http://www.aboutgender.unige.it
Vol. 5 N° 10 anno 2016
pp. 282-304
Critica femminista alle norme italiane sulle violenze di genere
/ Feminist Critique of the Italian Legislation on Gender Related
Violence
Sara Cagliero
Barbara Biglia
Universitat Rovia i Virgili
Abstract1
In this article we propose a critical reflection on the Italian legislation on gender related
violences.. In the text we use and promote the use of the expression gender violences
(plural) as we consider that it allows to describe the violences based on gender
stereotypes and gender power relations. As we will describe in the first section, we
consider that the use of other expressions fail to highlight the common roots of the
multiple expressions of gender related violences. The analysis we propose is part of a
European research- action project - Gap Work - for the training of professionals who
have daily contact with children and youth. The project has shown that in Italy the
relatively recent legal interest in gender violences was not accompanied by a
challenging of the heteropatriarcal power relations but, on the contrary, it served to
1
Si ringrazia la Dott.ssa Selene Cilluffo per l’aiuto nella edizione di questo elaborato
282
preserve them in an allegedly more progressive pattern.
Keywords: gender violences, normativity, legislation, feminism.
1. Introduzione
Le violenze di genere, negli ultimi decenni, sono diventate un problema d'interesse
pubblico e collettivo (Creazzo 2011). Da quando si riconosceva solo l'esistenza della
violenza domestica, tema relegato nello spazio del privato, all'interno di relazioni
familiari nelle quali era considerato improprio implicarsi, si è trasformato in un
argomento a cui bisogna continuamente far riferimento. Questo cambiamento è
indubbiamente un successo del movimento femminista, che da anni rivendica l'esigenza
di riconoscere questa piaga sociale, sottolineando le responsabilità culturali e politiche
che permettono il suo perpetuarsi (Htun e Weldon 2012). Tuttavia, è necessario
interrogarsi fino a che punto questo generalizzato interesse verso le violenze di genere, a
livello sociale e normativo, trasformi le relazioni di potere eteropatriarcali o quanto, al
contrario, serva per mantenerle. Infatti «La pluralità di interpretazioni della violenza
domestica nei dibattiti politici si riflette sia a livello di attività dei governi, all'ora di
adottare misure per farvi fronte, sia nel modo in cui viene definito come problema
politico» (Krizsán et al. 2007, 141). Nel contesto del progetto Gap Work, co-finanziato
dall'Unione Europea all'interno del programma Daphne, abbiamo voluto avvicinarci alle
differenti concezioni politiche attorno al problema, attraverso un'analisi sociologica
delle normative vigenti in Inghilterra, Irlanda, Spagna, Italia e in quella comunitaria.
Nello specifico del presente articolo, proponiamo una critica femminista delle norme
italiane attualmente in vigore in materia di violenze di genere. Una prima revisione della
letteratura e le interviste con le Dottoresse Alisa del Re e Daniela Danna, che
ringraziamo per l'inestimabile aiuto, ci ha permesso identificare i testi da analizzare:
sette leggi promulgate tra il 1996 e il 2013. Tra queste abbiamo incluso il Decreto
Legislativo 216/2003 in quanto, sebbene si limiti alle discriminazioni nell'ambito
283
lavorativo2, è l'unico testo giuridico che fa riferimento alle violenze di genere per
questioni di preferenza sessuale3 (ma anche quelle per età, religione, disabilità) e ci
permetteva di avvicinarci alle norme sulla omo-lesbo-transfobia. Finalmente, abbiamo
tenuto in considerazione, per la sua importanza simbolica, la legge del 27 giugno 2013,
n. 77, che si limita però a ratificare ed eseguire la Convenzione del Consiglio d'Europa
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza
domestica, proposta a Istanbul l'11 maggio 2011 (L. 77/2013)4.
L. 66/1996
Legge 15 febbraio 1996, n. 66, "Norme contro la violenza sessuale"
Legge 4 aprile 2001, n. 154, "Misure contro la violenza nelle relazioni L. 154/2001
familiari"
Decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, “Attuazione della direttiva D. Lgs. 216/2003
2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro”
Legge 11 agosto 2003, n. 228 , “Misure contro la tratta di persone”
L. 228/2003
Legge 9 gennaio 2006, n. 7, “Disposizioni concernenti la prevenzione e il L. 7/2006
divieto delle pratiche di mutilazioni genitali femminile”
Decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, "Misure urgenti in materia di L. 38/2009
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema
di atti persecutori". Convertito in legge dalla L. 23 aprile 2009, n. 38
Decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, "Disposizioni urgenti in materia di L. 119/2013
sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di
protezione civile e di commissariamento delle province". Convertito in
legge, con modificazioni, dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 119
Tabella 1: Leggi analizzate. Nella colonna di destra la referenza che useremo nel testo per citarle, in
grassetto i documenti che il Dipartimento di Pari Opportunità identifica come “contro la violenza sulle
donne” oggetto di un'analisi in profondità.
Prima di presentare i risultati dell'analisi della legislazione italiana, riteniamo
importante chiarire il paradigma concettuale adottato nel nostro studio. Così, nella
prima sezione spiegheremo perché riteniamo necessario, per un'analisi femminista, uno
spostamento dall'uso dell'espressione violenza contro le donne a quella di violenze di
genere (al plurale) e le implicazioni di tale approccio.
2
L'ambito lavorativo non era al centro del nostro interesse, infatti non abbiamo analizzato il testo che vieta
le molestie basate sul sesso e le molestie sessuali sul luogo di lavoro e nell’accesso ai servizi (codice pari
opportunità, D.lgs. 198/2006) e neanche la più recente disposizione contenuta nel Jobs Act sul congedo
lavorativo per le vittime di violenza (art. 24 D.lgs. 80/2015).
3
Come ci hanno insegnato le compagne dell'associazione Candela (http://candela.cat/inici/), adottiamo
l'uso dell'espressione “preferenza” sessuale invece della più “biologicista” orientamento e della
costruzionista opzione..
4
Per approfondire l’analisi della Convenzione si rimanda a Biglia, Olivella, Cagliero (in pubblicazione).
284
2. Per non fare di tutta l'erba un fascio
Sono molte le espressioni utilizzate per definire, descrivere e parlare delle violenze di
genere. Queste, troppo frequentemente usate come sinonimi, hanno invece significati
molto diversi e non solo rappresentano la visione di chi li sta utilizzando, ma
performano anche una realtà possibile e immaginabile (Biglia 2015; Burgos Díaz 2003).
D'accordo con Peris Vidal (2011) consideriamo che la confusione generata dalla
coesistenza di molteplici espressioni, il cui significato non è peraltro concordato,
provochi la depoliticizzazione della lotta contro le violenze di genere. È per questo
fondamentale assumere una posizione chiara al rispetto.
Inoltre, l'effetto performativo e discriminatorio di questa confusione si accresce
quando si riproduce nelle legislazioni che definiscono e limitano i termini per il
riconoscimento giuridico di un abuso, sopruso o violenza. Infatti «le norme sociali e
legali possono rendere le donne più vulnerabili alla violenza e facilitare che altri
abusino di loro aspettandosi l'impunità» (Htun e Weldon 2012, 549). L'impatto diventa
particolarmente intenso, a livello sociale, in quanto «da alcuni anni la tensione tra diritto
e giustizia sembra risolversi nella direzione di un'egemonia del diritto penale» (Bimbi
2013, 28) e le violenze, che non sono riconosciute per legge, vengono scartate,
minimizzate o negate. Inoltre, il ruolo che i governi ricoprono nella lotta alle violenze di
genere (Bonet 2005) permette loro di conservare il controllo sul corpo delle donne e dei
soggetti
sessualmente
o
genericamente
non
normativi:
vittimizzandoci
e
infantilizzandoci ci mantengono dipendenti dallo Stato eteropatriarcale (Marugán e
Vega 2003). Questo permette anche il mantenimento del monopolio statale della
violenza, che può essere esercitata su persone e collettivi definiti come “altri”, su coloro
che non sono considerati come cittadini a pieno diritto e la cui umanità è messa in
discussione (Biglia e San Martín 2005).
Diventa pertanto imprescindibile riflettere sulle forme in cui i termini utilizzati
socialmente e legalmente includono o escludono soggetti, collettivi e realtà sociali e
come possono arrivare ad essere eteronormativi, discriminanti e sessisti. Nei prossimi
paragrafi proponiamo un breve excursus analitico e critico sulle espressioni
maggiormente utilizzate in Italia per descrivere il problema delle violenze di genere,
285
chiarendo inoltre quali sono, a nostro intendere, le implicazioni della nostra scelta
terminologica.
L'espressione ampiamente utilizzata dal movimento femminista negli anni sessanta e
settanta per denunciare l'universalità di questo problema, radicato nella subordinazione
delle donne agli uomini, è stata quella di violenze contro le donne (Danna 2009).
Questo è anche il termine adottato attualmente nella legislazione e nelle politiche
europee che disciplinano il traffico di donne e bambine, le mutilazioni genitali
femminili e le molestie sessuali (FRA 2014).
Questa terminologia, estremamente utile per denunciare soprusi e ottenere il
riconoscimento sociale dell'esistenza del fenomeno, ha però alcune chiare limitazioni.
Infatti, mettendo l'accento sul soggetto che riceve la violenza, non identifica
chiaramente le ragioni che permettono il suo mantenimento. Inoltre, l'espressione
violenze contro le donne, posiziona a livello linguistico le donne come ricettacolo
passivo dell'azione altrui, favorendo lo sviluppo di un atteggiamento vittimizzante e
infantilizzante nei loro confronti (Burman 2005). Effetto che si accresce per il fatto che i
primi studi femministi si centrarono sulle donne che avevano sofferto violenza sessuale
o nei rapporti di coppia, spesso nello spazio domestico (Toffanin 2012). Infatti, sebbene
queste ricerche intendessero mettere in luce il problema e, evidenziando il dolore e le
necessità delle donne che soffrivano abusi e maltrattamenti, volessero spingere la
società a riconoscerne l'entità, contribuirono involontariamente alla creazione di un
immaginario di donna debole e bisognosa di protezione (paternalista o maternalista).
D'altra parte, l'espressione violenza contro le donne, reifica l'esistenza di un
collettivo omogeneo di donne, limitando la possibilità di identificare le necessità
specifiche di alcuni gruppi di donne e dei soggetti genericamente non normativi (Biglia
2015). Da ultimo, l'uso di questa espressione ha avuto un effetto boomerang di
deresponsabilizzazione sociale con la scusa che, trattandosi di un problema delle donne,
dovessero essere solo loro a occuparsene.
Pensiamo che queste limitazioni si riproducano anche nel più recente uso delle
espressioni come violenza maschile (Romito 2005) e violenza maschile contro le donne
(Pitch 2008). Sebbene queste formulazioni possano avere il pregio di «allontanarci dalla
rappresentazione caricaturale del maltrattatore e dallo stigma proprio della limitatezza,
286
senza perdere di vista le relazioni e le dinamiche di genere» (Casado 2012, 24) e di
evidenziare il carattere sistematico e sistemico di questo tipo di violenza, hanno il
difetto di reificare la dicotomia di genere e di ridurre il problema a una “guerra” tra
uomini e donne.
Quest'idea di contrasto “tra i generi” è ancora più sviluppata nell'interpretazione e
nell'uso che si fa frequentemente dell'espressione femminicidio5, come sinonimo di
violenza contro le donne nello spazio dei rapporti di coppia (Spinelli 2008), invece di
tenere in considerazione come questo termine voglia sottolineare, nello specifico,
l'impunità in cui si producono le uccisioni (a volte massive, come nell'emblematico caso
di Ciudad Juárez) delle donne (Toledo 2008). Riteniamo che con quest'uso limitato del
termine si riduca un gravissimo problema sociale a una battaglia tra uomini,
intrinsecamente malvagi, e donne, vittime passive.
Detto ciò, non si può non convenire che le lotte femministe della cosiddetta seconda
ondata abbiano permesso il riconoscimento del problema della violenza contro (alcune)
donne e come siano state capaci di produrre l'accettazione e/o istituzionalizzazione del
femminismo, così come il mainstreaming di alcune delle loro rivendicazioni (Walby
2002). Hanno forzato inoltre l'uso di linguaggi, anche legali, meno discriminanti (Mills
2008) e hanno favorito il riconoscimento dell'importanza di tenere in considerazione le
relazioni di genere nelle analisi sociali, come, per esempio, stabilisce la UE: «La
dimensione di genere è adeguatamente integrata nel contenuto delle ricerche e
dell'innovazione strategica, nei programmi e nei progetti, ed è presente in tutte le fasi
del ciclo di una ricerca» (art. 16 Regolamento (UE) n. 1291/2013).
Però, le critiche delle femministe nere e lesbiche, mettendo in dubbio l'esistenza di
un soggetto donna univoco6, hanno aperto la porta a un’analisi più complessa della
realtà in tutti gli ambiti della teoria, ma anche della pratica femminista. Rispetto al
nostro tema, se l'esperienza delle nere non è stata presa in considerazione nelle prime
critiche femministe alla società patriarcale, e se «le lesbiche non sono donne» (Wittig
1980), parlare di violenza contro le donne implica continuare ad escludere nere e
5
In italiano, come in spagnolo, il termine femicide (Redford e Russell 1992) è stato tradotto sia come
femmicidio (Karadole 2012) che come femminicidio (Spinelli 2008). Per approfondire l’analisi della
differenza terminologica, si consiglia la lettura di Toledo Vásquez (2008).
6
Per una spiegazione di questo processo si vedano per esempio Nicholson (1990); Tietjens Meyers (1997)
e in italiano De Petris (2005).
287
lesbiche e riprodurre una violenza in seno allo stesso femminismo. Si propone, quindi,
uno spostamento dell'accento dal soggetto che riceve la violenza al sistema
eteropatriarcale che la causa. Ciò ha portato, tra le altre cose, a coniare l'espressione
violenza di genere, per evidenziare come le violenze fossero delle costruzioni sociali.
Tale locuzione è, attualmente, una delle più usate in Italia, non solo dai movimenti
femministi, ma anche dai mass media che hanno proiettato questa questione
direttamente al centro dell'arena pubblica, facendola trascendere dalle mura domestiche
in cui era stata troppo spesso confinata, e agevolando la produzione di ricerche che
mettano «in campo le relazioni di genere e il loro intreccio col potere» (Balsamo 2011,
5).
L'uso dell'espressione “violenza di genere” permette denunciare la responsabilità
collettiva e produce, conseguentemente, una forte pressione anche per la definizione di
norme a più ampio spettro, che non si limitino a punire i “colpevoli” o a appoggiare le
“vittime”. Emblematico, in questo senso, il caso della legge contro le violenze di genere
in Spagna (LO 1/2004): approvata grazie alle forti pressioni femministe, include molte
misure preventive ed educative. Malgrado ciò, in questa legge, come succede anche in
testi accademici (per esempio, Adami 2003), si finisce col ridurre erroneamente il
concetto genere alle “donne”, affermando che la violenza di genere è quella attuata da
un uomo contro la sua partner eterosessuale (Biglia, Olivella e Jimenez 2014). La
conseguenza di quest'abuso terminologico è quella di svuotare il termine “genere” del
suo potenziale critico, considerando nuovamente la violenza di genere come la violenza
(domestica) verso le donne, almeno per quelle che sono le soluzioni legali al problema.
Inoltre, secondo questa formulazione, le differenze di genere si concepiscono in base
a una visione occidentale che normativizza le espressioni e i vissuti della violenza di
genere, annullando l'esperienza specifica di soggetti appartenenti a culture non
occidentali (Bimbi 2014). Contrariamente a questa tendenza, alcune autrici (Carnino
2011; Toffanin 2011) rivendicano l'importanza di tenere in conto l'eterogeneità delle
donne e di riconoscere forme di violenza spesso invisibili. Altre femministe, come
Giuditta Creazzo (2011), usando l'espressione violenza fondata sul genere, sottolineano
la differente vulnerabilità delle persone in relazione alle loro caratteristiche (d'età,
preferenza sessuale, genere, stato legale etc..).
288
Detto ciò, uno degli effetti perversi della ampia diffusione dell'uso dell'espressione
violenza di genere, è l’argomentazione secondo cui poiché tutte le persone
appartengono a un genere, donne e uomini sono “identicamente” suscettibili ad
esercitare e/o ricevere violenza. Questo punto di vista, nega le differenze nella
socializzazione genderizzata alla violenza e non contempla l'esistenza delle relazioni di
potere presenti nella nostra società (Biglia 2007). Nella sua versione più estrema, questo
discorso porta ad affermare che l'uguaglianza è ormai raggiunta e che pertanto norme o
politiche che tengano in considerazione le differenze di genere siano discriminanti verso
gli uomini. Come risposta a questa lettura, che torna a invisibilizzare le relazioni di
potere, alcune femministe insistono nel tornare all'uso del termine violenza contro le
donne o parlano di violenza ginocida (Danna 2007, 2009) per denunciare i soprusi
attuati dagli uomini al fine di esercitare il loro potere sulle donne o su altri soggetti.
Un ultimo limite che ci preme sottolineare dell'espressione violenza di genere, è che
l'uso della preposizione “di”, stabilendo una relazione di causa effetto tra il genere e la
violenza, produce un'oscillazione tra «un'interpretazione atemporale e delocalizzata
della violenza come strumento patriarcale e una visiona individualizzata nella quale
svaniscono tanto le strutture e la materialità come le pratiche di soggettivazione»
(Casado 2012, 20).
Nell'intento di superare queste limitazioni optiamo per l'adozione dell'espressione
violenze di genere (d'ora in avanti VdG) al plurale. Questo ci permette riconoscere che
la violenza esercitata sulle donne nelle relazioni di coppia eterosessuali, a cui fanno
riferimento quasi esclusivamente molti testi legali (Biglia, Olivella e Jimenez 2014), è
solo una delle possibili manifestazioni di una molteplicità di violenze che si basano e si
sostengono nella visione eteropatriarcale della nostra cultura. Denunciamo, inoltre con
questa espressione, che il genere di per sé è una violenza che obbliga all'assunzione di
ruoli, attitudini e comportamenti stereotipati, pena la discriminazione sociale, arrivando
addirittura a negare il diritto ad esistere a tutti i soggetti che non si riconoscono nella
genderizzazione binaria (Biglia e San Martín 2007; Biglia 2015). Sottolineiamo
l'esistenza di gravissime Vdg disciplinari, come per esempio la medicalizzazione del
parto, l'invenzione di patologie apparentemente femminili come la sindrome premestruale, la depressione post parto (Cabruja 2007) o le tecniche eugenetiche di
289
controllo della natalità in nazioni sdegnosamente definite come “in via di sviluppo”
(Luxan 2007). Riconosciamo che le stesse radici sostengono le violenze che si
perpetuano contro corpi e sessualità non normative per punire la loro non conformità e
ribellione.
Consideriamo, quindi, le VdG come quelle che si basano su una visione stereotipata
dei generi e sulle relazioni di potere genderizzate. Questo ci permette denunciare che le
VdG colpiscono con maggior forza i soggetti in situazioni subalterne: le donne, le
persone sessualmente non normative (lesbiche, bisessuali, omosessuali, etc.) o
genericamente ribelli (trans, queer, etc.). Per affrontare dal punto di vista legislativo e
sociale questo problema non si può quindi continuare a trattarlo come un fenomeno
straordinario che implica direttamente solo le donne come “vittime” e gli uomini come
“aggressori”, ma è necessario mettere in discussione, integralmente e profondamente, le
norme di genere e le relazioni di potere. Come ci hanno insegnato le femministe nere, è
inoltre fondamentale riconoscere gli effetti dell'intersezionalità (Crenshaw 1989) nella
specificità dell'esperienza della violenza, così come per comprendere la particolare
vulnerabilità di alcuni gruppi sociali7. Per fare solo due esempi: le donne migranti senza
permesso di soggiorno che sono violentate difficilmente sentono di poter denunciare i
propri aggressori (Naredo 2013) e le persone con mobilità ridotta che dipendono dalla
collaborazione di altri per espletare necessità basiche hanno delle difficoltà enormi al
momento di intraprendere il cammino verso l'indipendenza da un partner abusante
(Munson 2011).
3. Il quadro giuridico italiano: risultati dell'analisi
Il modello d'analisi utilizzato, disegnato dalle autrici in collaborazione con Maria
Olivella Quintana e con la consulenza esterna del Dr. Jordi Bonet, si è ispirato a quello
dell’Institut de Govern i Polítiques Publiques (Subirats et al 2008; Adelantado et al.
2013) incentrato su tre dimensioni: la simbolica, la sostantiva e l'operativa. Nello
7
In questo processo dobbiamo essere molto caute a non “disarticolare l’intersezionalità dalle sue radici
teoriche, politiche e metodologiche, sostituendola con forme essenzialiste e reificanti di identità politiche
e/o modelli dominanti di ricerca” (Alexander-Floyd 2012, 18-9).
290
specifico di questo articolo, d'accordo con quanto spiegato nella sezione precedente,
consideriamo importante, per comprendere il modo in cui si concepiscono/interpretano
le VdG nella legislazione, identificare la terminologia che si utilizza per menzionarle.
Questo ci permetterà individuare quali espressioni delle VdG ricevono attenzione
legislativa e quali non sono riconosciute. Successivamente, crediamo che sia importante
comprendere se le VdG sono riconosciute come un problema sociale o di ordine
pubblico. L'analisi della tipologia delle leggi in materia di Vdg (penali, civili etc.) e
delle misure preventive o di sensibilizzazione previste in ognuna ci aiuterà in questo
senso. D'altra parte, i soggetti o collettivi che vengono menzionati nella legislazione, e
l'agency a loro associata, è utile per capire se esistono differenze nel riconoscimento
sociale tra soggetti. Infatti «il diritto ad avere voce nel campo di una determinata
politica è strettamente cllegato a questioni di potere e relazionato all'attuale inclusione o
esclusione di attori nel/dal dibattito politico» (Verloo e Lombardo 2007, 27). Da ultimo,
abbiamo analizzato nello specifico se, e in che modo, la comunità GLBTI (GayLesbico-Bisessuale-Transessuale-Intersessuale) e le persone con preferenze sessuali
(Associació Candela 2012) non eteronormative appaiono o meno come soggetti nei testi
analizzati.
Prima di tutto, possiamo notare come, contrariamente a quello riscontrato per altri
paesi europei (Biglia, Olivella e Cagliero, in pubblicazione), in Italia la maggioranza
delle leggi sono esclusivamente penali o, sebbene modifichino alcuni aspetti di altri testi
giuridici, propongono principalmente misure iscritte nel codice penale. Nella tabella 2
specifichiamo a quale di queste due tipologie di norme appartengono le leggi analizzate,
chiamando le seconde miste8.
Penale
Mista
L.66/1996, L.7/2006; L.38/2009;
L.119/2013
L.154/2001; D.Lgs 216/2003; L.228/2003
Tabella 2: Tipo di atto normativo
Così, tanto le leggi promosse da governi di centro-destra (D.Lgs 216/2003, L. 228/2003,
8
Definiamo come miste quelle leggi nelle quali si prevedono provvedimenti di molti tipi (penali, civili,
tributari etc.) contemporaneamente.
291
L.7/2006, L. 38/2009) quanto quelle promosse da governi di centro-sinistra (L. 66/1996,
L. 154/2001, L. 119/2013), hanno mantenuto un'ottica repressiva, attraverso numerosi
provvedimenti tra i quali possiamo ricordare: l’introduzione di nuovi reati (di violenza
sessuale e violenza sessuale di gruppo, art. 3 L.66/1996; tratta e schiavitù, art. 2
L.228/2003; mutilazioni genitali femminili, art. 1 L.7/2006; delitto di atti persecutori,
art. 12 L.38/2009 etc.); l'aumento delle pene (L. 38/2009 e L. 119/2013) o ad esempio
l’introduzione di pene accessorie d’espulsione per autori stranieri (art. 13 L. 119/2013).
Le VdG appaiono, dunque, interpretate dal legislatore italiano come un problema
d’ordine pubblico e di sicurezza. Inoltre, come suggerisce Pitch (2008), la
promulgazione di queste leggi sembra voler contenere l'allarme sociale provocato per
avvenimenti sanguinosi di violenza sessuale, concentrandosi negli ultimi anni quasi
esclusivamente su quelli commessi da cittadini stranieri. Quest'ipotesi si rafforza
quando ci si rende conto della mancanza di una definizione legislativa organica di
“violenza di genere” come appare nella tabella 3. Infatti, sebbene si identifichino varie
fattispecie di reati come violenza sessuale (L. 66/1996) violenza domestica
(L.119/2013), mutilazioni genitali femminili (L.7/2006), stalking (L. 38/2009), non si
riconosce in nessun caso l'origine comune delle differenti forme di VdG, trattandole
così in modo frammentato.
violenza sessuale , atti sessuali, violenza sessuale di gruppo
L. 66/1996
L. 154/2001 violenza nelle relazioni familiari, abusi familiari, pericolo determinato per altri familiari
D.
lgs molestie
216/2003
L. 228/2003 tratta
mutilazione genitale femminile
L. 7/2006
stalking, atti persecutori
L. 38/2009
L. 77/2013
L. 119/2013
violenza nei confronti delle donne e violenza domestica
violenza di genere, maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori, violenza domestica,
abuso, violenza alla persona, maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenza
sessuale e di genere, violenza nelle relazioni affettive, violenza contro le donne, violenza
subita dalle persone.
Tabella 3: Fattispecie di reati di VdG
Questo predominio penale, si riflette anche nella limitatezza dei provvedimenti
preventivi ed educativi. Così, se da una parte sono stati introdotti o rinforzati delitti e
pene direttamente legati alle VdG, dall'altra si è fatto molto poco per favorire l'effettiva
292
lotta contro le violenze attraverso misure specifiche per tutelare chi le soffre e/o per
educare e sensibilizzare le giovani generazioni (Guarnieri et. al. 2012). Infatti, come
abbiamo potuto comprovare, le leggi che prevedono questo tipo di misure, riportate
nella tabella 4, lo fanno di modo sbrigativo e superficiale, ovvero senza approfondire
quali saranno le istituzioni responsabili della loro messa in atto e senza prevedere
meccanismi di monitoraggio e controllo delle misure stesse.
Misure preventive di sensibilizzazione e possibili corsi per personale qualificato (art. 14)
Misure preventive si carattere informativo sulle MGF (art 3.a), di sensibilizzazione tra le
comunità straniere art 3.b), nelle scuole, “per diffondere in classe la conoscenza dei diritti
delle donne e delle bambine” (art 3.c).
Organizzazione di corsi di formazione per il personale sanitario e per tutti quelli che
lavorano a contatto con le comunità straniere per realizzare attività di prevenzione,
assistenza e riabilitazione (art. 5).
L. 119/2013 (art. 5): prevenzione del fenomeno delle VdG attraverso misure d'informazione e
sensibilizzazione (art. 5.2a); sensibilizzazione degli operatori del settore della
comunicazione (art.5.2b); formazione adeguata del personale del settore educativo perché
sensibilizzi e formi gli studenti (art5.2c).
Tabella 4: Leggi che includono misure preventive o educative
L.228/2003
L. 7/2006
Per esempio, per quanto la legge sulla tratta (L.228/2003) includa misure di
sensibilizzazione e formazione per personale qualificato, non specifica in che modo, con
quali fondi e chi sarà responsabile di rendere operativi tali provvedimenti. La stessa
cosa si verifica nella legge sulle mutilazioni genitali femminili (L.7/2006), nella quale si
annunciano, ma non si concretano, generiche misure di carattere informativo, formativo
e preventivo. Anche nella legge più recente (L.119/2013), attraverso il “Piano d’azione
straordinario” si sono introdotte misure di sensibilizzazione, prevenzione e di
formazione per il personale del settore educativo non abbinate, però, ad azioni
strutturali. In più, come ha evidenziato il Rapporto Ombra sull’attuazione della
Piattaforma di Pechino 2009-2014 (Lanzoni et. al. 2014), il carattere “straordinario” non
è coerente con la natura strutturale delle VdG.
Un altro effetto della visione delle VdG come un problema di sicurezza e di ordine
pubblico si manifesta nella descrizione dei soggetti e collettivi nominati nella normativa
e l'agency a loro riconosciuta. In tutte le leggi analizzate, gli unici veri attori con potere
d’azione sono le istituzioni e i loro dirigenti (come per esempio il questore, le forze
293
dell’ordine, etc.); tutti gli altri attori implicati e la società civile non vengono menzionati
come possibili protagonisti nel contesto della lotta contro le VdG.
Invece, per esempio, nella già citata legge spagnola LO 1/2004, così come nella legge
catalana 5/2008 sul diritto delle donne a combattere la violenza maschilista, viene
riconosciuto il ruolo attivo del movimento femminista, delle associazioni di donne e di
tutte le organizzazioni sociali che combattono contro le VdG.
Minorenni/minori
Persone con inferiorità física o psichica (art 3.1.1)
Giovani come figlio/figlia della persona offesa (art 1.2.4) o figli della coppia (2.1)
L. 154/2001
Considera casi di discriminazione per: religione, convinzioni personali, disabilità, età,
D.Lgs
orientamento sessuale (art.1)
216/2003
Minorenni come vittime del delitto
L. 228/2003
Prostituzione di una donna (art.9.5)
L. 7/2006
Donne e bambine (definite come minorenni) immigrate come vittime del delitto
Giovani: minorenni/minori
L. 38/2009
Diversità Funzionale: Persone con inferiorità física o psichica (art 3.1.1)
Donna in stato di gravidanza
Giovani: minore, minorenni o figli della persona offesa
L. 119/2013
Donne immigrate come gruppo che in alcuni casi ha bisogno di una protezione specifica.
Donna o persona in stato di gravidanza
Tabella 5: Soggetti e collettivi specifici
L. 66/1996
Inoltre, è apprezzabile come, per quanto nei testi si differenzi generalmente tra soggetto
aggressore ed offeso, entrambi siano presentati e descritti indistintamente, neutri in
termini di classe, genere, preferenza sessuale, etnia. Ciò implica il non riconoscimento
delle VdG come effetto di relazioni di potere diseguali e basate su molteplici sistemi di
dominazione. Di fatto, l'impiego del maschile come generico, riproduce un linguaggio
androcentrico e ha l'effetto di fagocitare o rendere invisibili tutti gli altri soggetti.
Casi di fatto eccezionali, nei quali i soggetti offesi vengono genderizzati (in grassetto
nella tabella 5), sono quello della legge 228/2003- che pur riconoscendo la tratta come
una forma di schiavitù che può colpire tanto sia uomini che donne, esplicita però il caso
di tratta a fini di sfruttamento sessuale o prostituzione di una donna (art. 9.5) - e della
legge sulle mutilazioni genitali femminili (L. 7/2006) - nella quale i soggetti offesi sono
chiaramente descritti come donne e bambine immigrate (art. 6). Possiamo chiederci fino
a che punto sia casuale che la genderizzazione sia abbinata a una descrizione dei delitti
che colloca in un luogo di estrema vittimizzazione e vulnerabilità donne e bambine.
294
Oltretutto, stiamo parlando di casi in cui entrano in gioco le differenze culturali: le
persone a rischio o che sono soggette alla tratta o alle mutilazioni sono donne immigrate
(art. 1 L. 7/2006) così come, presumibilmente, i loro aggressori. Si manifesta, anche in
quest'occasione, il carattere interessato della legislazione italiana che sembra
riconoscere il sessismo solo nelle altre culture per poi usarlo come strumento razzista.
Inoltre, durante l'analisi abbiamo compreso come, sebbene il contesto discriminatorio
in cui numerose persone vivono a causa della propria preferenza sessuale e della propria
identità di genere sia allarmante (Cartabia 2008), in nessuna delle leggi analizzate si fa
riferimento all’omofobia, alla transfobia, alla lesbofobia o ad altre forme di VdG basate
sulla preferenza sessuale e sull'identità di genere. Unica eccezione è quella del Dlgs
216/2003, nel quale si considerarono le molestie basate sull’orientamento sessuale come
forma di discriminazione (art. 2.1). E’ ipotizzabile che il fatto che ci siano attualmente
forme di protezione dalla discriminazione basata sull'orientamento sessuale solo rispetto
al mercato del lavoro ed all'assistenza umanitaria (come riconosce la sentenza
07/11/2013 n° C-199/12 della Corte di Giustizia UE, sez. IV) sia direttamente
relazionato con le esplicite raccomandazioni della UE in questo senso.
4. Concludendo e aprendo nuove porte
In Italia, tanto le politiche di pari opportunità quanto la legislazione riguardante le VdG,
si sono sviluppate con un ritardo notevole rispetto a molti paesi dell'Unione Europea
(Maricci e Vangelisti 2013). Inoltre, come ci ricorda Cavina (2011), il nostro
ordinamento giuridico è stato per molto tempo impregnato di violenza, con un
immaginario patriarcale che ha segnato profondamente la storia del diritto medioevale,
moderno e contemporaneo. La nostra ricerca ci ha permesso rilevare, in primis,
l'assenza di riferimenti alle relazioni di genere nella definizione giuridica della
problematica. A nostro avviso, ciò riflette una disattenzione verso l'origine comune
delle differenti forme di violenze. La frammentazione legale con rispetto alle VdG
dimostra che queste non vengono riconosciute come un problema strutturale, sociale e
collettivo (Creazzo 2011). Si tratta il problema come un “inconveniente” di ordine
pubblico e di sicurezza, come mostrano le numerose misure penali introdotte a partire
295
dal 1996 che hanno portato ad un evidente indurimento repressivo. Questo
posizionamento sembra rispecchiare la convinzione che si possa lottare e ottenere
risultati contro le VdG usando semplicemente una logica punitiva, senza la necessità di
interventi strutturali e culturali. Di conseguenza, sebbene l'omissione di misure
educative e preventive potrebbe essere una semplice dimenticanza, siamo più propense
a credere che si tratti di una scelta politica che porta a trattare le VdG come un
fenomeno eccezionale, negando la responsabilità sociali che permettono il loro
perpetrarsi. Inoltre, l’allarme sociale provocato da sanguinosi episodi di violenza
sessuale, che hanno ricevuto una estrema attenzione mediatica9 come si riconosce nella
stessa L. 119/201310, ha permesso rinforzare l’ottica emergenziale e giustificare
l’indurimento repressivo. Contemporaneamente, particolare attenzione politica e dei
mezzi di comunicazione è stata data a quei reati commessi da stranieri, “etnicizzando”
così il problema. D’accordo con Creazzo (2008), l'etnicizzazione delle VdG ha
permesso ai vari governi, senza distinzione di orientamento politico, di effettuare una
lettura strumentale dei diritti delle donne. Le norme analizzate vengono proposte come
risposta alla necessità di sorvegliare e proteggere le donne italiane dai pericolosi “altri”,
producendo una «razzializzazione delle violenze basate sul genere attraverso l’'enfasi
dei “nostri” diritti» (Bimbi 2014, 277). Pertanto, le VdG sono state strumentalizzate per
insistere sulla dialettica della minaccia imminente di un nemico - lo straniero, il diverso
- che vive nelle nostre città trasformandole in luoghi pericolosi, insicuri, degradati
(Pitch 2008; Creazzo 2008). Questo uso strumentale della difesa dei diritti delle donne
risulta esplicito se analizziamo il trattamento differenziato che ricevono le donne
straniere (Spinelli e Zorzella 2013). Infatti, il permesso di soggiorno alle vittime di
violenza non viene concesso loro per lo status di persona offesa, ma solo in caso di
dover garantire la loro incolumità (L. 119/201311). La minaccia dell'espulsione, che
9
Dinamica simile a quella che abbiamo visto all'opera in modo estremo come risposta ai recenti fatti di
Colonia rispetto alla quale condividiamo la speranza di Guidi (2016, 167) <<Spero che anche in Italia le
donne facciano sentire una voce forte contro gli ignobili tentativi di strumentalizzarle per alimentare
razzismo, xenofobia e“barriere culturali>>. Come scrive Dinah Riese (2016): <<Gli uomini che
molestano le donne sono uguali in tutto il mondo. Ma gli esagitati con la bava alla bocca non possono
contribuire alla soluzione: con la loro retorica antifemminista sono parte del problema>>.
10
Così il Preambolo del DL 93/2013, poi convertito in legge (L. 119/2013): “eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato”
11
Legge che modifica il testo unico per l’immigrazione (art.18-bis, D.lgs. 286/1998)
296
dissuade molte donne straniere irregolari a denunciare le violenze subite, è una chiara
dimostrazione del fatto che, contrariamente a quanto si tenda ad affermare, i diritti delle
donne non sono l'elemento centrale delle recenti norme sulle VdG. Come evidenzia la
relazione di Human Right Watch (2011), infatti, le autorità italiane continuano a
minimizzare il problema del razzismo istituzionale.
Come già spiegato, questa stessa logica repressiva e securitaria soggiace anche al
trattamento legale che ricevono soggetti e gruppi specifici come le persone giovani, le
persone con diversità funzionale (altrimenti chiamate disabili), così come le donne
incinte o immigrate. Infatti, lo Stato si attribuisce l'onere, e l'onore, di proteggere
paternalisticamente questi soggetti e gruppi senza riconoscere la loro agency. Le norme
si limitano, così, a stabilire aggravanti dei vari tipi di delitti quando commessi in
detrimento dei menzionati soggetti, non offrendo alcuna risposta a necessità ed
esperienze specifiche. La logica legale della protezione (che si trasforma in controllo) a
cui sono sottomesse anche le donne, frequentemente trattate come mere vittime passive
che hanno bisogno di essere tutelate da parte dello Stato (Pitch 2003), si configura come
una forma di violenza di genere istituzionale, che forza all'assunzione di ruoli sociali
stereotipati.
Inoltre, come abbiamo visto nella sezione precedente, vi è una descrizione neutra
rispetto al genere dei soggetti che comporta, non solo un'invisibilizzazione della
violenza esercitata storicamente contro le donne, ma anche verso tutte quelle persone
che sfuggono dal genere normativo e da relazioni obbligatorie fondate sul trinomio
sesso-genere-desiderio12. D’accordo con Danesi (2004), potremmo parlare di “omofobia
legale” in quanto le norme statali ignorano l'esistenza di identità sessuali distinte e
generi differenti. Recentemente alcune Regioni13 hanno cercato di superare tali
mancanze con interventi nell’ambito dell’accesso ai servizi, il contrasto alle
discriminazioni e all’omofobia o la promozione di politiche attive in ambito lavorativo
(Unar 2013). Sono tutte misure importanti, ma con effetti parziali, a causa delle limitate
competenze delle Regioni.
12
Come ben evidenziato dalla Federazione mondiale di organizzazioni dedicate al raggiungimento di pari
diritti per lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali (ILGA 2014), l'unico momento di inflessione
rispetto a questa logica in Italia ebbe luogo nella quattordicesima legislatura, attraverso l’approvazione
del D.lgs. 216/2003 in risposta alla direttiva UE2000/78.
13
Per esempio le Regioni Toscana, Liguria, Puglia, Emilia Romagna, Marche, Piemonte e Umbria.
297
In conclusione, crediamo che il fenomeno delle VdG non dovrebbe essere trattato
come un problema esclusivamente femminile (IDA 2011), eterosessuale e di culture
“altre”, bensì come un problema che riguarda la società nel suo insieme. L'analisi
proposta ci ha permesso evidenziare come, invece, il relativamente recente interesse
giuridico verso alcune delle espressioni delle VdG non è stato accompagnato da una
messa in discussione degli stereotipi di genere, (ma anche di preferenza sessuale,
abilismo, provenienza etc.), ma al contrario li ha rinforzati.
Mettere in discussione le strutture sociali vigenti e i valori che oggi giorno
favoriscono il persistere delle VdG che le norme italiane non sembrano potere/volere
eliminare del tutto, è una scommessa per i movimenti femministi. Speriamo nel nostro
piccolo di aver fornito argomenti per lo sviluppo di un chiaro e aperto dibattito in tal
senso.
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