IL DEBITO PUBBLICO
di Piero Laporta
Un concertato sistema di usura
M
entono sapendo di smentire almeno dal 1980 a
oggi, i governanti, affermando che le tasse servono a colmare il debito pubblico.
Al contrario, le tasse danno agio di formare e in-
grossare il debito, accompagnandone la crescita, fino a raggiungere – le tasse – i livelli intollerabili attuali. Il debito
pubblico è il cappio al collo, è la cambiale nelle mani degli
usurai, che operano attraverso i nostri governanti, impostici
al fine di farci lavorare sempre di più, sempre più a lungo,
con salari e pensioni decrescenti, mentre la Nomenklatura,
tre milioni di privilegiati dello Stato, del parastato, del giornalismo e del sindacato – di cui i governanti sono espressione - si bea a spese dei rimanenti contribuenti. La mancata
riforma elettorale è controprova della volontà di autopre-
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servazione della Nomenklatura, della quale il Parlamento è
complice strumento, stravolgendo la Costituzione.
In nome del contenimento della spesa si predica la democrazia e si pratica la dittatura, ma la spesa dello Stato non si
tocca. Perché?
A gennaio il debito pubblico italiano toccò il record di
1.935,8miliardi di euro, più 37,9miliardi sul mese precedente.
Le entrate tributarie, 30.502miliardi di euro, furono 0,5% in
meno rispetto a gennaio 2011. Dagli anni ’80 la politica predica il contenimento della spesa, la cui curva invece sale, sia
pure oscillando, ma sale.
Facciamo alcune matematiche elementari sul debito pubblico.
Ecco la formula dei nostri guai finanziari nell’anno 2012, il
cui debito pubblico sarà:
1.
Dp2012 = Dp2011 + i x Dp2011 + D2012
Se “i” è il tasso di interesse dei titoli di Stato, il debito pubblico nel 2012 sarà pari al debito pubblico nel 2011, sommato agli interessi maturati dai titoli di stato a causa di quel
debito, cui inoltre sommiamo il disavanzo creatosi nello
stesso anno, D2012, cioè la differenza tra introiti e spese statali.
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Quanti furono nelle grazie della professoressa di matematica potranno sviluppare la formula precedente nel seguente
modo:
2.
Dp2012 = Dp2011 (1+ i) + D2012
Il debito pubblico Dp punta all’infinito – cioè alla bancarotta
– quando le spese dello Stato siano superiori ai suoi introiti
e la percentuale di incremento del PIL sia inferiore al tasso
d’interesse dei titoli di Stato. Questo è intuitivo per qualunque padre di famiglia: le spese devono essere minori delle
entrate, in misura da garantire la sopravvivenza e le attività
familiari (spese correnti e investimento), tali comunque da
ammortizzare il debito di famiglia con certezza e in un ragionevole numero di anni.
Prima della bancarotta – ripetiamo il suo itinerario: spese
statali superiori agli introiti e percentuale d’incremento del
PIL inferiore al tasso di interesse dei titoli di stato – vi sono
tre posizioni progressivamente positive.
Cominciamo con la prima, “Stato virtuoso e produttività in
crisi”, se la macchina statale spende meno di quanto introita
mentre l’incremento del PIL è inferiore al tasso d’interesse
dei titoli di Stato.
In questa condizione il rapporto fra debito e PIL può crescere o meno, sotto la spinta dei risparmi sulla spesa pubblica, i
quali, se mutati in investimenti, spingono il PIL verso l’alto e
quindi aumentano gli introiti fiscali.
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La seconda condizione, “Stato scellerato e produzione virtuosa”, quando le spese statali superano le entrate mentre il
tasso d’incremento del PIL è maggiore del tasso di interesse
dei titoli di Stato. Il rapporto fra debito e PIL può essere crescente o decrescente, in relazione all’incremento del PIL,
consentendo comunque l’ascesa dell’occupazione e delle entrate fiscali, andando verso il risanamento.
Infine, la situazione “cinese”, quando lo Stato introita più di
quanto spende e il tasso di incremento del PIL è maggiore
del tasso di interesse dei titoli di Stato. Sebbene tale paradiso a noi oggi sembri irraggiungibile, esso potrebbe tuttavia
conseguirsi se solo cominciassimo con uno “Stato virtuoso”,
il quale riduca drasticamente i propri meccanismi di spesa.
Questo consentirebbe di puntare alla “produzione virtuosa”
e in prospettiva imitare la Cina.
In altre parole, come si vede dalla formula n.2, gli obiettivi
su cui puntare per un debito pubblico più basso di quello attuale sono: abbassare il tasso di interesse sui titoli di Stato e
diminuire la spesa dello Stato.
I due risultati sono legati fra loro e l’obiettivo pure importante di elevare il PIL (e con esso il prelevamento fiscale)
non è conseguibile con uno Stato compulsivamente bulimico.
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Il debito pubblico Dp2011, accumulatosi sino a dicembre
2011, non è più rimediabile. Potremmo invece ridurre quello futuro. Come?
Quanto più si riduce «i», l'interesse dei titoli di stato, tanto
meno aumenta il prodotto «Dp2011 x i». La riduzione di «i» si
ottiene con la fiducia dei risparmiatori che non arriva se
non si riducono le spese dello stato. E così siamo daccapo
perché si alza anche il disavanzo cioè il secondo addendo
« D2012 ».
Se non si riducono le spese, il massiccio prelievo fiscale è
quindi assolutamente inutile. Anzi, come vedremo, è controproducente.
Tale elementare concetto fu chiaro persino ai piemontesi
agli albori del Regno d’Italia. La struttura della spesa statale
era molto differente e più semplice di quella attuale, quando
Marco Minghetti, tornò a essere capo del governo del Regno
d’Italia, tra il 10 luglio 1873 ed il 25 marzo 1876. Egli si contrappose alla sua stessa compagine di destra, pur di raggiungere nel 1876 il pareggio di bilancio (il deficit del Regno nel 1866 fu di 800 milioni di lire), riducendo drasticamente le spese statali e tuttavia ricorrendo ai prestiti esteri.
In quel momento, il germe della dipendenza dalla Gran Bretagna, già allignante nelle casse piemontesi, ben prima della
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spedizione di Quarto, si stabilì con forza definitiva. La politica economica piemontese trovò un punto di convergenza
con quella britannica nell’ antipapismo, più aspro che mai in
quegli anni. L’enorme deficit del Regno fu coperto non solo
con drastici alle spese ma anche con la confisca dei beni degli ordini religiosi, che nel solo 1867 fruttò 600 milioni. Le
operazioni finanziarie fecero base nelle banche Rothschild
di Londra. Mentre si realizzava l’Unità d’Italia si preparavano le ragioni delle successive divisioni interne.
Il fascismo ereditò una situazione compromessa, a dispetto
della quale (o proprio per ripararvi) portò a compimento
una quantità di grandi opere. Pur con tutte le letture ideologiche della contabilità dello Stato, susseguitesi negli anni,
l’andamento del debito nel Ventennio fu a dir poco positivamente sorprendente.
Lasciamo ad altri il compito di capire se fu patriottismo o altra virtù a influire. L’amor di Patria, negletto incessantemente sino alla fine degli anni ’80, fu inopinatamente richiamato
in servizio sia per giustificare dubbie operazioni finanziarie
sia per contrapporlo al localismo. In un baleno si dimenticò
che lo Stato nazione era stato messo sotto accusa col Manifesto di Ventotene, fin da Giugno 1941.
La parola “federazione” comparve in tutti i comuni italiani,
ovunque vi fosse una “federazione del Partito Comunista
Italiano”, come recitavano le insegne sulle sedi del partito,
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lungimirante nel perseguire il frazionamento dell’unità italiana e determinato alla costituzione delle regioni, le cui
spese hanno la più considerevole parte nei guai attuali.
Pagammo la guerra della Germania
E
ra il 1992, le borse dei nostri alleati ci attaccavano
da Londra, Parigi, Berlino e Washington, proprio
come nei giorni correnti. Si sapeva che dovevamo
svalutare subito. La Lira valeva 750 sul Marco e
dovevamo portarla oltre 900. La parola d'ordine di Bankitalia, governata da Carlo Azeglio Ciampi fu «difendere la lira».
Che cosa c’era di più patriottico?
Due banche, Goldmann &Sachs e Deutsche Bank, guidavano
la speculazione. Senior advisor di Goldman&Sachs era Romano Prodi, predecessore in quell’incarico di Mario Monti.
11 luglio del 1992. Giuliano Amato, presidente del consiglio
da un mese, decretò 30mila miliardi di tasse e il prelievo
forzato del 6 per mille dai conti correnti bancari, retroattivo
al 9 luglio. Dichiarò che l'Italia, d'accordo con la Cee, non
svalutava. Il sacrificio era necessario per difendere la lira, si
disse.
Andò avanti per altri 3 mesi mentre Bankitalia bruciava ri-
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serve.
4 settembre 1992. Un Marco valeva 765,40 Lire. Erano trascorsi sei mesi d’una mai spiegata resistenza della Banca
d'Italia a portare la parità da 750 a 940 sul marco.
Una settimana dopo il governo svalutò del 3,5%. Iniziò il
crollo: il marco raggiunse 814,90 in due giorni.
Amato presentò la Finanziaria '93 due giorni dopo: 93mila
miliardi (47 miliardi di euro). In sei mesi Banca d'Italia aveva bruciato 60mila miliardi di lire (pari a 30 miliardi di euro, cioè quasi tutte le riserve di Bankitalia) e in totale avevamo dilapidato una cifra oggi paria 77 miliardi di Euro.
Una parte di quei denari, 10mila miliardi di Lire, attraverso
la Germania, andò a finanziare l’armamento della Croazia. A
marzo 1993 il settimanale croato governativo Globus dichiarò che la Croazia era divenuta autosufficiente per la
produzione di armamento leggero. La macelleria umanitaria
nei Balcani era cominciata da tempo.
Il dibattito sulla manovra quell'estate fu zero virgola zero,
mentre l'attenzione di tutti fu attirata dalle stragi di Capaci
(24 maggio) e via D'Amelio (27 luglio). A ottobre minimo
storico: Marco a 940, Dollaro a 1.300 Lire.
Antonio Parlato, onorevole missino, a marzo del '93 interrogò il presidente del Consiglio per chiedergli se il 2 giugno
1992, sul Britannia, lo yacht della regina Elisabetta II, vi fossero funzionari dello Stato italiano allo scopo di danneggia-
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re la nostra economia. Parlato aspetta una risposta.
Da maggio a ottobre 1993 - si badi, a Lira svalutata - Prodi,
nominato per la seconda volta presidente dell'Iri, svendette
tutta l'industria di stato ai gruppi nord europei.
Torniamo ai giorni nostri: Febbraio 2010.
Deutsche Bank, alla vigilia della speculazione corrente, nomina Amato senior advisor in Italia. Giuliano Amato, il quale
percepisce, oltre alla mancia da Deutsche Bank, tre pensioni
per oltre 30mila euro al mese.
Carlo Azeglio Ciampi ha tre pensioni per oltre 55mila euro
al mese; Romano Prodi per 15mila.
Banche e usurai
C
on questi antefatti, Mario Monti, professore di
economia, unico capo di governo al mondo con la
triplice tessera Trilateral, Bilderberg e Goldman&Sachs, non incide più di tanto sulla spesa
pubblica, esattamente come fecero i predecessori, a partire
soprattutto dal 1980. La differenza fra quegli anni e i giorni
correnti è nell’attacco più aspro che mai alla ricchezza delle
famiglie italiane e alle imprese a conduzione familiare, poi-
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ché, dilapidate le ricchezze dello stato, i padroni USA, Gran
Bretagna, Francia e Germania esigono, come ogni usuraio, i
beni personali dell’usurato, i nostri beni.
Obiettivo quanto mai agevole, grazie alla contrazione del
credito alle famiglie e, soprattutto, alle imprese, precipitato
verso lo zero nell’ultimo anno, col costo del denaro al 4,1% a
gennaio 2012, un punto in più rispetto a giugno 2011, secondo Bankitalia. Le cifre reali sono di gran lunga peggiori,
tenendo conto che aumentano le garanzie richieste dalle
banche e diminuiscono le somme erogate, con la PA che
onora i propri debiti dopo uno o due anni, mentre i saldi tra
imprese sono ormai oltre i novanta giorni.
Nel frattempo i padroni USA, Gran Bretagna, Francia e Germania zufolano, come fa ogni usuraio, alle orecchie dello
Stato italiano. Hai bisogno di un prestito? Eccolo. Non puoi
pagarmi gli interessi? Facciamo un altro prestito, intanto mi
paghi una certa cifra al mese, acquisti i miei prodotti, ti servi
delle mie aziende, lavori per me, infine.
Mentre scriviamo la tedesca Audi è montata in sella
all’italiana Ducati, ultima d’una lunga serie di espropriazioni. I supermercati francesi sono dappertutto, paese per paese, città per città. C’è tuttavia un dato curioso: sono assenti
in Sicilia e rari nelle regioni rosse del centro nord. Questo
vuoto corrisponde a una scelta di equilibrio ovvero è una
politica di scambio fra poteri forti?
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Intanto banche e usurai hanno il monopolio della liquidità,
contrapposti a imprese e famiglie.
Il debito inventato da Mario Monti
ell’immediato dopoguerra, irradiandosi il pote-
N
re paracostituzionale di partiti e sindacati, la
spesa pubblica comincia a salire con oscillazioni
più o meno intense. La situazione si aggravava e
tuttavia appariva controllabile o almeno tale
sembrò per circa un ventennio.
Dopo la morte di Aldo Moro, il consociativismo allargò la tavolata a tutto l’universo politico e sindacale che faceva capo
al Pci, che godé per un lungo periodo di autorità di governo
senza condivisione delle responsabilità.
In quegli anni crebbero il ruolo e le spese della “quirinalità
organizzata”. Prima con Sandro Pertini e più ancora con
Francesco Cossiga, un metapotere a-costituzionale, allora
indefinibile e oggi assolutamente palese, andò consolidandosi nel palazzo reale di via XX Settembre.
Non per caso il personale addetto al presidente raggiunse
con Ciampi le 1200 unità (ai tempi della monarchia erano
non più di 300) con fitte provenienze dalla Nomenklatura
sindacale, partitica e con legami familiari intrecciati.
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A partire da Francesco Cossiga la quirinalità organizzata divennne il vertice della Nomenklatura dissipatrice, promanante infine da una silenziosa quanto effettuale rilettura
dell’art.68 dello Statuto albertino di pre-risorgimentale
memoria: ”Il Re nomina e revoca i suoi Ministri". Quel "suoi"
indicava nettamente il carattere iniziale dei ministri "minister" da "minus", come "magister" da "maius"), personalmente servitori del re.
Un potere tuttavia non può reggersi senza una cassaforte
colma di denaro. Il rimedio fu trovato nel giugno 1981,
quando una commissione di studio, presieduta da Paolo Baffi, direttore generale di Bankitalia, deliberò di seguire lo
schema d’un giovanotto, tale Mario Monti, il quale propose
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l’emissione di titoli con aste mensili e quindicinali, in modo
che il rendimento cedolare fosse fissato dal mercato, con
scadenze tra i 5 e i 7 anni. Il avrebbe garantito il mantenimento del potere d'acquisto e, secondo gli esiti delle aste,
anche un piccolo rendimento dell'1-2%. Il Tesoro, concluse
Monti, avrebbe avuto da 5 a 7 anni per programmare e finanziare meglio la spesa pubblica. La proposta passò con
standing ovation. Aumentarono le tasse, la benzina e fecero i
titoli a lungo termine.
Osservate il grafico nella pagina precedente: il deficit non
crebbe, oscillando come in precedenza, ma andò su come un
razzo.
Le spese dello Stato crebbero invece di diminuire. Mario
Monti procurava il credito usuraio che consentiva la follia
politica economica oggi venuta a galla. In quegli anni schizzarono alle stelle le spese sanitarie, utili per procacciare voti. Nel 1983 le regioni sfondarono di 1000 miliardi il finanziamento statale per la sanità, con le spese farmaceutiche
fuori controllo e la gestione allegra dei contratti regionali
per il personale sanitario.
In parallelo s’aggiunse la situazione internazionale. La tensione fra Est e Ovest determinava una sorta di tacita alleanza fra il complesso militare industriale statunitense e quello
sovietico.
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Il generale Dwight Eisenhower, lasciando la Casa Bianca, mise inutilmente in guardia gli statunitensi sugli effetti antidemodratici di quell’alleanza sotterranea, che consentì ai
sovietici di spremere a sangue i satelliti e alla piattaforma
militare industriale statunitense di cavare soldi anche da
rape secche come l’Italia.
Con la legge di riforma della polizia, nel 1981, s’avviò la folle
corsa a moltiplicare gli organici e gli apparati. Oggi la spesa
è oramai fuori controllo anche per le molteplici funzioni decentrate agli enti locali, con uscite annue intorno ai
60miliardi di euro.
Ben prima tuttavia nelle viscere dello Stato era entrato un
verme solitario e voracissimo.
Pci, Cgil, Cisl e Uil, Dc e Psi, Msi, Pli, Psdi e via saccheggiando
pensarono al futuro proprio e dei loro figli, approvando la
legge 252 del 1974, ideata da Gaetano Mosca, sindacalista
Cgil, fedelissimo di Francesco De Martino, segretario generale del Psi tuttavia incline alle sveltine col Pci.
La legge Mosca si prodigava per il futuro dei gerarchi, dei
sindacati, delle cooperative e dei manutengoli pagati in nero, assicurando a due milioni di italiani, con effetti retroattivi pluridecennali, laute e plurime pensioni, anche senza aver
pagato allo Stato una lira di contributi.
Fra i due milioni di beneficiari vi sono quanti oggi sermoneggiano di «sacrifici» ed esecrano il «vivere al di sopra dei
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propri mezzi», come i sindacalisti e il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano. L'erario con la legge Mosca ha
sborsato sinora 600 miliardi di euro.
In compenso, secondo un criterio di equanimità tipico degli
usurai, nel 1982 si cancellarono “per contenere la spesa” le
pensioni di reversibilità alle vedove che guadagnavano ben
600 euro.
La seconda ondata di rapine arrivò negli anni 90’, sommandosi agli effetti speculativi propiziati da Amato, Ciampi e
Prodi, come s’è visto prima.
1993 il Decreto Legislativo n. 29 del 3 febbraio apre la strada alla privatizzazione della PA, per “razionalizzare il costo
del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il
personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza
pubblica”. Parole sante che celavano il grimaldello per concedere
iperstipendi
alle nuove leve della
Nomenklatura,
in
grande parte costituite da figli, nipoti e fidanzate della vecchia.
A costoro, inetti e avidi, si sommarono le alte dirigenze dello
Stato, indispensabili complici per l’ applicazione dei trattati
dell’Unione e per l’adozione dell’Euro, passati in un parlamento distratto e senza alcuna legge costituzionale. Ebbero
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un po’ più dei 30 denari, quei servitori dello Stato che
avrebbero dovuto vigilare sulle nostre ricchezze, invece di
lasciarle rapinare ogni venti anni per sostenere il debito
pubblico statunitense, ma anche per pagare un tributo a
Francia, Gran Bretagna, Germania e fin quando esistette,
all’Unione Sovietica.
Ogni anno gli USA spendono circa 1000miliardi di dollari
per la propria macchina statale.
I 1000miliardi di dollari, realizzati con biglietti da 100 dollari, occupano un campo da rugby, con un’altezza di 4 metri.
Il debito pubblico statunitense (US Unfounded Liabilities),
oggi 121mila miliardi di dollari, è una colonna di 480 metri,
quasi 2 volte i più celebri grattacieli di Manathan, costruita
con otto mucchi da 15mila miliardi.
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Questo è il mostro da alimentare con le rapine cicliche, circa
ogni venti anni.
Non a caso le crisi economiche avvengono ogni vent’anni.
Con un’aspettativa di vita di 70 anni, un intervallo di venti
anni fra una rapina e l’altra assicura che una generazione se
n’è andata o è rincitrullita, una non può ricordare nulla
perché troppo giovane; rimangono solo quelli fra 40 e 60
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anni con qualche vaga memoria.
Oggi, l’informazione cristallizzata da internet e il prolungarsi della vita danno maggiore consapevolezza, non ancora
abbastanza tuttavia.
Nel 1956, la crisi di Suez marcò il primo salasso alla pompa
di benzina.
Nel 1973, per innescare la crisi petrolifera e poi imporci
l'austerity, scatenarono il terrorismo palestinese e poi la
guerra dello Yom Kippur.
Fra la gli anni '70 e il decennio successivo, la tensione era
così alta ovunque nel mondo (ricordiamo le parole di Eisenhower) che la guerra non era neppure necessaria per tenere
alto il costo delle materie prime e incessante la spinta inflattiva.
Nel 1991 la tosata iniziò con la guerra al terrorismo e in
Iraq, oltre che coi Balcani infiammati ad arte.
Dopo venti ulteriori anni, l'aggressione alla Libia certifica
che la manipolazione delle informazioni è base delle macellerie umanitarie affastellatesi negli ultimi decenni.
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Come le mucche dei Masai
ei tempi passati, lo Stato, col suo monopolio del-
N
la violenza, era al di sopra del potere finanziario. La delinquenza organizzata, direttamente
connessa coi circuiti finanziari internazionali,
costituendone il braccio armato, viveva in un
area trascolorante fra la legalità di facciata e l’illegalità totale. Con l’ingresso del potere finanziario direttamente sugli
scranni governativi, la criminalità organizzata è divenuta
superflua potendo utilizzare direttamente i centri di forza
statali e parastatli. La tecnologia consente inoltre a entità
non statali e circoli elitari di governare le variazioni istantanee degli scambi commerciali ad altissima frequenza, destabilizzando qualunque paese, con algoritmi e computer raffinatissimi.
Chiunque abbia soldi pertanto dispone di tecnologia finanziaria incontrollabile dagli stati, di reggimenti di contractors, ciurme di pirati e bande di terroristi, nonché della sottomissione del parapotere politico, colmo di collaborazionisti genuflessi.
Non l’informazione è il maggiore strumento di costoro ma la
disinformazione. Per tutto valga un esempio. Il debito pubblico dell’Italia è un infinitesimo di quello statunitense, ma è
un ottimo pretesto per dissanguarci ulteriormente, affinché
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Washington, Parigi, Londra e Berlino possano vivere al sopra dei loro mezzi reali.
In questo sistema, come alle mucche dei Masai, all’Italia incidono ogni tanto le vene del collo, raccolgono il sangue nella zucca e lo porgono ai padroni che lasciano qualcosa sul
fondo da leccare. Negli anni '50 gli Usa bevevano moderatamente e per primi; oggi Berlino e Parigi hanno il primato
e sono voraci, ultima la Clinton che freme dopo gli abili inglesi.
Che cosa lasciano sul fondo i padroni? 30miliardi di euro
mensili.
Se a ognuno dei 30milioni di lavoratori italiani dovessero
andare 500 euro di aumento – che per molte famiglie sarebbero una manna e l’economia ripartirebbe – occorrerebbero
15 miliardi di euro ogni mese.
I tre milioni di servi degli usurai trovano ovviamente più
conveniente assicurare a se stessi mediamente 10mila euro.
Così al modico costo di 30miliardi di euro mensili garantiscono la loro fedeltà ai malfattori internazionali e
l’esecutività degli ordini che discendono dai vertici del malaffare bancario.
Il tasso di interesse è così mantenuto artificiosamente elevato, perché gli operatori sanno che i collaborazionisti al governo non difenderanno l’Italia. Un alto tasso di interessi
giustifica tutte le scelleratezze, fa crescere il debito e, al mo-
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do degli usurai, le banche internazionali possono imporci
qualunque infamia, persino guerre ed espropri.
Il sistema difeso con bombe, terrore rossonero, guerre e
agenzie di rating perseguita e uccide chiunque tenti di scalfirlo o svelarlo, come Enrico Mattei, Aldo Moro, Giovanni
Leone, Luigi Calabresi… Questa è l’Italia, oggi.
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