I segreti palesi di Scarpia. Per una drammaturgia vocale
della malvagità nel canto operistico
di Paolo Patrizi *
Diabolus in musica: è dal Medioevo che si discetta sulla più famigerata dissonanza della scala diatonica – il tritono – come su una sorta d’infernale inganno
acustico, che ostacola l’intonazione e scompagina le percezioni. Resta da vedere se
esista pure un diabolus in voce: posto fuori dai rigorosi confini dell’intervallistica e
insinuato nel più incerto territorio dell’estetica vocale, ma capace, a sua volta, d’insufflare tensione e ambiguità. E se già nel Settecento il tritono aveva perso il suo
aspetto di eresia grammaticale, configurandosi come icastico stratagemma a fini
espressivi, sul fronte canoro tutto è rimasto più aleatorio e inesplorato.
Applicata a uno dei personaggi più diabolici dell’intera letteratura operistica – Scarpia1 – la questione assume i contorni d’un dualismo espressivo. Ovvero:
come tradurre, in termini di canto, la malvagità del personaggio e, soprattutto,
quel suo «sogghigno di demone» che fa rabbrividire Tosca? In modo implicito, ricorrendo a interpretazioni arpeggiate sulle corde del subdolo, dello sfumato, della
signorilità apparente? Oppure in modo esplicito, più sinistro, più minaccioso, più
diabolico appunto?
La domanda potrebbe porsi negli stessi termini per Jago – l’altra vetta incontrovertibile della crudeltà baritonale – e dà luogo a risposte diverse: i puristi
hanno attribuito patente di raffinatezza alla prima categoria d’interpreti, mentre
la cosiddetta tradizione ha preferito, almeno fino a ieri, una malvagità canora più
esplicita e sostanziosa. Rigore stilistico e prassi esecutiva, nel teatro d’opera, sono
sempre stati più avversari che sodali: ma qui il contrasto travalica quello scontro
tra rispetto letterale e ipotetico spirito della partitura che, dal Barbiere di Siviglia al
Trovatore, ha spesso puntellato le vicende del
grande repertorio, configurando invece due Come tradurre, in termini di canto,
differenti visioni di drammaturgia vocale.
la malvagità di Scarpia e quel suo
Per cercare una risposta, che come in
«sogghigno di demone»
che fa rabbrividire?
tutte le cose d’arte e di teatro non potrà
essere definitiva, una bussola è proprio il
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confronto tra Scarpia e Jago, d’altronde citato da Scarpia stesso come maestro di
macchinazione («Per ridurre un geloso allo sbaraglio / Jago ebbe un fazzoletto...
ed io un ventaglio!»): non solo perché entrambi hanno offerto il destro a interpretazioni antitetiche, ma in quanto tutti e due, nel passaggio dalla fonte letteraria
alla riduzione librettistica, hanno ridimensionato le ragioni della loro malvagità. A
spingere Scarpia al mortifero tranello, infatti, Sardou aggiunge qualcosa di ancor
più pressante del sadismo e della libido che, in Puccini, circoscrivono il personaggio:
nella pièce, è la stessa regina Maria Carolina a dirgli che la sua carriera poliziesca sarà
compromessa per sempre, se non cattura il fuggiasco Angelotti. E analogamente,
in Shakespeare, Jago ha un motivo assai più prosaico per volere la distruzione di
Otello, rispetto alla malvagità gratuita e quasi metafisica prospettata da Boito per
Verdi: il sospetto che la moglie l’abbia tradito proprio con il Moro2.
Questa – per così dire – semplificazione dei
motivi di crudeltà porta, in entrambi i casi, a
Per Scarpia, come per Jago,
malvagità ancora più feroci perché fisiologinel passaggio dalla fonte
che, strutturali, senza alibi contingenti. Non
letteraria al libretto le ragioni
a caso Boito sentì il bisogno d’inserire, per Jadella malvagità vengono
go, una pagina estranea a Shakespeare come
semplificate e rese più feroci
il «Credo»: sorta di manifesto delle astratte
motivazioni del personaggio. Né Scarpia,
seguendone ancora una volta le orme, rinuncerà a esibire la propria dichiarazione
d’intenti: è quanto accade nel più breve (ma altrettanto programmatico e dimostrativo) soliloquio del secondo atto, quando si riempie un calice di vino e – già ebbro di
desiderio, se non di alcol – straparla sul «più forte sapore» della «conquista violenta»
e sul rapido consumo, senza successivi rimpianti, della «cosa bramata».
Due pagine così esteriori sotto il profilo psicologico rappresentano un buon
passaporto per incarnazioni esplicitamente diaboliche, poco sensibili alla dimensione farisaica dell’«onesto Jago» e a quelle melliflue buone maniere che per Scarpia,
barone e uomo di chiesa, sono una maschera non meno importante del vero volto.
D’altronde, il baritono del Novecento che più si è identificato con questo personaggio – Tito Gobbi – rifuggiva da interpretazioni soverchiamente aristocratiche
(«Scarpia è il prodotto delle rapide fortune tipiche di quel periodo: divenuto barone per le grazie di Maria Carolina, ma in realtà di bassa condizione, forse nato
lacchè in un palazzo patrizio siciliano. E quindi raffinato, ma per scelta e sforzo,
non per estrazione»3).
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Un’ampia corrente di revisionismo critico ha tentato di ridimensionare la
portata storica dello Scarpia di Gobbi: stigmatizzandone la crudezza espressiva,
l’attenzione più verso l’incisività del declamato che la sfericità del puro canto e,
in ultima analisi, la sua riconduzione sotto l’ombrello di un verismo che Puccini,
al massimo, sfiorò soltanto. Le stesse critiche furono poi ripetute a proposito del
suo Jago, ma, al di là dei gusti di ciascuno, individuare a priori le linee-guida della
malvagità nel canto operistico resta un’operazione approssimativa: per smentire o
corroborare i diversi punti di vista converrà appellarsi alla Storia e prendere atto,
ad esempio, che il primo Jago – Victor Maurel – apparteneva alla categoria degli
sfumati cesellatori, forse eccessivamente lambiccati (pare che Verdi gli raccomandasse «pensi di meno e canti di più!», o qualcosa del genere), ma comunque estranei
a tentazioni demoniaco-veriste. Laddove il primo Scarpia – Eugenio Giraldoni,
approvato da Puccini – era invece un classico figlio del verismo, incline alla scolpitezza declamatoria e alieno da un canto troppo distillato4.
Sta di fatto, comunque, che Tosca rappresenta per il suo autore un ritorno a
moduli più tradizionali: il vecchio triangolo soprano-tenore-baritono, prima di
allora, Puccini non l’aveva mai proposto. Scomparsi – rispetto alla pièce di Sardou – il marchese Attavanti, Maria Carolina
e Paisiello (l’autore della cantata a Palazzo
L’opera è sovraccarica di fatti
Farnese è lui, e ci fa una pessima figura),
ma disadorna di sfumature
soppressi la fantesca e il servitore dei due
psicologiche: uno Scarpia
amanti protagonisti (un retaggio di meccasmaccatamente malvagio non
nismi teatrali d’antico conio), l’opera segue
rappresenta una caduta stilistica
un processo di semplificazione: sovraccarica
di avvenimenti, ma disadorna quanto a sfumature psicologiche, Tosca sembra obbedire alla musa dell’esplicito più che a quella
dell’implicito e, in questa prospettiva, uno Scarpia smaccatamente malvagio non
rappresenta una caduta stilistica.
Al contrario della protagonista (di cui scopriamo lo status di primadonna
molto dopo la sua entrata in scena, grazie alla frase «... ed un’apposita nuova cantata con Floria Tosca»), di Scarpia si sa tutto subito: è un «bigotto satiro» che «fa
il confessore e il boia»; e Puccini, coerentemente, ritrae un personaggio meno
discreto e felpato – meno poliziotto, forse – di quello concepito da Sardou, che
appariva in Sant’Andrea della Valle con un «Vigilate tutte le porte» detto a bassa
voce, anziché con il tonante «Un tal baccano in chiesa!». I modi sono suadenti,
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ma sadismo e violenza trapelano da ogni poro, occulti e manifesti insieme, come i
«segreti palesi» di cui parlava Goethe: segreti evidenti e offerti agli occhi di tutti,
al punto che nessuno li vede5.
Questa ibridazione tra maschera perbenista e anima demoniaca ha portato, a
fronte del dualismo tra lo Scarpia fintamente grand seigneur e quello scopertamente
vilain, a una terza via battuta solo da pochi interpreti. È lo Scarpia affidato a baritoni
comici, o almeno lirico-brillanti, e ricondotto idealmente a certi “cattivi” del melodramma semiserio (il più ibrido dei generi operistici, appunto), dal Duca d’Ordow
di Torvaldo e Dorliska al Podestà della Gazza
ladra: non a caso tutte figure di potenti, al
Alle interpretazioni di Scarpia
pari del capo della polizia plasmato da Pucfintamente grand seigneur
cini. Un baritono in confidenza con tempi
o scopertamente vilain
e ritmi da commedia, tra l’altro, valorizzeva aggiunta una terza via:
rebbe il ruolo di “spalla” comica – sacrificato
quella dei baritoni lirico-brillanti
a fianco degli Scarpia oltremodo grifagni e
tonanti – che dovrebbe svolgere il sagrestano
nella scena dell’interrogatorio; e, almeno a giudicare dalla magistrale incarnazione
di Mariano Stabile, tanto più laido quanto più signorile, tale piccolo filone andrebbe
studiato con cura, anziché essere visto come una velleitaria stravaganza: da Scipio
Colombo, Sesto Bruscantini, Rolando Panerai, Alfonso Antoniozzi – a tutt’oggi
l’ultimo Scarpia con un pedigree da commediante – sono giunte raffigurazioni
che forse non fanno tremare tutta Roma, ma qualche terrore sanno trasmetterlo.
Ancora più peregrine, se vogliamo credere alla penna erudita e umorale di
un tenore-scrittore come Giacomo Lauri Volpi, dovevano essere le interpretazioni
di alcuni tra i massimi baritoni del primo Novecento, per i quali Scarpia era una
creazione del teatro contemporaneo da approcciare con programmatica anticlassicità: «Vanni Marcoux, voce tetra e figura da pipistrello, creò una raffigurazione
perfetta. Titta Ruffo ne faceva un ubriacone, Danise un frate, De Luca una libellula svolazzante»6. Immagini suggestive ma così poco circostanziate lasciano il
tempo che trovano: sono però sintomatiche d’un certo disagio, da parte di artisti
figli dell’Ottocento, a far quadrare i conti con un personaggio che davvero apriva (e
non solo in senso cronologico: la première di Tosca data 14 gennaio 1900) il secolo
nuovo; e, questo, che si trattasse sia di baritoni tuttora ancorati alla civiltà vocale
romantica, come Danise, sia di entusiastici aderenti al verismo rampante di quegli
anni, come Titta Ruffo.
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Jago creava meno problemi: la provenienza verdiana garantiva un lessico condiviso per interpreti e pubblico, al di là dell’annosa contrapposizione tra un canto
fosco e uno più mellifluo. Shakespeare e Boito assicuravano poi il profilo “alto” del
personaggio, mentre a nessuno venne in mente di associare Scarpia a Javert dei Miserabili o a Porfirij di Delitto e castigo: figure titaniche di poliziotto e d’inquirente,
quintessenze dell’implacabilità e della lucidità. O magari ci pensò, alcuni decenni
dopo, il più intellettuale dei baritoni del Novecento – Dietrich Fischer-Dieskau –
nelle sue occasionali incursioni in questo ruolo.
Nell’appuntamento con Tosca «avanti a Dio», forse Scarpia getterà la maschera
e, se fossimo presenti, scopriremmo chi con la propria voce ne aveva espresso meglio
la fisionomia: i veristi o i raffinati, i commedianti o gli arzigogolati. Sta di fatto che,
grazie a lui, Puccini raggiunse un traguardo mai sperimentato dal teatro d’opera:
portare in scena la paura, far rabbrividire lo spettatore. Sardou aveva stemperato il
sadismo del personaggio in un’indole più mondana e salottiera. Come quando, ad
anticipare le efferatezze che verranno, nel secondo atto della pièce dice a Tosca con
fare svagato: «Del resto, alle donne non dispiace un tantino di violenza».
* Paolo Patrizi, critico musicale e studioso
di vocalità operistica, collabora con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, il Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo
dell’Università di Firenze e la Fondazione
Donizetti di Bergamo. Svolge attività critico-saggistica presso varie riviste musicali,
italiane e straniere. S’interessa soprattutto
di storia dell’interpretazione, coniugando
l’analisi vocalistica a un approccio storico.
1 Non a caso, in Tosca, il violento e dissonante “tema di Scarpia” (chiamato tra l’altro ad
aprire l’opera) viene sbalzato da Puccini proprio ricorrendo alla relazione di tritono.
2 La mancata promozione a luogotenente,
nella tragedia di Shakespeare e nell’opera
di Verdi, rimane un puro pretesto.
3 Cfr. «Musica», n. 14, ottobre 1979, intervista di Maurizio Modugno.
4 Purtroppo non esistono lasciti discografici
del suo Scarpia. Un discreto numero d’incisioni, tutte appartenenti al primo decennio del Novecento, testimoniano però la sua
natura di sensibile interprete della temperie musicale del proprio tempo.
5 Si tratta di un’espressione («Geheimnisse offenkundige») che ricorre spesso nelle prose
di Goethe. Al di là del paradosso, comunque riscontrabile nella realtà, l’ossimoro è
illuminante della convinzione goethiana di
una perenne dialettica tra elemento materiale e spirituale.
6 Cfr. Giacomo Lauri Volpi, A viso aperto,
Dall’Oglio, Milano 1953.
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Paolo Patrizi
Maria de Rudenz: un percorso discografico
Maria de Rudenz sta a Donizetti come Ermione sta a Rossini: opere troppo audaci per non fare fiasco, troppo indifferenti alle aspettative del pubblico per non venire accantonate. Ermione finì dimenticata dopo le prime recite napoletane, la Rudenz continuò a sopravvivere per un trentennio dopo l’iniziale débacle veneziana, ma il marchio di lavori sgradevolmente antipopolari restò in entrambe, finché pure sulla creazione di Donizetti scese l’oblio.
Nel caso di Ermione fu giudicato scostante l’impianto formale, lontano dai moduli belcantistici e tacciato di gluckismo o, in generale, tedeschismo (una fobia che si rinnoverà alla fine del secolo, quando ogni opera italiana poco sensibile agli slanci melodici verrà accusata di wagnerianità); nella Maria de Rudenz a sconcertare fu invece il plot, truculento e grandguignolesco. Tuttavia, per quei fertili paradossi espressivi che caratterizzano gli operisti più geniali, la severità architettonica dell’Ermione si tradusse in un lavoro di violenza devastante; laddove gli agghiaccianti eccessi della Rudenz plasmarono un melodramma cupo e stringente, ma dagli accenti di lancinante lirismo: forse nella consapevolezza –da parte di Donizetti più che di Cammarano, sensibile al mero involucro della ghost story –che i fantasmi della letteratura ‘gotica’ non hanno alcuna intrinseca ferocia, ma gemono sui loro diritti calpestati. Salvo poi, certo, punire i colpevoli.
Una tradizione interpretativa della Maria de Rudenz non si è formata: troppo poche sono state le riprese in epoca moderna. La scarna discografia (tre edizioni –due dal vivo –più una quarta disponibile solo in rete) è però un buon sensore della natura bifronte dell’opera: nessuna delle storiche interpreti donizettiane del secondo Novecento figura in queste registrazioni, ma tutte e quattro –chi velatamente, chi in modo più esplicito –sembrano suggerire che nella Rudenz la vexata quaestio del belcanto romantico (nitore della forma a costo di timbrica e fraseggio fin troppo blandi? Giusto spessore drammatico a danno, eventualmente, della levigatezza?) si ripropone in un percorso drammaturgico-vocale opposto a quello della Bolena, della Stuarda, della Borgia. Là limpidezze formali che attendono –e forse esigono – di venir terremotate da grandi interpreti, qui un’apoteosi delle passioni violente che si ritrae nel bozzolo della purezza lirica.
Se le grandi mattatrici hanno trascurato Maria de Rudenz , anche in via soltanto antologica (la Caballé ha cantato in concerto «Mostro iniquo, tremar tu dovevi», ma non l’inserì nella sua memorabile incisione di rarità donizettiane), lo stesso non può dirsi per i divi maschili. Un percorso discografico attraverso la Rudenz, infatti, parte storicamente da una remota incisione di «Ah! non avea più lagrime» realizzata nel 1921 per la HMV, con accompagnamento pianistico, da Mattia Battistini: il quale non interpretò mai l’opera in palcoscenico, ma, nella sua ampia militanza donizettiana, riesumò quest’aria inserendola nella Maria di Rohan. Era un innesto che costringeva a qualche accomodamento nel libretto, e difatti pure nel disco vengono modificate alcune parole: Corrado si rivolge, mentalmente, all’«adorata Matilde», ma Battistini canta «adorata Maria», sostituendo l’iniziale «Egli ancora non giunge» con «Ella ancora non giunge».
L’incisione lo coglie sessantaquattrenne: qualche segno di affievolimento è inevitabile, ma ciò che oggi rischia di lasciare perplessi è soprattutto il gusto. Cantante di cinquantennale carriera quasi perfettamente distribuita tra Otto e Novecento (esordio nel 1878, ritiro nel 1927), colui che fu definito ‘il re dei baritoni’ non aveva la mentalità dell’artista a cavallo tra due secoli: anziché prendere il meglio dell’epoca vecchia e della nuova, riunendo antico patrimonio romantico e nuove frontiere espressive, preferì affidarsi alla forbitezza e al preziosismo tardobelcantistici, rinverdendoli con smorzature melliflue e voluttuosi languori belle époque. Questa galanteria che tornisce la frase ma le sottrae plasticità, anzi la svapora nel suono, rende difficile sostenere –come si è detto spesso –che Battistini, a verismo ormai deflagrato, restituiva al pubblico gli stilemi romantici: l’affettazione del suo canto è più arcaica dei modelli che vorrebbe riproporre. E nella Favorita, nella Rohan o in quest’aria della Rudenz il suo porgere è molto meno lineare e moderno di quanto Donizetti suggerirebbe.
Pure in una figura come Corrado, dove convivono le due anime – il baritono ‘amoroso’e quello grand seigneur –più congeniali all’estetica vocale di Battistini (la terza anima, quella del classico baritono antagonista, emergerà nel corso dell’opera e resta estranea alla romanza), i trapassi caratteriali del personaggio vengono resi in modo paratattico: la sua lettura alterna enfasi e languori, senza giungere a un coagulo psicologico. Il fraseggio è poi d’una soggettività discutibile, perché Battistini sfuma alcune parole (l’aggettivo «perverso» alla frase «del mio destin perverso», ad esempio) che dovrebbero avere ben altro peso; la maggior elaborazione, da parte di Donizetti, della seconda strofa –che dovrebbe suggerire un’accelerazione del moto degli affetti –appare disinnescata, poiché il re dei baritoni abbellisce già nella prima; e la relativa senilità del suo strumento lo induce a inflessioni aperte e artefatte che, senza averne l’intenzione, imprimono un sapore bieco a frasi come «l’ira placar» e «valle d’amaro pianto».
Tra tante incisioni di Battistini entrate nella leggenda, «Ah! non avea più lagrime» non è delle più celebri: quando nel 1974 Maria de Rudenz si riaffacciò nel ventesimo secolo, in un’esecuzione alla Queen Elizabeth Hall di Londra che, registrata dal vivo, rappresenta la prima edizione discografica dell’opera, tutti gli interpreti –baritono compreso – sembrarono arrivare vergini all’appuntamento. Riprodurre il modello battistiniano, d’altronde, era infattibile: entusiasmanti o censurabili, i suoi vezzi espressivi e le sue libertà ritmiche, possibili in un singolo brano accompagnato al pianoforte, non sono proponibili nell’economia di un’edizione integrale affidata a un concertatore. Ma l’improponibilità ha ragioni più profonde. Dopo Battistini il teatro d’opera non ha più conosciuto un baritono che fosse tenore come lui: tenorile non solo per timbro ed estensione –questo nella geografia baritonale di Donizetti, discendente dal ceppo del basso cantante, potrebbe essere un limite –ma per carisma divistico ed egotismo canoro. Il più accreditato baritono donizettiano del tardo Novecento, Renato Bruson (che non ebbe occasione di misurarsi con Corrado di Waldorf), avrebbe seguito una via opposta, all’insegna d’un canto austero, quasi compassato; e tutta la Donizetti renaissance, sebbene scandita anche da grandi interpreti maschili, è stata scenario di divismo solo femminile.
Tra un soprano cruento (ma incline al ripiegamento elegiaco), un baritono fervido e generoso (ma pronto allo scatto sanguinario) e un tenore insolitamente collocato nella posizione di terzo incomodo, Maria de Rudenz offre non pochi problemi drammaturgici. Creare una cornice d’ordine attorno a tale quadro d’irrazionalismo romantico è per il direttore un problema in più, e Alun Francis, alla Queen Elizabeth Hall, vi riuscì egregiamente. L’esecuzione –la prima di tanti capolavori donizettiani sommersi pubblicati sotto il marchio Opera Rara, sebbene l’etichetta discografica sia nata qualche anno dopo –s’impone per la lettura orchestrale già a partire dal preludio cupo e ferrigno, reso con giusta idiomaticità dagli strumentisti della Philomusica of London. Nel trascolorare dal preludio al «lontano cantico religioso» fuori scena è invece palpabile un certo stacco, anziché quella mancanza di soluzione di continuità con cui Donizetti fa digradare la narrazione sonora da un quadro procelloso a un clima rarefatto (le due anime della Rudenz), né il dileguarsi della lauda trasmette quel senso di trasumanata dissolvenza che la partitura suggerirebbe. Francis, insomma, appare incline più al versante romanzesco che a quello lirico, senza però rischiare l’inaridimento: la romanza del baritono è accompagnata con debita levità, il patetismo che informa la cantabilità del tenore è vivo pure in orchestra.
Direttore –almeno all’epoca –non strettamente specialista del nostro repertorio romantico, cura i dettagli spesso trascurati (le code orchestrali, i tempi di mezzo, il valore espressivo delle ripetizioni) e mostra di credere poco alle formule ottocentesche più cristallizzate (la stretta del Finale primo e le cabalette nei duetti sembrano ottemperate senza troppa convinzione), ma soprattutto fa emergere la vena sinfonica di Donizetti: il preludio del secondo atto con assolo di clarinetto basso è curatissimo negli impasti, e la didascalia di Cammarano «tutto spirante tristezza» viene resa alla perfezione. È più debole, invece, la delineazione delle pagine corali; e ciò fa venir meno un ulteriore protagonista, poiché nella Rudenz –come in tanto altro Donizetti –il coro non è un sussidiario commentatore della vicenda, ma uno dei suoi motori. L’Opera Rara Chorus non entusiasma nella compagine femminile (l’inno religioso d’inizio acquista patina aerea grazie alla Matilde dolce e ispirata di Merrill Jenkins più che all’ensemble di soprani e contralti) e delude in quella maschile, esteriore in un brano dolente come «Ah! che di pianto è questo» e senza alcuna tensione dialettica nel ‘dialogo corale’che apre il terzo atto: armigeri e vassalli, in questo squarcio, agiscono come un’autentica coppia di personaggi collettivi, ma i reciproci punti di vista si neutralizzano in un’esecuzione che omogeneizza le due parti in causa, con un canto che confonde gli uni con gli altri.
Se Francis realizzò una lettura con qualche discontinuità, ma valida e interessante, sei anni dopo alla Fenice di Venezia –uno spettacolo subito fissato in disco, ripreso pure dalla televisione –Eliahu Inbal fu la miglior conferma che la grandezza di Donizetti, per emergere, si giova dei non specialisti: bacchetta di limitate incursioni nel nostro Ottocento, il direttore israeliano restituisce all’orchestra, come in nessun’altra edizione della Rudenz, quel ruolo autonomo di delineazione del momento scenico e psicologico che nelle esecuzioni donizettiane più banali (o quando avviene allo stesso Donizetti di scantonare nella banalità) è appannaggio solo del canto. La vocalità non viene certo retrocessa a elemento ausiliario, ma non è più il totalizzante baricentro dell’essenza espressiva: nel Larghetto «Sì, del chiostro penitente», biglietto da visita della protagonista, Inbal sottolinea alla perfezione –e senza tentazioni calligrafiche –come sia il gioco delle modulazioni a rendere l’inquietudine di Maria, il suo continuo transito fra retaggi angelici e affondi satanici. Così come, nel primo duetto tra tenore e baritono, è proprio la delineazione orchestrale delle differenti melodie assegnate ai personaggi che evidenzia l’incomunicabilità tra i due supposti fratelli e, col senno di poi, instilla i primi dubbi sulla loro effettiva consanguineità.
Sensibile alla componente sinfonica della Rudenz, intesa soprattutto come estrinsecazione del versante ‘nero’ della vicenda (il fulminante preludio iniziale conduce l’ascoltatore in pieno romanzo gotico, quello più disteso del secondo atto suona angoscioso piuttosto che suggestivo), Inbal però non imbriglia il canto: gestisce i ‘da capo’soprattutto in termini di variazioni dinamico-espressive, ma sa suggerire all’occorrenza abbellimenti parchi e non banali; ed è anche il più disposto, tra i direttori della discografia rudenziana, all’interpolazione di puntature. Ma soprattutto è attento a restituire ogni episodio senza zone di stanchezza, pure nei momenti apparentemente trascurabili (significativo il rilievo a un ruolo defilato come Rambaldo, preannunciato da un’introduzione strumentale cupa, morbida e severa che sembra farne un deuteragonista) e in quelli a rischio di dozzinalità: la stretta del Finale primo non è lo scontato galoppo di tante altre strette ottocentesche, ma ha qualcosa di ossessivo che anticipa il precipitare degli eventi nei due atti successivi. E il ‘valzer svizzero’del coro nuziale nell’ultimo quadro è lontano dall’apparire garbatamente esornativo: suscita, piuttosto, un inquietante contrasto con il sinistro passaggio di Maria mascherata, creando un fertile aggancio al Verdi dell’Ernani, quando Silva in domino turba, per un momento, il tripudio degli invitati alle nozze.
Un anno dopo, nel 1981, Maria de Rudenz si riaffacciava ai microfoni di Radio France e, finalmente, grazie a un direttore italiano: Gianluigi Gelmetti ha sempre portato avanti con coerenza la causa d’un Donizetti distillato, dai fraseggi morbidi e distesi, in un riverbero forse più floreale che romantico, e i risultati talvolta gli hanno dato ragione. Questa Rudenz –non distribuita nei canali ufficiali, ma reperibile in rete –rispecchia però i limiti più che i pregi d’un simile approccio. Latitando l’aspetto ‘gotico’, le pagine angelizzanti (che rappresentano l’altra faccia della medaglia) perdono il loro valore dialettico e si diluiscono nella couleur locale: stemperata la tenebrosità del preludio, l’iniziale canto di preghiera perde il suo significato d’improvvisa oasi di luce e, semmai, sembra rimandare –in entrambi i casi un’alba da cui emergono voci fuori scena –all’aubade fragrante, ma ignara dei fantasmi della Rudenz, che apre I puritani. La sostanziale mancanza di energia che informa questa chiave di lettura –pure gli interventi del Coro di Radio France suonano piuttosto melensi –non può eludere però i passi più drammatici: il concertatore cerca di simulare lì una certa foga, ma ottenendo ora più fragore che intensità (la marcata cabaletta che chiude il duetto tra soprano e baritono), ora un certo disordine, come nella precipitosa conclusione del primo duetto tra i due fratelli. Resta un’apprezzabile propensione alla cantabilità orchestrale; e tuttavia certi accompagnamenti sembrano difettare di elasticità.
La flessibilità è invece il tratto distintivo di David Parry, direttore nel 1997 dell’unica Rudenz nata espressamente per il disco e incisione ufficiale di questo titolo, dopo la pionieristica edizione del ’, per la casa discografica inglese Opera Rara, votata al recupero del primo Ottocento italiano. Più che sulla ‘tinta’–concetto caro a Donizetti –Parry punta, già dal preludio, sui vistosi contrasti dinamici: con esiti apprezzabili sul piano del nitore e della precisione, ma sostanzialmente circoscritti a una bella calligrafia. I cori brillano per amalgama e intonazione, risultando però inerti nell’azione drammatica; le cabalette suonano rapide più che incalzanti; e l’ampio uso (ma con valori semantici ogni volta diversi) che Donizetti, in questa partitura, fa del Larghetto si traduce in una garbata omogeneizzazione all’insegna d’una malinconica placidità. Il minimalismo gentile del concertatore elude il senso delle grandi forme, come nell’ampio blocco centrale del Finale primo, non a caso poi travasato nel Poliuto: ma in ciò Parry mostra di cogliere la differenza drammaturgica tra l’uso della stessa musica nell’una e nell’altra opera. Se ampiezza di respiro e una certa grandiosità sono inevitabili nel concertato di un’opera come Poliuto, in quello della Rudenz è possibile ragguagliare la pagina a un altro topos donizettiano: quello del ‘momento sospeso’, del pezzo d’insieme (un quintetto, in questo caso) in cui i personaggi fanno i conti con se stessi, prima di scontrarsi tra loro. Parry, con buon costrutto, tende a questo.
Come spesso accade nei dischi Opera Rara, alcuni brani (un coro e un’aria aggiuntiva per il tenore) non appartenenti alla stesura originaria vengono collocati in appendice. Non sono inediti: il coro –una breve pagina marziale –lo si può ascoltare, all’inizio del secondo atto, pure nelle edizioni dirette da Francis e Gelmetti, mentre l’aria «Il pensar che per te peno» era già stata recuperata dal solo Francis, inserita a ridosso del Finale primo. Ma siccome il piglio guerresco della paginetta corale stride con il meditato preludio che precede, e la struttura di cavatina del brano tenorile è incongrua per un momento dove Enrico è da tempo entrato in scena, l’appendice sembra la soluzione migliore. L’aria non ha comunque caratteristiche tali da conferire altro spessore al personaggio, né il fugace e bellicoso «Fu vista in arme sul far del giorno» aggiunge nulla d’interessante al già variegato trattamento che ha il coro in quest’opera. Rinunciare a entrambi –come fa Inbal –è la scelta drammaturgicamente più congrua, almeno nell’economia di una rappresentazione teatrale.
L’edizione diretta da Inbal, d’altronde, continua a mostrarsi preferibile pure sul fronte vocale, perché è nel live veneziano che troviamo molti degli interpreti migliori, inclusa – probabilmente –la protagonista. Katia Ricciarelli può competere per popolarità, ma non per importanza storica con le massime primedonne della Donizetti renaissance; eppure, in una galleria di grandi ritratti femminili donizettiani, la sua incarnazione di Maria de Rudenz non sfigura. Voce lirica accoppiata a un temperamento forse non genuinamente drammatico, ma comunque autorevole, la Ricciarelli condensa bene quella fragilità nel furore e quella minacciosità nella dolcezza che caratterizzano il personaggio: anche se quando la cupezza dell’opera trascina tutti in un gorgo, e la protagonista vira senza più alcun compromesso liricizzante nell’area del soprano drammatico di agilità, è palese come la Ricciarelli simuli con talento, ma pur sempre di simulazione si tratti. Laddove una voce di ‘soprano assoluto’come Milla Andrew, prima riesumatrice del ruolo nel ’, raggiungeva la quadratura del cerchio grazie soprattutto alle caratteristiche naturali del proprio strumento.
Capace di passare con proprietà da Mozart a Wagner, la russo-canadese Andrew conquistò poi una patente di stilista donizettiana –registrando, sempre con Francis, anche Rosmonda d’Inghilterra e Gabriella di Vergy – di cui in Italia si ebbe scarsa eco: il suo canto drammatico e slanciato, sostenuto da fiati lunghi e un’emissione molto solida, mostra una notevole aderenza musicale ed espressiva al testo, e certe opulenti trasparenze di piani e pianissimi sembrano quasi far intuire cosa sarebbe stata una Rudenz della Caballé. La Ricciarelli può contare su una vocalità più soave e omogenea: nella Andrew il registro di petto –timbrato, voluminoso e impiegato ad arte –si salda con fatica al resto dell’edificio vocale; e tuttavia la disomogeneità qui diventa funzionale, perché giova a evocare la scissione del personaggio, la sua anima divisa in due. Nei momenti di afflizione angelicata, nobilmente marmorei per la Andrew, è invece la Ricciarelli a far trasparire un aspetto che sfugge alla collega: il masochismo –squisitamente femminile –di Maria, la sua romantica voluttà di donna-vittima. Dietro l’orrore del racconto, la rievocazione della sepoltura da viva nelle catacombe mostra una sotterranea gratitudine per la gelosia punitrice di Corrado; e discostandosi dalla didascalia, la Ricciarelli –dopo aver modellato con accenti ben contrastati le parole «amor, vendetta, gelosia, furore» –conclude con un «Ha vinto amore!» detto non «con accento passionato», ma dolcissimo.
Le cantanti appaiono diverse, ma entrambe appaganti, pure nella concezione espressiva dei ‘da capo’: quello di «Sulla mia tomba gelida» viene risolto dalla Ricciarelli con variazioni d’un belcanto sobrio e stilisticamente consapevole, la Andrew lo concepisce come un ripiegamento del personaggio su se stesso e opta –dopo una prima esposizione più esteriore –per un attacco mormorato e soliloquiante. La Ricciarelli, con il suo strumento più delicato, tende poi a rendere cantabili anche i recitativi, mentre è nel recitar cantando a sfondo declamatorio (come il racconto su Ugo di Berna) e nel reciproco abbandono tra canto e declamazione (in «Mostro iniquo, tremar tu dovevi», soprattutto) che la Andrew gioca le carte migliori. Anche se è proprio sul piano del fraseggio che la cantante italiana si rivela preferibile: quando Maria ricorda a Matilde l’ineluttabilità del suo destino monacale, la Ricciarelli sa imprimere alla frase «Cosa tu sei del cielo» un crudele sarcasmo, laddove la Andrew appare solo istericamente malevola; e se l’apparizione della protagonista data per morta trasmette, nel canto del soprano veneto, un effetto davvero spettrale, è appunto perché la Ricciarelli rinuncia alla dimensione dello scatto erinnico.
Margarita Castro Alberty e Nelly Miricioiu –l’una a Radio France, l’altra nell’incisione Opera Rara – sono valide, ma meno stimolanti. Alla prima spetta la palma per l’interprete più temperamentosa, e già la frase con cui Maria entra in scena («T’acqueta… non appellarmi») mostra un attacco di notevole aggressività. È una veemenza che, nel corso dell’opera, porterà a qualche défaillance in termini di fiati e immacolatezza fonica (nella cavatina la voce stenta ad amalgamarsi con l’eco dell’oboe), ma questi cedimenti non intaccano una vocalità notevole: il registro acuto è luminoso, quello grave può contare su un efficace registro di petto, l’emissione piuttosto bassa –che caratterizza l’imposto canoro della Castro Alberty –non va mai a scapito della dizione. Angosciosa più che claustrale in «Sì, del chiostro penitente», furente e braccata come una Medea nell’indefinibile ‘recitativo cantabile’«Che fu!... Son io!...» incentrato sulla quadruplice alternanza «amor, vendetta, gelosia, furore», la cantante portoricana non è però una protagonista a senso unico: nel grande concertato del primo atto sa abbandonarsi allo stile patetico, anche se forse non con troppa empatia, e nel finale dell’opera imbriglia la propria foga interpretativa dando davvero l’idea della donna ferita a morte.
È semmai più circoscritta la gamma espressiva della Miricioiu, nonostante una voce meno sostanziosa ma, potenzialmente, più duttile. Soprano lirico che il tempo – non l’evoluzione naturale del proprio strumento –ha poi orientato al drammatico, la Miricioiu imposta tale viraggio, almeno stando alla Rudenz, in termini di sonorità più che di colore: al contrario di altri soprani della grande scuola romena (ieri la Nicolesco, l’altro ieri la Zeani) che hanno creduto in un Donizetti basato su un’irrinunciabile drammaticità timbrica, la Miricioiu deve fare i conti con un timbro piuttosto povero. Stando così le cose, e non potendo contare nemmeno su una spiccata disposizione alle agilità, l’intensità drammatica si concreta nel suo caso in un’abile dialettica tra pianissimo e mezzoforte; in un vibrato, evidente ma non invasivo, che conferisce rilievo al canto; e in un fraseggiare all’occorrenza pugnace (all’interno, peraltro, di una linea sempre equilibrata), ma soprattutto ampio ed espanso, grazie pure a certi ‘rallentando’ del direttore.
Il miniaturismo della concertazione di Parry le consente anche di rendere un dettaglio, solitamente trascurato, come gli ‘staccati’nel duetto con il baritono: la Miricioiu ne coglie il senso espressivo, riuscendo così a essere nobile e dignitosa nell’implorazione. In questo la cantante romena è più classica e meno moderna della Ricciarelli, che nel supplicare amore all’uomo che ha tentato di ucciderla coglieva invece la vena masochista della sottomissione di Maria. La psicologia di fondo, però, anche per la Miricioiu resta quella del soprano lirico; e pure certe soluzioni di fraseggio replicano, con minore icasticità, taluni traguardi espressivi della Ricciarelli: come la frase «Un lustro io piansi! Ormai fremo soltanto!» intesa non tanto a rappresentare il fremere del momento, quanto a evocare il trascorso lustro di lacrime.
Forse l’espressiva forbitezza della Ricciarelli avrebbe trovato un Corrado ideale in Christian Du Plessis, così come la nobile drammaticità della Andrew si sarebbe ben sposata con l’incarnazione di Leo Nucci. Le cose andarono viceversa, ma non c’è motivo di rammarico perché entrambi offrono ottime interpretazioni: la voce calda e il fraseggio di classe di Du Plessis, alla Queen Elizabeth Hall nel ’74, imposero un cantante che avrebbe svolto un ruolo di primo piano nella Donizetti renaissance d’oltremanica; e ad ascoltare alla Fenice, sei anni più tardi, il Corrado di Leo Nucci, perfetta convergenza di parola scenica scolpita e canto scorrevolissimo, resta il rimpianto che l’attività donizettiana di questo baritono sia stata così sporadica. Du Plessis ammanta il personaggio d’un canto morbido e scuro, molto contenuto negli accenti, incline a risolvere «Ah! non avea più lagrime» sul versante più d’una nostalgica malinconia che d’un reale tormento interiore: una dimensione, nonostante la differenza di latitudine, abbastanza simile a quella con cui in Italia, negli stessi anni, Bruson ricostruiva in tanti repêchage i moduli del baritono donizettiano. Sta di fatto, però, che se la componente amorosa, molto controllata, resta un po’troppo ai margini dell’interpretazione di Du Plessis, i momenti di sdegno –più cupi che infervorati –rivelano una notevole aderenza psicologico-stilistica; e la prova di Nucci suona ancor più incisiva e personale, forse proprio perché affidata a un non specialista.
Identificato all’epoca come Figaro rossiniano di scarsa filologia ma trascinante esuberanza, Nucci sfoggia quell’agevole naturalezza nel registro acuto che, di lì a poco, l’avrebbe dirottato verso Verdi: la voce brilla per squillo e, più ancora, una lucentezza timbrica che la registrazione dal vivo restituisce solo in parte, ma rimane comunque straordinaria. È una brillantezza che contrasta con il versante fosco di Corrado, e giova invece a delineare quello slancio amoroso e quell’affetto fraterno –poi deluso dagli eventi e dalla realtà biologica –che sono l’altra faccia del personaggio. Ma, al di là dalle caratteristiche vocali, è soprattutto il fraseggio a delineare un ottimo referto psicologico: sottratta a sentimentalismi e leziosità d’antan, «Ah! non avea più lagrime» qui è davvero il ritratto del dolore di chi non piange più, e la relativa speditezza dell’esecuzione non contraddice la natura di Larghetto, perché Nucci e Inbal trovano comunque un’ariosità del porgere (e una diversificazione tra le due strofe al di là dell’ornamentazione) che imprime respiro e spaziosità.
Verdiano per parola scenica e verità drammatica, ma non per questo fuori stile, Nucci prosegue poi coerentemente la sua interpretazione: spicca per eloquenza e fervore nel primo duetto col supposto fratello, mentre nel secondo appare presago del precipitare degli eventi, conservando la nobiltà di chi accetta la lotta con un destino più forte di lui. Né lo scontro con Maria, dove deflagrano gli impulsi omicidi di Corrado, fa arroccare Nucci nella dimensione del vilain: preferisce sottolineare lo spavento del personaggio, prima di arrivare al suo gesto sanguinoso. Riportando la pagina, oltre tutto, a un altro topos donizettiano, articolato con più sfaccettature nella Gemma di Vergy: il terrore del baritono di vedere uccisa dalla propria antica amante l’attuale donna amata.
Juan Carlos Gebelin, a Radio France, partì da presupposti antitetici a quelli di Nucci: una vocalità molto più scura e ingolata, che occhieggia a quel ceppo protobaritonale del basso cantante cui Donizetti attinse spesso, ma dal quale ai tempi della Rudenz –Fa e Sol bemolle acuti rinvigoriscono la scrittura di Corrado –si era ormai affrancato. La fisionomia vocale di Gebelin sottolinea soprattutto l’aspetto tenebroso del personaggio, e con risultati convincenti perché il fraseggiatore non si compiace mai di accenti truci, ma appare sempre asciutto e trattenuto (l’indicazione «reprimendosi a un tratto», nel duetto di sfida con Enrico, viene resa meglio di ogni altro interprete). Tuttavia, veleggiare su una tessitura troppo alta per lui lo costringe a laboriosità di emissione che sottraggono morbidezza a una voce, di per sé, abbastanza soffice: il suo timbro, naturalmente fitto e compatto, sembra diventare addirittura pressato e gli acuti suonano schiacciati, mortificando i momenti di espansione amorosa.
Assai diversi tra loro, Du Plessis, Nucci e Gebelin presentano un denominatore comune nel tratteggio d’una tipologia baritonale nobile, ma pur sempre fieramente antagonistica; mentre con Robert McFarland, interprete di Corrado nella più recente incisione in studio, si ha un personaggio del tutto differente. La prudente levità degli attacchi, gli acuti schiariti oltremisura e la delicatezza del colore ai limiti dall’evanescenza timbrica acquerellano un ritratto sbiadito, oltre che di singolare inerzia interpretativa: indicazioni come «con ischerno» e «con orrenda ansietà» –fondamentali per la delineazione psicologica di Corrado nel duetto con Maria –vengono, più che disattese, del tutto contraddette e perfino una frase come «Viva sepolta l’abbandonai» assume contorni di gracile placidità. Una garbata empatia negli squarci a sfondo patetico e una generica signorilità del porgere non pareggiano il conto, tanto più che in McFarland l’emissione alleggerita non sempre garantisce fluidità: soprattutto il primo duetto con il tenore è in difetto di scorrevolezza. Il chiarore del timbro e la magrezza del registro centrale, poi, appaiono un po’troppo tenorili: se non si giunge a un accavallamento timbrico che livellerebbe la dialettica tra i due fratelli è solo perché Bruce Ford, l’Enrico di questa edizione, ha un pedigree di baritenore rossiniano che, paradossalmente, imprime al fratello tenore mezzi più scuri e corposi del fratello baritono.
Se McFarland è l’anello debole del disco Opera Rara, Ford ne rappresenta appunto il tassello migliore. Capace di modellare con uguale plasticità recitativi ora vibranti e scanditi, ora soliloquianti e trasognati, non dimentica mai come nel Donizetti della Rudenz vibri l’ala ‘nera’del romanticismo, che dovrebbe astenere il tenore da tentazioni falsettistiche: pure gli attacchi più mormorati risultano timbratissimi, ogni addolcimento mantiene virilità sonora. Né questo si traduce in una baldanza che, per un ruolo così ripiegato e perdente, sarebbe eccessiva: è palese che Ford, quando intona «Tu non sai di qual tempra è questo cor», si riferisce a una tempra amorosa, non battagliera; ed è ben evidente, ascoltando il tenore americano, come la perplessità che sovrasta Enrico sia insita nel periodare del canto. È il caso dell’ampio recitativo all’inizio dell’aria «Talor nel mio delirio», aperto da un’arcata melodica che parrebbe far partire subito l’aria vera e propria, ma invece presto si ritrae, consentendo al recitativo di riprendere il suo corso: un depistaggio simile a quello usato da Mozart prima dell’avvio di «Non mi dir, bell’idol mio». L’apparente incertezza dell’andamento musicale –sembra suggerire Donizetti –è speculare all’incertezza del personaggio: Ford, attento a ogni dettaglio, lo fa emergere con chiarezza.
Al contrario di lui, l’interprete dell’altra edizione inglese –Richard Greager, nella Rudenz diretta da Francis –non esclude il ricorso a risonanze miste tra petto e testa, che riportano Enrico nell’alveo del tenore angelicato, dalle sonorità non sempre maschie nei momenti di maggior dolcezza. Ogni altro confronto sarebbe difficile: la vocalità baritenorile, espansa e ‘orizzontale’ di Ford ha troppi pochi punti di contatto con quella di Greager, più stretta e verticalizzata. Insomma, due differenti modelli di tenorilità romantica: e Greager porta avanti il suo con pertinenza stilistica, unita a una compenetrazione interpretativa dove pure certe screziature nasali, timbricamente penalizzanti, sembrano funzionali a delineare il côté antieroico del personaggio. Avvalorata da una buona dizione e un espressivo vibrato, la dimensione estatica in lui sopravanza sempre quella infervorata: «Ah! son dannato a fremere» è una frase che suona piuttosto ossimorica, in rapporto al fraseggiare di Greager, ma proprio per questo sottolinea come la concitazione di Enrico palpiti nella vita interiore del personaggio, non nel suo agire. E se il rischio, sulla distanza, è una certa monotonia, il difetto non sta nel cantante, ma nella scelta d’inserire pure la cavatina aggiuntiva «Il pensar che per te peno»: una pagina psicologicamente troppo simile all’aria ‘regolamentare’–«Talor nel mio delirio» –per motivare un altro primo piano vocale.
Rispetto a Greager e Ford, Alberto Cupido –interprete sia con Inbal che con Gelmetti – è meno introverso, meno riflessivo, insomma più tenore: ma con esiti diversi nelle due edizioni, perché la somma di pregi e difetti che caratterizza il suo canto chiude in attivo la recita veneziana, mentre a Radio France lascia un pesante passivo. In entrambi i casi la concezione (a costo di falsare un po’lo sperimentalismo di Donizetti, che nella Rudenz scompagina i confini psicologici e drammaturgici tra tenore e baritono) è quella dell’eroe positivo; se però alla Fenice solarità timbrica, ottima dizione e buon legato ridimensionarono i limiti di una musicalità non sempre adamantina, a Parigi avvenne l’opposto: l’eccessiva tendenza a un canto di spinta non giunge a imbruttire il suono (quello di Cupido è davvero privilegiato dalla natura), ma riesce comunque a involgarirlo, e l’intonazione fuori controllo intorbida la purezza cantabile di «Talor nel mio delirio».
Centrale nell’economia del plot, ma musicalmente defilata, Matilde presenta il profilo della ‘seconda donna’ senza raggiungerne il peso; né il ruolo di Rambaldo assurge –nonostante una certa affinità di situazioni –a quella figura di basso consolatorio, empatico con i travagli della protagonista, che fa di Talbot un’autentica spalla di Maria Stuarda. Tuttavia interpreti d’un certo risalto vocale non sono mancati: da Merrill Jenkins –la già ricordata Matilde londinese del ’, che con il suo ispirato canto fuori scena apre suggestivamente la discografia della Rudenz –a Marvis Martin, che nell’esecuzione di Radio France riesce, durante la preghiera, a far galleggiare la propria voce sopra il coro in un effetto, però, di assoluta fusione; dal Rambaldo morbido e sfumato di Giorgio Surjan (alla Fenice) a quello più scabro, ma suggestivo nel fraseggio ben scolpito, di Dimitri Kavrakos (a Radio France). Anche se l’incarnazione più originale spetta al primo Rambaldo discografico, Malcolm King: non il «vecchio familiare» previsto dal libretto, ma un uomo innamorato, energico e giovanile (la stessa fisionomia vocale di King, da baritono più che da basso, contribuisce a un ritratto in tal senso), capace di mentire per il bene di Maria, anziché limitarsi a consolarla, e così incisivo nel dialogo con gli armigeri da trasformare la pagina in un vero e proprio duetto con il coro.
Danno vita a ritratti meno a fuoco il dolce vibratino di Silvia Baleani (nel live veneziano) e l’emissione assai più fissa di Regina Nathan, che, nell’incisione con Parry, si vede sottratta l’attacco della preghiera fuori scena, restituito al solo coro femminile; né emerge, nello stesso disco, il Rambaldo timbricamente un po’pallido di Matthew Hargreaves. Tuttavia, Parry insignisce il personaggio d’un coprotagonistico ‘a due’, facendo unire la sua voce con quella di Maria al termine di «Sulla mia tomba gelida». L’effetto, in sé, lascia perplessi: sembra riascoltare certi vecchi Trovatori che, alla fine della cabaletta di Leonora, facevano congiungere nella puntatura anche Ines. Ma forse è proprio questo il segnale che vuol mandare il direttore: cos’è la Rudenz se non un Trovatore alla rovescia? Là due fratelli veri, che scopriranno troppo tardi di esser tali. Qui due fratelli finti, che spargeranno nel sangue la loro falsa consanguineità.
DISCOGRAFIA ESSENZIALE
(Ordine dei personaggi: Maria, Matilde, Corrado, Enrico, Rambaldo, Il cancelliere).
1974
Interpreti: Milla Andrew, Merrill Jenkins, Christian Du Plessis, Richard Greager, Malcolm King, Noel Drennan
Direttore: Alun Francis
Philomusica of London e Opera Rara Chorus
Memories HR 4588-4589 (2 CD)
1980
Interpreti: Katia Ricciarelli, Silvia Baleani, Leo Nucci, Alberto Cupido, Giorgio Surjan, Silvio Eupani
Direttore: Eliahu Inbal
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
Living Stage LS 35140 (2 CD)
1981
Interpreti: Margarita Castro Alberty, Marvis Martin, Juan Carlos Gebelin, Alberto Cupido, Dimitri Kavrakos, Philippe Gaudin
Direttore: Gianluigi Gelmetti
Nouvel Orchestre Philharmonique e Coro di Radio France
Non pubblicata ma disponibile in rete
1997
Interpreti: Nelly Miricioiu, Regina Nathan, Robert McFarland, Bruce Ford, Matthew Hargreaves, Nigel Douglas
Direttore: David Parry
Philharmonia Orchestra e Geoffrey Mitchell Choir
OPERA RARA ORC 16 (2 CD)
Paolo Patrizi
Belisario: un percorso discografico
Anche Donizetti ha avuto la sua Norma: una Norma al maschile, ma, come il capolavoro di Bellini, perfetta convergenza di soggetto classico riletto attraverso una lente romantica e, al contempo, dimostrazione di quanto gli abissi dell’animo umano esplorati dalla tragedia greca possano riflettersi nel melodramma. I lunghi decenni di oblio del Belisario non hanno solo sottratto, a generazioni di spettatori, la possibilità di godere d’un capolavoro: hanno impedito di percepire un momento di svolta del teatro donizettiano; dunque il 9 maggio 1969, quando l’opera si riaffacciò alla Fenice, non rappresenta una data tra le tante della Donizetti renaissance, ma una serata – fortunatamente conservata dal mondo del disco – che segna un tassello imprescindibile nella riconfigurazione di quest’autore.
Fu provvidenziale, qui come in altre riscoperte donizettiane, che al centro del recupero ci fossero Gianandrea Gavazzeni e Leyla Gencer. La comprensione dei significati più profondi di una partitura passa sempre attraverso i grandi interpreti: con un direttore meno idiomatico e una personalità vocale meno travolgente non sarebbero emerse con altrettanta chiarezza la temperie classico-romantica dell’opera (non a caso Gavazzeni offrì proprio in Norma una delle sue letture più illuminanti) e quel ginepraio di strazio e ferocia che innalza Antonina ai vertici tragici di Clitennestra e, al contempo, ne fa un possibile modello per la Lady Macbeth verdiana. Sotto quest’aspetto la sguarnita discografia del Belisario – tre edizioni, tutte dal vivo – è una bussola più utile di qualunque esegesi musicologica.
Il mondo del disco, per la verità, non aveva del tutto ignorato quest’opera prima delle sporadiche riprese teatrali: nello stesso 1969 in cui Belisario veniva riportato alla luce a Venezia, Montserrat Caballé registrava per la RCA l’album Rarità donizettiane, che comprendeva la cavatina «Sin la tomba è a me negata»; e già nel 1920 il tenore Alfred Piccaver aveva inciso a Vienna, per la casa discografica Odeon, l’aria «A sì tremendo annunzio». Kammersänger (la massima onorificenza conferita a un artista lirico nei paesi tedeschi) alla Staatsoper, Piccaver ovviamente non ebbe modo di accostarsi al Belisario nella sua interezza e la scelta di un simile brano può apparire singolare, se non misteriosa. Ma se si pensa alla suggestione che certe arie di Donizetti – anche di opere fuori repertorio – hanno esercitato su grandi cantanti d’inizio secolo la cosa non appare peregrina: in quello stesso lotto d’incisioni figurava pure «Deserto in terra» dal Don Sebastiano (una pagina che dodici anni prima aveva affrontato anche Caruso, cui Piccaver veniva accostato, con qualche azzardo, dal pubblico austrotedesco); e il sodalizio artistico che, nei primi anni di carriera, ebbe con un donizettiano di lunga militanza come Mattia Battistini può avere instillato in Piccaver una sensibilità particolare verso il compositore.
Una pagina isolata, tuttavia, difficilmente illumina sul valore complessivo dell’opera. Il 78 giri di Piccaver non spianò il terreno ad alcuna ripresa del Belisario – sebbene, in quegli stessi anni, un baritono come Titta Ruffo poteva essere il protagonista ideale per un repêchage – e, anzi, «A sì tremendo annunzio» resta tra i pochi dischi di questo cantante a non aver beneficiato della riproposta in compact: d’altronde è difficile, per un ascoltatore italiano di oggi, entusiasmarsi davanti al Donizetti d’un tenore in difetto di limpidezza nel ‘legato’ (anche per via di certe nasalità dello strumento) e dall’emissione esemplare per robustezza, ma non per duttilità. Restano l’interesse del documento, la curiosità di riscoprire un cantante che fu uno storico Lohengrin (ma pure un interessante Manrico) e un’ipotesi su cui lavorare: quanto un’opera come Belisario, di ricchezza orchestrale quasi sinfonica e basata più sul recitar cantando che sul belcanto, avrebbe potuto trarre giovamento – se l’incisione di Piccaver avesse avuto seguito – da interpreti di scuola tedesca. La presenza, in quella che a tutt’oggi è l’ultima registrazione dal vivo sul mercato, di una protagonista femminile come Mara Zampieri (essenzialmente tedesca per carriera, ma anche per gusto e tecnica di fonazione) può rappresentare un segnale interessante in questo senso.
D’altronde pure ad ascoltare «Sin la tomba è a me negata» della Caballé – che non affrontò mai Belisario in teatro – si rischierebbe una percezione inesatta dell’opera. La voce freschissima e flessibilissima che poteva sfoggiare alla fine degli anni Sessanta si fa latrice di un’interpretazione squisita per eleganza e lirismo, con affondi drammatici anche sinceri (la dizione perfetta le consente tra l’altro un recitativo di esemplare scansione), ma senza che la tragedia di Antonina – mater dolorosa e moglie, almeno potenzialmente, omicida – assuma quelle tinte demoniache proprie del personaggio. L’accompagnamento di Carlo Felice Cillario asseconda la dimensione della trenodia elegiaca, il ‘da capo’ della cabaletta finisce con l’apparire più esornativo che rispondente a un’urgenza drammatica e, insomma, l’Antonina-Clitennestra concepita da Donizetti non emerge nella Caballé, così come non emergeva la Norma-Medea nella sua pur mirabile interpretazione dell’opera di Bellini. La cantante catalana avrebbe potuto comunque misurarsi con il ruolo in palcoscenico, virandolo, come appunto era solita fare in Norma, sotto il profilo lirico-elegiaco: ma nel frattempo Leyla Gencer si era talmente identificata con Antonina, e aveva plasmato in modo così inequivocabile il profilo luciferino del personaggio, che il dualismo Caballé angelica versus Gencer grifagna – destinato a rappresentare in altri titoli uno dei grandi momenti di dibattito della Donizetti renaissance – nel Belisario non sarebbe stato proponibile.
Con una voce che – probabilmente in assoluto, e tanto più nel 1969 – non poteva vantare né la luminosità dell’ottava superiore né la timbratura di quella inferiore ostentate dalla Caballé, la Gencer approdò a Venezia a un’incarnazione paradigmatica: non solo in rapporto al personaggio, ma anche alla sua personale parabola canora. Turca per nascita e spirito, trovò in questa Lady Macbeth di Bisanzio uno dei ruoli-chiave per la seconda parte d’una carriera che rimetteva in discussione la propria vocalità: il soprano lirico, duttile e flessuoso degli anni Cinquanta si era trasformato in un soprano spinto di coloratura, violentissimo negli attacchi e con agilità più aggredite che risolte. Un percorso costruito quasi su misura per il personaggio di Antonina, destinato a diventare una sorta di sensore della Gencer ‘seconda maniera’: finché lo strumento, per quanto non più fresco, sarà tale da assecondare questo nuovo corso – come appunto nel live veneziano – gli esiti sono soggioganti (l’attacco furibondo di «Pera l’empio che offese natura», che dà avvio alla ‘stretta’ del Finale primo, è davvero impressionante); in riprese successive (a Bergamo l’anno dopo, anch’essa documentata in disco, e a Napoli nel ’73) la sensazione sarà quella di un’avventura interpretativa portata alle sue estreme conseguenze.
A garantire la perfetta tenuta dell’incarnazione genceriana, nel Belisario del ’69, è anche l’unità d’intenti con il direttore. Gavazzeni sottolinea, in primo luogo, lo spessore sinfonico e corale dell’opera: esordisce con un’ouverture cupa e ferrigna che proietta subito il dramma in medias res, trasforma il preludio del terzo atto in una vera e propria pittura sonora delle peregrinazioni di Belisario e Irene, imprime plasticità statuaria – anche a costo di non rispettare alla lettera l’indicazione di ‘Allegro’ – al coro di apertura (i momenti cerimoniali vengono risolti con una compattezza severa molto efficace sul piano drammaturgico) e ottiene sempre dal coro – facendone un vero personaggio, come Donizetti spesso richiede – un momento memorabile nel «Che mai sarà!» che apre il quadro dell’aula senatoria, con un magnifico effetto di riverberazione sull’ultima battuta. Lontana da calligrafismi postrossiniani come da marzialità preverdiane (due rischi dietro l’angolo, a cogliere la mera superficie di taluni passaggi dell’opera), la sua è comunque una lettura consapevole della modernità del Belisario e dunque, stilisticamente, proiettata in avanti: sotto questo profilo la sensibilità della Gencer – incline, per gusto e necessità, più a un tagliente e sbalzato belcantismo primoverdiano che alla vera levigatezza belcantistica – viene del tutto assecondata; e pure Giuseppe Taddei è favorito nella sua propensione a ragguagliare i vaneggiamenti di Belisario a quelli di Nabucco, e il ramingare del protagonista con sua figlia a quello del vecchio Miller con Luisa.
Già la battuta con cui Antonina entra in scena – «Plauso! Voci di gioia» – è un’epitome del canto della Gencer: forzato ma di assoluta verità drammatica, instabile nel suono ma autorevolissimo nell’accento, con un retrogusto di gutturalità ma dalla forza di penetrazione estranea a qualunque Kopfstimme. È difficile immaginare un contrasto più estremo con il garbato e grigio vibratino dell’Irene di Mirna Pecile, ascoltata subito prima; d’altronde trovare nel timbro il proprio phisique du rôle, e costruire una sorta di fisiognomica vocale dei personaggi, è un modo di ritrarre a tutto tondo protagonista e deuteragonista femminili della vicenda, sottolineando la divaricazione tra ossessiva diabolicità della madre e dolce mitezza della figlia. Più che nell’abbandono al flusso del canto, però, è nell’intaglio della parola scenica – che in questo caso non sarà anacronistico utilizzare nella sua piena accezione verdiana – il fulcro dell’incarnazione della Gencer: «Immenso è il mio dolore», nel recitativo che precede «Sin la tomba è a me negata», qui è un abisso d’infelicità oltre l’umano; l’‘a parte’ «Comincia la vendetta», con cui si dà inizio al letale regolamento di conti, sarebbe degno di figurare da solo in un’antologia donizettiana; e basta una sillaba – quel «Sì» che conferma le accuse a Belisario, dove angoscia e ferocia raggiungono il loro punto di fusione – a sancire il talento di ‘attrice vocale’ della Gencer.
Tanta angosciata infelicità, tuttavia, non può né vuole instillare alcuna pietas. In «Sin la tomba è a me negata» il canto della Gencer è troppo ‘nero’, nella sua cupezza nichilista, per dare l’idea d’un vero dolore materno: è la certezza di un’assoluta impossibilità di catarsi che il soprano turco vuole trasmettere all’ascoltatore, così come, al momento di confessare le proprie colpe, non sarà dato percepire rimorso o pentimento, ma solo consapevolezza di obbedire a un destino ineluttabile. Sotto quest’aspetto il timbro ormai piuttosto prosciugato della Gencer si rivela ideale, perché appare come scarnificato dalla disperazione; e nell’ultimo quadro un certo deterioramento vocale sembra giovare al personaggio: l’opacità degli affondi contraltili nel ‘Maestoso’ «Di pianto, di gemiti» imprimono a questo singolarissimo tempo di mezzo tra aria e cabaletta finale una vis allucinata che, idealmente, crea un ponte con la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth; mentre l’oscillante puntatura conclusiva, infelice sotto il profilo strettamente vocalistico, evoca davvero quello «strido orribile» con cui Antonina «precipita al suolo».
Se nel 1969 questa stratificazione di limiti vocali volti in qualità espressive si è tradotta in un ritratto memorabile, il live da Bergamo dell’anno successivo registra esiti più contraddittori. Certe alchimie difficilmente si ripetono, ma forse alla radice della discontinuità dei risultati qui c’è una minore intesa con il direttore. Al contrario di Gavazzeni, Adolfo Camozzo è meno interessato alle grandi articolazioni formali e più propenso a una dimensione lirica e cantabile: ne scapitano le pagine corali – un po’ troppo frettolosamente modellate – e ne guadagnano quelle occasionali reminiscenze rossiniane, defilate in Gavazzeni, che Camozzo sottolinea grazie al nitore e alla precisione dei tempi rapidi. Ma soprattutto la minore temperatura emotiva squilibra il ritratto della Gencer: da un lato quelle forzature che, all’interno d’una concertazione cupa e altamente drammatica, potevano sembrare inattaccabili qui tradiscono le loro crepe e i loro eccessi (certi suoni appaiono tesi fino allo spasimo); dall’altro la maggior liricizzazione impressa da Camozzo induce la cantante, in minima parte, a cercare echi della sua antica vocazione di soprano lirico. È una sensazione che si avverte soprattutto in «Da quel dì che l’innocente»: come se la Gencer – in quella che, almeno formalmente, è per Antonina un’aria di pentimento – tentasse a sua volta di emendarsi dalle eterodossie di emissione che l’hanno resa un’inarrivabile tragédienne, tornando alle proprie radici vocali. Ma indietro non si torna; e certi conati di lirismo appaiono incongrui per una cantante che, nella seconda parte della carriera, seppe tradurre l’odio e la collera nel canto come forse nessun’altra primadonna ha saputo fare.
Che a Venezia avesse accanto a sé Giuseppe Taddei è, riascoltando il disco, un utile esercizio di memoria: il repertorio sterminato di questo baritono spesso fa dimenticare il suo contributo – circoscritto, ma non marginale – alla Donizetti renaissance (oltre a Belisario anche Caterina Cornaro, sempre con la Gencer). Nonostante una carriera all’epoca già ultratrentennale, la vocalità di Taddei s’impone senza difficoltà dall’inizio alla fine: dizione, proiezione, timbratura sono quelle – al tempo stesso – del grande cantante ‘tecnico’ e della voce ‘facile’ per qualità naturali. Il suono è omogeneo a tutte le altezze, il ‘legato’ tra i più belli che siano dati ascoltare nei baritoni italiani del dopoguerra; semmai si può eccepire che proprio quest’assoluta omogeneità di emissione lo induce a una certa monocromia: nonostante l’accompagnamento di Gavazzeni sia tutt’altro che uniforme, nel duetto con Irene la tripartizione in ‘Larghetto’, ‘Larghetto cantabile’ e ‘Moderato’ appare, nel porgere di Taddei, piuttosto livellata. E il calore, la densa morbidezza, la paternità del suo canto – sebbene appaganti – sulla distanza appaiono un po’ monotone, perché il fraseggio non lascia percepire sostanziali differenze quando Belisario si rivolge alla figlia conclamata (Irene) e quando si rivolge al figlio non ancora svelatosi come tale (Alamiro).
Se il Belisario-padre, in Taddei, ha una virile tenerezza modellata – magari a prezzo d’una certa uniformità stilistica – sui più paradigmatici ruoli paterni di Verdi (nel ’69 la Donizetti renaissance aveva restituito la consapevolezza di molti personaggi femminili, ma non ancora sdoganato i grandi protagonisti baritonali), pure il Belisario-condottiero occhieggia a moduli verdiani: interprete propenso alla sintesi efficace più che allo scandaglio analitico, Taddei convoglia questo «supremo duce delle armi di Giustiniano» non tanto verso un singolo personaggio, ma verso un’‘idea’ di verdianità, collocandolo in una galleria di ritratti familiare al cantante e al pubblico. Quando però Belisario – come Agamennone, o Idomeneo – rievoca l’ineluttabile destino di dover sacrificare la prole a una volontà superiore, Taddei ha la giusta sensibilità e il necessario talento istrionico: le indicazioni di Donizetti e Cammarano – «convulso a segno di non poter parlare», «con voce interrotta» – vengono realizzate benissimo, anche a costo di sacrificare la scorrevolezza della linea vocale (che peraltro è una delle sue armi migliori) e aprire ‘veristicamente’ il suono al di sopra del passaggio (e l’emissione rigorosamente coperta degli acuti è sempre rientrata nel bagaglio tecnico di Taddei). È un momento straordinario di cantar parlando, che si converte in puro declamato, senza più alcuna parvenza canora, nel conclusivo «estinto il fi…glio»: conferma dell’eclettismo d’un baritono versato soprattutto nel cantabile, e che sotto il segno della morbida cantabilità pone il suggello della sua interpretazione, in una scena della morte dove il Belisario di Taddei si congeda spirando con dolcezza, dignità, verdianità.
Umberto Grilli, negli anni Sessanta e Settanta, si guadagnò benemerenze donizettiane per la facilità del registro acuto e una dizione scolpita, ma che non pregiudicava la qualità del ‘legato’: caratteristiche confermate nella parte di Alamiro, dove dimostra pure una certa duttilità espressiva nel trascolorare dal tono sbigottito a quello fremente, dal fervido allo sfumato. Al contrario di Piccaver – unico termine di confronto, fino a quel momento, per l’aria di Alamiro – è tenore più sfogato che drammatico, e i passaggi centralizzanti di «A sì tremendo annunzio» gli giovano meno delle impennate acute: più che nell’aria in sé, dà il proprio meglio nella scansione del recitativo e nell’espansione della cabaletta.
Mirna Pecile è voce di scarse attrattive: ma in una parte più da soprano corto che da mezzosoprano, contenuta in acuto e poco sviluppata nel registro grave (si direbbe che Donizetti voglia profilare l’apparente modestia di Irene, piuttosto che la sua ansia filiale), non evidenzia limiti vocali e offre un ritratto di dolce compostezza, vivificata da sprazzi di trepidazione, molto acconcia al personaggio. Nicola Zaccaria è consapevole che Giustiniano, sebbene abbia poco spazio, non può essere un ruolo qualsiasi: esordisce con un «O nume degli spiriti» ispirato e ieratico, coglie con sensibilità la progressione drammatica dall’ammirazione per Belisario al dolore stupefatto per il suo supposto tradimento, delinea la sofferenza e la solitudine del potente nell’incontro con Antonina, suggella il senso di tutta l’interpretazione nel composto e struggente «Amico…» con cui l’imperatore si congeda dal suo condottiero morente. Personaggio decisivo nel dramma ma non nella musica, Eutropio trova con Bruno Sebastian – tenore aduso a parti più importanti – una felice caratterizzazione, in bilico tra l’uomo soggiogato da una donna manipolatrice e una naturale malvagità di fondo.
Tutti e quattro figurano pure nel live del 1970, senza sostanziali mutamenti di prospettiva (anche se qui Sebastian sembra tendere a un personaggio di più esplicita crudeltà e sgradevolezza). È invece il protagonista a cambiare. Tutt’altro che principiante (aveva alle spalle un decennio di carriera), ma fino allora confinato nelle retrovie dell’ampia unità baritonale operante in quegli anni, Renato Bruson subentrava a Taddei; e fu l’inizio, col senno di poi, d’una galleria di personaggi dalla tradizione esecutiva minima o inesistente, con cui avrebbe riedificato – partendo pressoché dal nulla – la percezione del baritono donizettiano. Sotto questo profilo il confronto con Taddei è istruttivo non solo per comparare le due edizioni, ma instaurare un parallelo tra la vecchia guardia italiana e le nuove frontiere che Bruson, tornando all’antico, riapriva: se Taddei si ricollega a un’illustre scuola prebellica (Tagliabue soprattutto) di altissima civiltà vocale, ma comunque tendente a vedere nel baritono verdiano un’attrazione gravitazionale dove far convergere qualunque altro ruolo, Bruson restaura un’idea di baritonalità più lirica, più delicata, più smussata nelle tensioni.
È difficile – tutto sommato anche inutile – stabilire se ciò fosse il frutto di ponderato vaglio stilistico, mera intuizione o scelta obbligata: nel 1970 la voce di Bruson poteva contare su un colore di vero baritono, ma non su quella robustezza, espansione, densità (che con il tempo avrebbe in parte conquistato) in cui il canto verdiano si sostanzia, sicché erano i suoi stessi naturalia vocali a tracciare la strada di un’incarnazione tutta indirizzata verso una soffice nobiltà. Il suo, insomma, è un Belisario più «umano in pace» che «tremendo in guerra»: e poiché i due poli del personaggio sono questi, nell’icastica definizione che ne dà Giustiniano, può trapelare un senso d’incompiutezza pure nella squisita incarnazione di Bruson. Gli estremi – notoriamente – si toccano, e la convergenza di pregi e difetti nell’interpretazione di Taddei qui si ripete in modo ribaltato: con un’operazione di sicura presa teatrale Taddei rapportava Belisario ai grandi traguardi verdiani, non illuminando però a sufficienza certe peculiarità vocali di Donizetti; Bruson prende talmente le distanze dalle contaminazioni stilistiche da non lasciar intuire quanto Macbeth e Nabucco siano anticipati dal Belisario, e rischia talvolta di trasformare la propria temperanza di stile in limite espressivo.
Il passaggio da Gavazzeni a Camozzo fu provvidenziale, trattandosi d’una concertazione più giocata in chiave lirica che, se non calzava con le caratteristiche della Gencer, assecondava bene i momenti migliori di Bruson: la sobria e misurata tenerezza nel duetto con Alamiro, la levità e l’arte delle smorzature nel duetto con Irene. Per contro i recitativi – e in generale tutti i momenti non spiccatamente cantabili – appaiono talvolta poco timbrati (anche le mezzevoci, sebbene rappresentino per Bruson una delle carte migliori, hanno una timbratura più debole rispetto a Taddei), e il cantante dà a tratti l’impressione di voler ovviare alla (relativa) carenza di peso vocale con qualche eccesso di sottolineatura fuor di luogo: come l’accento inopinatamente bieco nel «Vaneggi tu! » rivolto a Eutropio, o la puntatura – condivisa anche dalla Pecile – al termine del duetto con Irene, incongrua rispetto alla morbidezza e al raccoglimento che avevano improntato l’esecuzione della pagina.
Più spesso, tuttavia, accade l’opposto: Bruson è un fraseggiatore troppo austero per imprimere a certi passaggi quell’istrionismo mattatoriale di cui avrebbero bisogno (la frase «Una furia maligna alle amorose note altre ne aggiunse», ad esempio). Ciò porta a modificare il baricentro espressivo di alcune situazioni, talvolta con effetti anche migliori di quelli previsti da compositore e librettista (quando Belisario svela ai rivoltosi la propria cecità, l’orgogliosa disperazione con cui Bruson scandisce le due lapidarie parole «Son cieco» è più eloquente della «sublime intrepidezza» suggerita in didascalia), talaltra concretandosi in una deminutio. Così, l’agnizione di Alamiro – che in Donizetti assume un respiro addirittura tachicardico – appare fin troppo concisa perché Bruson tende a corrodere il periodare frantumato previsto dall’autore («il pio… motto sculto vi… stava») in favore di un canto più legato e una più castigata sintesi espressiva; e pure il climax tragico del personaggio – «Sognai fra genti barbare» – è troppo cantato e troppo poco declamato per rendere quell’idea di «voce interrotta» così magistralmente resa da Taddei. Ma qui a divergere è proprio il modo d’intendere la pagina: Taddei sposa la causa di questa sorta di Sprechgesang ottocentesco, e concepisce il cuore del momento scenico nel conclusivo grido lacerato sopra il figlio estinto; Bruson, restio a deragliare dai binari d’un più classico canto spiegato, elabora una sorta di allucinata trenodia sul calpestato diritto di natura, trovando il proprio fulcro espressivo nella frase «Mandò natura un gemito».
Nel 1981, a Buenos Aires, Bruson offrirà una prova più mediata: a undici anni dal debutto nel ruolo mantiene i connotati essenziali della vecchia interpretazione, ma il progressivo viraggio della sua carriera verso Verdi non lo induce più a quella totale levità di emissione e a quel fraseggio senza asprezze che rappresentavano – per la critica forse più ancora che per Bruson stesso – la linea di demarcazione tra canto donizettiano e canto verdiano. La voce appare meno fresca, ma in ottima salute: il timbro ha acquistato sostanziosità, la dizione (nonostante un’emissione sempre molto coperta) è più netta, l’aerea sofficità del 1970 si è trasformata in una ‘scorza soffice’ per certi aspetti ancora più appagante. Resta – nel live bonearense come in quello bergamasco – una severità antiretorica che talvolta scantona nel riserbo espressivo (davanti a tanta austerità non è facile credere a Bruson quando, nel duetto con il tenore, canta «Ho tutto il cor commosso»), mentre in «Sognai fra genti barbare» raggiunge la quadratura del cerchio. Qui mette a frutto un’arte del recitar cantando che aveva nel frattempo affinato in varie produzioni di Macbeth, mediandola con la sua antica propensione alla fluidità del porgere: non arriva al puro declamato di Taddei, ma neppure a quella ‘cantabilizzazione’ del brano – che finiva un po’ per svisarlo – operata a Bergamo. Siamo d’altronde nel periodo più completo della carriera di Bruson, che con gli anni sarebbe tornato a restringere un po’ la propria gamma espressiva, e chi volesse ripercorrere le sue fondamentali tappe donizettiane non dovrebbe prescindere da questa registrazione argentina.
Gianfranco Masini contribuisce a tale evoluzione interpretativa: la sua è una direzione con tempi più spediti e sonorità meno compatte di Gavazzeni, ma che potremmo definire verdiana per l’irrequietezza del fraseggio orchestrale, con un’agogica ricca di contrasti tale da suggerire notevole mobilità drammatica. Anche la capacità d’estrarre singoli blocchi interni da più articolate strutture, restituendoli nella loro autonomia drammaturgica, contribuisce a collegare questo Donizetti modernissimo al Verdi che verrà: il ‘Larghetto’ «Da chi son io tradito!», cuore pulsante dell’ampio Finale primo, qui non è il tassello d’un più esteso mosaico, ma dà l’idea di trasformarsi in un vero e proprio sestetto con coro. E non per creare una fin troppo ovvia parentela con Lucia di Lammermoor: il sestetto del Belisario – se come tale vogliamo individuarlo – non dà luogo a quel ‘momento sospeso’, in attesa che l’azione riparta, che caratterizza il suo fratello maggiore della Lucia, ma si concreta, nella lettura di Masini, in una polifonia delle emozioni e un verdianissimo scontro tra i sentimenti degli attori del dramma.
Dopo un’incarnazione paradigmatica come quella di Leyla Gencer era inevitabile che ogni nuova interprete di Antonina ne restasse suggestionata, ma, consapevole dell’inimitabilità del modello, Mara Zampieri in parte si colloca in quel solco e in parte se ne discosta, dando comunque vita a una valida alternativa. La stella polare della Gencer resta ben presente nella violenza di certi attacchi ai limiti della rottura (che però, al contrario del soprano turco, nella Zampieri non si rompono mai), ma quest’Antonina – ed è la differenza fondamentale – conosce pure qualche momento trasognato e non sembra avere del tutto smarrito il sentiero della speranza: la cavatina appare meno aggressiva e più soliloquiante, in «Da quel dì che l’innocente» trapela un tardivo ritorno d’amore verso la memoria del marito. Qui, però, entra in gioco la particolare organizzazione vocale della Zampieri, diversa dalla Gencer ma altrettanto peculiare, e come quella frutto – probabilmente – di un’operazione che svia dalle spontanee caratteristiche della voce.
Partita con un bagaglio tecnico e naturale da soprano drammatico di agilità, la Zampieri, concentrando poi la carriera nei teatri austrotedeschi, ha ampiamente introiettato il gusto per un’emissione tagliente, spogliata da qualunque tendenza ai portamenti e priva di vibrato fino a rasentare i limiti della fissità. Questa convergenza di scuola tedesca su un substrato di canto all’italiana può essere ora un accrescimento, ora una vicendevole neutralizzazione dei pregi delle due diverse scuole: ma consente alla sua Antonina, proprio in virtù delle affilate risonanze di testa e della fermezza quasi fissa del suono, un attacco davvero marmoreo di «Sin la tomba è a me negata» e un retrogusto allucinato in «Da quel dì che l’innocente». La drasticità del ‘non vibrato’, d’altronde, non esclude una relativa ricchezza dei contrasti dinamici, che la Zampieri coltiva più della Gencer; e anche la rinuncia a puntature sopracute (ne azzarda solo una, ben riuscita, al termine del Finale primo) dà conto di una musicalità più sorvegliata, o meno spericolata, rispetto al modello genceriano. Lasciano invece perplessi certi fiati ansimanti che – come accadrà nelle ultime interpretazioni donizettiane di Edita Gruberova – danno l’idea di un limite trasformato in vezzo espressivo: ma i Bellini e Donizetti ‘tedeschizzati’ dalla Zampieri, con la sua Kopfstimme che ne fa quasi una Rysanek italiana, sono un paragrafo nella storia interpretativa del nostro belcanto romantico da riesaminare con attenzione.
Accanto a lei c’è una ‘seconda donna’ di autentico spessore deuteragonistico. Con un timbro forse fin troppo mezzosopranile per il ruolo, e un vibrato che contrasta efficacemente con la Zampieri, Stefania Toczyska concreta le potenzialità drammaturgiche di Irene lasciate sottopelle da Donizetti, dando vita a una sorta di Antigone che si apparenta alle grandi figure della tragedia greca con la stessa autorità di Antonina e Belisario. Ne sortisce un personaggio non privo di torbidità nella sua adorazione filiale: il fraseggio che imprime a «La man terribile del vincitore» trasmette la palpabile sensazione di un’Irene innamorata del padre; e la capacità d’insufflare vis tragica pure a frasi fulminanti («Io gelo!», quando Belisario si allontana prigioniero tra le guardie) rivela nella Toczyska un’arte dell’accento quasi genceriana. Ma impressiona soprattutto il duetto con il padre, che nelle edizioni precedenti sembrava, sostanzialmente, un primo piano di Taddei e Bruson, con la voce femminile in posizione di spalla: mentre qui il canto convulso e spezzettato della Toczyska – in fertile dialettica con la commozione trattenutissima di Bruson – dà vita a un momento scenico-vocale davvero lancinante.
Vittorio Terranova appare un po’ in tensione nelle impennate acute di Alamiro: il suono in alto resta comunque schiacciato, e la preoccupazione di raggiungere la nota inibisce un vero lavoro sul fraseggio («A sì tremendo annunzio» non ha quella compostezza quasi pietrificata che la pagina richiederebbe). È però un corretto professionista, al pari di Nino Meneghetti – voce fonda e ben scolpita, anche se al suo Giustiniano manca l’umanità dell’interpretazione di Nicola Zaccaria – e Dante Ranieri, un Eutropio pavido, travolto da eventi più grandi di lui.
Al contrario di altri titoli donizettiani, nel Belisario i ruoli minori sono troppo circoscritti perché un comprimario possa abbozzarvi il proprio talento. Ci riesce almeno in parte, nell’edizione del 1969, Giovanni Antonini, che pennella con efficacia l’intenerimento del carceriere Eusebio davanti all’abnegazione di Irene e conferisce carattere all’empatico personaggino. Anche questi sono semi utili a far entrare un’opera in repertorio e Belisario, purtroppo, non vi si è ancora inserito. La mancanza di tradizione esecutiva, d’altronde, si riverbera pure nelle scelte dei direttori dell’esigua discografia: né Gavazzeni né Camozzo né Masini optano per un’esecuzione integrale, ma i tagli – per lo più relativi ai ‘da capo’ e a recitativi volti a sviluppare il personaggio di Irene – sono diversi da edizione a edizione.
Nel live di Buenos Aires si coglie però una stranezza, che potrebbe essere sintomatica della volontà di ragguagliare Belisario a certe tradizioni, anche di dubbio gusto, del grande repertorio. Al termine della cavatina di Irene, infatti, la comprimaria che interpreta Eudora si unisce alla Toczyska nella puntatura. È un effetto discutibile: ma, in passato, lo si è incontrato più volte nel primo atto del Trovatore, quando la voce di Ines si congiunge a quella di Leonora alla fine della cabaletta.
DISCOGRAFIA ESSENZIALE
(Ordine dei personaggi: Antonina, Irene, Belisario, Giustiniano, Alamiro, Eudora, Eutropio, Eusebio, Ottario, Un centurione).
1969
Interpreti: Leyla Gencer, Mirna Pecile, Giuseppe Taddei, Nicola Zaccaria, Umberto Grilli, Rina Pallini, Bruno Sebastian, Giovanni Antonini, Augusto Veronese, Alberto Carusi
Direttore: Gianandrea Gavazzeni
Orchestra e coro del Teatro La Fenice di Venezia
Melodram MEL 27051 (2 CD)
1970
Interpreti: Leyla Gencer, Mirna Pecile, Renato Bruson, Nicola Zaccaria, Umberto Grilli, Lina Rossi, Bruno Sebastian, Virgilio Carbonari, non indicato, Virgilio Carbonari
Direttore: Adolfo Camozzo
Orchestra e coro del Teatro Donizetti di Bergamo
Hunt HUNT CD 586 (2 CD)
1981
Interpreti: Mara Zampieri, Stefania Toczyska, Renato Bruson, Nino Meneghetti, Vittorio Terranova, Vera Portella, Dante Ranieri, Jairo Vaz, Ercilio Pinto, Dorival Panzani
Direttore: Gianfranco Masini
Orchestra e coro del Teatro Colón di Buenos Aires
Myto Records 45301 (2 CD)