che, come ho detto, è notoriamente non esente da confusione:
basti pensare al caso dell’inesistente colonia di Aefulam, che si trascina dietro
da sempre l’intricato problema della colonia di Aesis – contiene qui, a proposito
della data, un errore, o meglio forse un errore di chi ha letto e mal interpretato
il manoscritto (andato perduto agli inizi del sec. XVII), che in questo punto
doveva essere particolarmente confuso26. Con una propria e nuova proposta di
interpretazione del testo di Velleio lo studioso giunge infine alla conclusione
che la data della fondazione di Auximum debba cadere nel 128 a.C.27
Credo che il Salmon, che pure in altre questioni procede talvolta in modo
forse un po’ sbrigativo ed anche se la sua esposizione nel caso specifico non sia
probante (come non potrebbe esserlo), colga nel segno quanto alla sostanza
delle cose. Per cui in sintesi, sul problema della colonia di Auximum, abbiamo da
una parte il dato di Velleio, problematico quanto si vuole, ma che è pur sempre la
fonte antica di cui disponiamo, dall’altra una proposta moderna di spostamento
ad un periodo storico apparentemente più consono. Ma, senza però voler qui
complicare ulteriormente le cose, forse ci si dovrà anche continuare a chiedere se
le importanti notizie fornite da Livio a proposito di questa città per gli anni 174
e 172 a.C. non abbiamo a che fare, come sospetta il Mommsen, con la questione
di cui stiamo trattando28.
Tornando ora, dopo queste considerazioni, al problema della data di fondazione della colonia di Urbisaglia e tenendo presente la forchetta di tempo a
De Sanctis 1923, 616 (= 600).
Vell. I 15, 3. Per intendere le difficoltà del passo vd. anche il tentativo di conciliare i dati
in Broughton 1968, 449, ad a. 154 a.C.
26
Salmon 1969, 112-114 e più approfonditamente Salmon 1963, 3-13.
27
Ma che lo scopo della deduzione fosse, già allora, quello di sorvegliare il Piceno a motivo dello stato di fermento degli Ascolani (Salmon 1969, 113) sembra difficile a ipotizzare,
dal momento che neppure alla vigilia dello scoppio della guerra sociale a Roma si aveva pieno
sentore della catastrofe in arrivo.
28
Liv. XLI 27, 10 (costruzione delle mura, sistemazione del foro); XLI 21, 12; XLII 20, 6
(prodigi); cf. CIL, IX p. 559.
24
25
423
gianfranco paci
nostra disposizione, che va dal 158 al 104 a.C. abbiamo, teoricamente, davanti
a noi due possibilità: la prima è di ancorarla a quella di Auximum, anche per il
gravitare di entrambe le città in un medesimo ambito territoriale29, accettando
dunque, nonostante la problematicità di cui s’è detto, la data tradizionale della
sua fondazione, la quale ci porterebbe verso il limite alto della forchetta; l’altra è
quella di dare il dovuto peso al dato della sospensione della attività coloniaria in
Italia da parte dello stato romano per il periodo compreso tra il 177 e il 131 a.C.
e ripiegare così sull’età graccana. La prima strada, che non possiamo comunque scartare fino a che non si troverà una interpretazione sicura del passo di
Velleio (o, in alternativa, una soluzione certa per altra via al problema della data
di fondazione di Auximum), appare, per quanto detto e allo stato delle nostre
conoscenze, decisamente la più difficoltosa, mentre quella dell’età graccana –
alla quale, come abbiamo visto, il Salmon cerca di riportare anche Auximum – si
rivela senza dubbio più piana.
In conclusione, pur con la necessaria prudenza ed in attesa di qualche nuova
acquisizione che ci permetta di definire meglio la questione30, a me pare, che l’età
graccana sia, per quello che si può arguire, quella in predicato per la fondazione
della colonia di Pollentia / Urbs Salvia. Posta tale fondazione in quel periodo
storico, si spiegherebbe meglio anche il silenzio su di essa da parte di Velleio,
avverso – come noto – alla politica dei due tribuni, cosa invece che sarebbe più
difficile spiegare se la stessa fosse da collocare negli anni 50 del medesimo secolo.
La collocazione della fondazione in epoca graccana, verso la quale mi sembra
che dobbiamo ormai decisamente orientarci, oltre ad inserirsi in una problematica – quella della colonizzazione messa in atto dei due tribuni fratelli – cui le
scoperte epigrafiche della seconda metà del secolo scorso hanno contributo a
dare una maggior concretezza storica, di contro al carattere alquanto sfuggente
delle fonti letterarie, aggiunge alla stessa un tassello tanto insospettabile quanto
significativo, sia perché si tratta di una nuova e di una vera e propria colonia
romana, sia perché viene ad interessare – per di più in modo corposo – un’area, o meglio una zona dell’Italia antica, quella centro-adriatica, che le fonti a
disposizione lasciavano già ritenere che non fosse rimasta indenne dalla politica
coloniaria di questo periodo.
In omaggio alla ‘regola’, tutt’altro che generale, però, delle colonie ‘in coppia’ che piace
molto al Salmon.
30
È evidente che basterebbe il ritrovamento di un frammento di Fasti che cada nel terzo
venticinquennio del II sec. a.C. per chiudere ogni discorso.
29
424
la nascita della colonia romana di urbisaglia
A questo proposito prendo le mosse da due testimonianze relative al vicino
agro Gallico, che sono anche molto significative dal punto di vista della qualità
delle fonti. Si tratta, in primo luogo, del cippo di San Cesareo a Fano, con i
nomi della commissione agraria graccana del 132 (o 133-130) a.C., attestante
l’avvenuto recupero ed assegnazione, in questo tratto della valle del Metauro, di
terre demaniali occupate abusivamente da privati e destinate ad essere distribuite a cittadini romani nullatenenti31. Cade poi in proposito il nome del forum
(Forum Sempronii) costruito al margine occidentale della piana del Metauro,
anche in questo caso – come in quello di Pollentia / Urbs Salvia – su una strada
di rilevante importanza (la Flaminia), probabilmente ad opera di Gaio Gracco,
che figura tra i commissari del cippo appena ricordato.
Passando al Piceno, e in particolare al settore settentrionale della regione,
abbiamo la notizia proveniente dalle fonti gromatiche, relativa ad un intervento di limitazione agraria dell’agro anconitano risalente appunto a quest’epoca:
ager Anconitanus limitibus Gracchanis in centuriis est adsignatus32. Si tratta di
una notizia tenuta fin qui in scarsa considerazione, anche per il dubbio che la
città avesse conservato la sua autonomia fino alla deduzione della colonia triumvirale del 42 a.C., ma che ormai dovrà essere essere vista sotto una diversa luce.
Dalle stesse fonti, inoltre, ricaviamo la notizia di una limitazione graccana anche
del contiguo agro auximate (Ausimatis ager limitibus Gracchanis per centurias est
adsignatus), una notizia utilmente ripresa dal Salmon per accreditare la fondazione graccana della colonia, ma che a prescindere da questo problema, di cui si
è detto, merita ormai, alla luce del quadro generale dei dati che sta emergendo,
un’attenzione maggiore di quanto il Mommsen ritenesse33.
Il quadro d’insieme che si verrebbe a configurare, mettendo insieme queste
fonti e la fondazione di Pollentia / Urbs Salvia, sembra rinviare, pur con la dovuta prudenza, ad un coinvolgimento frontale ed assai esteso del Piceno settentrionale nella politica coloniaria dispiegata dai Gracchi. Ed appunto in questa
ottica va fatto un debito cenno alla recente ipotesi secondo cui la data di fondazione della colonia di Aesis, una questione non meno problematica ed intricata
di quella di Auximum, debba essere abbassata proprio all’età graccana34. Non
possiamo peraltro tacere, nel chiudere questo discorso, il silenzio delle fonti
gromatiche circa una limitazione graccana dell’ager Urbisalviensis (per il quale
CIL, I2 719, add. p. 940; CIL, XI 6331; ILLRP 474; Paci 1992 con bibliografia.
32
Lib. Col. I, p. 227 (cf. p. 253) Lachmann.
33
Ibid. Per il Mommsen (CIL, IX p. 559) queste notizie «fide carent».
34
Bandelli 2007, 23 e 31-32.
31
425
gianfranco paci
si parla invece di interventi triumvirali), che potrebbe far specie, ma che d’altra
parte non può essere invocato per negare il fatto stesso.
La fondazione “graccana” di Urbisaglia apre insomma una pagina di storia
pressoché inattesa e di grande importanza, soprattutto in ordine alla sua portata ed estensione, che investe il Piceno settentrionale. La politica coloniaria dei
Gracchi mirava, come è noto al ripristino della piccola proprietà agraria in Italia
e ad alleggerire la pressione demografica cui era soggetta la città di Roma. Fatta
eccezione per la colonia transmarina di Cartagine, nella quale Gaio aveva progettato di dedurre 6.000 cittadini, non abbiamo dati sulla consistenza numerica dei
coloni via via inviati nelle varie zone coinvolte, ma per quanto detto dobbiamo
pensare che le cifre fossero abbastanza elevate e che nel caso di fondazioni di
colonie si trattasse appunto di alcune migliaia di cittadini.
Per questo, se le cose stanno come fin qui prefigurate, non avrei dubbi che la
deduzione della colonia di Pollentia / Urbs Salvia abbia interessato una pertica che doveva estendersi oltre la stretta valle del Fiastra, fino ad occupare un
ampio tratto della vicina valle del Chienti, posta più a nord. È, quest’ultimo, un
tratto di territorio rimasto fin qui d’incerta pertinenza municipale antica35, che
troverebbe ora un ragionevole inquadramento storico: da qui viene l’epigrafe
di un personaggio – L. Hostilius Tullus, dal nome impegnativo, costruito ad
arte in funzione nobilitante – che si qualifica come decurione di Urbs Salvia,
dove la precisazione indicherebbe, se ho ragione nell’interpretare le cose nel
modo anzidetto, non già una residenza in ambito municipale diverso, ma più
semplicemente una scelta abitativa – probabilmente in una villa – assai lontana
dal centro politico di appartenenza e forse anche in zona di confine con centri
municipali vicini.
La politica coloniaria graccana ha una durata abbastanza lunga, che si protrae
per un po’ anche oltre la morte del secondo dei fratelli, coprendo uno spazio di
tempo che va dal 133 al 119 a.C. Saranno i Fasti consolari urbisalviensi a rivelarci in quale anno collocare, all’interno di questa forchetta (e in particolare, come
è da credere, nella parte alta o bassa di essa), la deduzione della colonia Pollentia
/ Urbs Salvia.
Cf. CIL, IX p. 530. Il mio discorso non include però la più lontana zona di Rambona, per
la quale il giudizio deve restare ancora sospeso.
35
426
la nascita della colonia romana di urbisaglia
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429
LEANDRO POLVERINI
Alla scuola di Mommsen.
Ettore Pais e la storia della colonizzazione romana
Nella vita di Ettore Pais1, è di significativo interesse il decennio della sua formazione scientifica, in tre fasi: gli anni universitari a Firenze (1874-78), nell’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento, dove ebbe maestri Domenico
Comparetti, Pasquale Villari, Girolamo Vitelli (ma fu attratto soprattutto dalla
storiografia di spirito risorgimentale del professore emerito Atto Vannucci)2; i
successivi tre anni nella città paterna di Sassari (1878-81), dove diede inizio alla
sua attività didattica ed archeologica (come professore di ginnasio, poi di liceo,
e direttore del Museo dell’Università) e compose il primo lavoro importante3; il
decisivo biennio berlinese (1881-83), alla scuola di Theodor Mommsen4.
Sugli anni che Pais trascorse a Berlino informano, con alcune lettere a Vitelli5,
i suoi frequenti riferimenti autobiografici ai rapporti con Mommsen6, ampiamente documentati dalla loro corrispondenza. Sono 65 le lettere di Pais a Mommsen
conservate a Berlino, insieme con altri 26 documenti (biglietti, cartoline, schede)7.
Nato a Borgo San Dalmazzo (Cuneo) il 27 luglio 1856, morì a Roma il 28 marzo 1939. Un
essenziale profilo bio-bibliografico: Polverini 2002, 8-19.
2
Si laureò l’11 luglio 1878 con una tesi di argomento sardo diretta da Comparetti, pubblicata due anni dopo (Pais 1880). Risalgono all’anno della laurea le sue prime pubblicazioni:
Pais 1878a, 1878b.
3
Pais 1881, subito riproposto in edizione tedesca (Rickenbach 1882).
4
Vd. Marcone 2002.
5
Nenci 1982.
6
Spec. Pais 1899a, 516; 1899b, xxiv-xxv; 1905b, 542; 1923a, ix*-xi*.
7
Staatsbibliothek zu Berlin - Preußischer Kulturbesitz, Handschriftliche Abteilung, Nachlaß Mommsen. Una lettera di Pais del 21 maggio 1883 fu pubblicata da Mommsen 1878-83,
382-383; di una del 27 novembre 1901 dà notizia Wickert 1969, 670 n. 228.
1
431
leandro polverini
Si conoscono, invece, pochissime delle corrispondenti lettere di Mommsen a
Pais8. Le lettere di Pais conservate a Berlino riguardano soprattutto il suo impegno di apprestare il volume degli Additamenta a CIL V (Gallia Cisalpina), stampato nel 1884 ma pubblicato nel 18889. L’immediato affidamento, da parte di
Mommsen, di un incarico epigrafico tanto oneroso quanto onorifico, e prezioso
per la carriera accademica di Pais in Italia10, era stato accompagnato dal suggerimento di una ricerca storica sulle colonie triumvirali ed augustee in Italia11.
Pubblicata nel 1885, con il titolo Le colonie militari dedotte in Italia dai triumviri e da Augusto ed il catalogo delle colonie di Plinio12, la ricerca si rivela tanto
più importante, in quanto costituisce l’inizio – e il fondamento – di un aspetto
particolarmente significativo della storiografia di Pais. Piace offrire una rassegna
di questo aspetto al volume di scritti in onore dell’amico Gino Bandelli, appassionato cultore sia della storia della colonizzazione romana, in particolare nella
Gallia Cisalpina13, sia della storiografia moderna sul mondo romano14.
Più del ringraziamento a Mommsen e al suo allievo Eugen Bormann, che
si legge all’inizio della pubblicazione15, richiama l’attenzione una lunga nota
Due lettere di Mommsen, del 5 ottobre 1882 e del 7 maggio 1896, furono pubblicate
da Pais 1899a, 518 e 1905a, 31; una del 2 dicembre 1901 è stata parzialmente pubblicata da
Wickert 1969, 670 n. 228. Di alcune lettere inviate da Mommsen a Pais nel 1882 e 1883 dà
notizia Scano 1927, 16-17.
9
Pais 1888b (305: «impressum an. 1884 editum an. 1888 mense Aprili»). Sui viaggi che
Pais fece nell’Italia settentrionale, in Francia e in territori dell’impero asburgico per l’aggiornamento di CIL V, vd. Ridley 1979, che ha utilizzato le lettere conservate a Berlino, e Buonocore 2002. Sugli analoghi viaggi di Pais in Sardegna, un decennio più tardi, Pais 1894.
10
«Il Mommsen adunque mi diede, appena venuto a Berlino, l’incarico di fare il supplemento al vol. del Corpus I. L.», scriveva Pais a Vitelli il 22 giugno 1882 (Nenci 1982, 594;
il corsivo è mio). Da grande organizzatore qual era, Mommsen sapeva scegliere presto e bene i
molti collaboratori dei quali aveva assoluta necessità per l’ingente impresa del CIL.
11
«Sino dal primo giorno in cui l’avvicinai [anche qui, il corsivo è mio], l’insigne Maestro
mi affidò la compilazione dei supplementi al volume V del Corpus Inscriptionum Latinarum e
mi suggerì lo studio del problema, al quale egli stesso attendeva, delle colonie dedotte in Italia
dai Triumviri e da Augusto», ricordava Pais 1923a, ix*.
12
Pais 1885.
13
Resta fondamentale, a venticinque anni dalla pubblicazione, Bandelli 1988.
14
Si ricorda, in particolare, l’importante saggio dedicato a Pais: Bandelli 2002.
15
Pais 1885, 33 n. 5: «Porgo i più vivi ringraziamenti al Prof. Teodoro Mommsen il quale
benevolmente mi ha permesso di studiare presso lui i volumi IX e X del Corpus Inscript. Latin.
che fra poco saranno pubblicati [...] ed al Prof. Eugenio Bormann dell’Università di Marburgo,
che mi accordò lo stesso favore pel vol. XI della raccolta medesima [...]».
8
432
alla scuola di mommsen
conclusiva (di 60 righe fitte in corpo minuto)16:
Questo scritto era già stampato quando uscì nell’Hermes vol. XVIII, p. 161-213,
la bella memoria di T. Mommsen, Die Italischen Buergercolonien von Sulla bis
Vespasian17. L’illustre scrittore dopo di aver ricercate le colonie sillane, dopo di
aver minutamente esaminata ogni singola notizia del liber coloniarum, pensa
che Cesare dittatore, non abbia dedotte colonie, ricerca le colonie triumvirali
[segue l’elenco delle colonie ritenute tali da Mommsen: 11 certe e 6 incerte].
Egli crede che solo le colonie di Ottaviano venissero dette iulie [sic], non già
quelle di Antonio [...]. Esamina poi il catalogo pliniano, reputa improbabile la
tesi seguita dall’Oehmichen18 e da me, che cioè Plinio abbia staccato le colonie
dall’indice generale di Augusto, dubita che Plinio abbia utilizzato il catalogo
augusteo delle colonie, e suppone invece che avesse avanti a sé una lista di tutte
le colonie ordinate cronologicamente. Plinio non si sarebbe curato delle colonie
repubblicane, e avrebbe tenuto solo conto di quelle dedotte dopo di Cesare sino
a Vespasiano. La qual conclusione, per quanto ad essa il Prof. Mommsen ci arrivi
per vie e con opinioni molto diverse è sostanzialmente uguale a quella a cui sono
venuto io in questa memoria. Lo scritto del Mommsen [...] è pieno di osservazioni acute e nuove. Tuttavia, senza volere essere tacciato di presunzione, confesso
schiettamente che anche dopo la lettura del suo scritto, non modifico le opinioni
da me emesse [segue un elenco di specifiche divergenze]19.
Che cosa era successo? Le lettere di Pais a Vitelli permettono una puntuale
ricostruzione dello svolgimento della vicenda. Pais gli aveva scritto il 22 giugno
1882:
Qui a Berlino ho atteso a scrivere una buona memoria (30 pagine in 4° di stampa) sulle colonie dedotte in Italia dai IIIviri e da Augusto e fra un 12 o 15 giorni
Ibid., 64 n. 1.
Mommsen 1883 (= 1908, 203-253).
18
Oehmichen 1880.
19
Si rivela interessante un confronto analitico fra le ricerche parallele di Mommsen e di
Pais, alla luce del fondamentale studio di Keppie 1983, del quale si richiama un significativo
giudizio (ibid., ix): «Almost a century has now elapsed since the appearance in the journal
Hermes for 1883 of Theodor Mommsen’s masterly analysis Die italischen Bürgercolonien von
Sulla bis Vespasian. Very shortly afterwards Ettore Pais published a thoughtful study of colonisation in Italy under the Triumvirs and Augustus in the first volume of the periodical Museo
italiano di antichità classica. These two papers (together with Pais’ later publications) remain
basic reading».
16
17
433
leandro polverini
spero di poterla inviare, a chi mi sarà indicato dal Comparetti, per stamparla nel
Museo Italiano che ella dirigerà insieme a lui20.
Inviata la memoria e ricevute le bozze, Pais le restituì a Vitelli il 10 aprile 1883
«corrette e stracorrette per il contenuto». Era, infatti, uscita la parallela ricerca
di Mommsen, il quale riteneva peraltro che
il suo lavoro [di Mommsen] pur toccando questioni da me trattate aveva una
natura diversa, parlando egli della Colonialwesen da Silla in poi. Mi disse di non
ritirarla dalla stampa, non solo per questa ragione, ma anche perché, crede che
mancherei dei dovuti riguardi verso il Comparetti operando diversamente21.
A questo riguardo, in data imprecisata dello stesso mese di aprile, Pais comunicava a Vitelli di aver accolto «un consiglio buono» di Hermann Diels:
Egli ha detto che in calce alla mia nota io debba dire che era già stampato il mio
lavoro quando è uscito quello del Mommsen; che le differenze sono queste e
queste, i punti di contatto questi e questi [...]. A me pare che il Diels abbia ragione. Se io infatti non fossi per dir questo altri, dai molti punti di contatto potrebbe pensare che io abbia fatto un plagio, quod est a veritate longe alienum22.
L’aggiunta di «una nota finale relativamente a Mommsen» accompagnava, in
effetti, la restituzione delle seconde bozze corrette, il 7 maggio23.
Chiarita la genesi della «nota finale», si deve riconoscere che Mommsen
aveva mostrato nei confronti di Pais un comportamento benevolo24, ben diverso
da quello che proprio nello scritto del 1883 si era espresso nel giudizio severissimo contro Beloch: il giovane studioso tedesco (di soli due anni maggiore di
Pais) che viveva in Italia, e soprattutto per l’ostilità di Mommsen in Italia rimase
Nenci 1982, 595. (Nel frontespizio dei tre volumi del «Museo italiano di antichità classica» – 1885, 1888, 1890 – è indicata solo la direzione di Domenico Comparetti).
21
Ibid., 597. (Era apparsa due anni prima la ‘stroncatura’ di Mommsen dello scritto di
Comparetti su La Villa de’ Pisoni in Ercolano e la sua biblioteca: il richiamo ai «dovuti riguardi
verso il Comparetti» rivela il desiderio di Mommsen di non alimentare la dura polemica che ne
era seguìta, esemplarmente illustrata da Cerasuolo 2005, 35-49).
22
Ibid., 598.
23
Ibid., 599-600.
24
«Finora il Mommsen continua a trattarmi bene ed ha già cominciato a rivedere il mio
lavoro», scriveva Pais a Vitelli in chiusura della seconda lettera di aprile (Nenci 1982, 599).
Mommsen aveva assegnato il tema del lavoro, ne seguiva lo svolgimento e lo rivedeva; era,
insomma, per Pais un effettivo maestro.
20
434
alla scuola di mommsen
poi sempre25. Pais conservò e continuò a manifestare devota gratitudine e sconfinata ammirazione per la persona e l’opera di Mommsen; anche questo può
averlo indotto a non tornare – per quarant’anni – sugli specifici problemi delle
liste coloniarie (e del catalogo di Plinio). Quando li riprese, la Serie cronologica
delle colonie romane e latine, condotta dai tempi più antichi all’inizio dell’età
imperiale e pubblicata in due parti26, risultò «piuttosto confusa»27, forse anche
per l’ampliamento del quadro cronologico, che comportava il riferimento a
problemi storici e il ricorso a criteri metodici profondamente diversi. Per quanto
in particolare riguarda le colonie triumvirali ed augustee, trattate nella seconda
parte della nuova ricerca28, una sintesi della propria posizione diede Pais nella
sostanzialmente contemporanea Storia della colonizzazione di Roma antica29; in
particolare:
L’elenco delle località ricordate a proposito dei Triumviri non è privo anch’esso
di qualche interesse. Stando ad un ben noto testo di Appiano, i Triumviri avevano promesso diciotto colonie ai loro legionari. Talune però delle città designate
[...] riuscirono ad evitare il pericolo di vedere assegnati i loro terreni: ad esse furono sostituite altre città. I nostri indici menzionano un numero assai più grande
di assegnazioni e gran parte di esse appartengono alle fertili terre dell’Etruria e
del Piceno [...].
Dalle memorie di Augusto apprendiamo che egli ornò del suo cognome ventotto
delle colonie da lui dedotte. A queste vanno aggiunte le rimanenti che egli costituì quando era ancor Triumviro ed agiva come figlio adottivo di Giulio Cesare. Il numero delle assegnazioni e colonie ricordate nei libri regionum, posti a
confronto con i testi epigrafici che abbiamo a suo luogo commentati, dimostra
che vi furono realmente altre località nelle quali Augusto fece assegnazioni militari, togliendone il territorio ai limitrofi municipi.
Augusto, nel suo testamento politico, si vantava essere stato il primo a provvedere con suo denaro a comprare il terreno distribuito ai veterani delle sue ventotto
colonie. D’altra parte si ricava che un certo numero di municipia vennero puniti
Mommsen 1883, 208-211, spec. 208 (= 1908, 248-251, spec. 249). Come è ben noto,
l’ostilità di Mommsen derivava dalla posizione critica che il ventiseienne Beloch non aveva
esitato a manifestare, nel 1880, in un libro piccolo di mole, ma di grande portata storiografica:
Der Italische Bund unter Roms Hegemonie (vd. Polverini 2010).
26
Pais 1924 e 1925.
27
Gabba 2003, 1020 (= 2007, 185).
28
Pais 1925, rispettivamente 360-384 e 384-403.
29
Pais 1923a.
25
435
leandro polverini
con sottrazione del loro terreno per non aver favorito, durante le contese civili,
il partito di Cesare e di Ottaviano. Codesti territori venivano a formare le praefecturae, che erano poste appunto sotto la giurisdizione dei magistrati coloniali30.
La citazione, tratta dalle Conclusioni del I volume (il solo pubblicato) della
Storia della colonizzazione di Roma antica, intende soprattutto mettere in
evidenza lo stile insolitamente piano, quasi didascalico, adeguato alle finalità in
certo modo istituzionali della serie in cui il volume appariva: «Pubblicazioni
dell’Istituto per la storia di Roma antica sotto l’alto patronato di S. M. Vittorio
Emanuele III re d’Italia». Ma è un volume importante, che s’impone all’attenzione da vari punti di vista. La dedica «Alla venerata memoria di Teodoro
Mommsen» (a vent’anni dalla sua scomparsa, ad oltre quarant’anni da quando
Pais lo aveva conosciuto a Berlino) si espande in una Prefazione, che costituisce il documento autobiografico più significativo per quanto riguarda l’aspetto
della storiografia di Pais relativo alla storia della colonizzazione romana. Se ne
richiama la parte essenziale:
Quaranta e più anni sono passati dacché, nel dicembre del 1881, mi recai a Berlino per apprendere dalla viva voce di Teodoro Mommsen i criteri ed il metodo
con i quali il grande scienziato aveva prodigiosamente fatto progredire gli studi
di Storia e di Diritto pubblico romano.
Sino dal primo giorno in cui l’avvicinai, l’insigne Maestro mi affidò la compilazione dei supplementi al volume V del Corpus Inscriptionum Latinarum e mi
suggerì lo studio del problema, al quale egli stesso allora attendeva, delle colonie
dedotte in Italia dai Triumviri e da Augusto.
Fu quindi Teodoro Mommsen a rivolgere la mia attenzione ai Gromatici Latini,
che non ho più tralasciato d’allora in poi di studiare31. Le opinioni, che mi sono
andato mano a mano formando sull’autenticità e sul valore degli estratti, che si
solevano citare sotto il nome di Libri coloniarum, sono in gran parte diverse da
quelle del Mommsen; le conclusioni esposte in queste pagine stanno spesso in
opposizione con quelle che l’eminente epigrafista espresse nelle illustrazioni dei
Gromatici veteres del Lachmann32 e poi nelle varie prefazioni storiche ai singoli
Ibid., 349-351.
La biblioteca di Pais, confluita in quella dell’Istituto italiano per la storia antica, costituisce
un’interessante fonte per la sua biografia scientifica, sia per i giudizi (spesso icastici) apposti sulle
pubblicazioni di altri studiosi, sia per le annotazioni sulle edizioni degli autori antichi. Quelle
particolarmente copiose sul testo dei Gromatici Latini attestano la continuità e la forza dell’interesse suscitato da Mommsen.
32
Mommsen 1852 (= 1908, 146-199).
30
31
436
alla scuola di mommsen
capi dei volumi IX e X del Corpus Inscriptionum Latinarum.
Questa divergenza d’opinioni è una delle ragioni per le quali alla memoria di
Teodoro Mommsen dedico queste pagine. Era costume del Mommsen indicare ai suoi allievi, al principio di ogni semestre accademico, gli argomenti da lui
anteriormente trattati, per i quali credeva opportuno nuovo esame e sospettava
conclusioni diverse da quelle che egli aveva già propugnate [...]33.
Il volume consta sostanzialmente di due parti: l’edizione critica dei Libri
regionum, o Libri coloniarum34, ed un diffuso Commento storico, sulla scia del
fondamentale contributo di Mommsen, ma in dichiarata contrapposizione al
suo «giudizio [...] eccessivamente severo», quanto all’autenticità e al valore del
Liber regionum (come Pais riteneva opportuno anticipare già nell’Introduzione35). Se per quanto riguarda la storia della colonizzazione romana il Commento
storico costituisce ovviamente la parte di gran lunga più importante del volume,
si è già avuto occasione di rilevare il notevole interesse storiografico della Prefazione e dell’Introduzione. Anche gli Indici concorrono alla solidità e all’inconsueto (per Pais) equilibrio strutturale del volume, al quale avrebbero dovuto far
séguito altri volumi, dedicati allo
sviluppo storico e giuridico dell’istituto che è stato una fra le più poderose creazioni dell’antica Roma, per complessività, estensione e sapienza politica non
ancor superato dall’attività delle maggiori Nazioni dell’Europa moderna36.
Il solo volume pubblicato si segnala ad ogni modo, nella sconfinata bibliografia di Pais, per la significativa confluenza di tutte le sue esperienze più solide,
non inficiate da preoccupazioni teoriche o politiche: dalla direzione dei musei
archeologici di Sassari (1878-81), Cagliari (1883-86) e Napoli (1901-04) alle
ricerche sulle fonti per la storia della geografia antica37; dalle storie regionali,
in particolare della Sardegna e della Sicilia38, a specifici problemi di storia locaPais 1923a, ix*-x*.
Così Mommsen 1852. Al Liber coloniarum faceva riferimento Pais 1920.
35
Pais 1923a, v*-vii*.
36
Ibid., xi*. È superfluo rilevare la caratteristica commistione (consueta negli scritti di Pais,
non solo nei più recenti) di ricostruzione storica e valutazione politica contemporanea.
37
In questa direzione già una delle due prime pubblicazioni (Pais 1878b). Sull’importanza
delle ricerche su Strabone, a partire da Pais 1887, vd. Biraschi 2002.
38
All’isola, che considerava la sua patria (è significativa la scelta dell’argomento per la tesi
33
34
437
leandro polverini
le sollecitati dalla consuetudine con i testi gromatici e alimentati dall’intenso
lavoro ‘sul campo’, a partire da quello per i supplementi del CIL (anche in questo
caso, dunque, era stata decisiva la scuola di Mommsen).
Ma l’importanza del volume è stata soprattutto quella di aver «riaperto una
discussione che da allora è continuata, arricchita dai contributi archeologicotopografici dell’indagine sul terreno e con la fotografia aerea»39. Anche per
questa loro sopravvivenza in una delle più caratteristiche tendenze degli studi
recenti sulla storia romana, gli studi di Pais sulla colonizzazione costituiscono senza dubbio l’aspetto più positivo della sua immensa operosità. Dovrebbe
cominciare da qui una revisione della sfortuna storiografica40 che, soprattutto
per non infondati motivi di ordine politico (ed accademico), ha fatto singolare
contrappasso al gran successo che arrise a Pais durante la vita.
di laurea: Pais 1880), continuò per tutta la vita a dedicare lavori di grande respiro: spec. Pais
1881, 1909, 1923b (vd. Mastino 2002). All’interesse per la Sardegna si associò quello per la
Sicilia (Pais 1888a: vd. Salmeri 2002) negli anni 1886-88, quando Pais era professore nell’Università di Palermo.
39
Gabba 2003, 1020 (= 2007, 185). Vd. Polverini 2011, 89-90 e n. 11.
40
Un ruolo decisivo ha avuto in questo senso, anche per la fondamentale importanza del
contributo, Treves 1962: vd. Polverini 2002, 10-11 e Gabba 2003, 1018 (= 2007, 183).
438
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442
ALICIA RUIZ GUTIÉRREZ
Aspectos económicos de la migración itálica a la Hispania Citerior
(siglos II-I a.C.)
Los investigadores que se han ocupado recientemente del tema de la colonización romana y llegada de itálicos a Hispania en época republicana reconocen que la historiografía está polarizada en dos puntos de vista contrapuestos1:
por un lado, el que contempla un flujo migratorio importante desde Italia a las
provincias hispanas a partir del siglo II a.C. y, por otro, el que cuestiona para esas
mismas fechas e incluso para la centuria siguiente la existencia de tal fenómeno, negándolo o reduciéndolo a movimientos de población de escasa entidad.
Unos y otros autores admiten que la documentación que puede ser empleada
para dilucidar esta cuestión es escasa, fragmentaria y difícil de interpretar en su
conjunto.
La combinación de fuentes de diversa naturaleza, literarias, epigráficas,
numismáticas y arqueológicas – estas últimas valoradas cada vez en mayor medida –, ha enriquecido en los últimos años el debate2. En general, la investigación
Le Roux 1995, 85; Bandelli 2002, 127-128; Cadiou - Navarro 2010, 254; García
2011, 47.
2
Como es sabido, dicho debate viene alimentado en origen por las ideas vertidas desde las
décadas centrales del siglo XX por autores que se ocuparon de la emigración itálica en época
republicana, tanto defendiendo su amplitud en el caso hispano (Wilson 1966, 22-27; Gabba
1973, 289-299), como interpretándola de forma restrictiva (Brunt 1971, 230-232; Knapp
1977, 143-163). No faltan autores que como M. Amalia Marín hayan adoptado una postura
intermedia, sin negar ni tampoco exagerar la realidad de una migración de itálicos a Hispania
ya desde el siglo II a.C. (Marín 1986-1987, passim; Ead. 1988, 47-112). En último lugar, la
cuestión ha sido reavivada con nuevos argumentos por Patrick Le Roux, situándose este autor
en contra de la existencia de un verdadero fenómeno migratorio, tanto de civiles como de mili1
443
alicia ruiz gutiérrez
reconoce la inexistencia de datos cuantitativos que permitan llegar a un balance conclusivo, pero sigue pronunciándose en uno u otro sentido, generalmente
rebajando la intensidad del fenómeno migratorio itálico; por otra parte, se plantea la necesidad de omitir juicios generalistas y, en su lugar, profundizar en casos
de ciudades y contextos concretos3.
El análisis onomástico resulta especialmente problemático, por cuanto la
documentación epigráfica de nombres romano-itálicos puede responder tanto
a la llegada de emigrantes de Italia a Hispania como a la promoción jurídica,
individual o colectiva, de los nativos, sin olvidar los posibles casos de imitatio
onomástica y de difusión de antropónimos por vía clientelar. Las conclusiones
históricas tienden por ello a ser discordantes y con frecuencia provisorias debido
a su frágil apoyatura documental, de ahí que muchos esfuerzos se hayan encaminado en los últimos años a depurar criterios metodológicos.
Basándose en los epígrafes de carácter público y sobre todo en las leyendas
monetales, Estela García ha argumentado recientemente que uno de los principales medios de difusión de la onomástica romano-itálica en la Hispania de
época republicana y la clave de su perduración en época imperial no fue probablemente la emigración de itálicos, así como tampoco la usurpación de nombres
ni la extensión de clientelas, sino la promoción al estatus latino de ciertas comunidades locales4. Por otra parte, Milagros Navarro, centrándose en la epigrafía de
la zona central y meridional de la Lusitania, encuentra en la presencia de gentilicios itálicos ‘fosilizados’ y cognomina geográficos como Fundanus o Tuscus
pruebas de la llegada de itálicos a dicha zona del sudoeste hispano al menos
desde fines del siglo I a.C. La misma autora no interpreta que se haya tratado
de un fenómeno migratorio masivo, sino más bien de una afluencia selectiva de
hombres de negocios para dedicarse al comercio, los cuales se habrían instalado
únicamente en algunas ciudades costeras, entre las que destaca Olisipo5. Éstos y
otros estudios reflejan en qué medida el análisis onomástico es maleable y puede
tares llegados de Italia a Hispania, especialmente en la etapa anterior a las guerras civiles (Le
Roux 1995, passim). En la misma línea se sitúan otros autores, en especial François Cadiou,
quien ha desarrollado el tema en extenso y de forma crítica (Cadiou 2008, 627-661).
3
Cadiou - Navarro 2010, 282.
4
García 2011, 60-63.
5
Navarro 2006, 92-93.
444
aspectos económicos de la migración itálica a la hispania citerior
conducir a conclusiones distintas aunque no necesariamente excluyentes, si se
tiene en cuenta la complejidad del hecho analizado y la diversidad de situaciones
posibles.
Otro problema de fondo atañe al concepto mismo de migración6. Es obvio
que dependiendo del sentido preciso que queramos dar a este término la interpretación del fenómeno analizado será más o menos restrictiva. En principio,
migrar significa desplazarse de un lugar a otro para establecerse en él, normalmente de forma voluntaria y por razones económicas. El desplazamiento puede
llegar a ser temporal o definitivo, pero implica siempre una voluntad de cierta
permanencia y, por lo tanto, una expectativa de arraigo en un nuevo destino, así
como a la larga la desvinculación material y afectiva con la comunidad de origen.
El exilio político, voluntario o forzoso, puede manifestarse de forma similar,
pero obedece en origen a un fenómeno de índole diferente, del mismo modo
que la colonización oficial, militar o civil, constituye un fenómeno específico.
Evidentemente, la investigación no es ajena a toda esta variedad de modalidades
que se dieron o pudieron haberse dado a finales de la República. Se tiende por
ello a contraponer una ‘emigración económica’, que también se suele denominar
‘espontánea’ o ‘libre’ y cuyo alcance es lo que principalmente se cuestiona hoy
en día, frente a otra política o militar, promovida y organizada por la autoridad
romana. Esta distinción, sin embargo, puede resultar en la práctica artificiosa
y, en todo caso, difícil de determinar, dada la naturaleza y número de fuentes
disponibles.
No debe obviarse que la dimensión económica está implícita en todo movimiento de población, tanto oficial como libre, de igual modo que la posibilidad
de migrar para buscar fortuna o mejorar las condiciones de vida requiere siempre de un contexto político y social favorable. No es raro por ello que distintas
formas de movilidad geográfica hayan coincidido en los mismos destinos, como
así refleja la situación de la Hispania Citerior.
Las fundaciones romanas en esta provincia fueron escasas antes de las guerras
civiles y muchas parecen haber estado destinadas más bien al asentamiento de
peregrinos7. La más antigua documentada es Grachurris (Alfaro), en pleno valle
6
7
Le Roux 1995, 86-90; Id. 2010, 64-67.
Para un estado de la cuestión cf. Barrandon 2011, 67-71, 80 (fig. 5) y 85-87.
445
alicia ruiz gutiérrez
del Ebro. Se trata de un oppidum creado por T. Sempronius Gracchus en 179 a.C.
tras su victoria sobre los celtíberos8. Lejos de este enclave, en la costa levantina,
Valentia (Valencia) aparece como la primera ciudad nueva de carácter claramente militar, establecida por D. Iunius Brutus en 138 a.C. para instalar a veteranos
de la guerra contra Viriato. Acerca de esta fundación se ha discutido sobre el
origen lusitano o itálico de sus primeros pobladores9. En 123-122 a.C. el cónsul
Q. Caecilius Metellus fundó en la isla de Mallorca las ciudades de Palma (Palma
de Mallorca) y Pollentia (Alcudia), a las que fueron transferidos 3.000 «romanos» de Iberia, según Estrabón10. Hay que considerar también, entre otros, los
casos de Valeria (Valera de Arriba) y Pompaelo (Pamplona), esta última fundada
por Pompeyo en territorio vascón11.
La población itálica se instaló en algunos de estos centros de nueva creación,
así como en otros ya existentes y, sobre todo, en ciudades portuarias que destacaban por haber tenido un importante desarrollo económico desde antes de la
conquista, como Emporion, Tarraco, Carthago Nova y seguramente Saguntum.
A estas urbes de la costa levantina, bien situadas con respecto a las rutas comerciales y la conexión con Roma, se dirigieron con preferencia los comerciantes
y hombres de negocios itálicos que frecuentaban la Península Ibérica o bien
que habían fijado en ella su residencia con objeto de atender sus negotia. A ellos
pudieron haberse unido igualmente itálicos exiliados a raíz del enfrentamiento
entre marianistas y silanos12.
Además de las inscripciones, en general escasas antes del cambio de era, la
introducción de novedades en las formas de hábitat y el urbanismo (villae,
Liv. perioch. XLI: Ti. Sempronius Gracchus proconsul Celtiberos victos in deditionem accepit, monumentumque operum suorum, Gracchurim oppidum in Hispania constituit. Bandelli
2002, 107-108 n. 12, y 118.
9
Liv. perioch. LV: Iunius Brutus consul in Hispania iis, qui sub Viriatho militaverant, agros
et oppidum dedit, quod Valentia vocatum est. Bandelli 2002, 108-109 n. 16, y 118; Cadiou
2008, 645-647.
10
Strab. III 5, 1. Acerca del origen de estos colonos y el estatuto jurídico de las ciudades cf.
Cadiou 2008, 641-642, 644 n. 140.
11
Strab. III 4, 10.
12
No se duda de una importante llegada de refugiados itálicos a Hispania, con independencia del grado de implicación que después éstos tuvieron en la guerra sertoriana (Gabba 1973,
300-302).
8
446
aspectos económicos de la migración itálica a la hispania citerior
termas, conducciones de agua, teatros, templos), así como otros elementos de la
cultura material permiten detectar o intuir en algunos casos la presencia de itálicos13. No obstante, estos indicadores arqueológicos deben tomarse con cautela,
ya que se dan en una etapa formativa en la que aún no estaban definidos los
rasgos distintivos y menos aún identitarios de la cultura romana14.
En relación con la presencia de itálicos en la Península Ibérica, los aspectos
económicos que pueden ser valorados atañen tanto a los alicientes y causas de su
llegada a Hispania como a las consecuencias que ésta tuvo a corto y largo plazo
en el desarrollo de la economía provincial. La actividad minera atrae en primer
lugar toda la atención.
La dominación de Roma sobre la Iberia púnica, tras la toma de Carthago
Nova en 209 a.C. y la rendición de Gades tres años después, aunque no hubiera
estado motivada de forma directa, como tradicionalmente se ha imaginado, por
el objetivo de explotar las proverbiales fuentes de riqueza del suelo ibérico15,
significó al fin y al cabo el control romano de las lucrativas explotaciones de
plata que habían estado en manos cartaginesas. Los textos literarios son elocuentes y bien conocidos. Hacia el año 151 a.C., cuando el historiador Polibio visitó
las minas de Carthago Nova, trabajaban en ellas unos 40.000 mineros y producían al pueblo romano 25.000 dracmas diarias16. Diodoro de Sicilia alude a una
multitud de itálicos que se abalanzó a Hispania y se enriqueció con el negocio de
las minas, utilizando abundante mano de obra17.
Tras largos debates, hoy en día se admite que en las minas hispanas incorporadas al dominio público de Roma no hubo una gestión directa de las explotaBarrandon 2011, 67-94.
Sobre esta cuestión cf. Gouda 2011, 462-463.
15
En efecto, la puesta en marcha de las explotaciones mineras por parte de Roma no se
produjo al mismo ritmo en que avanzaba la conquista. En el año 197 a.C., cuando el Senado
romano creó las provincias hispanas Citerior y Ulterior, sólo se extraía plata en el entorno de
Carthago Nova y quizás también en Castulo. Posteriormente, a lo largo de los siglos II y I a.C.
la producción minera fue en aumento con la apertura de nuevas explotaciones en la región de
Sierra Morena, rica en plomo, plata y cobre, y en algunos lugares del sudoeste de la Ulterior,
como Riotinto, donde abundaban el cobre y la plata (Domergue 1990, 179-189).
16
Strab. III 2, 10.
17
Diod. Sic. V 36, 3.
13
14
447
alicia ruiz gutiérrez
ciones por parte del Estado, así como tampoco concesiones en masa a societates publicanorum. Por el contrario, parece probado que la explotación recayó
en personas y sociedades privadas que accedieron a la occupatio de los distintos
yacimientos. Ello exigía formalizar debidamente la concesión del ager público
ante el gobernador provincial y pagar después los vectigalia correspondientes,
establecidos por Catón el Viejo en 195 a.C.18. Los publicani sólo habrían intervenido en el cobro de los impuestos mineros19.
Los epígrafes sobre lingotes y precintos de plomo revelan que los primeros
explotadores de metalla fueron individuos en el distrito minero de Carthago
Nova – conocemos sus nombres a partir de fines del siglo II a.C. –, mientras
que en Mazarrón y Sierra Morena se instalaron sociedades mineras. Según una
reciente hipótesis planteada por Christian Rico, en el primer caso quienes se
ocuparon de la explotación minera en la etapa más antigua pudieron haber sido
los negotiatores que seguían a las legiones romanas. Éstos habrían accedido a la
explotación de unas minas que desde muy pronto Roma habría declarado ager
publicus y que ya estaban en funcionamiento bajo control bárquida en el momento de producirse la conquista romana. En los demás distritos mineros, incluido
Castulo, la constitución de sociedades mineras habría obedecido a la necesidad
de aunar mayores esfuerzos e inversiones con objeto de poner en marcha las
explotaciones20. Esta interpretación es acorde con el activo papel económico que
se atribuye a las masas de civiles que acompañaban a los ejércitos de conquista
romanos con objeto de aprovechar las oportunidades de negocio que ofrecía la
guerra, tales como el abastecimiento de la tropa o la comercialización de botines
y esclavos, entre otras posibilidades21.
El protagonismo de los itálicos en la explotación minera es evidente, al menos
en el caso del distrito de Carthago Nova, para el que se dispone de abundantes
testimonios epigráficos sobre lingotes22. En el resto de zonas mineras, donde se
documentan sociedades mineras de carácter anónimo, como la societas CastuloLiv. XXXIV 21, 7: Pacata provincia, vectigalia magna instituit ex ferrariis argentariisque;
quibus tum institutis locupletior in dies provincia fuit.
19
Mateo 2001, 62-65.
20
Rico 2010, 407-409.
21
Marín 1986-87, 55-56.
22
Domergue 1990, 265-266; Díaz 2008, 275-291.
18
448
aspectos económicos de la migración itálica a la hispania citerior
nensis, se desconoce la procedencia geográfica de los socios que las integraban.
Cabe sospechar que algunos fueran también itálicos que habían extendido hasta
esas zonas del interior de la provincia sus negocios, pero nada impide pensar que
se tratara de gentes del lugar, colaborando o no con los primeros23. En cuanto a
la mano de obra empleada en las minas, probablemente durante toda la época
republicana estuvo compuesta por esclavos que pudieron haber sido traídos por
los empresarios desde otros lugares o bien haber sido adquiridos entre los nativos reducidos a esclavitud en el transcurso de sus guerras con Roma24.
Los lingotes procedentes de varios pecios localizados en el litoral de Cartagena y Cabo de Palos, así como en otros lugares del Mediterráneo, llevan los sellos
de miembros de distintas familias de origen itálico, como los Atellii, Aquinii y
Planii, entre otros. Los veintitrés gentilicios documentados, de distintas épocas,
remiten a lugares del centro y sur de Italia. Es posible que algunos dueños de
las concesiones mineras que aparecen mencionados en los sellos no fueran en
realidad residentes de Carthago Nova. En efecto, su presencia estable en el lugar
de las explotaciones no sería necesaria en el caso de haber delegado el negocio en
libertos que controlaban la producción in situ. Además, el hecho de que algunos
sellos lleven sólo los nombres de estos libertos parece indicar que ellos mismos
explotaron por su cuenta algunas minas, quizás en ocasiones compaginando sus
propios negocios con los de sus patronos, ausentes del escenario de la actividad
económica.
Hay que suponer, en tal caso, que la primera generación de negotiatores itálicos que habría accedido a los metalla del área de Carthago Nova, después de la
regulación de tasas mineras establecida por Catón el Viejo, en algún momento
regresó a sus lugares de procedencia, delegando la explotación en libertos que
debían de ser de la plena confianza de sus patronos, dadas las características del
negocio. Otra posibilidad es que aquellos primeros negotiatores que registraron en la provincia las ocupaciones de pozos mineros para su aprovechamiento hubieran sido ya en origen libertos y hubieran actuado ya desde un primer
momento en representación de sus patronos itálicos. Realmente, la variedad
de situaciones posibles es grande, así como también el estatus social de quienes
23
24
Rico 2010, 408.
Domergue 1990, 335-337.
449
alicia ruiz gutiérrez
tenían a su cargo metalla y, derivado de ello, el alcance de la movilidad geográfica
que pudo haberse dado.
La posibilidad de que antes del cambio de era todos o gran parte de los miembros de las familias itálicas que gestionaban in situ las minas de la Hispania Citerior hubieran sido en realidad libertos o descendientes de libertos suele presentarse como un elemento indicativo de la debilidad del fenómeno migratorio
itálico. En efecto, no existen garantías de que todos los liberti tuvieran, al igual
que sus patronos, un origen itálico y más bien cabe pensar que en muchos casos
fueran de procedencia greco-oriental. De cualquier modo, se trataba de individuos que vehiculaban la cultura ítalo-helenística en el lugar donde se instalaban.
En un lingote de plomo cartaginés hallado en el pecio de Mal di Ventre I
(Cerdeña), datado hacia mediados del siglo I a.C., se documenta L. Appuleius
L. l. P<h>ilo. Este liberto, que tendría registrada a su nombre la explotación
de la mina de la que se extrajo el metal, presenta un cognomen griego que revela su probable origen greco-oriental. Habría formado parte seguramente de la
familia de un magistrado monetal del año 29 ó 28 a.C., el duunviro quinquenal
L. Appuleius Rufus25. El origen oriental de M. Dirius Malchio, atestiguado en
un lingote hallado en Cartagena, probablemente de la segunda mitad del siglo I
a.C., se manifiesta en su cognomen semita26. Finalmente, se puede considerar el
caso de Cn. Atellius Cn.l. Bulio, documentado en dos lingotes procedentes del
pecio de Capo Testa II (Cerdeña), datados entre la primera mitad y mediados
del siglo I a.C. De la procedencia geográfica de este liberto nada puede asegurarse con certeza a partir únicamente de su cognomen, pues carece de paralelos,
si bien Claude Domergue lo considera íbero27. Lo seguro, en todo caso, es que
estamos ante el liberto de una importante familia de origen campano integrada
en la clase dirigente de Carthago Nova, con varios miembros que llegaron a ser
magistrados monetales en los siglos I a.C. - I d.C.28.
Otros dos Appuleii, de origen ingenuo, están documentados en la epigrafía de Carthago
Nova. Díaz 2008, 277, SP2.
26
Domergue 1990, 321 n. 3; Díaz 2008, 281, SP11.
27
Domergue 1990, 329; Díaz 2008, 279, SP6.
28
Koch 1993, 191-242.
25
450
aspectos económicos de la migración itálica a la hispania citerior
La epigrafía revela el arraigo e integración de algunos de estos libertos de
ricas familias itálicas en la élite de Carthago Nova, así como la transmisión en
esta ciudad de elementos culturales propios del ámbito romano-itálico29. Un
testimonio de tal fenómeno se encuentra en el pequeño templo de Iuppiter
Stator situado en las cercanías de Cartagena, datado entre el último tercio del
siglo II e inicios del I a.C. La inscripción localizada en el pavimento de opus
signinum del edificio indica que éste fue reconstruido gracias a M. Aquinius
M. l. Andro, probable liberto de M. Aquinius M. f. documentado en sellos de
lingotes de plomo de la zona30.
Dejamos la minería para ocuparnos de la viticultura, otra actividad económica documentada en la Hispania Citerior en la que también se ha querido ver
una participación de itálicos a finales de la República31. Hablamos en este caso
de un sector de la producción agrícola considerado característico de la cultura
romano-itálica y bien documentado a través de las ánforas32.
La arqueología y las fuentes literarias coinciden en señalar que el cultivo del
viñedo se implantó con éxito en las regiones costeras de Cataluña y la Comunidad Valenciana, así como en las Islas Baleares. Hubo otras zonas productoras en
Hispania – particularmente en la Bética –, pero en ninguna de ellas la difusión
comercial del vino alcanzó niveles comparables a los de la Citerior33. Las fuentes
literarias de época imperial aportan información abundante sobre las cualidaDomergue 1990, 325.
AEp 1995, 938; AEp 1996, 926; HEp VI (1996), 655; Díaz 2008, 108-109, C16:
M(arcus) Aquini(us) M(arci) l(ibertus) Andro / Iovi Statori de sua p(ecunia) qur(avit) / l(ibens)
m(erito).
31
Revilla 1993, 333-334; Id. 1995, 149; Étienne - Mayet 2000, 136, 254-255.
32
A fines del siglo I a.C., las ánforas Pascual 1, Layetana 1 y Dressel 1B Tarraconense copiaban el modelo itálico Dressel 1B. La imitación era especialmente fiel en el tercer caso. Sobre una
evolución general de las ánforas de vino hispano cf. Étienne - Mayet 2000, 109-137.
33
El comercio reflejado por las ánforas vinarias alcanzó durante el Imperio las Galias y el
limes germánico, así como Britannia, Italia y algunos lugares del norte de África. El vino era
transportado por mar desde puertos próximos a las zonas vinícolas: Barcino, Baetulo e Iluro
entre otros. Las rutas fluviales fueron muy utilizadas, sobre todo la del istmo galo, cuyo aprovechamiento es muy evidente en el caso de las ánforas Pascual 1 de época augustea. La distribución hacia el interior de la Península Ibérica se hizo en gran medida a través de la vía del Ebro
(Ruiz 2009, 236-237).
29
30
451
alicia ruiz gutiérrez
des de las distintas comarcas vinícolas de esta provincia. Para Plinio el Viejo los
vinos layetanos eran famosos por su abundancia, mientras que los de Tarraco y
Lauro destacaban por su selecta calidad; de los baleáricos afirma que resistían
la comparación con los mejores de Italia34. Silio Itálico35 elogia también el vino
de Tarraco y lo mismo hace Marcial36, quien sin embargo desprecia el de Laietania37. En fin, el producido en Saguntum, donde el caballero Voconius Romanus
tuvo viñedos38, era pésimo según el poeta Juvenal39.
La implantación del viñedo en el noreste hispano ha sido puesta en relación
con la inmigración itálica y, en particular, con los repartos de tierras coloniales
en época de César. El desarrollo de una nueva organización productiva basada
en la pequeña y mediana propiedad parece haber ido acompañada, en efecto, de
cambios en la orientación agrícola de extensos territorios. Asimismo, la colonización oficial de las Baleares en 123-122 a.C. coincidió en el tiempo con la
expansión del viñedo y el olivar en dichas islas. La explotación del plomo argentífero también pudo haber comenzado desde esas fechas, a juzgar por el lingote
hallado en la bahía de Cartagena con sello de una soc(ietas) Baliar(ica)40.
La investigación sobre los talleres de ánforas y estructuras agrarias asociadas a la actividad vinícola en el área catalana refleja la coexistencia de distintas categorías de productores. Algunas marcas anfóricas documentan nombres
que remiten a grandes propietarios de origen itálico, como L. Venuleius y
C. Mussidius Nepos. Un caso significativo, aunque ya tardío, es el de Cn. Lentulus Augur, favorecido por las donaciones de Augusto a personas fieles a su causa.
Este senador representa el modelo de gran propietario de tierras provinciales,
dueño absentista de una explotación agrícola importante, destinada al comercio
a largo alcance41.
Plin. nat. XIV, 71.
Sil. III, 69; XV, 178.
36
Mart. XIII 118.
37
Mart. I 26, 9.
38
Plin. epist. IX 28, 2.
39
Iuv. V, 30.
40
Poveda 2000, 293-313; AEp 2000, 784; Díaz 2008, 291, SP43.
41
Revilla 1993, 334; Pena - Barreda 1997, 51-73.
34
35
452
aspectos económicos de la migración itálica a la hispania citerior
La difusión y comercialización del viñedo en la Hispania Citerior tiene un
significado económico, pero también cultural, en la medida en que el vino es
un producto típicamente itálico, cuya elaboración pudo haberse visto estimulada no sólo por el asentamiento de productores, sino también de gentes que
generaban una nueva demanda. Por otra parte, las evoluciones locales no deben
subestimarse, pues ni el consumo de vino era exclusivo de los itálicos ni éstos
serían los únicos capaces de aprovechar la cercanía de los puertos marítimos para
comercializar sus excedentes, lo que implicaba una adaptación de la producción
agrícola a las condiciones del mercado.
En suma, si bien la cuantificación del asentamiento de itálicos en la Península Ibérica en época republicana se nos escapa, es posible valorar las distintas
formas de movilidad geográfica y algunas manifestaciones concretas de este
fenómeno migratorio. Sin duda, la circulación de migrantes llegados de Italia a
Hispania Citerior no fue continua ni tuvo la misma intensidad en toda la provincia: la costa levantina y el valle del Ebro hasta su curso medio fueron las zonas
más afectadas. El contacto de itálicos de distintas procedencias, portadores de
elementos culturales helenísticos, con los pueblos ibéricos provocó intercambios culturales y transformaciones de tipo económico. Tanto si eran gentes de
paso como inmigrantes que habían fijado su residencia en la provincia, civiles o
militares, los itálicos contribuyeron a aportar novedades e introducir factores
de cambio económico y social en unas comunidades locales que evolucionaban
por sí mismas influidas en parte por los mismos estímulos externos. El resultado final será la construcción de las características y elementos que a partir del
cambio de era se presentarán como definitorios de la cultura romana y que como
tales serán difundidos por los mismos y otros territorios provinciales, en parte
gracias también a la movilidad geográfica.
453
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JUAN SANTOS YANGUAS
SANTIAGO MARTÍNEZ CABALLERO
Modelos de urbanización en época republicana en la Celtiberia
de arévacos y pelendones*
La organización territorial de la Celtiberia noroccidental, habitada por arévacos y pelendones, tras su gradual conquista por las fuerzas romanas entre 179
a.C. y 92 a.C., estuvo ligada a una política diacrónica de urbanización y reordenación, ejecutada en un espacio de frontera móvil y muy permeable a los procesos de interacción cultural1. La base de esta política fue el marco urbano indígena
generado en el área desde el s. IV a.C.2 Roma actúa en una región atomizada en
el plano político, definida por ciudades de diferente potencial3. Algunas ciudades resultan beneficiadas por posiciones geoestratégicas privilegiadas (gestión
coherente de los circuitos de intercambios y la explotación de recursos); por
una evolución interna dinámica, fruto de la casuística histórica; y por el propio
* Este trabajo se ha realizado dentro del Grupo de Investigación Consolidado (B) del
Gobierno Vasco IT760-13.
1
Visiones generales del proceso: Salinas 1986; Romero 1992; Jimeno - Arlegui 1995;
Jimeno 2000 y 2011; Caballero 2003; Romero 2005; Burillo 2009; Martínez Caballero - López Ambite - Gallego e.p.
2
Se ha sostenido ( Jimeno - Arlegui 1995; Jimeno 2000 y Jimeno 2011) que este marco
urbano solo habría fraguado avanzado el s. III a.C., o incluso en el s. II a.C. En la zona occidental arévaca (como Termes, Ayllón o Segovia: Martínez Caballero - Mangas 2005; López
Ambite 2012; Martínez Caballero - López Ambite - Gallego e.p.), se comprueba
que es a fines del s. IV a.C.
3
Burillo 2007; Jimeno 2011. También se puede considerar la existencia de puntuales
comunidades más marginales, en zonas montanas apartadas o en espacios limítrofes entre oppida periféricos, al subsistir formulaciones organizativas de base parental (como en ciertas zonas
pelendonas: Santos 1991).
457
juan santos yanguas - santiago martínez caballero
empuje de Roma, que impele el dinamismo económico de comunidades fronterizas, por su papel de mediación en intercambios con áreas vacceas del Duero
medio, y la consumación de liderazgos políticos y militares regionales, que decidieron procesos de ampliación de dominios.
Esta política de reordenación y urbanización se desarrolla en varios procesos, tras actuaciones militares y diplomáticas, que deciden la anexión directa de
nuevos territorios, tras deditio u oppugnatio (asalto) de las comunidades indígenas4. También se formula antes de la plena anexión (en especial, entre 179 y
133 a.C.) un tipo de deditio que mantiene durante cierto tiempo la soberanía de
la comunidad, a pesar de que se establecen disposiciones tributarias y políticas
(entre 104 y 98 a.C. se procede preferentemente a la anexión directa). De la aplicación de esta variabilidad de recursos legales y decisiones militares dependerán
las acciones en materia de urbanización.
La anexión supuso la desaparición de la ciudad estado celtibérica como organismo autónomo, al transformarse en una comunidad sin soberanía y sin capacidad jurídica para entablar relaciones internacionales. Se genera el sistema de
la civitas, aunque el proceso de transformación de éstas de dediticias (mientras
hacen frente a la indemnización marcada por la deditio) a peregrinas (sujetas ya a
tributación regular) es mal conocido. La conservación de fórmulas organizativas
prerromanas significa la preservación de instrumentos de gestión eficaces, ante la
falta de una estructura administrativa romana que imponga sus propios instrumentos. Para ello es clave la participación de las élites indígenas, interesadas en
promover la consolidación del sistema de la civitas, para su proyección social y
económica. La chora indígena y la ciudad se han convertido en ager publicus,
aunque son cedidos en possessio a las comunidades que se organizan como civitates. La concesión viritana de estatutos de ciudadanía y la infiltración de componentes itálicos, instalados en relación con la redistribución de la propiedad y la
acción de societates (minas, etc.), coadyuva al fraguado de las nuevas élites5.
Esta política respondió no a un plan de urbanización a gran escala diseñado
ex profeso, sino en la suma de numerosas experiencias formuladas en cada área
Sobre la formulación legal y la deditio en las guerras celtibéricas, García Riaza 2002 y
García Riaza 2012.
5
Otra cuestión es la evolución de los parámetros ideológicos y culturales, que parten de
un evidente componente indígena. Pero la ciudad celtibérica sufre una reestructuración desde
factores económicos, sociales y políticos, promovidos por un intercambio de factores endógenos y exógenos creando una nueva estructura cultural e identitaria, identificada en la civitas.
4
458
modelos de urbanización en época republicana en la celtiberia
de forma progresiva, cuyos logros se consumaron a partir de hitos decididos por
la actuación de magistrados y comisiones. Aunque se siguieron unos propósitos generales de reordenación, reurbanización y colonización, para acceder a la
mejor explotación de los recursos económicos y las tributaciones.
Se toma como referencia la política seguida en la Italia septentrional desde la
segunda mitad del s. III a.C., que se ejecuta en el Noreste de la Península Ibérica
desde el segundo decenio del s. II a.C. y en la Celtiberia del Ebro a partir de la
fundación de Gracchurris en 179 a.C., generalizándose en la segunda mitad del
s. II a.C. en esta área6. Parece claro que en la Celtiberia noroccidental existe una
política activa de urbanización inmediatamente después del Bellum Numantinum, aunque solo se había querido intuir desde fines del s. II a.C.7.
La evaluación del mapa político prerromano, junto con las potencialidades
del medio, sirve para marcar las directrices, desde la jerarquización de las necesidades de control y explotación del medio, lo que lleva a delimitar los espacios
óptimos para su aprovechamiento y seleccionar los emplazamientos que ofrecen las mejores potencialidades geoestratégicas. La experiencia indígena es muy
considerada8.
Existen dos modelos diferentes de aplicación de estos mecanismos de urbanización. El primero se basa en el mantenimiento de la ciudad indígena (generalmente oppida posicionados en alto) que sirve de soporte a la civitas y a la reorganización del territorio. El segundo atiende a la fundación (conditio) de nuevas
ciudades, preferentemente en el llano. En ellas se introducen planificaciones
urbanas racionales y regulares, aptas para recibir los componentes habituales
del urbanismo romano y facilitar el acceso y circulación en el centro de gestión
territorial. La nueva posición permite una mejor gestión del territorio, facilita el
acceso a las áreas de explotación, las comunicaciones y relaciones económicas y el
tránsito en la caput urbis. Expresan también el interés romano por desmembrar
los sistemas de relación tradicionales, con el reemplazo de estructuras autónomas, al tiempo que se procede a la reordenación, mediante la redistribución de
Para Italia septentrional: Mansuelli 1971; Bandelli 1988; David 2002. Para la
Narbonense: Gros - Torelli 2007. Para el Noreste hispano y el valle del Ebro: Pina 1993;
Guitart 1994; Asensio 1995 y Asensio 2003; Caballero 2003; Burillo 2007,
316-326.
7
Caballero 2003.
8
Ninguna nueva fundación surge en un territorio de nueva colonización, sino en las inmediaciones de oppida desalojados o destruidos, de los que en ocasiones toma el nombre la civitas.
6
459
juan santos yanguas - santiago martínez caballero
propiedades, que en ocasiones quiere también solventar algunos de los desequilibrios provocados por el acaparamiento de la propiedad por las aristocracias locales9. El impacto ideológico es fundamental, pues esta demostración de presencia
y reelaboración de los mecanismos simbólicos de referencia territorial, resquebraja la percepción de los marcos de referencia simbólicos indígenas. En ambos
modelos se produce la incorporación de nuevos aportes territoriales y demográficos en el seno de la estructura cívica, por destrucción de ciudades durante las
guerras o su desalojo, en beneficio de la potenciación de la caput urbis de la civitas. Responde a la centralización de las estructuras de poder local y gestión, con
la reducción del número de unidades urbanas, derivando en una jerarquización
más amplia del territorio y simplificación del marco organizativo10.
La actuación de las dos comisiones senatoriales enviadas a la región en 133
y 95 a.C., según habitual proceder del Senado tras la incorporación de amplios
territorios11, fue determinante, ya que nuevas fundaciones, desalojos y anulación
de ciudades suponen decisiones políticas de alta competencia. La aplicación de
estas políticas conlleva la redistribución de tierras (adsignationes, importante
para la elaboración de los catastros) y la generación de nuevos cuadros aristocráticos, a veces de origen externo, por repartos de territorios y por concesiones
a indígenas adscritos a las clientelas romanas y a los primeros cuadros itálicos.
La fundación de una ciudad cerca de Colenda en 100 a.C.12 señala un procedimiento que puede ser habitual para establecer a los beneficiarios de una división
catastral desde la adsignatio13.
La arqueología todavía no ha aclarado el proceso concreto que, en cada territorio, lleva al nuevo modelo de poblamiento con base en la civitas, ya que sus
resultados solo se observan desde la comparación entre la realidad de los ss. II
y I a.C. La nueva situación implica el mantenimiento de cerca del 25% de antiguos centros rurales, mientras el 75% de nuevos asentamientos resultan de la
reevaluación de la capacidad de explotación del medio, de la posición de las vías
de comunicación y de la evaluación del valor estratégico y geoeconómico de los
territorios14. La redistribución de la propiedad y la adaptación de las ciudades
Salinas 1995, 78-79.
Jimeno 2011, 264.
11
Salinas 1995, 42; Pina 1997.
12
App. Iber. 100.
13
Pena 1998.
14
Jimeno - Arlegui 1995; Heras 2000; Alfaro 2005; Martínez Caballero 9
10
460
modelos de urbanización en época republicana en la celtiberia
a la gestión de territorios más amplios llevan a una revalorización de las prioridades de explotación de los recursos y la redimensión de las capacidades locales para enfrentarse a su propio desarrollo. Si las ciudades seleccionadas como
caput urbis de civitates se establecen como focos de gravitación demográfica y
socioeconómica, los espacios intermedios del territorio se ven jalonados por
aldeas vinculadas a la explotación de los recursos y el control de los corredores de comunicación, al tiempo que los más alejados tienden a ser desocupados,
generando espacios vacíos de población (terra deserta).
El punto de partida en la Celtiberia noroccidental se inicia en Arecoratas,
ciudad prerromana ubicada en Muro de Ágreda (Soria), donde se desarrollará la ciudad republicana e imperial pelendona (como Augustobriga)15. Antes de
la anexión emite numerario en plata (areikorataz), en el segundo cuarto del s.
II a.C.16, dato que indica que esta comunidad posiblemente se integrara en los
pactos de Graco de 179 a.C., que habría permitido conservar cierta autonomía.
Es probable que la campaña de M. Claudius Marcellus (cos. 152 a.C.) concluyera
con su sometimiento con plena dimensión territorial, decidiendo la creación de
la civitas dediticia, en la que se mantiene la ceca (arekorataz), con emisiones en
plata, para atender la tributación y abastecer al ejército romano17.
La anexión de las ciudades de adscripción étnica dudosa18 (¿arévacas?) del
alto Henares se produce entre 188 y 179 a.C. La Dehesa de Oliva (Patones de
Arriba, Madrid, ¿la Pirascon del Ravenn. 312, 19?)19, oppidum carpetano o celtibérico, mantendrá su posición en altura, por ser puerta de acceso a la Meseta Norte, y centro de la explotación minera de oro, estaño y cobre del Sistema Central. Segontia del Henares también mantiene su posición en el cerro de
Villavieja (Sigüenza, Guadalajara), ofreciéndose como civitas pujante ligada a la
Mangas 2005; Jimeno 2011, 264; López Ambite 2012; Martínez Caballero - López
Ambite - Gallego e.p.
15
Ptol. II 6, 53. Se ha incidido en la localización de Arecoratas en Muro de Ágreda por el
texto de una nueva tésera celtibérica ( Jimeno et alii 2010). Se había propuesto que la ciudad
habría surgido del traslado del oppidum indígena, no conocido, o desde un campamento romano (Arellano et alii 2002).
16
García-Bellido - BlázQuez 2001.
17
No es descartable que después de la conquista se creara un distrito minero, donde se
habían presentado los primeros itálicos vinculados a societates de explotación minera.
18
Ruiz Zapatero - Lorrio 2005; Burillo 2007, 240-242.
19
Sobre esta identificación: Martínez Caballero 2008 y Martínez Caballero
2010a. Sobre La Dehesa de la Oliva: Blasco BosQued et alii, 1995; Montero et alii 2007.
461
juan santos yanguas - santiago martínez caballero
explotación de las minas de sal del valle del río Salado. Desconocemos la posición concreta de la Caesada prerromana, en el alto Henares. Se propone Los
Morales ( Jadraque, Guadalajara), pero se desconoce cuándo procede a su transductio a Santas Gracias (Espinosa de Henares)20. Basa su riqueza en la gestión de
los pastizales de piedemonte y en la explotación de las minas de oro. La escasa
documentación sobre estas explotaciones impide determinar si Roma asume la
explotación directa de los recursos mineros de estas civitates (lo más probable).
La anulación de Segeda en 152 a.C. posiblemente derivara en la anexión
de las ciudades de Arcobriga y Cortona en el alto Jalón, para conectar el eje de
comunicación alto Jarama-alto Henares y sistematizar la conexión entre el Tajo
y el Ebro. Cortona habría estado ubicada en el cerro de Villavieja (Medinaceli,
Soria), sufriendo transductio al lugar de la Medinaceli alta (Villanueva)21. Pero
no está claro; no se excluye que en Villanueva se colocara ya la ciudad prerromana, sirviendo para desarrollar la cabeza de la civitas republicana. Se ha expresado un origen antiguo de Arcobriga en Cerro Villar (Monreal de Ariza, Zaragoza), sitio de la ciudad imperial, si bien se propuso que este emplazamiento
resultó de la transductio, en un momento por concretar, de un oppidum aún por
identificar22.
La demostración de fuerza en el área vaccea del cónsul L. Licinius Lucullus en
151 a.C. pudo conllevar la deditio de comunidades arévacas occidentales colocadas entre el Sistema Central y Cauca (Cauca, Segovia). Su hipotética deditio,
sin dimensión territorial, puede explicar la actitud no beligerante de la ciudad de
Segovia ante el ataque de tropas de Viriato en 146-145 a.C.23.
Consumado el final del Bellum Numantinum (143-133 a.C.), se hizo efectiva la conquista del alto Duero central y oriental. La presencia de la comisión
senatorial con Escipión24 indica que es en este momento cuando se debe poner
en marcha gran parte de la política de urbanización en esta zona. Las acciones de
urbanización son competencia del gobierno romano, por lo que es lógico pensar
que fue la comisión la que activó los profundos cambios que reconoce la arqueología entre el último tercio del s. II a.C. e inicios del s. I a.C. El problema es que
las nuevas fundaciones urbanas en el área son conocidas solo por prospecciones
Valiente 2001.
Caballero 2003.
22
Beltrán 1997.
23
Martínez Caballero 2010a.
24
App. Iber. 99.
20
21
462
modelos de urbanización en época republicana en la celtiberia
arqueológicas. Podemos encontrarnos ante el problema de Arecoratas, donde las
ocupaciones más modernas ocultan fases iniciales de desarrollo.
En el alto valle del río Alhama se mantiene el oppidum arévaco o pelendón
de Contrebia Leukada (Cervera del Río Alhama, La Rioja), convertido en cabeza de la civitas dediticia25. Al oeste, encontramos los oppida pelendones de Los
Casares (San Pedro Manrique) y El Castillo (La Laguna), en Soria. La anexión
de esta área montana debió acometerse antes que la de Numantia, por lógica
estratégica. Tras la conquista, Los Casares mantendrá su función urbana en el
alto Linares, mientras que, según se ha planteado26, El Castillo solo hasta época
postsertoriana, cuando es trasladada a Las Gimenas (Villar del Río). Pero,
por las razones arriba esgrimidas, se podría pensar que ya en 133-132 a.C. se
pudo asistir a esta transductio. Por su cercanía y la comparación con el modelo
de poblamiento de su entorno (donde las ciudades presentan mayor distancia
y gestionan amplios territorios), podemos pensar que Los Casares y El Castillo/Las Gimenas se integraron en una misma civitas poliurbana, desde 133-132
a.C. o desde 72 a.C.27. Por situarse en un espacio más abierto (facilitando su
funcionamiento como centro administrativo), Los Casares pudo constituirse
como la caput urbis, mientras que Las Gimenas se estructuró como vicus adscrito, mediante contributio. Considerando el texto de Ptolomeo28 sobre las póleis
pelendonas, sólo quedarían por identificar Savia y Visontium en las dos ciudades
que en época imperial romana ocupan el territorio extendido entre Augustobriga y Nova Augusta, es decir, Los Casares-Las Gimenas y Ntra. Sra. de las Vegas
(Huerta de Abajo, Burgos), surgida de la transductio del oppidum de Cerro Cividade (Canales de la Sierra, La Rioja)29. Como no podemos concretar la posición
relativa de las civitates desde las coordenadas de Ptolomeo, los oppida de Cerro
Cividade y Los Casares deben identificarse con la Savia o Visontium prerromana, sin poder por el momento concretar qué topónimo corresponde a cada una.
Escipión y la comisión senatorial procedieron a la conversión del territorio
de Numantia en ager publicus. Apiano30 habla del reparto de tal territorio entre
Hernández Vera 2005.
Alfaro 2005.
27
Martínez Caballero 2010c.
28
Ptol. II 6, 53.
29
Espinosa 1992.
30
App. Iber. 99.
25
26
463
juan santos yanguas - santiago martínez caballero
aliados indígenas, labor de adsignatio en calidad de possessio31. Es posible que se
otorgara puntualmente también la propiedad (optimo iure) a indígenas satisfechos con concesiones de ciudadanía viritanas, o a los primeros elementos itálicos. Pero pronto Roma optó por revalorizar la estratégica posición para establecer
el núcleo gestor de la civitas de frontera. Numantia se refunda desde una conditio
ex novo de Numantia, aunque las actuales investigaciones no han podido precisar
el momento preciso; entre 133 y el s. I a.C. la actuación trae consigo la directa
superposición de la ciudad romana a la prerromana32. La aristocracia indígena
renovada encauza el desarrollo de la ciudad en el marco de una civitas peregrina, cuya consolidación pasaba por recolocar la beligerancia numantina solo en la
memoria colectiva, en beneficio de la reestructuración del territorio y la promoción de las nuevas élites.
Al sur-sureste de Numantia encontramos la nueva fundación de época tardo
republicana de La Gotera (Villaseca de Arciel), en las ricas tierras cerealísticas del
Campo de Gómara33. Su origen puede ser de época postsertoriana, aunque no
descartamos que fuera fruto de la comisión de 133-132 a.C.34.
En el alto Duero central se detecta entre el último tercio del s. II y el s. I a.C.
el abandono de varios oppida y la estructuración de dos civitates. Se puede plantear la hipótesis de retrotraer estas reestructuración territorial a 133-132 a.C.,
toda vez que algunos asentamientos importantes del área están ya abandonados
a fines del s. II a.C. La ciudad de Las Quintanas-Royo Albar (Quintana Redonda) parece surgir de la transductio y sinecismo (forzado) de los oppida de Castilterreño (Izana), Altillo de las Viñas (Ventosa de Fuentepinilla) y Los Castejones
(Calatañazor)35. Este último se corresponde con la Voluce prelatina. La nueva
civitas de Quintana Redonda, debió tomar este nombre, Voluce36. La ciudad de
Salinas 1995; Pena 1998.
Jimeno - Tabernero 1996; Jimeno 2011. La refundación de Numantia reelabora a
escala urbanística, por su solvencia, la planificación de ascendencia helenística que la propia
ciudad celtibérica había asumido, a través del influjo ibérico. Por ello superpone un tejido urbano regular y racional que reinterpreta el arrasado por Escipión, aunque introduciendo nuevas
planificaciones en áreas de expansión más allá de las murallas del s. II a.C.
33
Jimeno - Arlegui 1995; Jimeno 2011, 271.
34
Podría relacionarse con la Lutia arévaca republicana (¿la Lutia de App. Iber. 57 se sitúa
debajo de la ciudad romana?), pero no está a 300 estadios de Numantia (distancia entre ambas,
según Apiano).
35
Sobre estos centros, Pascual 1991.
36
Ptol. II 6, 55; Veluca, Itin. Ant. 442, 1. El Itinerario de Antonino habría marcado el punto
31
32
464
modelos de urbanización en época republicana en la celtiberia
Los Valladares-El Vadillo (Villalba-Soria) surge de la transductio del oppidum
de San Cristóbal (Soliedra-Escobosa), en el territorio cerealístico de Almazán.
Se asocia con la incorporación del territorio del oppidum de Ciadueña (Soria)37.
Por exclusión, la ciudad de Villalba podría corresponder a la Tucris arévaca de
Ptolomeo (II 6, 55).
Escipión debió atravesar el territorio de Vxama (Osma, Soria) en 134 a.C.,
aunque no está claro si ya entonces fue anexionada38. Quizás conservara cierta
autonomía hasta la guerra de Didio. Al Norte, el pequeño oppidum pelendón de
Alto del Arenal (San Leonardo de Yagüe, Soria)39, quizás fuera ya desocupado
en este momento, aunque pudo acontecer solo tras 98-94 a.C.
Tras 133 a.C. se procede a la apertura de las cecas arévacas fronterizas de sekobirikez (Segobriga del Duero), usamuz y arkailikos (sucesivas, Vxama Argaela),
sekotiaz lacaz (Segontia Lanca) y tarmeskom (Tarmes/Termes). Roma concentra
las emisiones de bronce en ciudades aliadas, cuya posición alineada, de Norte a
Sur, en los corredores de comunicación entre el alto y medio Duero, permitían
el acceso al área vaccea, dejando en sus manos la gestión de estos intercambios,
que Roma no puede todavía gestionar con solvencia de forma directa40. Todas
ellas debieron sellar deditio, sin anexión, entre 139 y 133 a.C.
Reabierto el conflicto con los celtíberos occidentales en 104 a.C., tras un
periodo de contención controlada por tropas pretorianas, hasta 99 a.C., y puesta en marcha la ofensiva del cónsul T. Didius en 98 a.C.41, una nueva comisión
senatorial llega a Hispania en 95 a.C.42, con el fin de proceder a la reordenación
del territorio conquistado por Didio en la Citerior y C. Licinius Crassus (cos.
95 a.C.) en la Ulterior. La desaparición de las cecas arévacas será un hecho, al
anularse su carácter fronterizo, establecido ahora en el Duero medio.
de la vía entre Numantia y Vxama, desde donde derivaba un ramal para dar acceso a la ciudad
de Voluce-Quintana Redonda, la recordada por Ptolomeo (II 6, 55), coincidiendo con el punto
de localización del antiguo centro epónimo de la civitas.
37
Tabernero - Benito - Banz e.p.
38
García Merino 199 y García Merino 2005.
39
Bachiller 1997.
40
Martínez Caballero 2011.
41
App. Iber. 99. Martínez Caballero 2010a y Martínez Caballero 2011, siguiendo a Roldán, Burillo, Pina, etc., y desde la crítica a FHA IV y autores sucesivos, para quienes sólo
sería una rebelión (tumultus) en territorio conquistado.
42
App. Iber. 99; Pina 1997.
465
juan santos yanguas - santiago martínez caballero
Quizás ahora Vxama, anexionada, absorbiera el territorio del oppidum de
Gormaz43. La ciudad se beneficiará de la ampliación del circuito comercial del
Duero. Termes parece ser conquistada sin oppugnatio44. Se convierte en caput
urbis de una civitas de fuerte componente económica ganadera, que incorpora
el territorio del oppidum de Ayllón (Segovia), en el alto Riaza, lo que permite
sumar la gestión de los filones metalogenéticos de la Sierra de Ayllón y ampliar
el control del tráfico de la sal entre el valle del río Salado al Duero. Y procede
al traslado de su población «de lo alto al llano», por orden de Didio en 98/97
a.C.45, pero el cerro del oppidum es pronto reocupado (durante el conflicto
sertoriano, sin duda)46.
Segovia mantiene su posición en la confluencia del Eresma y el Clamores para
estructurar la civitas en el rico espacio cerealístico y de pastos y bosques del alto
Eresma-alto Guadarrama. Amplía su territorio hacia el Norte, donde el oppidum
de El Tormejón (Armuña, Segovia) desaparece como centro urbano, y hacia el
Este, en el alto Pirón, tras el desalojo del oppidum La Sota–El Castrejón (Torreiglesias, Segovia)47. Es muy probable la creación en Los Almadenes (Otero de
Herreros, Segovia) ya desde los años 90 a.C. de un distrito minero (metalla),
para la explotación de las minas de cobre de Guadarrama.
Al Norte del Duero, Clunia (Alto del Cuerno-Los Castrillos), Segobriga (Cerro de San Pedro, Pinilla Trasmonte) y quizás Peñalara (Mambrilla de
Lara), en Burgos, también mantienen entre 92 y 72 a C. su posición. Aunque
la transductio de Peñalara a Lara de los Infantes, si no es postsertoriana, pudo
acontecer también por decisión de la comisión en 95-94 a.C. Segobriga48, en un
territorio de tránsito hacia el Noroeste, se convierte en un nudo interesante de
intercambios con los vacceos, incorporando quizás el territorio del oppidum de
¿La Borvodurum de la tessera de Vxama? (García Merino - Untermann 1999); ¿la
Mutudureus de las guerras sertorianas (Sall. hist. II, 93)?
44
App. Iber. 99.
45
App. Iber. 99.
46
Martínez Caballero - Mangas 2005; Martínez Caballero 2008. En el primer
cuarto del s. I a.C. se detecta la ocupación del Conjunto Rupestre, en el llano (Argente Díaz 1995), al tiempo que sigue en uso la necrópolis de Carratiermes (Argente et alii 2000).
El crecimiento del Barrio del Foro deriva en un esquema planimétrico irregular en el s. I a.C.
(Martínez Caballero - Mangas 2005), fruto de la adaptación del esquema prerromano.
Este barrio republicano se replanificará en época augustea.
47
Martínez Caballero et alii e.p.
48
García-Bellido 1994.
43
466
modelos de urbanización en época republicana en la celtiberia
Solarana. Clunia49 y Peñalara50 suman sus experiencias para reelaborar su estructura económica en el nuevo marco de la civitas. Peñalara amplía sus expectativas quizás ya en este momento, con la agregación o anulación de los oppida de
Castrovido y Hortezuelos (Burgos). La Belgeda de Apiano51 podría ubicarse en
este confín arévaco (¿en Peñalara?).
Entre las nuevas fundaciones encontramos, junto al Duero, la derivada de la
transductio de Segontia Lanca (Castro de Valdanzo), a la nueva fundación en
alto de Las Quintanas-La Cuesta del Moro (Segontia Lanca II)52, para apoyar
el control de las comunicaciones y explotación del corredor53. Según señala la
arqueología, su fundación puede remontarse a una decisión puntual durante el conflicto abierto en 104 a.C., o en el periodo entreguerras 133-104 a.C.,
tras anexionarse por la vía diplomática por motivos estratégicos. El importante
componente militar documentado en Segontia Lanca II concuerda con la creación de una ciudad fronteriza, luego inserta en el conflicto sertoriano, ocupada
con contingentes militares mixtos54. La desaparición del cercano oppidum de La
Vid (Burgos)55, en el s. I a.C., ha de relacionarse con su agregación a Segontia
Lanca.
El oppidum de Sepúlveda (Segovia), quizás la Colenda sitiada por Didio56,
se desaloja y su población es trasladada a la Los Mercados, de cuya topografía
y posición en nudo de comunicaciones puede tomar su nombre, Confloenta/
Confluenta57. Duratón se dispone sobre un entramado urbano regular, con
esquema ortogonal, propio de una fundación ex novo58. Su fundación decide
Sacristán 2005.
Abásolo - García Rozas 1980; Abásolo 2007.
51
App. Iber. 100.
52
Sobre este yacimiento: Taracena 1929 y Taracena 1941; Tabernero - Benito Sanz 2005.
53
Martínez Caballero 2010c.
54
Tabernero - Benito - Sanz 2005; Jimeno 2011, 265-266.
55
Sacristán et alii 1995.
56
Hemos propuesto ubicar Colenda en el alto Duero, por lo que sería lógico pensar en
Sepúlveda (dada su inaccesibilidad); o bien en el alto Adaja, en el oppidum de Ulaca (Martínez
Caballero 2011).
57
Ptol. II 6, 55.
58
Sobre Confluentia: Martínez Caballero 2008, Martínez Caballero 2010a,
Martínez Caballero 2010b y Martínez Caballero - Mangas e.p. Sobre Sepúlveda prerromana: Blanco 1998 y Blanco 2006; Barrio 1999; Martínez Caballero
49
50
467
juan santos yanguas - santiago martínez caballero
el abandono de los oppida de Carabias, Morros de San Juan (Sebúlcor) y Los
Sampedros (San Miguel de Bernuy). Duratón se funda en plena campiña, en
punto geoestratégico de amplísima potencialidad comercial (primera estación
duriense tras superar Somosierra desde la Meseta Sur), nudo de comunicaciones
y de vías pecuarias y de la sal. Suma amplísimos espacios de pastizales y forestales
de la Serrezuela y de Somosierra.
Las dificultades para ofrecer cauces de desarrollo en las ciudades arévacas
más occidentales y en las pelendonas (los cerindones de Livius59), invitaron a
los cuadros oligárquicos de las ciudades más occidentales a sumarse al programa de Sertorio, pues su insurrección coincide con esta deriva estructural60. Tras
el Bellum Sertorianum se procede a una reestructuración territorial, que, aparte de contener puntuales políticas punitivas, ha de resolver tal problemática.
Esta política de reurbanización se debe a Cn. Pompeyo Magno, quien asume
la competencia de los ejércitos en la Citerior en 77 a.C. Es posible que la profusión del nomen Pompeius en el alto Duero occidental61 esté indicando que las
aristocracias beligerantes debieron ser sustituidas en parte por componentes
indígenas beneficiados con concesiones de ciudadanía y por grupos itálicos, en
conexión con la actividad personal de Pompeyo de acrecentamiento de su clientela personal62.
Entre las ciudades rebeldes63, la desconocida Lutia desaparece como civitas.
- López Ambite - Gallego e.p. Si Sepúlveda fuera Colenda, la fundación de Confluentia
podría corresponderse incluso con la ciudad fundada por M. Mario en 100 a.C., para instalar
fuerzas aliadas celtibéricas que han luchado en Lusitania (App. Iber. 100). Tras la aniquilación
de la población en 95 a.C., el valor geoestratégico de Duratón habría decidido el reasentamiento de población en el solar de la ciudad de Confluenta. Si Colenda fuera Ulaca, la fundación de
M. Mario en 100 a.C. podría buscarse en la Avila primigenia.
59
Liv. frg. XCI.
60
En el alto Duero central esta problemática había dispuesto de mayor tiempo para resolverse, durante medio siglo, por lo que ciudades como Numantia (que no participa en el conflicto
sertoriano) y Arecoratas no se suman a la insurrección. El caso de la beligerancia de Contrebia
Leukade se asocia a componentes políticos de las élites del valle medio del Ebro.
61
Desde la epigrafía de Termes, Vxama, Clunia, Nova Augusta y alto Cidacos. Ver Amela
2008.
62
Amela 2002.
63
Las fuentes citan como ciudades prosertorianas: Contrebia Leukade (Liv. frg. XCI), Segovia (Liv. frg. XCI), Clunia (Liv. perioch. CXII; Sall. hist. II, 93; Exup. 8, 25; Flor. epit. II 10,
9), Vxama (Flor. epit. II 10, 9), Segontia (Lanca o del Henares, App. BC I 110; Plut. Sert. 21,
468
modelos de urbanización en época republicana en la celtiberia
Termes, Vxama, Segontia Lanca y Segovia mantienen sus papeles como civitates, con la renovación parcial del cuerpo oligárquico64. Segobriga del Duero se
desarticula y su territorio es adscrito a Clunia, trasladada probablemente ahora
a la posición de Alto del Castro (Coruña del Conde), también en alto, aunque
en meseta, que facilitará la aplicación de un urbanismo regular65. Quizás solo a
estos momentos debamos adscribir el traslado de Peñalara (¿Belgeda?) a Lara de
los Infantes, ciudad en llano que cambiará su nombre por el de Nova Augusta
en época augustea66. La participación de Contrebia Leukade y los cerindones/
pelendones en la insurrección se conecta con la hipótesis de que fue solo en esta
etapa cuando se procedió a los traslados de Cerro Cividade y El Castillo de la
Laguna. Finalmente se ha propuesto que ahora se desarticula Contrebia Leukade, cuyo territorio es integrado en las civitates del entorno.
Por el momento, no existen datos que indiquen la existencia de puntuales
actuaciones en la política de urbanización romana en el alto Duero en época
de César, como consecuencia de su enfrentamiento con Pompeyo Magno, a
pesar de la presencia de una importante clientela pompeyana, como sí sucede en
cambio en el valle medio.
1), Belgeda (Diod. Sic. XXXV 39; Oros. V 23, 11), Mutudureus (Sall. hist. II, 93), Me[---]
(Sall. hist. II, 93) y Segobriga del Duero (Strabo III 4, 13-14). A estas ciudades debemos sumar
Segontia Lanca ya que, junto con Clunia y Segobriga, emite numerario en plata para abastecer al
ejército sertoriano (cecas de kolounioku, sekotiaz lacaz y sekobirikez). ¿También lutiakos-Lutia,
aunque solo emite AE en bronce? Sobre estas cecas: García-Bellido - BlázQuez 2001;
Burillo 2007.
64
En Termes hemos comprobado (Martínez - Mangas 2005) la construcción de un
santuario fundacional, en los años 60 a.C., que ha de relacionarse con la refundación ritual de
la ciudad.
65
Sacristán 1993 y Sacristán 2005.
66
Siguiendo similares parámetros ideológicos que Arecoratas, luego Augustobriga.
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476
MARINA SILVESTRINI
Quale questura nel municipio di Brindisi?
A proposito di AEp 2006, 320-321
In Année Epigraphique 2006, nrr. 320-321, compaiono due nuove epigrafi brindisine di notevole interesse: la prima è iscritta su un cippo rettangolare
rinvenuto nel 2005, in situ, nel corso dello scavo di un settore della necropoli
di via Osanna. Si tratta di un terminus sepulcri, che era addossato sul lato di un
recinto funerario (angolo NO), rivolto verso la strada, la quale aveva un orientamento est-ovest, con pavimentazione costituita da detriti ceramici: il recinto
era situato ad un livello più basso di ben m 1,95 rispetto a quello stradale. Il
cippo, fratto in due parti ricomponibili, è attualmente conservato nei depositi
del Museo Nazionale Archeologico di Egnazia. Misure:102 x 45 x 8,5; lettere:
l. 1: 5; ll. 2-3: 4,5-4,3 (O: 2); l. 4: 3,4 (figg. 1-2). L’altra iscrizione, anch’essa un
terminus sepulcri, era incisa su un cippo collocato sul lato opposto del recinto
(angolo SO). Anche questo cippo si conserva nel Museo di Egnazia. Misure:
85,5 x 45,5 x 18; lettere: l. 1: 5,2; ll. 2-3: 4,5 (fig. 3). Autopsia: ottobre 2013.
Dobbiamo alla dottoressa Assunta Cocchiaro, funzionario della Soprintendenza Archeologica della Puglia, che ha diretto lo scavo, la pubblicazione
dei risultati preliminari dell’indagine archeologica. La Cocchiaro rileva che la
strada fu utilizzata per breve tempo, presto coperta da un deposito alluvionale;
questo determinò anche il diverso orientamento delle tombe, sicché solo 3 su 91
sono rivolte verso nord (cioè verso questa strada), le altre sono per lo più orientate verso sud, dove è presumibile un altro percorso viario. Questa nuova sistemazione avrebbe giustificato anche la collocazione, nell’angolo SO, del secondo
cippo terminale «di poco posteriore al precedente» (Cocchiaro). Nella relazio-
477
marina silvestrini
Fig. 1.
Fig. 3.
Fig. 2.
ne preliminare figura anche l’edizione delle due epigrafi nella forma seguente1:
Cocchiaro 2006, 337-347, in particolare 342-343, per le iscrizioni. - Ringrazio il dott.
Luigi la Rocca, Soprintendente archeologo della Puglia e la dott. Angela Cinquepalmi, Direttrice del Museo Archeologico di Egnazia, per la possibilità di studiare queste epigrafi. Le fotografie sono di Antonio Raimondo.
1
478
Quale Questura nel municipio di brindisi?
Locum public(um) /datum / C. Flavio Figulo q. / In fro(nte) p(edes) xx, in ag(ro)
p(edes) xx.
D(ecreto) d(ecurionum) p(ublice) d(atum). / In agr(o) ped(es) xx. / In fron(te)
ped(es) xx.
Entrambi i testi sono stati ripresi in AEp 2006, 320-321 (cf. 2009, 178).
Nella seconda iscrizione si rileva il nesso tra N e T nella parola front(e), omesso nelle edizioni precedenti.
La prima iscrizione attesta la concessione del locum sepulcri a C. Flavius (si
noti la forma neutra della parola locus); che per locum debba intendersi l’area
destinata alla tomba è reso esplicito dalle misure2, oltre che dal rinvenimento
del cippo in situ. Nella successiva registrazione di AEp la sigla q. della l. 3 viene
risolta in q(uaestori). Nel 2009 le due epigrafi sono state studiate da Cesare
Marangio3, con attenzione alla descrizione dei manufatti, alla loro collocazione
nell’area necropolare, alle misure del recinto funerario – un’area quadrata di
sei metri per lato, perfettamente corrispondente alla misura pedologica indicata
nelle epigrafi – e ai decreti decurionali (due diversi secondo l’A.), che avrebbero
autorizzato la concessione del luogo; lo studioso propone su base archeologica
e paleografica una condivisibile datazione dell’epigrafe nr. 1 alla prima età augustea; inoltre prospetta un’edizione parzialmente diversa della seconda epigrafe
(infra n. 4).
Prima di affrontare il primo testo, che costituisce l’oggetto principale di
questo contributo, vorrei ribadire il consenso sostanziale alla lettura proposta
dalla Cocchiaro del testo nr. 2: mi pare persuasiva l’ipotesi che, dopo un certo
lasso di tempo, si sia voluto riaffermare, con questo secondo cippo, la concessione pubblica e dunque il carattere onorifico di quel locus sepulcri, di cui si ripetono le misure, verosimilmente a seguito del nuovo orientamento dell’area sepolcrale, a quanto sembra determinato da un fenomeno alluvionale, né si possono
escludere violazioni dell’area stessa. Il cippo è indubbiamente rotto nella parte
superiore per tutta la sua lunghezza, ma l’ipotesi che la parte perduta contenesse il nome del destinatario di una nuova concessione da parte dei decurioni
non convince4. Non si vede in base a quale procedura il locus sepulcri concesso a
Cf. per es. Crea 2004, 338. Sull’oscillazione tra maschile e neutro della parola locus, cf.
DizEp., IV, 1964, s.v., 1461; ThLL, VII, 2, s.v., 1575, l. 73.
3
Marangio 2009, 228-234.
4
Così Marangio 2009, 232, che propone la seguente edizione: [------] / D(ecurionum)
2
479
marina silvestrini
C. Flavius, a quanto sembra senza limitazioni, e, nei limiti della sepoltura, divenuto res religiosa, potesse essere tornato nella disponibilità dei decurioni per una
nuova concessione, peraltro relativa alla medesima area5. Si può piuttosto pensare che nella riga presumibilmente perduta fosse ripetuto il nome del destinatario
della datio, vale a dire C. Flavius, e verosimilmente la parola locus abbreviata in
qualche forma.
È anche importante delimitare la cronologia di questo secondo cippo in
rapporto al precedente: sotto tale profilo la paleografia sembra confermare l’indicazione della Cocchiaro già ricordata; particolarmente significativa appare la
O della l. 3 ancora quasi completamente rotonda6: per questa seconda epigrafe si
può proporre una datazione posteriore al massimo di qualche decennio rispetto
all’epigrafe nr. 1, inquadrata nella prima età augustea.
Nel primo testo C. Flavius Figulus viene considerato il nome del destinatario
della concessione, egli sarebbe un quaestor del municipio: si tratterebbe della
prima tappa del cursus municipale.
Il documento, secondo la lettura proposta, costituisce la prima attestazione della questura nel municipio di Brindisi7: il dato richiede attenzione, poiché
la ricca epigrafia brindisina preserva una serie di cursus municipali in iscrizioni
funerarie, databili tra il I secolo a.C. e II d.C., che non registrano la questura8. È
utile richiamare questi testi: CIL, IX 449: C. Antonius M. f. / Maec. Achaicus /
IIIIvir aed. pot., IIIIvir / iur. dicund., / IIIIvir / quinq. censor. potes. / etc. (prima
metà I sec. d.C.); CIL, IX 4510: Ti. Aulius Aper / IIIIvir aed. p., IIII vir / iur.
d., etc. (I sec. d.C.); CIL, IX 4611: Ti. Aulio Ti. f. / Mai. Marino / IIIIvir. aedil.
potes., / IIIIvir. iuris dicun., / etc. (I sec. d.C.); CIL, IX 47 + 18712: L. Cassius
L. f., L. nep., L. / pron., Mae. Flavianus IIII vir / aed. p., i. d., etc. (II sec. d.C. ?);
d(ecreto) p(ublice) d(atus) l(ocus). / In agr(o) ped(es) XX, / in fron(te) ped(es) XX. (La L. di
l(ocus) appare piuttosto una traccia involontaria sulla pietra, vd. fig. 3). L’A. data l’epigrafe agli
inizi del II d.C., vd. infra.
5
Cf. De Visscher 1963, 52-55; più di recente Lazzarini 2005, 47-50.
6
Cf. a titolo orientativo Gordon 1958 (con le tavole corrispondenti), nrr. 40, 44, 49, 50.
7
L’osservazione è già in Marangio 2009, 231.
8
Sulla questura cf. Langhammer 1973, 157-161, con precedente bibliografia.
9
Cf. EDR100086 (B. De Nicolò), per ulteriore bibliografia.
10
Cf. EDR100075 (B. De Nicolò).
11
Cf. EDR100087 (B. De Nicolò).
12
Per questo decreto, de honoranda morte, e per la sua tradizione, cf. Silvestrini 2003,
191-195.
480
Quale Questura nel municipio di brindisi?
CIL, I2 317313: C. Falerio C. f. Nigro IIII[vir.] / aed. [p]otestat., IIIIvir. i. d.,
auguri, IIII vi[r.] / quinq., etc. (50-30 a.C).
È ben noto che la questura, quando viene ricordata nelle carriere locali, è
collocata irregolarmente: Mommsen spiegava il fenomeno con la circostanza
che talvolta era considerata pro honore, talaltra pro munere14, evidentemente sulla
base del passo del liber singularis de muneribus civilibus di Aurelio Arcadio Carisio, dove si legge15: et quaestura in aliqua civitate inter honores non habetur sed
personale munus est. Tuttavia è stato giustamente osservato che questa disciplina
«si sviluppa nel corso del II secolo d.C., in stretto intreccio con i mutamenti nella pratica delle amministrazioni locali, e si consolida in età severiana»16;
dunque appare improprio applicarla senz’altro alle irregolari carriere dei magistrati municipali, in particolare nel primo principato. Nello stesso tempo, qualora la questura venisse considerata un semplice munus, risulta singolare - è stato
rilevato - la sua menzione nelle carriere di municipi e colonie. Ovviamente è da
escludere che venisse considerata un munus quando è citata nei fasti magistratuali, come a Venusia17.
Questo il quadro della documentazione nella seconda regione augustea: la
questura è attestata nei municipi di Lupiae18, Canusium (anche nella fase della
Queste le precedenti, principali edizioni dell’importante documento: Degrassi 1959
(AEp 1959, 272); ILLRP 558; l’epigrafe è riprodotta in ILLRP, Imagines 230; cf. anche Silvestrini 2003, 196-199, e per la probabile riproduzione del decreto in un contesto funerario:
Silvestrini 2003a, 56-57.
14
Cf. CIL, IX, pp. 45 (Venusia), 69 (Larinum), 88 (Compsa), 137 (Beneventum), 205 (Telesia), 245 (Aesernia): questi luoghi sono per lo più già richiamati in Grelle 1980, 331 n. 18 =
Id. 1993, 112 n.18.
15
Dig. 50.4.18.2. In generale sui munera civilia Grelle 1999, in particolare 150.
16
Grelle 1980, 331 = Id. 1993, 113.
17
CIL, IX 422: sulla questura nei Fasti venosini cf. Grelle 1980, 331-332 = Id. 1993, 113;
anche utile Folcando 1999, 65-66, che tuttavia considera la questura senz’altro un munus.
18
CIL, IX 25 e p. 652 = Susini 1962, nr. 88 (AEp 1983, 277) = Petraccia Lucernoni
1988, 106, nr. 146.
13
481
marina silvestrini
colonia antonina)19, Herdonia20, Aquilonia21, Compsa22, Aeclanum (anche nella
fase della colonia adrianea)23, dei Ligures Baebiani24, di Larinum25, nelle colonie triumvirali di Venusia26 e Beneventum, che accolse anche un cospicuo stanziamento di veterani congedati da Augusto27 (ivi anche nella precedente fase
Municipio: CIL, IX 415 = ERCanosa, I 40 (I d.C.); CIL, IX 341 = ERCanosa, I 48 (cf.
ERCanosa, II p. 222); colonia: CIL, IX 338 = ERCanosa, I 35.
20
CIL, IX 690 = AEp 1967, 98 = Silvestrini 1999, B11, cf. EDR074697 (S. Evangelisti) (150-220 d.C.); AEp 1982, 212 = AEp 1988, 357 = AEp 1989, 190, cf. EDR078525 (F.
Lorusso) (201-222 d.C.).
21
CIL, IX 6260 = I2 1715 (p. 1029) = ILLRP 543.
22
CIL, IX 668 e p. 665 = ILS 6482 = Petraccia Lucernoni 1988, 121-122, nr. 167
(seconda metà I-II d.C.); CIL, IX 975, 977 (I-II d.C.) riprese da Petraccia Lucernoni
1988, 120-121, rispettivamente nrr. 165, 166; CIL, IX 981 = Petraccia Lucernoni 1988,
120, nr. 164 = Buonocore 1992, 84, nr. 54 (seconda metà del II d.C.).
23
CIL, IX 1132 = Petraccia Lucernoni 1988, 123, nr. 170 = Evangelisti 2002-03,
nr. 56 (primi decenni del II d.C.); CIL, IX 1133 = Petraccia Lucernoni 1988, 122-123,
nr. 169 = Evangelisti 2002-03, nr. 58 (primi decenni del I d.C.); CIL, IX 1139 e p. 669 =
Petraccia Lucernoni 1988, 122, nr. 168 = Evangelisti 2002-03, nr. 69 (prima metà I
d.C.); CIL, IX 1156 = ILS 5878 = Petraccia Lucernoni 1988, 125, nr. 174 = Buonocore 1992, 57, nr. 33 = Evangelisti 2002-03, nr. 92 (138-161 d.C.); CIL, IX 1160 e p. 695
= ILS 6485 = Petraccia Lucernoni 1988, 124-125, nr. 173 = Evangelisti 2002-03,
nr. 100 (138-161 d.C.); CIL, IX 1167 = Petraccia Lucernoni 1988, 125-126, nr. 175 =
Evangelisti 2002-03, nr. 105 (decenni centrali del II d.C.); CIL, IX 1168 = Petraccia
Lucernoni 1988, p. 126, nr. 176 = Evangelisti 2002-03, nr. 106 (II d.C., età della colonia); CIL, IX 1414= Petraccia Lucernoni 1988, 123-124, nr. 171 = Evangelisti 200203, nr. 91 (età adrianea); CIL, IX 1415 = Petraccia Lucernoni 1988, p. 124, nr. 172 =
Evangelisti 2002-03, nr. 91 (seconda metà II d.C.).
24
CIL, IX 1465 (II d.C.).
25
CIL, IX 737 (I-II d.C.) = Petraccia Lucernoni 1988, 118-119, nr. 161; AEp 1997, 335
(I d.C.).
26
CIL, IX 422, cf. SupplIt 20, p. 52, per le ulteriori edizioni dei Fasti; in proposito vd.
anche supra n. 17; inoltre CIL, IX 456 e 458, cf. SupplIt 20, p. 64; CIL, IX 441, cf. SupplIt 20,
p. 60 (I-II d.C.); SupplIt 20, nr. 12 = AEp 2003, 366, cf. EDR026012 (60-100 d.C.) e SupplIt
20, nr. 21 = AEp 2003, 372 (II d.C.); su CIL, IX 447, dove appare preferibile la soluzione
q(uinquennalis) cf. SupplIt 20, p. 62.
27
CIL, IX 1419 = ILS 6489 = Petraccia Lucernoni 1988, 129, nr. 182 (età adrianea);
CIL, IX 1614 = EDR102388 (A. De Carlo) (21-50 d.C.); CIL, IX 1619 = ERCanosa, I,
App. I, 6, pp. 263-265 (età adrianea); CIL, IX 1657=EDR103531 (G. Camodeca) (101200 d.C.); AEp 1925, 115 = AEp 1981, 239, cf. EDR078368 (G. Camodeca ) (201-260
19
482
Quale Questura nel municipio di brindisi?
municipale)28, e a Luceria29, colonia augustea. Si può intanto osservare che è
documentata nei centri di ampiezza maggiore (Canusium, Venusia, Luceria,
Beneventum, Aeclanum) – indicatore significativo della loro estensione, tra
gli altri, la consistenza del patrimonio epigrafico – nei quali la presenza della
questura rispondeva alla necessaria, maggiore articolazione delle funzioni di
governo; ma da notare che è attestata anche in centri minori, quali Aquilonia e il
municipio dei Ligures Baebiani. Né appare significativa, come era da attendersi,
la condizione istituzionale del centro, municipio o colonia. Dal punto di vista
geografico, se non si tratta di una distorsione della documentazione, appare ben
più comune nella parte settentrionale della regio (Irpinia e Apulia settentrionale
fino a Canosa), nel settore meridionale l’unica presenza è Lupiae.
Circa la collocazione della questura nei cursus registriamo le seguenti possibilità nella ‘regione’30:
1. dopo l’edilità e prima della magistratura giusdicente: Lupiae (supra n. 18),
Herdonia (CIL, IX, 69, supra n. 20), Luceria (AEp 2004, 434, supra n. 29),
Beneventum (CIL, IX 1614, supra n. 27), Ligures Baebiani (supra n. 24).
2. dopo l’edilità, non essendo noto o non essendoci stato un successivo sviluppo del cursus: Canusium (ERCanosa, I 48, supra n. 19); Aeclanum (CIL, IX
1139;1168: q. pec. publicae; 1415: quaest. pecuniae alim., supra n. 23).
3. dopo l’edilità e la magistratura giusdicente, senza menzione della quinquennalità: Canusium (ERCanosa, I 40, supra n.19); Herdonia (AEp 1982, 212,
supra n. 20); Venusia (SupplIt 20, nr. 12; supra n. 26); Aeclanum (CIL, IX
1133; 1167, supra n. 23); Beneventum (CIL, IX 1419; 1657 e AEp 1968,
126, supra n. 27); Larinum (AEp 1997, 335, supra n. 25).
4. dopo l’edilità e la magistratura giusdicente, prima della quinquennalità:
d.C.); AEp 1968, 126 = AEp 2001, 859, cf. EDR074821 (G. Camodeca ) (20 a.C.-50 d.C.);
«NSA» 2008-09, 344-345, nr. 4 = EDR 129319 (G. Camodeca) (131-230 d.C.). Sullo stanziamento di veterani a Benevento tra l’età triumvirale e l’età augustea da ultimo Silvestrini
2008, 731-732, con precedente bibliografia.
28
CIL, IX 1635= I2 1729, cf. p. 1030 = ILLRP 555 = EDR102392 (G. Camodeca) (10050 a.C.). Vanno invece riferiti alla precedente colonia latina i 7 questori menzionati in CIL, IX
1636= I2 1731, cf. p. 1030 = ILLRP 554, cf. CIL, IX p. 136.
29
CIL, IX 804 = Buonocore 1992, 42, nr. 18, cf. EDR103808 (201-300 d.C.); AEp
2001, 878 = Chelotti 2004, 99-101, nr. 1: prima metà I d.C. (AEp 2004, 434); cf. anche
Silvestrini 2005, 24 n. 23.
30
Evidentemente sono utili solo le epigrafi - 35 - che presentano la questura all’interno di
una carriera.
483
marina silvestrini
Compsa (CIL, IX 975 e 977, supra n. 22); Larinum (CIL, IX 737, supra n.
25).
5. dopo l’edilità, la magistratura giusdicente e la quinquennalità: Venusia (CIL,
IX 441, supra n. 26); Compsa (CIL, IX 668 e 981, supra n. 22); Beneventum
(EDR129319, supra n. 27).
6. dopo la magistratura giusdicente: Beneventum (CIL, IX 1619, supra n. 27).
7. posizione iniziale: Canusium (ERCanosa, I 35: albo decurionale della colonia; supra n. 19); Luceria (CIL, IX, 804, supra n. 29; Aeclanum (CIL, IX
1132; 1156; 1160; 1414, supra n. 23); Beneventum (AEp 1925, 115, supra n.
27). Inoltre un caso da Benevento, fase del municipio che precedette la deduzione triumvirale: ILLRP 555, e un altro da Venusia (CIL, IX 456, supra n.
26) verosimilmente della prima età della colonia triunvirale.
Questo censimento mostra che il ricoprire la questura dopo l’edilità, ed
eventualmente cariche ulteriori, è di gran lunga la situazione più documentata:
interessa 26 questori su 35 casi utilizzabili per la nostra indagine (74%). Invece rivestire la questura come prima tappa del cursus, eventuale caso brindisino,
è fenomeno ben più raro (9 casi su 35) e attestato prevalentemente nel II-III
d.C., quando il cursus diviene stabile (7 casi su 9): dall’albo di Canosa del 221 –
modello che risale verosimilmente alla deduzione coloniale di Antonino Pio –,
a un’epigrafe lucerina databile al III sec., a quattro epigrafi eclanensi, tre di età
coloniale, quindi postadrianee, ed una di II sec., ancorché preadrianea. Anche
l’epigrafe beneventana di III sec., AEp 1925, 115, dove si legge … decur(ioni)
et q[ua]estor(i) …, lascia presumere che il personaggio avesse ricoperto la sola
questura.
A questi testi tardi si aggiungono un’epigrafe beneventana di età repubblicana (ILLRP 555), da riferire, come si è detto, alla fase municipale del centro
irpino, e la venosina CIL, IX 456, verosimilmente della prima fase della colonia
triumvirale (supra n. 26).
Consideriamo ora l’onomastica di C. Flavius: suscita perplessità la mancata indicazione di status per un magistrato locale, tanto più in questo orizzonte cronologico e in connessione con un cognome di sapore plebeo. Per quanto concerne l’indicazione di status il censimento sopra effettuato offre 33 testi
utilizzabili (esclusi i Fasti e le epigrafi con totale lacuna del nome): il patroni-
484
Quale Questura nel municipio di brindisi?
mico è presente o presumibile in 30 casi su 3331. È ben vero che nessuna delle
epigrafi considerate è un terminus sepulcri, tuttavia in proposito l’accurata indagine sui recinti funerari e la loro epigrafia disponibile negli Atti del Convegno
veneziano tenutosi nel 200332 offre interessanti elementi: in particolare l’analisi
di Gian Luca Gregori su un migliaio di iscrizioni urbane con misure dello spazio
funerario, databili tra l’età repubblicana e quella protoimperiale, mostra che la
condizione giuridica dei proprietari era generalmente espressa in questa tipologia di monumenti33. Un esempio interessante è il caso dei due cippi relativi alla
tomba di C. Caedicius C.f. Fal. Flacceianus, in uno dei due è ricordato il tribunato militare, che manca nell’altro, ma l’onomastica in ambedue è completa di
patronimico34. Nel caso brindisino, anche se fossero previsti più cippi collocati contemporaneamente o una lastra (oltre il cippo superstite di C. Flavius)35,
rimarrebbe la singolarità dell’omessa indicazione di status: evidentemente per
l’autore del testo epigrafico si trattava di un dato meno significativo rispetto alla
funzione successivamente indicata.
Veniamo alla parola figulus che è notoriamente un nome comune36, raramente utilizzato anche come cognome o nome unico: in questa eventualità rientra
nella categoria dei cognomina derivati da occupazioni, cognomi che per schiavi, liberti e gente comune, specialmente nella prima fase di uso del cognome,
vengono considerati connessi all’attività svolta37. Kajanto, oltre al caso degli
Di questi tre casi senza indicazione del patronimico due sono epigrafi beneventane di
cronologia tarda - AEp 1925, 115 = EDR078368 (G. Camodeca) [201-260 d.C.]; «NSA»
2008-09, 344 ss., nr. 4 = EDR 129319 (G. Camodeca) [131-230 d.C.], supra n. 27 - e il terzo
è un’epigrafe di carattere pubblico di Aquilonia, di età repubblicana (ILLRP 543, supra n. 21),
dove l’indicazione del patronimico era, a quanto sembra, superflua.
32
Cresci Marrone - Tirelli 2005.
33
Gregori 2005, 98, 101.
34
CIL, VI 3509 (cf. p. 3400): il caso è analizzato da Gregori 2005, 83 n. 55, ivi ulteriore
bibliografia sul monumento e sul personaggio.
35
Per quanto pertenga a tutt’altro contesto sociale può essere utile ricordare il corredo
epigrafico del noto sepolcro dei consoli del 43 a.C., Vibio Pansa e Aulo Irzio; abbiamo la lastra
seguente (CIL, VI 37077 e p. 4815 = ILS 8890 = ILLRP 421, cf. ILLRP, Imagines 176): Ex s.
c. / C. Vibio C. f. Pasae / Caetronian. cos., e tre cippi che delimitavano il sepolcro (ILLRP 419 =
CIL, VI 40899-40901), con il testo seguente: A. Hirtius / A.f.; cf. Gregori 2005, 99.
36
Cf. ThLL, VI, 1, s.v., 721-722.
37
Kajanto 1965, 83-84.
31
485
marina silvestrini
esponenti della nobilitas urbana, i Marcii Figuli e P. Nigidius Figulus38, registra
cinque casi in CIL, senza specificazione del loro status39. La consultazione dei
database epigrafici restituisce meno di dieci occorrenze (su più di un centinaio)
in cui Figulus è con certezza un nome proprio (a parte il caso dei consoli). In un
solo caso la condizione ingenua è documentata40, in un altro è presumibile41; in
due epigrafi pompeiane lo status delle persone con nome Figulus potrebbe essere servile42; rimane incerta in altri tre casi43. Si aggiungono poi due occorrenze
dubbie44.
Per C. Flavius Figulus, privo di indicazione di status, si potrebbe anche avanzare l’ipotesi della condizione libertina, la qual cosa per un quaestor municipale costituirebbe un ulteriore problema: infatti la partecipazione dei liberti alle
cariche pubbliche è nota soltanto in una serie di colonie cesariane e solo prima
della legge Visellia del 24 d.C.45.
Le perplessità fin qui accumulate suggeriscono di non escludere la possibilità di una pista diversa, vale a dire considerare il quaestor non come un magistrato municipale, ma come possibile quaestor di un’associazione di tipo collegiale: dunque non un C. Flavio Figulo q(uaestori), ma un eventuale C. Flavio
figulo(rum) q(uaestori).
I figuli compaiono notoriamente nell’elenco degli otto più antichi collegi
professionali romani, attribuiti a Numa, all’ottavo posto nell’elenco di Plutarco
La connessione tra il cognome di P. Nigidius e la rota figuli, tramandata dallo Schol.
Lucan., I, 639 e da Aug., civ., 5, 3, viene opportunamente respinta come artificiosa, cf. RE,
XVII, 1 (1936), s.v., 200.
39
Kajanto 1965, 322.
40
SupplIt 2, 179-180, nr. 18 da Teate Marrucinorum: [-D]usmius C. f. Figulu[s].
41
CIL, IX 2502: … [---] f. Figulo /[test]amento etc.
42
CIL, IV 3131: Figulus / amat Idaia e CIL, IV 3134: Figul.; in un caso e nell’altro la parola
è inserita nell’Indice dei Cognomina.
43
CIL, VI 37508: … [.] Munati P. [---] Figuli [---] etc.; CIL, VI 24230: L. Pii Fig(u)li (inserito nell’Indice dei Cognomina di CIL, VI); CIL, V 995 e p. 1025 = ILS 6687 = InscrAq 525:
… Vettia M. f. Figuli (uxor) etc.
44
In CIL, V 2127, cf. SupplIt 24, p. 151 = EDR097619 (Tarvisium): ------? / Figulus /
XXVIII / ------?, non è chiaro se si tratti di un nome comune o un nome proprio; in CIL, V
2139, cf. SupplIt 24, p. 156 = EDR097631 (Tarvisium): [T]iturio / [Fi]gulus, il nome è frutto
di integrazione.
45
Cf. orientativamente Rizakis 2001, 41-42.
38
486
Quale Questura nel municipio di brindisi?
(κεραμεῖς)46, al settimo secondo Plinio47. La pur severa legislazione di età cesariana e augustea, sulla scia di analoghi provvedimenti tardorepubblicani, limitò
il diritto di associazione lasciando in vita gli antichi collegia48. La produzione
di anfore brindisine, tra le più rilevanti del mondo romano, ben nota per un
lungo arco di tempo, dalla metà del II secolo a.C. all’avanzata età augustea49,
non consente di dubitare della possibile esistenza a Brindisi di un’associazione
collegiale di figuli, sebbene finora non attestata e sebbene la complessiva documentazione epigrafica di collegia figulorum sia estremamente ridotta50.
Per quanto concerne la presenza di questori all’interno delle strutture
collegiali, essa è ben nota: svolgevano le funzioni di tesorieri51; il repertorio di
Waltzing e le successive integrazioni mettono insieme un corpus di una sessantina
di epigrafi con menzione dei questori52, ancorché la cronologia di molti di questi
testi sia più tarda dell’epigrafe brindisina e generalmente diversa la loro struttura. Per la forma figulorum quaestor mi pare utile il confronto con una felice serie
di epigrafi di Allifae (sette in totale)53, dove è ricorrente l’espressione quaestor
Plut. Num. 17, 3.
Plin. nat. XXXIV, 159: Numa rex septimum collegium figulorum instituit.
48
Suet. Iul. 42, 3: Cuncta collegia praeter antiquitus constituta distraxit. Cf. in proposito De
Robertis 1971, 195-237 (lex Iulia); un rapido profilo in Royden 1988, 4-8. Sul senatoconsulto degli anni sessanta del I secolo a.C. che abolì i collegi «costituiti contro la Repubblica»
(Ascon., p. 7 Clark), il punto in Fraschetti 1990, 226-236.
49
È sufficiente richiamare in proposito due importanti volumi di recente pubblicazione:
Manacorda - Pallecchi 2012; Palazzo 2013.
50
Un unico caso è registrato da Waltzing 1895-1900, III, 583, nr. 2140; IV, 90, né risultano apporti successivi. Si tratta di un’epigrafe recuperata nella Germania inferior, a Ulpia
Noviomagus (oggi Nijmegen, in Olanda), CIL, XIII 8729: Vestae / sacum, / Iul(ius) Victo(r), /
mag(ister) fig(ulorum), / pro se. L’iscrizione è classificata tra quelle pertinenti ai collegi professionali anche nell’Indice XII di CIL, XIII p. 157 e da v. Petrikovits 1981, 97. Più di recente
è stata avanzata la possibilità, non trascurabile, che il magister figulorum di Noviomagus appartenga ai ranghi inferiori dell’esercito, in analogia con casi analoghi cf. DizEp, V, 1992, s.v., 242.
51
Cf. Waltzing 1895-1900, I, 413-415.
52
Cf. Waltzing 1895-1900, IV, 419-421; inoltre Mennella - Apicella 2000, da cui
ricavo: AEp 1987, 464 (a. 166 d.C.) da Laus Pompeia; AEp 1977, 267 (a. 97 d.C.) da Patavium;
AEp 1993, 595: quaes[tor] (?), da Urbs Salvia.
53
CIL, IX 2663 = ILS 6514 = EDR102122 (G. Camodeca) [40-70 d.C.]; CIL, IX 2664
= ILS 6515 = EDR130693 (G. Camodeca) [1- 100 d.C.]; CIL, IX 2665 = EDR130551 (G.
Camodeca) [41- 70 d.C.]; CIL, IX 2667 = EDR105361 (G. Camodeca) [30-70 d.C.]:
Augustalium quaestor; CIL, IX 2668 = EDR105353 (G. Camodeca) [20-70 d.C.]; CIL,
46
47
487
marina silvestrini
Augustalium, per lo più nella forma abbreviata: q(uaestor) Aug(ustalium) – in
un caso si registra anche Augustalium quaestor con il genitivo in prima posizione
e scritto per esteso; queste iscrizioni sono datate complessivamente nell’ambito
del I secolo d.C. ( cinque non oltre il 70).
Né la cesura della parola figulo(rum), piuttosto inconsueta, deve meravigliare:
osservava già Cagnat che le abbreviazioni alla fine di una sillaba, in altre parole
dopo la vocale, non sono affatto rare nel I secolo d.C.54: lo conferma nella stessa
epigrafe brindisina l’abbreviazione, peraltro ricorrente, della parola fro(nte). Si
potrebbe anche considerare un indizio della lettura proposta la O più piccola,
che è stata aggiunta, anche se non necessaria.
Secondo questa interpretazione C. Flavius non avrebbe cognome: una circostanza non rara in età augustea, tanto più per l’esponente di un ceto non elevato.
I Flavii sono presenti a Brindisi già nell’età della colonia latina, come documentato dalle sigle delle monete55; inoltre attestati nel municipio da altre cinque
epigrafi diverse, databili tra gli ultimi decenni del I a.C. e la metà del I d.C., due
delle quali contemporanee della nostra epigrafe56. In un caso si segnala il prenome Caius57.
L’ipotesi, figulo(rum) q(uaestor), elude le difficoltà della precedente lettura:
la maggiore delle quali, come si è detto, è il silenzio sulla questura nei non pochi
cursus brindisini superstiti (quattro su cinque non lontani cronologicamente
dall’epigrafe in questione) e se accolta arricchisce senza forzature la nostra conoscenza del contesto economico e sociale del municipio di Brindisi. L’onore reso
al questore dei figuli fa intravvedere l’esistenza di un rapporto, evidentemente di
natura finanziaria, intercorso positivamente, tra il collegio, per il tramite del suo
responsabile della cassa, e il municipio: che questo rapporto possa essere motivato dalla costruzione o dal ripristino di edifici pubblici è la prima ipotesi che
IX 2669 = EDR130657 (G. Camodeca) [1-100 d.C.]; per la settima epigrafe, dove compare l’espressione quaest(or) August(alium), funzione ricoperta dal liberto Naevoleius, rinvio a
Corazza 2011, 123-124: l’epigrafe è datata ad età giulio-claudia.
54
Cagnat 19144, 401 n. 2; cf. in età più tarda (101-200 d.C.) CIL, X 3910 = EDR005743
(L. Chioffi) (Casilinum?): … patro[n(o)] colleg(i) cento(nariorum) etc.
55
Cf. ora Silvestrini 2013, 129.
56
L’elenco delle iscrizioni in Silvestrini 2005, 141; si datano nei decenni a cavallo tra fine
I secolo a.C. e I d.C. CIL, IX 116 = EDR 017318 (B. De Nicolò) e «NSA» 1892, 242 c =
AEp 1978, 211 = EDR 077059 (B. De Nicolò).
57
«NSA» 1892, 352 i = AEp 1978, 152 = AEp 1980, 292 (decenni centrali del I d.C.)
488
Quale Questura nel municipio di brindisi?
prende forma, ma altre sono possibili. In ogni caso per un verso il collegio dei
figuli si configura come un attore non secondario della vita economica locale,
interlocutore del municipio, per l’altro, il testo, se interpretato correttamente,
apre una finestra sulle modalità delle transazioni economiche municipali.
489
marina silvestrini
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493
SIMONE SISANI
Due nuove iscrizioni su instrumentum dal distretto plestino
In occasione del terzo convegno del ciclo Instrumenta Inscripta Latina, tenutosi a Macerata nel 2009, ho avuto modo di presentare – nel quadro di un più
articolato intervento redatto a quattro mani con David Nonnis1 – un significativo gruppo di graffiti su ceramica a vernice nera provenienti dal centro umbro
di Plestia2, che sono andati ad arricchire ulteriormente l’ormai non esiguo corpus
di iscrizioni su instrumentum di età medio- e tardo-repubblicana restituito dal
comparto appenninico a cavallo tra Umbria propria, ager Gallicus e ager Picenus. Solo dopo la pubblicazione degli atti di tale incontro ho avuto accesso a due
nuovi documenti3, restituiti anch’essi dal territorio plestino e che non hanno
potuto trovare spazio in quella sede: mi piace presentarli ora, certo dell’interesse
che essi potranno suscitare, sia come testi, sia soprattutto per le considerazioni in tema di romanizzazione – questione particolarmente cara all’amico Gino
Bandelli – che da essi possono trarsi.
1) Il primo graffito (fig. 1) è inciso a crudo su un frammento di spalla di dolio
rinvenuto presso Colfiorito di Foligno, nell’area della città romana di Plestia:
[- - - ?]A TI
Nonnis - Sisani 2012.
Nonnis - Sisani 2012, 66-76, nrr. 55-66. Sul centro di Plestia, situato presso l’odierna
località di Colfiorito di Foligno (PG), si veda ora Perna et alii 2011.
3
Ringrazio Laura Bonomi, già funzionario di zona presso la Soprintendenza per i Beni
Archeologici dell’Umbria, per avermi segnalato questi documenti, suggerendomene la
pubblicazione.
1
2
495
simone sisani
Fig. 1. Graffito su dolio da Colfiorito di Foligno, area della
città romana di Plestia.
Il graffito (alt. lettere 3 cm), eventualmente mancante a sinistra e caratterizzato a livello paleografico dal tratto tendenzialmente risalente della <a> con
traversa obliqua disarticolata, non presenta problemi di lettura e restituisce con
tutta verosimiglianza una formula onomastica bimembre, con prenome e gentilizio separati da interpunto circolare: A. Ti(- - -) vel [S]a. Ti(- - -)4. La redazione
estremamente compendiata della formula richiama l’analogo graffito su dolio
C. Io(- - -) T. Vib(- - -)5, anch’esso inciso a crudo e proveniente dalla non lontana
località di Colbuccaro, verosimilmente ricadente in antico nell’ager di Pollentia/Urbs Salvia: un confronto che porta a chiedersi se anche nel testo in esame
non debba essere restituito, nella lacuna iniziale, un secondo nome. La paleografia del graffito non offre elementi per una datazione puntuale, da circoscrivere
genericamente nell’ambito del II sec. a.C.
Per le numerosissime possibilità di integrazione del gentilizio si veda Solin - Salomies
1994, 185-188.
5
CIL, I2 3598.
4
496
due nuove iscrizioni su instrvmentvm dal distretto plestino
Fig. 2. Graffito su coppetta a vernice nera da Annifo di Foligno.
2) Il secondo graffito (fig. 2) è inciso all’interno della vasca di una coppetta
a vernice nera specie Morel 2520 (probabilmente serie Morel 2525), rinvenuta
– forse in contesto di necropoli – nell’area del cimitero di Annifo di Foligno ed
attualmente dispersa6:
A. Arsie(nus) (vel c . a . arsie ?)
Il graffito, tutto sommato ben leggibile e caratterizzato da tratti paleografici
risalenti (<a> con traversa obliqua disarticolata, <r> con occhiello aperto, <s>
a tre tratti rettilinei, <e> a doppio tratto verticale), presenta solo nella parte
iniziale reali problemi di restituzione, destinati a restare insoluti in assenza di un
esame autoptico. È infatti incerto se la sequenza a · arsiii – l’unica sicura, a mio
avviso – sia preceduta o meno da un ulteriore grafo (nel caso, <c> o <g>), eventualmente seguito da interpunto, la cui inclusione od omissione ha conseguenze
non solo sulla restituzione del testo, ma sul suo stesso inquadramento linguistico. In particolare, una eventuale lettura c · a · arsiii implicherebbe l’attribuzione all’umbro del graffito, recante in questo caso una formula onomastica
Del pezzo si conserva solo una per altro non ottima riproduzione fotografica, che qui
pubblico.
6
497
simone sisani
trimembre flessa al genitivo, con prenome paterno anteposto come di consueto
al gentilizio, quest’ultimo da intendere come resa epicoria di lat. Arsius. Tenderei tuttavia a considerare il supposto grafo – caratterizzato per altro da un andamento curvilineo che mal si concilia con l’aspetto angolato delle altre lettere, ed
apparentemente inciso più in basso rispetto alla linea di scrittura seguita dal graffito – una semplice scalfittura accidentale della superficie verniciata della coppa:
una circostanza che permetterebbe di recuperare il testo al corpus latino. Giusta
questa ipotesi, avremmo una consueta formula onomastica bimembre composta
da prenome A(ulus) e gentilizio Arsie(nus), riportato anch’esso in forma abbreviata. Il gentilizio, non altrimenti attestato, è da considerare una variante delle
forme Arsius e Arsinius, di probabile matrice etrusca (arzni)7. Sulla base della
tipologia del manufatto, il graffito è databile nella prima metà del II sec. a.C.
I due testi costituiscono due ulteriori testimonianze relative all’incipiente latinizzazione dell’area plestina, da leggere verosimilmente come il portato
diretto della precoce occupazione romana del distretto, trasformato in praefectura forse già dalla fine del III sec. a.C. e contestualmente interessato da interventi di colonizzazione viritana8. Nel caso del secondo graffito, resta in ogni caso
il dubbio concernente la sua attribuzione linguistica, ed è proprio a partire da
questo aspetto che vorrei sviluppare alcune riflessioni di carattere più generale,
sollecitate dalla peculiare terminazione in *-ie(- - - ?) del gentilizio, un ricorso
comune anche ad altri graffiti su ceramica a vernice nera di fine III - inizi II
sec. a.C. provenienti tutti, significativamente, dallo stesso contesto territoriale,
comprendente i contermini distretti di Plestia, Nuceria, Matilica e Tolentinum.
Fornisco di seguito un elenco completo delle testimonianze, rimandando alle
sedi originarie di pubblicazione per tutti i dettagli relativi a problemi di lettura,
analisi paleografica e inquadramento cronologico dei graffiti:
1) Colfiorito9: Ti. Abie(- - - ?) E++
Cf. Schulze 1904, 127.
Su tutto questo rimando a Sisani 2007, 142-144 e 181-182; cf. anche, sulla peculiare
struttura amministrativa di marca ottovirale che contraddistingue il centro nel corso del I sec.
a.C., Sisani 2010, 217. Noto per inciso che l’iscrizione con menzione dell’ottovirato CIL,
XI 5621, da me ancora attribuita in quelle sedi ad età proto-augustea, a seguito di un esame
autoptico si è rivelata essere certamente di età tardo-repubblicana e va datata al pieno I sec. a.C.
9
Nonnis - Sisani 2012, 67-68, nr. 55 (con fotografia e apografo): cf. A. Calderini in
7
8
498
due nuove iscrizioni su instrvmentvm dal distretto plestino
2) Colfiorito10: P. Apiaie(- - - ?)//VS
3) Colfiorito11: [A]piaie(- - - ?)//A
4) Colfiorito12: T. Gavie(- - - ?) T++
5) Annifo13: A. Arsie(- - - ?)
6) Nocera Umbra14: Popon. Salvie(- - - ?)
7) Matelica15: T. Apanie(- - - ?)
8) Pievefavera16: [- - -]rie(- - - ?) EG +[- - - ?]
Di recente, la marca latina di tutti questi documenti è stata revocata in
dubbio17, proprio in considerazione del ricorrere di forme in *-ie, passibili di essere intese non come rese compendiate di gentilizi latini in *-ie(nus)18,
ma come dei genitivi (o eventualmente nominativi) umbri con uscita in
*-ie(r), regolare19 per i temi maschili in *-io-. Fermo restando che, da un
punto di vista strettamente formale, questa alternativa è senz’altro proponibile ed anzi – vista la diffusione areale dei documenti – rischia quasi di
Screhto est 2011, 76-79, nr. 69, con lettura T. Cabie(s) esu e attribuzione linguistica all’umbro.
Ma quest’ultima lettura appare una vera e propria lectio difficilior, frutto di una in certo modo
perversa propensione verso soluzioni inutilmente complicate e per altro a mio avviso esclusa
dalla spaziatura tra le stringhe ti e abie.
10
Nonnis - Sisani 2012, 68-69, nr. 56 (con fotografia e apografo): cf. A. Calderini in
Screhto est 2011, 76-79, nr. 66, con attribuzione linguistica all’umbro.
11
Nonnis - Sisani 2012, 69-70, nr. 57 (con fotografia e apografo): cf. A. Calderini in
Screhto est 2011, 76-79, nr. 67, con attribuzione linguistica all’umbro.
12
Nonnis - Sisani 2012, 70, nr. 58 (con fotografia e apografo): cf. A. Calderini in Screhto
est 2011, 76-79, nr. 68, con attribuzione linguistica all’umbro.
13
Cf. supra.
14
Nonnis - Sisani 2012, 76-77, nr. 129 (con apografo): cf. A. Calderini in Screhto est
2011, 75-76, nr. 64, con attribuzione linguistica all’umbro.
15
AE 2005, 473: cf. S. M. Marengo in SupplIt 23 (2007), 458, nr. 13 (con lettura T. Apanei),
e Paci 2012, 39-45, con attribuzione linguistica all’umbro.
16
Paci 2012, 45-50 (con fotografia), con lettura [- - -]rie(s) ego e attribuzione linguistica
all’umbro. A differenza del Paci, credo che la stringa iig debba essere isolata e separata dal segno
di cui resta traccia sulla destra del graffito, che può benissimo essere una <o> – se non una <c>
o una <g>, sempre ammesso che si tratti effettivamente di una lettera – ma che risulta troppo
distanziato per comporre con ciò che lo precede la parola ego.
17
Cf. A. Calderini in Screhto est 2011, 75-79, seguito ora da Paci 2012.
18
Come proponevo in Nonnis - Sisani 2012, 62-63 e 66-77.
19
Cf. ora Tikkanen 2011, 28 e 93.
499
simone sisani
apparire privilegiata20, credo che la questione sia meno pacifica di quanto un
certo approccio, eminentemente linguistico, vorrebbe dare ad intendere.
A ben vedere, tolta l’ambiguità derivante dalla terminazione in *-ie dei gentilizi, nessuno di questi documenti presenta infatti tratti ascrivibili con sicurezza
all’orizzonte linguistico italico. Non mi riferisco tanto all’uso della grafia latina,
un ricorso ben attestato in Umbria anche nell’epigrafia epicoria già a partire dai
decenni finali del III sec. a.C.21, quanto piuttosto, in primo luogo, alla struttura delle formule onomastiche, tutte costruite con certezza o probabilità secondo la sequenza tipicamente latina prenome - gentilizio (- filiazione)22, a fronte
della sequenza prenome - filiazione - gentilizio caratteristica, fino ancora alle
più tarde attestazioni epigrafiche di fine II - inizi I sec. a.C., dell’umbro23. Chi
sostiene l’italicità di queste iscrizioni è costretto a intendere tale tratto come
un influsso del latino: il che è ovviamente possibile, e tuttavia stupisce che tale
interferenza si registri unicamente in questa classe documentaria, risultando del
tutto priva di riscontri – con la significativa eccezione dell’iscrizione “umbrolatina” di fine III sec. a.C. da San Pietro di Flamignano, presso Foligno24 – nel
restante corpus epigrafico epicorio, di ambito sia pubblico che privato25.
Ma si tenga presente che dagli stessi contesti provengono anche documenti coevi redatti
indubitabilmente in latino: è il caso dei graffiti su ceramica a vernice nera H. Seltio(s) H. f., dal
santuario plestino della dea Cupra (Nonnis - Sisani 2012, 71, nr. 59), e Stn. Rutilio(s) Somios,
da Pievefavera (AE 1999, 600).
21
Sugli sviluppi degli usi grafici locali si veda Sisani 2009a, 170-177.
22
Rientra in questo schema, pur nella sua peculiarità, anche la struttura del graffito nr. 8, da
leggere a mio avviso [-] [- - -]rie(nus) Eg(nati scil. filius) (sul prenome Egnat(i)us cf. Salomies
1987, 102). La mancata notazione della parola f(ilius) – non ignota in iscrizioni redatte in
lingua latina: per un elenco delle attestazioni si vedano gli indici alle ILLRP, 486 – è certo da
interpretare come tratto dialettale, di norma inteso come oschismo, ma che può anche originare dall’adesione all’uso etrusco.
23
Sul sistema onomastico umbro si veda ora, in sintesi, Sisani 2009a, 177-182.
24
ST Um 6: bia . opset[?] / marone[?] / t . foltonio[?] / se . ptrnio[?]. Cf. Sisani 2009a,
203-204, nr. 25: l’iscrizione, pur redatta in lingua umbra, presenta tratti morfonologici –
opse(n)t 3.pl.Perf. contro l’atteso *opse(n)s, marone(s) Nom.pl.m. contro l’atteso *marons,
foltonio(s) e p(e)tr(o)nio(s) Nom.sg.m. contro gli attesi *foltoni(e)s e *p(e)tr(o)ni(e)s – chiaramente calcati sul latino.
25
Alludo alle iscrizioni funerarie mevanati Sisani 2009a, 206-207, nrr. 29 (= ST Um 25)
e 31.
20
500
due nuove iscrizioni su instrvmentvm dal distretto plestino
Fig. 3. Graffiti su coppe a vernice nera da Colfiorito di Foligno, area del santuario plestino della
dea Cupra.
La stessa lettura in chiave umbra della terminazione in *-ie va poi incontro,
almeno in un caso, a grosse difficoltà: alludo al graffito nr. 3, che insieme al “quasi
gemello” graffito nr. 2 contiene in se stesso la prova della sua latinità, offrendo
nel contempo un fondamentale termine di paragone per orientare l’attribuzione linguistica anche degli altri testi.
I graffiti nnr. 2-3 (fig. 3) sono incisi all’interno di due coppe a vernice nera
rinvenute nell’area del santuario plestino della dea Cupra, una provenienza che
assicura trattarsi di dediche votive. Entrambi i documenti, pur redatti senza
dubbio da mani diverse, riproducono lo stesso gentilizio – Apiaie(- - - ?) – e si
caratterizzano per un modo di incisione affatto peculiare: in entrambi i casi, la
stringa terminale del gentilizio è sormontata da una ulteriore incisione, VS nel
caso del graffito nr. 2, A nel caso del graffito nr. 3. Almeno nel caso del graffito
nr. 3, si può inoltre affermare con certezza che l’incisione superiore è stata effettuata in un secondo tempo, andando parzialmente a sovrapporsi alla sottostante
linea di testo, e da altra mano, come assicura non solo la macroscopica diversità
di dimensioni delle lettere, ma la stessa grafia: la <a>, in entrambi i casi con
traversa disarticolata, presenta infatti nella prima incisione la traversa impostata sull’asta obliqua destra, nella seconda sull’asta obliqua sinistra. L’insieme di
501
simone sisani
questi elementi consente di intendere le stringhe VS e A come marche del genere
dei due dedicanti, rispettivamente un uomo e una donna, che data l’identità del
gentilizio (tra l’altro noto solo da queste due attestazioni) possiamo immaginare verosimilmente imparentati, quali marito e moglie o eventualmente padre e
figlia: marche inserite – in un secondo tempo, forse all’atto stesso della deposizione degli oggetti nel santuario – appunto per distinguere la paternità delle due
dediche, parzialmente oscurata dal ricorso alla resa compendiata del gentilizio,
che a questo punto dobbiamo ritenere, nella forma epigrafica Apiaie(- - -), privo
quanto meno del segnacaso.
Ora, per quanto riguarda il fronte linguistico della questione, non solo le due
marche – in particolare quella del graffito nr. 2, con regolare uscita in *-us del
Nom.sg.m. – risultano indubitabilmente latine, ma la possibilità di postulare
nel graffito nr. 3 una forma femminile rende del tutto impraticabile la lettura
in chiave italica almeno di questo testo, la cui uscita in *-ie ne farebbe piuttosto, in lingua umbra, un tema maschile. Le giustificazioni avanzate per salvare
l’umbricità dei due graffiti denunciano in se stesse l’inconsistenza dell’ipotesi di
partenza: nei due testi avremmo delle (quasi) bilingui – apiaie / (APIAI)VS, [a]
piaie / (APIAI)A – e l’uscita in *-ie piuttosto che in *-iar del gentilizio femminile andrebbe intesa come «una desinenza *-āy di tipo latino-falisco, ipoteticamente penetrata in varietà sabelliche dell’area umbra o circum-umbra e doverosamente monottongata»26. La forzatura di questo modo di ragionare, che porta
addirittura ad inventare «una variante morfologica della flessione nominale in
un dialetto nordsabellico attestato in Umbria»27, è evidente, e risulta tanto più
incredibile che queste circonvoluzioni originino solo dall’aprioristico rifiuto
della latinità dei testi, una volta accettata la quale ogni difficoltà viene risolta.
Ma questa eventualità non è neppure presa in considerazione dai sostenitori
della tesi umbra, o meglio: a non essere presa in considerazione è l’eventualità
che in questi come negli altri casi si sia di fronte a gentilizi riportati in forma
abbreviata28, che cioè l’uscita in *-ie sia solo una illusione ottica, derivante da
un ricorso epigrafico per altro comunissimo in questa classe documentaria29
A. Calderini in Screhto est 2011, 78.
Ibid.
28
Indicativo in questo senso è il commento del Calderini (in Screhto est 2011, 75) al graffito
nr. 6: «come latina l’iscrizione [scil. Popon. Salvie] potrebbe recare solo un nome femminile al
Gen.sg., comunque con monottongazione dialettale».
29
Il ricorso a gentilizi riportati in forme abbreviate (in genere di una, due o al massimo tre
26
27
502
due nuove iscrizioni su instrvmentvm dal distretto plestino
e ben attestato, a questa quota cronologica, anche nell’epigrafia lapidaria, come
illustrano i numerosi casi di gentilizi in *-ius riportati al Nom.sg. nella forma
*-i(us), priva del segnacaso.
Proprio il confronto con quest’ultimo uso fornisce forse la chiave per intendere l’origine stessa delle forme in *-ie(- - -), eventualmente introdotte per distinguere anche nelle rese compendiate i gentilizi in *-ienus dai corrispettivi in *-ius,
di cui i primi costituiscono chiare derivazioni: Abi(us) ~ Abie(nus), Apani(us)
~ Apanie(nus)30, Apiai(us) ~ Apiaie(nus)31, Arsi(us) ~ Arsie(nus), Gavi(us) ~
Gavie(nus), Salvi(us) ~ Salvie(nus), [- - -]ri(us) ~ [- - -]rie(nus). Tale criterio
di abbreviazione non è del resto documentato solo dai graffiti in esame, essendo sporadicamente attestato anche altrove nell’ambito dell’epigrafia latina su
instrumentum: in documenti certo assai più tardi32, ma che appunto per questo
non suscitano dubbi relativamente al loro inquadramento linguistico.
La concentrazione cronologica e areale delle più antiche testimonianze di
quest’uso epigrafico suscita in ogni caso degli interrogativi. Fermo restando
che future acquisizioni potranno forse modificare il quadro delle attestazioni,
va rilevato che l’area di diffusione dei graffiti in esame è sì di cultura umbra33,
ma coincide anche – insieme ai contermini distretti piceno, sabino e vestino –
con uno dei bacini geografici di maggior concentrazione dei gentilizi latini con
lettere) costituisce in certo modo la norma nell’epigrafia latina su instrumentum: cf., in relazione alla documentazione di area umbra, sabina e picena, Nonnis - Sisani 2012, 64. In quest’area, l’uso è testimoniato da una trentina di graffiti (Nonnis - Sisani 2012, nnr. 15-27, 71-76,
83-85, 92, 125-126, 135, 139-140 della silloge alle pp. 80-86), a fronte di una decina di casi
(ibid., nnr. 1, 42, 47, 69, 87-89, 90, 96, 138) di gentilizi trascritti in extenso.
30
Non altrimenti attestato, ma da confrontare con la forma Appaenius (Schulze 1904,
346).
31
Non altrimenti attestato, ma da confrontare con le forme Appeius/Appeienus (Schulze
1904, 346).
32
CIL, II 4970.373c (bollo su ceramica): O(fficina) Pasie(ni); CIL, VIII 22645.398a (bollo
su ceramica): Vibie(ni); CIL, XV 695 (bollo laterizio): T. Camidie(ni) Atimet(i) dol(iare) /
ex pr(aediis) Pl(otinae) Aug(ustae); CIL, XV 5743, 5744, 5746 (bollo su ceramica aretina):
C. Vibie(ni); CIL, XV 5747d (bollo su ceramica aretina): Vebie(ni); CIL, XV 6100 (bollo su
ceramica): Passie(nus) Cilles fec(it); CIL, XV 6117 (bollo su ceramica): [Se]x. Brut(i) Nova(ti)
/ [pr]o mag(istro) Q. Anie(no) Sua(vi); AE 1994, 469 (bollo laterizio): Muttie(ni).
33
Per la probabile umbricità anche del territorio “piceno” compreso tra i fiumi Esino e
Chienti si veda Sisani 2009a, 44-49, e Sisani c.d.s.
503
simone sisani
terminazione in *-ienus34, da ritenere tra l’altro verosimilmente caratteristici di
una componente allogena della popolazione locale, data la scarsissima diffusione di tale suffisso nell’onomastica italica35. A prescindere dalla matrice etnica
di questa componente36, essa dovette probabilmente diffondersi in queste aree
a seguito della conquista romana, sia attraverso forme di emigrazione spontanea, sia soprattutto in connessione con i massicci interventi di colonizzazione
viritana promossi tra l’inizio del III e l’inizio del II sec. a.C.37. Tale circostanza
non solo spiegherebbe la subitanea e massiccia latinizzazione di questo settore
della penisola, della quale proprio i graffiti su ceramica rappresentano la testimonianza più precoce e più comune38, ma giustificherebbe anche la comparsa di
una “moda grafica” – la resa compendiata in *-ie(- - -) dei gentilizi in *-ienus – la
cui fortuna in ambito locale non è altro che il riflesso epigrafico della frequenza nell’area in questione di un particolare tipo onomastico, che si voleva in tal
modo rendere immediatamente identificabile.
Vorrei chiudere con un’ultima considerazione, concernente il rapporto tra la
diffusione, nel settore centro-italico compreso tra il corso del Tevere e la costa
adriatica, dell’epigrafia su instrumentum ed il fenomeno della romanizzazione.
In quest’area, risulta del tutto evidente la marca eminentemente latina di questa
pratica epigrafica, come illustra il rapporto percentuale tra le lingue – il latino
(largamente maggioritario), l’etrusco e l’umbro – rappresentate all’interno di
Per un censimento delle attestazioni si veda Conway 1897, 263-266, 367-369, 443-448,
452-456.
35
Gli unici esempi di gentilizi in *-(i)eno- in iscrizioni italiche sono costituiti dalle forme
umbre variens (ST Um 23) e uoisiener (ST Um 10) e dalla forma osca perkens (ST Cm 6), a
fronte della maggior frequenza di gentilizi in *-io-, che rappresenta il suffisso di gran lunga più
comune per i gentilizi italici (Rix 1972, 724-727, e cf. l’indice onomastico dei ST, 135-146).
36
Lo Schulze considerava tali forme come derivate da gentilizi etruschi in *-Øna (Schulze
1904, 438-439): per una rivalutazione di questa ipotesi rimando a quanto argomentato in
Nonnis - Sisani 2012, 62-63.
37
Alludo essenzialmente agli interventi promossi nel corso del III sec. a.C. da Manio Curio
Dentato e da Gaio Flaminio, nonché alle assegnazioni effettuate al principio del II sec. a.C. a
beneficio dei veterani della guerra annibalica di stanza in Spagna, Sicilia e Sardegna (iniziativa
quest’ultima del tutto ignorata dalla critica moderna, ma su cui si veda Sisani 2007, 135-138).
Non è questa la sede per riaffrontare le questioni storiche connesse ai singoli provvedimenti: mi
sia consentito il rimando, nello specifico dell’Umbria e dell’ager Gallicus et Picenus, a Sisani
2007, 127-225; cf. anche per l’area sabina Sisani 2009b e Sisani 2013, per l’area vestina
Sisani 2011, 586-591.
38
Nonnis - Sisani 2012, 54-66.
34
504
due nuove iscrizioni su instrvmentvm dal distretto plestino
tale classe documentaria39: una circostanza che sembra essere sfuggita ai sostenitori dell’umbricità dei testi ora presi in esame, e che in se stessa costituisce
invece un valido argomento in grado di orientare l’attribuzione linguistica dei
casi dubbi. Per quanto concerne in particolare i graffiti su ceramica, sono noti
solo due documenti redatti con certezza in umbro40, entrambi tra l’altro provenienti da Todi, senza dubbio il centro più profondamente etruschizzato dell’intera regione, dove la diffusione stessa della pratica potrebbe configurarsi come
adesione agli usi epigrafici – certamente noti in ambito locale, come assicurano
le numerose iscrizioni etrusche su instrumentum di provenienza tuderte41 – dei
vicini occidentali. Al di là di questo aspetto, si tratta di casi chiaramente sporadici e che in termini statistici appaiono quasi irrilevanti, se rapportati al ben
più consistente numero di graffiti di III-II sec. a.C. redatti non solo in lingua
latina, ma anche in lingua etrusca, essa stessa localmente meglio rappresentata,
nell’ambito di questa classe documentaria, della lingua epicoria42.
A fronte di questo quadro, è chiaro come questa pratica epigrafica debba allora a tutti gli effetti essere considerata – almeno in area umbra, picena e sabina
– un inequivocabile “segno” di romanizzazione43: direi anzi, forse più propriamente, la diretta espressione dell’arrivo in loco di madre-lingua latini, che è
difficile non identificare principalmente con gli stessi coloni romani dedotti in
queste aree, secondo le informazioni ricavabili dalle testimonianze letterarie, a
seguito della conquista.
In quest’area, le iscrizioni su instrumentum di III-II sec. a.C. redatte in lingua latina sfiorano l’80% del totale, a fronte di un numero decisamente inferiore di testi etruschi (circa il
19%) e umbri (circa il 4%): cf. Nonnis - Sisani 2012, 54-62.
40
REI 74 (2008), 425-428, nr. 1 (inizi del III sec. a.C.): [-?-]iuves deias; ST Um 37 (seconda metà del II sec. a.C.): vibie. Per quanto concerne invece il graffito su ceramica a vernice nera
Sisani 2009a, 212-213, nr. 37: [?] c . pupun(-?-) (dal santuario di Monte Torremaggiore, presso
Terni), l’attribuzione all’umbro piuttosto che al latino – nel caso, C. Pupun(ius): forma da avvicinare ai gentilizi Pop(p)onius/Pup(p)onius (Schulze 1904, 213) o eventualmente Pomponius
(con mancata notazione della nasale, non priva di confronti: cf. CIL, I2 120 e 375) – resta a mio
avviso impossibile da determinare con certezza.
41
Nonnis - Sisani 2012, nnr. 53 e 108-121 della silloge alle pp. 80-86.
42
Si veda la silloge delle attestazioni in Nonnis - Sisani 2012, 80-86 (con i grafici alle pp.
55-59).
43
Ciò vale anche, verosimilmente, per le iscrizioni etrusche su instrumentum di III-II sec.
a.C. rinvenute nell’ager Gallicus e nell’ager Picenus, secondo quanto convincentemente prospettato già da Colonna 1984: cf. Nonnis - Sisani 2012, 62-63.
39
505
simone sisani
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506
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507
ALFREDO VALVO
Il declino della Repubblica nel De haruspicum responsis*
In questo breve contributo si cercherà di ripercorrere, nei tratti essenziali,
l’esperienza del declino della Repubblica vissuta da Cicerone, della quale abbiamo testimonianza attraverso brani delle sue opere, particolarmente quelle scritte negli anni cruciali fra il ritorno dall’esilio, nel 56, e il 52/51, incominciando
dal De haruspicum responsis, scritto molto probabilmente poco prima della metà
di maggio del 56. Questa esperienza di declino fu certamente la più grandiosa e
al contempo la più insidiosa vissuta da Roma.
È stato osservato che il contenuto di alcuni passi del De haruspicum responsis si ritrova in opere dello stesso periodo scritte con intenti più politici, come
il discorso De provinciis consularibus, anch’esso della fine di maggio del 56, e
successivamente in altre opere nelle quali ritornano concetti e riemergono
sensazioni e pensieri del recente passato, come nel De re publica. Il De haruspicum responsis assume così un ruolo di anticipazione e quasi di modello. In
un passo, in particolare, che occupa quasi per intero il capitolo 19, si colgono
le premesse delle argomentazioni che l’Oratore svilupperà per dare forza alla
sua requisitoria: nell’affermazione di questi princìpi Cicerone scopre di essere
ormai solo, non ultima ragione questa del declino della Repubblica; ne abbiamo
una prova dalle sue parole:
* Il presente lavoro riprende il tema della decadenza e della espiazione presente nel De
haruspicum responsis già oggetto di una relazione tenuta in occasione del Convegno internazionale
Die Konstruktion des Späten, Villa Vigoni di Menaggio, 9-12 dicembre 2005. Sono lieto di offrire
questa breve riflessione all’amico e collega Gino Bandelli, col quale ho condiviso interessi di studio
sul periodo della storia di Roma in età repubblicana.
509
alfredo valvo
quis est tam vaecors qui… cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum?
La conclusione è:
pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi
gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.
Da questa convinzione Cicerone trae il tono quasi profetico degli ultimi
capitoli del De haruspicum responsis, che si trasformerà nel tono disincantato e
astratto di numerosi passi del De re publica. Nel De haruspicum responsis, invece,
Cicerone richiama ancora energicamente il principio fondamentale che i Romani sono il popolo più religioso di tutti e per questo il più amato dagli dei. Una
sintesi di questa convinzione, divenuta un luogo comune soprattutto se avvicinata al bisogno di espiazione in seguito alla guerra civile fra Ottaviano, Antonio
e Lepido, si trova già in un brano della lettera inviata dal pretore M. Valerio
Messalla a Telos, nel 193 a.C.1:
che la nostra preoccupazione continua e più sincera sia la pietas verso gli dei lo si
riconosce con certezza dalla benevolenza che essi ci manifestano in contraccambio attraverso queste cose; nondimeno da moltissime altre siamo stati convinti
che sia divenuto a tutti manifesto che noi teniamo gli dei in maggior onore di
altri.
Cicerone pone queste premesse immediatamente prima di esporre il contenuto dei responsi aruspicali. Il contenuto dell’opera è politico e Cicerone si prepara a ritorcere contro i suoi nemici le accuse che potevano essere mosse contro
di lui, ma ai senatori, ai quali egli si rivolge, ricorda le condizioni perché resti
salda, pur nel momento di crisi che allora attraversava, la res publica: i Romani
ricordino che il loro imperium è potuto sorgere, crescere e durare per la benevolenza degli dei e che tutte le vittorie militari sono state rese possibili dalla
pietas e dalla religio; egli richiama i contenuti più importanti di quella che è stata
definita l’«ideologia dell’imperator»2, quasi una ‘teologia della vittoria’, e fa eco
1
2
Sherk 1969, 214-216, nr. 34, linn. 11-17.
Jaczynowska 1985, 285 (con riferimento ad un precedente lavoro).
510
il declino della repubblica nel de harvspicvm responsis
a Polibio che attribuiva ai Romani il primato sugli altri popoli in virtù della loro
fedeltà agli dei3.
L’espressione ‘teologia della vittoria’ riassume bene gli elementi religiosi che
caratterizzano la pretesa degli uomini di stato, esponenti della nobilitas, di essere
strumento privilegiato degli dei, i quali manifestano la loro benevolenza verso i
Romani concedendo loro la vittoria4. Cicerone, dunque, coglie a fondo l’opportunità che gli è offerta per trasformare la sua orazione politica in un richiamo
alla classe dirigente di Roma: essa potrà riprendere la guida della res publica se
ricorderà da dove nasce la grandezza di Roma: pietate ac religione atque hac una
sapientia… omnis gentis nationesque superavimus.
Più avanti, al capitolo 40, Cicerone ricorda un altro dei responsi aruspicali:
ne per optimatium discordiam dissensionemque patribus principibusque caedes
periculaque creentur auxilioque divinitus deficiantur, qua re ad unius imperium
res redeat exercitusque pulsus diminutioque accedat.
Il quadro non potrebbe essere più fosco; la minaccia che pare incombere è
il ritorno della monarchia, intesa come dominio di uno solo. Il passo del De
haruspicum responsis, sebbene gli altri responsi aruspicali a noi noti siano in gran
parte monocordi nel predire sciagure, e lo stesso Cicerone ne riferisca uno, del
65, descrivendo un quadro apocalittico5: caedes atque incendia et legum interitum et bellum civile ac domesticum et totius urbis atque imperi occasum appropinquare dixerunt…, indica nella discordia e nel dissenso fra gli optimates il pericolo per la vita dei senatori e degli esponenti della nobilitas e, infine, la ragione
dell’abbandono degli dei: l’effetto di tutto questo sarebbe stata la fine dell’esperienza repubblicana, la fine della supremazia militare e della maiestas del popolo
romano. Il declino di Roma, che rischia di diventare irreversibile, e il corollario
di eventi nefasti – primo fra tutti l’abbandono degli dei, dal quale dipende la
grandezza di Roma – sono imputabili agli ottimati, e ad alimentarne le discordie
è Clodio; inevitabile che il paventato imperium unius possa riuscire quello del
grande assente: Cesare. Cicerone tiene ad aggiungere nihil addo de meo. Sembra
che il responso colga in pieno il suo pensiero al punto da dover garantire che egli
non aggiunge niente di suo. Si è ipotizzato che i responsi del 56, di orientamento
Polyb. VI 56, 6-15.
Valvo 2003, 87-94; Valvo 2005, 75-83.
5
Cic. Catil. III, 19-20.
3
4
511
alfredo valvo
filo-nobiliare come altri precedenti, siano stati ispirati o siano addirittura opera
di Nigidio Figulo, che condivideva il pensiero politico di Cicerone6. Comunque
stiano le cose, il tema di fondo è ancora una volta il declino della Repubblica.
Un ultimo passaggio, decisivo, è introdotto dal responso riportato nel capitolo 55: ne occultis consiliis res publica laedatur, ripreso dall’ultimo responso,
riportato nel capitolo 60: ne rei publicae status commutetur e sviluppato da Cicerone negli ultimi quattro capitoli (60-63). Un tempo Roma era stata in grado
di reggere le inadempienze del senato (neglegentiam senatus) e l’affronto dei
cittadini (iniurias civium): ora non più (iam non potest) e non si troverebbe, a
cercarlo, neppure un cittadino disposto a opporsi all’odio per salvare la patria
(civem qui se pro patriae salute opponat invidiae frustra posthac requiretis). Quare
– continua Cicerone – hunc statum qui nunc est, qualiscumque est, nulla alia re
nisi concordia retinere possumus. E ricordati i segni mandati dagli dei, egli conclude l’orazione con l’appello più accorato: nostrae nobis sunt inter nos irae discordiaeque placandae. Fin qui il De haruspicum responsis.
Nell’anno 56, in un contesto politico compromesso e senza via d’uscita,
dominato dalla figura di Clodio, dall’inerzia e dai calcoli politici della classe
dirigente, Cicerone denunzia i pericoli ma non suggerisce una soluzione politica; si limita a sollecitare la concordia, che tuttavia egli stesso riconosce come
una remota possibilità. Il timore degli dei non è più sufficiente a rendere saldo lo
stato così da renderlo inattaccabile dalle risse dei senatori e dalle mene dei cittadini. In un solo passo (cap. 57) Cicerone richiama insieme civitas e libertas, che
nella Pro Caecina avevano costituito una trionfale conclusione, a dimostrazione
che una non può esistere senza l’altra, quasi che pronunziando civitas si dicesse
implicitamente libertas7.
Tralasciando per brevità il contenuto delle opere immediatamente successive
al De haruspicum responsis, all’interno delle quali peraltro non sono trattati temi
civili in forma così drammatica, è invece nel trattato Sullo stato, scritto quattro
o cinque anni più tardi, che Cicerone presenta una proposta politica, impraticabile e senza esito nell’immediato ma alla portata di Cesare e di Augusto, il quale
riuscirà a portarla a compimento.
Sarebbe troppo lungo elencare i passi nei quali emergono nuovi orizzonti
politici e nuove ipotesi di soluzione. Tuttavia Cicerone, abbandonata la speranza di vedere ristabilita la concordia all’interno del senato e fra gli optimates,
6
7
Cf. Wuilleumier - Tupet 1966, 16.
Cic. Caecin. 96-100 passim.
512
il declino della repubblica nel de harvspicvm responsis
affronta la questione sotto due aspetti: il primo è quello del profilo dell’uomo di
stato, che dovrà essere moderatore, guida e timoniere dello stato; il secondo è la
maiestas (cioè la ‘maggior grandezza’) del popolo romano, ereditata dai maiores,
da realizzare nel governo dello stato grazie all’ingenium multorum e all’usus e
alla vetustas rerum (le istituzioni)8. Con questo Cicerone traccia un elogio della
concordia ordinum e perciò anche della volontà popolare, che in precedenza non
trovava spazio nelle sue aspettative per la salvezza dello stato.
Nel De re publica – senza volerne toccare la complessità dei temi – convergono attese, speranze e anche una serie di questioni di carattere istituzionale
che sono straordinarie. A mio giudizio, anche se il trattato Sullo stato sembra
trovare la sua logica continuazione nel trattato Sulle leggi – e questo è certamente vero – è però a sua volta la continuazione della riflessione che incomincia nel
De haruspicum responsis. Cicerone, abbandonati i toni drammatici degli ultimi capitoli del De haruspicum, passa ad un richiamo quasi mistico ma fondato
sulla storia di Roma, che è sì destinato a richiamare il passato per sollecitare il
risanamento della Repubblica ma ha anche un valore metastorico, quasi a voler
essere un bilancio del passato ed un’eredità per il futuro. Il Somnium Scipionis prospetta un’immagine ideale dell’uomo di stato e un compito per il futuro
ma c’è da domandarsi se non si tratti più di una profezia che di una terapia. In
ultima analisi, Cicerone ha il presentimento che stia per finire un’epoca, quella
delle antiche istituzioni repubblicane, dei mores antiqui, della concordia fra le
componenti della civitas, del primato delle istituzioni e così via, ma che dopo
ci sarà una nuova civitas, nuovi mores, un nuovo ordine e una nuova concordia.
Egli ha anche la certezza che questo non possa essere costruito senza il passato e
vuole essere lui a tracciarne il profilo, a ricordarne le origini e i progressi, a trarne un bilancio. In un certo modo un documento del declino della Repubblica
la cui grandezza sarà il fondamento di ciò che verrà poi. Si resta sempre colpiti
dalle definizioni che si trovano nell’opera: da quella di populus9, ineludibile per
chiunque voglia dare un contenuto concreto al termine ‘democrazia’ (non omnis
hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu
et utilitatis communione sociatus), a quella di res publica (res populi), a quella di
libertas. Il De re publica come un programma per il futuro fondato sul passato e
quasi un congedo dalla Repubblica.
8
9
Cic. rep. II 2.
Cic. rep. I 25, 39.
513
alfredo valvo
Le Res Gestae divi Augusti rappresentano anch’esse un congedo, ma di Augusto e da vincitore. Alcuni collegamenti con il De re publica sembrano calzanti col
nostro discorso. Soprattutto nel capitolo iniziale Augusto si ricollega al pensiero
di Cicerone, mostrando come la sua realizzazione politica, il Principato, fosse
la risposta implicita a quello che Cicerone auspicava nel trattato Sullo stato. Se
L. Brutus cum privatus esset, totam rem publicam sustinuit primusque in hac
civitate docuit in conservanda civium libertate esse privatum neminem, Augusto
controbatte nelle primissime battute delle Res Gestae, le prime che sarebbero
state lette dai contemporanei e dai posteri: annos undeviginti natus exercitum
privato consilio et privata impensa comparavi (la miglior difesa è sempre l’attacco, ma in questo caso è un’implicita risposta a chi aveva sostenuto che nessuno,
anche se privatus, poteva considerarsi esente da responsabilità se in gioco c’era
la libertà dei cittadini: civitas e libertas) e aggiunge subito dopo: per quem [exercitum] rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi.
Quale fosse la factio che opprimeva la res publica si capisce da Cicerone che in
De re publica10 afferma: est factio, sed vocantur illi optimates, e ancora11: nec ulla
deformior species est civitatis quam illa in qua opulentissimi optimi putantur. La
vittoria di Augusto è presentata come la vittoria sulla factio degli optimates, la
trasformazione dello stato come una ‘riconquista’, la fine della libera res publica
come la ritrovata libertas. Nel De haruspicum uno dei responsi imputava alla
discordia e al dissenso degli ottimati, l’unico schieramento politico che Cicerone definisce factio, il pericolo della fine della Repubblica, con corollari di
morte e di restaurazione monarchica. Dietro le parole prende forma il disegno
di Augusto, come dimostra ciò che segue nelle Res Gestae: res publica ne quid
detrimenti caperet, me propraetore simul cum consulibus providere iussit. Augusto trasforma la formula del Senatus Consultum Ultimum: alla formula corrente
videant consules ne quid res publica detrimenti capiat sostituisce l’altra formula,
da lui coniata: res publica ne quid detrimenti caperet me providere iussit. È lo stato
stesso che ordina ad Augusto di provvedere affinché [lo stato] non subisca alcun
danno. Scompaiono i consoli come soggetto e diventano comprimari: simul cum
consulibus; scompare soprattutto il populus, unico soggetto istituzionale a usare
il verbo iubere, e subentra la res publica. La res publica, a sua volta, ha perduto ciò
che la definisce: populi Romani, come nell’‘incipit’ delle Res Gestae la sequenza
res publica populi Romani è diventata res publica populusque Romanus.
10
11
Cic. rep. III 12, 20.
Cic. rep. I 34, 51.
514
il declino della repubblica nel de harvspicvm responsis
Anche gli equivoci lessicali svolgono un ruolo non secondario nel declino
della Repubblica e nel sorgere del Principato.
La crisi della Repubblica e il suo declino sono il fermento dell’ecumenismo
augusteo. Nel nuovo inizio uno spazio privilegiato è riservato all’espiazione.
Senza che sia stato prima ristabilito il patto di alleanza fra gli dei e i Romani
non ci potrà essere rinnovamento: la poesia di Orazio interpreta pienamente
questo passaggio obbligato per la ripresa di un nuovo ciclo storico12. Lo scelus è
ereditario e necessita di una nuova espiazione: in Carm. II 1, databile immediatamente dopo la battaglia di Azio (30-29), all’inizio del nuovo corso della storia
di Roma, Orazio evoca et arma / nondum expiatis uncta cruoribus. La condizione della ripresa è un nuovo patto con gli dei, ineluttabile per il ruolo che gli
dei hanno assegnato a Roma. Si ha l’impressione che il pensiero di Orazio, che
riprende un tema presente – ma con altro peso – nell’epica: quello dell’espiazione, sia frutto di una riflessione sulla ciclicità del peccato, che per i Romani
consiste nell’interruzione dell’alleanza con gli dei13. All’origine stessa di Roma
c’è un ‘peccato originale’ che deve essere periodicamente espiato. Il II capitolo
delle Res Gestae contiene la chiave di lettura del Carm. I 2 di Orazio, essenziale
per la comprensione del ruolo svolto da Augusto: qui parentem meum trucidaverunt, eos in exilium expuli iudiciis legitimis ultus eorum facinus… Solo Ottaviano
rivestì questo ruolo; nell’epiteto di Caesaris ultor del v. 44 del carme oraziano
si riassume il tema della salvezza e della riconciliazione. Se anche non si vuole
accettare questa considerazione esposta oltre cinquant’anni fa dal Nussbaum14,
non si potrà non riconoscere che all’origine del Carm. I 2 c’è comunque la religiosità romana più profonda: l’idea di ultio che è implicata dalla nozione di
scelus. Punizione ed espiazione sono il fondamento della redenzione attraverso
la giustizia divina. Al sentimento della colpa si aggiunge il pericolo che la fine
sia ineluttabile, che Roma possa finire: ruentis / imperi rebus (vv. 25-26). Ad
Apollo, Venere, Marte e Mercurio, nei panni di Ottaviano, toccherà il compito
Al contenuto degli Epodi VII e XVI, nei quali la rovina di Roma sembra senza riscatto
(XVI 1-2: Altera iam teritur bellis civilibus aetas / suis et ipsa Roma viribus ruit), seguono la
coscienza della necessaria espiazione (carm. II 1, 4-5: et arma / nondum expiatis uncta cruoribus) e la ripresa dei mores antiqui voluta dagli dei, dei quali sarà strumento Augusto, preannunciata da Orazio nelle ‘Odi romane’ (carm. III 1-6).
13
Hor. epod. VII 17-18: acerba fata Romanos agunt / scelusque fraternae necis.
14
Nussbaum 1961, 407, col commento di Cremona 1982, 128-130.
12
515
alfredo valvo
di soccorrere le res ruentis imperi e procedere all’espiazione dello scelus del quale
si è macchiato il popolo romano.
Sarebbe assai lungo proseguire nella direzione intrapresa; il protagonista
indiscusso rimane comunque Ottaviano-Augusto, che assume il ruolo di inviato
degli dei per restituire a Roma la sua grandezza, dopo averne espiato il peccato. Con Orazio la certezza della palingenesi augustea, fondata sull’espiazione e
quindi sul ritorno alle virtù dei maiores, consente a Roma di ritrovare la benevolenza degli dei e di sperare nella propria rinascita.
Per concludere, i responsi degli aruspici ricordati da Cicerone, influenzati
dal clima di fine saeculum che si respirava fra il consolato di Silla dell’88 e la
fine della guerra perugina, che segnò anche la fine del nomen Etruscum, trovano apparentemente una conferma nelle vicende che seguono immediatamente
l’anno 56, ma sono smentiti dall’esito finale della ritrovata certezza del proprio
destino che i Romani avevano maturato nel periodo delle conquiste mediterranee e consolidato con l’ideologia-teologia della vittoria: imperium sine fine dedi,
rassicura Giove. Ciò, attraverso l’espiazione e la ritrovata pax con gli dei, supera
ogni timore di un declino irreversibile, che sia premonizione della fine di Roma.
Roma resterà nella concezione del pensiero tardoantico e cristiano l’ultimo
degli imperi, e quello definitivo.
516
il declino della repubblica nel de harvspicvm responsis
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Cremona 1982
V. Cremona, La poesia civile di Orazio, Milano 19822.
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Giulio Cesare, «Athenaeum», n.s., LXIII (1985), 285-295.
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(cur.), Seminari di Storia e di Diritto, III. «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, Milano 2003, 77-99.
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P. Wuilleumier - A.-M. Tupet, Cicéron, Discours, XIII, 2: Sur la réponse des haruspices, Texte établi et traduit, Paris 1966.
517
CLAUDIO ZACCARIA
T. Annius T. f. tri(um)vir e le prime fasi della colonia latina di Aquileia.
Bilancio storiografico e problemi aperti
La scoperta nel 1995 in occasione degli scavi della Soprintendenza nel settore occidentale del foro di Aquileia1 di un blocco in calcare che conservava interamente un’epigrafe di sei righe con la menzione di un T. Annius T. f. tri vir suscitò
immediato interesse2.
Questo è il testo dell’iscrizione3:
T(itus) Annius T(iti) f(ilius) tri(um)vir. / Is hance aedem / faciundam dedit / dedicavitque legesq(ue) / composivit deditque, / senatum ter co(o)ptavit.
Tito Annio, figlio di Tito, triumviro. Costui dispose che fosse costruito questo
tempio e lo dedicò, assemblò il corpus delle leggi e le consegnò (alla colonia), per
tre volte integrò il senato4.
Una prima notizia sul contesto archeologico in Maselli Scotti et alii 1995.
Il monumento, che ebbe una larga eco anche sui quotidiani, fu presentato già nel novembre 1995 alla IX Rencontre sur l’épigraphie du monde romain tenutasi a Macerata e nel maggio
del 1996 in una conferenza presso il Circolo aziendale delle Assicurazioni Generali di Trieste.
Fu pubblicato con ampio commento su Aquileia Nostra (Zaccaria 1996) e poi negli Atti
della citata Rencontre (Maselli Scotti - Zaccaria 1998). Risulta pertanto immotivata
l’osservazione di Federica Fontana che lo scavo e l’iscrizione di Tito Annio non avrebbero
avuto tempestivamente adeguata diffusione e pubblicazione (Fontana 1997, 19 n. 25).
3
Edizioni: Zaccaria 1996, 179-184, nr. 1, con foto (AEp 1996, 685); [Maselli Scotti
-] Zaccaria 1998, 130-143, fig. 5, con foto; vd. anche Gordon 2003, 221. Edizioni elettroniche on line, con foto: EDCS-03000332; lupa 14323; EDR007193. Si conserva nella Galleria
Lapidaria del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, inv. 457866 (IEA 2003, 34, nr. 31, con
foto). Un calco della base, che fu esposto in occasione della Mostra Tesori della Postumia tenutasi a Cremona nel 1998 (Tiussi 1998, 514, V.27), è stato collocato sul luogo di rinvenimento.
4
Può essere utile il confronto con altre traduzioni, che implicano diverse sfumature inter1
2
519
claudio zaccaria
L’eccezionale importanza delle informazioni contenute nel nuovo documento sia per quanto riguarda il contesto di ritrovamento sia, soprattutto, per la
menzione di alcuni aspetti poco documentati che accompagnavano e seguivano
la deduzione delle colonie, è apparsa evidente fin dalla prima pubblicazione. Il
testo aquileiese, infatti, ben s’inserisce tra le poche importanti fonti materiali
del diritto pubblico romano di età repubblicana5. L’iscrizione, infatti, attesta
per la prima volta l’esistenza ad Aquileia di un edificio templare urbano, fatto
costruire e dedicato da uno dei commissari incaricati del supplementum coloniario, e fornisce alcuni dettagli sulle attività istituzionali che i triumviri erano
chiamati a svolgere nei centri di nuova fondazione (o, come in questo caso, di
rifondazione).
La storiografia locale si è soffermata e si sofferma tuttora quasi esclusivamente sulla datazione e sull’occasione dell’erezione del monumento, sulla tipologia
del supporto e dell’iscrizione, sugli aspetti topografici e sull’eventuale rapporto
tra il nostro T. Annius T. f. e il costruttore della via Annia, mentre, con qualche sporadica eccezione6 – nonostante la tempestiva pubblicazione nell’Année
épigraphique e la ripresa con commento nella rassegna Roman inscriptions del
Journal of Roman Studies7 – le straordinarie informazioni contenute nel documento aquileiese (che costituiscono il vero importante elemento di novità) sono
pretative: IEA 2003, 34 (G. Lettich); «Tito Annio, figlio di Tito, triumviro. Egli fece costruire
e consacrò questo tempio, redasse ed emanò le leggi, integrò tre volte il senato (della colonia)»;
Giovannini 2010, 76: «Tito Annio figlio di Tito, triumviro. Egli fece costruire e consacrò
questo tempio, redasse e consegnò le leggi, per tre volte ha aggiornato le liste del senato (della
colonia)». Vd. anche le traduzioni in francese e in inglese: David 2006, 724: T. Annius …
«fit élever le temple où l’inscription était érigée, en fit la dédicace, établis les lois de la cité, les
promulgua et nomma trois fois les membres du Sénat local»; Kremer 2007, 57 n. 80: «T.
Annius triumvir fils de Titus a donné et dédié cette aedes à construire, il a composé et donné les
lois [de la colonie], il a choisi trois fois [les membres] du sénat»; Bispham 2007 n. 190: «T.
Annius T. f. tri(um)vir. This man gave the means to construct (?) this temple here and dedicated it, and composed and gave laws and three times co-opted the senate»; Ando 2011, 433:
«Titus Annius (Luscus), son of Titus, triumvir (for the settlement of colonists). He provided
for the construction of this temple and dedicated it; he composed and delivered laws (to the
colony); and three times he enrolled its senate».
5
Non è stata però accolta in Lepore 2010.
6
Tommaseo 1999, Laffi 2001, Valvo 2001.
7
AEp 1996 [1998] e Gordon - Reynolds 2003.
520
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
state prese in considerazione solo con parecchio ritardo nei lavori sugli aspetti
della colonizzazione dell’Italia romana8.
A quasi vent’anni dalla scoperta può essere utile un bilancio che renda conto
dello stato del dibattitto ed evidenzi le questioni ancora aperte.
Il ritrovamento in un contesto di reimpieghi monumentali tardoantichi, lo
stato frammentario del monumento e la sinteticità e la novità del testo epigrafico hanno sollevato fin da subito alcuni interrogativi che riguardano specialmente i seguenti punti:
- l’identificazione di T. Annius T. f.;
- la tipologia del monumento e dell’iscrizione;
- la datazione e la committenza del monumento;
- le attività del triumviro per l’avvio dell’impianto costituzionale e istituzionale della colonia;
- la posizione topografica dell’aedes e la sua funzione nelle prime fasi della
colonia;
- la collocazione originaria del monumento;
- l’eventuale identificazione del triumviro con il costruttore della via Annia.
L’identificazione di T. Annius T. f.
È apparso subito evidente che il nostro personaggio andava identificato con
il T. Annius Luscus ricordato da Tito Livio come uno dei triumviri incaricati
nel 169 a.C. delle operazioni concernenti il supplementum deliberato dal Senato romano, su richiesta dei coloni aquileiesi, per rafforzare la colonia latina di
Vd. specialmente David 2006; Galsterer 2006a; Galsterer 2006b; Kremer 2006;
Kremer 2007; Bispham 2007; Ando 2007; Lackner 2008; Coles 2009; Bertrand
2012; Berthelet 2013; Murgia 2013. Ne tennero conto fin da subito, oltre naturalmente
a Bandelli 1998a, 1998b, 1999, 2002, 2003, Tommaseo 1999; Laffi 2001, 171 e 480;
Valvo 2001.
Non viene citato, ad es., nonostante la centralità delle informazioni rispetto ai temi ivi trattati,
in Bispham 2006 e Melchor Gil - Rodríguez Neila 2012. Sorprende l’affermazione che
«nell’iscrizione di Tito Annio Lusco non si fa riferimento alcuno ad una qualsiasi forma di una
nuova deduzione coloniale, ad un suo essere un triumvir coloniae Aquileiae deducundae» in Di
Filippo Balestrazzi 2005, 100.
8
521
claudio zaccaria
Aquileia9. Il nuovo monumento epigrafico veniva dunque ad affiancarsi a quello, conosciuto da lungo tempo10, che commemorava L. Manlius Acidinus, uno
dei triumviri, ugualmente menzionati da Livio11, ai quali fu affidato nel 183 a.C.
l’incarico, realizzato poi nel 181, di fondare la colonia12.
Il triumviro del 169 è stato generalmente identificato senza troppi problemi
con uno degli ambasciatori inviati a trattare con Perseo di Macedonia nel 172
a.C.13. Gli studiosi si sono invece interrogati se egli sia identico all’omonimo
console del 153, e forse anche al princeps senatus oppositore di Tiberio Gracco nel 133, oppure se si tratti di due persone distinte, eventualmente padre e
figlio14. La questione è stata a lungo discussa e tuttora non può essere considerata definitivamente risolta15, anche se alla fine sembra prevalere l’opinione che si
tratti della stessa persona16.
È stato giustamente notato che la presenza ad Aquileia di attestazioni epigrafiche relative a due dei magistrati romani incaricati della fondazione e rifondazione costituisce un caso unico nel panorama epigrafico non solo della Cisalpina, ma anche in generale della colonizzazione del II sec. a.C.17. Si è anche
tentato di trovare una possibile spiegazione al fatto, facilmente spiegabile con la
causalità dei rinvenimenti, che solo uno dei membri di ciascuna delle due terne
potesse essere ricordato con una statua nel foro della città, avanzando l’ipotesi
che L. Manlius Acidinus sarebbe stato il presidente della commissione del 181 e
Liv. XLIII 17, 1, con il commento di Briscoe 2012, che riporta e discute l’iscrizione
aquileiese.
10
CIL, V 873; CIL, I2 621; ILLRP 324; Degrassi, Imagines, 143; InscrAq 27; IEA 2003,
nr. 1; EDR117440; lupa 13400. Vd. Bandelli 1984, 216, nr. 1.
11
Liv. XXXIX 55, 5-6.
12
Sulle terne triumvirali incaricate della fondazione del 181 e del supplementum del 169
vd. Bandelli 1987; Bandelli 1988a, 21-35; Bandelli 1998a, 149-150; Bandelli 1998b,
36-37; Bandelli 2002, 60-61; Bandelli 2003, 60-64; Vedaldi Iasbez 2003, 125-126;
Zaccaria 2003, 296-297.
13
Liv. XLII 25, 1. Cf. Briscoe 2012, 17 e 233.
14
RE, s.v. Annius 63 (legatus nel 172 e triumvir nel 169); RE, s.v. Annius 64 (praet. 156,
cos. 153, oppositore di Tiberio Gracco nel 133); MRR I, 413, 426, 447, 452 e II, Index, 530.
Brunt 1982, 7, nr. 27; Bandelli 1988a, 32 n. 49; Briscoe 2012, 446, «leg. 172, iiivir 169».
15
Vd., ad es., Bandelli 1999, 293; Bandelli 2003, 64.
16
Gli argomenti in favore sono recepiti in Broughton 1986, 16 [= MRR3]; vd. anche la
bibliografia in Zaccaria 1996, 181 e [Maselli Scotti-] Zaccaria 1998, 134 n. 69.
17
Bandelli 2002, 60; Bandelli 2008, 50-51.
9
522
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
T. Annius Luscus il membro più autorevole di quella del 16918. Ciò però è difficilmente sostenibile alla luce di quanto si conosce sulla carriera dei membri delle
due commissioni triumvirali19. È pertanto pensabile, anche se non ce ne è giunta
testimonianza, che anche gli altri membri delle due commissioni fossero stati
commemorati20, ma non è stato neppure del tutto escluso da alcuni studiosi che
i triumviri non operassero necessariamente e congiuntamente in situ coloniae e
che quindi solo uno di loro potesse aver soggiornato effettivamente ad Aquileia
fino all’espletamento di tutte le procedure necessarie a far decollare le istituzioni cittadine, stabilendo in tal modo con la comunità locale più stretti rapporti
personali, evolutisi poi nelle forme del patronato, tanto da essere considerato
più degli altri il conditor coloniae21.
La scoperta della base commemorativa per Tito Annio viene anche opportunamente a smentire l’opinione che vi sarebbe stato scarso interesse da parte
dei magistrati romani a entrare nella terna incaricata del supplementum, perché
il patronato sulla colonia sarebbe stato riservato ai primi fondatori22. È ben
vero che, a differenza di quanto sappiamo sul rango degli altri triumviri coloniae deducendae della prima metà del II sec. a.C., inclusi quelli che dedussero
Aquileia nel 18123, la terna del 169 appare meno prestigiosa, giacché nessuno
dei triumviri del 169 figura essere stato in precedenza un magistrato di rango
elevato (nessuno dei tre, infatti, aveva ancora rivestito la pretura24), ma proprio
il nuovo monumento aquileiese e l’identificazione del triumviro con il T. Annius
pretore del 156 e console del 153 permettono di valutare meglio l’interesse dei
commissari a crearsi delle nuove clientele nelle colonie grazie alle quali consolidare la propria carriera politica25. La scelta dei triumviri coloniae deducendae
era, infatti, di primaria importanza sia per le operazioni complesse inerenti alla
deduzione delle colonie sia per il rapporto di patronato ereditario, e quindi
Vd. rispettivamente Seibert 1972, 70; Tiussi 2009, 336.
Da ultimo Bandelli 2013a, 44-45.
20
Coles 2009, 88 n. 67.
21
Così, ad es., Tommaseo 1999. Vd. già Bandelli 1988a, 34.
22
Così Coles 2009, 88 n. 68, che però non conosce il monumento di Tito Annio.
23
Bandelli 1998a, 150.
24
Bispham 2007, 155; Coles 2009, 88 n. 68. In generale Gargola 1995, 60-63.
25
Così Bertrand 2012, 47-48, che cita a confronto la carriera di T. Quinctius Flamininus, che condusse nel 199 un supplementum di coloni a Cosa e a Narnia e nel 198 fu eletto al
consolato.
18
19
523
claudio zaccaria
d’interessi reciproci duraturi, che si instaurava tra i fondatori e i cittadini della
nuova comunità26.
La tipologia del monumento e dell’iscrizione
Il blocco in calcare, che si presenta privo del basamento e del coronamento e
di una buona porzione della parte posteriore, è decorato su tre lati con un fregio
dorico non canonico, a metope lisce, privo della regula e delle guttae e raccordato con il corpo del dado da una sorta di modanatura costituita da tre listelli
lisci; da notare l’anathyrosis sulla faccia superiore, su cui doveva essere fissato
un plinto atto a reggere un monumento equestre27. L’opinione unanimemente
condivisa che si tratti di un cospicuo frammento di una base di statua onoraria o commemorativa è stata recentemente messa in discussione da Cristiano
Tiussi, che, proponendo un confronto tipologico con l’altare del santuario di
Giunone a Gabii ricostruito da Filippo Coarelli, dedicato forse proprio da quel
M. Cornelius Cethegus che fu collega di Annio nel triumvirato aquileiese28, ritiene che non sia da escludere la possibilità che anche il nostro monumento sia in
realtà parte di un’ara eretta in occasione della dedica dell’aedes che vi è menzionata29. Se però le dimensioni del manufatto (peraltro incompleto) e la presenza
della decorazione con fregio dorico, diffusa nel II sec. a.C. in questa tipologia
monumentale, potrebbero consentire teoricamente l’identificazione con un
altare, l’ipotesi – come osservato correttamente dallo stesso Tiussi – trova un
forte ostacolo nel testo dell’iscrizione, che non può essere messo in relazione
con la dedica dell’aedes30. Il formulario impiegato, infatti, con l’attacco enfatico
col pronome ‘is’, a indicare la presenza concreta del personaggio rappresentato
Galsterer 2006b, 13.
Zaccaria 1996, 179-180; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 130-131. Sulla tipologia delle iscrizioni onorarie o commemorative ad Aquileia vd. Zaccaria 1999, 197-198.
28
Coarelli 1982, 126, fig. 1.
29
Tiussi 2009a, 393-394 e 409, figg. 4-5. La possibilità che si trattasse di un’ara fu avanzata
confusamente anche in Fontana 1997, 169 e n. 830, che però nel testo parla di «un’ara di
forma quadrangolare probabilmente celebrativa e non votiva» e in nota definisce il supporto
«base quadrangolare».
30
Così, a ragione, Bertrand 2012, 47: «Il ne s’agit pas de la dédicace de l’aedes»; escludono che le leggi menzionate nell’iscrizione si possano riferire al tempio David 2006, 725;
Kremer 2007, 57 n. 80.
26
27
524
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
nella statua posta sopra l’iscrizione, è quello tipico della rinnovata sensibilità per
l’elogium in epoca tardorepubblicana. Quello di Tito Annio, a giudizio di Silvio
Panciera (che definisce il monumento «base con statua»)31, ne rappresenta
uno degli esempi più antichi, tanto da poter essere considerato, come osservato
da Gino Bandelli, «il primo elogium di un esponente politico della Repubblica scoperto al di fuori dell’Urbs»32. Coerenti con la tipologia degli elogia sono
anche l’impaginazione del testo, che presenta una struttura paragrafata, ottenuta per mezzo dell’emarginazione a sinistra della prima linea di scrittura e l’incolonnamento verticale delle successive33, e gli evidenti arcaismi sia formulari sia
morfologici: tri vir, hance, faciundam dedit, composivit, coptavit34.
La datazione e la committenza del monumento
Fin dalla prima edizione del monumento ci si è posti la questione se esso fosse
stato eretto con intento autocelebrativo per iniziativa dello stesso T. Annius a
conclusione delle operazioni menzionate nell’iscrizione35 (con un ipotetico
terminus post quem al 158 a.C., considerando, come vedremo più avanti, che le tre
integrazioni del senato locale dovrebbero coincidere con tre successivi censimenti romani) oppure se si dovesse pensare a una commemorazione in epoca successiva, ma, in base alle caratteristiche del monumento, comunque entro il secondo
secolo a.C.36. Questa seconda ipotesi è stata sostenuta fortemente fin da subito da
Gino Bandelli, che, come aveva già proposto per la base di L. Manlius Acidinus37,
Panciera 2007, 1101 n. 71. Un richiamo al formulario degli elogia già in [Maselli
Scotti -] Zaccaria 1998, 134; Tommaseo 1999.
32
Bandelli 2008, 50-51.
33
Zaccaria 1996, 180, e [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 132, con rimando a
Panciera 1995, 333-334. Vd. anche Zaccaria 1999, 198.
34
Già evidenziati in Zaccaria 1996, 180; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 132.
35
Ipotesi non del tutto esclusa ancora in Panciera 2007, 1101 n. 71; per una data post
158, ma ante 156 e 153, per la mancata menzione della pretura e del consolato, vd. Lackner
2008, 33-34.
36
Zaccaria 1996, 183; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 141-142; l’alternativa è
riproposta in Scuderi 2008, 241.
37
Bandelli 1988a, 74-75; Bandelli 2013b, 187-188. Vd. anche Wachter 1987, 277 n.
687; Sehlmeyer 1999, 111, nr. 5. Data la base al più presto una quindicina d’anni dopo l’invio del supplementum Bispham 2006, 81 e 131 n. 45; Bispham 2007, 155; vd. anche Coles
2009, 88 n. 67.
31
525
claudio zaccaria
ritiene che si tratti di monumenti commemorativi commissionati parecchio
tempo dopo gli avvenimenti cui si riferiscono e data l’iscrizione di Acidinus
verso la metà del II sec. a.C. e l’iscrizione di T. Annius tra il 130 e il 120 a.C.,
osservando che quest’ultima e quella aquileiese di Sempronius Tuditanus (cos.
129) potrebbero essere uscite, anche se non contemporaneamente, dalla medesima officina lapidaria38. Un’attenta osservazione della faccia superstite della
base di Manlio Acidino può suggerire un ulteriore argomento riguardo all’occasione delle dediche: essa presenta, infatti, tracce di rilavorazione nella parte
superiore, tanto che si è ipotizzato che fossero state scalpellate alcune righe di
scrittura39. Come ho già osservato in occasione della prima pubblicazione del
monumento di T. Annius, è abbastanza evidente che a essere scalpellata è stata
invece un’originaria decorazione della parte superiore della base, di cui si possono ancora riconoscere le tracce dei triglifi e delle metope di un fregio dorico40.
Viene da chiedersi se i due monumenti non siano il prodotto di un’iniziativa
intesa a celebrare contemporaneamente i due personaggi in un’occasione che
non siamo in grado di precisare o, in alternativa, poiché la scelta stilistica del
testo delle dediche è differente, se per i monumenti ufficiali da esporre nel foro
cittadino a ricordo dei fondatori-patroni fosse stata scelta la medesima tipologia
di monumento in momenti diversi, ma non molto distanti tra loro41. Se accettiamo l’ipotesi che T. Annius triumviro sia lo stesso che fu console nel 153 e che
egli fosse ancora in vita almeno fino al 133 a.C.42 e consideriamo che l’elogium,
come sarebbe da aspettarsi, sia stato redatto dopo la morte del personaggio43,
a commemorare i suoi meriti nei confronti della colonia di Aquileia, possiamo confermare le motivazioni dell’erezione del monumento proposte da Gino
Bandelli: «in momenti diversi … personaggi appartenenti alla comunità locale
Bandelli 1998b, 36; Bandelli 1999, 290; Bandelli 2002, 60-61. Vd. anche Bandelli - Chiabà 2005, 442-443; Chiabà 2009, 11-12; Bandelli 2013b, 188. Una datazione su
base paleografica tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. è suggerita anche in Donati 2009, 82
ed era già contemplata come eventualmente possibile in Zaccaria 1996, 180. Sull’iscrizione
di Tuditano vd. Bandelli 1989.
39
Bandelli 1984, 190-194; Verzár-Bass 1984, 228; Denti 1991, 71.
40
Zaccaria 1996, 184; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 142-143 n. 106.
41
Si veda, ad esempio, la serie di basi tardorepubblicane di senatori e magistrati municipali,
tutte stilisticamente coerenti, in Buora 2001; Bandelli 2013b, 191-195.
42
Galsterer 2006a, 53: «cos. 153 und noch 133 unter den Lebenden». Vd. anche
Bispham 2007, 155: «Annius might still have been alive in the 130s».
43
Bandelli 1999, 290.
38
526
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
Base commemorativa di L. Manlius Acidinus.
Base commemorativa di T. Annius Luscus.
527
claudio zaccaria
o di provenienza esterna (o gli uni e gli altri assieme), legati in qualche modo ai
due patroni, si fecero promotori del loro ricordo», mantenendo anche per le
due iscrizioni, in linea di massima, le datazioni proposte dallo studioso, senza
comunque arrivare all’ultimo quarto del secondo secolo44. L’iniziativa potrebbe
comunque essere attribuita anche al senato aquileiese che potrebbe aver deliberato di far erigere i monumenti per ricordare i triumviri fondatori45.
Le attività del triumviro per l’avvio della colonia
È sempre più evidente l’importanza del patrimonio epigrafico di Aquileia fin
dai primordi della colonia latina. La base di statua di Manlio Acidino presenta, infatti, com’è stato osservato, il primo documento contemporaneo che fa
riferimento a una ‘colonia’46. Quella di Tito Annio riporta per la prima volta la
testimonianza epigrafica di alcune delle attività svolte nella colonia da uno dei
triumviri, finora ricostruibili solo indirettamente attraverso testi tardorepubblicani47, che comunque mai forniscono testimonianze riguardanti i rituali di
fondazione48.
Da notare che l’epigrafe riporta, nella forma dell’elogium, esclusivamente una
serie di benemerenze di T. Annius verso la colonia di Aquileia:
- la costruzione e la dedica di un’aedes;
- la redazione e la consegna alla comunità coloniaria di un nuovo corpus di
leggi;
- una triplice lectio senatus.
Non vi è alcun riferimento ad altre funzioni connesse con l’inserimento
nel corpo civico di nuovi coloni, tra cui la più importante doveva essere una
nuova assegnazione di terreni49. Ciò ha indotto a formulare l’ipotesi che alcu«The open ‘P’ might suggest a date before the last quarter of the century»: Bispham
2007, 155 n. 193.
45
Bertrand 2012, 47-48.
46
Bispham 2006, 81 e 131 n. 45, ripreso in Coles 2009, 7-8.
47
Discussione e bibliografia in Zaccaria 1996, 181; [Maselli Scotti -] Zaccaria
1998, 134 e n. 71; Zaccaria 2003, 297-298 n. 53.
48
Ando 2011, 433-435; vd. anche Grüll 2013, 54 n. 66, che pensa anche a un allargamento del pomerium.
49
Gordon 2003, 221.
44
528
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
ne azioni fossero svolte in comune dalla commissione e altre fossero esercitate
dai singoli triumviri50 e che vi fosse, pertanto, a livello operativo una divisione
delle competenze tra i tre commissari incaricati del supplementum: T. Annius
avrebbe avuto competenza sull’organizzazione spaziale e monumentale del
centro urbano e in particolare sulla sistemazione degli edifici pubblici dell’area
forense51. Una tale organizzazione è stata già supposta da Maria José Strazzulla,
che propose di attribuire a M. Cornelius Cethegus (collega di T. Annius Luscus
nella commissione incaricata del supplementum) la sistemazione idraulica del
territorio di Aquileia52. Non abbiamo, invece, ulteriori informazioni sull’eventuale attività ad Aquileia del terzo commissario indicato da Tito Livio,
P. Decius Subulo53.
Inoltre è stato notato, e ciò è stato indicato come un’eventuale argomento a
sostegno di una datazione del monumento a un momento anteriore alla pretura
di Tito Annio54, che nell’iscrizione non vi è neppure menzione delle altre cariche
rivestite in precedenza, come l’ambasceria presso Perseo nel 172, o in seguito,
come la pretura del 156 e il consolato del 15355. Ma va invece riconosciuto che ciò
rispecchia perfettamente la prassi formulare delle iscrizioni romane di età repubblicana e in particolare lo stile degli elogia, che non propongono sistematicamente le tappe del cursus dei personaggi onorati, limitandosi a segnalare l’occasione
della dedica o le particolari benemerenze che hanno suggerito le onoranze56.
Tito Annio venne dunque commemorato esclusivamente per le attività edilizie, legislative e censorie svolte nella riorganizzazione della colonia latina di
Aquileia57, che vengono a integrare le informazioni finora note dalle fonti sulle
reali funzioni dei triumviri coloniae deducendae58.
David 2006, 724.
Tiussi 2009, 393.
52
Strazzulla 1989, 216-217.
53
Tiussi 2009, 336. Probabilmente da identificare con il P. Decius che nel 168 portò a
Roma la notizia della sconfitta degli Illiri e della cattura di Genzio: Liv. XLV 3, 1, vd. Briscoe
2012, 446.
54
Zaccaria 1996, 183; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 142; Vedaldi 2003,
126; Lackner 2008, 33-34.
55
Tommaseo 1999; Bispham 2007, 155 n. 193.
56
[Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 142 n. 103, con rimando a Wiegels 1982,
166-167. Vd. in generale Panciera 2007.
57
Laffi 2001, 171; Bandelli 2002, 60-61; Steuernagel 2004, 121; David 2006, 724;
Kremer 2007, 57; Berthelet 2013, 102-103.
58
Su cui vedi Gargola 1995.
50
51
529
claudio zaccaria
hance aedem faciundam dedit dedicavitque
L’iscrizione aquileiese con la menzione della costruzione e della dedica di
un’aedes conferma il ruolo, già messo in luce riguardo ad altre fondazioni del II
secolo a.C.59, svolto dai triumviri nella costruzione degli edifici templari urbani
delle colonie60, e sembra esserne la testimonianza documentale più antica61.
Come già in precedenza osservato, la formula riassume in sé, indicando il
primo e l’ultimo, tutti gli atti compiuti dal magistrato, dalla delibera formale che
ha dato avvio alle procedure per la costruzione del tempio, dalla scelta della sua
ubicazione, la presa degli auspici (inauguratio), l’appalto (locatio), fino al collaudo (probatio) e alla consacrazione alla divinità (dedicatio)62. Se, come è probabile, egli agì come triumviro, la costruzione dell’aedes dovrebbe essere posta verso
la fine del triennio 169-16763. Il testo dell’iscrizione non fornisce alcuna informazione sulla provenienza della somma necessaria al finanziamento del tempio.
Basandosi sull’uso comune del verbo ‘dedit’ e al confronto con la costruzione del
tempio di Luni, realizzato con il sostegno finanziario e con le maestranze fornite
da M. Aemilius Lepidus, fondatore della colonia64, alcuni studiosi propendono
per un simile atto di evergetismo anche da parte di T. Annius, che avrebbe sostenuto le spese ‘pecunia sua’ 65. Ci si aspetterebbe, però, che di ciò si facesse menzione in una dedica posta a commemorazione delle benemerenze del personaggio.
Va inoltre notato che la rara formula ‘faciundam dedit’, in sé indizio di una data-
Si rimanda al caso del Capitolium di Luna attribuito a M. Aemilius Lepidus (su cui
Coarelli 1985-87, 30): vd. Bandelli 1998b; Bandelli 1999, 91; Tiussi 2006, 368;
Tiussi 2009a, 393 n. 28.
60
Zaccaria 1996, 181-182; [Maselli Scotti-] Zaccaria 1998, 135-138; Nonnis
2003, 28 n. 15 e App. nr. 235; Bispham 2007, 155; Tiussi 2009a, 393; Giovannini 2010,
77; Ando 2011, 433-435; Bertrand 2012, 47-48; Murgia 2013, 258.
61
Bertrand 2012, 47-48.
62
Zaccaria 1996, 181-182; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 135-136;
Giovannini 2010; Bertrand 2012, 47-48.
63
Zaccaria 1996, 182; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 137; Bertrand 2012,
47-48. Per la durata triennale del mandato vd. Liv. XXXIV 53, 2: His deducendis triumviri
creati quibus in triennium imperium esset.
64
Vd. n. 58 e inoltre La Rocca 1983, 642.
65
Bertrand 2012, 47; vd. anche Bispham 2007, 155: «temple, which T. Annius paid for
and dedicated».
59
530
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
zione ancora entro il II secolo a.C.66, fa in realtà riferimento alla procedura che
ha dato origine alla costruzione, deliberata dal triumviro, magistrato dotato di
imperium e quindi provvisto anche di un potere delegato dal senato romano ad
emettere provvedimenti legislativi (dicere legem)67.
È certamente possibile che la realizzazione dell’edificio sacro sia da mettere
in relazione a un voto fatto da T. Annius a Roma prima di partire per la colonia68.
In questa occasione il triumviro dovrebbe anche aver scelto la divinità titolare
del futuro tempio, che allo stato attuale della documentazione rimane per noi
sconosciuta. In merito, per lo più in base alla suggestione dei pochi confronti
noti69, sono state avanzate in questi anni diverse proposte70: fermo restando che
doveva trattarsi del tempio principale della colonia, e quindi dedicato alla divinità poliade71, per alcuni si doveva trattare fin dall’inizio del Capitolium della
colonia72, qualcuno ha pensato anche a Concordia73 o Bona Mens74. Ma allo stato
attuale tutte queste proposte rimangono speculazioni non fondate su documentazione certa.
La scoperta della base di T. Annius ha anche riaperto il problema della collocazione originaria e della datazione dei frammenti di sculture in terracotta rinvenute in giacitura secondaria in località Monastero, a nord-est di Aquileia, di cui
finora era comunemente accolta l’attribuzione al tempio suburbano al Timavo a
cui doveva appartenere anche la tabula triumphalis di C. Sempronius Tuditanus
La costruzione faciundum dare sembra ricorrere nelle fonti letterarie ed epigrafiche non
oltre il II secolo a.C., sostituita poi da faciundum curare (Poccetti 1980).
67
Vd. Bispham 2007, 155 n. 190, che per la costruzione del tempio ipotizza una lex dicta,
con riferimento a Tibiletti 1955.
68
[Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 136; Giovannini 2010.
69
Ma vedi Ando 2011, 434: «it is by no means obvious that the tutelary deities of all
colonies were – or could be – the same».
70
Sintesi e bibliografia in Tiussi 2009, 394 n. 36; Giovannini 2010, 78; Murgia 2013,
35 nn. 154-155.
71
Fontana 2004, 412; Steuernagel 2004, 121; Steuernagel 2011, 70; Murgia
2013, 35 e 258-259.
72
Strazzulla 1987, 93-94; così, più prudentemente, anche Steuernagel 2004, 121.
Secondo Fontana 2004, 412, una possibile intitolazione del tempio principale della colonia alla Triade capitolina sarebbe invece avvenuta solo nel I sec. a.C.; per la diffusione tarda dei
Capitolia vd. anche Ando 2011, 434.
73
Verzár Bass 2000, 171.
74
Tiussi 2009a, 394.
66
531
claudio zaccaria
(cos. 129)75. Per questi materiali, infatti, è stata recentemente proposta una datazione più alta, da contenere in un lasso di tempo tra la fondazione della colonia
e la metà del II sec. a.C.76, e non viene esclusa la possibile appartenenza, in toto
o almeno in parte, alla decorazione del tempio fatto costruire da T. Annius77.
Ciò presupporrebbe, naturalmente, uno spostamento in antico dall’area forense al luogo del ritrovamento, non documentabile né facilmente spiegabile78. La
questione rimane pertanto sostanzialmente irrisolta79.
Più plausibile, invece, potrebbe essere l’attribuzione al tempio di T. Annius
dei frammenti di alcune lastre di rivestimento e antefisse, di un fregio con scena
di battaglia equestre e di due figure fittili (frontonali?) con tracce di colore,
trovati a varie riprese nell’area forense, che dovrebbero essere riferite ragionevolmente a un edificio cultuale del II secolo a.C. posto nella piazza80.
Nessuna evidenza archeologica permette di individuare con certezza la
collocazione topografica dell’aedes dedicata da T. Annius. In merito sono state
formulate diverse ipotesi, quasi tutte convergenti nell’indicare come il luogo più
probabile per l’erezione di quello che viene considerato con tutta probabilità il
più importante edificio sacro delle prime fasi della colonia il lato occidentale
del foro di Aquileia, l’unico ancora non compiutamente indagato archeologicamente81. È stato inoltre proposto, in base al confronto con l’organizzazione spaziale di altre colonie (Fregellae, Paestum, Cosa, Alba Fucens), che l’aedes
dovesse trovarsi in significativa prossimità topografica e concettuale del Comitium, individuato nell’angolo nordoccidentale della piazza82. Rimane isolata
l’ipotesi di una possibile ubicazione del tempio nel settore nordorientale del
Strazzulla 1987, 75-78; Bandelli 1989; Strazzulla 1990, 296-299.
Verzár Bass 1991; Fontana 1997, 76-77; Fontana 2004; Verzár Bass 2005,
43-44, Känel 2005, 90.
77
Maselli Scotti 2003, 112-113; Maselli Scotti et alii 2003, 652-653; Känel
2005, 90.
78
Fontana 2004, 411-412.
79
Verzár Bass 2006, 427-428; Tiussi 2009, 396-397; Murgia 2013, 270-271.
80
Strazzulla 1987, 94 e 124-125, nrr. 92-93; Fontana 1997, 76 -77 e 210-211, nrr.
39e-f ; Fontana 2006, 324; Tiussi 2006, 368; Tiussi 2009, n. 37; Giovannini 2010, 78.
81
Maselli Scotti [- Zaccaria] 1998, 119 e 135-136; Zaccaria 1999, 77; Maselli Scotti 2002, 59; Steuernagel 2004, 121; Fontana 2004, 41; Tiussi 2006, 369;
Bandelli 2006, 368; Maselli Scotti et alii 2007, 35; Tiussi 2009, 394; Giovannini
2010, 78. Dubbi su questa collocazione in Verzár-Bass 2006, 428.
82
Discussione e rimandi bibliografici in Tiussi 2006, 369; Tiussi 2009, 394.
75
76
532
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
foro suggerita ipoteticamente da Eva-Maria Lackner nella sua monografia sui
fora di età repubblicana83.
In occasione della prima pubblicazione del monumento di T. Annius ho
suggerito che l’aedes potesse aver servito nei primi tempi anche per le riunioni
del senatus aquileiese, secondo una prassi ben documentata nella tarda repubblica e agli inizi dell’impero per le riunioni solenni degli ordines nei municipi e
nelle colonie e a Roma stessa84. L’ipotesi, che è stata in seguito ripresa da parecchi studiosi85, si basava sulla constatazione che all’epoca della costruzione dell’aedes non sembrava fossero già presenti ad Aquileia gli edifici specifici riservati
alle manifestazioni della vita politica, vale a dire il Comitium e la Curia. I resti di
un fabbricato a muri concentrici individuato al limite nord-occidentale dell’area
forense e correttamente riconosciuto come il Comitium venivano, infatti, datati
verso la metà o nella seconda metà del II sec. a.C. 86. Recentemente, però, Cristiano Tiussi, pur ammettendo che «gli scavi non hanno fornito elementi datanti»,
ha sostenuto che il Comitium aquileiese dovrebbe avere una datazione più alta87,
perché, in generale, per la loro «funzione simbolica di centro della vita politica e
amministrativa … i Comitia sarebbero stati costruiti proprio all’indomani della
deduzione coloniaria»88. Partendo da questo assunto «non sarebbe necessario
pensare che nella colonia di Aquileia il luogo di riunione del senato locale fosse
costituito in un primo momento da un edificio diverso dal Comitium»89. Anche
se in base al confronto con altre realtà coloniarie è senz’altro possibile pensare,
ma è tutt’altro che dimostrato, che al momento della costruzione dell’aedes di
T. Annius fosse già presente ad Aquileia il Comitium, va però ricordato, come
Lackner 2008, 34.
Zaccaria 1996, 182; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 137; vd. anche Zaccaria
2003, 301 n. 41.
85
Gordon 2003, 221; Steuernagel 2004, 121; Galsterer 2006a, 53-55; Lackner
2008, 34; Bertrand 2012, 47-48.
86
Bertacchi 1989, 86, tavv. I, VI; Bertacchi 1991, 16-17 e 19; Bertacchi 1995,
143, tav. II, 1; 145-146, fig. 1; Grassigli 1994, 81; Maggi 1999, 22. Vd. anche Maselli
Scotti - Zaccaria 1998, 118-119, fig. 1 e 137; Zaccaria 2003 n. 39; Bandelli 2006,
360; Lackner 2008, 33.
87
Tiussi 2006, 335-336; Tiussi 2009a, 393-394. Vd. anche Maselli Scotti et alii
2007, 35-38.
88
Tiussi 2006, 336.
89
Tiussi 2006, 362 n. 53; vd. anche Murgia 2013, 35 n. 149, con parecchie imprecisioni
nel riferire l’ipotesi di partenza e qualche fraintendimento sui termini della discussione.
83
84
533
claudio zaccaria
è stato correttamente osservato, che questo è il luogo di riunione delle assemblee popolari e che comunque non abbiamo alcuna evidenza della contemporanea presenza della Curia, l’edificio riservato alle riunioni del senatus90. Non è
pertanto affatto da escludere, considerando che vi sia coerenza tra le azioni di
T. Annius menzionate nell’iscrizione, che vi potesse essere uno stretto legame
tra la costruzione di un’aedes, luogo inaugurato, la consegna delle leggi all’assemblea legislativa e l’attività censoria del triumviro, che avrebbe offerto alla
comunità un edificio sacro adatto anche ad accogliere atti pubblici importanti
per la costituzione della colonia91.
L’iscrizione sulla base, oltre a indicare chiaramente tramite il pronome ‘is’
il personaggio rappresentato sulla statua sovrastante, suggeriva di rivolgere lo
sguardo all’edificio templare (hance aedem) che si doveva trovare nel campo visivo di chi osservava il monumento, mettendo questo immediatamente in associazione con quello92; non è però necessario pensare che la statua si trovasse nel
tempio stesso93.
Se, come abbiamo illustrato sopra, l’edificio templare dedicato da Tito Annio
deve essere identificato con il tempio principale della colonia ed è assolutamente
probabile che esso fosse edificato sul foro, anche la statua a cui appartiene la base
che commemora come prima azione del triumviro l’erezione dell’aedes doveva
trovarsi in origine nello stesso luogo. È legittimo pensare che il blocco, probabilmente riutilizzato dopo l’abbandono del foro, non sia rimasto per secoli esattamente nello stesso posto e che nella tarda antichità non si trovasse in stretta
relazione con l’edificio templare forense94. Possiamo però ragionevolmente ritenere, proprio considerando il luogo di rinvenimento, che il monumento, come
anche quello in ricordo di L. Manlius Acidinus, si trovasse nell’area del foro fino
alla tarda antichità. Confortano questa opinione le testimonianze relative alla
conservazione delle memorie civiche ricavabili dalle indagini nell’area, a cui si
aggiunge il confronto con quanto è emerso a Luni, dove il triportico annesso
Steuernagel 2004, 121; Lackner 2008, 34.
Vd. da ultimo Lackner 2008, 34; Bertrand 2012, 48.
92
Tiussi 2006, 369; Bispham 2007, 155; Giovannini 2010, 76; Steuernagel 211,
70; Bandelli 2013b, 189.
93
Così Gordon 2003, 221: «a statue that originally stood in the aedes, the foundational
temple of the colony»; David 2006, 724: «le temple où l’inscription était érigée».
94
Vd. Verzár Bass 2006, 427-428; Steuernagel 2111, 70.
90
91
534
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
al Capitolium svolgeva il ruolo di archivio visivo della colonia e conservava le
statue dei conditores coloniae95.
leges composivit deditque
L’iscrizione è il più antico testimone epigrafico di quanto già ricavabile da
un problematico passo di Livio96 e cioè l’attribuzione ai triumviri del potere
di dettare leges coloniae97. Finora ciò era stato solo supposto dagli studiosi per
analogia con quanto noto per le colonie romane e per le comunità peregrine98. Il
potere di dare leges era conferito in base a una lex curiata de imperio conseguente
a una serie di atti formali che comportavano una delibera del senato e un plebiscito che davano avvio alle procedure di deduzione della colonia. Lo stesso valeva nel caso di un supplementum. L’arrivo di nuovi coloni, infatti, doveva rendere
necessaria una revisione della costituzione cittadina: la rifondazione non era,
infatti, solo simbolica, ma comportava una serie di rilevanti problemi giuridici
ed economici, in primo luogo il rapporto tra i vecchi e i nuovi coloni, in particolare la loro ridistribuzione nelle classi di censo e nel senato, e concretamente
la riassegnazione delle terre della colonia99. Non è pertanto necessario pensare
che la colonia di Aquileia non avesse ancora uno statuto a più di dieci anni dalla
sua fondazione100, ma è di estremo interesse notare che questo statuto fu effettivemente rinnovato in occasione del supplementum. Certamente il triumviro
godeva di una certa autonomia nella redazione della legislazione coloniale, ma
è molto probabile che egli seguisse un modello tipo di costituzione elaborato a
Roma e validato da una lex rogata101, il che portava il fondatore (o il rifondatore)
della colonia a incorporare nella lex data coloniae gli elementi fondamentali del
[Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 143, con rimando a Rossignani 1995, 453,
ove la bibliografia precedente. In generale sul foro aquileiese come luogo della esposizione delle
memorie civiche vd. Zaccaria 2000.
96
In particolare Liv. IX 20, 10: [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 138 n. 86; Bandelli - Chiabà 2005, 442-443; David 2007, 727.
97
Richiamano questo aspetto Tommaseo 1999; Valvo 2001, 154; Gordon 2003, 221.
98
Vd. Zaccaria 2003, 298 n. 57, con la bibliografia specifica.
99
David 2006, 724-727.
100
Galsterer 2006a, 53-55.
101
Mainino 2004, 171-172.
95
535
claudio zaccaria
diritto romano102. Un tale procedimento di assemblaggio di norme generali e
di clausole particolari sembrerebbe ben espresso dalla formula leges composivit,
che non sembra pertanto scelta casualmente rispetto ai più usuali leges scribere o
conscribere103. Va comunque sottolineato che è proprio il possesso di una costituzione propria che rende autonome le colonie latine rispetto a Roma104.
senatum ter coptavit
La formula conferma quanto già si sapeva dall’iscrizione relativa alla costruzione del diverticulum della via Postumia (post 148 a.C.)105 e cioè che l’istituzione di governo era definita senatus anche nella colonia latina di Aquileia106. Si ha,
inoltre, una testimonianza certa che nelle colonie latine la prima lectio senatus
era compito dei triumviri fondatori107, come già si poteva dedurre dall’iscrizione
relativa alla costituzione della colonia di Brindisi nel 230 a.C.108.
Non sembra più proponibile l’ipotesi, a suo tempo prospettata come possibile, che T. Annius abbia operato un rinnovamento del senato per tre anni
successivi durante il suo mandato di triumviro109. Dato che sembra ormai assodato, sulla scorta della già citata iscrizione di Brindisi, che questi rinnovi hanno
seguito anche nelle colonie latine la cadenza del censo romano110, la prima lectio
da parte di T. Annius dovrebbe aver avuto luogo, tenendo conto del necessario
scarto temporale tra la redazione delle liste nella colonia e l’anno del lustrum a
Roma111, tra il 169 e il 168 in previsione del census del 168, cioè praticamente
Kremer 2007, 58 e 91-95: Berthelet 2013, 102 n. 82.
Kremer 2007, 58; composivit trova riscontro epigrafico solo nel composeiverunt della
sententia Minuciorum del 117 a.C.: vd. Bispham 2007, 156 n. 190.
104
Ando 2011, 433-435.
105
CIL, V 8313 = CIL, I2 2197 = ILS 5366 = ILLRP 487a = Degrassi, Imagines 208 =
InscrAq 53; Bandelli 1984, 216, nr. 5: de senatous sent(entia).
106
Per la lista delle colonie latine dotate di un senatus vd. Kremer 2007, 72.
107
Bandelli - Chiabà 2005, 443 n. 18. Da ultimo Kremer 2006, 231; Kremer 2007, 86.
108
Gabba 1958 (AEp 1954, 216: primus senatum legit); vd. Crawford 1998. Vd. anche
Zaccaria 2003 n. 29.
109
Zaccaria 1996, 183; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 140; Gordon 2003,
221; ancora Berthelet 2013, 102 n. 82. Si vedano già le riserve in Tommaseo 1999.
110
Fonti e discussione in Kremer 2006, 629-631.
111
Briscoe 2012, 446. Vd. anche Lo Cascio 1990.
102
103
536
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
subito dopo l’arrivo e la sistemazione dei nuovi coloni nelle liste cittadine, e le
due lectiones seguenti saranno state realizzate rispettivamente tra il 164 e il 163
e tra il 159 e il 158112. Quindi T. Annius avrebbe dunque potuto agire come
triumvir solo per la prima delle tre lectiones; deve essere pertanto intervenuto
nelle due tornate successive in qualità di patrono della colonia113.
Quanto al fatto che ad Aquileia uno solo dei magistrati incaricati del supplementum operasse la lectio del senato locale, è stato osservato che la situazione
è comparabile a quella dei censori a Roma, i quali procedevano insieme nelle
operazioni di censimento e nella redazione delle liste, ma uno solo poteva ritualmente lustrum condere, dando così validità giuridica al censimento114. Naturalmente provvedendo al rinnovo del senato nella sua pienezza il triumviro / patrono dotava la colonia di un organo istituzionale con efficacia giuridica e garanzia
di continuità115.
L’eventuale identificazione del triumviro con il costruttore della via Annia
Tra le attività del triumviro non risulta nell’iscrizione aquileiese la costruzione della via Annia116. Quest’omissione, come già notato sopra a proposito
della mancata menzione della pretura e del consolato, non è significativa, ma
può semplicemente dipendere dall’intenzione dei promotori dell’elogium di
elencare esclusivamente le benemerenze di T. Annius per l’avvio della vita istituzionale della colonia. Il nuovo testo, pertanto non contribuisce, né in positivo
Gordon 2003, 221. Vd. anche Bispham 2007, 155.
Galsterer 2006a, 53-55; David 2006, 724-725; Kremer 2006, 631 n. 34; Kremer
2007, 85 n. 256. Per confronti vd. Liv. IX 20, 10 (Anzio, 338 a.C.): Antiatibus qui sine legibus
certis, sine magistratibus agere querebantur, dati ab senatu ad iura statuenda ipsius coloniae patroni; Cic. Verr. II 2, 125 (Heraclea in Sicilia, 132 a.C.): Nam eo quoque colonos P. Rupilius deduxit,
legesque similis de cooptando senatu et de numero veterum ac novorum dedit. Vd. già Zaccaria
1998, 183; [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 138 n. 86. Sul passo relativo ad Antium vd.
Chiabà 2011, 81.
114
David 2006, 724-727, con rimando a Cic. div. I 102. Vd. Gargola 1995, 77-79;
Kremer 2007, 72.
115
Ando 2011, 435.
116
Bandelli 1999, 293; Zerbinati 2008, 606; Donati 2009, 81; Giovannini 2010,
24.
112
113
537
claudio zaccaria
né in negativo, a risolvere il dibattuto problema riguardo al costruttore di questa
strada117.
Sostanzialmente i problemi sono i seguenti118:
- se il caput viae, che ebbe sicuramente come punto terminale Aquileia, era
Adria, Padova oppure Bologna;
- se la via fu costruita dal console del 153 a.C., T. Annius Luscus (identico al
triumviro?) oppure dal console del 128 a.C., T. Annius Rufus, probabilmente
figlio del precedente, nel quadro degli impegni ereditari di patronato.
Non è qui luogo per riprendere in dettaglio la questione, che è stata riaperta a
seguito della recente pubblicazione di una pietra miliare rinvenuta a Codigoro –
e quindi a sud di Adria, da alcuni ritenuto il caput viae del tracciato per Aquileia
comunemente denominato via Annia – che reca l’iscrizione con la menzione
di un T. Annius T. f. co(n)s(ul)119. Credo che Angela Donati abbia ben mostrato che il cippo di Codigoro, come quello simile trovato a Sant’Onofrio (Vibo
Valentia), che menziona un T. Annius T. f. pr(aetor), vadano riferiti allo stesso
personaggio, da identificare con il T. Annius Rufus pretore nel 131 e console
nel 128 a.C., il quale avrebbe in entrambi i casi completato i due tracciati viari
iniziati da P. Popillius Laenas, console nel 132 a.C., a cui va attribuito un miliare
rinvenuto ad Adria120. Questi documenti potrebbero riferirsi alla costruzione
e/o al rifacimento del tracciato costiero da Rimini ad Adria, che oggi potremmo
chiamare a buon titolo via Popillia – Annia, in analogia con la cosidetta Popillia
– Annia meridionale, essendone documentati dai miliari i due successivi magistrati che si occuparono della costruzione tra il 132 e il 128 a.C. Rimane dunque
aperto il problema del costruttore del percorso interno, certamente denominato
via Annia in base alla menzione della via su epigrafi aquileiesi, che raggiungeva
Aquileia partendo almeno da Padova (o forse da Adria o Bologna). La letteratura più recente tende a individuarne il costruttore in T. Annius Luscus, pretore nel
156 e console nel 153, e in precedenza triumvir coloniae deducendae di Aquileia,
Diversamente Cresci Marrone 2000, 127-128 e Zampieri 2000, 46 n. 27, che ritengono probabilmente risolutiva l’iscrizione di T. Annius per l’individuazione del costruttore
della strada.
118
Bandelli 1998a, 151-152; Bandelli 1999, 293; sintesi e bibliografia precedente in
Via Annia 2004; Zerbinati 2007; Zerbinati 2008; Zerbinati 2007-09; Via Annia 2009;
Giovannini 2010, 23-25; Rosada 2010.
119
Donati 2009; Donati 2011; vd. anche Giovannini 2010.
120
CIL, V 8007 = CIL, I2 637 = ILS 5807 = ILLRP 453.
117
538
t. annivs t. f. tri(vm)vir e le prime fasi della colonia latina di aQuileia
piuttosto che in T. Annius Rufus, pretore nel 131 e console nel 128121. L’ipotesi,
molto ragionevole dal punto di vista di un efficace sistema di comunicazioni con
l’area veneta e emiliana di cui la colonia aquileiese aveva senz’altro bisogno per il
suo sviluppo (si pensi che la via Postumia fu costruita solo nel 148 a.C.122), non
è dimostrabile, ma non è neppure in alcun modo smentita dalla documentazione in nostro possesso. Se, invece, dovesse risultare che l’artefice della strada fu
T. Annius Rufus, rimarrebbe comunque valido il legame di patronato ereditario
del personaggio con la comunità aquileiese123.
Conclusione
L’iscrizione di T. Annius ci fa conoscere concretamente come, deliberando
un supplementum che assumeva le forme di una vera e propria rifondazione,
lo stato romano interveniva, peraltro su richiesta delle autorità della colonia e
quindi senza che ciò possa configurarsi in alcun modo come un’interferenza
negli affari interni di una comunità formalmente autonoma, per mezzo di magistrati dotati di imperium anche dopo la fondazione delle colonie latine124. Risulta anche evidente che ci voleva del tempo per comporre lo statuto della colonia e
per mettere gli organi politici in grado di funzionare nella pienezza dei poteri125.
A ciò mirano, infatti tutte le azioni elencate nell’elogium di T. Annius: la costruzione di un’aedes inaugurata, la redazione di un corpus di leggi, una reiterata
lectio senatus.126 Ci troviamo insomma in presenza di un influente personaggio
all’inizio della carriera, che a Roma aveva gli appoggi necessari per entrare nella
terna dei triumviri incaricati della fondazione di Aquileia ed agiva in colonia,
nel periodo del mandato e poi in qualità di patrono, come legislatore, censore ed
Vd. [Maselli Scotti -] Zaccaria 1998, 140-141 con la bibliografia precedente;
Bandelli 1999, 293. Recente sintesi in Zerbinati 2008, con altra bibliografia; vd. anche
Tiussi 2009a, 393 n. 28; Murgia 2013, 156 n. 956.
122
Sullo sviluppo della viabilità nella regione vd. Bandelli 2007.
123
Bandelli 1999, 293; Bandelli 2003, 64-67.
124
Berthelet 2013, 102 n. 82.
125
Bispham 2007, 156.
126
Bandelli - Chiabà 2005, 442-443.
121
539
claudio zaccaria
evergete, incidendo significativamente sull’organizzazione dello spazio religioso
della colonia e sulla formazione delle sue leggi e della sua classe politica127.
Insomma, come ha ben sintetizzato Jean-Michel David128, di fatto T. Annius
Luscus fu il nuovo fondatore della città di Aquileia e come tale venne commemorato. Possiamo immaginare che egli rinnovasse i riti di fondazione, con un
nuovo tracciato del pomerium e la redistribuzione delle terre, e sappiamo grazie
alla nuova iscrizione che procedette alla dedicatio di un edificio destinato alla
divinità poliade della colonia e soprattutto a consegnare alla città le leggi costituzionali che sancivano la fusione tra i due successivi contingenti di coloni in
una sola comunità. Dopo la rifondazione egli rimase il più importante patrono
della città influendo più volte nella formazione della classe politica con l’integrazione del senato. Non è da escludere che egli possa aver anche rivestito la
magistratura cittadina e quindi essere anche stato membro del senato locale129.
Una tale posizione, infatti, spiegherebbe meglio l’espressione coptavit riferita
alla scelta dei nuovi senatori operata «da un soggetto investito di pari o superiore dignità»130.
Bispham 2007, 156.
David 2006, 724-727.
129
Vd. Bandelli 2013a, 45 n. 42.
130
Vd. Tommaseo 1999.
127
128
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GIUSEPPE ZECCHINI
Pola e Cesare
La cronologia della fondazione di Pola come colonia romana si è progressivamente alzata: l’antica convinzione di A. Degrassi1, che la datava tra il 42 e il
41 subito dopo Filippi e ne attribuiva la denominazione Colonia Pietas Iulia alla
pietas di Ottaviano verso Cesare vendicato appunto a Filippi, venne demolita
dalle contemporanee e indipendenti osservazioni di L. Keppie e di A. Fraschetti, che nel 1983 optarono per una datazione al 46-45 e quindi per una fondazione cesariana2.
In particolare Fraschetti volle giustamente insistere su due punti: la pietas, sia
quella di Cesare, sia quella verso Cesare, è concetto e parola d’ordine tipica già
degli anni della dittatura, come ci è attestato soprattutto dalla monetazione del
48-463; i duumuiri attestati dall’iscrizione sulla Porta Erculea di Pola, L. Cassio
Longino e L. Calpurnio Pisone Cesonino, il suocero di Cesare, sono gli ecisti
della colonia stessa4.
La datazione cesariana sembra in ogni caso acquisita. Una decina d’anni
dopo, nel 1993, Ph. St. Freber nella sua monografia su Cesare, l’Oriente e l’Illirico collegava la fondazione di Pola e di altri municipi o colonie lungo la costa
orientale dell’Adriatico, per l’esattezza Salona, Narona ed Epidauro, alla volontà
di Cesare di mettere in sicurezza l’intera zona dalle incursioni dei Dalmati e di
altri barbari dell’interno: la loro funzione sarebbe stata, come è peraltro normale per le colonie di veterani, essenzialmente difensiva5. Infine nel 2001 M. Šašel
Degrassi 1942-43.
Keppie 1993, 203-204; Fraschetti 1983.
3
Fraschetti 1983, 86; cf. anche Galsterer-Kröll 1972, 65.
4
Fraschetti 1983, 91-94.
5
Freber 1993, 173 n. 862.
1
2
553
giuseppe zecchini
Kos ha scoperto a Bevke, a SO di Lubiana, un cippo confinario tra il territorio
di Aquileia e quello di Emona (= Lubiana), che dimostra inequivocabilmente
come il territorio di Aquileia si estendesse molto al di là di quanto prima supposto verso est e che il territorio di Emona era compreso nella regio X della Venetia
et Histria, e quindi in Italia, non in Pannonia6.
Mi pare allora lecito almeno porsi il problema se esiste un filo conduttore,
che ponga tra loro in relazione questi elementi sparsi, ma riguardanti la medesima area in un arco di tempo abbastanza ristretto.
Come è noto, il problema del confine nordorientale della penisola italiana e
quindi della provincia della Gallia Cisalpina angustiò Roma sin dagli inizi del
II secolo: la messa in sicurezza dell’inexsuperabilis finis7 fu perseguita attraverso la fondazione di Aquileia nel 181 e attraverso un’intensa attività di persuasione diplomatica presso le popolazioni transalpine del Norico: i re del Norico
come Cincibilo e Balano avrebbero dovuto esercitare un certo controllo anche
sui popoli dei Carni, degli Iapodi e degli Istri e garantire la rinuncia alle loro
incursioni nella pianura veneta8. La migrazione dei Cimbri e dei Teutoni verso
la fine del II secolo non ebbe forse conseguenze di lunga durata, ma certo rivelò
la fragilità di un equilibrio, che pure aveva retto per buona parte del secolo. È
inoltre possibile, anche se di incerta cronologia e quindi di difficile valutazione, che verso gli anni 60 del I secolo il re dace Burebista riunificasse sotto di sé
popolazioni transdanubiane e costituisse un potenziale pericolo per la provincia
romana di Macedonia e per il basso Illirico9.
Resta il fatto che l’ambizioso console del 59, C. Giulio Cesare, volle prefigurare un teatro di guerra, in cui la sua uirtus enitescere posset10 e in cui gli riuscisse
di eguagliare la gloria di Pompeo; perciò si fece assegnare da un tribuno di sua
fiducia, P. Vatinio, e forse dietro suo suggerimento, il proconsolato della Gallia
Cisalpina e dell’Illirico con tre legioni, che concentrò ad Aquileia11; l’aggiunta della Gallia Narbonense e di una legione a questo comando straordinario,
Šašel Kos 2002.
Liv. XXXIX 54, 12.
8
Cf. in particolare Alföldy 1974; Dobesch 1980 (= 1993); Dyson 1985, 62-72;
Zecchini 2009, 50-52.
9
Sulla cronologia di Burebista cf. infra n. 22, ma il suo collegamento agli anni 60 resta nella
più autorevole biografia di Cesare: Gelzer 1960, 78.
10
Secondo il celebre enunciato di Sallustio in Catil. 54, 4.
11
Caes. Gall. I 10, 3.
6
7
554
pola e cesare
ratificata dal senato su proposta di Pompeo12, non cambia certo il quadro delle
intenzioni di Cesare: egli puntava a una guerra di conquista a nordest, nel settore illirico-balcanico. La migrazione degli Elvezi gli offrì su un piatto d’argento
l’agognata occasione di una grande impresa militare, ma fu del tutto imprevista
e lo costrinse a cambiare precipitosamente i suoi piani e a spostare altrettanto
precipitosamente le sue truppe. Il coinvolgimento nelle Gallie fu quasi decennale e permise a Cesare solo brevi soggiorni in Cisalpina in tre occasioni, nell’inverno 57-56, nell’inverno 54-53 e nell’inverno 53-52, oltre che, come è ovvio,
nel 50, quando le operazioni militari in Transalpina erano cessate; il confine
orientale era divenuto secondario, era rimasto inevitabilmente sguarnito e le
tribù illiriche potevano approfittarne: i Pirusti saccheggiarono la zona di Narona nel 54, gli Iapodi nel 52 comparvero minacciosi nei pressi di Tergeste e di
Aquileia, i Dalmati strapparono ai Liburni Promona nel 50 e il distaccamento
inviato da Cesare per riprenderla fu distrutto senza che l’imminente guerra civile permettesse al proconsole qualsiasi reazione13.
In questa situazione i piani di conquista del 59 furono accantonati e sostituiti da provvedimenti esclusivamente difensivi: le fondazioni cesariane del 56
in Friuli, Iulium Carnicum14 e Forum Iulii (Cividale), forse anche quelle della
colonia di Tergeste e del municipio di A(e)gida nel 5215, infine quelle lungo la
costa dalmatica, Salona, Narona, Epidauro16, Butroto17, miravano a delineare
una catena di piazzeforti a protezione della pianura veneta e del mare Adriatico. Le vicende della guerra civile confermarono questa funzione sia in senso
positivo sia in senso negativo: nonostante il comandante pompeiano M. Ottavio ottenesse l’appoggio dei Dalmati, la colonia di Salona seppe opporre fiera
resistenza, che Cesare stesso celebrò, in un settore, quello nordadriatico, in cui i
cesariani raccolsero ben poche soddisfazioni fino alla pesante sconfitta subita da
A. Gabinio a Synodium nel 4718; invece la comunità degli Issei, che pure, tramite
Cic. Att. VIII 3, 3 (ille [i.e. Pompeius] Galliae ulterioris adiunctor); cf. anche Svet. Iul. 22, 1.
Pirusti nel 54: Caes. Gall. V 1, 5-9; Iapodi nel 52: App. Ill. 18; Dalmati nel 50: App. Ill. 12.
14
Su cui cf. Mainardis 2008.
15
Su cui cf. Fraschetti 1975.
16
Su cui Vittinghoff 1951, 1340-1341.
17
Su cui da ultimo Deniaux 2006.
18
Caes. civ. III 9 e Bell. Alex. 43, 2 (Salonam… oppidum maritumum, quod ciues Romani
fortissimi fidelissimique incolebant). Sulle operazioni in Adriatico tra il 49 e il 47 cf. Loreto
1994, 43-45 e 82-83, Marasco 1997 e Šašel Kos 2000, 284-286.
12
13
555
giuseppe zecchini
un’ambasceria dei Tragurini all’imperator Cesare nel marzo del 56, gli avevano
assicurato la loro salda amicizia ed alleanza col popolo Romano19, defezionò e
passò ai Pompeiani20: naturalmente per gli Issei si trattava di restare fedeli alla
Repubblica, ma Cesare vi ravvisò un tradimento, dovuto anche all’insufficiente
controllo dell’area da parte di insediamenti da lui promossi.
Su questo sfondo va inserita la fondazione di Pola nel 46-45; insieme col
probabile e coevo passaggio a municipia di Parentium e Nesactium21, essa intese completare o almeno inserire un ulteriore, significativo anello nella catena
difensiva che dal Friuli arrivava all’odierna Albania: così il confine nordorientale
d’Italia e l’intera costa adriatica venivano messi in sicurezza. Il completamento
della politica difensiva per proteggere il fianco orientale dell’Italia non era però
fine a se stesso, ma costituiva solo il primo tempo di un’iniziativa politico-militare, che prevedeva di portare l’offensiva nel cuore del barbaricum balcanico.
In questo senso la grande spedizione progettata da Cesare nel 44 (16 legioni,
diecimila cavalieri, assenza da Roma per tre anni) intendeva occuparsi di tutte le
frontiere orientali del dominio di Roma, non solo di quella coi Parti, ma anche,
e anzi prima, di quella coi Dalmati, coi Daci e con tutte quelle popolazioni,
che a vario titolo nei decenni precedenti avevano premuto sui confini, avevano compiuto incursioni, avevano minacciato il territorio romano; è possibile
che il pericolo rappresentato da Burebista avesse raggiunto proprio allora la sua
acmé oppure che fosse scomparso da poco22, ma anche la situazione di instabilità
successiva era potenzialmente pericolosa. È bene non dimenticare che alla fine
del 50, durante le convulse e poi fallite trattative col senato, Cesare si era offerto
di rinunciare a buona parte del suo esercito e dei territori che controllava, ma
aveva posto come condizione irrinunciabile di conservare la Cisalpina e l’Illirico con due legioni o almeno l’Illirico con una legione23: ciò dimostra, a mio
avviso, che, conclusa la pur eccezionale parentesi gallica, egli tornava ad interessarsi al Nordest e lo vedeva come un teatro degno di futuri, stimolanti sviluppi.
In ogni caso delle 16 legioni a disposizione, mentre 8 erano già in Oriente,
altre 8 furono radunate ad Apollonia; di queste forse due provenivano dalle tre
Sherk 1969, 24 (= Sherk 1984, 76); sull’iscrizione cf. ora Šašel Kos 2000, 301-302.
Caes. civ. III 9, 1.
21
Su cui cf. Rossi 2001.
22
Per la cronologia ‘bassa’ (41-40) di Burebista cf. Dobesch 1994, seguito da Šašel Kos
2000, 279.
23
Caes. civ. II 32 o Svet. Iul. 29, 4.
19
20
556
pola e cesare
stanziate in Illirico sotto il comando di P. Vatinio; vale la pena di sottolineare la
scelta cesariana di confermare nell’Illirico colui che quindici anni prima gliel’aveva conferito come territorio del suo proconsolato e che poi, subentrando a
Gabinio nel 47, vi aveva brillantemente sconfitto il pompeiano M. Ottavio24 e
aveva ricuperato il controllo di Issa: questa continuità fa pensare che ci fosse in
Vatinio un interesse personale o una particolare conoscenza di quel settore.
È difficile stabilire che cosa Cesare intendesse fare con queste 8 legioni sul
fronte danubiano prima di passare in Oriente: c’è chi pensa a un rafforzamento
dei confini attraverso un drastico ridimensionamento dei Getae, cioè dei Daci,
c’è invece chi pensa a un vero e proprio progetto espansionistico nei Balcani25.
Personalmente credo che le due interpretazioni non si escludano, ma vadano
semplicemente messe in ordine cronologico: un anno poteva bastare a Cesare per ‘pacificare’ l’area e prepararla a una successiva fase di conquista vera e
propria; nella prima fase si iscrive agevolmente la campagna illirica di Vatinio
nel 45, che lo vide addentrarsi nel territorio dei Dalmati ed espugnarne numerose ‘città’ e che gli valse il trionfo de Illurico nel 4226. In questo senso le campagne
di Ottaviano nel 35-33 devono essere viste come la prosecuzione dell’eredità di
Cesare e il completamento dei suoi progetti27, in perfetto parallelismo e concorrenza con la guerra partica di M. Antonio del 36-34.
La fondazione di Pola si situa così alla cerniera tra fase difensiva e fase offensiva della politica cesariana in Illirico. L’importanza, che Cesare le attribuiva, si
può ricavare da alcune caratteristiche della sua deduzione, già ben note, ma su
cui val la pena di riflettere ancora.
La prima caratteristica è la scelta dei duoviri ecisti: Pisone era un consolare,
nonché il suocero di Cesare; Longino era discendente del C. Cassio Longino
console nel 171 e autore di una discussa spedizione per Illyricum, che provocò
le proteste di vari popoli28, nonché fratello del più noto pretore del 44, tra i più
apprezzati collaboratori di Cesare, prima di divenirne l’assassino; Pisone, già
anziano, dovette morire nel 4329 e Longino aderì ai cesaricidi, ma non erano
Su P. Vatinio in Illirico cf. Marasco 1995.
Status quaestionis in Zecchini 2001, 89 e 97; a un progetto espansionistico nei Balcani
crede in particolare Freber 1993, 169-175.
26
InscrIt XIII, 1, 86-87, 342-343, 567-568.
27
Così già giustamente Šašel Kos 2000, 278.
28
Liv. XLIII 1, 4-12 e 5, 1-10; cf. Bandelli 2004, 103 e Zecchini 2009, 51-52.
29
L’ultima testimonianza che lo riguarda è la sua partecipazione all’ambasceria inviata dal
24
25
557
giuseppe zecchini
queste le intenzioni di Cesare: con la scelta di ecisti così rilevanti egli mirava a
conferire alla nuova colonia un lustro e un rilievo eccezionali all’interno della
catena di fondazioni lungo il confine nordorientale d’Italia e l’Adriatico.
La seconda caratteristica è il termine Pietas nella denominazione ufficiale
della colonia: si è già osservato che si tratta della pietas Caesaris, della premurosa
attenzione di Cesare verso qualcuno, ma chi è l’oggetto della sua pietas? Certamente i coloni stessi, abitanti della neofondazione, ma ciò vale per qualsiasi
colonia; trattandosi di una colonia, che colmava un’importante lacuna difensiva
al confine d’Italia, forse questa pietas del dittatore, la cui legittimità si fondava,
secondo la sua stessa propaganda, sull’auctoritas Italiae30, era rivolta più latamente all’Italia stessa e ai ciues Romani, con cui ormai si identificava.
La terza caratteristica è un altro termine, che appare nella denominazione
della colonia e che noi ricaviamo, abbastanza casualmente, da un’iscrizione di
II secolo d.C., Herculanea31; esso non può essere un’aggiunta posteriore, perché
già la porta principale della cinta muraria di età quasi certamente cesariana
(la cosiddetta ‘Porta Ercole’)32 era collegata all’eroe, di cui recava l’immagine
nell’iconografia tradizionale con la clava. Ora, questo legame tra Pola ed Ercole mi sembra originario e di pura marca cesariana, anzi riconducibile proprio
all’ultimo periodo del dittatore, quando appunto Pola fu fondata: l’abbinamento ‘Cesare / Ercole’ è presente a Diodoro quando nel V libro egli traccia
la via Erculea seguita dall’eroe di ritorno dalla Spagna verso l’Italia secondo un
itinerario, che comprende la fondazione di Alesia e la generazione dell’eponimo
Galate dalla figlia del dinasta della Celtica33; ancora Diodoro ci informa che la
formula della divinizzazione di Cesare, certamente conforme alla sua volontà,
lo paragonava διὰ τὸ μέγεθος τῶν πράξεων proprio ad Ercole e a Dioniso, che
anzi egli aveva superato spingendosi sino a quella Britannia, che nessuno di loro
due aveva invece raggiunto34; anche Virgilio nel VI libro dell’Eneide sottolinea
senato a M. Antonio durante la guerra di Modena nel marzo del 43: cf. Hofmann-Löbl 1996,
184-186.
30
Caes. civ. I 35, 1.
31
CIL, V 8139 = InscrIt X, 1, 85: colonia Iulia Po]la Pollentia Herculanea; in Plinio (nat. III,
129) la definizione è più breve: colonia Pola, quae nunc Pietas Iulia, quondam a Colchis condita.
32
Sulla cronologia della cinta muraria di Pola cf. Fischer 1986, 57.
33
Diod. Sic. V 24.
34
Diod. Sic. IV 19, 2 (e anche I 4, 7; V 21, 2; XXXII 27, 1 e 3); a V 21, 2 è il paragone con
Ercole a proposito della Britannia: cf. Zecchini 1978. Sul rapporto tra Cesare ed Ercole è da
rilevare il silenzio di Weinstock 1971.
558
pola e cesare
che il nuovo Cesare, cioè Augusto, è destinato a superare le imprese di Ercole
e di Dioniso, dietro i quali è facile ravvisare Cesare padre35; ancora, l’Ercole
virgiliano, che nell’VIII libro dell’Eneide giunge da Occidente a liberare il Lazio
dal mostro Caco, può rinviare non solo ad Enea = Augusto, ma anche a Cesare
liberatore dell’Italia dall’oppressione mostruosa di una nobilitas sanguinaria e
ladra proprio come Caco 36. Ercole come eroe civilizzatore e, insieme, protettore
della vita civile dalla violenza barbarica ben si addiceva dunque a connotare Pola
sin dalla sua fondazione nel 46-45 come baluardo difensivo all’estremo oriente
d’Italia.
Sin qui ho utilizzato più volte il termine e il concetto di ‘Italia’ senza ulteriori
specificazioni; Pola era (ed è) in Istria e quindi, dopo le campagne illiriche di
Ottaviano nel 35-33 e la fondazione di Emona, venne a far parte della Venetia et
Histria, cioè della regio X d’Italia, i cui confini orientali furono fissati tra il 18 e
il 12 dagli ἡγεμόνες Augusto e Agrippa37 e si spingevano appena oltre Pola stessa
verso sudest, ma, come abbiamo di recente appreso38, addirittura oltre Emona
verso est, molto più ad Oriente di quanto si pensasse.
È però opportuno domandarsi a quale territorio appartenesse l’Istria e quindi anche Pola, quando Cesare ne ordinò la fondazione nel 46-45.
Ora, mentre non è affatto sicuro che la provincia dell’Illirico sia stata istituita già da Cesare, è certo che una provincia della Gallia Cisalpina esisteva
dalla prima metà del I secolo, se non dall’epoca dell’invasione dei Cimbri e dei
Teutoni39; dunque, quando Cesare negli anni del suo proconsolato fu costretto
ad interessarsi, sporadicamente, ma ripetutamente, del confine nordorientale,
questo era il confine della Cisalpina; spingendo verso est le proprie fondazioni,
prima Tergeste ed A(e)gida, poi Pola, Parentium e Nesactium, Cesare di fatto
Verg. Aen. VI, 788-807.
Sul celebre episodio di Ercole e Caco nell’Eneide cf. Bömer 1943-44; Schnepf 1959;
Galinsky 1966; Binder 1971; Zarker 1972; Wimmel 1973; Gransden 1976, 107;
Fordyce 1977; Paratore 1981, 241-242; Duso 2008. L’interpretazione di Galinsky,
secondo cui Ercole prefigura Enea e quindi Augusto, Caco prefigura Turno e quindi Antonio e
Cleopatra, si è largamente imposta, ma non esclude, a mio avviso, echi cesariani, quali delineo
nel testo.
37
Strab. VII 5, 3: μέχρι Πόλας, Ἰστρικῆς πόλεως, προήγαγον οἱ νῦν ἡγεμόνες τοὺς τῆς Ἰταλίας
ὅρους; l’ipotesi che si tratti di Augusto e Tiberio sembra superata: cf. Vedaldi Iasbez 1994,
381.
38
Cf. supra n. 6.
39
Cimbri e Teutoni: Badian 1966, 904-908; prima metà del I secolo: Laffi 1992.
35
36
559
giuseppe zecchini
estendeva il confine di quella provincia in quella direzione; perciò mi sembra
corretta la conclusione, a cui è giunta con dovizia di argomenti la Šašel Kos, e
cioè che Pola sia stata fondata nel 46-45 come colonia della Gallia Cisalpina40.
Tuttavia proprio in quegli anni la Cisalpina si era venuta a trovare in una
situazione giuridica di grande ambiguità: infatti Cesare nel 49 le aveva donato la cittadinanza romana, creando il monstrum giuridico di una provincia, i
cui provinciali erano tutti cittadini; come è noto, nel 42 i triumviri sanarono
questa palese incongruenza, abolendo la provincia ed inglobandone il territorio
nell’Italia, i cui confini giuridici venivano così a coincidere con quelli geografici.
Naturalmente il concetto di confine geografico non è mai così netto nelle zone
di frontiera: era difficile stabilire dove finisse l’Italia verso est e abbiamo visto
quale fosse la decisione finale di Augusto; resta però a mio avviso la constatazione, su cui vorrei insistere, che l’assetto definitivo dei fines Italiae verso Oriente fu
condizionato e in larga misura prefigurato da due iniziative cesariane, la fondazione di colonie e/o municipi in Friuli, Venezia Giulia e Istria, cioè nella parte
orientale della provincia della Gallia Cisalpina, e l’estensione della cittadinanza
agli abitanti di questa provincia.
Non solo dunque nelle campagne militari del 35-33, ma anche nella sistemazione amministrativa del 18-12 Augusto si muove nel solco di Cesare; se questi
dedicò poco tempo al confine orientale della Gallia Cisalpina rispetto all’impegno totale della conquista gallica, prese però alcuni provvedimenti, che incisero
in modo determinante sul futuro di quell’area.
Šašel Kos 2000, 286-288, da cui però dissento, laddove nega in polemica con il Freber
qualsiasi funzione militare e strategica alla fondazione di Pola (288: «The strategic importance of Histria was in any case almost nonexistent at that time»), perché solo Aquileia e, più a
sud, Salona e Narona furono basi per le operazioni militari romane e solo Tergeste ed A(e)gida
avevano un ruolo strategico in Istria: come ho rilevato nel testo, Pola, sia pure in una posizione più arretrata, ma sul mare, riempiva una grave lacuna nella catena di basi lungo l’Adriatico
orientale.
40
560
pola e cesare
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G. Zecchini, Cesare e il mos maiorum, Stuttgart 2001.
Zecchini 2009
G. Zecchini, Le guerre galliche di Roma, Roma 2009.
563
APPENDICE
GINO BANDELLI
Elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
1969
1. Recensione di V. Ehrenberg, From Solon to Socrates. Greek History and Civilization
during the Sixth and Fifth Centuries B.C., London 1968, «Le Parole e le Idee» XI, 1-2
(1969), 72-73.
2. Recensione di R. M. Errington, Philopoemen, London-Oxford 1969, «Le Parole e le
Idee» XI, 1-2 (1969), 74-76.
3. Recensione di Z. Yavetz, Plebs and Princeps, London-Oxford 1969, «Le Parole e le
Idee» XI, 3-4 (1969), 353-356.
1971
4. Edizione di L. Ferrero, Recensione di D. C. Earl, The Political Thought of Sallust,
Cambridge 1961, «Index» II (1971), 192-197.
5. Recensione di A. La Penna, Sallustio e la “rivoluzione romana”, Milano 1968, «Labeo»
XVII, 1 (1971), 84-87.
1972
6. I processi degli Scipioni: le fonti, «Index» III (1972), 304-342.
7. Recensione di H. U. Instinsky, Zur Echtheitsfrage der Brieffragmente der Cornelia,
Mutter der Gracchen, «Chiron» I (1971), 177-189, «Labeo» XVIII, 1 (1972), 129-130.
8. Storiografia romana nel 1971, con S. Favento e C. Zaccaria, «Labeo» XVIII, 2
(1972), 230-237.
1973
9. Recensione di A. Passerini, Studi su Caio Mario, Milano 1971, Caio Mario, Milano
1971, Linee di storia romana in età imperiale, Milano 1972, «Labeo» XIX, 1 (1973), 113.
10. Recensione di M. Sordi, Roma e i Sanniti nel IV secolo a.C., Bologna 1969, «Labeo»
XIX, 2 (1973), 226-233.
11. Recensione di Incontro di studi su “Roma e l’Italia fra i Gracchi e Silla” «Certosa di
567
gino bandelli
Pontignano (Siena), 18-21 settembre 1969», «Dialoghi di Archeologia» IV-V (197071), «Labeo» XIX, 2 (1973), 246-247.
12. Rassegna bibliografica di Storia romana, con S. Favento e C. Zaccaria, «Labeo»
XIX, 1-3 (1973), 101-108, 233-241, 378-384.
1974
13. Sui rapporti politici tra Scipione Nasica e Scipione Africano (204-184 a.C.), «Quaderni
di Storia Antica e di Epigrafia» I (1974), 5-36.
14. Recensione di K. Christ, Von Gibbon zu Rostovtzeff. Leben und Werk führender
Althistoriker der Neuzeit, Darmstadt 1972, «Labeo» XX, 2 (1974), 251-253.
15. Rassegna bibliografica di Storia romana, con S. Favento e C. Zaccaria, «Labeo»
XX, 1-3 (1974), 137-144, 288-296, 417-422.
1975
16. Il processo dell’Asiatico, «Index» V (1974-75), 93-126.
17. I figli dell’Africano, «Index» V (1974-75), 127-139.
18. P. Cornelio Scipione, prognatus Publio (CIL, I2 10), «Epigraphica» XXXVII (1975),
84-99.
1977
19. La questione dei castellieri, «Atti (del) Centro di Ricerche Storiche (di) Rovigno» VII
(1976-77), 113-136.
1978
20. La fondazione delle colonie di Piacenza e di Cremona, «Quaderni di Storia Antica e di
Epigrafia» II (1978), 39-57.
1979
21. Per la riedizione del “Tramonto della schiavitù nel mondo antico” di E. Ciccotti, « PPol»
XII, 1 (1979), 65-68.
568
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
22. Recensione di L. Ross Taylor, La politique et les partis à Rome au temps de César,
Traduit de l’anglais par É. et J.-C. Morin, Introduction et supplément bibliographique
par E. Deniaux, Paris 1977, «PPol» XII, 1 (1979), 104-106.
1980
23. Imperialismo, colonialismo e questione sociale in Gaetano De Sanctis (1887-1921),
«QS» VI, 12 (1980), 83-126.
24. Recensione di F. Papazoglu, The Central Balkan Tribes in Pre-Roman Times. Triballi,
Autariatae, Dardanians, Scordisci and Moesians, Translated by M. Stansfield-Popović,
Amsterdam 1980, «Athenaeum», n. s., LVIII, 1-2 (1980), 209-212.
25. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» I, 1-2 (1980),
94, 103-105, 109, 111-112, 139, 163-164, 166, 169-171, 193, 203-204.
1981
26. La guerra istrica del 221 a.C. e la spedizione alpina del 220 a.C., «Athenaeum», n. s.,
LIX, 1-2 (1981), 3-28.
27. Aquileia romana dalla fondazione al II secolo d.C., in M. Buora (cur.), Aquileia dalla fondazione all’Alto Medioevo. «Atti dei Seminari storico-archeologici», Udine 1981,
19-26.
28. Gaetano De Sanctis tra Methode e ideologia, «Quaderni di Storia» VII, 14 (1981),
231-251.
29. Recensione di E. Ciccotti, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, I-II,
Introduzione di M. Mazza, Bari 1977, «Dialoghi di Archeologia», n. s., I (1981),
142-145.
30. Recensione di M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Bari 1979, «PPol» XIV, 3
(1981), 506-508.
31. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» II, 1-2 (1981),
82-85, 180-182, 184.
569
gino bandelli
1982
32. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» III, 1-2 (1982),
122-125, 128, 142-144.
33. Revisione storica di L. Trisciuzzi - L. Bernobini, Prima via. Lingua e civiltà di
Roma antica, 1-2, con G. Zalateo, G. Brovedani Bocus e P. Rosini, Messina-Firenze
1982.
1983
34. Per una storia della classe dirigente di Aquileia repubblicana, in Les “bourgeoisies” municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av. J.-C. «[Atti del Convegno], Naples, 7-10 décembre
1981», Paris-Naples 1983, 175-203.
35. Intervento nel dibattito, in Les “bourgeoisies” municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av.
J.-C. «[Atti del Convegno], Naples, 7-10 décembre 1981», Paris-Naples 1983, 395-397.
36. La politica romana nell’Adriatico orientale in età repubblicana, «AMSI», n. s., XXXI
(1983), 167-175.
37. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» IV, 1-2 (1983),
209-210, 215, 267, 138-139, 174.
1984
38. Per una storia agraria di Aquileia repubblicana, in Problemi storici ed archeologici dell’Italia nordorientale e delle regioni limitrofe dalla preistoria al medioevo. «Atti dell’Incontro di studio, Trieste, 28-30 ottobre 1982», «Atti dei Civici Musei di Storia ed Arte di
Trieste» XIII, 2 (1983-84), 93-111.
39. Le iscrizioni repubblicane, in I Musei di Aquileia. «Atti della XIII Settimana di Studi
Aquileiesi, 24 aprile - 1 maggio 1982», «Antichità Altoadriatiche» XXIV (1984),
169-226.
40. La storia della storiografia. Tendenze recenti in campo antichistico, in P. E. di Prampero M. di Prampero de Carvalho (cur.), Metodologia e ricerca storica. «Atti del Seminario
internazionale, Tavagnacco (Udine), 14-15 ottobre 1983», Tavagnacco (Udine) 1984,
123-144.
570
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
41. Intervento nel dibattito, in The Imperialism of Mid-Republican Rome. «The proceedings of a conference held at the American Academy in Rome, November 5-6, 1982»
(Papers and Monographs of the American Academy in Rome, 29), Roma 1984, 185-186.
42. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» V, 1-2 (1984),
133, 135, 158, 291, 297-299.
1985
43. La presenza italica nell’Adriatico orientale in età repubblicana (III-I secolo a.C.), in
Aquileia, la Dalmazia e l’Illirico. «Atti della XIV Settimana di Studi Aquileiesi, 23-29
aprile 1983», «Antichità Altoadriatiche» XXVI, 1 (1985), 59-84.
44. Momenti e forme della politica romana nella Transpadana orientale (III-II secolo a.C.),
«AMSI», n. s., XXXIII (1985), 5-29.
45. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» VI, 1-2 (1985),
142, 150, 189, 326-327.
1986
46. Il governo romano nella Transpadana orientale (90-42 a.C.), in Aquileia nella “Venetia
et Histria”. «Atti della XV Settimana di Studi Aquileiesi, 28 aprile - 3 maggio 1984»,
«Antichità Altoadriatiche» XXVII (1986), 43-64.
47. “Il capitalismo antico” di Giuseppe Salvioli. Note sulla fortuna (e sfortuna) di un libro,
«QS» XII, 23 (1986), 257-272.
48. Discussione di Stato e moneta a Roma fra la tarda Repubblica e il primo Impero.
«Incontro di studio, Roma, 19 aprile 1982», «AIIN» XXIX (1982), «Athenaeum»,
n. s., LXIV, 1-2 (1986), 231-236.
49. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» VII, 1-2
(1986), 154-156, 158, 167, 316-318.
1987
50. Per una storia della classe dirigente di Aquileia repubblicana: le iscrizioni da un edificio
di spettacolo, in Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana. «Atti della XVI
571
gino bandelli
Settimana di Studi Aquileiesi, 20-26 aprile 1985», «Antichità Altoadriatiche» XXIX, 1
(1987), 97-127.
51. La divisione dei posti negli edifici di spettacolo. La documentazione repubblicana e un caso
aquileiese, in P. Basso - G. Bertoldo - I. Riera (cur.), La ricostruzione dell’ambiente antico attraverso lo studio e l’analisi del terreno e dei manufatti (strumenti e metodi di ricerca),
V, Padova 1987, 53-72.
52. Politica romana e colonizzazione cisalpina. I triumvirati di Aquileia (181 e 169 a.C.),
in Aquileia e Roma. «Atti della XVII Settimana di Studi Aquileiesi, 24-29 aprile 1986»,
«Antichità Altoadriatiche» XXX (1987), 63-76.
53. Histoire politique et militaire, in Dix ans de recherches (1975-1985) sur l’Adriatique antique (IIIe siècle av. J.-C. - IIe siècle ap. J.-C.), «MEFRA» IC, 1 (1987), 437-452.
54. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» VIII, 1-2
(1987), 139-142, 144-145, 148, 151-152, 305-306, 308, 333-334.
1988
55. Ricerche sulla colonizzazione romana della Gallia Cisalpina. Le fasi iniziali e il caso aquileiese (Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 1), Roma 1988.
56. La frontiera settentrionale: l’ondata celtica e il nuovo sistema di alleanze, in
A. Momigliano - A. Schiavone (dir.), Storia di Roma, I, Roma in Italia, Torino 1988,
505-525.
57. Le prime fasi della colonizzazione cisalpina (295-190 a.C.), in La colonizzazione romana
tra la guerra latina e la guerra annibalica. «Atti del Convegno, Acquasparta, 29-30 maggio
1987», «Dialoghi di Archeologia», s. III, VI, 2 (1988), 105-116.
58. Introduzione, in G. Bandelli - G. F. Gianotti - M. Verzár-Bass (cur.), Beni archeologici e istituzioni pubbliche. Bilanci, prospettive, progetti. «Atti della Giornata di studio,
Aquileia, 21 febbraio 1987», Trieste 1988, 11-15.
59. Intervento nel dibattito, ibid., 77-78.
60. Recensione di R. Develin, The Practice of Politics at Rome, 366-167 B.C., Bruxelles
1985, «Athenaeum», n. s., LXVI, 1-2 (1988), 223-230.
572
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
61. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» IX, 1-2 (1988),
125-128, 306, 308, 339-340, 355-356.
62. Edizione di G. Bandelli - G. F. Gianotti - M. Verzár-Bass (cur.), Beni archeologici e istituzioni pubbliche. Bilanci, prospettive, progetti. «Atti della Giornata di studio,
Aquileia, 21 febbraio 1987», Trieste 1988.
1989
63. Contributo all’interpretazione del cosiddetto elogium di C. Sempronio Tuditano, in
Aquileia repubblicana e augustea. «Atti della XIX Settimana di Studi Aquileiesi, 23-28
aprile 1988», «Antichità Altoadriatiche» XXXV (1989), 111-131.
64. C. Egnatius T. f. Veitor e C. Virginius C. f. Pulcher. Dall’antico ai moderni, in
Maniagolibero. Un paese, la sua gente, Maniago-Pordenone 1989, 77-93.
65. Per una storia del mito di Roma al confine orientale. Istri e Romani nell’età dell’Irredentismo, «Il Territorio» XII, 25 (1989), 132-142.
66. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» X, 1-2 (1989),
163, 333-334, 341, 345, 349.
1990
67. Colonie e municipi delle regioni transpadane in età repubblicana, in La città nell’Italia
settentrionale in età romana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle
Regiones X e XI. «Atti del Convegno, Trieste, 13-15 marzo 1987», Trieste-Roma 1990,
251-277.
68. La dedica al Timavo di Ti(berius) Poppai(us) Ti(beri) f(ilius), in G. Bandelli et alii
(cur.), Montereale tra protostoria e storia. Contributi preliminari, «Ce Fastu?» LXVI, 2
(1990), 200-211.
69. Trieste romana, [Pieghevole illustrato], Trieste s. d.
70. Presentazione, in C. C. Desinan, Toponomastica e archeologia del Friuli prelatino,
con Note di aggiornamento di protostoria friulana di P. Càssola Guida e S. Vitri,
Montereale Valcellina (Pordenone) 1990, 3-5.
573
gino bandelli
71. Recensione di Atti della Giornata di studio in onore di G. B. Brusin, «Aquileia, 20 dicembre 1987», Udine 1990, «Studi Goriziani» LXXII (luglio - dicembre 1990), 97-98.
1991
72. L’economia nelle città romane dell’Italia nord-orientale (I secolo a.C. - II secolo d.C.),
in W. Eck - H. Galsterer (cur.), Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen
Provinzen des Römischen Reiches. «Deutsch-Italienisches Kolloquium im italienischen
Kulturinstitut Köln, [18.-20. Mai 1989]», Mainz am Rhein 1991, 85-103.
73. Periodo romano: magistrature nei municipi e nelle colonie, in Corso di archeologia “Aspetti
della cultura e della organizzazione sociale nel mondo antico”, Federazione delle Associazioni
di Archeologia del Veneto, con la collaborazione della Soprintendenza Archeologica per il
Veneto, Portogruaro-Mirano 1991, 78-97.
74. Le letture mirate, in G. Cavallo - P. Fedeli - A. Giardina (dir.), Lo spazio letterario
di Roma antica, IV, L’attualizzazione del testo, Roma 1991, 361-397.
75. A proposito di Karl Julius Beloch, «Quaderni di Storia» XVII, 34 (1991), 189-194.
76. Per una storia del mito di Roma al confine orientale. Archeologia e urbanistica nella
Trieste del Ventennio, in M. Verzár-Bass (cur.), Il Teatro Romano di Trieste. Monumento,
storia, funzione. Contributi per lo studio del teatro antico, Istituto Svizzero di Roma 1991,
252-262.
77. Presentazione, in «Bollettino del Gruppo Archeologico Aquileiese» I (1991), 4.
78. Schede varie del Bollettino bibliografico, «Quaderni Giuliani di Storia» XII, 1-2
(1991), 223-225.
79. [Prefazione], con P. Càssola Guida, in I. Ahumada Silva - A. Testa (cur.),
L’Antiquarium di Tesis di Vivaro, Comunità Montana Meduna - Cellina, Maniago
(Pordenone) 1991, 13-14.
1992
80. Le classi dirigenti cisalpine e la loro promozione politica (II-I secolo a.C.), in F. Coarelli
- M. Torelli - J. Uroz Sáez (cur.), Conquista romana y modos de intervención en la
organización urbana y territorial. «[Atti del Convegno], Elche, 26-29 octubre 1989»,
«Dialoghi di Archeologia», s. III, X, 1-2 (1992), 31-45.
574
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
81. Le iscrizioni rupestri del Passo di Monte Croce Carnico. Aspetti generali e problemi testuali, in L. Gasperini (cur.), Rupes loquentes. «Atti del Convegno internazionale di studio
sulle Iscrizioni rupestri di età romana in Italia, Roma - Bomarzo, 13-15 ottobre 1989»,
Roma 1992, 151-205.
82. Storia di Roma, II, «RSI» CIV, 1 (1992), 192-202.
1993
83. Gli scavi di Aquileia tra scienza e politica (1866-1918), in Gli scavi di Aquileia: uomini
e opere. «Atti della XXIII Settimana di Studi Aquileiesi, 25-29 aprile 1992», «Antichità
Altoadriatiche» XL (1993), 163-188.
84. La vocazione paletnologica di Carlo Marchesetti. Dalla foresta di Sattari (1876) a
S. Lucia di Tolmino (1884), in E. Montagnari Kokelj (cur.), C. Marchesetti, Scritti
sulla necropoli di S. Lucia di Tolmino (Scavi 1884-1902), Trieste 1993, XV-XXXIX.
1994
85. La vocazione paletnologica di Carlo Marchesetti. Dalla foresta di Sattari (1876) a
S. Lucia di Tolmino (1884), in E. Montagnari Kokelj (cur.), Atti della Giornata internazionale di studio su Carlo Marchesetti, «Trieste, 9 ottobre 1993», Trieste 1994, 37-58.
86. L’antichistica nell’ambito della storiografia contemporanea: i “Quaderni di Storia”
(1975-1994), con G. F. Gianotti, in N. Recupero - G. Todeschini, Introduzione
all’uso delle riviste storiche, «Quaderni del Dipartimento di Storia, Università di Trieste»
I (1994), 11-36.
87. Per una storia del mito di Roma al confine orientale. Istri e Romani nell’età dell’Irredentismo, in La Monarchia austro-ungarica tra irredentismi e nazionalismi. L’azione della Lega
Nazionale ai confini italici. «Atti del Corso d’aggiornamento, Trieste, 5 dicembre 1991 - 8
aprile 1992», «Quaderni Giuliani di Storia» XV, 1 (1994), 163-175.
1995
88. Gli scritti antichistici di Dario Bertolini, in P. Croce Da Villa - A. MastrocinQue
(cur.), Concordia e la X Regio. «Atti del Convegno, Portogruaro, 22-23 ottobre 1994»,
Padova 1995, 7-11.
575
gino bandelli
89. Dario Bertolini e Iulia Concordia, ibid., 21-42.
1996
90. Le aristocrazie locali della Regio X dalla guerra sociale all’età neroniana. La parte occidentale, in M. Cébeillac-Gervasoni (cur.), Les élites municipales de l’Italie péninsulaire
des Gracques à Néron. «Actes de la table ronde de Clermont-Ferrand, 28-30 novembre
1991», Naples-Rome 1996, 13-30.
91. Organizzazione municipale e ius Latii nell’Italia transpadana, in E. Ortiz de Urbina
- J. Santos (cur.), Teoría y práctica del ordenamiento municipal en Hispania. «Actas del
Symposium de Vitoria-Gasteiz, 22 a 24 de Noviembre de 1992», Vitoria-Gasteiz 1996,
97-115.
92. Interventi nel dibattito, ibid., 131-135, 295-296, 307.
1997
93. Rovigno e il suo territorio in età romana, in F. Stener (cur.), Rovigno d’Istria, I, Trieste
1997, 49-63, 165-167.
94. Luciano Perelli storico, in C. de Filippis Cappai (cur.), Giornata di studi in onore di
Luciano Perelli, [Torino, 11 maggio 1995], Bologna 1997, 37-51.
95. Colonie e municipi dall’età monarchica alle guerre sannitiche, in Nomen Latinum. Latini
e Romani prima di Annibale. «Atti del Convegno internazionale, Roma, 24-26 ottobre
1995», «Eutopia» IV, 2 (1995) [ma 1997], 143-197.
96. La fondazione di Aquileia (181 a.C.), L’amministrazione della città, L’agricoltura,
L’evergetismo, in Aquileia crocevia dell’Impero romano. Economia, società, arte, Cervignano
del Friuli (Udine) 1997, 11-12, 30-31, 34, 48-49.
97. Premessa, in F. Fontana, I culti di Aquileia repubblicana. Aspetti della politica religiosa
in Gallia Cisalpina tra il III e il II sec. a.C. (Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 9), Roma
1997, 9-10.
98. [Nota], in «AN» LXVIII (1997), 251-252.
99. Edizione di «AN» LXVIII (1997).
576
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
1998
100. La formazione delle clientele dal Piceno alla Cisalpina, in Italia e Hispania en la crisis
de la República romana. «Actas del III Congreso Hispano-Italiano, Toledo, 20-24 de septiembre 1993», Madrid 1998, 51-70.
101. Le clientele della Cisalpina fra il III e il II secolo a.C., in G. Sena Chiesa - E. A.
Arslan (cur.), Optima via. «Atti del Convegno internazionale di studi Postumia. Storia
e archeologia di una grande strada romana alle radici dell’Europa, Cremona, 13-15 giugno
1996», Cremona 1998, 35-41.
102. Scipione Maffei e la storia antica, in G. P. Romagnani (cur.), Scipione Maffei nell’Europa del Settecento. «Atti del Convegno, Verona, 23-25 settembre 1996», Verona 1998,
3-25.
103. La penetrazione romana e il controllo del territorio, in Tesori della Postumia. Archeologia
e storia intorno a una grande strada romana alle radici dell’Europa. «Catalogo della Mostra,
Cremona, Santa Maria della Pietà, 1998», Milano 1998, 147-155.
104. Il nuovo quadro storico, ibid., 157-162.
105. Miliario di Spurio Postumio Albino, ibid., 282-283.
106. Aquileia e Gorizia tra Otto e Novecento. Archeologia, politica e storia, [Trieste, 28 marzo
1998], «Quaderni Giuliani di Storia» XIX, 1 (1998), 165-169.
107. Edizione di «AN» LXIX (1998).
1999
108. Un momento della fortuna di Rostovzev in Italia. Il dibattito su “Economia antica e moderna”, in A. Marcone (cur.), Rostovtzeff e l’Italia. «Atti del Convegno internazionale,
Gubbio, 25-27 maggio 1995», Napoli 1999, 131-159.
109. Roma e l’Adriatico nel III secolo a.C., in L. Braccesi - S. Graciotti (cur.), La
Dalmazia e l’altra sponda. Problemi di archaiologhía adriatica. «Atti del Convegno internazionale, Venezia, 16-17 gennaio 1996», Firenze 1999, 175-193.
110. Il richiamo all’antichità nelle rivendicazioni italiane dell’“altra sponda”, in La Dalmazia
greca e romana nei ricordi, gli studi, le opere letterarie delle terre adriatiche. «Atti del
577
gino bandelli
Convegno, Roma, 18-19 aprile 1997», «Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia
Patria» (Collana monografica, 1), Roma 1999, 53-75.
111. La popolazione della Cisalpina dalle invasioni galliche alla guerra sociale, in D. Vera
(cur.), Demografia, sistemi agrari, regimi alimentari nel mondo antico. «Atti del Convegno
Internazionale di Studi, Parma, 17-19 ottobre 1997», Bari 1999, 189-215.
112. Interventi nel dibattito, ibid., 367-370, 378-379.
113. Le comunità urbane. Agitazioni plebee e colonizzazione federale dal foedus Cassianum
alla guerra latina, in E. Hermon (cur.), La question agraire à Rome: droit romain et société.
Perceptions historiques et historiographiques. [«Atti del Convegno, Québec, 29-31 ottobre
1997»], Como 1999, 91-98.
114. Roma e la Venetia orientale dalla guerra gallica (225-222 a.C.) alla guerra sociale (9187 a.C.), in G. Cresci Marrone - M. Tirelli (cur.), Vigilia di romanizzazione. Altino
e il Veneto orientale tra II e I sec. a.C. «Atti del Convegno, Venezia, 2-3 dicembre 1997»
(Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 11), Roma 1999, 285-301.
115. Le bonifiche con anfore: un problema di storia economica, in S. Pesavento Mattioli
(cur.), Bonifiche e drenaggi con anfore: spunti di riflessione. «Atti della Tavola rotonda,
Padova, 15 aprile 1999», «Quaderni di Archeologia del Veneto» XV (1999), 184-185.
116. Il classicismo “romano” di Domenico Rossetti, in G. Pavan (cur.), L’architetto Pietro
Nobile (1776-1854) e il suo tempo. «Atti del Convegno internazionale, Trieste, 7-8 maggio
1999», «Archeografo Triestino» CVII (1999), 49-61.
117. Winckelmann, Trieste e Rossetti, in L. Canfora (cur.), Studi sulla tradizione classica
per Mariella Cagnetta, Roma-Bari 1999, 15-32.
118. Premessa, in C. Tiussi, Il culto di Esculapio nell’area nord-adriatica (Studi e Ricerche
sulla Gallia Cisalpina, 10), Roma 1999, 9.
119. Bibliografia di Luisa Bertacchi, a cura di G. Bandelli e A. Vigi Fior, «AN» LXX
(1999), 21-30.
120. Edizione di «AN» LXX (1999).
578
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
2000
121. Winckelmann, Trieste e Rossetti, in Altertumskunde im 18. Jahrhundert.
Wechselwirkungen zwischen Italien und Deutschland. «Atti del Convegno internazionale,
Trieste, 5-8 giugno 1993» (Schriften der Winckelmann-Gesellschaft, Band 19), Stendal
2000, 9-21.
122. I praefecti iure dicundo come supplenti degli imperatori e dei cesari nelle Regiones XI,
X, IX e VIII, in M. Cébeillac-Gervasoni (cur.), Les élites municipales de l’Italie péninsulaire de la mort de César à la mort de Domitien entre continuité et rupture. Classes sociales
dirigeantes et pouvoir central. [«Atti del Convegno internazionale, Napoli, 6-8 febbraio
1997»], École Française de Rome 2000, 149-159, 170-175.
123. Un nuovo Quaderno dell’Associazione Nazionale per Aquileia, in A. GiumliaMair (cur.), Ancient Metallurgy between Oriental Alps and Pannonian Plain. «Atti del
Workshop, Trieste, 29-30 ottobre 1998», Trieste 2000, 13-14.
124. La Storia antica nell’Ateneo triestino dal 1943 al 1958, in G. Bandelli (cur.), La
Scuola triestina di Storia antica. «Atti dell’Incontro di studio in onore di Filippo Càssola e
Ruggero Fauro Rossi, Trieste, 16 novembre 1998», «Quaderni Giuliani di Storia» XXI,
2 (2000), 215-233.
125. Presentazione di G. Rosada (cur.), Oppidum Nesactium. Una città istro-romana,
Treviso 1999, [Trieste, 20 maggio 2000, Padova, 1 giugno 2000], «Quaderni di Archeologia
del Veneto» XVI (2000), 214-219.
126. Edizione di G. Bandelli (cur.), La Scuola triestina di Storia antica. «Atti dell’Incontro di studio in onore di Filippo Càssola e Ruggero Fauro Rossi, Trieste, 16 novembre
1998», «Quaderni Giuliani di Storia» XXI, 2 (2000), 199-337.
127. Edizione di Aquileia romana e cristiana fra II e V secolo. «Atti della XXX Settimana di
Studi Aquileiesi, 19-22 maggio 1999», «Antichità Altoadriatiche» XLVII (2000).
128. Edizione di «AN» LXXI (2000).
2001
129. Veneti e Carni dalle origini alla romanizzazione, in G. Bandelli - F. Fontana (cur.),
Iulium Carnicum, centro alpino tra Italia e Norico dalla protostoria all’età imperiale. «Atti
579
gino bandelli
del Convegno, Arta Terme - Cividale, 29-30 settembre 1995» (Studi e Ricerche sulla
Gallia Cisalpina, 13), Roma 2001, 13-38.
130. Hannibal’s Legacy trenta anni dopo, in E. Lo Cascio - A. Storchi Marino (cur.),
Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana. «Atti del
Convegno, Napoli, 6 febbraio 1997», Bari 2001, 19-26.
131. Roma e l’Adriatico fra III e II secolo a.C., in C. Zaccaria (cur.), Strutture portuali e rotte marittime nell’Adriatico di età romana. «Atti della XXIX Settimana di Studi Aquileiesi,
20-23 maggio 1998», «Antichità Altoadriatiche» XLVI - Collection de l’École Française
de Rome, 280, Trieste-Roma 2001, 17-41.
132. Il mito di Roma al confine orientale d’Italia. Antichistica e politica nelle «Nuove
Provincie» (1918-1938), in B. Näf (cur.), Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von
Faschismus und Nationalsozialismus. «Kolloquium Universität Zürich, 14.-17. Oktober
1998», Mendelbachtal-Cambridge 2001, 125-144.
133. Considerazioni introduttive, in S. Vitri - F. Oriolo (cur.), I Celti in Carnia e nell’arco alpino centro orientale. «Atti della Giornata di Studi, Tolmezzo, 30 aprile 1999», Trieste
2001, 331-333.
134. [Intervento conclusivo], ibid., 358-359.
135. La romanizzazione della Pedemontana tra Livenza e Tagliamento: acquisizioni recenti
e problemi aperti, in Archeologia e risorse storico-ambientali nella Pedemontana e nelle Valli
del Friuli Occidentale. «Atti del Convegno, Meduno (Pordenone), 6-7 ottobre 2000»,
Sequals (Pordenone) 2001, 45-51.
136. A proposito di G. Pavan, Il tempio d’Augusto di Pola, Prefazione di R. Matijašić
(Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Collana di Architettura, 2),
Trieste-Gorizia 2000, [Trieste, 9 dicembre 2000], «Archeografo Triestino», s. IV, LXI
(2001), 529-535.
137. Il celtismo nella storiografia e nelle ideologie friulane e giuliane, in I Celti nell’Alto
Adriatico. «Atti del Convegno internazionale, Trieste, 5-6-7 aprile 2001», «Antichità
Altoadriatiche» XLVIII (2001), 23-37.
138. Edizione, con F. Fontana, di Iulium Carnicum, centro alpino tra Italia e Norico dalla
protostoria all’età imperiale. «Atti del Convegno, Arta Terme-Cividale, 29-30 settembre
1995» (Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 13), Roma 2001.
580
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
139. Edizione di «AN» LXXII (2001).
2002
140. Pais e il confine orientale d’Italia, in L. Polverini (cur.), Aspetti della storiografia
di Ettore Pais. «Atti del Convegno, Acquasparta, 25-27 maggio 1992», Napoli 2002,
95-122.
141. La colonizzazione medio-adriatica fino alla seconda guerra punica. Questioni preliminari, in M. Luni (cur.), La battaglia del Metauro. Tradizione e studi. «Atti del Convegno
La via Flaminia e la battaglia del Metauro, Fano, 23-24 ottobre 1994», II, Urbino 2002,
21-53.
142. Roma e l’Italia centrale dalla battaglia del Sentino (295 a.C.) al plebiscito di Gaio
Flaminio (232 a.C.), in D. Poli (cur.), La battaglia del Sentino. Scontro fra nazioni e incontro in una nazione. «Atti del Convegno di Studi, Camerino-Sassoferrato, 10-13 giugno
1998», Roma 2002, 63-80.
143. I ceti medi nell’epigrafia repubblicana della Gallia Cisalpina, in A. Sartori A. Valvo (cur.), Ceti medi in Cisalpina. «Atti del Colloquio internazionale, Milano, 1416 settembre 2000», Milano 2002, 13-26.
144. La colonizzazione romana della penisola iberica da Scipione Africano a Bruto Callaico,
in G. Urso (cur.), Hispania terris omnibus felicior. Premesse ed esiti di un processo di integrazione. «Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001»,
Pisa 2002, 105-142.
145. Considerazioni preliminari sul mito celtico nella cultura friulana (1945-2000), in Gli
echi della terra. Presenze celtiche in Friuli: dati materiali e momenti dell’immaginario. «Atti
del Convegno, Gorizia, 5-7 ottobre 2001», Pisa 2002, 143-148.
146. La questione dei castellieri da Pietro Kandler a Richard Burton, «Atti del Convegno
annuale di studio della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Duino Aurisina,
20 ottobre 2002», «Quaderni Giuliani di Storia» XXIII, 2 (2002), 223-254.
147. Aquileia colonia Latina, in J. L. Jiménez Salvador - A. Ribera i Lacomba (cur.),
Valencia y las primeras ciudades romanas de Hispania, Valencia 2002, 57-69.
148. Il mito di Cesare nella cultura friulana del quindicesimo secolo, in A. Del Col (cur.),
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gino bandelli
Sotto il segno di Menocchio. «Omaggio ad Aldo Colonnello», Montereale Valcellina
(Pordenone) 2002, 83-106.
149. I Celti e le altre popolazioni preromane del Friuli: storia della ricerca e stato delle conoscenze, Pannello della Mostra didattica, Udine 2002.
150. I Celti del Friuli nella storiografia e nelle ideologie, Pannello della Mostra didattica,
Udine 2002.
151. Edizione di «AN» LXXIII (2002).
2003
152. Caelina. Il mito della città scomparsa (I quaderni del Menocchio, Quaderno aperto,
19), Montereale Valcellina (Pordenone) 2003.
153. Dallo spartiacque appenninico all’“altra sponda”. Roma e l’Adriatico fra il IV e il II secolo
a.C., in F. Lenzi (cur.), L’Archeologia dell’Adriatico dalla Preistoria al Medioevo. «Atti del
Convegno internazionale, Ravenna, 7-8-9 giugno 2001», Firenze 2003, 215-225.
154. Altino fra l’Egeo e il Magdalensberg, in G. Cresci Marrone - M. Tirelli (cur.),
Produzioni, merci e commerci in Altino preromana e romana. «Atti del Convegno, Venezia,
12-14 dicembre 2001» (Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 17 - Altinum. Studi di
archeologia, epigrafia e storia, 3), Roma 2003, 179-198.
155. Conclusioni, in M. Buora - S. Santoro (cur.), Progetto Durrës. L’indagine sui Beni
culturali albanesi dell’Antichità e del Medio Evo: tradizioni di studio a confronto. «Atti del
Primo incontro scientifico, Parma-Udine, 19-20 aprile 2002», «Antichità Altoadriatiche»
LIII (2003), 353-359.
156. Aquileia colonia Latina dal senatus consultum del 183 a.C. al supplementum del 169
a.C., in G. Cuscito (cur.), Aquileia dalle origini alla costituzione del ducato longobardo.
Storia - Amministrazione - Società. «Atti della XXXIII Settimana di Studi Aquileiesi, 2527 aprile 2002», «Antichità Altoadriatiche» LIV (2003), 49-78.
157. Edizione di «AN» LXXIV (2003).
2004
158. La pirateria adriatica di età repubblicana come fenomeno endemico, in La pirateria
582
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
nell’Adriatico antico. «Atti del Convegno, Venezia, 7-8 marzo 2002», «Hesperìa» XIX
(2004), 61-68.
159. Momenti e forme nella politica illirica della Repubblica romana (229-49 a.C.), in
G. Urso (cur.), Dall’Adriatico al Danubio. L’Illirico nell’età greca e romana. «Atti del
Convegno internazionale, Cividale del Friuli, 25-27 settembre 2003», Pisa 2004, 95-139.
160. Premessa, in F. Bottari et alii (cur.), Per Franco Serpa dai suoi allievi. «Atti del
Convegno, Trieste, 18 ottobre 2003», Roma 2004, 5-10.
161. Problemi aperti e prospettive recenti sulla romanizzazione della Venetia, in M. S.
Busana - F. Ghedini (cur.), La via Annia e le sue infrastrutture. «Atti delle Giornate
di Studio, Ca’ Tron di Roncade, Treviso, 6-7 novembre 2003», Cornuda (Treviso) 2004,
15-27.
162. La ricerca sulle élites della Regio X nell’ultimo ventennio. Senatori, cavalieri e magistrati locali dall’età della romanizzazione alla morte di Augusto (225 a.C. - 14 d.C.), in
M. Cébeillac-Gervasoni - L. Lamoine - F. Trément (cur.), Autocélébration des élites locales dans le monde romain. Contextes, images, textes (IIe s. av. J.-C. / IIIe s. ap. J.-C.),
«Clermont-Ferrand, 21-23 novembre 2003» (Collection Erga, 7), Clermont-Ferrand
2004, 77-102.
163. Lo storico, in G. Bandelli - M. Fernandelli - L. Galasso - L. Toneatto (cur.),
M. Martina, Scritti di Filologia classica e Storia antica, Trieste 2004, XIII-XIV.
164. Recensione di M. Buonocore, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico. Dalle
sue lettere conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Napoli 2003, «AN» LXXV
(2004), 868-871.
165. Edizione, con M. Fernandelli, L. Galasso e L. Toneatto, di M. Martina,
Scritti di Filologia classica e Storia antica, Trieste 2004.
166. Edizione di «AN» LXXV (2004).
2005
167. Nuove considerazioni sull’epigrafia rupestre delle Alpi Carniche, in Le Alpi: ambiente e mobilità - Les Alpes: environnement et mobilité - Die Alpen: Naturumgebung und
Beweglichkeit - The Alps: Environment and Mobility. «Atti del Convegno, Trento, 25-27
ottobre 2001», «Preistoria Alpina» XXXIX (2003) [ma 2005], 307-314.
583
gino bandelli
168. Il ruolo degl’interventi diplomatici nella romanizzazione della Gallia Cisalpina, in
E. Torregaray Pagola - J. Santos Yanguas (cur.), Diplomacia y autorrepresentación en la Roma antigua. [«Atti del Convegno internazionale, Vitoria, 2 aprile 2003»],
Vitoria-Gasteiz 2005, 63-76.
169. Nota dei curatori, con E. Montagnari Kokelj, in G. Bandelli - E. Montagnari
Kokelj (cur.), Carlo Marchesetti e i castellieri. 1903-2003. «Atti del Convegno
Internazionale di Studi, Castello di Duino (Trieste), 14-15 novembre 2003», con la collaborazione di K. Mihovilić e P. Novaković, Trieste 2005, 13-15.
170. La questione dei castellieri da Richard Burton a Carlo Marchesetti, ibid., 33-53.
171. Theodor Mommsen e l’Istria. I. 1854-1873, «Quinto Convegno Annuale della
Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Rovigno, 17 ottobre 2004», «Quaderni
Giuliani di Storia» XXVI, 1 (2005), 143-171.
172. Le amministrazioni locali nella Transpadana orientale dalla provincia repubblicana della Gallia Cisalpina alla provincia tardoantica della Venetia et Histria, con M. Chiabà, in
Le quotidien institutionnel des cités municipales de l’Empire romain d’Occident. [«Atti del
Convegno internazionale, Parigi, 5-6 novembre 2004»], «MEFRA» CXVII, 2 (2005),
439-447 (G. B.), 447-463 (M. C.).
173. La conquista dell’ager Gallicus e il problema della colonia Aesis, «AN» LXXVI
(2005), 13-54.
174. Medea Norsa giovane, in F. Crevatin - G. Tedeschi (cur.), Scrivere leggere interpretare: studi di antichità in onore di Sergio Daris, Trieste 2005, 65-96 (www.openstarts.units.
it/dspace/handle/10077/5385).
175. Edizione di G. Bandelli - E. Montagnari Kokelj (cur.), Carlo Marchesetti
e i castellieri. 1903-2003. «Atti del Convegno Internazionale di Studi, Castello di
Duino (Trieste), 14-15 novembre 2003», con la collaborazione di K. Mihovilić e
P. Novaković, Trieste 2005.
176. Edizione di «AN» LXXVI (2005).
2006
177. Momigliano e la “Roman Revolution”, in L. Polverini (cur.), Arnaldo Momigliano
nella storiografia del Novecento. [«Atti del Convegno Internazionale di Studi, Spoleto, 31
maggio - 2 giugno 1999»], Roma 2006, 199-217.
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elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
178. Presentazione di G. Cresci Marrone - M. Tirelli (cur.), “Terminavit sepulcrum”.
I recinti funerari nelle necropoli di Altino. «Atti del Convegno, Venezia, 3-4 dicembre
2003» (Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 19 - Altinum. Studi di archeologia, epigrafia e storia, 4), Roma 2005, [Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 7 marzo
2006], «Quaderni di Archeologia del Veneto» XXII (2006), 285-288.
179. Carlo Maranelli e Gaetano Salvemini contro Attilio Tamaro. Il ricorso all’Antico nella “Questione dell’Adriatico”, in M. Faraguna - V. Vedaldi Iasbez (cur.), Δύνασθαι
διδάσκειν. «Studi in onore di Filippo Càssola per il suo ottantesimo compleanno», Trieste
2006, 1-20.
180. Ricordo di Filippo Càssola (Napoli, 6 agosto 1925 - Trieste, 2 giugno 2006), «AN»
LXXVII (2006), 11-38.
181. Ricordo di Luigia Achillea Stella (Pavia, 16 dicembre 1904 - Roma, 10 ottobre 1998), in
E. Pellizer (cur.), L. A. Stella, Scritti minori di Letteratura greca, Trieste 2006, IX-XIV.
182. Edizione di «AN» LXXVII (2006).
2007
183. Carlo Maranelli e Gaetano Salvemini contro Attilio Tamaro. Il ricorso all’Antico nella
“Questione dell’Adriatico”. 1914-1919, in S. Cavazza - G. Trebbi (cur.), Attilio Tamaro e
Fabio Cusin nella storiografia triestina. «Atti del Convegno in ricordo di Arduino Agnelli,
Trieste, 15-16 ottobre 2005», Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Trieste
2007, 93-116.
184. Considerazioni sulla romanizzazione del Piceno (III-I secolo a.C.), in Il Piceno romano
dal III sec. a.C. al III d.C. «Atti del XLI Convegno di Studi Maceratesi, Abbadia di Fiastra
(Tolentino), 26-27 novembre 2005», «Studi Maceratesi» XLI (2007), 1-26.
185. Conclusioni, in Le regioni di Aquileia e Spalato in epoca romana. «Atti del Convegno
internazionale, Castello di Udine, 4 aprile 2006», Treviso 2007, 261-267.
186. Le aristocrazie cisalpine di età repubblicana. I. Dalla guerra senonica (285-283 a.C.)
alla guerra sociale (91-89 a.C.), in E. Lo Cascio - G. D. Merola (cur.), Forme di aggregazione nel mondo romano: profili istituzionali e sociali, dinamiche economiche, identificazioni
culturali. «Atti dell’Incontro di studio, Sant’Angelo d’Ischia, 6-8 aprile 2006», Bari 2007,
119-135.
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gino bandelli
187. Considerazioni storiche sull’urbanizzazione cisalpina di età repubblicana (283-89 a.C.),
in L. Brecciaroli Taborelli (cur.), Forme e tempi dell’urbanizzazione della Cisalpina
(II secolo a.C. - I secolo d.C.). «Atti delle Giornate di studio, Torino, 4-6 maggio 2006»,
Firenze 2007, 15-28.
188. Intervento nelle Conclusioni, in L’Adriatico: un ponte d’acqua. «Atti del Convegno,
Acquaviva Picena, 27 maggio 2006», «Groma» I (2007), 40.
189. Introduzione, in M. Chiabà - P. Maggi - C. Magrini (cur.), Le valli del Natisone
e dell’Isonzo tra Centroeuropa e Adriatico. «Atti del Convegno internazionale, San Pietro
al Natisone - Cividale del Friuli, 15-16 settembre 2006» (Studi e Ricerche sulla Gallia
Cisalpina, 20), Roma 2007, 11-12.
190. Conclusioni, in A. Buonopane - M. Buora - A. Marcone (cur.), La ricerca epigrafica e antiquaria nelle Venezie dall’età napoleonica all’Unità. «Atti del Convegno internazionale, Udine - San Daniele, 6-7 ottobre 2006», Firenze 2007, 327-332.
191. Introduzione alla Giornata, in S. Daris - G. Tedeschi (cur.), Memoria renovanda.
«Giornata di studi in memoria di Carlo Corbato, Trieste, 11 ottobre 2006», Deputazione
di Storia Patria per la Venezia Giulia, Trieste 2007, 9-11.
192. Filippo Càssola (1925-2006), [Gorizia, Deputazione di Storia Patria per la Venezia
Giulia, Settimo Convegno Annuale, 14 ottobre 2006; Trieste, Deputazione di Storia Patria
per la Venezia Giulia, Assemblea ordinaria, 18 gennaio 2007], «Quaderni Giuliani di
Storia» XXVIII, 1 (2007), 223-226.
193. Medea Norsa: gli anni giovanili (1877-1912), in M. Capasso (cur.), Hermae. Scholars
and Scholarship in Papyrology, Pisa 2007, 207-221.
194. Presentazione, in C. Morselli (cur.), Trieste antica. Lo scavo di Crosada, I,
Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Trieste 2007, XII.
2008
195. Romani e Picenti dalla stipulazione del foedus (299 a.C.) alla deduzione di Firmum
(264 a.C.), in M. Luni - S. Sconocchia (cur.), I Piceni e la loro riscoperta tra Settecento e
Novecento. [«Atti del Convegno Internazionale, Ancona, 27-29 ottobre 2000»], Urbino
2008, 337-351.
586
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
196. Conclusioni, in M. Medri (cur.), Sentinum 295 a.C. Sassoferrato 2006. 2300 anni
dopo la battaglia. Una città romana tra storia e archeologia. «Atti del Convegno internazionale, Sassoferrato, 21-23 settembre 2006», Roma 2008, 343-354.
197. Epigrafie indigene ed epigrafia dominante nella romanizzazione della Cisalpina. Aspetti
politici e istituzionali (283-89 a.C.), in M. L. Caldelli - G. L. Gregori - S. Orlandi
(cur.), Epigrafia 2006. «Atti della XIVe Rencontre sur l’épigraphie in onore di Silvio
Panciera, [Roma, 18-21 ottobre 2006]», con altri contributi di colleghi, allievi e collaboratori (Tituli, 9), Roma 2008, 43-66.
198. Intervento, in Colonie e municipi nello stato romano, [Roma, Istituto Italiano per la
Storia Antica, 15 giugno 2007], «Athenaeum» XCVI, 2 (2008), 728-730.
199. Le amministrazioni locali nella Transpadana orientale dalla Repubblica all’Impero.
Bilancio conclusivo, con M. Chiabà, in C. Berrendonner - M. Cébeillac-Gervasoni
- L. Lamoine (cur.), Le quotidien municipal dans l’Occident romain. «Actes du Colloque
tenu à Clermont-Ferrand et à Chamalières du 19 au 21 octobre 2007», Clermont-Ferrand
2008, 19-20 (G. B.), 20-36 (M. C.).
200. [Presentazione], in R. Auriemma - S. Karinja (cur.), Terre di mare. L’archeologia
dei paesaggi costieri e le variazioni climatiche. «Atti del Convegno Internazionale di Studi,
Trieste, 8-10 novembre 2007», Trieste 2008, 11.
201. Ricordo di Ruggero Fauro Rossi (Trieste, 4 aprile 1925 - Trieste, 31 ottobre 2007),
[Trieste, Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Assemblea annuale, 26 gennaio
2008] e Opere di Ruggero Fauro Rossi (1951-2006), in R. F. Rossi, Scritti vari sulla Decima
Regio con altri saggi di argomento giuliano, Società Istriana di Archeologia e Storia Patria,
Trieste 2008, IX-XXIII e XXIV-XXX.
202. Recensione di E. Pettenò (cur.), Vasa rubra. Marchi di fabbrica sulla terra sigillata
da Iulia Concordia, Padova 2007, «Quaderni di Archeologia del Veneto» XXIV (2008),
250-252.
2009
203. Aquileia da “fortezza contro i barbari” a “emporio degli Illiri”, in F. Crevatin (cur.),
I luoghi della mediazione. Confini, scambi, saperi. [«Atti della giornata di studio, Trieste,
18 dicembre 2007»], Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Trieste 2009,
101-126.
587
gino bandelli
204. Ruggero Fauro Rossi, [Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia,
Assemblea ordinaria, 21 gennaio 2008], «Quaderni Giuliani di Storia» XXX, 2 (2009),
449-457.
205. Agricoltura e allevamento nella Cisalpina repubblicana, in J. Carlsen - E. Lo Cascio
(cur.), Agricoltura e scambi nell’Italia tardo-repubblicana. «Atti del Convegno internazionale, Roma, 24-26 gennaio 2008», Bari 2009, 369-394.
206. Filippo Càssola e “I gruppi politici romani nel III secolo a.C.”, [Milano, Università
Cattolica del Sacro Cuore, 15 febbraio 2008], in G. Zecchini (cur.), ‘Partiti’ e fazioni
nell’esperienza politica romana, Milano 2009, 31-47.
207. Note sulla categoria di romanizzazione con riferimento alla Venetia e all’Histria, in
G. Cuscito (cur.), Aspetti e problemi della romanizzazione. Venetia, Histria e arco alpino orientale. «Atti della XXXIX Settimana di Studi Aquileiesi, 15-17 maggio 2008»,
«Antichità Altoadriatiche» LXVIII (2009), 29-69.
208. Un omaggio storiografico [a Sergio Tavano], [Trieste, Deputazione di Storia Patria
per la Venezia Giulia, Assemblea ordinaria, 22 gennaio 2009], «Ce fastu?» LXXXV, 1
(2009), 131-133.
209. Parma durante la Repubblica. Dalla fondazione della colonia a Cesare, in D. Vera
(cur.), Storia di Parma, II, Parma romana, Parma 2009, 180-217.
2010
210. Aquileia romana e archeologia fascista. 25 aprile 1928 - 21 settembre 1938, in Dossier:
Atti del Convegno per l’ottantesimo anniversario della fondazione dell’Associazione Nazionale
per Aquileia, [Aquileia, 26 settembre 2009], «AN» LXXXI (2010), 81-116.
211. Presentazione di G. Cresci Marrone - M. Tirelli (cur.), Altnoi. Il santuario altinate: strutture del sacro a confronto e i luoghi di culto lungo la via Annia. «Atti del Convegno,
Venezia, 4-6 dicembre 2006» (Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina, 23 - Altinum. Studi
di archeologia, epigrafia e storia, 5), Roma 2009, [Venezia, Sala del Consiglio di Ca’ Corner,
2 dicembre 2009], «Quaderni di Archeologia del Veneto» XXVI (2010), 251-253.
212. Leandro Polverini e la storiografia moderna sul mondo antico, in Mélanges Leandro
Polverini, «Anabases» XII (2010), 23-43.
588
elenco delle pubblicazioni dal 1969 al 2013
2011
213. Stranieri ad Aquileia in età repubblicana, in J. M. Iglesias Gil - A. Ruiz Gutiérrez
(cur.), Viajes y cambios de residencia en el mundo romano. [«Atti del Convegno internazionale, Santander, 17-18 febbraio 2011»], Santander 2011, 23-45.
214. Il primo storico di Aquileia romana: Iacobus Utinensis (c. 1410 - 1482), in F. Bottari
- L. Casarsa - L. Cristante - M. Fernandelli (cur.), Dignum laude virum. «Studi di
cultura classica e musica offerti a Franco Serpa» (Polymnia. Studi di filologia classica, 14),
Trieste 2011, 205-233.
215. Recensione di J. Briscoe, A Commentary on Livy. Books 38-40, Oxford 2008,
«Athenaeum» IC, 1 (2011), 245-249.
216. Prefazione, in M. Chiabà, Roma e le priscae Latinae coloniae. Ricerche sulla colonizzazione del Lazio dalla costituzione della repubblica alla guerra latina (Polymnia. Studi di
Storia romana, 1), Trieste 2011, VII-VIII.
2012
217. Considerazioni preliminari sulle ricerche naturalistiche e paletnologiche svolte a Trieste
nella fase iniziale dell’età positivistica (1866-1877) / Uvodni premislek o naravoslovnih in
paleoetnoloških raziskavah, opravljenih v Trstu v začetni fazi pozitivističnega obdobja (18661877), in S. Flego - L. Rupel (cur.), Ludwig Karl Moser (1845-1918) med Dunajem in
Trstom / Ludwig Karl Moser (1845-1918) tra Vienna e Trieste. «Zbornik Mednarodnega
študijskega dne / Atti della Giornata internazionale di Studi, Trst, 21. novembra 2008 /
Trieste, 21 novembre 2008», Ljubljana, Založba ZRC, ZRC SAZU / Narodna in študijska
knjižnica Trst - Biblioteca nazionale slovena e degli studi Trieste 2012, 13-29.
218. “Ceti medi”, aristocrazia decurionale, ordo equester e ordo senatorius nella società
ravennate della Tarda Repubblica e dell’Alto Impero, in F. Berti - V. Scarano Ussani
(cur.), Memoriam habeto. Dal sepolcreto dei Fadieni: stele figurate ed iscrizioni in Cisalpina.
«Atti del Convegno nazionale, Ferrara - Gambulaga, 19-20-21 marzo 2009», «Ostraka»
XIX, 1-2 (2010) [ma 2012], 11-29.
219. Presentazione di M. Tirelli (cur.), Altino antica. Dai Veneti a Venezia, Venezia 2011,
[Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 11 maggio 2011], «Quaderni di
Archeologia del Veneto» XXVIII (2012), 218-220.
589
gino bandelli
220. Considerazioni a margine di un Convegno, in M. S. Busana - P. Basso (cur.), La
lana nella Cisalpina romana. Economia e società. «Studi in onore di Stefania Pesavento
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