Prima lettera di Plinio il Giovane a Tacito
Plinio il Giovane era ospite nella casa di suo zio Plinio il Vecchio, storico scienziato e uomo dal sapere enciclopedico, che era il comandante della base navale di Miseno. In seguito un altro grande scrittore di storia,Tacito, chiese a Plinio il Giovane di fargli sapere quello che era successo.
Mio zio si trovava a Miseno dove comandava la flotta. Il 24 agosto, nel primo pomeriggio, mia madre attirò la sua attenzione su una nube di straordinaria forma e grandezza.
Egli aveva fatto il bagno di sole, poi quello d'acqua fredda, si era fatto servire una colazione a letto e in quel momento stava studiando. Fattesi portare le scarpe si recò su un luogo elevato da dove si poteva benissimo contemplare il fenomeno.
Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da non poter essere paragonata a nessun albero meglio che a un pino. Infatti, drizzandosi come su un tronco altissimo, si allargava poi in una specie di ramificazione; e questo perché, suppongo io, sollevata dal vento proprio nel tempo in cui essa si formava, poi, al cedere del vento, abbandonata a sé o vinta dal suo stesso peso, si diffondeva ampiamente per l'aria dissolvendosi a poco a poco, ora candida, ora sordida e macchiata, secondo che portasse con sé terra o cenere. A mio zio, che era uomo dottissimo, tutto ciò parve un fenomeno importante e degno di essere osservato più da vicino, per cui ordinò che si preparasse una liburnica offrendomi se volevo, di andare con lui. Risposi che preferivo studiare: era stato lui stesso, infatti, ad assegnarmi qualcosa da scrivere. Mentre usciva di casa gli venne consegnato un biglietto di Retina, moglie di Casco, la quale, spaventata dall'emminente pericolo (perché la sua villa stava in basso e ormai non v'era altra via di scampo che montare su una nave), lo supplicava di liberarla da una situazione così tremenda. Mio zio allora modificò il suo piano e compì con eroico coraggio quel che si era accinto a fare per ragioni di studio. Diede ordine di mettere in mare le quadriremi e vi salì egli stesso con l'intenzione di correre in aiuto non solo di Retina, ma di molti altri, perchè quell'amenissima costa era fittamente popolata. In gran fretta si diresse là, da dove gli altri fuggivano, navigando diritto tenendo il timone verso il luogo del pericolo con animo così impavido da dettare o annotare egli stesso ogni nuova fase e ogni aspetto di quel terribile flagello, come gli si veniva presentando allo sguardo. Già la cenere cadeva sulle navi tanto più calda e fitta quanto più esse si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e frantumate dal fuoco; poi improvvisamente si trovarono in acque basse e il lido per i massi rotolati giù dal monte era divenuto inaccessibile. Egli rimase un momento incerto se dovesse tornare indietro. Poi, al pilota che lo consigliava, disse:"La fortuna aiuta gli audaci; drizza la prora verso la villa di Pomponiano a Stabiae!". Questa località era sull'altra parte del golfo (perché la costa, girando e incurvandosi gradatamente, forma un'insenatura che il mare invade con le sue acque). Ivi, quando il pericolo non era ancora imminente, ma era stato veduto e, crescendo, s'era fatto più vicino, Pomponiano aveva imbarcato i suoi bagagli, deciso a fuggire nel caso il vento contrario si quietasse. Il vento favoriva in sommo grado la navigazione di mio zio, il quale, appena giunto, abbraccia l'amico tremante, lo conforta, lo incoraggia e, per calmare l'agitazione con l'esempio della propria tranquillità d'animo, si fa portare nel bagno; dopo essersi lavato, si mette a tavola e pranza tranquillamente o, cosa egualmente grande, in aspetto di persona serena.
Intanto su più parti del Vesuvio risplendevano larghe strisce di fuoco e alti incendi, il cui bagliore e la cui luce venivano aumentati dall'oscurità della notte. Lo zio, per liberare gli animi dalla paura, andava dicendo che quelli che ardevano erano fuochi lasciati accesi dai contadini nella loro fuga precipitosa, e ville abbandonate che bruciavano nella solitudine. Poi si mise a dormire, e dormì veramente poiché la respirazione, molto grave e sonora per la grossezza del corpo, era udita da tutti coloro che passavano davanti alla porta della sua camera. Ma il piano del cortile, a causa della grande quantità di cenere mista a pietre pomici da cui era stato riempito, si era talmente innalzato che lo zio, se fosse rimasto più a lungo nella camera da letto, non avrebbe potuto uscirne. Svegliato venne fuori e si unì a Pomponiano e agli altri che avevano trascorso tutta la notte senza chiudere occhio. Si consultarono se dovessero rimanere in casa o tentare di uscire all'aperto: infatti per frequenti e lunghi terremoti la casa traballava e dava l'impressione di oscillare in un senso o nell'altro come squassata dalle fondamenta. Stando però all'aperto v'era da temere la caduta delle pietre pomici, anche se queste sono leggere e porose. Alla fine confrontati i pericoli, fu scelto quest'ultimo partito. Prevalse in mio zio la più ragionevole delle due soluzioni, negli altri invece il più forte dei timori. Si misero dei cuscini sul capo e li legarono con fazzoletti: e questo servì loro per protezione contro le pietre che cadevano dall'alto. Mentre altrove faceva giorno, colà era notte, più oscura e più fitta di tutte le altre notti, sebbene fosse rischiarata da fiamme e bagliori. Fu deciso di recarsi alla spiaggia per vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma il mare era ancora pericoloso perché agitato dalla tempesta. Allora fu steso un lenzuolo per terra e mio zio vi si adagiò sopra, poi chiese più volte acqua fresca da bere. In seguito le fiamme e un odor di zolfo annunciatore del fuoco costrinse agli altri di fuggire e a lui di alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due schiavi, ma ricadde presto a terra. Secondo me, l'aria troppo impregnata di cenere deve avergli impedito il respiro ostruendogli la gola, che per natura era debole, angusta e soggetta a frequenti infiammazioni. Quando il giorno dopo tornò a risplendere (era il terzo da quello che egli aveva visto per l'ultima volta), il suo corpo fu trovato intatto, illeso, coperto dalle medesime vesti che aveva indosso al momento della partenza; l'aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d'un morto.
Versione tradotta dal latino di Plinio Caio Gracco
LA STORIA
La storia di Pompei inizia verso la fine del II millennio a. C., quando le popolazioni italiche della Campania centro-meridionale, gli Opici, occuparono l'estremità di un'antichissima colata lavica che, dalle pendici meridionali del Vesuvio, si protendeva verso il mare. Questo pianoro dalle pareti scoscese, circondato su due lati dal fiume Sarno e situato vicino alla costa, si presentava ai suoi primi abitanti come un luogo ottimale per l'insediamento: poteva essere facilmente difeso, l'acqua non mancava e l'attività preistorica del vulcano aveva reso fertili le terre circostanti. Inoltre dal pianoro di Pompei si dominava quasi tutta la costa del Golfo di Napoli e si poteva controllare la foce del fiume, punto di arrivo al mare delle vie e dei traffici provenienti dalla pianura interna.
Di questo primo abitato non sappiamo praticamente nulla, poiché gli strati più antichi sotto le case della città romana non sono stati quasi mai raggiunti dalle ricerche archeologiche. Tutto quello che ci rimane è un nucleo di frammenti ceramici raccolti in vari punti della città. Molto tempo dopo, nel VI secolo a. C., avvenne la prima grande trasformazione dell'antico abitato. Tutto il pianoro venne cinto da un muro di fortificazione e furono costruiti per la prima volta i templi più antichi della città: il tempio di Apollo e il tempio dorico. Nonostante sia stata accertata già in quest'epoca la presenza di imponenti edifici pubblici, ampie porzioni dello spazio racchiuso dalle mura non furono edificate e probabilmente utilizzate per l'agricoltura o per l'allevamento. L'approdo presso la foce del fiume aveva intanto favorito la nascita di un mercato, dove si concentrarono le attività commerciali tra le genti italiche e le popolazioni greche ed etrusche della regione. Alla fine del V secolo a. C. Cuma e Capua, le due "capitali" della Campania, furono conquistate dai Sanniti, un popolo italico che proveniva dalle zone interne dell'appennino abruzzese e molisano, attirato dalle fertili terre vicine alla costa. L'ondata degli invasori investì probabilmente anche il piccolo centro di Pompei, ma la struttura dell'abitato restò sostanzialmente immutata. L'ultima fase della storia della città inizia con il II secolo a C., quando Roma concluse felicemente la seconda guerra contro Cartagine e consolidò il suo potere sulle città campane. Pompei si abbellì con edifici, sia pubblici sia privati, simili a quelli che si trovavano nelle città latine e a Roma stessa. Nell'80 a. C. il dittatore romano Silla conquistò militarmente Pompei dopo un lungo assedio e vi fondò una colonia. Da questo momento in poi i magistrati sannitici (meddices) vennero soppressi e la città fu retta da un senato di circa 100 membri (ordo) da due edili (magistrati addetti alla manutenzione dei monumenti e delle strade della città) e da due duoviri (i sommi magistrati a cui era affidato il potere esecutivo). Nel 62 d. C. un disastroso terremoto si abbatté sulle città del Golfo di Napoli danneggiando gravemente anche Pompei. Nerone, allora imperatore, si impegnò personalmente nella ricostruzione delle città colpite dal sisma. Si trattava però dell'inizio della fine. Alla prima grande scossa ne seguirono altre di minore entità, ma con frequenza sempre più intensa. Molte case ed edifici pubblici erano ancora in riparazione la fatidica notte del 24 Agosto 79.
ORIGINI E STORIA
Pompei ha origini antiche quanto quelle di Roma: infatti la «gens pompeia» proveniente dagli Oschi, uno dei primi popoli italici, nell’VIII secolo a.C., fondò e diede il nome al primo aggregato urbano. Luogo di passaggio obbligato tra il nord ed il sud, tra il mare e le interne ricche vallate, ben presto Pompei diventa importante nodo viario e portuale e, pertanto, ambita preda per i potenti stati confinanti. Primo a sottomettere Pompei è lo Stato greco di Cuma. A questo, solo per il periodo tra il 525 e il 474 a.C., viene sottratta dagli Etruschi in piena espansione. Sul finire del quinto secolo è conquistata dai Sanniti che dalla zona appenninica di Isernia dilagano prepotentemente verso il mare Tirreno. Nel 310 a.C. anche i Sanniti vengono sconfitti dai romani e, Pompei, è consociata al nuovo Stato. Ribellatasi con la Lega Italica nell’89 a.C., viene espugnata da Silla, e pur salvandosi dalla distruzione, perde ogni residua autonomia divenendo «Colonia Veneria Cornelia P.» in onore del conquistatore. In questi seicento anni ogni popolo invasore trapianta i propri costumi e la propria arte a Pompei, soprattutto i Sanniti di cui restano, dopo quattro secoli di progressiva romanizzazione, impronte rilevanti nelle costruzioni e nell’arte.
LA PRIMA TRAGEDIA E LA FINE
Nonostante tante travolgenti vicissitudini politiche, Pompei continuò incessantemente il suo sviluppo da modesto centro agricolo a importante nodo industriale e commerciale. La prima vera grande sciagura sopravviene con il terribile terremoto del 62 d.C., che riduce la città a un cumulo di macerie. Solo l’indomita tenacia e la capacità dei cittadini superstiti riescono ben presto a riattivare le attività industriali, commerciali ed a ricostruire la città semidistrutta. Già stanno provvedendo ad ultimare e ad ampliare i templi quando improvvisa sopraggiunge la seconda e irreparabile sciagura: il Vesuvio, da secoli considerato un vulcano spento e quindi ricco di vigneti e di ville rustiche e di residenze sontuose, il 24 agosto (per i naturalisti il 24 novembre) del 79 d.C., poco dopo mezzogiorno, si ridesta improvviso ed esplode con una potenza inesorabilmente distruttrice. Plinio il Giovane, da Miseno, è testimone dello spaventoso spettacolo «il cui aspetto e forma nessun albero può rappresentare meglio di un pino»; ne dà una descrizione impressionante scrivendo anche le vicissitudini e la fine tragica dello zio (Plinio il Vecchio) che, trascinato dalla passione scientifica, accorre con una nave ad osservare da vicino lo spaventoso fenomeno e muore per soccorrere e rincuorare l’amico Pomponiano. Rapidamente sulle fiamme che salgono altissime si distende una immensa e nera nuvola che oscura il sole. Un diluvio di lapilli e scorie incandescenti si riversa su Pompei. Crollano mura e tetti e poi un’ondata di cenere mista ad acqua, cancella ogni forma di vita. Nel buio continuo la scena apocalittica è esaltata dai fulmini, terremoti e maremoti; i pochi superstiti che cercano scampo verso Stabia e Nocera vengono raggiunti e uccisi dai gas velenosi che si propagano ovunque. Questo inferno dura tre giorni e poi tutto è silenzio. Una coltre di morte, con cinque o sei metri di spessore, si stende da Ercolano a Stabia.
POMPEI
La fondazione di Pompei allo sbocco marittimo della valle del Sarno, sul finire del VII secolo a.C. o al principio del secolo successivo, segnò il destino stesso di questo piccolo centro che fu osco, poi etrusco, sannita e infine romano, sino alla famosa eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. La strategica ubicazione non lontano dal mare e dall'estuario del fiume omonimo, tra la valle del Sarno e le vie di percorrenza che da Nola e Nocera ne rendevano possibile l'accesso, rappresentarono fattori determinanti per il suo sviluppo culturale e commerciale. Priva di una vera e propria insenatura portuale, molto probabilmente sfruttò a tale scopo la foce stessa del fiume, tanto che la città fu egualmente considerata dalle fonti storiche (Strabone, Geografia, 5, 27) come epineion, ossia scalo marittimo, di Nola, Nocera e Acerra.
Tuttavia per Pompei, al pari di altri centri della Campania antica, la questione che maggiormente sollecitò gli studiosi alla riflessione storica fu quella inerente alle origini della città, sulla quale numerosi archeologi avevano sin dagli anni Cinquanta proficuamente dibattuto. L'origine etrusca fondava i propri argomenti sulla presenza di un piano regolatore ritualmente applicato, di abitazioni domestiche simile nella struttura a quelle di Marzabotto dotate di atrio cosiddetto "tuscanico", della colonna etrusca inglobata in una casa della Regio VI, individuata da Amedeo Maiuri. Per contro, la presenza di un tempio in stile dorico nella zona del cosiddetto Foro Triangolare della città deponeva a favore dell'origine greca. Le indagini in seguito condotte alla cinta muraria alle soglie degli anni Trenta permisero di riconoscere, nei pressi di Porta Ercolano e di Porta Vesuvio, lunghi tratti di mura del periodo sannitico, mentre alcuni segmenti edificati in tecnica diversa, datate dallo studioso alla metà del V secolo circa, confortavano almeno l'ipotesi dell'influenza greca.
I saggi di scavo compiuti presso il Tempio di Apollo permisero di recuperare una serie di frammenti di ceramica di bucchero inscritti, assicurando così che a Pompei già dal VI secolo a.C. vivevano individui che parlavano etrusco i quali frequentavano il tempio cittadino. Le esplorazioni effettuate fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta anticiparono le indagini condotte su larga scala in altri centri della Campania preromana, anche nel comprensorio sarnese, le quali donarono consistenza all' ipotesi dell'espansione etrusca in questa regione riflettendosi anche sulle interpretazioni relative alla genesi di Pompei. La distribuzione di questi insediamenti sembrava da porsi in chiaro rapporto con l'esistenza delle colonie greche con la loro enclave culturale e commerciale, che molto probabilmente i centri etruschi, in accordo con le popolazioni indigene, potevano contribuire a contenere a sud del Golfo di Napoli. Al volgere degli anni Settanta ulteriori scavi vennero avviati proprio nella Regio VI, piuttosto lontana dal Foro Triangolare con i suoi presupposti di grecità, elevata circa una quarantina di metri sul livello del mare, pienamente implicata nella questione etrusca in ragione dell'esistenza della "casa etrusca".
Ne emerse che in epoca arcaica (fine VII-fine VI secolo a.C.) in quest'area della città doveva essere stata impiantata una faggeta, dato suggerito dalla notevolissima occorrenza di frammenti lignei di grandi dimensioni. Quanto alla colonna etrusca, segnalata nel 1901 e curiosamente murata nella parete di una abitazione peraltro piuttosto modesta, le indagini dell'Università di Milano stabilirono che essa non poteva essere posteriore alla metà del V secolo a.C. E quindi largamente veri simile che una presenza etrusca a Pompei sia da ipotizzare già in orizzonti abbastanza antichi, mentre ad epoca storica sembra doversi riferire una stanzialità etrusca in termini di maggiore organizzazione, proprio in concomitanza con l'espansione greca lungo le coste campane. E’ dunque possibile che già al volgere del VII secolo a.C. gli Etruschi avessero inteso rafforzare la loro mobilità commerciale verso il meridione con la creazione di scali marittimi o situati nell'entroterra costiero. Il favore accordato dalle popolazioni indigene, in tale quadro, deve probabilmente leggersi in funzione dell'affermazione di comuni interessi territoriali. Un insediamento etrusco-indigeno doveva pertanto esistere a Pompei almeno in una zona della città, fortificata forse a partire dal principio del VI secolo a.C., con piccole pezzature destinate alle abitazioni vere e proprie e spazi liberi alla coltivazione; fra le mura stesse e la zona occupata dall'abitato gli Etruschi avrebbero coltivato una faggeta (Insula V della Regio VI), proprio laddove sorgeva la colonna la quale era forse da conside- rarsi un elemento votivo. Nella compagine etnica e sociale pompeiana, gli Etruschi, già insediatisi almeno dalla fine del VII secolo a.C. ma la cui presenza ben si avverte nella prima metà del VI secolo a.C. (in quella stessa epoca si collocano i frammenti di bucchero e di ceramica di impasto ritrovati), dovettero presto divenire l'elemento prevalente. Allo stesso momento può riferirsi anche la costruzione delle mura in pappamonte o tufoide tenero.
Su questo più antico anello di mura insistette successivamente un secon- do circuito muraneo in calcare del Sarno. La cronologia restituita dalla prima cortina di blocchi testimonierebbe che già in epoca arcaica una fortificazione proteggeva il tessuto urbano infoltitosi grazie al fenomeno dell'inurbamento dai piccoli centri dell'area sarnese e probabilmente ancora costituito anche da fattorie. Alla prima e alla seconda fortificazione ne succedette una terza - una doppia cortina per la quale si fece ricorso al calcare e al tufo, rispettivamente per il paramento esterno e per quello interno - che il celebre archeologo campano Amedeo Maiuri volle attribuire alla fase sannitica della città (IV secolo a.C.). La cinta muranea della prima metà del VI secolo a.C. doveva per allora racchiudere uno spazio razionalmente suddiviso pari a una sessantina di ettari, dei quali solo l'area destinata a ospitare le future Regiones VII e VIII accolse l'insediamento vero e proprio con i suoi tracciati stradali. All'incrocio di due importanti assi viari venne eretto il tempio di Apollo, che fu di Pompei il santuario più importante.
Pompei andò quindi configurando il proprio profilo di emporio marittimo a cultura mista, nel quale l'elemento etrusco, assai ben organizzato, si insediò al pari delle non lontane NoIa e Nocera, sovrapponendosi all'originaria compagine osca della valle del Sarno che l'abitava sin dall'VIII secolo a.C., nel più ampio prospetto della presenza etrusca in Campania che conservò soprattutto sino alla battaglia di Cuma del 474 a.C. quei caratteri pregnanti che la tradizione letteraria definì con il nome di "talassocrazia".
LA CITTA'
IL RISVEGLIO DOPO DICIANNOVE SECOLI
Il Vesuvio rimarrà desto per secoli e secoli sino ai giorni nostri; le altre città saranno ricostruite più o meno nello stesso posto, ma Pompei non risorge più quasi per duemila anni. La gente teme il terribile sortilegio incombente sul luogo. Sciacalli e cercatori di tesori trafugano per quanto possibile i resti ancora affioranti, poi Pompei viene dimenticata e se ne perde ogni traccia. Mille-seicento anni passano prima che se ne incontrino le prima vestigia e altri centocinquanta anni perché si abbia la sensazione della scoperta della città. Iniziano così gli scavi sotto i Borboni, ma solo per depredare la città delle opere più interessanti, opere che ben presto formano il grande Museo Nazionale di Napoli. Ai primi dell’Ottocento, scavi ancora affrettati mettono in luce il Foro riducendolo a poco più di un cumulo di rovine. L’eccezionale stato di conservazione viene in parte recuperato con Giuseppe Fiorelli nel 1860. Questi dà inizio a scavi sistematici e accorti ed è il primo a rilevare le impronte colando il gesso nello spazio lasciato dalle sostanze organiche dissoltesi nel lapillo compatto; con questo sistema riprendono forma i corpi degli uomini e degli animali, di piante, di oggetti polverizzatisi millenovecento anni fa. Nei decenni che seguono, l’opera di restauro e di ripristino raggiunge livelli eccezionali e sin dal 1909, con Vittorio Spinazzola, gli edifici sono ripristinati dal tetto alle fondamenta ed ogni cosa, salvatasi per tanti secoli sotto il lapillo, ritorna alla luce. Questo tipo di scavo sempre più perfetto prosegue nella città ancora non scoperta (circa il 25%) e così Pompei, in questi ultimi anni, sembra risorgere miracolosamente, quasi si ridestasse dopo un sonno di diciannove secoli, dove ai vecchi abitanti operosi e appassionati ci siamo sostituiti noi frettolosi visitatori.
LA CITTÀ
Pompei nasce sull’estremità di un’antica colata lavica alta 40 metri, sul mare e sulla foce del fiume Sarno allora molto più vicini alla città. Il primo centro, prevalentemente agricolo, corrisponde all’attuale zona intorno al Foro. Il rinnovamento e l’espansione ha inizio ben presto per mano dei Greci (e per breve periodo anche degli Etruschi) che iniziano un nuovo Foro, cioè il Foro triangolare, e continuano più o meno ordinatamente il tracciato viario. La massima espansione è raggiunta con i Sanniti sì che, all’intervento dei Romani, le poderose mura hanno già il loro definitivo sviluppo di tre chilometri limitanti un centro urbano di 66 ettari. Pompei sannitica alla fine del quarto secolo è già una città considerevole, superiore alle altre vicine ed all’ancor modesta Neapolis; è un centro destinato a superare Cuma, ma l’ingresso nella sfera politica romana rallenta ogni ulteriore espansione. Infatti nei 350 anni che seguono il tessuto urbanistico non viene alterato e il continuo rinnovamento s’innesta perfettamente nella città sannitica. L’intervento di Roma imperiale si accentra sui lavori di sistemazione e aggiornamento: vengono creati alti marciapiedi (con passaggi su grosse pietre sporgenti poiché le strade sono prive di fogne); il traffico viene regolato da una razionale disciplina che determina zone riservate ai soli pedoni (esempio: il Foro) e zone con accessi controllati (esempio: l’Anfiteatro); i bagni pubblici (Terme) sono incrementati e dislocati sui tre nodi di maggior richiesta; i centri cittadini sono integrati e potenziati per tre distinte funzioni sociali. La città sin dai tempi dei Sanniti era divisa in nove zone da due arterie longitudinali (decumani) e due arterie trasversali (cardini); ogni zona o regione corrispondeva all’incirca ad un quartiere con proprie feste rionali, programmi elettorali e caratteristiche economiche e commerciali.
Presso le porte cittadine e attorno al Foro sorgevano alberghi («Hospitia») e rimesse per gli animali («stabula»); sulle vie principali abbondavano osterie («cauponae») e gli antenati dei bar («thermopolia»). Ogni edificio aveva la propria cisterna alimentata dai tetti a compluvio, Roma costruì una deviazione dell’acquedotto augusteo del Senno e l’acqua venne distribuita alle terme, alle fontane pubbliche e alle abitazioni più ricche. Poche erano le fognature e quasi tutte serventi le latrine pubbliche; le abitazioni si servivano di singoli pozzi assorbenti. Pompei aveva circa 20.000 abitanti tra numerosi mercanti, liberti e schiavi, (di origine campana, greca e asiatica) e meno numerose famiglie patrizie (di origine sannitica o di immigrazione romana). Il ceto mercantile andava dilagando sempre più nella città a tal punto che le vecchie residenze si stringevano o scomparivano del tutto invase da nuovi negozi e industrie; come pure i nuovi arricchiti adattavano a ricche residenze le severe case sannitiche, spesso unendo anche due o tre vecchi alloggi. Negli ultimi anni, con la "pace augustea" e il decadimento di ogni necessità difensiva, le costruzioni iniziano ad invadere e a scavalcare le possenti mura. Pompei era governata da due reggenti («duoviri») in carica per cinque anni. Collaboratori erano i due «aediles» (preposti all’igiene, ai pubblici spettacoli, al mercato ed al vettovagliamento della città) e il consiglio supremo («ordo decurionum») formato da cento pompeiani eletti per meriti speciali.
Tutte le notizie interessanti la vita cittadina come elezioni, spettacoli e annunci economici, venivano reclamizzate da apposite scritte e disegni eseguiti da esperti «scriptores» sulle pareti di tutti gli edifici. Ben più numerose troviamo le scritte graffite sui muri; questi ultimi appaiono come un interminabile quaderno d’appunti dove tutti scrivono: bottegai; innamorati; studenti; tifosi sportivi; turisti di quei tempi; ed anche lenoni e lestofanti. E una marea di rapidi appunti con i quali centinaia di creature sembrano ancora parlare con noi di comuni problemi di vita quotidiana in una lingua di duemila anni fa.
LA CASA IDEALE
Pompei offre ancora un tesoro eccezionale per la storia dell’umanità: la casa. Infatti troviamo un’antologia ricchissima e preziosissima della «domus», cioè della casa unifamiliare, che va dal IV secolo a.C. al I secolo d.C. Lo schema base è fissato dai Sanniti evidentemente quale prodotto di lunghe esperienze precedenti. La «domus italica» viene ad avere una corona di servizi attorno ad un asse generato da spazi rigidamente calibrati e concatenati tra toro. Pertanto i locali necessari per le esigenze prevalentemente fisiche, come camere, servizi igienici, servizi di cucina, pranzo, ecc., si snodano ai lati della serie di spazi destinati allo sviluppo della vita culturale e sociale della famiglia. Questi spazi si sviluppano quasi totalmente al coperto («atrium») o quasi totalmente allo scoperto («peristilium»); tra l’atrio e il peristilio s’inserisce l’ambiente più sacro alla famiglia: il «Tablinum». Ogni locale attorno prende aria e luce solo dai due grandi spazi centrali, raramente dall’esterno. Lo schema è tanto valido che i Romani non lo variano per centinaia di anni. Il loro intervento si limita a decorare fastosamente e ad ampliare la domus con nuovi servizi. L’atrio spesso è arricchito da quattro colonne (atrio tetrastilo o corinzio); il giardino all’aperto si adorna di fontane, statue, ninfei. Si aggiungono: locali di riposo e belvedere («exedrae, diaetae»); quartieri riservati alle donne («gynaeceum»), alla servitù; bagni completi come terme private («balneum»); dilagano sopraelevazioni per guadagnare camere e servizi.
TECNICA ED ARTE
Gli stili architettonici impiegati negli edifici sono quelli classici, individuabili per i caratteristici capitelli: dorico (a forma anulare senza decorazioni); ionico (decorato e con grandi volute agli angoli); corinzio (decorato da alte foglie di acanto); composito (fusione del corinzio con lo ionico) che nelle costruzioni pompeiane assumono anche caratteristiche proprie radicate soprattutto nella tradizione sannitica. I tipi costruttivi pure si distinguono nettamente nelle varie epoche denunciando così le date d’inizio e degli ampliamenti o dei rifacimenti di ogni edificio. La prima (IV-III secolo a.C.) e la seconda epoca sannitica (200-80 a.C.) passano dall’opera quadrata e incerta alle costruzioni con blocchi di tufo. Il primo periodo romano (80 a.C.-14 d.C.) realizza costruzioni con pietre irregolari e blocchetti quadrati messi a reticolato diagonale. Il secondo e ultimo periodo romano (14 d.C.-79 d.C.) introduce l’uso del mattone. Gli stili pompeiani per la pittura e la decorazione delle pareti sono il capitolo più interessante della manifestazione artistica di Pompei e sono stati distinti in quattro stili. Primo stile, detto a incrostazione o strutturale, (150-80 a.C.) perché si caratterizza con riquadri e bugne imitanti il rivestimento di marmi colorati (v. Casa di Sallustio, del Fauno). Secondo stile detto architettonico (80 a.C.-14 d.C. circa), perché ha grandi riquadri con composizioni figurate alternate a prospettive architettoniche realistiche (v. Casa di Obelio Firmo, del Labirinto, delle Nozze d’Argento, della Villa dei Misteri). Terzo stile detto egittizzante o ornamentale (inizio circa 14 d. C.) perché vi predomina il gusto decorativo eseguito con perfetta cura dei dettagli e con straordinaria finezza dell’esecuzione e del colore (v. Casa di Lucrezio Frontone, Cecilio Giocondo). Quarto stile detto fantastico (inizio circa 62 d.C.) poiché gli schemi, le architetture e le prospettive diventano del tutto irreali e cariche di elementi ornamentali (v. Casa dei Vettii, degli Amanti, del Menandro, di Loreio Tiburtino).
Eruzione di Pompei del 79 d. C.
Storia eruttiva del Vesuvio
Pompei il 24 agosto del 79 d. C.
L'eruzione del 79 d.C è senza dubbio la più nota eruzione del Vesuvio e forse la più nota eruzione vulcanica della storia. Questa è stata descritta da Plinio il Giovane in due famose lettere a Tacito, che costituiscono dei preziosi documenti per la vulcanologia (vedi le "Testimonianze storiche"). Nelle lettere egli racconta della morte dello zio, Plinio il Vecchio, partito da Miseno con una nave per portare soccorso ad alcuni amici. Da qui la denominazione di eruzione pliniana per questo tipo di fenomeno particolarmente violento e distruttivo.
In epoca romana, all'inizio del primo millennio, il Vesuvio non era considerato un vulcano attivo e alle sue pendici sorgevano alcune fiorenti città, che si erano sviluppate grazie alla bellezza e alla fertilità dei luoghi. Nel 62 d.C. l'area vesuviana fu colpita da un forte terremoto, che provocò il crollo di molti edifici e produsse danni anche a Nocera e a Napoli. All'epoca non fu ipotizzata alcuna relazione tra il terremoto e la natura vulcanica dell'area.
Il 24 agosto dell'anno 79 d.C. il Vesuvio rientrò in attività dopo un periodo di quiete durato probabilmente circa otto secoli, riversando sulle aree circostanti, in poco più di trenta ore, circa 4 Km3 di magma sotto forma di pomici e cenere.
L'eruzione ebbe inizio intorno all'una del pomeriggio del 24 agosto con l'apertura del condotto a seguito di una serie di esplosioni derivanti dall'immediata volatizzazione dell'acqua della falda superficiale venuta a contatto con il magma in risalita. Successivamente una colonna di gas, ceneri, pomici e frammenti litici si sollevò per circa 15 km al di sopra del vulcano.
Questa fase dell'eruzione si protrasse fino all'incirca alle otto del mattino successivo, e fu accompagnata da frequenti terremoti. Approfittando nella notte di una apparente pausa nell'attività eruttiva, molte persone fecero ritorno alle case che erano state lasciate incustodite. Ma furono sorprese nella mattinata dalla ripresa dell'attività durante la quale si verificò il collasso completo della colonna eruttiva, che determinò la formazione di flussi piroclastici che causarono la distruzione totale dell'area di Ercolano, Pompei e Stabia.
Nella parte terminale dell'eruzione, avvenuta probabilmente nella tarda mattinata del 25 agosto, continuarono a formarsi flussi piroclastici i cui depositi seppellirono definitivamente le città circostanti, mentre una densa nube di cenere si disperdeva nell'atmosfera fino a raggiungere Capo Miseno.
LA STORIA DI POMPEI
LE POPOLAZIONI INDIGENE
Sappiamo dell'esistenza di parecchi insediamenti nella valle del Sarno, per la presenza di considerevoli necropoli. La popolazione indigena così documentata apparteneva alla cosiddetta "cultura costiera delle Tombe a fossa": inumatori di morti non cremati in fosse scavate nella terra. Si tratta degli Opici o Osci della tradizione letteraria greca e latina, distinti dagli "inceneratori" le cui urne biconiche, contenenti le ceneri dei defunti, sono diffuse nell'area di Capua, di Nola e nel Salernitano.
GRECI ED ETRUSCHI
La campania e la sua terra fertile erano un'attraente meta anche per altre popolazioni, giunte per terra e per mare in cerca di terreni coltivabili: come gli Etruschi, che forse nell'801 a. C. fondarono Capua e i Greci dell'Eubea, spinti a emigrare da sovrappopolamento e carestie, e in cerca di ferro, che fondarono molte colonie nella zona.Pompei, tappa obbligatoria, col suo scalo alla foce del Sarno, sulla rotta verso l'interno, risentì dell'insediamento di Greci ed Etruschi nelle immediate vicinanze sia culturalmente sia economicamente, infatti il conglomerato urbano formatosi nel VI secolo a. C. accoglieva culti religiosi di divinità prettamente greche. Quanto al dominio politico, all'epoca l'espansionismo greco appare ormai esaurito, e preponderante sembra ormai quello degli Etruschi; anche questo, tuttavia, dovette subire un duro colpo con le sconfitte infertegli dai Greci di Cuma e dai loro alleati siracusani nel 525 e 474 a. C. Ne approfittarono i Sanniti, scesi dalle montagne appenniniche sotto la pressione di tribù sabelliche dell'interno, che si impossessarono di tutto quanto l'agro campano nel corso del V secolo a. C., con l'eccezione della sola città di Neapolis che rimarrà greca fin nell'epoca imperiale.
IL PERIODO SANNITICO
All'invasione dei Sanniti si ascrive generalmente l'espansione della Pompei arcaica. Ma ora ripercorriamo le tappe principali di questa fase. Una volta urbanizzati, i Sanniti della zona si ellenizzarono profondamente e ben presto si scontrarono con nuove ondate di Sanniti scesi dalle montagne, fu l'inizio delle guerre sannitiche (343-290 a. C. ). Nella lotta si fecero coinvolgere, chiamati in aiuto dei Sanniti di Capua, anche i Romani, che dopo la fine delle ostilità si ritrovarono padroni assoluti di tutta l'Italia centrale. Così l'arrivo di Annibale avrà per effetto il pronto schieramento della maggioranza dei Campani dalla parte dell'invasore cartaginese durante la seconda guerra punica (218-201 a. C. ). In questi tempi insicuri vi fu un gran spostamento di Campani facoltosi, che preferirono stabilirsi in altre città italiche o in altri scali del Mediterraneo orientale. In seguito questa migrazione assunse un carattere massiccio, in particolare verso Delo, dove questi negotiatores furono in grado di portare avanti i loro affari. Il tenore di vita, in una città di provincia come Pompei, doveva essere al tempo abbastanza florido, grazie alla ricchezza procurata dalla produzione di vino. Le fattorie nei dintorni dovevano essere modelli di sfruttamento razionale della terra; inoltre i monumenti testimoniavano e testimoniano la massima fioritura della città. Della vita pubblica si conoscono solo pochi nomi di uomini che ricoprivano cariche pubbliche e che appartenevano all'aristocrazia sannitica, di cui fu fatta strage nel corso della guerra sociale (90-89 a. C. ). Questa guerra vide la lotta dei socii italici per conquistare il diritto di cittadinanza romana, e il conseguente attacco di Silla. Anche Pompei, tra le altre città della zona, fu assediata e vinta da costui.
POMPEI ROMANA
A capitolazione avvenuta Pompei ricevette presumibilmente lo stato di municipium gestito da un collegio di quattuonviri, e gli abitanti ottennero la cittadinanza romana e vennero iscritti nella tribù Menenia. Dopo la guerra civile, nell'80 a. C., vi si dedusse una colonia da parte di Publius Cornelius Sulla, nipote del dittatore. Cambiarono le cariche pubbliche e vi fu anche intolleranza nei confronti degli indigeni, ma col tempo gli interessi si fusero, e a fianco degli optimates romani si riaffacciarono le vecchie gentes della città. La lingua ufficiale diventò il latino, cambiarono ancora sia le cariche pubbliche sia quelle religiose, ma il quadro economico e culturale non cambiò.
L'ETA' IMPERIALE
Con la presa del potere da parte di Augusto, nel 27 a. C., ebbe inizio per Pompei un periodo di progressiva romanizzazione della vita sociale e culturale e delle tradizioni; ciò significò la restaurazione delle antiche famiglie indigene, diventate filoromane, che fraternizzarono con i nuovi arrivati tramite matrimoni e adozioni. Questi nuovi potenti furono molto legati alla casa imperiale e instituirono un culto imperiale amministrato dai loro liberti o servi. Essi si fecero promotori della cultura di Roma, introducendo nuovi modelli architettonici e artistici. Il periodo di relativa pace presente sotto Augusto favorì il commercio interregionale, e in special modo quello marittimo; con la seguente dilatazione del benessere aumentò anche l'importazione di prodotti stranieri. Verso la fine dell'impero di Caligola si dovette verificare a Pompei una crisi per noi non di chiaro significato, che costrinse i decurioni nel 40 d. C., a nominare l'imperatore stesso duoviro quinquennale. Con l'avvento di Nerone sembra che la crisi fosse risolta, e la vita dovette procedere tranquillamente fino al 59 d. C., l'anno in cui l'imperatore fece uccidere la madre Agrippina presso Bacoli. In qell'anno scoppiò una rissa tra Pompeiani e Nucerini nell'anfiteatro di Pompei. Il fatto ebbe vasta risonanza, perfino a Roma.
IL TERREMOTO DEL 62 D. C.
Il 5 febbraio del 62 d. C. un disastroso sisma colpì Pompei e parecchie città della zona, tra le quali Ercolano. L'epicentro fu a Pompei. I danni furono ingenti. Ancora al momento dell'eruzione del Vesuvio, nel 79 d. C., si stava provvedendo ai restauri e ricostruzioni. I più ricchi si erano sicuramente trasferiti altrove: gli altri si erano sistemati in alloggi di fortuna. In questo periodo di tempo la città, da centro economico della zona, si era trasformata in un cantiere di costruzione, nel quale l'attività principale non era più il commercio. Non si sa se, e in che modo, Nerone prima e Vespasiano poi intervennero per ridare un volto alla città. Pompei era ricca, non ci dovette essere mancanza di fondi per le necessità del momento. Di sicuro però difficoltà politiche e amministrative non mancarono.
L'ERUZIONE DEL 79 D. C.
La mattina del 24 agosto dell'anno 79 d. C. i Pompeiani videro una nuvola a forma di pino aleggiare sul cono del Vesuvio. Verso le dieci il tappo di lava solidificata che ostruiva la fuoriuscita di materiale eruttivo, si spaccò sotto la spinta dei gas, e si frantumò in aria, trasformato in lapilli che, spinti dal vento, presero a cadere sulla zona a sud-est del vulcano per un raggio di 70 km. Su Pompei si depositò un primo strato di lapilli bianchi, di m 1,2, poi un secondo, di m 1,4, di lapilli grigi. La pioggia continuò per quattro giorni, accompagnata da esalazioni di gas tossici e verso la fine, dalla caduta di cenere, formata dalla polvere depositata sugli orli del cratere apertosi che, ricadendo di continuo in esso, veniva spinta in aria dai gas. Sopravvennero frequenti scosse di terremoto. Chi non ebbe modo di fuggire, fu soffocato dai gas. Altri restarono schiacciati dai tetti delle case, crollati sotto il peso dei lapilli. Fu una vera tragedia. L'imperatore Tito istituì un'apposita commissione per i soccorsi in Campania. Ma Pompei restò sommersa, anche se nella zona non mancano sepolture e costruzioni fondate sullo strato eruttivo. Il racconto circonstanziato del tragico evento, nelle sue varie fasi, ci è stato tramandato da un testimone oculare d'eccezione, Plinio il Giovane, che, in due lettere indirizzate a Tacito, su richiesta di quest'ultimo, descrive la morte dello zio, Plinio il Vecchio, avvenuta per soffocamento sulla spiaggia di Stabia. Qui di seguito è riportata una delle due testimonianze.
Storia di Pompei
Pompei ha origini antiche quanto quelle di Roma, infatti la "gens pompeia" discendeva da uno dei primi popoli Italici, gli Oschi.
Solo dopo la metà del VII secolo a.C., un primitivo insediamento si dovette stabilire sul luogo della futura Pompei: forse non un abitato vero e proprio, ma più probabilmente un piccolo agglomerato intorno al nodo commerciale che vedeva l’incrocio di tre importanti strade, ricalcate in piena epoca storica dalle vie provenienti da Cuma, da Nola e da Stabia.
In quanto luogo di passaggio obbligatorio tra nord e sud, presto Pompei divenne una preda per i potenti stati confinanti, data la sua importanza come nodo viario e portuale. Venne conquistata una prima volta dalla colonia greca di Cuma tra il 525 e il 474 a.C..
Strabone riporta che Pompei fu conquistata dagli Etruschi. Notizia che alla luce dei recenti scavi diventa sempre più attendibile. Nell’area del tempio d’Apollo e presso le Terme Stabiane sono state rinvenuti numerosi frammenti di bucchero, alcuni addirittura con iscrizioni etrusche graffite; sempre nella zona delle Terme, inoltre, è venuta alla luce una necropoli del VI secolo a.C..
Le prime tracce di un abitato d’una certa importanza risalgono, a Pompei, al VI secolo a.C., anche se in questo periodo la città, ancora piuttosto piccola, non rivela l’esigenza di servirsi d’un piano regolatore e sembra il risultato di un aggregarsi d’edifici piuttosto disordinato e spontaneo.
La battaglia persa dagli Etruschi nelle acque di fronte a Cuma contro Cumani e Siracusani (metà del V secolo a.C.), portò Pompei sotto l’egemonia greca. Probabilmente a questo periodo risale la fortificazione dell’intero altopiano con mura di tufo che racchiudevano oltre sessanta ettari, anche se la città vera e propria non raggiungeva nemmeno i dieci ettari d’estensione.
Nel IV secolo Pompei si trovò coinvolta nelle Guerre sannitiche (al termine delle quali Roma rimase signora incontrastata di tutta la Campania) e si vide costretta ad accettare la condizione di socia dell’Urbe, conservando comunque autonomia linguistica ed istituzionale. È al IV secolo che risale il primo regolare impianto urbanistico della città la quale, intorno al 300 a.C., ricevette la nuova fortificazione in calcare del Sarno.
Durante la seconda guerra punica Pompei rimase fedele a Roma, al contrario di molte altre città campane, e poté così conservare la sua parziale indipendenza.
Nel II secolo AC la coltivazione intensiva della terra e la conseguente massiccia esportazione di vino ed olio portarono nella città grande agiatezza ed un alto tenore di vita: basterebbe ricordare la ricchezza di alcune case ed il loro lussuoso arredamento. La Casa del Fauno, ad esempio, può rivaleggiare in ampiezza (quasi 3000 mq) persino con le più famose dimore reali ellenistiche.
Allo scoppio della guerra sociale (91 a.C.) troviamo Pompei alleata contro Roma, insieme ad altre città della Campania, nel tentativo d’ottenere la piena cittadinanza romana. Ma era impossibile resistere alla superiore forza militare di Roma: nell’89 a.C. Silla, dopo aver fatto capitolare Stabia, partì alla volta di Pompei, che tentò una strenua difesa rinforzando le mura cittadine ed avvalendosi dell’aiuto dei Celti capitanati da L. Clutentius. Ogni tentativo di resistenza risultò vano e ben presto la città cadde. Nell’80 a.C. entrava completamente e definitivamente nell’orbita di Roma e Silla vi trasferì una colonia di veterani che prese il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum. L’assegnazione di terre ai veterani avvenne certo a danno della gentes che avevano più aspramente avversato Silla. Ciononostante, le vicende politiche e militari non influirono in maniera determinante sul benessere e sull’intraprendenza commerciale dei Pompeiani (volta soprattutto all’esportazione dei vini campani) che interessava zone anche molto remote. Per la salubrità del clima e l’amenità del paesaggio, la città ed i suoi dintorni costituirono anche un piacevole luogo di villeggiatura per alcuni ricchi Romani, compreso Cicerone che vi possedeva un fondo.
Le fonti purtroppo sono piuttosto avare di notizie riguardo alla vita di Pompei nella prima età imperiale. Solo Tacito ricorda come un fatto clamoroso la rissa avvenuta tra Nucerini e Pompeiani nel 59 d.C. nell’anfiteatro di Pompei, che spinse Nerone a proibirvi, per dieci anni, ogni spettacolo gladiatorio.
L'eruzione che distrusse Pompei
Sin dall'alba del 24 agosto di quell'anno 79, apparve sul Vesuvio una grande nuvola a forma di pino. Alle dieci del mattino i gas che premevano dall'interno fecero esplodere la lava solidificata che ostruiva il cratere del vulcano, riducendola in innumerevoli frammenti, i lapilli, i quali furono scagliati su Pompei, insieme con una pioggia di cenere così fitta da oscurare il sole. Fra terribili scosse telluriche ed esalazioni di gas venefici, la città cessò d'esistere quello stesso giorno, rimanendo per secoli sepolta sotto una coltre d'oltre sei metri di cenere e lapilli. Si è calcolato che sui circa diecimila abitanti che doveva avere in quel periodo Pompei, circa duemila sarebbero state le vittime, alcune avvelenate dai gas durante la fuga, altre stritolate nelle loro stesse case dai tetti crollati sotto il peso dei lapilli.
Della città quasi si perse la memoria, al punto che, quando alla fine del XVI secolo l'architetto Domenico Fontana, nel costruire un canale di derivazione del Sarno, scoprì alcune epigrafi e persino edifici con le pareti affrescate, non vi riconobbe i resti dell'antica Pompei.
I primi veri scavi nell'area di Pompei ebbero inizio nel 1748 per volontà del re Carlo di Borbone, anche se furono piuttosto irregolari e non seguirono alcun metodo scientifico. Spesso gli edifici man mano portati alla luce venivano spogliati di oggetti ed opere d'arte e quindi nuovamente ricoperti. Nella prima metà dell'Ottocento i lavori procedettero molto più speditamente, e portarono all'esplorazione di molti edifici privati e di quasi tutto il Foro. Dal 1860, con l'avvento del Regno d'Italia, i lavori affidati alla direzione di Giuseppe Fiorelli furono condotti con sistematicità e rigoroso metodo scientifico. Il Fiorelli intuì fra l'altro la possibilità di ottenere calchi dalle vittime dell'eruzione colando del gesso liquido nel vuoto lasciato dai corpi, ormai dissolti, nella cenere solidificata: questi calchi, nell'Antiquarium di Pompei, costituiscono una delle più tragiche testimonianze della catastrofe.
Oggi Pompei ci appare in quasi tutta la sua estensione e ci riporta al giorno in cui il destino fermò il corso della sua storia: la vita sembra essersi interrotta un istante fa. Le scritte elettorali sui muri, le suppellettili domestiche, le botteghe, tutto sembra ancora vivo: la tragedia di Pompei non ha distrutto la città, vi ha solo fermato il tempo per restituircela con l'aspetto che essa aveva in quel preciso giorno del 79 d.C..
Storia di Pompei: dalle origini ai giorni nostri
Pompei fu fondata intorno all’VIII secolo a.C. dagli Osci che si insediarono, distinti in 5 villaggi, alle pendici meridionali del Vesuvio non molto distanti dal fiume Sarno allora navigabile.
Dal numero cinque, in lingua osca, molto probabilmente deriva il toponimo della città.
I primi insediamenti risalgono all’Età del Ferro, ovvero al IX – VII secolo a. C., quando c’era la cultura delle "tombe a fosso".
Pompei, in quell’epoca, era un centro commerciale molto rilevante, sicchè entrò nelle mire espansionistiche dei Greci e degli Etruschi prima, dei Sanniti poi.
Ai Sanniti spetta il merito di aver ingrandito la cinta muraria della cittadina, conservandole un grande sviluppo urbanistico.
In seguito, come accadde per tutta la Campania, fu conquistata dai Romani, riuscendo ad entrare, nell’ultimo quarto del III secolo a.C. a pieno titolo nel circuito economico romano; ciò potè verificarsi perché il Mediterraneo era sotto il totale controllo di Roma e le merci circolavano liberamente sicchè, anche Pompei, gran produttrice di vino e di olio, fu in grado di esportare liberamente fino in Provenza e in Spagna.
In quest’epoca ci fu un forte impulso architettonico: furono ricostruiti il Foro rettangolare ed il Foro triangolare e nacquero importanti edifici come il Tempio di Giove, la Basilica e la Casa del Fauno che ha le dimensioni di un palazzo ellenistico.
Nella stessa epoca è eretto anche il Tempio di Iside che è una chiara testimonianza degli scambi commerciali di Pompei con l’Oriente.
Sotto il dominio di Roma Pompei divenne prima municipium e poi colonia "Veneria Cornelia Pompeianorum" perché governata dal dittatore Publio Cornelio Silla che la conquistò nell’89 a.C. e le diede gli appellativi appena citati: Cornelia, dal nome di Cornelio Silla e Veneria perché Venere era particolarmente adorata dal dittatore. Durante questo periodo la cittadina visse una profonda umiliazione perché molte terre furono confiscate per essere cedute ai veterani.
Inoltre, la città si "romanizzò" al punto che sia il suo lato architettonico sia il lato istituzionale erano molto simili a Roma. Pompei divenne la "residenza di villeggiatura" del patriziato romano ed, in età imperiale, molte famiglie favorevoli alla politica di Augusto, si trasferirono qui e fecero costruire edifici come il Tempio della Fortuna Augusta e l’Edificio di Eumachia.
Sotto Nerone la Campania subì ingenti danni a causa di un sisma verificatosi nel 62 o 63 d.C.
Il Senato romano ne ordinò subito la ricostruzione, ma tutto fu vano, perché il 24 Agosto del 79 d. C., quando erano ancora in corso le opere di rifacimento della cittadina, una disastrosa eruzione del Vesuvio cancellò del tutto Pompei e con essa Ercolano, Stabia ed Oplonti.
Non ci fu scampo quasi per nessuno e della fiorente Pompei rimase solo un manto lavico spesso fino a tre metri che cementificò gli abitanti e distrusse ogni sorta di vita. I calchi di gesso sono la testimonianza sconcertante di come perirono gli abitanti della città. L’eruzione del 79 d.C. è ricordata anche come eruzione pliniana perché il naturalista Plinio il Vecchio fu la più illustre vittima dell’eruzione.
La città antica: topografia dell'abitato
Pompei sorgeva su di un contrafforte di 40 m. all’incirca, originatosi in seguito ad una colata lavica emessa dal Vesuvio durante un’eruzione avvenuta in epoca preistorica.
ArchiIl terreno su cui si estendeva l’antica Pompei era per questa sua natura irregolare; si presentava pianeggiante solo nel punto in cui c’era il Foro ed aveva una forte pendenza verso Sud dove la lava sembrava aver costituito un presidio verso il mare. La cinta muraria fu ingrandita in epoca Sannitica fino a raggiungere l’estensione di 3200 metri.
Le mura, costruite in travertino giallo, erano intervallate da otto porte: Porta Vesuvio e Porta di Capua a nord, Porta Marina a Ovest, Porta di Ercolano a nord – ovest, Porta di Nola e Porta di Sarno a est, Porta di Nocera e Porta di Stabia a sud.
In epoca romana cominciarono a sorgere molte abitazioni private, tanto che gli archeologi hanno suddiviso il nucleo abitativo in nove regiones o quartieri.
Le strade sono fiancheggiate da marciapiedi e, agli incroci delle stesse, ci sono maestosi pilastri con in cima un recipiente di piombo da cui scaturiva l’acqua per le fontane pubbliche.
Inoltre, lungo le strade principali – le cardines o decumani – o secondarie – viae o itinera, sorgevano altari per il culto agli dei Lari, nonché botteghe, officine, sulle cui pareti erano incisi graffiti, epigrammi, poemetti d’amore ed anche invettive in lingua greca, latina, osca e aramaica.
L'arte a Pompei antica
“Nulla può durare in eterno.
Il sole che brilla così chiaro, sprofonderà nel mare.
Anche la luna decresce, che ora brillava piena.
Così, alle burrasche della tua Venere segue spesso il dolce zeffiro.”
- Scritto di anonimo, nella casa di Caio Giulio Polibio, a Pompei
Le case erano dominate dai dipinti parietali che costituiscono l'aspetto più straordinario di Pompei. La varietà di stili nella decorazione pittorica che riveste le pareti delle case pompeiane è evidente.
Dalla sobria ripartizione in riquadri colorati, agli scenari architettonici, talora semplici talora molto complessi, fino alla visione di prospettive assolutamente fantastiche, alle scene figurate e alla ornamentazione pura. Inoltre ognuno si renderà facilmente conto di come la decorazione pittorica fosse considerata essenziale all'abbellimento della parete. Esse cercano di deliziare e ci riescono, facendo pensare anche che fosse stato raggiunto un elevato livello di civiltà visiva, ampiamente generalizzata, che si estendeva fino ai gradini più bassi della scala sociale. Una civiltà mai superata in alcuna epoca posteriore e sempre sensibilmente superiore a quanto si possa oggi trovare in una qualsiasi città di dimensioni paragonabili.
I dipinti a carattere figurativo di Pompei sono quasi sempre copie, di solito tratte da altre copie di capolavori celebri dell'arte greca. che purtroppo sono andati perduti. Nei dipinti figurativi si tratta, nella maggior parte dei casi, di un capitolo marginale, trasferito in Campania, dell'arte ellenistica o, comunque, di una sua ultima conseguenza. Essa appare come la proiezione in un ambiente provinciale della corrente filoellenica presente nell'arte romana. Sono stati fatti molti studi per decidere se e quali delle pitture di Pompei, Ercolano, Stabiae e Oplontis possano essere sicuramente considerate come greche, campane e sannitiche. In effetti esse dovrebbero essere definite come appartenenti a tutt'e tre le scuole, con la clausola che alcuni tipi in Campania erano conosciuti ancora prima che venissero introdotti a Roma: anche se, viceversa, la dominazione romana in seguito doveva esercitare un'influenza stimolante sugli artisti campani.
La tecnica utilizzata per la realizzazione delle pitture parietali (affresco)consisteva nell'applicare al muro due o tre strati ben fatti di intonaco calcareo, mescolato con sabbia e calcite. Quindi si dipingeva prima il fondo e si lasciava asciugare. Quando il tutto si era ben essiccato, si aggiungevano le decorazioni. I colori venivano mescolati con calcare, mentre, per conferire brillantezza alla superfice, si aggiungevano anche colla e cera (encausto). Con tali mezzi le pitture acquistavano durevolezza e lucentezza. Tra l'altro, I pigmenti usati nell'antichità erano costituiti soprattutto da terre colorate come le ocre, da tinte minerali come il carbonato di rame e, infine, da tinte di origine vegetale e animale . Non era affatto facile acquistare padronanza della tecnica, ed era necessaria una grande avvedutezza da parte del pittore, il quale doveva riuscire a mettere in atto le sue idee con rapidità per ricoprire la massima superfice nel minor tempo. Tradizionalmente le pitture delle città vesuviane sono state assegnate a quattro stili diversi, susseguentisi nel tempo anche se qualche volta si sono sovrapposti. Oggi si pensa che tale suddivisione sia del tutto inadeguata a rappresentare la varietà delle tecniche pittoriche; essa però sarà conservata in questo sito dal momento che l'enorme sforzo di creare un sistema sostitutivo nonostante i numerosi tentativi potrà dare risultati solo nel futuro.
Pompei - Il Mosaico
L'arte del mosaico divenne una delle più caratteristiche e fortunate del mondo romano. I mosaici fatti con piccole tessere di eguale dimensione ricavate da pietre e da marmi colorati (opus tessellatum), e disposte in un letto di cemento divennero gradualmente noti al mondo greco nei decenni seguenti le conquiste di Alessandro. Probabilmente si trattava di un'idea importata dall'oriente, sebbene sia stata suggerita un'origine siciliana.
Il concetto fondamentale era reminiscente dei tessuti: in altre parole, il mosaico, o almeno le sua parte pittorica, era pensato come una specie di tappeto inserito nel mezzo del pavimento, e il nome che si dava a tale pannello centrale era quello di emblema. Oppure poteva essere trattato a mo' di stuoia da collocare davanti a una porta.
Mosaici pompeiani esposti al Museo archeologico Nazionale di Napoli
Coppa con Pappagalli e Colomba
Animali marini
Colombe che bevono a una coppa
La battaglia di Isso
A Pompei il pavimento fu veduto come uno spazio unitario che avrebbe dovuto essere interamente coperto dal mosaico, il quale così sarebbe sembrato un tappeto anziché uno stuoino. Tale formula è in modo particolare riscontrabile negli atria delle grandi case sannitiche costruite a Pompei e a Ercolano nel II secolo a.C.
Ma la città di Pompei fornisce anche un certo numero di notevoli esempi dell'antica tecnica greca del "tappetino": cioè dei mosaici inseriti al centro del pavimento e formanti dei quadri, con disegni non soltanto decorativi. Talvolta gli scenari potevano essere molto grandi, come dimostra il più famoso di tutti, quello che rappresenta la battaglia di Isso (333 a.C.) combattuta fra Alessandro Magno e i Persiani di Dario In, che misura m 3,20 x m 5,50. Risalente al 150 a.C. circa, il mosaico fu scoperto nella Casa del Fauno di Pompei e attualmente è conservato nel Museo di Napoli. Insieme con il più recente e puramente decorativo mosaico del Nilo di Palestrina (la vecchia Praeneste), esso costituisce il più splendido esemplare dell'arte musiva che sia giunto fino a noi e rivela la straordinaria potenzialità del mezzo (anche se sarebbe alquanto scomodo dover guardare dall'alto in basso una composizione così complessa realizzata su un pavimento). Con tutta probabilità la scena guerresca si ispirava molto da vicino a qualche quadro greco dipinto subito dopo la battaglia di Isso, o almeno prima della fine del IV secolo a.C. Può darsi anche che l'autore fosse un certo Filosseno di Eretria; in ogni caso il mosaico, anche se preannuncia alcune idee prospettiche di epoca posteriore, ci fa intuire meglio di qualsiasi altra cosa quello che doveva essere un grande dipinto murale greco. Filosseno era noto per i suoi "scorci" illustrati nel mosaico in questione dalle figure seminascoste. La composizione è elaborata, ma brillantemente lucida e drammatica, con vedute audaci e una sapiente illuminazione. I grandi capolavori musivi del genere erano presumibilmente realizzati sul posto da esperti greci di importazione (tranne il caso, forse, che nella città di Neapolis fosse possibile reperire uno o due artigiani capaci di sollevarsi a tali altezze). La grandiosità della scena, tra l'altro, I'ha fatta paragonare al quadro della Resa di Breda del Velasquez; ma l'aerea prospettiva del capolavoro seicentesco manca nell'antico mosaico, in cui tutto sembra trovarsi in primo piano .
Anche in opere importanti come il mosaico di Alessandro spesso le tessere non sono disposte in linee rette, ma variano di direzione, come anche di dimensione, secondo le necessità dell'artista. Altri pannelli più piccoli portano ancora più avanti tali variazioni consentendo di ottenere risultati molto più delicati (simili a quelli che solo un pittore potrebbe raggiungere) mediante l'uso di tasselli delle forme più varie (ma generalmente rotondi) e delle dimensioni più diverse (spesso molto piccole), sistemati su serie di curve sinuose. Due piccole composizioni musive in cui fu impiegata tale tecnica "vermicolare" (opus vermiculatum) sono state scoperte in una casa di campagna fuori Pompei (erroneamente chiamata Casa di Cicerone) e attualmente sono conservate nel Museo di Napoli. Esse portano la firma di un certo Dioscoride di Samo, e una delle due rappresenta un gruppo di musici ambulanti accompagnati da un fanciullo dal viso smunto e malaticcio. L'altra, invece, raffigura una vecchia fattucchiera mascherata nell'atto di dare a due ~iovani donne dei consigli o dei filtri d'amore; tutte tengono le mani molto strette. Dioscoride vi lavorò intorno al 100 a.C., ma le opere sono adattamenti di pitture del 280 circa, che rappresentavano scene della Commedia Nuova di Menandro: i musici si incontrano nella commedia di quest'ultimo intitolata Theophoroumene (La donna invasata), mentre le donne appartengono alle Synaristosae (Le donne che fanno colazione).
Questi pannelli, in cui le strisce sovrapponentesi di colore nero, grigio e giallo costituiscono un tentativo di ricerca di profondità spaziale, sono montati in scomparti di marmo, per cui dovevano essere stati prefabbricati, e questo fa supporre c he fossero stati importati già pronti, forse dall'Oriente greco. Gli artefici di opere come queste probabilmente avevano dei libri contenenti modelli a cui ispirarsi; ma di che libri si trattasse e come venissero usati non possiamo dirlo. In un altro pannello si vedono dei piccioni appollaiati su una tazza: tema ben noto e già incontrato nelle pitture, che era stato iniziato, secondo quanto ci viene detto, da un certo Soso di Pergamo, il quale era famoso anche per aver dipinto il pavimento sporco di una stanza da pranzo, successivamente riprodotto in numerosi mosaici. Un esemplare, conservato al Vaticano, porta la firma di un certo Eraclito, il che significa che in quel caso la persona che appose il proprio nome non era evidentemente il pittore originale (che era Soso), ma l'artefice del mosaico. Sebbene i residui di cibo sparsi sul pavimento ricordino troppo le abitudini della gente del tempo per avere un sapore gradevole, essi forse rendono meglio l'idea estetica di quello che dovrebbe essere un disegno sul pavimento che non le grandi composizioni figurative. Ancora più soddisfacenti, dal punto di vista decorativo, sono le scene di vita marina destinate alle case e alle terme. Un esempio eccellente di questo genere è quello in cui si vede il combattimento fra un polpo e un'aragosta, mentre una murena sta in agguato pronta ad attaccare e altri pesci girano intorno.
Eppure uno dei più interessanti fra i piccoli mosaici da pavimento pompeiani si allontana dal concetto della composizione musiva intesa come decorazione. Originariamente sistemato al centro del pavimento di una stanza da letto, questo mosaico ha per soggetto un ritratto muliebre che Antony Thorne ha definito come quello di «una donna tormentata, con occhi grandi, non bella, sul punto di dire qualcosa a bassa voce». La testa assomiglia notevolmente ai primi ritratti della grande serie di dipinti che decoravano le mummie del Fayum e di altre località dell' Egitto, e che, per quanto ne possiamo sapere, stavano appena per iniziare la loro lunga storia proprio quando Pompei ed Ercolano terminavano la propria. Può darsi che i primi ritratti egizi, che noi non conosciamo, abbiano avuto un'influenza su quest'opera pompeiana, proprio come tante altre mode che nell'antichità arrivarono in Campania dall'Egitto. Può anche essere che il mosaico sia stato direttamente importato dall'Egitto già bell'e fatto (o che ne sia stato almeno fatto venire il disegno su cui si basa); oppure, in alternativa, questo tipo di ritrattistica potrebbe non aver avuto origine né in Egitto, né nella Campania, ma in qualche scuola d'arte di un'altra regione di cui non siamo a conoscenza. L'opera è ricca di sfumature e di luminosità. Agli inizi dell'impero bizantino, quattro o cinque secoli dopo la distruzione delle città vesuviane, una delle maggiori forme d'arte del mondo doveva evolversi dall'idea di trasferire il mosaico dal pavimento alla volta muraria o alla parete. In effetti il trasferimento aveva già avuto inizio a Pompei e a Ercolano, ma senza dubbio anche altrove, sebbene sia su quelle due località, come spesso avviene, che dobbiamo basarci per sapere quasi tutto quel che accadeva nel mondo greco-romano. Così i mosaici da parete possono essere veduti nelle nicchie che ornavano le fontane dei giardini delle case private; essi erano fatti con cubetti di marmo o di pasta di vetro, spesso incorniciati da fasce di conchiglie di mare. I disegni per lo più erano geometrici, con piccole scene figurate introdotte in certi punti. Composizioni del genere, come, per esempio, quelle delle Case della Fontana Grande e della Fontana Piccola di Pompei, al sole d'estate devono aver prodotto suggestivi giochi di luce. La casa del Mosaico di Nettuno, a Ercolano, vanta una grotta con tre nicchie, o nymphaeum, particolarmente elaborata e interamente rivestita con mosaici multicolori di scene di caccia: in questo caso le figure sono tracciate contro uno sfondo azzurro. Nella medesima corte, ad angolo retto con la grotta, si vede un esempio molto più ambizioso di utilizzazione dello stesso materiale, cioè un grande pannello murale raffigurante Nettuno con la moglie Salacia (Amphitrite). L'esecuzione è fatta con tratto naturalistico e l'ombreggiatura crea l'illusione di una pittura mentre la parte periferica del pannello forma una cornice policroma e fastosamente ornamentale che contrasta piacevolmente con il convenzionalismo accademico delle figure.
I mosaici e i dipinti parietali non solo facevano il servizio oggi svolto dai tappeti e dai quadri appesi ai muri, ma il loro inserimento nella struttura generale dell'edificio era basato sulla supposizione che i mobili dovevano essere pochi.
I QUATTRO STILI DELLA PITTURA POMPEIANA
La prima tecnica che si incontra a Pompei, diffusa negli edifici e in particolare nelle abitazioni, si verifica a partire dall'età sannitica, ossia dal 150 a. C. fino aell'80 a.C., consiste in una plastica imitazione del marmo variegato, dell'alabastro o del porfido: essa è detta "stile dell'incrostazione" e deve il nome alla voce crusta, che significava anche "rivestimento con lastre di marmo". Si tratta di imitazioni eseguite con i colori predominanti rosso e nero con una striscia gialla in basso, che formano un efficace contrasto di tinte con un giuoco sottile di figurazioni astratte. A Pompei questo stile si incontra nella Basilica e nel Tempio di Giove, ma anche in alcune abitazioni private, come la Casa del Fauno.Questa maniera, regolare ed elementare, di decorare, o meglio di colorare e ritmare le pareti che troviamo a Pompei, ha precedenti e manifestazioni pressochè contemporanee e appena precedenti in tutto il mondo ellenistico. Le tinte sono intense, in origine certo violente, segno di una sensibilità cromatica elementare, della quale nella Grecia classica sono una testimonianza precedente ad esempio i vasi a figure rosse su fondo nero. Questo tipo di decorazione che in ordine di tempo compare primo nelle città campane, è stato chiamato dal Mau, lo studioso tedesco che per primo esaminò la pittura antica in uno studio sistematico.
Primo Stile
Secondo Stile
Terzo Stile
Quarto stile
"Primo stile pompeiano" A Pompei ed Ercolano le pitture di questo stile contengono piccoli elementi architettonici, quali i pilastri per la divisione verticale delle superfici. Successivamente in un aspetto di quel che è noto come il "secondo stile" (una fase che approssimativamente ricoprì gli ultimi tre quarti del I secolo a.C.) quest'ultimo tema architettonico prese completamente il sopravvento. Una serie meravigliosa di dipinti provenienti da una sala della Villa di Publio Fannio Sinistor, che era una delle numerose abitazioni di campagna esistenti nei dintorni di Boscoreale, costituisce l'apogeo dell'evoluzione della tecnica. I riquadri, che ora sono visibili nel Metropolitan Museum of Art di New York, sono altrettanti capolavori divisi l'uno dall'altro da snelle colonne che conferivano alla sala l'aspetto di un chiostro, da cui si godeva la vista di uno scenario ardito e vivace di strade, di case e di atrii colonnati.
Non v'è dubbio che le pitture non siano altro che imitazioni di scenari teatrali relativi a rappresentazioni drammatiche di un tipo al quale fa riferimento anche Vitruvio. Eventuali confronti con la Campania possono soltanto essere immaginati, ma è sintomatico il fatto che Neapolis fosse un importante centro di arte teatrale. Per quel che riguarda Roma, Plinio il Vecchio racconta di uno scenario teatrale che con tutta probabilità non doveva essere diverso dalle pitture murali in questione. Realizzato da Appio Claudio Pulcro nel 99 a.C., si diceva che contenesse vedute di tetti di case così realistiche che perfino gli uccelli tentavano di posarvisi sopra. I Greci ed i Romani si dilettavano di trompe l'oeil e amavano storielle di questo genere.
Spesso il paesaggista pompeiano andava più vicino al soggetto e scendeva a dipingere i particolari dei giardini tanto prediletti dai suoi clienti. Anche in questo caso, come gia succedeva per i pittori di soggetti architettonici, sembrava che egli volesse imitare gli scenari teatrali i più celebri esempi di tale genere di lavoro che siano pervenuti fino a noi risalgono al periodo tra il 40 ed il 25 a.C. e sono i verdeggianti studi di argomento silvestre provenienti dalla Villa di Livia a Primaporta e ora conservati nel Museo Nazionale di Roma. Ma anche a Pompei gli esemplari dello stesso tipo abbondano, variando dalle scene tranquille scoperte nel 1954 nella Casa del Frutteto, e` che presagiscono gli arazzi francesi e fiamminghi conosciuti col nome di verdures, fino alle esuberanti visioni di belve esotiche. In particolare, i giardini delle case, in ossequio al principio che le pitture dovevano per quanto possibile corrispondere allo scopo cui erano destinate le stanze o le corti, avevano le pareti ricoperte con scenari in cui si vedevano fiori, cespugli e animali formanti quasi un'appendice degli stessi giardini che così si voleva far apparire più grandi. L'idea di dipingere soggetti naturali è stata ben sfruttata, ottenendo risultati affascinanti che conferivano sensazione di freschezza; essa, però, non era affatto una novità dal momento che le ghirlande di fiori e di frutti, dipinte o scolpite, erano ben note a Pergamo già nel II secolo a.C., allorché l'arte di quel regno era nel pieno vigore del suo rigoglio. Inoltre, un pittore greco di nome Demetrio, figlio di Seleuco, il quale era stato a Roma nel 164 a.C., venne specificamente chiamato "paesaggista" (topographos) e fu il primo uomo di nostra conoscenza ad essere così definito. Come tema letterario, il paesaggio era già stato fatto venire di moda negli anni dal 270 al 260 a.C. circa dalle poesie idilliche di Teocrito di Siracusa, il poeta pastorale della civiltà urbana che scriveva per i cittadini di Coo e di Alessandria mescolando sottilmente sofisticazione e semplicità, spiritoso realismo e convenzionalità tradizionale. Fra il fogliame dei quadri saltellano gli uccelli. Si vedono gli aironi fra i melograni, e nella Casa di Fabio Amandione v'è un gruppo di tre volatili appollaiati sul bordo di un'alta vaschetta marmorea destinata al loro bagno. Tali dipinti riproducevano gli uccelli che i giardini effettivamente contenevano nelle loro uccelliere, e gli artisti che prediligevano il tema dovevano assomigliare a uno dei personaggi del romanzo di Petronio, cioè a quel ragazzo che si interessava di due sole cose- degli uccelli e della pittura.
Era di moda dipingere pure animali morti, tra cui uccelli e pesci che compaiono, insieme con ortaggi e frutti vari, in una serie straordinaria di nature morte: soggetto che divenne, e poi tornò nuovamente ad essere, un tema favorito dei pittori di Pompei. Allora v'era l'usanza di inviare agli amici doni costituiti da generi da mangiare crudi, il che spiega il ripetersi di tanti quadri del genere.
Il trattamento del tema, in cui vengono abilmente combinati realismo e impressionismo, probabilmente doveva qualcosa a un celebre pittore greco fiorito verso il III Secolo a.C., di nome Pireico, il quale si era specializzato nel riprodurre soggetti del tutto comuni, come botteghe da barbiere, banchetti da ciabattino, asini e cibi, e, a un livello leggermente più rozzo, le svariate insegne dei negozi di Pompei possono in maniera analoga essere indirettamente addebitate alla sua opera. Ma a Pompei alcuni pittori del I secolo d.C. raggiunsero eccellenti risultati nelle vaste composizioni di figure umane. Già si e accennato alle grandi pitture di soggetto religioso che ricoprivano tre pareti di una stanza della Villa dei Misteri. Aventi per soggetto i misteri dell'iniziazione bacchica, esse si rifacevano in larga misura a modelli perduti originari di Pergamo. Ma il copista, se è questa la parola che si deve usare, era anche un artista di prim'ordine che è riuscito a conferire alle sue figure fantastiche e misteriose un alone straordinario di dignità divina, di violento movimento, di terrore, di magia, di esaltazione.
Nel IV secolo a.C. lo scultore Prassitele era riuscito a dare una realtà visiva all'essenza di un mondo ideale, creando delle figure che compendiavano in sé la diversità della natura divina; ed il maestro della Villa dei Misteri, pur lavorando con una materia difficile quale può essere l'intonaco di un muro, si rivelò un degno seguace del greco. La complessa composizione con cui egli decorò le pareti della casa lascia col fiato sospeso ed è stata giustamente definita come la più grande testimonianza esistente della pittura antica. Se essa risalga al tempo di Cesare (metà del primo secolo a.C.), o alla prima parte del regno di Augusto (31 a.C.-14 d.C.) non è stato possibile stabilirlo.
Fu forse sotto Augusto che venne di moda una tecnica pittorica nuova e diversa, conosciuta come il Terzo Stile", che verosimilmente dal punto di vista cronologico si sovrappose al Secondo Stile, ma che potrebbe essere continuata fino all'epoca di Claudio (41-54 d.C.). Gli artisti che aderirono alla nuova scuola rovesciarono completamente l'apertura tridimensionale dello spazio che era stata favorita fino a quel momento. Essi tracciarono sulla parete una struttura rada e inconsistente, simile al bambù, che riecheggia l'architettura soltanto in qualcosa di superficiale, di non funzionale e formalizzato: v'è anche una notevole infusione di motivi dall'Egitto, in seguito alla conquista del paese da parte di Roma avvenuta nel 30 a.C. mentre sono evidenti i collegamenti religiosi e commerciali con Pompei. In quel tempo i disegni architettonici degli artisti precedenti furono totalmente subordinati a un certo effetto piatto e decorativo reminiscente delle tappezzerie e dei tendaggi che, come rivelano i chiodi e gli uncini, erano usati per ricoprire le pareti. Le tappezzerie, che rappresentavano un ricco ramo dell'antica arte della tessitura e la cui perdita quasi completa costituisce una delle maggiori lacune delle nostre conoscenze, qualche volta avevano dei pannelli cuciti nel centro, sulla cui superficie i pittori che avevano adottato il nuovo stile inserivano piccole scene di argomento diversificato; lo possiamo ancora oggi vedere nei pannelli delle pareti della Casa di Marco Lucrezio Frontone in cui erano dipinti paesaggi e ville di campagna.
I più antichi paesaggi dipinti sulle pareti talvolta erano molto piccoli, ma quest'ultimi sono di dimensioni ancora più ridotte e spesso sembrano miniature adatte a medaglioni: oppure, veduti sul fondo unito, sembrano quasi piccoli quadri fatti sul cavalletto come ai nostri giorni si vedono di frequente. Eppure non si trattava di opere da cavalletto, perché in effetti il quadro veniva dipinto sulla parete in muratura; cioè facevano parte, parte integrale, dello sfondo murario, per quanto semplice esso potesse essere. L'avere quadri incorniciati e appesi alle pareti con corde e chiodi, come usiamo noi, agli antichi sarebbe sembrata cosa illogica, e una inorganica interferenza con la struttura della stanza. La soluzione da loro adottata e che più si avvicinava ai nostri gusti era quella di dipingere piccole scene (pinakes) su un supporto di stucco particolarmente fine per inserirle in posizione adatta nel modello generale della composizione pittorica murale. Di questo tipo sono, per esempio, i pannelli inseriti nel muro della sala da pranzo della Villa della Porta Marina di Pompei. Era anche usanza quella di realizzare speciali dipinti per pannelli racchiusi; entro cornici e provvisti di sportelli che si potevano aprire e chiudere. Ma anche questi quadri non erano destinati ad essere appesi; invece, si usava collocarli su qualche scaffale e su un sostegno da cui potessero essere facilmente veduti. Un'altra forma d'arte è stata incontrata nella Villa della Porta Marina, dove una delle pitture murali rappresenta un'opera incorniciata del genere accennato, eseguita con la tecnica trompe l'oeil. Qualche volta i dipinti venivano realizzati su marmo, il Museo di Napoli possiede un disegno particolarmente grazioso fatto su questo materiale in cui si vedono delle fanciulle che giuocano ai dadi. La pittura è eseguita su due piani ed è firmata da un certo Alessandro Ateniese. Se il nome sia quello dell'autore del disegno, o dell'originale da cui derivato l'esemplare di Pompei, non possiamo stabilirlo, anche se si tratta evidentemente della copia fedele di un dipinto che risaliva alla fine del v secolo a.C. (un modello insolitamente antico). L'ombreggiatura degli abiti delle donne richiama alla memoria l'asserzione di Plinio, il quale diceva che era stato proprio in quel tempo, cioè poco prima del 400 a.C., che l'artista ateniese Apollodoro aveva inventato il disegno sfumato. Un'altra scena pompeiana su marmo con la rappresentazione dell'uccisione delle figlie di Niobe rivela uno stile che richiama qualche modello più tardo, dipinto a Pergamo verso la fine del m secolo a.C.
Il "Quarto Stile"
Questa tradizionale definizione diventa poco più di un inutile impedimento in quanto essa deve comprendere tutta una gamma di diversi tipi e generi di pittura. Alcuni ebbero inizio prima che terminasse il Terzo Stile e vennero adottati, simultaneamente o in tempi successivi, da prima della metà del I secolo d.C. fino alla definitiva distruzione delle città vesuviane. Erano gli stili in voga prima e dopo il terremoto del 62 d.C., come pure prima e dopo l'erezione a Roma della Domus Aurea di Nerone (64-8), che alcuni dei dipinti di Pompei e di Ercolano presagiscono e altri imitano. Dal momento che i dipinti del Quarto Stile appartengono agli ultimi anni di vita delle città, essi sono giunti a noi in quantità maggiore che gli esemplari delle maniere precedenti, e pertanto le diverse varietà del Quarto Stile, vedute nel loro complesso, numericamente superano di gran lunga tutte le altre messe insieme. Secondo l'opinione di uno studioso, vi furono almeno diciassette buoni artisti che operavano contemporaneamente; e, anche se il loro numero fosse alquanto minore, lo studio accurato dei dipinti di una delle case più importanti, quella dei Dioscuri, per esempio, dimostra la presenza più o meno contemporanea di molte mani diverse.
Una caratteristica di questi artisti è quella di reagire alle tendenze architettoniche del Terzo Stile; in altre parole, i nuovi pittori ritornano alle preferenze architettoniche del Secondo Stile esemplificate da Boscoreale. Essi, però, seguono soltanto in parte la strada a ritroso, dal momento che l'architettura da loro immaginata si dissolve nella fantasia. In verità qualche volta si eseguono studi realistici di città e di edifici, come è il caso dell' incantevole porto illuminato dal sole veduto da Stabiae. Ma spesso ammiriamo guizzi brillanti di inventiva architettonica assolutamente irreale incastonati in tralicci sottili come la filigrana: strutture inconsistenti magicamente elaborate in un'aerea prospettiva lungo scorci panoramici a precipizio. Alcuni di tali disegni sono sicuramente derivati, come i dipinti precedenti, da scenari teatrali.
Uno dei proprietari della Casa di Menandro, forse Quinto Poppeo, che era imparentato con la moglie di Nerone, Poppea, doveva essere un appassionato del teatro, dal momento che una stanza contiene un ritratto di Menandro (drammaturgo morto verso il 290 a.C.), identificato dal nome scritto sull'orlo dell'abito e sul rotolo che tiene in mano. Per di più alcune rappresentazioni teatrali-sono effettiva mente raffigurate su qualche muro. Così nella Casa di Pinario Ceriale, a Pompei, un'intera parete è occupata da un dipinto che riproduce una scena della tragedia Ifigenia in Tauride di Euripide su un fondale trattato architettonicamente. Sebbene ancora una volta temi del genere potessero risalire ad antichi modelli greci, la loro popolarità nel periodo considerato forse era in parte dovuta alla passione dell'imperatore Nerone per il canto e per la recitazione.
Gli antichi miti erano tutt'altro che morti; raggiungevano, anzi, profondi livelli nel sentimento del conscio e dell'inconscio, e fornivano innumerevoli temi a un gran numero di artisti di Pompei e di Ercolano. Quei pittori imitavano originali greci, ma lo facevano con grande libertà di fantasia, e con il dovuto riguardo per i loro propri scopi e per l'ambiente specifico in cui si svolgeva la loro opera. La libertà che essi si prendevano può essere dimostrata quando ci viene concessa l'occasione (come effettivamente capita qualche volta) di confrontare con l'originale due o più copie eseguite da uno dei pittori pompeiani; possiamo allora vedere che le copie differiscono sensibilmente l'una dall'altra. I modelli greci utilizzati dagli artisti delle città del Vesuvio, e che ad essi erano noti da raccolte d'arte, da repertori e da libri, generalmente non venivano derivati dai grandi maestri classici del v secolo a.C., ma furono preferibilmente ispirati alle opere di artisti di epoca successiva. Alcuni di questi erano vissuti nel IV secolo a.C., cioè al tempo di Alessandro Magno (il quale morì nel 323), mentre altri appartenevano almeno al II secolo, e spesso comprendevano esponenti dell'arte cortigiana di Pergamo, la quale, come abbiamo veduto, produsse un dipinto delle figlie di Niobe e, soprattutto, ispirò la possente composizione dionisiaca della Villa dei Misteri. Grazie a tali prestiti è proprio a Pompei e a Ercolano che noi andiamo debitori di quasi tutto quello che sappiamo sulle scuole dell' arte greca che fiorirono successivamente, nel corso degli ultimi quattro secoli prima dell'avvento dell'era cristiana.
Gli artisti che operarono nelle due città vesuviane copiando e modificando opere precedenti restano per lo più sconosciuti, in quanto essi appongono la propria firma assai raramente. Un certo Lucio asserisce di aver dipinto varie scene, tra cui quella di Piramo e Tisbe, nella casa di Loreio Tiburtino; ma egli non è dei migliori. Un artista molto più dotato, anche se condivide il generale anonimato, è quello che dipinse Ercole e Telefo nella Basilica di Ercolano. Superbamente disegnata e dipinta con un abile giuoco di luci e di ombre, questa composizione elaborata, ma pur soddisfacente, è degna di figurare come uno dei capolavori che dall' antichità sono giunti fino a noi. Nel riconoscimento da parte di Ercole del proprio figlioletto Telefo, che gli aveva dato una sacerdotessa di Atena di nome Auge, non v'è scarsità di sentimento, e un particolare commovente è quello del bambino allattato da una cerbiatta. Ma l'emozione, o il sentimento, è espressa con classica misura e attraverso una limpida tecnica tridimensionale.
Altri dipinti creano il loro effetto con mezzi meno diretti. Così, per esempio, una scena di Perseo e Andromeda, sebbene le forme siano ancora solide e statuarie, è avvolta in una soffice luminosità che suggerisce una diversa concezione, comportante la creazione di un'atmosfera romantica piuttosto che eroica. Altre opere sono ancora più apertamente emotive e addirittura sensazionali. La Morte di Penteo, dilaniato dalle Menadi, evidentemente si prestava bene a questo trattamento, e lo stesso può dirsi di alcune delle scene più drammatiche della guerra di Troia. Il ciclo omerico, su cui si fondava tutta l'istruzione greca e romana, era particolarmente caro a Nerone, il quale, oltre a vantare una discendenza adottiva dalla casa regnante di Troia, scrisse pure un poema sul tema dell'Iliade, e, secondo quanto si raccontò, avrebbe declamato altri versi di propria fattura mentre ammirava l'incendio di Roma scoppiato nel 64 d.C. La scena del Sacrificio di Ifigenia, dalla Casa del Poeta Tragico, è piena di angoscia e di dramma istrionico, mentre quella di Achille che consegna Briseide rivela ansia e tensione psicologica. In Ulisse e Penelope si vede il pellegrino travestito preso da un turbamento quasi incontrollabile alla vista della moglie. E uno dei dipinti più grandi che siano giunti a noi dal mondo antico è una scena superbamente colorata proveniente dalla Casa di Menandro, dove, con una possente economia di particolari, si racconta la storia dell'introduzione del cavallo nella città di Troia ormai condannata. La storia costituiva anche il soggetto dei poeti del tempo; e Petronio, che era poeta oltre che romanziere, è uno di coloro che ne trattano: tipico della filosofia di Seneca, della sofferenza, della tristezza del fato immeritato. Su di esso aleggia la sensazione di vago timore e di mistero che si ritrova nella Farsalia (o La Guerra Civile), il poema epico di Lucano, che era nipote del filosofo. Il cavallo di legno ha un aspetto sinistro e scarno. Una luna quasi nascosta dà una debole luminosità spettrale, presaga di tragedia, cui si aggiunge il tremulo bagliore delle torce tenute da donne in lunghi abiti raccolte al centro. Per il resto il paesaggio è vago e oscuro, e così sono pure le torri e le mura che appaiono indistintamente sull'alto della scena. Ma emergono due forti sequenze di movenza drammatica: le figure in primo piano tese nello sforzo, cui fanno netto contrasto i personaggi statici che stanno in penombra più lontano.
In questi dipinti i volumi sono ampiamente abbozzati, i volti ed i sentimenti sono impressionisticamente suggeriti con pochi, ,audaci colpi di pennello, ed il mito è stato infuso con una vita nuova e briosa. Il successo della tecnica, senza alcun dubbio, va originariamente attribuito ai precursori greci dei pittori vesuviani, e, in particolare, ai Pergameni e ad altri che per primi si erano cimentati in questo spettacolare sfruttamento del chiaroscuro e dei sentimenti umani. I pittori di Pompei e di Ercolano hanno imitato quegli artisti; ma nel farlo evidentemente hanno anche improvvisato con un'abilità che merita quasi di essere considerata un risultato originale. Alcune delle personalità dei dipinti di soggetto mitologico sono state espresse in maniera assai vigorosa e sottile. Nell'Ercole e Telefo, per esempio, (un adattamento di una bella pittura Pergamena) si ammira una straordinaria interpretazione dello stesso Ercole che guarda il figlioletto con una simpatica aria di sorpresa. E la figura giovanile che nella medesima scena suona la siringa dietro l'immagine seduta di Arcadia, i cui occhi guardano nel vuoto, è il satiro per antonomasia: eccellente, anche se alquanto sinistro, esempio della passione per i ritratti dei fanciulli dei primi tempi dell' Italia imperiale (medaglioni dipinti raffiguranti fanciulli e fanciulle sono stati rinvenuti in molti posti di Pompei, anche se numerosi esemplari sono finiti sbriciolati e distrutti).
Le pitture eseguite durante gli ultimi decenni di vita di Pompei, di Ercolano e di Stabiae rivelano una stupefacente varietà di colori audaci, fluenti e abilmente sfumati. Considerando l'arte dell'epoca può darsi che alla fine, non prima che siano stati fatti molti altri studi, sia possibile individuare una certa evoluzione della moda. Per esempio, risulta già evidente che negli ultimissimi anni si andava affermando una forte tendenza per il nero e il bianco. Così nella Casa di Loreio Tiburtino una delle ultime opere consiste in una serie di medaglioni delle Stagioni, misteriosamente sospese su un'architettura evanescente contro grandi pannelli bianchi. Erano in corso di sperimentazione anche nuove idee sull'illuminazione, e gli artisti che decorarono la Casa dei Vettii hanno fatto apparire gli edifici come se si trovassero in un burrone inondato di luce, fra prospettive immense e profonde. Infondendo fresca animazione nei tradizionali paesaggi pastorali di alberi e tempietti, le nuove idee impressionistiche produssero capolavori come l'Ariete perduto, in cui le due figure dell'uomo e dell'ariete appaiono quali ombre davanti alle leggere pareti del santuario che ha per sfondo un romantico paesaggio di gole e di caverne. A un livello meno ambizioso si incontra una grande quantità di lavoro decorativo puro e semplice, con un parallelo nei superbi bassorilievi di stucco che sono un altro elemento caratteristico delle case private, oltre ad essere stati largamente utilizzati nelle terme pubbliche. Fu riportata anche in vita e sviluppata un'antica simpatia per i temi dell'Egitto, sintomo di un gusto particolare per i paesaggi più o meno fantastici di quel paese. Senza dubbio la moda esisteva anche altrove; ma Pompei, con i suoi collegamenti egizi, doveva essere particolarmente ricettiva in tal senso, e possiamo vedere le acque del Nilo in piena, le palme e i sicomori, i pigmei e le belve. In generale la riproduzione di animali, locali o esotici, incontrava molto favore, specialmente nei giardini: le Case di Marco Lucrezio Frontone e di Lucio Ceio Secondo contengono tutta una fantastica Africa. Inoltre, come si può facilmente verificare facendo una visita al Museo Vaticano, gli antichi italici eccellevano non solo nel dipingere gli animali ma anche nello scolpirli: una capra proveniente dalla Villa dei Papiri, un armonioso maiale di bronzo in corsa, oltre ad alcune teste di cavallo da Ercolano, costituiscono dei begli esempi di questo genere di arte. Per di più, come avveniva nei circoli di caccia di tempi successivi, l'amore per gli animali si mescolava curiosamente al gusto di vedere i medesimi brutalmente uccisi. La Casa dei Cervi di Ercolano deve il suo nome attuale a due gruppi di sculture riproducenti cervi assaliti dai cani. Si tratta di opere fatte con abilità e piene di tensione, ma è difficile essere d'accordo con l'esperto che li ha definiti ammirevoli esempi di gusto decorativo.
La natura morta nella pittura vesuviana
Fino alla fine dell'800 la pittura pompeiana fu studiata per quadri. La scienza antiquaria del 7-800 aveva studiato la pittura di Pompei, anzi l'aveva capita solo, come quadri. Questa tendenza si è poi sostanzialmente rovesciata da Mau in poi. Fu Mau che, nella sua storia dei sistemi decorativi della pittura pompeiana, studiò appunto quella pittura non più come quadri, ma come "primo stile", "secondo stile", "terzo stile", "quarto stile", vale a dire come sistemi decorativi. Nella definizione dello stile il quadro giocava una parte non più sostanzialmente rilevante; esisteva il quadro, ma come parte della parete. Per tutto questo secolo, sulla scia del Mau, è stato sempre così. A parte pochi studi, soprattutto di tradizioni iconografiche sull'insieme dei quadri come riflessi di un programma decorativo, nessuno più ha studiato il quadro in quanto tale. Questo, secondo me, soprattutto per quanto riguarda alcuni generi, ha determinato un impoverimento, perché il quadro per gli antichi aveva grandissima importanza. Diceva un famoso autore latino: "Nessuna gloria vi è nella pittura se non nei quadri". La pittura parietale era considerata artigianato, ma i famosi pittori Zeusi, Parrasio, Polignoto erano fondamentalmente pittori di quadri; nei grandi santuari i capolavori erano quadri, e i quadri della pittura di Pompei sono il riflesso di pittura su tavola, i cui autori non erano meno famosi di Rembrandt, Van Gogh, e altri; era vera pittura da cavalletto. Quindi dobbiamo rivalutare il fatto che nelle pareti pompeiane vi è il riflesso di un vero e proprio genere artistico, la natura morta. "Natura morta" è un termine moderno, postbarocco, del tardo Rinascimento, tradotto in molti modi diversi nelle lingue europee. Per gli inglesi è "still-life", cioè la vita ferma, tranquilla; per i tedeschi e per gli olandesi, "stil leben"; per gli spagnoli, la "naturaliza muerta" o "bodegàn". Gli antichi chiamavano le nature morte "xenia", "i doni ospitali", la frutta, le uova, la verdura, le semplici cose di campagna che il buon padrone di casa era solito inviare crude ai propri ospiti nelle loro stanze, perché potessero prepararsele quando volevano; un pò come si usa nei grandi alberghi moderni dell'America e dell'Asia, dove agli ospiti si serve un cestino con la verdura e la frutta. Vitruvio ci informa che il nome era passato a designare i quadretti dipinti con gli stessi oggetti. La conferma che gli antichi usassero effettivamente questo nome per la pittura di natura morta ci viene da un passo del retore greco di Lemno, Flavio Filostrato il Vecchio, della fine del II secolo d.C., il quale, descrivendo una galleria di quadri che lui ha ammirato a Napoli e che commenta per un gruppo di suoi giovani condiscepoli, definisce chiaramente come "xenia" due composizioni perdute, la cui descrizione corrisponde esattamente al genere che le pitture pompeiane raffigurano. Una di esse raffigurava, infatti, fichi, noci, pere, ciliegie, uva con miele, formaggi, e del latte con i vasi. L'altro genere rappresentava una lepre viva e una lepre morta, un'anatra spiumata, diversi tipi di pane, frutta fresca, castagne e fichi. La testimonianza di Filostrato è preziosa anche perché ci presenta il punto di vista critico di un intellettuale evidentemente informato di cose d'arte, e pure se cade circa un secolo dopo le pitture di Pompei, il suo giudizio potrebbe tranquillamente applicarsi ad esse, perché, come vedremo, questo genere aveva avuto poche trasformazioni dall'età ellenistica in poi. Quando Filostrato insiste, infatti, sulle qualità realistiche dei dipinti e sulla capacità della pittura di fermare sulla tela la bellezza fuggente del reale confondendo l'arte, la realtà e la sua rappresentazione, la sua valutazione non è, difatti, distinguibile da quelle delle fonti ellenistiche. Il suo passo è: "Perché non prendi questi frutti che sembrano fuoriuscire dai due cesti? Non sai che se aspetti anche soltanto un poco non li troverai più come sono ora, con la loro trina di rugiada?". Quindi questa "ut natura poesis", l'arte quasi come rappresentazione migliore della natura. La pittura greca dell'età arcaica e classica aveva sostanzialmente ignorato il tema della natura morta. Anche se l'abbiamo totalmente perduta, possiamo tranquillamente desumere dalle fonti e dal loro riflesso, la ceramica figurata, che l'immagine dipinta fu per i greci fondamentalmente l'immagine dell'uomo; la pittura greca d'età arcaica e classica è pittura antropocentrica. I piatti con le vivande, che troviamo sulle mense degli eroi nelle scene di banchetto della ceramica corinzia e attica, esistono, ma sono soltanto funzionali alla scena complessiva, nella quale il ruolo principale è giocato dall'uomo.
Una prima innovazione si manifesta verso la fine del V secolo a.C., quando su un vaso attico a figure rosse compare una panoplia d'armi isolate che allude all'eroe morto; invece di rappresentare l'uomo morto, ci sono le sue armi a mo' di metafora, di simbolo. E' lo stesso uso simbolico dell'oggetto che poi troveremo nelle rappresentazioni d'armi isolate della pittura funeraria greca; in Macedonia, in Puglia, e in Campania molto spesso sono rappresentate le armi isolate, che alludono alla gloria dell'eroe. In queste immagini sono sistematicamente usate come allusioni al valore del defunto, allo stesso modo di altri oggetti inanimati che compaiono nella ceramica coeva, come quell'alessandrina di Hadra, o quella opula di Gnazia. Troviamo maschere che alludono al teatro, strumenti musicali che alludono alla musica, specchi, ciste, ventagli e pantofole che simboleggiano la bellezza femminile; non sono fine a se stesse, alludono all'uomo. Un altro elemento che concorre al formarsi della natura morta antica è l'uso di dotare la tomba di un corredo di oggetti o di cibi per la vita dell'aldilà, gli oggetti come corredo per la morte. In quest'ambito si scopre che, da un determinato momento, i cibi (uova, uva, melograni vari), per loro natura deperibili, sono sostituiti dalle loro rappresentazioni in pittura, in terracotta e forse anche in legno e in cera. Non c'è dubbio che questo meccanismo della sostituzione simbolica fosse estesa ad altri ambiti rituali, in cui ricorreva l'offerta in effige, soprattutto quella del culto delle divinità, come mostrano le terrecotte di Locri fin dal V secolo a.C. Un altro esempio è la lastra corta della famosa Tomba dei Cavalieri, già imitata a Paestum, proveniente da Nola e conservata al Museo Nazionale di Napoli. Vi è rappresentata l'offerta per il defunto, una specie di altare con sopra due brocche di bronzo e un oinochòe d'argento, e sotto, in posizione assolutamente innaturale, due uova e un melograno. Sono rappresentate evidentemente come simboli; sono il corredo per il morto, allusioni all'eternità della vita post mortem: il melograno è il simbolo della vita ultraterrena, le uova, del potere rigeneratore della natura, del seme, della vita, ecc.
In questo periodo si è già formato sostanzialmente il genere. All'epoca di Aristotele esistevano già rappresentazioni di cadaveri di animali, che però erano considerate, e questa sarà sempre una caratteristica della divisione in generi dell'arte, arte di poco conto. In una recente mostra allestita al Louvre su Chardin, un grande pittore di nature morte, si è compreso che si pagava meno la pittura di natura morta. La più quotata era la pittura degli dèi, la pittura di Dio, poi seguivano la pittura storica, la pittura di paesaggi e ritratti, la pittura di paesaggio, e, all'ultimo posto, la pittura di natura morta. Ciò significa che è il soggetto, più che la qualità della rappresentazione artistica, che determina il compenso del pittore. In queste fonti sembra di assistere al passaggio, mai peraltro veramente risolto nella natura morta antica, da un originale rapporto delle cose con l'uomo, o meglio con la funzione che l'uomo ha loro attribuito in circostanze precise, ad una considerazione delle cose in sé, quali portatrici di valori estetici autonomi, come quando, "mutatis mutandis", nel dipingere il suo canestro di frutta dell'Ambrosiano di Milano, "Caravaggio", rilevava Roberto Longhi, "ha definitivamente sciolto il genere da secondi significati religiosi o filosofici, collocandolo sullo stesso piano della figura umana". Quando Caravaggio dipinge il suo canestro, ha dipinto una cosa che valeva come un Cristo morto, e quindi ha sciolto questo genere dal significato evidentemente religioso che sempre aveva avuto la natura morta precedente. Qualcosa del genere era successo anche nell'antichità; nel passaggio dal mondo religioso, dal mondo della sfera funeraria, alla rappresentazione di per sé, semplicemente estetica, come dice Aristotele, si era evidentemente consumato un passaggio, che è quello, se volete, della polis, quello della guerra persiana, di Sofocle, attraverso Socrate al mondo della commedia di Terenzio, in cui valgono i valori borghesi delle piccole cose. L'accento viene ora tutto posto sulla fedeltà della rappresentazione, sul realismo che è capace d'ingannare secondo un metro di giudizio che si era forse già instaurato alla fine del V secolo a.C., se ha qualche valore l'aneddoto di Plinio sugli uccelli che vanno a beccare gli acini dell'uva dipinta nel quadro di Zeusi, o l'altro famoso aneddoto della gara tra Zeusi e Parrasio, davanti al cui dipinto pendeva una tela: Zeusi cercò di sollevare con una mano la tela, ma, non accorgendosi che era dipinta, col suo gesto segnò la vittoria dell'avversario. Invece, dalla fine del IV secolo a.C. gli epigrammi ellenistici dell'Antologia Palatina, famosissima raccolta bizantina in cui erano confluiti tutti gli epigrammi dell'antichità in lingua greca, testimoniano anch'essi l'avanzare di questa tendenza. L'originale contenuto religioso si va sempre più illanguidendo, sia negli oggetti rappresentati sulle tombe sia in quelli dedicati come "ex voto" alle divinità, fino a diventare un puro pretesto se non si trapassa addirittura nello scherzo. Sicché la descrizione dell'oggetto finisce per prevalere nella sua autonomia sul senso del sacro. Così il bastone, i sandali, una bottiglia sudicia e una bisaccia consunta fanno da insegna alla tomba del filosofo Cinico; il bicchiere sta sulla tomba della vecchia ubriacona, un'elegante conchiglia a forma di nautilo è dedicata dalla fanciulla Seleni ad Afrodite, mentre alle ninfe, a Ermes, e a Pan, un pastore offre una focaccia di orzo e miele e un bicchiere di vino. Alle ninfe il viandante dava il corno col quale ha bevuto alla loro fonte, il giardiniere offre alle stesse dee i frutti di stagione, i contadini offrono ad Ermes e ad Eracle, custodi dei confini, mele e grappoli d'uva sia messi in bell'ordine sia disposti alla rinfusa. La fonte letteraria sottolinea la bellezza del fatto che gli oggetti siano confusi, la bellezza del disordine. A Ermes, protettore del colle coltivato del pascolo, caprai e ortolani insieme dedicano cavoli, latte e altri prodotti.
Quando la natura morta rivive nel Rinascimento, non si conoscono le pitture di Pompei, gran parte delle quali trae fondamento nelle descrizioni letterarie. Si conoscevano però queste raccolte bizantine, i passi di Filostrato, ed è straordinario come la natura morta abbia percorso strade simili a quelle antiche, anche assumendo significato spesso cristiano, totalmente diverso. Questi temi dell'Antologia Palatina sono gli stessi delle nature morte dipinte sulle pareti di Pompei, e alcune allusioni di carattere visivo, come la disposizione della frutta in ordine o alla rinfusa, o gli accostamenti di generi diversi (i prodotti del pascolo, i prodotti dell'orto) si riscontrano effettivamente nelle nostre nature morte; il che lascia ipotizzare che il poeta avesse presente delle composizioni pittoriche non dissimili da quelle pompeiane. Del resto, che questa cultura, in parte passata attraverso la mediazione dei poeti romani ma in parte ancora letta negli originali, fosse ancora, quattro secoli dopo, ben presente agli abitanti di Pompei, e naturalmente quando diciamo Pompei noi ne parliamo come di specchio del mondo romano, lo mostra per esempio una famosa iscrizione di parete, ritrovata a Pompei, che cita un famosissimo e molto imitato epigramma di Leonida di Taranto, in cui si racconta che tre fratelli dedicano a Pan le loro reti per uccelli, lepri, e pesci. L'epigramma si leggeva a Pompei ancora tre-quattro secoli dopo la sua stesura, e quindi c'era qualcuno a Pompei in grado di leggere gli originali e di capire la natura morta di quattro secoli prima. Se la Taranto di Leonida di Taranto e la Siracusa di Teocrito, altro grande scrittore di epigrammi, erano nella parte greca dell'Italia, il resto della penisola, gli etruschi, e in particolare il mondo romano, non doveva essere rimasto del tutto estraneo a questa cultura. L'ellenismo, lo sappiamo, è stato una grande cultura di koinè, una grande cultura comune, e vi sono degli indizi, come la "Satura Lanx", il piatto colmo di cibi, il piatto colmo di frutta che si pone all'origine della satira romana, o i parassiti ghiotti di Dossenno, il personaggio goffo dell'Atellana, che bastano a farci intuire che anche Roma, e soprattutto la Campania, terra d'incontro fra queste culture, devono aver sviluppato, in parte autonomamente ma in parte dalla Magna Grecia, i primi elementi di base, cioè il cibo, la frutta, come espressione artistica e letteraria per l'elaborazione artistica della natura morta. La seconda guerra punica e la vittoria su Annibale segnarono un radicale mutamento dei costumi di Roma. La considerazione del cibo nella società romana sembra essere stata, anche per quest'aspetto, uno spartiacque, se ancora all'epoca della vittoria di Pirro nel pieno III secolo a.C. di Manlio Curio Dentato, trionfatore dei sanniti, si poteva narrare, seppure con tutta l'esagerazione di una "laudatio temporis acti", che il piatto di questo signore consisteva in ortaggi che egli stesso raccoglieva nel suo orto e che si preparava da solo. Dopo Zama, l'aristocrazia romana che aveva trionfato su Annibale, Scipione l'Africano e il suo circolo per intenderci, impose uno stile di vita del tutto nuovo e ispirato alle ricercatezze del mondo ellenistico. Non è perciò un caso che il suo poeta simbolo, Ennio, traducesse in latino il poema intitolato "edilphogetica", il dolce mangiare, il mangiare bene, un manuale di gastronomia, che sembra scritto per una corte macedone o epirota e che potrebbe fare da commento ai piatti italioti a base di pesce. Traduceva Ennio: "Come a tutte superiore la murena di Clopea, i suoi moscardini migliori sono quelli di Enos, e piena è l'ostrica ruvida di Abido; il pettine provenga da Mitilene o da Brindisi, da Ponto, presso Ambracia, e buono è il sarago, prendilo se grosso; il pesce porco migliore sappi che è quello di Taranto. Cerca di comprare l'eloe di Sorrento e il glauco di Cuma. . .Vi è poi il melanuro, il tordo, la merula, il polpo di Corfù, la grossa calvaria e il fantasma di mare, la polporina, i muricelli, il murice e anche i dolci ricci". Quindi si presenta come una lista di pesci, sembrano i consigli per un cuoco o per un padrone di casa che deve ordinare al suo cuoco di preparare una cena a base di pesce, anche se Plauto ci informa che a Roma era ormai impossibile affittare formalmente un cuoco al "forum caprinum", dove si affittavano i cuochi. Doveva essere ancora difficile procurarsi a Roma un polpo di Corfù, o le ostriche di Abido, che sono sulla costa dell'Ellesponto, ma già gli Scipioni stavano costruendo le loro prime ville del Golfo di Napoli, e qui doveva essere disponibile l'elogue di Sorrento e il glauco di Cuma, una città che fin dal V secolo a.C. aveva fatto delle cozze, allevate nelle sue lagune, addirittura l'emblema delle proprie monete. Notate che nel brano citato vi sono due ordini di frutti di mare o di pesci ricordati: quelli della costa macedone (Abido, Enos, Mitilene, ecc.), e poi corre un'interpolazione, come se Ennio avesse aggiornato un poemetto scritto per una certa corte inserendo due o tre linee di frutti di mare e di pesci che i romani potevano tranquillamente trovare davanti alle loro ville, a Taranto, Sorrento, Cuma, ecc.
Se la gastronomia ha certamente fatto parte della cultura di tutte le corti ellenistiche, a molte di esse dev'essere stata comune anche la rappresentazione artistica delle vivande. Pergamo dev'essere stato uno dei centri artistici in cui sembra essersi avuto un particolare sviluppo della natura morta dipinta. Lavorava, infatti, molto probabilmente su commissione della corte di Pergamo l'anonimo maestro che creò verso la metà del III sec. a.C. l'originale da cui deriva il quadro di Ercole e Telefo della famosa basilica di Ercolano, nella quale egli inserì, accanto ad Arcadia seduta, una vera e propria natura morta: un cesto di vimini colmo di frutta alludente alla fertilità della regione. E di Pergamo era anche un altro artista, del II sec. a.C., che, riprendendo i temi delle ripolografie, dipinse tra l'altro una stanza dal pavimento non spazzato ma cosparso dei rifiuti di un banchetto: ossa, valve di molluschi, gusci di noce. Al centro di questo pavimento era collocato un emblema con le colombe posate su un bacino pieno d'acqua, un motivo non lontano dalla natura morta in senso stretto. Entrambi i motivi ci sono documentati da varie repliche di età romana che mostrano la celebrità a cui giunsero. La combinazione tra lo sporco del pavimento e l'eleganza del tema delle colombe restituisce il senso di una pittura che diventava sempre più laica e sofisticata, in cui la ricerca artistica si esprimeva anche nella scoperta di temi sempre più evasivi, eleganti e disimpegnati. Non conosciamo purtroppo il centro artistico a cui attribuire l'originale del quadro pompeiano con Ercole e Onfale. L'ultima figura sulla destra è un vecchio a cui si appoggia Ercole, che ha in grembo un trionfo di frutta; una scena che molto probabilmente risale all'originale perduto; potrebbe anche essere di scuola pergamena considerando la muscolatura dell'Ercole, così come si può supporre che risalga all'originale il bel cesto di frutta che troneggia al centro del quadro di Peritò e i centauri. Tutta la composizione è giocata sul senso della natura morta: il cesto è il regalo di nozze che il centauro sta offrendo a Peritò, esattamente calcolato all'incrocio delle aste oblique dei due personaggi principali. I centauri sono il popolo delle montagne e dei boschi: offrono la frutta che raccolgono nei loro boschi, un grappolo di uccelli legati per le zampe, cacciagione; è la natura che offre il suo contributo alla civiltà, alla cultura greca.
Un altro luogo che giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo della natura morta fu naturalmente Alessandria d'Egitto, il maggior centro di cultura scientifica dell'ellenismo. Sotto il patronato della dinastia dei Tolomei, il museo e le grandi biblioteche, già eredi delle scienze plurimillenarie dell'Egitto faraonico (uccelli e frutta compaiono nelle rappresentazioni funerarie delle tombe egiziane da migliaia d'anni prima di Cristo), si fecero continuatori dell'enciclopedismo naturalista aristotelico sugli animali, le piante, le rocce, da cui scaturirono trattati di medicina, di botanica, di veterinaria, ma certamente, data la presenza di una corte fastosa, anche di gastronomia. La conseguenza nel campo artistico dev'essere stata il formarsi di un'iconografia naturalistica di altissimo livello, che ha reso possibile opere di grande impegno, come quella famosa veduta di fondo marino con pesci, crostacei, e molluschi, da cui derivano i famosi mosaici pompeiani con pesci di primo stile. Questi non potrebbero chiamarsi "nature morte" nel senso tecnico moderno del termine, sono però essenziali per capire l'ambito da cui derivano le vere nature morte con pesci, come il mosaico con molluschi, pesci e uccelli che troviamo, combinato con i temi delle anatre nilotiche e del gatto che afferra il pollo, al centro del pavimento dell'ala XXX nella Casa del Fauno a Pompei. E' una composizione drammatica o drammatizzata perché vi è rappresentata al centro la lotta del polpo e dell'aragosta, come se fosse un duello drammatico con i comprimari, la costruzione di un'azione tragica. E' una natura viva, non una natura morta; non sono i pesci da bancone, anche se molti di questi poi ritornano morti in altre composizioni dove l'origine egiziana è chiarissima non solo per il tema del gatto ma anche per la rappresentazione delle anatre nilotiche con il loto nel becco.
Se tocca ai mosaici seguire l'introduzione della natura morta a Pompei all'epoca del primo stile, la comparsa nella pittura parietale coincide con il secondo stile pompeiano nella prima metà del I sec. a.C. Alcune delle più belle nature morte sono proprio di questo periodo. Talora si tratta di pittura di pittura, cioè la rappresentazione di veri e propri quadretti ("pinaces") muniti dei loro sportelli protettivi appesi alle pareti degli edifici, la cui rappresentazione illusionistica è il tema maggiore di questo stile. Un esempio molto istruttivo di una galleria di quadri di quest'epoca è la pinacoteca della casa 162-4, purtroppo perduta, ma di cui abbiamo una riproduzione ottocentesca in disegno. Il pittore aveva dipinto una parete di quarto stile, una vera e propria galleria di nature morte. Tanto più interessante, giacché sembra andare in senso opposto, è perciò l'uso della natura morta come raffigurazione di elementi reali non inquadrati all'interno della quinta architettonica del secondo stile. Un'altra categoria di nature morte nel secondo stile non è nel quadro ma è libera sulla parete. Liberi dalla cornice, i cesti di frutta e la cacciagione tornano come in un epigramma ellenistico alla loro funzione di offerta, decorando quei portali di santuari che costituiscono il tema architettonico più frequente. Un frammento pittorico pompeiano conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli proveniente dalla prima casa a nord di Fabio Rufo rappresenta l'ingresso di un santuario, una grande scenografia di secondo stile in cui alle porte e alle pareti sono "appesi" animali e cose. Quindi la rappresentazione ricalca un epigramma ellenistico, del tipo 'Un pastore dedicò gli animali che aveva preso alla rete: 'A te, Dioniso, dedico quelle tali cose''. Il soggetto di queste raffigurazioni diventa così l'evocazione letteraria.
Altra occasione per la natura morta è in questa fase del I secolo a.C. la rappresentazione di ghirlande. La matrice ellenistica di queste rappresentazioni è confermata da immagini musive più antiche, per esempio le ghirlande con frutta delle foglie del vestibolo della Casa del Fauno. In queste nature morte di secondo stile si raggiunse forse il punto più alto nella breve storia del genere nelle città vesuviane. Traspare, infatti, una qualità di rappresentazione realistica ancora tutta ellenistica, ma con qualche differenza. Questa cacciagione, questi pesci accostati a vassoi d'argento, come a Boscoreale, non sono più, se non nella funzione di qualche poeta novus, i doni dei cacciatori e dei pescatori degli epigrammi di Leonida di Taranto e di Teocrito, ma agli occhi dei ricchi romani che vivevano in queste stanze, come quelle di Oplontis, esse sono ormai la materia prima preziosa della suppellettile dei banchetti, la cena, il rito sociale divenuto fondamentale per la società romana. Orazio scrive: "Bene vivit qui bene cenat", cioè la misura del bene vivere è un buon pranzo, un buon banchetto. Per alcuni di questi ricchi gli stessi cibi erano tanto più significativi perché non erano stati comprati al mercato. Una testimonianza importante di queste culture furono le leggi che vietavano le cose preziose, con cui si cercò invano di arginare le crescenti spese per i banchetti. Se nel 161 a.C. la spesa prevista per un pranzo comune era di 10 sesterzi e per un pranzo festivo 100 sesterzi, ottanta anni dopo, nell'81 a.C., si era dovuto moltiplicare per tre il limite di quelle leggi. A dispetto delle severe raccomandazioni di Catone e della sobrietà delle parche ricette di verdure, le cose andavano nella realtà assai diversamente, se un pranzo, anche improvvisato su due piedi da Lucullo per due ospiti, non costava meno di 200.000 sesterzi. Nessuno, se poteva, si contentava più del cibo di una volta. La zia di Varrone (I sec. a.C.) ricavava dalla sua villa, in cui allevava pollame di pregio, il doppio della rendita di un podere tradizionale, e lo stesso Cesare, che pure aveva costituito una polizia armata per sequestrare i cibi vietati dalla legge licinia, dava poi personalmente un pessimo esempio spendendo milioni di sesterzi per un banchetto pubblico per il pontificato, per il quale aveva fatto venire ostriche da Taranto, in barili pieni di acqua di mare. Lo stesso pubblico erario sanciva in un certo senso quell'ideologia allorché tesaurizzava nelle riserve oro dello Stato non l'oro, ma, come se fosse stato oro e argento, centinaia di chili di "lapirticium" della Siviglia, una spezia per condire il cibo che aveva fatto la fortuna di Cirene. E' questo il genere di cultura di lusso che permetterà all'ingegnoso Caio Sergio Orata, cavaliere romano, di diventare famoso e ricco per aver inventato tra l'altro il modo di allevare nel Lucrino e negli altri specchi d'acqua flegrei orate, spigole e ogni altra prelibatezza, e al generale di Cesare, quello famoso del De Bello Gallico, di fornire a credito al suo capo, a Cesare, per un banchetto di trionfo, migliaia di lamprede. Un'osservazione sui servizi da mensa di questo periodo conferma facilmente i tanti aneddoti sulle murene, le triglie, i cefali, e gli altri pesci preziosi che l'aristocrazia romana, Ortenzio in testa, dimostrano di conoscere così bene, anzi di amare e di vezzeggiare non più come cibo talvolta ma come cagnolini che accorrono al richiamo del padrone. I ritrovamenti archeologici dei servizi da mensa, il tesoro di Boscoreale, il tesoro del Menandro, testimoniano l'elaborata ricercatezza della contemporanea produzione dei "cellatores argentari" che prevedevano perfino sofisticati tegami fatti a posta per cucinare e servire il pesce; ci sono le forme per cucinare le lumache, gli speciali cucchiaini (le "cocleae"). E come in un gioco di specchi la natura morta è raffigurata sui più raffinati oggetti da banchetto, le coppe del tesoro di Boscoreale, sui vasi di bronzo, e perfino sui pettini delle signore. Le oltre trecento nature morte pervenuteci dalle città vesuviane appartenenti agli ultimi ottant'anni di storia della vita della città dispiegano un repertorio abbastanza ampio di soggetti, accomunati fondamentalmente dal concetto dell'"utilitas" per la cena, e in generale per le esibizioni di lussuria, più che dal puro bello, come indica la mancanza di quadri con fiori. Pur avendo ovvia affinità con altri generi di rappresentazione, per esempio la pittura da giardino, gli animali vivi della natura morta se ne differenziano soprattutto perché sono visti come cibo, come cacciagione, prossimi a diventare cibo, anche quando, epigrammaticamente ignari, sono intenti a mangiare frutta e verdura. La pernice mangia del cibo non sapendo che diventerà cibo a sua volta; è il tema quasi filosofico dell'animale che mangia senza sapere che sarà mangiato. Un'altra categoria sono i commestibili vegetali e i derivati da essi. Ci sono poi gli oggetti per la mensa e la dispensa (anfore, vasellame metallico, fittile e vitreo, sostegni, canestri e statuette), il denaro e gli strumenti scrittori. Questi ultimi sono gli unici che sfuggono alla definizione data di "xenia": non è più la frutta e la roba da mangiare, ma la mescolanza che spesso si ha nei quadri con i temi precedenti (il denaro e l'oggetto per scrivere con la frutta) è perché le nature morte rispondono al tema del bello e dell'utile.
Quando osserviamo questi quadretti pompeiani dobbiamo sempre ricordare che, a differenza di una natura morta moderna, essenzialmente opera originale in cui il pittore ha aggiunto qualcosa di proprio al genere gareggiando con quello degli altri e sperimentando nuovi accostamenti di forme e colori, le nature morte vesuviane sono copie di originali. Questo spiega la qualità generalmente mediocre dell'esecuzione, da cui deriva la difficoltà di identificarne i soggetti, soprattutto animali. Non ci possiamo attendere da questi quadri l'esattezza anatomica di una tela di un maestro fiammingo. Si spiega così anche la ripetività o monotonia delle rappresentazioni, che ci permette di immaginare gli originali da cui sono tratte.
Quadri Mitologici delle case romane
.In uno spazio di tempo di un centinaio d’anni, più o meno tra il 30 a.C. e la fine di Pompei, la variazione del modo di dare forma figurativa, di comporre i quadri, ci permette di gettare uno sguardo sulla mentalità di questa committenza, la quale nel I secolo a.C. si compone sostanzialmente di classi sociali alte che, facendo decorare la casa con pitture e pavimenti, segnalano il modo di vivere di chi vi abita. Con la fine del I secolo a.C. e poi con le due o tre generazioni che conosciamo dalle testimonianze dei centri vesuviani, rileviamo un notevole cambiamento nella committenza, che da questo momento compare oltre che tra i ceti più elevati anche tra le classi economicamente e socialmente inferiori. Naturalmente, incontriamo sempre personaggi liberi che possiedono la casa decorata, ma non hanno più l’esigenza di strutturare in maniera gerarchica la decorazione della loro casa, perché essa si presta a riti sociali che distribuiscono gerarchicamente un pubblico di persone dipendenti dal padrone di casa rispetto ad un pubblico di amici o giullari. Questa è la premessa per capire quali sono i soggetti rappresentati dai dipinti delle case pompeiane. Ad esempio, sui quadri conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli raffiguranti la liberazione di Andromeda da parte di Perseo, che aiuta l’eroina a scendere dalla roccia alla quale era legata, di recente sono emerse delle novità nel campo degli studi che hanno rivoluzionato il modo di “guardarli”. Prima dello studio condotto una decina d’anni fa da un archeologo tedesco, Bernard Smartz, queste pitture erano state sempre considerate copie di dipinti greci eseguiti nel IV secolo a.C., durante il periodo tardo classico, da un famoso pittore, Nicia, a noi noto solo grazie ai testi. Smartz ha provato a “guardarli” diversamente, giungendo a delle conclusioni, credo, inaspettate e molto interessanti. La sua versione è essenzialmente questa: in questo quadro è tutto già successo. Normalmente, nelle composizioni di epoca classica o tardo classica le storie sono narrate in modo da condensare tutto il significato attraverso un’unica scena, che rappresenta il momento più emozionante, più ricco di pathos, della storia stessa, e che accenna a un prima e un poi che si suppone l’osservatore conosca. Qui, invece, l’eroina, legata alla roccia e minacciata da un mostro marino, è già stata liberata da Perseo, che tiene nella mano sinistra la testa della medusa e la piccola arma con cui l'ha uccisa; il mostro marino che faceva la guardia ad Andromeda è già a terra morto. Perciò, la grande novità del lavoro di questo studioso tedesco è aver messo in rilievo il fatto che questo modo di raccontare per immagini una storia non attraverso un momento culminante più denso di pathos, ma nel momento in cui tutto è già avvenuto, però, al tempo stesso, mettendo didascalicamente in fila tutti gli elementi che compongono la storia (appunto la medusa che accenna all’impresa di Perseo, il mostro marino che la custodiva), non è concepibile, e in questo io sono del tutto d’accordo con la sua teoria, in epoca classica e tardo classica, alla quale risalirebbe l’originale di Nicia, verso la seconda metà del IV secolo a.C. Questa che apparentemente è un’osservazione di dettaglio, secondo me invece, serve a scatenare una serie di reazioni a catena, che in primo luogo c’inducono ad osservare questi quadri non come copie di originali d’alto status, non come oggetti che sono presenti perché riproducono un’opera d’arte nobile in sé, indipendentemente da ciò che rappresenta, ma piuttosto come oggetti prodotti nell’epoca dalla quale ci sono giunti, contrariamente a ciò che sostengono i manuali universitari, che collocano questi quadri in epoca ellenistica. Anzi, potremmo seguire i risultati dello studio di Smartz per cercare di capire per quale motivo in età augustea la storia si racconta in questo modo. Una prima deduzione da fare è che, se questi quadri hanno “ingannato” il fior fior degli studiosi di pittura antica, la ragione va ricercata non in un’incapacità da parte loro, ma nel fatto che sono pervasi da un notevole neoclassicismo formale, che, comunque, pervade il clima artistico dell’età augustea, durante la quale i decoratori abbandonano le prospettive e le scenografie del II stile a vantaggio di una decorazione parietale molto più statica. La stessa metodologia la possiamo leggere nelle figurazioni prima citate e in altri casi. Ad esempio, un quadro, conservato al Museo Nazionale di Napoli, che rappresenta probabilmente un mito affine a quello di Perseo, conferma che in età repubblicana, precedente all’età augustea cui risale il quadro dei due eroi, il modo di raccontare una storia è quello raffigurato qui: tutto deve ancora succedere, siamo nel momento della lotta, perché l’eroe in primo piano deve lottare con il mostro marino in basso a destra, e l’eroina è ancora legata alla roccia. Sembra di poter affermare che in età augustea, negli ultimissimi anni del I secolo a.C., assistiamo ad una notevolissima creazione d’immagini, un travestimento mitologico di una mentalità che sembra affidare a comportamenti eroici, in questo caso la figurazione dell’impresa di Perseo, un ruolo importante nella raffigurazione della casa, dando luogo ad una svolta rispetto all’età precedente. Lo stesso procedimento provato sui quadri precedenti è stato tentato dallo Smartz sul quel quadro famosissimo con Teseo e l’imperatore proveniente dalla basilica di Ercolano, uno dei primi quadri ritrovati nel ‘700 ad Ercolano e ora al Museo Nazionale, considerato anch’esso la copia di un originale tardo classico. Lo studioso vi nota due particolari iconografici, prima di tutto nella storia di Teseo, che libera i giovani ateniesi ed è circondato da bambini, non da ragazzi più grandi. Il gesto di gratitudine dei bambini nei confronti dell’eroe è espresso attraverso il bacio della mano. Fa da pendant a questo quadro quello rappresentante le nozze di Peritò, in cui il gesto del bacio della mano, che i bambini facevano a Teseo, è fatto dai centauri. Ancora una volta, grazie ad un’analisi particolareggiata, è stato messo in rilievo come il gesto del bacio della mano sia totalmente estraneo alla mentalità greca classica e tipica del mondo periferico (è famoso il bacio della mano di Achille da parte di Priamo, che va a chiedere il riscatto del porto di Ettore). Difficilmente un pittore d’epoca classica avrebbe rappresentato un soggetto così estraneo alla mentalità e all’iconografia greca per significare, ad esempio, il gesto di gratitudine dei fanciulli ateniesi nei confronti di Teseo. Si sottolinea, inoltre, come nel periodo augusteo furono coniate delle monete in cui molto spesso il barbaro è così rappresentato. Anche in questo caso dovremmo, per così dire, sgombrare la testa da questa nostra abitudine a considerare sempre questi quadri come copie di quadri più antichi, procedimento che nasce soprattutto per la scrittura, ma che per la pittura non è testimoniato con la stessa coerenza. Un’abitudine che in questo campo risale alla scienza tedesca dell’Ottocento è quella di non essersi mai posti il problema se si trattassero veramente di copie, e di avere accettato pedissequamente questa concezione. In realtà dovremmo considerarle creazioni eclettiche dell’età augustea, realizzate in quell’epoca, naturalmente su schemi più antichi, ma rispondendo a determinate esigenze della mentalità del tempo. In altri quadri vediamo Teseo che abbandona Arianna perché chiamato da Atena a fondare Atene, così come nell’epopea virgiliana Enea abbandona Didone perché chiamato a fondare Roma. Esiste il sospetto che queste figure eroiche adombrino la figura di Augusto come rifondatore di Roma. Ciò è molto importante se dobbiamo considerare tali pitture travestimenti mitologici di una mentalità contemporanea. A parte tutto, dal momento che originariamente erano collocati in modo da dirigere lo sguardo verso la parete di fondo, certamente non sono copie nel senso vero della parola, perché sono stati sottoposti ad una serie di adattamenti funzionali alla loro nuova ambientazione nella casa. I mosaici, conservati al Museo Nazionale tranne uno che è in situ a Pompei, raffiguranti la lotta di Teseo con il Minotauro, servono a sottolineare che la tradizione figurativa pre-augustea, e quella successiva fino alle soglie dell’impero, non è raccontare la storia finita con tutti i suoi elementi messi in fila uno accanto all’altro, ma scegliere il momento più ricco di pathos che condensa un prima e un dopo. In un mosaico la lotta col Minotauro è inserito in un pavimento che raffigura il Labirinto, che si presenta in età imperiale in una versione che già si avvia verso il romanzato, quella della storia d’amore tra Arianna e Teseo, in quanto, in questo caso, è rappresentato il momento in cui Arianna sta consegnando a Teseo il filo che lo aiuterà a uscire dal Labirinto, a dimostrazione del fatto che, nell’ambito delle rappresentazioni, il clima eroico dell’età augustea, nel corso dell’età imperiale, diventa più laico e mondano, per via della mutata committenza culturalmente meno esigente; i personaggi rimangono gli stessi, ma le storie sono stravolte dal punto di vista iconografico. Così Perseo e Andromeda sono raffigurati come una qualunque coppia di amanti, riconoscibili solo per l’attributo iconografico della testa di Medusa che Perseo regge sulle spalle e che in alcuni quadri si riflette nell’acqua; la storia ha ormai cambiato completamente clima e si avvia verso narrazioni che, secondo me, non hanno più nulla dello spirito eroico originale. L’archeologia conferma l’emergere di una committenza che, nel caso di Pompei, è stata sempre legata alle conseguenze del terremoto, quindi all’impoverimento e al cambiamento della popolazione all’interno della città, ma che, in realtà, fa parte di un fenomeno generale molto più vasto, sicché, nell’arco di tre generazioni, si assiste a un cambiamento del clima che si respira all’interno di una casa romana media. Essa non è più la casa repubblicana dove il “dominus” riceve i suoi clienti o i suoi uguali, ma il luogo destinato all’accoglimento di amici, in cui si vive indipendentemente da quelle funzioni di gerarchia sociale che caratterizzavano la casa repubblicana. In un quadro si intravede la barca di Teseo che si allontana, mentre in primo piano è la scena lacrimevole della fanciulla abbandonata; i personaggi restano invariati, ma il clima è molto cambiato rispetto al clima eroico delle raffigurazioni precedenti. La barca sullo sfondo serve solo a far capire l’identità della fanciulla in primo piano, che altrimenti potrebbe essere scambiata per un’eroina qualsiasi. Una versione della storia di Anteone che guarda Diana che si fa il bagno non accenna minimamente alla punizione divina che costringe Anteone a spiare Diana, ma trasferisce la narrazione in un’atmosfera con connotazioni erotiche, che non ha nulla in comune con le rappresentazioni precedenti. Un’altra storia che cambia di clima è quella di Polifemo e Galatea. Un quadro rappresenta Polifemo, in piedi sulla roccia, che scaglia il macigno contro la nave di Ulisse sempre più lontana. Ancora in età augustea, la storia è inserita in una composizione più grande che ne scioglie la narrazione rispetto all’esempio di prima. Polifemo, ritratto con la lira in mano, è diventato una specie di poeta e consegna all’amorino la lettera per Galatea. Anche in questo caso, il clima si fa molto più narrativo che in precedenza. Una versione, recentemente riesposta al Museo Nazionale di Napoli insieme all’ex collezione pornografica, raffigura Polifemo e Galatea come una coppia di amanti; Polifemo è riconoscibile solo dall’ariete e dal flauto. La caduta di Icaro, dipinta nella Villa Imperiale di Pompei, in cui si riconosce il padre che vola in primo piano con le ali ancora aperte, e, a terra, Icaro, in età imperiale, a differenza delle altre storie che continuano ad essere rappresentate seppur con vari cambiamenti, non è quasi più rappresentata: ce ne rimangono soltanto due esempi, evidentemente perché mal si adattava al cambiamento di clima cui si prestarono le altre storie. Negli anni 60 del I secolo d.C. la pittura romana comincia a “morire”. Gli spazi riservati all’imperatore sono rivestiti non più di pittura, ma di marmo. In quel momento, la committenza medio-bassa non aveva più la possibilità di imitare in poco tempo la committenza più alta, perché nel frattempo l’imperatore si era dato al lusso dei materiali. Non a caso le pitture successive, come quelle di Ostia, sembrano pitture di Pompei attardate, perché nel momento in cui viene a mancare la grossa domanda di una committenza economicamente e socialmente molto forte, le botteghe dei pittori abbassano il livello qualitativo delle loro opere, che spesso si riducono a sterili ripetizioni. Questa precisazione ci porta a concludere che al committente romano fosse ben chiara la diversa importanza delle pitture, alcune delle quali di status altissimo, come i quadri di Apelle nel Foro di Augusto, che evidentemente erano richieste in contesti diversi secondo la loro natura.
Storia di Pompei
Pompei, in latino Pompeii, ha origini antiche quanto quelle di Roma: una migrazione di abitanti dalla Valle del Sarno, discendenti dai mitici Pelasgi, formò un primitivo insediamento ai piedi del Vesuvio: forse non un abitato vero e proprio, più probabilmente un piccolo agglomerato posto all'incrocio di tre importanti strade, ricalcate in epoca storica dalle vie provenienti da Cuma, Nola, Stabia e da Nuvkrinum.
Passaggio obbligato tra nord e sud, Pompei divenne preda per i potenti stati confinanti. Fu conquistata una prima volta dalla colonia di Cuma tra il 525 e il 474 a.C. Strabone riporta che Pompei fu unita alla dodecapoli (l'insieme delle dodici città etrusche più importanti) sotto il controllo di Nuvkrinum, notizia che alla luce dei recenti scavi diventa sempre più attendibile. Nell'area del tempio d'Apollo e presso le Terme Stabiane sono stati rinvenuti numerosi frammenti di bucchero, alcuni con iscrizioni nucerine in grafite; sempre nella zona delle Terme, inoltre, è venuta alla luce una necropoli del VI secolo a.C.
Le prime tracce di un centro importante risalgono al VI secolo a.C., anche se in questo periodo la città, ancora piuttosto piccola, sembra ancora un'aggregazione di edifici piuttosto disordinata e spontanea.
La battaglia persa dagli Etruschi nelle acque di fronte a Cuma contro Cumani e Siracusani (metà del V secolo a.C.) portò Pompei sotto l'egemonia dei sanniti. La città aderì alla Lega nucerina, una confederazione che comprendeva Nuceria Alfaterna, Ercolano, Stabia e Sorrento, e utilizzò l'alfabeto nucerino che si basava su quello greco e su quello etrusco. Probabilmente risale a questo periodo la fortificazione dell'intero altopiano con una cerchia di mura di tufo che racchiudeva oltre sessanta ettari, anche se la città vera e propria non raggiungeva i dieci ettari d'estensione.
Fu ostile ai Romani durante le guerre sannitiche. Una volta sconfitta, divenne alleata di Roma come socia dell'Urbe, conservando un'autonomia linguistica e istituzionale. È del IV secolo a.C. il primo regolare impianto urbanistico della città che, intorno al 300 a.C., fu munita di una nuova fortificazione in calcare del Sarno.
Durante la seconda guerra punica Pompei, ancora sotto il controllo di Nuceria Alfaterna, rimase fedele a Roma al contrario di Capua e di molte altre città campane, e poté così conservare una parziale indipendenza.
Nel II secolo a.C. la coltivazione intensiva della terra e la conseguente massiccia esportazione di olio e vino portarono ricchezza e un alto tenore di vita: basterebbe ricordare il pregio di alcuni edifici e il loro lussuoso arredamento. La Casa del Fauno, ad esempio, può rivaleggiare in ampiezza (quasi 3000 m²) persino con le più famose dimore reali ellenistiche.
Allo scoppio della guerra sociale (91 a.C.) Pompei fu ostile a Roma, ma fu impossibile resistere alla sua forza militare: nell'89 a.C. Silla, dopo aver fatto capitolare Stabia, partì alla volta di Pompei, che tentò una strenua difesa rinforzando le mura cittadine e avvalendosi dell'aiuto di un gruppo di celti capitanati da Lucio Cluenzio. Ogni tentativo di resistenza risultò vano e ben presto la città cadde ma, grazie all'appartenenza alla lega nucerina, ottenne la cittadinanza romana e fu inserita nella Gens Menenia.
Nell'80 a.C. entrò definitivamente nell'orbita di Roma e Silla vi trasferì un gruppo di veterani nella Colonia Venerea Pompeianorum Sillana. L'assegnazione di terre ai veterani avvenne a danno delle gentes che avevano più aspramente avversato Silla. Ciò nonostante, le vicende politiche e militari non influirono in maniera determinante sul benessere e sull'intraprendenza commerciale dei pompeiani, volta soprattutto all'esportazione dei vini campani che interessava zone anche molto remote. Per la salubrità del clima e l'amenità del paesaggio la città e i suoi dintorni costituirono anche un piacevole luogo di villeggiatura per alcuni ricchi Romani, e anche Cicerone aveva un suo fondo.
Le fonti sono piuttosto avare di notizie sulla vita di Pompei nella prima età imperiale. Solo Tacito ricorda la rissa tra Nucerini e Pompeiani del 59 d.C. nell'anfiteatro di Pompei, che spinse i consoli a proibire per dieci anni ogni forma di spettacolo gladiatorio[3]. Il 5 febbraio del 62 d. C. la città venne poi colpita da un forte terremoto.
Le origini e il periodo osco, greco ed etrusco
Le prime testimonianze di vita, seppur scarse, nel territorio di Pompei, risalgono alla fine del IX secolo a.C., quando il popolo degli Opici, seppur in forma ancora non stanziale[2], occupa il territorio in posizione strategica su un pianoro dall'altezza di quasi trenta metri, formatosi in seguito ad una colata lavica del Vesuvio[3], dalle pareti scoscese a picco sul mare, con veduta su tutto il golfo di Napoli e nei pressi della foce del fiume Sarno, ottima riserva di acqua, visto la mancanza di sorgenti in zona[4].
I primi insediamenti stabili risalgono invece intorno all'VIII secolo a.C., ad opera degli Osci[2]: questi fondano cinque villaggi nella zona, da cui deriverebbe anche il toponimo della città[5], i quali, intorno al VI secolo a.C., si riuniscono in un solo agglomerato, cinto di mura e a controllo di un importante asse viario; iniziano anche i primi scambi commerciali via mare, con la costruzione di un piccolo porto situato nei pressi della foce del fiume[6]. L'abitato osco è da riconoscersi nelle VII e VIII degli scavi di Pompei[7]: questo è stato definibile grazie agli studi stratigrafici effettuati al di sotto delle costruzioni di epoca sannitica e romana[7], durante i quali sono stati ritrovati frammenti di ceramica per lo più appartenenti a necropoli con tombe di tipo a fossa[2].
Con l'arrivo dei Greci in Campania, che fondano la colonia di Pithecusa sull'isola d'Ischia, tra il 780 ed il 770 a.C., e quella di Cuma, intorno al 740 a.C.[2], anche Pompei, pur non venendo mai conquistata militarmente, entra sotto l'orbita del popolo ellenico; la costruzione più importante di questo periodo è quella del Tempio Dorico: questo non viene edificato nei pressi del centro, ma in posizione più isolata, in quello che poi diventerà il Foro Triangolare, poiché l'intenzione dei greci non è quella di stabilirsi definitivamente a Pompei, ma semplicemente controllare le strade ed il porto[6]; nello stesso periodo inoltre viene introdotto il culto di Apollo[8]. Nel 524 a.C., nella pianura campana, si assiste all'arrivo degli Etruschi, che fondano Capua[9]: questi alla ricerca di un collegamento con l'entroterra si stanziano anche nella zona di Pompei, trovando nel fiume Sarno la via di comunicazione tra il mare e l'interno[10]; come per i Greci, anche gli Etruschi non conquistano militarmente la città, ma si limitano semplicemente a controllarla: in questo periodo infatti Pompei gode di una sorta di autonomia. Sotto gli Etruschi viene costruito un primitivo foro, che risulta comunque essere una semplice piazza adibita a mercato, viene edificato il tempio di Apollo, nel quale sono ritrovati anche frammenti di ceramica di bucchero[2], diverse case vengono dotate del cosiddetto atrio tuscanico, tipico di questo popolo, e vengono fortificate le mura[11].
Dal 474 a.C., momento della sconfitta degli Etruschi da parte dei Cumani[11], al 424 a.C. Pompei torna nuovamente sotto l'influsso dei Greci[3]: viene restaurato il tempio di Apollo ed il tempio di Giove, sono rinforzate le mura nel tratto compreso tra porta Ercolano e porta Vesuvio e viene fondato un nuovo nucleo abitativo, riconosciuto nella regione VI[12]; su quest'ultimo punto gli archeologi hanno espresso pareri discordanti: alcuni sostenevano che l'aspetto della città fosse rimasto immutato fino all'arrivo dei Sanniti, mentre grazie agli studi stratigrafici condotti di Amedeo Maiuri, si è venuto a conoscenza che il quartiere era protetto da mura greche ed era inoltre poco probabile che i Sanniti fossero riusciti a sviluppare un così elevato piano urbanistico, caratterizzato da una rete di strade perfettamente ordinate[13].
Il periodo sannita
Diodoro Siculo e Tito Livio parlano della caduta di Cuma, ad opera dei Sanniti, popolo proveniente dalle zone interne dell'Abruzzo, alleati dei Romani, tra il 423 ed il 420 a.C.[14]: è quindi ipotizzabile che prima di sferrare l'attacco finale ai Greci, tutto il territorio circostante, e quindi anche Pompei, sia stato conquistato intorno al 424 a.C.[15]. Lo scoppio della prima guerra sannitica porta un capovolgimento di fronti, con un'aperta ostilità tra Sanniti e Romani, conclusa con la pace del 340 a.C.[16]: tuttavia già dal 343 a.C. un primo esercito romano era entrato nella piana campana, portando con se gli usi e costumi della romanità[17]; nella guerra dei Romani contro i Latini, i Sanniti restano fedeli a Roma, mentre nel 310 a.C. quando i Romani muovono guerra contro i Nocerini, i Sanniti pompeiani si schierano a favore di quest'ultimi, i quali dopo una prima vittoria sono costretti a capitolare[18]: Pompei, pur governata dai Sanniti, entra a tutti gli effetti nell'orbita romana, a cui resta fedele anche durante la terza guerra sannitica e nella guerra contro Pirro[9].
Per tutto il III ed il II secolo a.C. Pompei gode di una certa autonomia: la città vive il suo periodo di massima fioritura ed espansione[19], raggiungendo il suo perimetro definitivo[20]: viene costruito il foro e numerosi edifici sia pubblici che privati, dotati di elevata qualità architettonica[3], così come le mura vengono rinforzate in pietra di Sarno, con l'abbandono del sistema a doppio recinto, che poi entra nuovamente in voga a partire dal II secolo a.C., con l'inserto di pietre di tufo[21], a seguito delle tensioni dovute all'arrivo di Annibale e allo scoppio della seconda guerra punica[19]. Nonostante l'incertezza politica dovuta a questi eventi e il progressivo migrare di uomini facoltosi verso città più tranquille del Mediterraneo orientale, Pompei continua a godere di una certa floridità dovuta alla produzione ed al commercio di vino e olio, con gli scambi che si spingono fino in Provenza ed in Spagna[22], oltre ad un'intensa attività agricola svolte nelle fattorie costruite nei dintorni della città[19].
Il periodo romano
I senatori romani, affascinati dal territorio fertile e dal clima mite, iniziano a spartirsi i territori intorno alla città[23]: tale evento, associato all'esclusione del diritto di diventare cittadini romani, porta i pompeiani a schierarsi contro Roma durante la guerra sociale[3]; in vista di una possibile battaglia vengono fortificate le mura, costruite nuove torri ed aperte le porte di Nola, Sarno e Capua ed istruisce un esercito[24]. La risposta romana non tarda ad arrivare: dopo aver conquistato Stabiae ed Ercolano, l'esercito guidato da Lucio Cornelio Silla, e di cui faceva probabilmente parte anche Marco Tullio Cicerone[25], si ricongiunge a Pompei, sferrando l'attacco contro le mura della città nei pressi di porta Ercolano e porta Vesuvio, con grossi proiettili di pietra, ci cui sono ancora visibili le tracce dei segni lasciati all'interno della muratura[9]; probabilmente alla lotta partecipa anche una flotta navale[26]. La difesa dei Pompeiani è strenua, aiutati anche dai Celti capitanati da L. Cluenzio, inviati da Papio Mutilio: i Romani sono quindi costretti a ritirarsi, ma poco dopo riportano una vittoria contro i celti nei pressi di Nola, in una battaglia in cui persero la vita circa diciottomila uomini[26]; la resa dei Pompeiani è ormai vicina e nell'estate o nell'autunno dell'89 a.C.[26] la città viene conquista, tra l'altro in modo quasi pacifico, senza provocare notevoli danni, divenendo a tutti gli effetti romana[27].
Gli abitanti diventano quindi cittadini romani e la città, iscritta nella tribù Menania, riceve lo stato di municipium, gestita da un Quadrumviro[28]: nell'80 a.C., Publio Cornelio Silla modifica lo stato da municipio a colonia, a cui dà il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum amministrata da un gruppo di nomine novi, chiamati a formare sia l'ordo decurionum, composto dalle ottanta alle cento persone, sia a nominare nuovi magistrati; a questi si affiancano i duoviri e gli edili, eletti dai cittadini aventi i diritti civili, e i sacerdoti, eletti allo stesso modo, eccetto gli Sodales Augustales, nominati dall'imperatore stesso[28]. Altra carica è quella dei magistri vici e magistri pagi, addetti, oltre al culto dei lari, a partecipare alla vita politica, amministrando i vici e i pagi, ossia i quartieri, rispettivamente interni ed esterni alle mura, in cui è divisa la città, che costituiscono anche un sorta di distretti elettorali, ognuno con un proprio nome, a volte deducibile dai manifesti elettorali dipinti sulle facciate degli edifici, come il quartiere dei Forenses, quello dei Campanienses o dei Salinienses[29]. Scompaiono inoltre dalla magistratura personalità sannitiche e i patrizi subiscono numerose confische, soprattutto appezzamenti terrieri, per poi essere assegnati ai veterani di Silla: questi quindi costruisco numerose fattorie formando una sorta di quartiere suburbano, probabilmente già esistente precedentemente, che prende il nome di Pagus Augustum Felix Suburbanus, localizzato nella zona delle odierne città di Boscoreale, Boscotrecase e Terzigno, dove convivono coloni ed indigeni[28]. La conquista romana tuttavia non muta particolarmente lo stile di vita pompeiano: la lingua ufficiale diventa il latino, ma l'osco viene continuato ad essere parlato, a cui si affianca anche il greco, come testimoniato dal ritrovamento di alcuni graffiti; le unità di misura continuano ad essere per circa mezzo secolo quelle osche fino alla definitiva introduzione del piede romano[28].
Un forte impulso alla romanizzazione viene data dalla salita al potere di Augusto nel 27 a.C.[30]: sono sostituite le truppe sillane con quelle augustee, vengono riammesse le vecchie famiglie sannitiche che nel frattempo, tramite matrimoni e adozioni, si sono imparentate con quelle romane e numerosi patrizi portano in città ricchezze terriere e attività commerciali, affiancate da nuovi modelli architettonici ed artistici che hanno come tema centrale la figura di Augusto, facendo diventare Pompei il luogo di villeggiatura prediletto del patriziato romano[30]. Il Teatro Grande viene restaurato dagli Holconii e dedicato ad Augusto, la sacerdotessa Eumachia, costruisce una sorta di nuova basilica, chiamata Edificio di Eumachia, che ospitata statue dedicata alla famiglia augustea e addirittura viene dedicato un tempio alla Fortuna Augusta[31]: oltre alla costruzione dell'acquedotto del Serino, allacciato a Pompei tramite una condotta secondaria, il periodo di pace favorisce i commerci della città, soprattutto quello di tipo marittimo grazie allo sviluppo del porto, con l'esportazione, tra cui quello di vino, specie nella Gallia meridionale, ma anche l'importazione di numerosi prodotti stranieri[32].
Un periodo di crisi, la cui causa rimane sconosciuta, si verifica alla fine dell'impero di Caligola, tanto che nel 40 è lo stesso imperatore a diventare duoviro, mentre sotto Claudio, tra il 41 ed il 52, non vengono menzionati né magistrati, né al nuovo imperatore è dedicata alcuna statua, se non due basi di marmo nel tempio della Fortuna Augusta[32]. Sotto Nerone, in particolare fino al 59, la vita cittadina procede tranquilla: tuttavia una violenta rissa tra Pompeiani e Nocerini, avvenuta nell'Anfiteatro, provoca numerosi morti e in conseguenza, in quanto la vicenda ha un forte eco anche a Roma, come riferito anche negli Annales di Publio Cornelio Tacito[33], viene disposta la chiusura dello stesso edificio per dieci anni e lo scioglimento di tutte le associazioni illegali[25]; la causa dello scontro è da ricercarsi o nel fatto che l'imperatore, nel 57, ha modificato lo stato di Nocera in colonia, arrecando danni economici a Pompei[34], o per cause di ordine politico[32].
Il terremoto del 62 e l'eruzione del 79
Il 5 febbraio del 62 un violento terremoto, di intensità pari al V-VI grado della scala Mercalli[32], con epicentro nella vicina Stabiae, colpisce anche Pompei e la piana circostante provocando numerosi danni e crolli: questi vengono addirittura dipinti negli affreschi della casa di Lucio Cecilio Giocondo, in particolar modo si notano i danni a porta Vesuvio, al Castellum Aquae, al foro ed al tempio di Giove; il terremoto ha un influsso negativo sulla vita cittadina: molte delle personalità più ricche, temendo per la propria incolumità, si trasferiscono in altre zone, mentre il commercio cala bruscamente. Pompei diventa quindi un cantiere dove l'attività principale è quella della ricostruzione: non mancano esempi di speculazione edilizia e molti si arricchiscono con gli affitti o con gli appalti dei lavori di restauro[35]; non si è a conoscenza se gli imperatori Nerone e Vespasiano abbiano in qualche modo finanziato la ricostruzione, ma sta di fatto che le ricchezze accumulate nel corso degli anni dagli abitanti favorisce l'edificazione di edifici lussuosi, spesso rivestiti di marmi: in poco tempo sono restaurate le regioni VI e VIII, quelle a più alta densità residenziale, oltre al tempio di Iside, grazie alle offerte di un liberto[36].
Nel decennio a seguito del terremoto non mancano tuttavia disordini di tipo politico e amministrativo: Vespasiano infatti è costretto ad inviare a Pompei il tribuno T. Suedis Clemens, per risolvere alcune situazioni legate al possesso abusivo di terreni municipali da parte di privati[36].
Non sono stati completati ancora i lavori di ristrutturazione[32], quando la mattina del 24 agosto[37] o comunque in un periodo compreso tra agosto e novembre del 79[38], una violenta eruzione del Vesuvio pone definitivamente fine alla vita di Pompei: anticipata dai giorni precedenti da scosse di terremoto[39], una nuvola a forma di pino si alza dalla sommità del vulcano[40], fino a che, intorno alle 13, un boato annuncia la rottura del tappo di magma solidificato che ostruisce il cratere, dando inizio ad una incessante pioggia di ceneri e lapilli sulla città, la quale in circa cinque ore raggiunge l'altezza di un metro, provocando i primi crolli dei tetti[41]; intorno alle 6 del giorno successivo, quando l'altezza del materiale vulcanico è pari a due metri, un flusso piroclastico raggiunge le mura di Pompei: a questo ne segue un altro intorno alle 7, bissato pochi minuti dopo, ed un ultimo, più potente, intorno alle 8, causando definitivamente la morte di tutti quelli che erano sopravvissuti[41]. Alle 10 la furia eruttiva inizia ad indebolirsi, anche se la pioggia di ceneri continua per altri quattro giorni[39], poi l'evento termina definitivamente[41]: Pompei è seppellita sotto una coltre di circa sei metri di materiale vulcanico, dal quale affiorano solo resti di colonne e la parte più alta degli edifici[42]. Non si conosce il numero preciso di abitanti della città nel 79; secondo alcune stime questi variano da seimila a ventimila ed il numero di vittime ritrovate si aggira intorno a millecentocinquanta: a questo dato va comunque aggiunto la parte di città ancora da esplorare e si calcola che in totale le vittime possano essere circa milleseicento; è da considerare inoltre che la maggior parte della popolazione è riuscita a mettersi in salvo, scappando, ai primi stadi dell'eruzione[43].
Delle circa millecentocinquanta vittime accertate, trecentonovantaquattro sono state ritrovate negli stati di lapilli inferiori, morti quasi tutti all'interno di edifici, crollati sotto il peso dei materiali vulcanici che si sono depositati sui tetti, mentre altri seicentocinquanta sono stati ritrovati nella parte superiore dei depositi piroclastici, morti esternamente, raggiunti dalle nubi ardenti nella seconda fase dell'eruzione[43]. Molti Pompeiani cercano di sfuggire alle ceneri e ai lapilli coprendosi la bocca con un cuscino[44]; quelli che cercano rifugio scappando verso porta Ercolano trovano morte sicura[44], mentre la salvezza è più probabile per chi scappa attraverso porta Stabia e quindi via mare, anche se la spiaggia è battuta da onde, provocate dai continui terremoti, e le barche sono andate quasi tutte distrutte[45]. A seguito degli scavi archeologici e con l'utilizzo della tecnica dei calchi è stato possibile ricomporre gli ultimi instanti di vita di alcune persone, come ad esempio quelli di una donna che portava con sé numerosi gioielli, accompagnata da una fanciulla quattordicenne con la testa avvolta in un lenzuolo[46], quelli di un mendicante con un bastone ed una bisaccia ripiena di generi alimentari, quelli di una coppia di sposi che si tiene per mano, quelli di un uomo, forse un atleta, con un mano un flacone di olio[47], quelli di un gruppo di tredici persone, tra cui uno schiavo, due bambini ed una donna inferma[48], quelli dei sacerdoti del tempio di Iside, uno dei quali ritrovato con un carico d'oro, probabilmente il tesoro del tempio[49] e quelli di un gruppo di schiavi ritrovati in una stanza di quattro metri quadrati con ossa spezzate, dopo aver cercato di fuggire tramite una scala dal tetto[50]. Oltre ad esseri umani trovano la morte anche animali: tra gli esempi più eclatanti quello di un cane, che cerca di liberarsi dal suo guinzaglio[51].
Terminata l'eruzione, il Vesuvio si presenta con una nuova forma, ossia due cime ed un nuovo cono[52]: tutta la zona circostante a Pompei è ricoperta da una coltre bianca, il fiume Sarno a stento riesce a scorrere e la linea di costa si è modificata, protraendosi verso il mare[53]. L'imperatore Tito invia in Campania una delegazione di soccorsi ed interdice la zona al transito: inoltre dispone che tutte le proprietà rimaste senza eredi siano smantellate ed i materiali riutilizzati per la costruzione, permettendo quindi il recupero di marmi, tubature di piombo, statue e ogni sorta di ricchezza che viene ritrovata[53], attraverso lo scavo di cunicoli[36]; non mancano comunque episodi di sciacallaggio che si susseguono nei periodi immediatamente dopo l'eruzione[42]. Intorno al 120 viene ripristinata nei pressi di Pompei la viabilità verso Stabiae e Nocera per volere di Adriano, ma la città non viene più ricostruita, anzi il territorio dove sorgeva inizia a ricoprirsi di vegetazione, scomparendo definitivamente[42].
Urbanistica
L'antica Pompei viene fondata su un pianoro alto circa trenta metri, formatosi a seguito di un'antica eruzione del Vesuvio e che in epoca moderna prende il nome di Civita: questo è a ridosso del mare, con pareti scoscese e quindi facilmente difendibile, e costeggiato dal fiume Sarno, che sfocia lungo la vicina costa; il primo nucleo di Pompei è da ritenersi fondato nei pressi del foro[54].
L'assetto urbanistico ricalca il modello proposto da Ippodamo da Mileto, anche se non è seguito alla perfezione: mancano sovente l'uso di angoli retti e le dimensioni degli isolati non sono costanti; Pompei si estende per circa sessantasei ettari ed è circoscritta in una cinta muraria lunga tre chilometri e duecento metri: in questa si aprono sette porte, più una la cui esistenza è ancora incentra, in quanti situata in una zona ancora da esplorare, e si innalzano dodici torri[55]. A seguito della conquista dei Romani, le mura diventano inutili e piuttosto che abbatterle si preferisce costruire all'esterno di esse: tuttavia ciò è visibile solo nei pressi di porta Marina dove vengono edificate le Terme Suburbane e la villa Imperiale[56]; sempre esternamente alla cinta muraria si trovano, nei pressi delle porte, le necropoli, oltre a diverse ville d'otium come villa dei Misteri, mentre il porto è situato a circa un chilometro da porta Stabia[57] ed ancora una zona chiamata Pagus Augustum Felix Suburbanus, dove sorgono numerose ville rustiche ed un'altra chiamata Oplontis, sede di ville d'otium e complessi termali[57]. All'interno delle mura, la città, a seguito degli scavi, per volere di Giuseppe Fiorelli, viene divisa in nove zone, chiamate regiones, che corrispondono grosso modo agli antichi quartieri romani, a loro volta divise in insulae: ogni regione aveva una propria festa rionale, programmi elettorali e caratteristiche commerciali[58].
La rete stradale, in particolari le vie maggiori, costituita da due decumani e due cardini, è organizzata in modo tale da mettere in comunicazione i complessi monumentali della città con le porte e quindi con le zone extraurbane[59]: in origine queste erano realizzate direttamente sul banco tufaceo e solo alla fine del II secolo a.C. lastricate in basalto lavico[58]; con l'arrivo dei Romani inoltre sono costruiti alti marciapiedi, realizzati con gli scarti dell'edilizia, pavimentati ad opera dei privati[60] e per l'attraversamento da un marciapiede all'altro vengono posti al centro della carreggiata blocchi di pietra in forma ovoidale in modo tale da permettere anche il passaggio dei carri[61].
Il luogo principale della città è rappresentato dal foro, completamente pedonalizzato, intorno al quale si affacciano gli edifici più importanti della città, come il Macellum, la basilica, gli Edifici della Pubblica Amministrazione e diversi templi[62]; il divertimento è assicurato dall'Anfiteatro, nel quale avvenivano giochi circensi e combattimenti tra i gladiatori, il Teatro Grande ed il Teatro Piccolo, dove erano rappresentate commedie, mimi, spettacoli musicali e poesie[33]; la cura del corpo è invece affidata a diversi complessi termali come le Terme Stabiane, le Terme del Foro, le Terme Centrali, le Terme Repubblicane, le Terme di Sarno e le Terme Suburbane[33]: a questo si aggiunge anche lo svago sessuale con la presenza di oltre venticinque lupanari. L'attività militare, oltre alla Schola Armatorum, si svolge nella Palestra Grande e nella Palestra Sannitica[63] mentre l'attività religiosa si pratica in diversi templi, come il tempio di Giove, il tempio di Apollo, il tempio di Venere, il tempio di Iside, il santuario dei Lari Pubblici, il tempio di Vespasiano ed il tempio della Fortuna Augusta, quest'ultimi due dedicati all'imperatore[64]. La principale attività lavorativa svolta a Pompei è quella del commercio: in origine il luogo di tale pratica è rappresentato dal Foro, mentre a partire dal II secolo a.C., l'attività si sposta lungo via dell'Abbondanza[57].
La vendita è quella dei prodotti agricoli, ma anche di vino, talvolta servito caldo, olio[22], frutta, verdura e cereali: non mancano infatti frantoi per le olive e per il grano, e numerosi forni per la cottura del pane, prodotto in circa dieci qualità a cui si aggiunge anche per produzione di un biscotto per cani[65]. Presso le porte cittadine sorgono stalle ed alberghi, mentre sulle vie principali sono ubicate osterie e thermopolia: importante anche la pesca e la produzione di lana[66]; le lampade venivano importate dall'Italia Settentrionale, mentre il vasellame dalla Gallia e dalla Spagna[57]. Plinio il Vecchio sosteneva che nella zona di Pompei venissero coltivate oltre cento tipi di piante commestibili diversi e pochi anni prima dell'eruzione era stato anche introdotto la coltivazione del ciliegio, albicocco e pesco: prodotto tipico era il garum, una sorta di salsa di pesce[65].
La casa pompeiana segue prevalentemente lo schema lasciato dai Sanniti, ripreso poi anche dai Romani: questi ultimi si limitano a decorare gli ambienti con pitture che fanno di Pompei un esempio unico al mondo; si distinguono quattro tipi di pitture: il primo stile che va dal 150 all'80 a.C., caratterizzato da riquadri che tendono a riprodurre marmi colorati, il secondo stile che va dall'80 al 14 a.C., in cui compaiono le prospettive architettoniche, il terzo stile che va dal 14 a.C. al 62, dominato dal gusto decorativo, ed il quarto stile, che inizia nel 62 fino al 79, con architetture e prospettive irreali, in cui abbondano elementi ornamentali[67]. Oltre alla pittura, nelle case presenti sono anche i mosaici, che, così come le pitture, riproducevano sovente temi dell'antica Grecia[68], mentre i capitelli delle colonne sono dorici, ionici, corinzi e compositi[69]. La muratura delle case è realizzata in un primo momento con opera quadrata ed incerta, si passa poi ai blocchi di tufo, all'opera reticolata ed infine si arriva all'uso del mattone, quindi all'opera laterizia. Spesso sui muri esterni della case sono stati ritrovati manifesti elettorali: venivano realizzati con scritte a grandi lettere in rosso e nero, con il nome del candidato seguito da uno slogan; talvolta erano anche scritte di buon augurio. Poche sono invece le case con acqua corrente: questa veniva conservata in ogni edificio tramite delle cisterne; Pompei viene anche collegata all'acquedotto del Serino: l'acqua affluisce al Castellum Aquae ed attraverso un sistema di tubature viene fornita a diverse zona della città, per lo più alle terme, alle fontane pubbliche e alle case più ricche; mancano quasi del tutto le fognature, eccetto quelle presenti nelle latrine pubbliche, mentre le case sono dotate di pozzi assorbenti[70].
Eruzione del 79 d.C.[
Nell'estate del 79 d.C. (primo anno di regno dell'imperatore Tito, cfr. Cassio Dione V) Pompei fu sommersa da una pioggia di cenere e lapilli (e non lava, come spesso viene riportato) che, salvo un intervallo di alcune ore, cadde ininterrotta fino a formare uno strato di oltre tre metri. Al momento dell'eruzione molti edifici erano in fase di ricostruzione a causa di un sisma verificatosi pochi giorni prima, e non per quello del 62 - come precedentemente creduto -, i cui danni erano già stati completamente riparati.
La data di questa eruzione ci è nota in base a una lettera di Plinio il giovane e dovrebbe corrispondere al 24 agosto. Tuttavia non tutti gli studiosi concordano, anche perché di questa lettera non esiste l'originale, ma ci sono solamente trascrizioni successive. In alcune si parla del nono giorno prima delle calende di novembre, corrispondente al 24 di ottobre. Altri indizi vengono dal ritrovamento di frutta secca, come noci e fichi, oppure di sorbe, frutto tipico autunnale, ma la prova forse più importante è il ritrovamento di una moneta d'argento che riporta la scritta IMPXV, ovvero la quindicesima acclamazione di Tito a imperatore, che avvenne l'8 settembre del 79 d.C. Nella cenere solidificata furono ritrovate delle cavità; queste, riempite con colate di gesso o di altro materiale, hanno poi formato i calchi delle vittime dell'eruzione.
Pompei dopo l'eruzione
Alcuni reperti bizantini testimoniano l'esistenza di un piccolo insediamento anche nel Medioevo; in questo periodo gli abitanti erano concentrati in località Cività Giuliana, a nord della città antica e in posizione più elevata, vista la presenza di paludi e di una forte umidità nella parte più meridionale nei pressi del fiume Sarno portatrice di malattie e morte. Successivamente il Sarno fu deviato dal Principe di Scafati, e ciò provocò la morte di quasi tutti gli abitanti della valle di Pompei. I Borboni realizzarono poi alcune opere idrauliche e la foce del fiume fu interamente bonificata e delimitata da argini in pietra. A inizio Ottocento fu costruita la Chiesa della Giuliana, ora in stato di abbandono.
La Pompei moderna fu fondata dopo la costruzione del Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei. Il Santuario fu consacrato nel 1891.
Personaggio di assoluto rilievo fu Bartolo Longo, proclamato beato il 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II. Per sua volontà fu eretto il Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, ora Basilica Pontificia, ricca di ex voto, la quale costituisce una delle mete italiane più frequentate "per grazia ricevuta", in esso è conservata la tela seicentesca della scuola di Luca Giordano raffigurante la Madonna di Pompei. Un intenso pellegrinaggio si verifica in occasione delle due suppliche alla Madonna l'8 di maggio e la prima domenica di ottobre. Si devono a lui altre due opere a favore di persone bisognose, due strutture destinate all'accoglienza dei figli e figlie di persone carcerate.
Ebbe forte risalto internazionale la registrazione in audio e video, avvenuta tra il 4 e il 7 ottobre 1971, del concerto dei Pink Floyd, pubblicato nel 1972 come Live at Pompeii. Il concerto fu tenuto in assenza di pubblico, alla presenza del solo staff tecnico, e per questo resta tuttora un passaggio memorabile della storia del rock, sia per l'esecuzione in uno spazio vuoto, sia per gli effetti audio-visivi utilizzati.
Con decreto firmato il 9 gennaio 2004 dall'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Pompei è stata elevata al rango di città.
La data dell'eruzione
La data dell'eruzione del Vesuvio del 79 è attestata da una lettera di Plinio il Giovane a Tacito.[3] Nella variante universalmente ritenuta più attendibile del manoscritto, si legge nonum kal. septembres cioè nove giorni prima delle Calende di settembre, data che corrisponde al 24 agosto.
Questa data era stata accettata come sicura fino ad oggi, ma alcuni dati archeologici via via emersi mal si accordano con una data estiva. Ad esempio, il ritrovamento di frutta secca carbonizzata, di bracieri, usati all'epoca per il riscaldamento, di mosto in fase di invecchiamento trovato ancora sigillato nei contenitori (dolia), e soprattutto, di una moneta ritrovata sul sito archeologico, che riferisce della quindicesima acclamazione di Tito ad imperatore, avvenuta dopo l'8 settembre del 79, lasciano supporre che l'eruzione sia avvenuta in autunno, probabilmente il 24 ottobre di quell'anno.[4]
Dinamica dell'eruzione
I primi eventi sismici ebbero già inizio nel 62 d.C.,[5] con il crollo di diverse case che furono poi ricostruite negli anni successivi.[6] Solo alcuni anni dopo, nel 79 d.C., il Vesuvio iniziò il suo ciclo eruttivo che porterà poi al seppellimento di alcune zone di Stabia, Pompei, Ercolano e molte città a sud-est dal Vesuvio.
Le sostanze eruttate per prime dal Vesuvio furono fondamentalmente pomici,[7] quindi rocce vulcaniche originate da un magma pieno di gas e raffreddato. Mescolate alle pomici si trovano parti di rocce di altra natura che furono trasportate dal magma. La maggior parte dei cadaveri a Pompei sono rimasti intrappolati al di sopra delle pomici, avvolti nelle ceneri. I residui piroclastici della eruzione sono stati rintracciati in un'area ampia centinaia di chilometri quadrati. Gli esperti hanno calcolato che l'altezza della nube di gas e pomici abbia raggiunto i 17 chilometri.[8]
Per quanto riguarda la composizione chimica delle sostanze eruttate nel 79 d.C., questa è diversa da quella delle lave eruttate nel periodo che va dal 1631 al 1944; infatti i magmi pliniani hanno mostrato di possedere una maggiore ricchezza di silice, di sodio e di potassio e una minore quantità di calcio e magnesio; gli specialisti giustificano queste differenze con il fatto che, nel caso delle lave pliniane, il magma si sarebbe fermato per alcune centinaia di anni (circa 700) ad una profondità di qualche chilometro, nella camera magmatica, dove si sarebbe raffreddato fino a 850 °C e si sarebbe attivata la cristallizzazione.[9]
La morte di Plinio il Vecchio
La testimonianza più rilevante su ciò che accadde in quei giorni è data da Plinio il Giovane, che si trovava in quei giorni a Miseno con la sua famiglia.[10] Trentanni dopo descrisse l'evento all'amico Tacito:[11]
« Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l'idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami. »
In questa lettera Plinio il Giovane riferì anche le testimonianze sulla morte dello zio Plinio il Vecchio. Lo zio si era diretto ad Ercolano per andare ad aiutare la famiglia dell'amico Cesio Basso: egli provò a raggiungere la località vesuviana via mare, ma dovette cambiare rotta a causa del ritiro improvviso delle acque, per cui si diresse verso Stabia dove approdò, facendosi ospitare da Pomponiano (Pomponianus). Tuttavia, anche questa cittadina venne colpita dalle ceneri e lapilli del vulcano e, soffocato dai vapori tossici, Plinio il Vecchio vi trovò la morte.[12]
In una seconda lettera a Tacito descrisse ciò che accadde a Miseno.[13] Egli racconta delle scosse di terremoto avvenute giorni prima, e la notte dell'eruzione le scosse « crebbero talmente da far sembrare che ogni cosa [...] si rovesciasse ». Inoltre, pareva che « il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremare della terra », così che « la spiaggia s'era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco ».
La distruzione di Pompei, Ercolano e Stabia
L'attuale Vesuvio ha un'altezza minore rispetto a quella che aveva in epoca romana, quando i due pendii si univano in un'unica cima. Molti degli abitanti delle città vesuviane non furono in grado di trovare una via di fuga, l'improvvisa e sopraffacente pioggia di cenere e lapilli fece sì che non pochi di loro perissero nelle strade.
Le città stesse scomparvero alla vista, sepolte sotto almeno 10 metri di materiali eruttivi. Le desolate distese che avevano visto la vita vivace e ricca, ora erano evitate e oggetto di terrori superstiziosi.
Le caratteristiche dei fenomeni che interessarono Pompei e Stabia furono differenti rispetto ad Ercolano: le prime furono sommerse da una pioggia di cenere e lapilli che, salvo un intervallo di alcune ore (trappola mortale per tanti che rientrarono alla ricerca di persone care e oggetti preziosi), cadde ininterrotta. Ercolano invece non fu investita nella prima fase, ma quasi dodici ore dopo e, sino alle recentissime scoperte, si era pensato che tutti gli abitanti si fossero posti in salvo. La natura dei fenomeni che interessarono questo piccolo centro (Ercolano), fu molto diversa. Infatti, ciò che accadde fu che il gigantesco pino di materiali eruttivi prese a collassare e, per effetto del vento, un'infernale mistura di gas roventi, ceneri e vapore acqueo (il cosiddetto flusso piroclastico) investì l'area di Ercolano. Coloro che si trovavano all'aperto ebbero forse miglior sorte, vaporizzati all'istante, di chi trovandosi al riparo ha lasciato tracce di una morte che, pur rapida, ebbe caratteristiche tremende. Il fenomeno è oggi conosciuto come "nube ardente" o frane piroclastiche.[14]
Al calar della sera del secondo giorno, l'attività eruttiva iniziò a calare rapidamente fino a cessare del tutto. L'eruzione era durata poco più di 25 ore,[1] durante le quali il vulcano aveva espulso quasi un miliardo di metri cubi di materiale.
Aspetto della montagna prima e dopo l'eruzione
Il Vesuvio era stato sottoposto a un cambiamento. La sua cima non era più piatta, ma aveva acquisito una forma conica, dalla cima della quale ascendeva un denso vapore. Questo cono, determinato dalla fortissima spinta del materiale eruttato, ha letteralmente sfondato il precedente cratere per 3/4 circa della sua circonferenza. Ciò che resta dell'antico edificio vulcanico prese, in seguito, il nome di Monte Somma.
L'insieme di foreste, vigne e vegetazione lussureggiante, che ricopriva la parte del fianco del Vesuvio, dove avvenne l'eruzione, fu distrutto. Niente poteva essere più impressionante del contrasto tra lo stupendo aspetto della montagna prima della catastrofe, e la desolazione presente dopo il triste evento. Questo rimarcabile contrasto fornì il soggetto a uno degli epigrammi di Marziale (Lib. IV. Ep. 44.), che recita così :
« Ecco il Vesuvio, poc'anzi verdeggiante di vigneti ombrosi, qui un'uva pregiata faceva traboccare le tinozze; Bacco amò questi balzi più dei colli di Nisa, su questo monte i Satiri in passato sciolsero le lor danze; questa, di Sparta più gradita, era di Venere la sede, questo era il luogo rinomato per il nome di Ercole. Or tutto giace sommerso in fiamme ed in tristo lapillo: ora non vorrebbero gli dèi che fosse stato loro consentito d'esercitare qui tanto potere. »
(Marziale Lib. IV. Ep. 44[15])
Il poeta Publio Papinio Stazio, invece, scrisse:
« Crederanno le generazioni a venire [...] che sotto i loro piedi sono città e popolazioni, e che le campagne degli avi s'inabissarono? »
(Stazio Silvarum Liber III)
Dall'eruzione del 79, il Vesuvio ebbe molti periodi di attività alternati a intervalli di riposo. Nel 472, scagliò una tale quantità di ceneri, che si sparsero per tutta Europa e riempirono di allarme perfino Costantinopoli, che in quegli stessi giorni era scossa da violenti terremoti con epicentro ad Antiochia. Nel 1036 si ebbe la prima eruzione con fuoriuscita di lava: evento importantissimo nella storia del monte, giacché fino ad allora le eruzioni avevano prodotto materiali piroclastici, ma non magma. Secondo le antiche cronache, l'eruzione avvenne non solo sulla cima, ma anche sui fianchi, ed i prodotti incandescenti si riversarono in mare, allungando la linea costiera di circa 600 m.
Questa eruzione fu seguita da altre cinque, l'ultima delle quali (sebbene molto dubbia, perché ne parla un solo storico) avvenne nel 1500. A queste fece seguito un lungo riposo di circa 130 anni, durante il quale la montagna si coprì nuovamente di giardini e vigne come in precedenza. Anche l'interno del cratere si ricoprì di arbusti.
Pompei: tra scavi e crolli, la storia del più grande sito archeologico al mondo
giovedì 9 gennaio 2014, 19:36
Nell’autunno 2010, Pompei, il più grande sito archeologico al mondo, è stato tristemente al centro della cronaca : la notte tra il 5 e il 6 novembre 2010, a causa delle abbondanti infiltrazioni di acqua piovana, è venuta giù la Schola Armaturarum Juventutis Pompeiani, una specie di palestra dove si allenavano i gladiatori, affacciata su via dell’Abbondanza. Pochi giorni dopo, il 30 novembre, ha ceduto un muro antico che fungeva da contenimento del terrapieno posto sul peristilio della Casa del Moralista. L’1 dicembre sono crollate una bottega di via Stabiana e la Domus del Piccolo Lupanare. Il 2 dicembre ha ceduto anche il muro del peristilio della casa di Trebio Valente. Passano gli anni e la conta dei danni negli scavi di Pompei non si arresta. Pompei, il più grande museo a cielo aperto e uno dei maggiori vanti dell’Italia, ha subito, a fine 2013, i crolli di stucchi in Domus e squarci nelle mura delle terme. E’ poi toccato al muro di una bottega in Via Stabiana ed è venuto giù anche una parte di intonaco della casa della Fontana piccola. Ma Pompei, così impregnata di storia, in cui il tempo pare essersi arrestato alla terribile eruzione del Vesuvio, il suo status di “patrimonio dell’umanità”, non può perderlo. Lo storico Tacito chiese a Plinio il Giovane, scrittore latino adottato dallo zio Plinio il Vecchio, che abitava nel Golfo di Napoli e assistette da lì all’eruzione del Vesuvio, di raccontargli della morte dello zio e, attraverso questo racconto, ci è stata tramandata la data dell’eruzione del Vesuvio, il 24 agosto del 79 d.C. “Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da non poter essere paragonata a nessun albero meglio che a un pino”.
Calchi Pompei
L’eruzione pliniana del Vesuvio è la più nota della storia della vulcanologia. In essa, Pompei ed Ercolano furono completamente distrutte e molte altre città fortemente danneggiate, fra cui Oplonti e Stabia. La prima fase dell’eruzione iniziò circa alle ore 13 del 24 agosto e fu accompagnata da una serie di forti esplosioni. Nella seconda fase, durata fino alle ore 8 del 25 agosto, si formò una colonna di gas, ceneri, frammenti litici e pomici bianche e grigie, alta circa 15 km. al di sopra del vulcano, accompagnata da frequenti terremoti. Durante la notte, molte persone, approfittando di una stasi dell’attività eruttiva, ritornarono alle proprie case, ma nella mattinata del 25, l’attività riprese e la colonna eruttiva collassò completamente, con flussi piroclastici che distrussero totalmente l’area di Ercolano e Pompei. Nella terza fase, durata fino alla tarda mattinata del 25 agosto, la grande nube raggiunse Capo Miseno. Gli scavi di Pompei, famosi a livello planetario, ci restituiscono, insieme a quelli di Ercolano, un centro abitato romano, la cui vita è rimasta ferma a quella terribile mattina del 79 d.C, quando il Vesuvio decise di cancellarlo dall’orbe terraqueo. A Pompei si accede attraverso la struttura a doppio arco di porta Marina, rifatta in epoca sannita e dopo la guerra sociale. A quest’ultimo periodo risalgono il Santuario di Apollo e la Basilica. Entrambi si affacciano sul grande Foro.
Terme del Foro
Le Terme del Foro sono una tappa obbligata nella visita agli scavi pompeiani: sono state costruite dopo l’80 a.C, secondo lo schema delle più grandi Terme Stabiane: ai lati delle fornaci si trovano la sezione femminile e quella maschile, in sequenza: spogliatoio (apodyterium), frigidarium (sala per il bagno freddo), tepidarium (sala tiepida), caldarium (sala calda). Il tepidarium era riscaldato con un grande braciere bronzeo donato da M. Nigidio Vaccula. Inoltre, telamoni separano le nicchie per accogliere unguenti e oggetti da bagno e stucchi a rilievo decorano la volta con partizioni geometriche e figure mitologiche. Sulla destra rispetto al complesso termale, via della Fortuna conduce alla Casa del Fauno, la più grande casa di Pompei, che deve il suo nome alla statua bronzea di Fauno che decora l’impluvio dell’atrio tuscanico. La casa fu costruita nel II secolo a.C, distruggendo un più antico edificio databile alla fine del III secolo a.C ed il suo proprietario doveva essere certamente un personaggio molto in vista nella comunità di Pompei in età sannitica e di alto livello economico, come dimostra il gran numero di oggetti d’oro e d’argento rinvenuti durante lo scavo e la lussuosa decorazione delle stanze di uso sia pubblico che privato. Purtroppo non conosciamo il suo nome. Sappiamo solo che fece scrivere sul marciapiede, di fronte all’ingresso principale, il saluto in latino HAVE, per ostentare la sua cultura in un periodo in cui, a Pompei, si parlava la lingua Osca.
Casa degli Amorini Dorati
Sul retro della casa del Fauno c’è la Casa degli Amorini Dorati, una delle case più belle di Pompei, per via delle decorazioni al suo interno. L’antica dimora deve il suo nome agli amorini su laminette d’oro, oggi conservati al Museo Archeologico di Napoli, che ornavano uno degli ambienti. Si ritiene fosse appartenuta a Poppaeus Habitus, imparentato con Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone. L’edificio è organizzato sul peristilio con giardino, su cui si aprono gli ambienti. Il giardino era decorato da rilievi e sculture in marmo, allusive al mondo naturale e dionisiaco, a volte usate come getti di fontana. La Villa dei Misteri é forse l’edificio più noto ed ammirato di Pompei, sia perché é il più bello e completo esempio di una grande villa suburbana, sia per via della sala tricliniare, dove si trova il grandioso fregio figurato che ha dato il nome alla villa.
Villa dei Misteri
Lo scavo della Villa, condotto fra il 1909 e il 1910 dallo stesso proprietario del terreno dove fu scoperto l’importante edificio, fu ripreso in modo scientifico negli anni 19291930, dopo l’esproprio dell’area da parte dello Stato Italiano. Nel corso dello scavo non furono recuperati molti suppellettili, né oggetti di lusso e ciò ha indotto gli studiosi a pensare che il settore padronale della Villa non fosse abitato al momento dell’eruzione, forse a causa dei lavori di ristrutturazione che vi si stavano eseguendo. Al contrario, la presenza di numerosi attrezzi agricoli e di altro materiale, ha dimostrato che la parte rustica era abitata, così come gli alloggi per gli schiavi. Questo dato è stato poi confermato anche dal ritrovamento di scheletri umani, molto probabilmente quelli del personale di servizio, tornati alla luce proprio nella parte servile della casa. Le Terme Stabiane sono le più antiche della città, anche se il loro aspetto attuale rivela i numerosi interventi che si sono succeduti nel corso dei secoli. La palestra centrale è porticata, ad est si trovano gli ambienti per il bagno divisi in sezione femminile e maschile, a nord una latrina, ad ovest una piscina.
Teatro Grande
Lasciando le terme e svoltando a destra, per via Stabiana, si arriva al Foro triangolare, su cui si affaccia il Teatro Grande, portato alla luce tra il 1764 e il 1766 ed utilizzato, fino al 2009, per manifestazioni e spettacoli, per consentire i quali, al posto dei gradini, erosi dal tempo e coperti dall’erba, era stata collocata, intorno al 1950, su idea di Amedeo Maiuri, grande archeologo, una struttura di ferro leggera su cui venivano fissate delle tavole che, finita la rappresentazione, erano poi rimosse ,ripristinando lo stato di fatto. Il Teatro Grande, costruito in età sannitica, nel II sec. a.C, poteva accogliere circa 5000 spettatori. Nel teatro si rappresentavano le tragedie (Euripide, Seneca, Livio Andronico), le commedie (Menandro, Plauto) nonché farse (atellane) e pantomimi. Nelle pause, il pubblico si adunava nel grande portico quadrato posto dietro la scena, denominato Caserma dei Gladiatori. Questi sono solo alcuni dei più grandi tesori che la nostra Pompei custodisce… tesori di valore inestimabile, che sigillano per sempre la vita quotidiana di gente colpita da un improvviso e spietato destino.
Vita quotidiana nel 79 d.C. a Pompei
Gli scavi archeologici di Pompei rappresentano una fonte eccezionale di informazioni sulla vita quotidiana dei pompeiani e in generale dei cittadini dell’impero Romano ai suoi albori sotto l’imperatore Tito. Gli storici ci hanno così narrato la giornata tipo del pompeiano che, detto fra noi, non è molto dissimile da quella dei nostri nonni. Una vita fatta di gesti semplici e spesso ripetitivi che stride fortemente con il nostro “stress della vita moderna”, giusto per citare un famoso slogan pubblicitario.
HORA PRIMA DIURNA (4.27-5.42): L’assenza di energia elettrica costringeva gli esseri umani a seguire i ritmi del sole e quindi la sveglia era molto presto la mattina per poter aprire bottega all’alba. L’acqua corrente era un privilegio di pochissimi e i cittadini comuni dovevano andare a prenderla presso le fontane pubbliche, per questo motivo veniva usata con parsimonia. Un po’ d’acqua sul viso per svegliarsi e lavarsi e una bevuta. Per lavarsi in maniera accurata i romani si recavano alle terme. la colazione veniva effettuata con pane e formaggio, (la merendina dell’epoca) eventualmente con verdure o gli avanzi del giorno prima. Coloro che volevano iniziare in ordine la giornata potevano recarsi dai barbieri, che aprivano all’alba, un centro di smistamento di pettegolezzi o conversazione; proprio come avviene anche oggi, esclusa ovviamente l’apertura all’alba e gli attrezzi del mestiere all’epoca poco rassicuranti.
HORA SECUNDA (5.42-6.58): Ormai ogni persona era al suo posto di lavoro, dal ricco patrizio allo schiavo. Le botteghe erano tutte aperte, le bancarelle bene esposte, i cantieri al lavoro, i contadini ormai tutti nei campi e così via.
HORA QUARTA (8.13-9.29): le vie brulicavano di persone, il mercato era in piena attività, gli ambulanti declamavano lodi alle loro merci, i compratori trattavano sul prezzo. Al foro si passeggiava, si tenevano processi, si discuteva della cosa pubblica.
HORA SEPTIMA (12.00-13.15): Dopo tanto affanno un po’ di ricreazione era necessaria. Se qualche ricco pompeiano desideroso di far carriera politica offriva uno spettacolo di gladiatori si poteva fare un salto all’anfiteatro. Uno spettacolo cruento e molto distante dal nostro sentire di uomini moderni. Noi ci accontentiamo di vedere un pugile cadere a terra tramortito ma non morto. Molti paragonano il ruolo dei giochi dei gladiatori nella società romana al ruolo del calcio nella nostra società. Certo all’epoca i tafferugli si svolgevano sull’arena e gli spettatori osservavano mentre oggi è il contrario. Beh! questa affermazione non è poi così corretta, infatti proprio a Pompei l’anfiteatro fu sospeso per dieci anni, (poi condonati da Nerone per intercessione di Poppea; una pompeana), a causa di uno scontro con parecchi morti tra “ultras” pompeani e nocerini. E’ anche l’ora di uno spuntino nelle taverne a base di focacce, pesce, frutta ed eventualmente dolciumi
HORA OCTAVA (13.15-14.31): E’ arrivata l’ora delle terme, molto economiche, ed infatti anche gli schiavi potevano permettersele. In un mondo dove l’acqua corrente nelle case era un lusso, permettere a tutti di lavarsi accuratamente divertendosi è stata una grande idea. La vita media nel mondo romano salì a 35 anni, al contrario dei periodi precedenti e successivi dove invece fu più bassa. I romani non lo sapevano, ma la più grande scoperta della medicina moderna fu proprio l’igiene.
Quello che lascia perplessi è l’abitudine di passare con disinvoltura dai bagni caldi o di vapore a quelli in acqua fredda. Sarebbe però riduttivo pensare alle terme solo come ad una semplice beauty farm, spesso vi si concludevano affari e “intrallazzi” politici. Inoltre nelle terme era anche possibile esercitare il corpo con esercizi ginnici in ossequio al motto “mens sana in corpore sano”.
HORA DECIMA (15.46-17.20): poco prima del tramonto i romani concludevano la giornata con la cena composta da olive e uova e se la tasca lo permetteva anche pesce, carne e dolciumi. Gli svaghi erano pochi, specie per la maggior parte della popolazione e le strade buie tutt’altro che sicure: andare a letto era la scelta migliore.
Pompei antica – la storia
Pompei fu fondata dagli Oschi (detti pure Osci), uno dei primi popoli italici, verso la fine dell’ VIII e all’inizio del IX secolo a. C. ; fu assoggettata poi dal popolo greco, in seguito fu sotto il dominio del popolo etrusco (che forse fondò Capua); e verso la fine del V secolo a. C. fu dominata da un noto popolo italico, i Sanniti; mentre a partire dall’80 a. C. la <<civitas pompeia>> divenne una colonia del popolo romano, i quali arricchirono Pompei con edifici simili a quelli presenti nel loro Regno.
Tutti i popoli che sono stati sopra menzionati furono attratti dalla città di Pompei per la sua strategica posizione geografica; essa era posta alle pendici del Vesuvio (1279 m), aveva fertili terre vicine alla costa, e non essendo lontana dal mare e dalla foce del fiume Sarno, favorì un immenso sviluppo non solo agricolo, ma anche culturale e commerciale, esportando per il Mediterraneo il buon vino e ottimo olio. Infatti Pompei si trova in Campania, regione chiamata dagli antichi Romani Campania Felix, (dove l’aggettivo latino felix sta per fertilità, fecondità della terra, delle piante e degli animali, e gli stessi autori latini nelle loro opere elogiano il Vesuvio e l’intera Campania per la loro produttività).
Amante delle terre campane fu il grande poeta Publio Virgilio Marone (70 a. C. – 19 a. C.), il quale apprezzò notevolmente i giardini, la coltivazione delle vite e dell’ulivo, mentre Plinio il Vecchio (23 d. C. – 79 d. C.), lodò i campi del Vesuvio e quelli di Sorrento, non solo per i loro ricchi prodotti, ma anche perché densamente abitati dalla nobiltà romana la quale sfruttò la fecondità di quei suoli per produzioni di alto reddito.
Va precisato dunque che, durante l’era imperiale, Pompei e tutte le zone circostanti ad essa, rappresentarono per i Romani una zona si cui insediarsi, sia per farne una meta per le loro vacanze e sia per sfruttare l’attività vinicola e le aziende agricole. Nell’area vesuviana furono costruite acque termali, ville rustiche su luminosi colli, e le cosiddette ville extraurbane, appartenenti a famiglie agiate che cercavano fuori dal caos della metropoli, al mare o in campagna, un’oasi di pace. Pompei era considerata dallo scrittore latino Giunio Moderato Columella come una “dolce palude, vicina alle saline di Ercolano”. Pompei assieme ai Campi Flegrei, Ischia, Sorrento, Cuma, Boscoreale, Ercolano, Nola, Nocera, Acerra, ecc, erano state viste già dalla civiltà greca come paesaggi affascinanti, preziosi per i loro campi così fertili. Solo il 40% della popolazione pompeiana era umile, c’erano molti schiavi, liberti, artigiani e mercanti.
Nel 27 a. C. sotto il potere di Augusto, ha inizio per Pompei una fase di progressiva romanizzazione della vita quotidiana. I nobili, i potenti e le famiglie patrizie pompeiane, divulgando la cultura e lo sfarzo romano introducono modelli architettonici e artistici dell’Impero Augusteo.
Nel 62 d.C. sulla città di Neapolis, si abbatté un pesante terremoto il quale colpì duramente anche la civitas pompeia, ma il danno maggiore si ebbe la notte del 24 agosto del 79 d.C., quando durante l’eruzione del Vesuvio furono distrutte Ercolano, Stabia e la medesima Pompei. Queste città furono interamente sepolte da un diluvio di lapilli, dalle ceneri e dalle molte scorie incandescenti. Si ricorda che durante quella tragedia perse la vita un noto scienziato naturalista latino, vissuto sotto l’età dei Flavi, Plinio il Vecchio, comandante della flotta del Miseno, il quale non solo si impegnò nel soccorrere le popolazioni colpite dal cataclisma ma voleva anche soddisfare la sua curiosità scientifica osservando da vicino il fenomeno della vulcanologia, un fenomeno che da sempre lo aveva affascinato e che fu letale per lo scrittore/scienziato in quanto morì asfissiato da una forte nebbia di vapore.
A narrarci la morte del Vecchio Plinio fu suo nipote Plinio il Giovane (62 d. C. – 113 d. C.), chiamato così per non confonderlo con lo scienziato. Egli ci informa che lo zio quella notte era in compagnia di Pomponiano e dopo aver indugiato a lungo se rimanere in casa (la quale vacillava a causa delle violente scosse di terremoto) o vagare all’aperto, decisero infine di affrontare la catastrofe. Fuori era notte, una notte rischiarata dalle fiamme, dai fuochi, dalle faville; era impossibile fuggire per il mare a casa del maremoto, e così dopo tre giorni di lungo tormento il corpo del Vecchio Plinio fu ritrovato privo di sensi.
Anche Valerio Flacco (? – 90 d. C.), nel suo poema Argonautiche, rammenta l’orribile notte dell’eruzione. Narra l’angoscia degli abitanti, il timore degli eroi che fuggono, il minaccioso vulcano che annienta le città rimaste impotenti, i gemiti dei morenti che si diffondono nel buio infernale. Descrivendo la “cronaca” degli ultimi giorni dell’antica Pompei, attraverso le citazioni di illustri letterati latini, possiamo ben comprendere l’enorme terrore che provarono i nostri antenati in quei drammatici momenti, un terrore ancora così vivo e struggente se si osservano i famosi calchi fatti agli scavi durante l’Ottocento dal noto studioso Giuseppe Fiorelli.
Vita 'quotidiana' a Pompei
Per autorità e grazie al maggior agio che loro permette di compiere approfondite e documentate ricerche, altri molto meglio di me possono discutere su come si svolgesse la vita quotidiana a Pompei prima dell’eruzione fatale. Argomento da molti ripreso: sia studiosi, come Robert Etienne del quale da qualche giorno piangiamo la scomparsa, sia invece letterati, romanzieri, autori cinematografici. La stupefacente conservazione che dell’antica città ci hanno lasciato le ceneri del Vesuvio induce a credere che quella vita così tragicamente interrotta abbia ancora una parvenza di continuità: è difficile resistere al fascino del continuiamo, talvolta travestito da modernismo. Ma, analizzando le interpretazioni che dell’antica vita quotidiana di Pompei sono state finora proposte, non è arduo scorgervi il segno distintivo lasciato, sull’interprete, dal modello culturale dominante al momento della sua attività. Ad esempio, la posizione socio-economica di individui di genere femminile viene interpretata, nella diacronia contemporanea, con un’evoluzione che segue da vicino quella delle alterne fortune del movimento femminista.
Ma, come premesso, non è questo il mio compito: il quale consiste, piuttosto, nell’assicurare, ogni giorno e nella quotidianità, al meglio possibile che l’evidenza materiale dissepolta progressivamente dal 1748 dalla copertura vulcanica sia conservata e resa disponibile al pubblico. Così, anche, che i ricercatori e gli studiosi possano confrontare le proprie interpretazioni ricostruttive con i monumenti autentici ai quali si rivolge il loro interesse di studiosi. Se, infatti, quegli autentici monumenti scomparissero non si avrebbe più possibilità di confronto tra interpretazione e realtà, e quindi non si avrebbe più critica: la relativa ricerca scientifica non potrebbe più avanzare, dovendosi limitare a rimestare in quanto fu visto, in precedenza, da altri. L’estensione riportata in luce dell’antica città di Pompei raggiunge il mezzo milione di metri quadrati; molti settori sono stati esposti all’azione corrosiva degli agenti atmosferici da più di due secoli; soggetti ai danni provocati dagli uomini, compresi i bombardamenti aerei del 1943; colpiti continuamente da scosse sismiche, più o meno rilevanti. Le tecniche costruttive sono le più varie, come i materiali costruttivi adoperati. I restauri moderni hanno di frequente sovraccaricato di peso le deboli murature verticali antiche. Dello stato presente della consistenza costruttiva dell’antica città è stata realizzata un’accurata e completa analisi conoscitiva, riportata su una planimetria computerizzata contenente tutte le informazioni raccolte e la relativa documentazione fotografica e grafica. Tramite le opportune operazioni è pertanto possibile monitorare lo stato di conservazione, programmare gli interventi in una gerarchia di urgenza, calcolare i costi necessari per eseguire i valori. Ne discende, tra l’altro, un fabbisogno finanziario di 275 milioni di euro se si vuole garantire la conservazione dell’intera parte dell’antica città finora riportata in luce. L’operatività del sistema permette, ancora, di valutare le conseguenze che i lavori realizzati comportano. Ad esempio, la realizzazione di una copertura protettiva comporta che l’acqua di pioggia anziché essere assorbita dal terreno viene deviata così come sono orientati gli spioventi della copertura stessa. Tale deviazione induce a danni delle strutture antiche che si trovano lungo il suo deflusso. È anche per questi motivi che molte spese e grandi lavori sono stati rivolti alla regimentazione delle acque piovane: i risultati di tali attività ‘non si vedono’, ma sono preziosi per garantire nel tempo la conservazione dell’antica città. Sotto questo profilo, la vita quotidiana a Pompei è costituita dall’elaborazione e dallo studio dei progetti di conservazione e dall’esplicazione delle procedure amministrative e contabili che le leggi relative agli appalti di lavori pubblici hanno previsto. Per quanto riguarda la disponibilità dell’antica città alla visita del pubblico, lo strumento essenziale per garantire tale funzione è costituito dalla sicurezza: sia dei visitatori sia degli antichi monumenti.
Per il primo profilo c’è ancora molto da fare; per il secondo, l’attuale congiuntura temporale vede un continuo decrescere della disponibilità di risorse professionali addette alla vigilanza. L’incremento relativo nell’uso di telesorveglianza non sostituisce l’essenziale funzione dell’operatore nei confronti dei visitatori: ad esempio, la telesorveglianza permette di seguire il compiersi di eventuali vandalismi, ma non di interromperli e di porre il vandalo in condizione di non più nuocere. Ancorché il procedere dei lavori di restauro e di conservazione abbia posto in sicurezza un’area estesa dell’antica città, di essa non può essere resa completamente disponibile la visita a causa dell’impossibilità di assicurarne la vigilanza. Così che, sotto quest’aspetto, la vita quotidiana è intessuta da continue recriminazioni e dall’impossibilità pratica di ovviare a tali inconvenienti. Al momento non si intravede una soluzione del problema: in quanto i vincoli di politica economica comunitaria riducono fortemente i concorsi di reclutamento nelle Amministrazioni Pubbliche, e da parte degli altri Enti Pubblici e di realtà private non vengono aiuti nello specifico. Tuttavia, assicurata come si sta procedendo a fare, la conservazione degli antichi monumenti, siamo sicuri che l’antica Pompei supererà questo difficoltoso momento e continuerà ad esercitare il suo fascino di magnifica testimone di un’antica quotidianità.
Pompei, vita quotidiana prima dell’eruzione
Sembra sia stato detto tutto su Pompei eppure, dopo duemila anni la città rievoca suggestioni ancestrali, curiosità, ammirazione, nostalgia che si trasformano in sogno, in leggenda, in quel sottile “mal d’antico” che ancora contagia il mondo. Tutto ci riporta a quando il destino fermò il corso della sua storia: la vita sembra essersi interrotta un istante fa. L’eruzione non ha distrutto la città, ha solo fermato il tempo per restituircela con l’aspetto che essa aveva in quel giorno del 79 d.C. Le scritte elettorali sui muri, le suppellettili domestiche, le botteghe, tutto è ancora là. In questi luoghi vive L. Holconius Honoratus, edile, alter ego di Sebastiano Patanè autore di “Abitavo a Pompei”, Kairòs edizioni. Un soggetto di fantasia che la penna dello scrittore trasforma in un personaggio reale. Lo ritroviamo nel Foro, alle cene in casa di amici, nel suo percorso mattiniero, mentre, guardandosi attorno, si compiace dei lavori di restauro effettuati dopo il terremoto del 62 d. C.. Il magistrato ci descrive l’ambiente vivace, le case e le belle ville restaurate, cita le vie, i numeri civici, i nomi dei proprietari,artigiani e ricchi commercianti, la famosa casa dei Vettii, con pitture del IV stile nel triclinio, il quadretto di Apollo uccisore di un serpente, proprietà del notaio Jucundus; ci conduce in taverne e lupanari, nelle Thermae e nella scuola di cui racconta il metodo di studio, la vita degli scolari. Ogni capitolo è introdotto dalla piantina della casa descritta con minuzia e con riferimenti alle fotografie di cui il libro è corredato. Nomi, attività, avvenimenti che sono frutto di un rigoroso lavoro di studio, di ricerca, d’approfondimento che prosegue ininterrottamente da 40 anni. “Un romanzo archeologico – lo definisce Luciano Scateni durante la presentazione alla Galleria HDE di piazzetta Nilo – che nasconde tra le pagine anche un giallo, l’omicidio di Honoratus e della sua compagna Lidia, avvenuto proprio durante la catastrofe e risolto duemila anni dopo.”. Con i suoi 2.500.000 visitatori all’anno, Pompei continua ad incantare coloro i quali sono disposti a compiere un viaggio nel tempo, non solo quello nell’epoca romana, ma è anche nella lunga storia della fortuna di questa città, alimentata da romanzi di scrittori, aneddoti di ciceroni, quadri d’artisti, dall’entusiasmo di studiosi, di sovrani ed intellettuali che fin dal momento della sua scoperta, nel 1748, ne hanno fatto un mito. “Abitavo a Pompei” riprende questo stato d’animo: “…è uno di quei libri che scavano nella memoria interessi e ricordi che occorre riproporre…- dichiara Maria Carla Tartarone – un rilevante incentivo, alla consapevolezza di noi tutti, del patrimonio che abbiamo la fortuna di possedere”. L’autore non segue una moda, né una semplice disposizione intellettuale, “quella segreta attrazione per le rovine” che tutti gli uomini provano, che “placa il senso della fugacità della vita umana, consola la nostra pochezza, anche dinanzi alla morte”, piuttosto eredita e concretizza le parole di Edwuard Bulwer-Lytton, autore del romanzo “Gli ultimi giorni di Pompei”, che nel 1834, dopo aver visitato le rovine della città campana, scrisse: “…popolare nuovamente quelle strade deserte, ricomporre quelle affascinanti rovine, infondere nuova vita in quei corpi sopravvissuti; attraversare quell’abisso di diciotto secoli e donare una seconda vita alla Città dei Morti!”. Sebastiano Patanè c’è riuscito.
La vita a Pompei di Eva Cantarella
Con Luciana Jacobelli, miti, leggende, storie, amori e le passioni politiche della città.
Eva Cantarella, Luciana Jacobelli “Pompei è viva”, Feltrinelli.
Eva Cantarella e Luciana Jacobelli firmano Pompei è viva (Feltrinelli editore), un racconto appassionato e colto alla scoperta della città vesuviana. Le due studiose, con abile ed avvincente gusto narrativo, coinvolgono il lettore in appassionanti storie della vita dei cittadini pompeiani: i costumi, i divertimenti, i servizi pubblici come pure i culti religiosi e la vita familiare. E non solo. Infatti, attraverso alcune testimonianze e documenti dell’epoca, rivelano alcuni aspetti intimi del tessuto civile: i miti, il folclore e, soprattutto, le relazioni amorose e le vicende politiche. Senza tralasciare gli aspetti sociali, dalla condizione femminile alle corporazioni dei mestieri. Se un innamorato in preda ai tormenti amorosi scrive «mi costringi a vivere senza di te, mi costringi a morire», i lavoratori si battono per i propri candidati alle elezioni: gli orefici sostengono il signor Pansa, i mulattieri Giulio Polibio, i pizzaioli Trebonio Valente, mentre «i fruttivendoli chiedono il voto per Marco Ennio Sabino come edile».
Tra leggenda e verità. «Diversamente da altre città archeologiche, Pompei offre la possibilità di conoscere chi l’ha abitata – spiega Cantarella – e permette di entrare nelle vite di persone vissute duemila anni fa, attraverso quello che ci hanno lasciato: non solo le strade, le case, i monumenti, ma anche tracce documentali che ci permettono di conoscere la loro vita privata, i commerci, la religione, il loro modo di vivere. E perfino i loro sentimenti, grazie alle poesie scritte sui muri». Molto già si è detto, ma spesso «per motivi commerciali si sono inventate un sacco di leggende – continua l’autrice – fantasticando sulla sessualità rappresentata liberamente negli affreschi delle ville pompeiane».
La curiosità. La società di Pompei è patriarcale. Un mondo creato dagli uomini a loro misura. Il parricidio è il crimine peggiore, punito con la pena più crudele: l’assassino è rinchiuso in un sacco con alcuni animali inferociti. Le donne, al contrario, sono ai margini della società. Quelle che vivono in famiglia devono osservare la verginità prima del matrimonio e poi la fedeltà e la devozione totale al marito, che invece non deve rendere conto a nessuno delle sue scelte. «I maschi – racconta Cantarella – volevano garantirsi la legittimità della prole e la possibilità di divertirsi anche sessualmente in tutti i modi. Mentre alle donne era proibito avere relazioni anche se erano nubili ed anche se erano vedove». A Pompei gli uomini possono concedersi relazioni anche con altri uomini, meglio se schiavi o stranieri, per mantenere sempre la tanto agognata virilità.
La storia. Il 24 agosto del 79, il cielo si fa nero e si riempie di cenere. La terra trema, il mare si infuria. Tutti fuggono, quasi nessuno si salva: il terremoto ricopre di lapilli persone, animali e case: ottocento abitazioni e diecimila abitanti. Plinio, abile cronista, documenta nel dettaglio quella terribile giornata, in cui «tutto sembra cambiato». Il mondo, per Pompei, si ferma in quelle ore. La cenere solidificata, ancora oggi, permette di ricostruire e vedere la città, nei suoi aspetti più significativi.
Il presente. Alcune importanti pagine sono dedicate allo stato attuale di conservazione dei reperti, e alla drammatica gestione del patrimonio. «La ricchezza dei tesori archeologici per noi è normale, quasi non ci fa più effetto – continua Cantarella – c’è poi tanta mala educazione, nel senso proprio di mancanza di educazione. Non si studia. A scuola non si affrontano davvero questi capitoli di storia. E sulla stampa si trovano solamente articoli scandalistici ma non si parla dell’importanza culturale di questo sito. Ma la vera grandezza di Pompei, ciò che la rende viva, è anche ciò che spinge le persone ad andare a Londra per vedere la mostra su Pompei al British Museum. Un esempio di questa originalità? Pensiamo ai graffiti pompeiani che ci raccontano come vivevano i suoi abitanti, come si divertivano, le locande che frequentavano. E poi agli avvisi commerciali e quelli delle compagnie teatrali che passavano…».
La curiosità. L’Unesco, nel 1997, dichiara Pompei “Patrimonio mondiale dell’Umanità”. Nel 2010,però, si verificano alcuni gravi crolli: la Schola armatorum (la scuola dei gladiatori) e la casa del Moralista. A causa della cattiva gestione del sito archeologico, nel 2013, l’Unesco ha ammonito l’Italia: se entro breve il sito archeologico non sarà migliorato, arrestando il progressivo deterioramento dei dipinti murali, dei pavimenti e dei mosaici, verrà presto estromesso dalla lista dei beni più belli al mondo.
Scavi archeologici di Pompei
Gli scavi archeologici di Pompei hanno restituito i resti dell'antica città di Pompei antica, presso la collina di Civita, alle porte della moderna Pompei, seppellita sotto una coltre di ceneri e lapilli durante l'eruzione del Vesuvio del 79, insieme ad Ercolano, Stabiae ed Oplonti[1].
Gli scavi, iniziati per volere di Carlo III di Borbone, sono una delle migliori testimonianze della vita romana[2], nonché la città meglio conservata di quell'epoca; la maggior parte dei reperti recuperati (oltre a semplici suppellettili di uso quotidiano anche affreschi, mosaici e statue), è oggi conservata al museo archeologico nazionale di Napoli ed in piccola quantità nell'Antiquarium di Pompei[3], attualmente chiuso: proprio la notevole quantità di reperti è stato utile per far comprendere gli usi, i costumi, le abitudini alimentari e l'arte della vita di oltre due millenni fa.
Il sito di Pompei, che nel primo decennio del nuovo millennio è stato visitato costantemente da oltre due milioni di persone all'anno[4], è risultato essere nel 2013 il secondo sito italiano per numero di visitatori, con 2.457.051 persone e un introtio lordo totale di 20.337.340,30 Euro[5] (preceduto solamente dal sistema museale che comprende Colosseo, Foro Romano e Palatino). Nel 1997, per preservarne l'integrità e sottolinearne l'importanza, le rovine, gestite oggi dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, insieme a quelle di Ercolano ed Oplonti, sono entrate a far parte della lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO[6].
I primi scavi nell'area pompeiana si ebbero a partire dal 1748[11], per volere di Carlo III di Borbone a seguito del successo dei ritrovamenti di Ercolano: i sondaggi furono svolti da Rocque Joaquin de Alcubierre, che, credendo di essere sulle tracce dell'antica Stabiae, riportò alla luce nei pressi della collina di Civita, diverse monete ed oggetti d'epoca romana, oltre a porzioni di costruzioni, prontamente ricoperte dopo l'esplorazione. Le esplorazioni furono ben presto abbandonate a causa degli scarsi ritrovamenti e ripresero soltanto nel 1754; nel 1763, grazie al ritrovamento di un'epigrafe, che parlava chiaramente della Res Publica Pompeianorum, si intuì che si trattava della antica città di Pompei[11]. Con Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV e l'ingegnere Francesco La Vega, parte della città, come la zona dei teatri, il tempio di Iside, il Foro Triangolare, diverse case e necropoli vennero riportate completamente alla luce e non più seppellite, ma rimaste a vista; fu durante il dominio francese, con a capo Gioacchino Murat e la moglie Carolina, che gli scavi godettero di un momento di ottima fortuna[12]: venne individuata la cinta muraria e riportata quasi del tutto alla luce la zona di Porta Ercolano; inoltre grazie alle pubblicazioni volute da Carolina, la fama di Pompei crebbe in tutta Europa, diventando tappa obbligata del Grand Tour[13].
Con il ritorno dei Borbone a Napoli, gli scavi vissero un periodo di stasi: se si esclude Francesco I[14], con Ferdinando II e Francesco II, le rovine furono usate soltanto come posto da far visitare agli ospiti di corte[15]. A seguito dell'unità d'Italia e soprattutto grazie a maggiori disponibilità economiche, sotto la guida di Giuseppe Fiorelli, si assistette ad una veloce ripresa delle indagini, in modo ordinato, con la prima divisione della città in regiones ed insulae; nel 1863 venne introdotta la tecnica dei calchi[16][17], mentre, tra il 1870 ed il 1885, fu redatta la prima mappa dell'intera area pompeiana. Durante il XX secolo, con Vittorio Spinazzola prima e Amedeo Maiuri dopo[18], furono completati la maggior parte degli scavi nei pressi di Porta Ercolano, della zona meridionale della città e di Villa dei Misteri, mentre si intrapresero importanti sessioni d'indagine lungo Via dell'Abbondanza[19]. A partire dagli anni sessanta si resero necessari lavori di restauro per gli edifici esistenti, che hanno di molto rallentato nuovi scavi, anche a causa di problemi di natura economica[20]. Nel 1980 il sito fu gravemente danneggiato dal violento terremoto dell'Irpinia[11]. Tra gli anni novanta e gli anni '10 del nuovo millennio, i nuovi scavi si concentrarono nella zona della IX regio, anche se molti fondi furono dirottati sulla conservazione ed il restauro dei monumenti già scavati; nel 1997 l'area archeologica entrò a parte del patrimonio dell'umanità dell'UNESCO[6]. A seguito della mancanza di un piano di restauro dell'intero sito, accentuato dal crollo della Casa dei Gladiatori nel 2010[21]., l'Unione europea stanziò un finanziamento per la salvaguardia degli scavi: tuttavia, durante lo svolgimento dei lavori di ristrutturazione, che presero il nome di "Grande Progetto Pompei"[22], si verificarono altri crolli, riguardanti per lo più parti di muratura, travature dei tetti o pezzi di intonaco[23].
Ville
Mosaico proveniente dalla Villa di Cicerone
Sono relativamente poche le ville d'otium ritrovate a Pompei: queste particolari costruzioni residenziali, a cui sempre veniva aggiunta una parte dedicata alle attività agricole, come celle vinarie, torchi e presse, erano costruite solitamente in luoghi isolati e panoramici, lontano dal centro abitato[24]: Pompei infatti aveva un sobborgo, chiamato Pagus Augustus Felix Suburbanus ed oggi riconducibile ai territori di Boscoreale, Boscotrecase e Terzigno, in cui sorgevano numerose ville di questo tipo, mentre ville propriamente d'otium si ergevano nella zona di Oplontis e sulla collina di Varano, a Stabiae. Tuttavia sono presenti nei pressi del centro cittadino, appena fuori o addossate alle antiche mura della città, abitazioni di questo genere[24].
La Villa dei Misteri è situata poco fuori porta Ercolano e la sua costruzione risale al II secolo a.C.: fu esplorata tra il 1909 ed il 1910 ed in seguito tra il 1929 ed il 1930; deve il suo nome ad una serie di affreschi presenti nel triclinio, con figure a grandezza naturale, tecnica chiamata megalographia, che rappresentano o uno spettacolo di mimi, o momenti di un rito, oppure i preparativi per un matrimonio[25]. La villa, a due piani, presentava sia ambienti rustici, come il forno, le cucine ed il torchio, sia residenziali, come l'atrio, una veranda ed il quartiere termale[25].
Il mosaico dell'Accademia di Platone proveniente dalla Villa di T. Siminius Stephanu
La Villa di Diomede, situata sempre nei pressi di porta Ercolano, a poca distanza da Villa dei Misteri, deve il suo nome ad una tomba posta di fronte l'ingresso, appartenuta a M. Arrius Diomedes. Fu scavata tra il 1771 ed il 1774 e presenta ambienti sia residenziali che rustici, oltre ad un ampio quartiere termale ed un triclinio con vista sul mare; una scala inoltre permetteva l'accesso ad un ambiente inferiore costruito su un criptoportico ed utilizzato come cantina, presso il quale furono trovati diversi corpi sepolti dall'eruzione ed una cospicua somma di denaro[26].
La Villa Imperiale si trova invece nei pressi di porta Marina e fu scoperta nel 1943[27]: si tratta di una grossa struttura, costruita abusivamente alla fine del I secolo a.C., nei pressi del tempio di Venere: fu notevolmente danneggiata dal terremoto del 62 e in seguito restaurata. La costruzione è preceduta da un lungo portico, ricco di edicole, lungo circa 90 metri, mentre il triclinio è il più grande rinvenuto a Pompei e presenta dei cicli pittorici in quarto stile, anche se non mancano esempi di pittura in terzo stile, che gli artisti mantennero durante i lavori di ristrutturazione[28].
La Villa di Giulia Felice, situata nei pressi di Porta Sarno, fu esplorata tra il 1755 e il 1757 e poi nuovamente tra il 1953 e il 1953. La casa, che a seguito del terremoto del 62 fu data in parte in affitto, è formata da un doppio atrio, un peristilio con al centro una peschiera ed un altare dedicato ad Iside ed un triclinio che aveva la funzione di grotta, dalla quale sgorgava acqua che attraverso un sistema di cascate terminava nell'ampio giardino[29].
Di altre ville si conosce l'esistenza perché esplorate durante il periodo borbonico, per essere depredate degli oggetti e pitture, o ritrovate accidentalmente, ma poi successivamente riseppellite: sono di esempio la Villa di Cicerone, la Villa di T. Siminius Stephanu e l'Edifizio dei Triclini. La Villa di Cicerone, posta poco fuori porta Ercolano, fu scavata nel 1763 e vennero recuperati diversi affreschi e due mosaici, realizzati da Dioskourides di Samo, in opus vermiculatum[30]; la Villa di T. Siminius Stephanu, nei pressi di porta Vesuvio, restituì il mosaico raffigurante l'Accademia di Platone[31]; l'Edificio dei Tricilini, scoperto in località Moregine nel 2000, a quasi un chilometro da porta Stabia, durante i lavori di ampliamento dell'autostrada Napoli – Salerno, era caratterizzato da tre triclini ed un ampio peristilio con giardino e piscina[32].
Case
L'impluvium della Casa del Fauno
Le case erano strutturate principalmente in tre tipologie, a seconda del ceto sociale e delle ricchezze del proprietario: le domus appartenevano ai ricchi ed erano abitazioni molto grandi che si disponevano solitamente intorno ad un atrio; avevano inoltre una zona dove si svolgeva la vita domestica, come cucine e stanze da letto ed una zona di rappresentanza, come il tablino, triclinio ed un peristilio con al centro il giardino, spesso ornato con fontane e non di rado un quartiere termale[33]. Case più piccole invece erano di proprietà del ceto medio ed erano composte per lo più da un cortile centrale scoperto intorno al quale si aprivano i cubicoli ed un piccolo giardino adibito ad orto[33]. Infine le cosiddette pergule, piccole case che appartenevano ai commercianti, formate da un vano che affacciava sulla strada ed utilizzato come bottega e, sul retro, piccole stanze, sfruttate sia come magazzini che come abitazioni[33]. Alcune tra le case più importanti:
La Casa del Citarista, dal nome di statua raffigurante Apollo Citarista, deve il suo aspetto attuale al I secolo a.C., a seguito di numerose ristrutturazioni, frutto delle aggiunte di altre piccole case circostanti: di proprietà dei Popidii, come testimoniato da insegne elettorali, presenta due peristili con sculture di animali in bronzo, ambienti termali ed un'area commerciale adibita a panificio, pasticceria e taverna[34].
La Casa del Menandro, di proprietà dei Poppaei, risale al III secolo a.C. ed ha subito poi numerosi rifacimenti che hanno incentrato la costruzione attorno al peristilio: presenta un atrio tuscanico con pitture in quarto stile, un salone con la raffigurazione umoristica delle nozze di Ippodamia ed un mosaico rappresentate scene nilotiche ed un quartiere termale con il calidarium adornato con mosaico con scene di animali marini[35].
La Casa di Ottavio Quartione, che deve il nome al proprietario di cui è stato ritrovato il sigillo, è anche chiamata di Loreio Tiburtino e fu costruita nel II secolo a.C. e successivamente ampliata, soprattutto a seguito del terremoto del 62: la maggior parte della struttura si sviluppa attorno all'atrio; di notevole interesse è il sistema di vasche: quella superiore era decorata con statue di divinità egizie, mentre quella inferiore, che attraversa il giardino, è divisa in tre scomparti, probabilmente per ospitare pesci; tra la vasca superiore e quella inferiore era posto il sacello[36].
L'atrio della Casa di Pansa
La Casa di Pinarius Cerialis era di proprietà di un gemmarius, ossia di un intagliatore di pietre e gemme: al suo interno infatti sono state ritrovate centosedici tra gemme, pastiglie vitree e cammei. Di buona fattura le pitture all'interno di un cubicolo, raffigurante scene di teatro[37].
La Casa degli Amorini Dorati fu costruita nel III secolo a.C. e ampliata nel I secolo a.C. ed apparteneva a Cn. Poppaeus Habitu: così chiamata a seguito del ritrovamento di una lamina d'oro sul quale erano disegnati degli amorini, si sviluppa intorno al peristilio con giardino, decorato con statue in marmo e affreschi che rappresentano divinità egizie; notevole il salone, con decorazioni in terzo stile e pavimentazione a mosaico[38].
La Casa del Fauno risale al II secolo a.C. anche se fu notevolmente ampliata nel secolo successivo: ha una superficie di circa tremila metri quadrati ed è così denominata per il ritrovamento di una statua in bronzo raffigurante un fauno, al centro dell'impluvium. Sicuramente una delle maggiori dimore di Pompei, ha due giardini con peristilio e due atri ed era decorata con affreschi in primo stile e pavimentata con mosaici, tra cui quello dell'esedra, raffigurante la battaglia tra Dario e Alessandro, oggi al museo archeologico nazionale di Napoli[39].
La Casa dei Vettii deve il suo nome alla famiglia a cui apparteneva, i Vettii appunto, come testimoniato da diverse iscrizioni elettorali e sigilli: l'abitazione, imperniata intorno al peristilio, fu ristrutturata nel I secolo. All'ingresso è l'affresco di Priapo ed il larario mentre nella cucina sono state ritrovate numerose pentole; la maggior parte della casa presenta affreschi in quarto stile, con pannelli colorati nel caratteristico rosso pompeiano[40].
La Casa del Centenario è così chiamata in quanto esplorata nel 1879 a diciotto secoli di distanza dall'eruzione del Vesuvio ed è una delle case più grandi di Pompei, frutto dell'unione di tre abitazioni: l'atrio è in stile tuscanico con pavimento a mosaico e pitture a soggetto teatrale, mentre il tablino dà l'accesso al peristilio porticato; al centro del giardino è la piscina, mentre sul fondo un piccolo ninfeo: la casa è dotata anche di un secondo quartiere più piccolo, con atrio centrale, circondato da stanze[41].
La Casa dei Dioscuri fu costruita nell'ultima fase di Pompei e venne esplorata tra il 1828 ed il 1829: la costruzione presenta un atrio corinzio con dodici colonne in tufo e le pitture sono tutte in quarto stile, tra cui quella dei dioscuri Castore e Polluce; finemente decorato anche il peristilio con elementi architettonici e nature morte[42].
Una casa adibita anche a taberna
La Casa del Chirurgo è una delle più antiche di Pompei, risale infatti al III secolo a.C., anche se poi nel corso degli anni ha subito due grossi interventi di restauro ed è così chiamata per il ritrovamento di numerosi oggetti medici, come sonde e bisturi: i muri interni sono costruiti a opera a telaio, mentre le uniche opere decorative ancora presenti sono una serie di affreschi in un ambiente finestrato, nei pressi del giardino, in primo ed in quarto stile[43].
La Casa del Forno risale al II secolo a.C. e fu ristrutturata a seguito del terremoto del 62: al momento dell'eruzione i lavori non erano ancora terminati; proprio a seguito dell'evento sismico, la zona residenziale fu spostata al piano superiore, mentre quello inferiore fu trasformato in panificio: è infatti presente il forno, le macine e la cucina. La casa presenta inoltre un giardino, dove era posta anche una stalla, nella quale fu probabilmente ritrovato lo scheletro di un mulo[44].
La Casa del Poeta Tragico fu scavata tra il 1824 ed il 1825 ed ha delle dimensioni ridotti rispetto alle altre grandi case di Pompei: All'ingresso è collocato un mosaico che reca la scritta:
(LA)
« CAVE CANEM »
(IT)
« Attenti al cane »
All'interno erano presenti diversi affreschi poi staccati e conservati al museo nazionale di Napoli, come la scena di prove teatrali, da cui la casa prende il nome, oppure episodi dell'Iliade. La casa inoltre venne scelta come modello per il romanzo di Edward Bulwer-Lytton, Gli ultimi giorni di Pompei[45].
La Casa di Pansa apparteneva ad un ricco commerciante campano, Alleius Nigidius Maius, anche se negli ultimi anni fu data in affitto: costruita probabilmente tra il 120 ed il 140 a.C., nel giardino furono ritrovati capitelli in ordine ionico. L'ingresso, l'atrio e il tablino sono posti in asse; la particolarità della casa è pavimentazione in pietre colorate che adornano il marciapiede antistante ed il vestibolo[46].
Edifici pubblici
Il Foro
La vita quotidiana dei pompeiani e loro attività politiche e commerciali si svolgevano in luoghi separati, con sedi ben definite.
Il Foro di Pompei, poco lontano da Porta Marina, era il cuore della città: fu sistemato nel II secolo a.C., abbattendo le numerose botteghe che lo circondavano e l'enorme piazza fu abbellita con statue, mai ritrovate, di dei o di cittadini illustri[47]; a delimitare lo spazio del foro erano gli archi onorari: se ne conservano tre ed avevano una funzione puramente scenica, rivestiti completamente in marmo ed erano dedicati ad Augusto, a Tiberio e a Caligola[48]. Il transito dei carri era interdetto ed una parte, sul lato ovest, era riservata agli oratori[47]. Intorno al foro si affacciavano gli edifici più importanti della città, come quelli dell'Amministrazione Pubblica, dove si riunivano le personalità politiche, costruiti al periodo precedente all'80 a.C. e ristrutturati a seguito del terremoto del 62; la Basilica, riservata alla giustizia e alle faccende economiche, fu costruita nel II secolo a.C. e presenta una pianta rettangolare, divisa in tre navate, dove restano tracce di decorazioni in primo stile[49]; la Mensa Ponderaria, ossia l'ufficio della misurazione delle capacità e del peso: era costituita da due banchi soprapposti, con cavità di diverse misure e aperture per la fuoriuscita del prodotto misurato; ed ancora il Tempio di Apollo, di Vespasiano e quello di Giove, il Santuario dei Lari Pubblici e le Terme del Foro[47].
Il Macellum
Il Foro Triangolare, altra importante piazza di Pompei, situato nella zona meridionale della città, esposto verso il mare ed il fiume Sarno, fu costruito intorno al II secolo a.C., a seguito dei lavori di risistemazione della zona dei teatri[50]: l'accesso avviene tramite propilei con colonne ioniche ed all'interno è un portico composto da novantacinque colonne, eccetto sul lato sud per consentire la vista sul golfo di Napoli; è inoltre presente un vialetto probabilmente utilizzato per corse e un thòlos, costruito intorno ad un pozzo sacro, con colonne doriche[51].
Il Macellum era il mercato della città: costruito nel II secolo a.C., con decorazioni in quarto stile, si accede attraverso un portico, decorato con statue ed all'interno è un cortile porticato sotto il quale si aprivano le botteghe; al centro erano poste le basi per sostenere la copertura: oltre alla vendita di pesce e carne, si organizzavano anche banchetti in onore dell'imperatore[52]. I Granai del Foro era invece il mercato della frutta e della verdura e probabilmente al momento dell'eruzione non era ancora completato o non in uso: la struttura è un semplice porticato, nei pressi di una latrina ed è oggi utilizzato come deposito dei reperti rinvenuti nel corso degli scavi, oltre ad ospitare diversi calchi[47].
Un thermopolium
Molto utilizzato nell'antica Pompei era il pane: esistevano circa trentaquattro panifici, con forni a legna, macine e un banco per la vendita. Il panificio di Popidio Prisco era gestito da un liberto[53], il panificio di Modesto, o Casa del Forno, era invece il più grande della città e il panificio di Soterico, anch'esso tra i più grandi, conserva il locale dedicato all'impastatura del pane[54].
I termopoli erano edifici nel quale venivano venduti cibi caldi e bevande e a Pompei se ne contavano poco meno di un centinaio[55]. Il Thermopolium di Vetutius Placiudus affacciava direttamente sulla strada, presentava un bancone e diversi dolia, oltre ad un locale retrostante la bottega dove poter consumare il pasto: interessante il larario con affreschi dei Lari e Mercurio e Dioniso ed un triclinio decorato in terzo stile. Nel Thermopolium delle Aselline, con tre banconi di vendita ed un larario con raffigurazioni di Mercurio e Bacco, sono state ritrovate numerose suppellettili, sia in bronzo che in terracotta, oltre a 683 sesterzi; la facciata esterna reca una rappresentazione di brocche ed imbuto ed una iscrizione elettorale con riferimento ad Asellina, probabilmente la proprietaria della locanda[56]. Il Thermopolium della Fenice, lungo Via dell'Abbondanza, gestito da un orientale di nome Euxnius, è così chiamato per la presenza di una fenice sull'insegna esterna: oltre ad un vasto orto coltivato a viti, all'interno fu ritrovato un affresco raffigurante pavoni su un prato[57].
L'Officina del Garum era addetta alla vendita del garum, una particolare salsa ottenuta dalla fermentazione delle interiora di pesci[58]; nell'edificio sono stati ritrovati dei recipienti, chiusi da coperchi, con all'interno la salsa, mentre nel vicino giardino, era posto un grande deposito di anfore[59].
Affresco proveniente dall'Officina di Verecundus
Sviluppata a Pompei era la lavorazione della lana, con tredici officine che lavoravano il materiale grezzo, sette che effettuavano la filatura, nove la tintura e diciotto il lavaggio: l'Edificio di Eumachia, dal nome della sacerdotessa che ne aveva voluto la costruzione, era o il mercato della lana, oppure sede della corporazione dei fullones[60]; la costruzione avvenne dopo il 62 ed era interamente in opera laterizia. All'interno presenta numerose nicchie, nelle quali erano ospitate delle statue, per lo più riguardanti la famiglia imperiale, un colonnato, due corridoi laterali e nei pressi dell'ingresso era posta una giara, nella quale si raccoglieva l'urina, utilizzata come detergente per gli abiti[61]. La Fullonica di Stephanus, dal nome del proprietario o gestore, era originariamente una casa poi trasformata in magazzino per la lavorazione della lana: al piano inferiore si svolgeva l'attività lavorativa e quella di lavaggio, effettuato in grosse vasche con acqua, soda ed urina, mentre al piano superiore si provvedeva all'asciugatura delle vesti. L'Officina di Verecundus era dedicata alla tessitura, bollitura e vendita delle stoffe: sulla facciata era raffigurato Mercurio e Venere, mentre all'interno è stato ritrovato un calderone in bronzo decorato con un fallo alato, oltre ad un architrave decorata con Apollo, Giove, Diana, Mercurio e Venere[62].
Il Castellum Aquae era il principale edificio per il rifornimento idrico della città: situato ad un'altezza di quarantadue metri, nei pressi di Porta Vesuvio, convogliava le acque provenienti dall'acquedotto romano del Serino in un sistema di tre condutture regolate da saracinesche. Fu ristrutturato a seguito del sisma del 62 e presentava una struttura circolare in opera incerta, laterizia e reticolata, con una cupola di sei metri di diametro: al momento dell'eruzione, l'intero sistema idrico e quello delle fontane pubbliche non era in funzione[63].
La Schola Armaturarum fu costruita negli ultimi anni di vita di Pompei ed era un edificio di stampo militare dove i giovani venivano istruiti alla lotta e alle arti gladiatorie; inoltre fungeva da deposito per le armi, come testimoniato da un elevato numero di armature ritrovate al suo interno. La struttura, originariamente adibita a casa, presentava particolari decorazioni in stile militare come rami di palma, vittorie alate e candelabri con aquile: tuttavia tutti gli ornamenti sono andati perduti a seguito di un crollo verificatosi il 6 novembre 2010[21].
Edifici ludici
L'Anfiteatro
Erano molteplici le attività di intrattenimento dei pompeiani: spettacoli di gladiatori nell'anfiteatro, spettacoli culturali come commedie, poesie o musica nei teatri, bagni, massaggi e ginnastica nelle strutture termali, combattimenti ed allenamenti militari nelle palestre e svago sessuale nei lupanari.
L'Anfiteatro di Pompei fu costruito tra l'80 ed il 70 a.C. ed, in seguito, ristrutturato dopo il terremoto del 62[64]: risulta essere uno dei più antichi, nonché uno dei meglio conservati al mondo ed aveva una capienza di circa ventimila persone. All'esterno presenta un ordine inferiore ad archi ciechi, realizzati in opera incerta, mentre l'ordine superiore presenta archi a tutto sesto. L'arena è in terra battuta ed è divisa dalla platea da un parapetto altro circa due metri, che, prima dell'eruzione, era affrescato con immagini di lotte tra gladiatori; la cavea è divisa in tre zone, destinata ai diversi ceti sociali degli abitanti della città e l'intero complesso disponeva di un velarium che veniva utilizzato per proteggere gli spettatori dal sole o dalla pioggia[65]. L'anfiteatro fu inoltre lo scenario di una violenta rissa tra pompeiani e nocerini, nel 57, che portò a numerosi feriti ed alla perdita di diverse vite umane: a seguito di questo evento, il senato decise di chiudere l'edificio per dieci anni, ma il provvedimento fu poi annullato dopo il terremoto del 62[66].
Il Teatro Grande
Il Teatro Grande fu costruito durante l'epoca sannita e subì nel corso degli anni numerosi rifacimenti: realizzato in opus incertum, con una tipica architettura greca, era in grado di ospitare circa cinquemila spettatori[67]. La zona dell'orchestra è disposta a forma di ferro di cavallo, la cavea è divisa in tre ordini e tutta la struttura poteva essere coperta da un velarium; la scena fu ricostruita dopo il terremoto del 62, in opera laterizia ed era decorata con marmi e statue, mentre lo sfondo voleva imitare un palazzo principesco[67]. Il Teatro Piccolo, chiamato anche Odeion, fu costruito intorno all'80 a.C. ed era in grado di ospitare un pubblico di circa milletrecento persone: al suo interno venivano declamate poesie e si svolgevano spettacoli musicali. La struttura ricorda quella del Teatro Grande, con pianta semicircolare: la cavea divisa in due parti, con le gradinate decorate da talamoni, mentre l'orchestra è pavimentata in marmo[68]. Il Quadriportico dei Teatri fu costruito intorno all'80 a.C. ed era utilizzato come foyer per gli spettatori del Teatro Grande; a seguito del terremoto del 62 venne riconvertito in palestra per gladiatori e lungo le mura perimetrali, dove prima era un colonnato, fu aggiunto un secondo piano, utilizzato come alloggio per i combattenti e luogo per gli allenamenti: durante la sua esplorazione furono trovati diversi cadaveri tra cui un bambino di pochi giorni posto in una giara ed una matrona con un grosso quantitativo di gioielli[69].
Affresco delle Terme Suburbane
Le Terme Stabiane, erano il complesso termale più antico della città: risalivano infatti al IV-III secolo a.C. ed avevano subito nel corso degli anni numerosi rifacimenti. Nella parte est, divise in due sezioni, per uomini e donne, sono l'apodyterium, il frigidarium, il calidarium e il tepidarium, oltre alle fornaci: tutta la pavimentazione era completamente riscaldata; a nord è posta una latrina, mentre ad ovest una piscina. Si conservano raffigurazioni in stucco, tipiche del quarto stile, di soggetti mitologici e personaggi pompeiani[70]. Le Terme del Foro, costruite intorno all'80 a.C. seguivano come modello quelle Stabiane ma offrivano prezzi più vantaggiosi: possedevano un apodyterium, un frigidarium, un tepidarium, riscaldato con un braciere, un calidarium ed una palestra porticata; le decorazioni sono in stucco e raffigurano per lo più figure mitologiche e partizioni geometriche[71]. Le Terme Centrali, nei pressi di Via di Nola, erano un complesso termale ancora in costruzione al momento dell'eruzione: mancavano infatti le fornaci, così come il giardino, la piscina e la palestra non erano stati ancora sistemati; nei pressi dell'ingresso principale sono presenti due piccoli ambienti che avrebbero dovuto servire da biglietteria e guardaroba[72]. Le Terme Suburbane erano di proprietà privata e furono costruite nel I secolo a.C., fuori le mura della città: oltre ai normali ambienti avevano anche una piscina calda ed una fredda, quest'ultima ornata da una finta grotta da cui sgorgava acqua[73]; interessante l'affresco in quarto stile dello spogliatoio, ossia sedici pannelli raffiguranti scene erotiche, tra cui uno con protagonista due donne, unico esempio nella pittura romana[74].
La Palestra Grande fu costruita in sostituzione della Palestra Sannitica, durante il periodo augusteo, ma fu notevolmente danneggiata dal terremoto del 62, tant'è che al momento dell'eruzione non era utilizzata[75]. Ha una pianta rettangolare e misura centoquaranta metri di lunghezza per centotrenta di larghezza: il perimetro è interamente porticato con colonne ioniche, eccetto il lato est, mentre al centro del piazzale è posta una piscina con un fondo inclinato in modo tale da potere avere diverse profondità che andavano da un minimo di sessanta centimetri ad un massimo di due metri; presente anche una latrina[75]. La Palestra Sannitica risale al II secolo a.C. ma perse d'importanza a seguito della costruzione della Palestra Grande. Originariamente aveva dimensioni maggiori rispetto a quelle attuali: infatti, a seguito del terremoto del 62, parte della struttura fu distrutta per eseguire i lavori di ampliamento del vicino tempio di Iside: ha una pianta trapezoidale, con colonnato su tre lati ed al suo interno, durante l'esplorazione, fu ritrovata una copia della statua raffigurante il Doriforo di Policleto[76].
Dei circa venticinque lupanari che esistevano a Pompei, il Lupanare della regio VII, era l'unico costruito con la precisa funzione di ospitare prostitute: si tratta di una struttura su due livelli, costruita poco prima dell'eruzione del 79. Sia il piano inferiore, che quello superiore contano cinque stanze, anche se le camere del secondo piano sono di maggiori dimensioni: sulle porte d'ingresso sono gli affreschi erotici del tipo di prestazione sessuale svolta in quella stanza e si possono riscontrare inoltre duecento graffiti, per lo più nomi di prostitute e clienti[77].
Templi
Il tempio di Apollo
La maggior parte delle strutture sacre di Pompei furono costruite tra il III ed il II secolo a.C. e poi notevolemente ampliate a seguito della dominazione di Lucio Cornelio Silla: al momento dell'eruzione erano quasi tutte in ristrutturazione o ricostruzione a seguito del terremoto del 62.
Il Tempio di Apollo è uno dei più antichi di Pompei: fu infatti costruito tra il 575 e 550 a.C. e restaurato prima nel II secolo a.C. e poi a seguito del terremoto del 62[3]; la struttura è circondata da un quadriportico in tufo, con colonne in stile ionico e trabeazione dorica[78]. La scala d'accesso immette sull'alto podio, dove è posta la cella, pavimentata con pietre policrome; nel cortile sono poste le statue di Apollo e Diana nelle sembianze di arcieri, oltre ad un altare risalente all'80 a.C. ed una meridiana costruita probabilmente in età augustea[79].
Il Tempio Dorico risale alla prima metà del VI secolo a.C. e dopo numerose ristrutturazioni, fu gravemente danneggiato dal sisma del 62 e conseguentemente abbandonato. Così chiamato in quanto costruito in stile dorico, era circondato da colonne ed al centro era posta la cella; del tempio rimangono dei capitelli, dei gradini del basamento ed una base sul quale erano probabilmente venerete le divinità di Atena ed Ercole, così come testimoniato dal ritrovamento di un'epigrafe[80].
Il tempio di Venere
Il Tempio di Asclepio, così chiamato a seguito del ritrovamento di statue in terracotta che si rifacevano al personaggio della mitologia greca, è anche denominato di Giove Meilichio, appellativo utilizzato soprattutto nell'antica Grecia, per il culto della divinità connessa a riti segreti e dell'oltretomba. Situato nei pressi della via Stabia, è stato costruito intorno al III-II secolo a.C.; è costituito da un portico ed un cortile, al centro del quale è posta un'ara in tufo, mentre il piedistallo sul quale venivano poggiate le statue per il culto è racchiuso in una cella sostenuta da colonne con capitelli corinzi[81].
Il Tempio di Iside, realizzato nel II secolo a.C. e restaurato a seguito del terremoto del 62, fu esplorato tra il 1764 ed il 1766; la struttura è costituita da un portico, nel quale si aprono diversi ambienti di servizio, un pozzo ed purgatorium, mentre al centro è il pronao, realizzato con quattro colonne facciali e due laterali, dove in due nicchie erano poste le statue delle divinità Anubi e Harpokrate, mentre nella cella più larga era posto il basamento dov'era poggiata la statua di Iside: tutto il tempio aveva decorazioni in quarto stile, oggi conservate al museo archeologico di Napoli[82].
Il Tempio di Giove, situato nei pressi del foro, risale al II secolo a.C. ed è così chiamato per il ritrovamento della testa di una statua appartenente a Giove, anche se l'intero complesso era dedicato alla Triade Capitolina, ossia agli dei Giove, Giunone e Minerva. Il tempio poggia su un alto podio, restaurato tra il 13 e il 47 ed è caratterizzato da due ordini di colonne; la cella aveva una pavimentazione in pietra policroma, disposta ad opus scutulatum[83].
Decorazione dell'ara del tempio di Vespasiano
Il Tempio di Venere fu costruito a seguito della conquista di Lucio Cornelio Silla e dedicato alla dea della bellezza in quanto sia protettrice del generale romano, sia della città. Edificato su un collinetta tufacea, rivolto verso il mare e il fiume Sarno, il tempio doveva essere uno dei più belli di Pompei: composto da un portico decorato in marmi e poggiante su un podio in tufo, è stato completamente spogliato, facendone risultare difficile ogni interpretazione[84].
Il Tempio della Fortuna Augusta fu sicuramente costruito dopo il 13 a.C., al ritorno a Roma di Augusto dopo le spedizioni di conquista, per celebrare le imprese dell'imperatore: fu edificato per volere di M. Tullius. Realizzato con colonne e capitelli in ordine corinzio, aveva una cella, preceduta da colonne, nel quale era posta la statua della Fortuna e diverse nicchie con le statue della famiglia imperiale e dello stesso Tullius[85].
Il Santuario dei Lari Pubblici fu probabilmente eretto a seguito del terremoto del 62 come dono verso gli dei, irati con la città e per questo punita con il terribile evento sismico; secondo altri invece il tempio è precedente al 62 e dedicato alla famiglia imperiale. La struttura è composta da un parete perimetrale, in opus reticolatum e incertum, che in principio doveva essere rivestita di marmi, ma mai completata a seguito del sopraggiungere dell'eruzione del 79: la parete presenta nicchie e colonne, mentre al centro è posto l'altare per i sacrifici[86].
Il Tempio di Vespasiano o Aedes Genii Augusti fu probabilmente un tempio dedicato al primo imperatore romano, Ottaviano Augusto e, di volta in volta, dedicato ai successivi imperatori, fino a Tito Flavio Vespasiano: al momento dell'eruzione il tempio era o in costruzione o in restauro. Nel cortile è posto un altare in marmo bianco, decorato con la scena di un sacrificio di un toro; segue poi il podio, a cui si accede tramite due scale laterali, sul quale è posta la statua dell'imperatore[87].
Il Tempio di Mefite risale al III secolo a.C. ed era appunto dedicato a Mefite, in quanto è stato ritrovato materiale votivo in suo onore; l'edificio, collocato nella parte sud di Pompei, è di epoca sannita e presenta portici e cisterne[88].
Urbanistica
Porta Marina
La città di Pompei è circondata da un cinta muraria di tremiladuecentoventi metri, nella quale si aprono sicuramente sette porte più una ottava, Porta Capua, dall'esistenza incerta[91]. In un primo momento le mura erano di dimensioni ridotte e realizzate con blocchi di lava e pappamonte; in seguito vennero ampliate e fu costruita una doppia cortina parallela riempita con pietre e terra battuta. Durante l'epoca sannita fu costruito un terrapieno intorno alla città, mentre, nel III secolo a.C., furono costruite nuove mura in calcare di Sarno e tufo grigio di Nocera, con contrafforti e torri a distanze irregolari, dodici per la precisione, nei punti più esposti della città, ossia nella parte nord: interessante è la Torre di Mercurio, a due piani, con una scala interna, nella quale sono ben visibili i colpi delle catapulte, scagliate da Lucio Cornelio Silla. Fu proprio a seguito della conquista di Silla che le mura divennero inutili e furono in parte abbattute o integrate a nuovi edifici[91].
Immagine d'epoca della Via Stabiana
Porta Nocera fu costruita nel IV secolo a.C. e risale quindi all'epoca sannita ed è così chiamata poiché da essa partiva la via che conduceva a Nuceria Alfaterna: simile a quella di Stabia e di Nola, ha un vano con volta a botte, dove era posta la porta, un corridoio con due bastioni alle estremità ed era realizzata con blocchi di calcare[92]. Porta Ercolano, conosciuta anche con il nome di Porta del Sale, si apriva sulla strada che portava verso Ercolano e la parte nord del golfo di Napoli; fu costruita dopo la conquista di Silla ed è decorata con stucchi: nelle sue vicinanze sorge una necropoli. Porta Marina, nonostante la sua imponenza, simile ad un bastione, era una delle meno frequentate e conduceva al mare: si presenta con due fornici ad arco a tutto sesto ed una volte a botte in opera cementizia; oggi è la porta che da l'accesso al sito archeologico[93]. Porta Nola fu costruita intorno al III secolo a.C. da Vivio Popidio, così come testimoniato da un'iscrizione in lingua osca rinvenuta sulla porta: realizzata in tufo, con una volta a botte, ha la chiave di volta decorata con una scultura raffigurante la testa di Minerva; all'esterno una piccola area funeraria[94]. Porta Vesuvio si trova all'estremità nord del cardine ed era una delle più interessate dagli scambi commerciali: al momento dell'eruzione era in completo rifacimento e nelle sue vicinanze si ergono tre torri, poste a difesa della città[95]. Porta Stabia, posta nella parte sud del cardine, era la più antica ed una delle più trafficate: da essa infatti si giungeva al porto sul fiume Sarno. Porta di Sarno si trova al termine di Via dell'Abbondanza ed la peggior conservata tra tutte le porte, in quanto ha perso quasi del tutto la sua conformazione originale[96].
L'antica Pompei seguiva lo scherma urbanistico della tipiche città romane, anche se il Foro non era posizionato esattamente all'incrocio del cardine con il decumano[97]. Via dell'Abbondanza è il decumano inferiore ed è così chiamata per il ritrovamento di un bassorilievo, posto su di una fontana pubblica, raffigurante la Concordia Augusta, erroneamente definita come l'Abbondanza[98]: la via conserva ancora la sua pavimentazione originale ed è costeggiata da due marciapiedi; questa inizia dal Foro per terminare a Porta Sarno, toccando diversi importanti edifici della città come le Terme Stabiane e l'Anfiteatro[98]. Da Via dell'Abbondanza, che era la strada principale di Pompei, si aprono diverse strade secondarie, come la Via dei Teatri, che conduce alla zona dei teatri e del Foro Triangolare. Il decumano superiore è invece rappresentato dall'unione della Via delle Terme, Via della Fortuna e Via di Nola e comincia dalle Terme del Foro, per terminare alla Porta di Nola. Il cardine è delineato dall'unione di Via del Vesuvio con la Via Stabiana ed andava dalla Porta Vesuvio fino alla Porta di Stabia, da dove si proseguiva per il porto[99].
Scavi: Origini e XVIII secolo
L'anfiteatro, uno dei primi edifici ad essere ritrovato
Già poco dopo l'eruzione l'Imperatore romano Alessandro Severo diede ordine di scavare nella zona dove sorgeva l'antica Pompei, ma a causa della fitta colte di ceneri e lapilli, l'esperimento si esaurì poco dopo[3]. Tra il 1594 ed il 1600, a causa della costruzione di una canale che aveva il compito di portare acqua dal fiume Sarno fino a Torre Annunziata, voluto dall'architetto Domenico Fontana, furono rinvenute monete e resti di edifici: tuttavia non fu compreso che si trattava dell'antica città romana ed a seguito del terremoto del 1631 tutto fu nuovamente abbandonato[3].
Il tempio di Iside in una foto di fine '800
A seguito del ritrovamento dell'antica Ercolano e dei suoi reperti, la dinastia borbonica voleva accrescere il suo patrimonio artistico con l'intento di dare maggiore prestigio alla casa reale[1]: fu così che il 23 marzo 1748 l'ingegnere Rocque Joaquin de Alcubierre, con l'aiuto dell'abate Giacomo Martorelli e degli ingegneri Karl Jakob Weber e Francisco la Vega, questi ultimi due con il compito di curare i giornali di scavo, aprì un primo cantiere nella zona di Civita, presso l'incrocio di una strada che da un lato portava nell'attuale Castellammare di Stabia, dall'altro a Nola[4]. Furono ritrovate monete, statue, affreschi e uno scheletro, ma fu anche individuata una parte dell'anfiteatro e la necropoli di Porta Ercolano: de Alcubierre credeva che si trattasse dell'antica Stabiae. Tuttavia la mancanza di ritrovamenti di oggetti di valori, fece spostare l'attenzione nuovamente su Ercolano ed il cantiere fu chiuso[4]: durante di scavi di questo primo periodo, dopo l'esplorazione e la raccolta di reperti, le costruzioni venivano nuovamente sepolte e le modalità d'indagine erano molto approssimative, tant'è che quando le pitture non venivano considerate adatte, le mura degli edifici che le contenevano venivano distrutte[5]. Gli scavi a Pompei ripresero nel 1754, grazie anche all'entusiasmo prodotto dal ritrovamento della Villa dei Papiri ed Ercolano e riguardarono per lo più diverse zone già individuate negli anni precedenti come i Praedia di Iulia Felix e la Villa di Cicerone nei pressi di Porta Ercolano; nel 1759, con la creazione da parte di Carlo di Borbone, dell'Accademia Ercolanese[5], si iniziò a registrare e descrivere i vari ritrovamenti che venivano effettuati nella zona vesuviana. Nel 1763, grazie all'individuazione di un'epigrafe di Titus Suedius Clemens, dov'era nominata la Res Publica Pompeianorum, si poterono associare i ritrovamenti archeologici a Pompei e non a Stabiae[4].
Con la salita al potere di Ferdinando I delle Due Sicilie, ma soprattutto per volere della moglie Maria Carolina, nel periodo compreso tra il 1759 e 1799, fu riportata alla luce parte della città, questa volta non più riseppellita ma rimasta a vista, grazie anche un sistema di scavo sistematico, voluto dal direttore Francisco la Vega, il quale preferiva che i reperti, soprattutto gli affreschi parietali, rimanessero alle mura e non asportati per essere trasporti al museo nella Reggia di Portici, trasferite poi, a partire dall'inizio del XIX secolo, al Real Museo di Napoli[6]: tra il 1764 ed il 1766 fu riportato alla luce parte della zona dei teatri, del tempio di Iside e del Foro Triangolare; tra il 1760 ed il 1772 l'attenzione si spostò nella zona nord-occidentale della città, con le esplorazioni della Villa di Diomede, della Casa del Chirurgo e della Via dei Sepolcri, dove furono rinvenuti, oltre a monete di oro ed argento, anche diciotto corpi, morti a causa dell'eruzione[4]. Durante gli scavi del XVIII secolo furono prodotti una grande quantità di documenti: la maggior parte erano delle semplici liste che riportavano tutti i reperti recuperati, mentre alcune opere di ordine descrittivo contribuirono a far conoscere Pompei ed Ercolano in tutta Europa[7].
XIX secolo
Operai a lavoro nel XIX secolo
Nel 1798 Ferdinando IV voleva scacciare i Francesi da Roma, ma dopo essere stato sconfitto, questi marciarono verso Napoli ed il re fu costretto a scappare: fu così fondata la Repubblica Napoletana; in questo periodo, il generale Jean Étienne Championnet, diede ordine di continuare l'opera di scavo a Pompei, concentrandosi soprattutto nell'area meridionale[8]. L'anno seguente i Francesi abbandonarono Napoli ma Ferdinando IV tornerà però solo nel 1802: in questo lasso di tempo, sia per problemi di ordine politico, ma soprattutto finanziario, tutte le attività di scavo vennero sospese. Un nuovo impulso fu dato dall'arrivo di Giuseppe Bonaparte nel 1806, che insieme al ministro Antoine Christophe Saliceti, gestiva un organico di circa cinquecento operai: inoltre con l'aiuto del direttore del museo di Portici, Michele Arditi, iniziarono i primi espropri di case dall'area archeologica, per evitare che cittadini privati potessero effettuare scavi a loro spese impossessandosi dei reperti ritrovati, furono aumentati i sorveglianti, regolamentate le visite e si evitarono scavi isolati, concentrandosi su determinate zone, in particolare nei pressi di Porta Ercolano, dove fu scoperta la Casa di Sallustio[8]. A seguito della partenza di Bonaparte per la Spagna, nel 1808, il regno di Napoli fu affidato a Gioacchino Murat, la cui moglie Carolina Bonaparte era una appassionata di archeologia: fu infatti la donna che prese il controllo delle indagini ed incoraggiava gli operai, che nel frattempo erano saliti a 624, oltre a circa 1.500 zappatori[5], con continue ricompense economiche; ciò nonostante, la scelta di uomini estranei al sapere archeologico provocò non pochi malumori tra gli addetti, come ricordato all'architetto François Mazois:
La basilica, riportata alla luce sotto Carolina Bonaparte
« ...questi uomini estranei alle arti nutrivano poco rispetto per i monumenti e si divertivano talvolta a rovinarli; si fu così obbligati a servirsi dei soldati solo per lo scavo delle mura e dell'Anfiteatro[9]. »
Sotto la regina Carolina venne individuata la cinta muraria della città e fu per lo più scavata la zona dei teatri e del foro, oltre a diverse insulae adiacenti alla zona di Porta Ercolano[8]: a tale periodo risale la scoperta della Casa di Pensa e della Basilica. Sempre su ordine di Carolina furono pubblicate numerose guide che riportavano la planimetria delle scoperte di Pompei ed inviate poi in tutta Europa, facendo diventare il luogo tappa obbligata del Grand Tour[3]: grazie a queste pubblicazioni, Charles François Mazois, venuto a conoscenza degli scavi vesuviani, lavorò a Pompei tra il 1809 ed il 1813 editando poi Les ruines de Pompéi[5], la maggiore opera di epoca borbonica riguardante gli scavi; divisa in quattro sezioni, la prima parte del testo descriveva la rete viaria, tombe, porte e mura, la seconda fontane e case, la terza gli edifici pubblici e la quarta teatri, templi e l'urbanistica[10].
Mosaico di Alessandro Magno, ritrovato nella casa del Fauno
Il ritorno della dinastia borbonica segnò un nuovo periodo di stasi, soprattutto sotto Ferdinando I, il quale vendette nuovamente parte dei terreni espropriati a privati e ridusse il numero di operai a sole tredici unità: venne comunque recuperato l'intero foro[11]. Con la salita al trono di Francesco I, tra il 1820 e 1830, si assistette ad una nuova ripresa degli scavi, in particolar modo nella zona di Via Mercurio e della regio IV, dove furono trovate numerose abitazioni di notevole interesse architettonico: nel 1830 venne scoperta la Casa del Fauno, con il grosso mosaico dedicato ad Alessandro Magno. Con Ferdinando II prima, e Francesco II poi, l'interesse per l'area archeologica di Pompei andò nuovamente scemando ed i due utilizzarono il sito solo come una sorta di museo per i loro ospiti: fu visitato da Alexandre Dumas nel 1835, papa Pio IX nel 1849 e Massimiliano II di Baviera nel 1851[11]. Vengono riportate alle luce nel 1845 le aree circostanti di Via dell'Abbondanza e recuperate Via Stabiana, Via della Fortuna e Via di Nola; si assiste inoltre ad un primo parziale restauro delle strutture già esplorate, come quelle delle Terme del Foro e delle Terme Stabiane[12]. Altro evento importante fu nel 1840 la costruzione della linea ferroviaria da Napoli verso Nocera, con la stazione nei pressi di Porta Marina, che permetteva un più facile raggiungimento del sito da parte di un maggior numero di persone[11]. Oltre alle normali pubblicazioni, in questo periodo prende il via una nuova forma di documentazione, ossia quella fotografica, anche se utilizzata per scopi turistici, piuttosto che di studio e restauro: risale al 1851 la prima serie completa di fotografie su Pompei, realizzate dall'architetto Alfred Nicolas Normand[13]. Dal 1854 cominciarono inoltre una serie di pubblicazioni intitolate Le case e i monumenti di Pompei disegnati e descritti con tavole a colori, che aumentarono notevolmente la fama di Pompei in Europa[14].
Via Stabiana, esplorata subito dopo l'Unità d'Italia
Con l'unità d'Italia ci fu un repentino cambiamento nelle opere di scavo: la direzione fu affidata a Giuseppe Fiorelli, che potendo disporre anche di un maggior supporto economico, iniziò lo scavo integrale di diverse insulae e concluse quello di alcune già parzialmente esplorate, come nei pressi di Via Stabiana e delle porte Stabia e Marina[15]; proprio a Fiorelli si deve la prima ordinata opera di scavo, con la divisione della città in insulae e regiones[16]. Nel 1863 fu introdotta la tecnica dei calchi, ossia si intuì che riempiendo con gesso le tracce lasciate dal decomposizione dei materiali organici, si poteva risalire a persone, piante e oggetti della vita romana[16]. Tra il 1870 ed il 1885 fu redatta la prima mappa dell'intera area pompeiana, opera di Giacomo Tascone, costantemente aggiornata ed al contempo fu creato il plastico 1:100, oggi conservato al museo archeologico nazionale di Napoli, che riproduceva l'intera area degli scavi[13]. Nel 1875 il complesso delle rovine di Pompei passò nelle mani della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Regno, che affidò l'opera di esplorazione a Michele Ruggero, il quale proseguì la campagna di scavo lungo la Via di Nola, portando alla luce la Casa delle Nozze d'Argento, ricostruendo la sala corinzia e l'atrio[15]: non fu l'unico esempio di ricostruzione, in quanto anche in altre strutture furono rifatti i tetti e ricostruite le mura, soprattutto per preservare gli affreschi che sempre più spesso venivano conservati al loro interno piuttosto che asportarti; furono inoltre rinvenute, nella parte sud della città, alcune case a terrazza. Sempre in questo periodo ci fu il ritrovamento della statua del Satiro e dell'affresco di Bacco ed il Vesuvio nella Casa del Centanario e delle tavolette cerate, ossia dei documenti sulla contabilità, nella casa di Lucio Cecilio Giocondo, decifrate poi da Giulio De Petra[15]. Nel 1878 furono operate le prime ricerche per l'individuazione della linea di costa prima dell'eruzione del Vesuvio del 79, mentre nel 1884, 1888 e 1889, all'interno del tempo Dorico, vennero realizzate delle ricerche in profondità per accertare la presenza di tracce pre-romane e per comprendere lo sviluppo urbanistico della città. Nell'ultimo decennio del XIX secolo fu esplorata la zona settentrionale della città, che portò alla scoperta della Casa dei Vettii, oltre allo scavo della cinta muraria compresa tra le torre IX e X[15].
XX e XXI secolo
Affresco di Villa dei Misteri
L'inizio del XX secolo fu caratterizzato dalla decisione di poter lasciare effettuare a privati sessioni di scavo, per lo più al di fuori della antica città: questo provvedimento, molto discusso, provocò la perdita di notevoli reperti, ma permise al contempo di ottenere importanti informazioni su opere fondamentali dei pompeiani della città come ad esempio sul porto, che fu individuato tra il 1899 e il 1901, nei pressi di un canale del fiume Sarno[18]. Antonio Sigliano divenne direttore degli scavi nel 1905 e promosse un importante progetto di esplorazione, che purtroppo non riuscì a concludere: si trattava di una serie di sondaggi sotterranei, per conoscere la storia pre-romana di Pompei ed allo stesso tempo diverse esplorazioni di necropoli nei pressi delle porte Vesuvio, di Nola e di Ercolano, quest'ultime di origine sannitica. Nel 1911 Vittorio Spinazzola divenne il nuovo direttore degli scavi: sotto la sua dirigenza, le indagini archeologiche si spostarono dalla parte settentrionale a quella meridionale della città; altro obiettivo del nuovo direttore era quello di unire l'Anfiteatro con il centro della città e di utilizzare metodi di scavi meno invasivi, in quanto convinto che molte case fossero dotate di un secondo piano, così come dimostrato da diverse pitture, ma che durante gli scavi venivano distrutti[18]: l'intuizione di Spinazzola fu giusta e durante le esplorazioni nei pressi di Via dell'Abbondanza, la sua tesi venne confermata; in questo modo si venne a conoscenza che Pompei non era solo fatta di case residenziali, ma che aveva anche un ruolo produttivo e commerciale: in tale periodo furono scoperte Lavanderia Stephani ed il Thermopolio di Asellina[18]. Nel 1924 divenne direttore Amedeo Maiuri, incarico che mantenne per ben 37 anni: questo lungo arco di tempo fu uno dei più vivaci per la storia delle rovine. Venne completato lo scavo dell'anfiteatro e della palestra grande, si proseguì lo scavo lungo Via dell'Abbondanza, tra il 1929 ed il 1930 fu completato lo scavo di Villa dei Misteri, già iniziato nel 1909, furono completamente ripristinate le antiche mura e si iniziarono indagini alla necropoli di Porta Nocera ed alle ville urbane sul lato meridionale della città; inoltre proprio il Maiuri condusse studi stratigrafici utile per la ricostruzione cronologica di Pompei[18]. A partire dai primi anni del XX secolo si iniziò ad usare la fotografia come mezzo di studio, così come i disegni passarono da un modello artistico ad uno più tecnico[19]; le tecniche di scavo divennero più precise e tutti gli elementi asportati, come tetti, finestre e porte, rimossi per evitare crolli agli edifici, venivano poi riposizionati al loro posto una volta terminata l'esplorazione[20].
Affresco della Casa dei Casti Amanti
Dal 1967, in concomitanza con l'assunzione degli scavi da parte di Alfonso De Franciscis, le indagini subirono una brusca frenata[21]: il patrimonio era diventato molto ampio e tutto il complesso aveva bisogno di continue opere di restauro; fu così che l'attenzione si focalizzò su un aspetto conservativo, mentre nuovi scavi riguardarono solo singoli edifici e non più intere aree, come la Casa di Giulio Polibio, esplorata tra il 1964 ed il 1977 e la Villa di Fabio Rufo[21]. Un grave colpo fu dato dal terremoto dell'Irpinia del 1980 che provocò notevoli danni alle rovine, rendendo necessaria una totale opera di riassetto; le attività di risistemazione servirono di una grossa documentazione fotografica, iniziata nel 1977 e terminata pochi giorni prima del sisma, dove tutte le pitture e le decorazioni, vennero fotografate e catalogate[22]. Dal 1987 gli scavi proseguirono nella zona del regio IX, nei pressi di Via dell'Abbondanza[21]; nel 1995 partì l'opera di documentazione di tutto il patrimonio architettonico, analizzando ogni singolo monumento[22]. Nel 1997 l'area archeologica di Pompei, insieme a quella di Ercolano ed Oplonti, entrò a far parte della lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO[23].
Anche l'inizio del nuovo millennio fu caratterizzato da scavi nel zona del IX regio, tuttavia a causa di mancanza sia di fondi economici[1], sia di pochi restauri, alcune strutture hanno subito danni o crolli, soprattutto a seguito di avverse condizione meteo: la Schola Armatorum crollo il 6 novembre 2010, così come un muro del viridario della casa del Moralista[24], circa un mese dopo; altri crolli, interessarono per lo più strutture murarie o pezzi di intonaco, come al tempio di Giove, al tempio di Venere e nei pressi della necropoli di Porta Nocera[25], agli inizi del 2014. Per far fronte all'emergenza l'Unione europea stanziò 105 milioni di euro per il totale restauro del sito[26]: i lavori cominciarono nel 2012 sotto il nome di "Grande Progetto Pompei", con il compito di ridurre il rischio idrogeologico all'interno del parco, consolidare le strutture murarie e restaurare quelle con decorazioni, perfezionare l'impianto di videosorveglianza e creare delle coperture ai monumenti in modo permettere l'accesso ai turisti.[
Necropoli di Pompei
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Le necropoli di Pompei, come previsto dalle leggi romani, sorgevano al di fuori delle mura, in prossimità delle porte d'ingresso alla città[1]: a Pompei sono state esplorate sei necropoli, alcune di piccole dimensioni, altre, come quella di Porta Ercolano, di Porta Nocera e del Fondo Pacifico contenenti un maggior numero di tombe.
Necropoli di Porta Vesuvio
Pos.
Foto
Nome
Descrizione
Note
I
Tomba di M. Veius Marcellus
Costruita in posizione rivolta verso la città, era ancora in fase di completamento al momento dell'eruzione del Vesuvio del 79; sulla facciata principale un'epigrafe in marmo riporta il nome di Marco Veio Marcello, a cui era dedicata.
[72]
J
Tomba di C. Vestorio Prisco
Ottimamente conservata, è protetta da un muro che internamente è completamente affrescato con raffigurazioni di elementi archittettonici, frutti, stoviglie su di un tavolo ed una fontana; il corpo centrale termina con un blocco in marmo decorato con figure intagliate ed un'epigrafe che riporta alcune informazioni sul defunto, mentre la parte sottostante è anch'essa decorata con affreschi.
[73]
K
Tomba di Arellia Tertulla
Si tratta di una tomba a schola, ossia a forma semicircolare, caratterizzata alle estermità da una scultura a zampa di leone; al centro si erge una colonna, con alla base un'epigrafe in marmo.
[74]
L
Tomba di Septumia
È costituita semplicemente da un blocco, sul quale è posto una piccola epigrafe e sormontata da una colonna.
[75]
SC
-
Cippo di Titus Suedius Clemens
Cippo funerario; sulla dedica al defunto viene fatto riferimento alla rei publicae Pompeianorum: fu grazie a questi elementi che durante gli scavi archeologici si intuì che si stava esplorando l'antica Pompei e non Stabiae.
[76]
Necropoli di Porta Nola
Pos.
Foto
Nome
Descrizione
Note
G
-
Tomba di Aesquillia Polla
È una tomba a schola, con epigrafe in marmo nel blocco della parte centrale, sormontata da una colonna di ordine ionico, la quale termina con un'anfora decorata nei lati da piccoli tridenti in ferro.
[77]
H
-
Tomba di Dioniso
È una tomba a schola ed è così chiamata poiché la persona sepolta al suo interno era stata iniziata ai misteri di Dioniso: dalla forma semicircolare, presenta alle estremità le classiche decorazione a zampa di leone; al centro è un altare che presenta i lati decorati con alcuni altorilievi.
[78]
I
-
Tomba senza nome
Di identificazione ancora incerta, potrebbe essere stata un semplice luogo di sepoltura o una zona dove veniva bruciate le pire funerarie.
[79]
OF
-
Tomba di Marcus Obellius Firmus
Si tratta di un luogo di sepoltura protetto da un muro perimetrale sulla cui facciata principale è posta una epigrafe con le generalità del defunto, mentre lungo le altre pareti sono presenti sia dei graffiti che resti di intonaco.
Altre tombe
Pos.
Foto
Nome
Descrizione
Note
-
-
Tombe PSPN
Si tratta di una serie di epitaffi scolpiti lungo le mura cittadine, in una zona compresa tra Porta Sarno e Porta Nola, nelle cui vicinanze sono state ritrovate trentotto urne cinerarie contenenti resti di cremazione: si presume che sia un tipo di necropoli dedicata agli abitanti più poveri di Pompei.
[111]
-
-
Tomba di Cn Clovatius
Non si conosce la posizione precisa della tomba, che dovrebbe essere nei pressi di Porta Stabia e di cui è stata ritrovata solo parte di un'epigrafe.
[112]
-
-
Tomba dei Gladiatori
Non si conosce la posizione precisa della tomba, che dovrebbe essere nei pressi di Porta Stabia e di cui è stata ritrovata solo parte di un'epigrafe, decorata con altorilievi con gladiatori.
[113]
-
-
Necropoli di Fondo Azzolini
Scoperta nel 1911 nei pressi di Porta Stabia, contiene quarantaquattro sepolture ad inumazione, risalenti al II secolo a.C., all'interno delle quali sono state ritrovare monete e gioielli e centodiciannove sepolture di epoca romane, tutta a cremazione.
[114]
-
-
Tomba senza nome
Poche testimonianze su una tomba, nei pressi di Porta Stabia, a schola
Il culto dei mortiInizio modulo
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Per i Romani la morte comportava contaminazione e obbligava i vivi a riti di purificazione ed espiazione. Inoltre lasciare un cadavere privo di sepoltura avrebbe causato negative ripercussioni sul destino dell'anima del defunto.
Fino al I sec. d.C. era usuale cremare i defunti e raccogliere le ceneri entro vasi che venivano murati all'interno delle tombe o interrati nel recinto funerario. Il luogo della sepoltura nella terra era contrassegnato da un segnacolo. Nell'urna si depositava una moneta necessaria al defunto per essere traghettato da Carònte nell'aldilà. Un condotto collegava il terreno con il vaso, così che a questo potessero giungere le libagioni offerte in occasione delle cerimonie funebri.
Dopo il funerale e il seppellimento si svolgevano riti di purificazione e un banchetto presso la tomba. Il lutto durava nove giorni. Al termine si portavano offerte al defunto e seguiva un altro banchetto funebre.
Il periodo per la commemorazione dei defunti era quello dei Parentàlia, che durava dal 13 al 21 febbraio, durante il quale ogni famiglia onorava genitori e altri congiunti. L'ultimo giorno era quello dei Feràlia, destinato a cerimonie pubbliche.
La legge romana prescriveva che i cimiteri sorgessero all'esterno delle mura, dove le tombe si sviluppavano ai lati delle strade che uscivano dalle porte urbiche.
Il ricordo dei defunti passava attraverso una monumentalizzazione degli edifici funebri, in cui si esprimevano la concorrenza reciproca e le differenze di rango.
L'aspetto esteriore delle necropoli era in larga misura determinato dalle tombe delle persone ricche e mediamente benestanti. Queste acquistavano un pezzo di terreno sul quale costruire il monumento funerario, oppure compravano una tomba appartenente ad una serie già eretta da un costruttore.
Esistono numerose iscrizioni che contengono indicazioni specifiche di precauzioni prese per impedire l'alienazione delle tombe. Due delle preoccupazioni maggiori dei proprietari di tombe erano l'appropriazione indebita e l'oltraggio.
SCOPERTA A POMPEI UN’ALTRA TRAGEDIA UMANA
I FANTASMI DI GESSO
La posizione dei corpi e il luogo del ritrovamento dei nuovi morti della città sepolta hanno fornito all’archeologo Amedeo Maiuri i documenti per raccontare la loro storia vera
La mattina dell’ultimo sabato d’aprile due sterratori di Pompei affondavano la vanga nell’humus, e avevano i piedi nel punto dove 1922 anni prima una famiglia era morta correndo sotto la grande pioggia di cenere. Non lo sapevano, né capirono quando la vanga sprofondò d’improvviso in un vuoto. Ma capì il sorvegliante, incaricato dalla sovrintendeza alle antichità di tenere d’occhio questi scavi di un’impresa stradale alla periferia della città sepolta. Allora fu fatto arrivare il gesso liquido, e quello strano lungo buco fu riempito. Ne fu trovato, vicino, un altro ancora, e poi un terzo, un quinto, otto in tutto. In ognuno fu lasciato colare il gesso, poi si sterrò e si vide: erano i corpi di gente uccisa dal vulcano. Erano due famiglie, con tre bambini.
Millenovecentoventidue anni prima il Vesuvio era come oggi: un monte a cono, senza fumo, verde di vigne. Un monte come un altro, forse più curioso per quella sua forma regolare. Non aveva nemmeno lasciato, a memoria d’uomo, particolari esperienze, non era conosciuto per quello che nascondeva nel ventre, sotto il tappo pietrificato di lava.
Quando il tappo saltò con un boato, quel mezzogiorno del 24 agosto, e il ciclo si fece nero, le due famiglie corsero a prendere i ragazzi e si chiusero in casa. Lasciamo stare la descrizione dei sentimenti: è facile intuirli. Ma raccontiamo la cronaca di questa gente: possiamo farlo senza lavorare di fantasia, ci sono i documenti. Ce li ha indicati l’archeologo di Pompei, Amedeo Maiuri. “Ha notato”, ci ha detto. “che i poveri corpi di questi fuggiaschi giacciono sopra e non sotto lo strato di lapilli? Ecco, questo comincia già a spiegare come sono andate le cose, questo fatto dà l’avvio al racconto”.
Il ciclo si fece nero e piovve quasi subito un velo di cenere, ma leggero, impalpabile,come un pulviscolo grigio. Caddero gli uccelli in volo, abbattendosi morti, senza gridi. Le due famiglie, serrate in casa, attesero. Erano un padre, una madre e un ragazzetto, e ancora un padre, una madre, due bimbi e un servo. Le loro masserie erano vicine, situate in questa regione a monte della città, ma sempre dentro le mura, dove si estendevano gli orti e i primi vigneti. I genitori si guardarono. I figli non potevano ricordare, erano troppo giovani; ma sedici anni prima il terremoto aveva seminato di rovine la contrada, Pompei aveva rischiato di morire. E ora? Questa esperienza era nuova, molto diversa.
Dopo la pioggerella di labile cenere cominciò il picchiettio sul tetto, come di grandine. Le due famiglie spiarono alla finestra: grandinavano sassi, ma piccoli, leggeri, grigi, rimbalzando come chicchi. La grandinata di lapilli si fece d’un tratto più fitta, divenne furiosa, smisurata, ai chicchi si aggiunsero blocchi di scorie del peso di alcuni chili, incandescenti. Le due famiglie sbarrarono porte e finestre, tirarono i catenacci perché potessero resistere alla pressione. Uscire, scappare, era ormai impossibile. Ma ecco, finalmente, il silenzio. La grandinata era cessata. Il buio, invece, sempre più fitto.
Gli uomini provarono ad aprire le porte, le imposte di legno, ma si accorsero che sarebbe stata la fine per l’irruzione della valanga: la massa di quella grandine di pietra era alta tre metri. Bisognava uscire dal tetto. Si inerpicarono, sbucarono fuori. Intorno era tutto bianco e grigio, tutto sepolto sotto l’immenso lenzuolo di quei sasselli di pomice. La luce spettrale. Qua e là ardevano dei massi, piovuti dal loro vecchio monte. Perché ora era evidente che la colpa era sua: dalla cima si levava altissimo un fungo scuro, diritto, silenzioso. La fine del mondo?
Una delle due famiglie, quella di tre persone sole, partì verso il mare con il figliolo in testa. L’altra aveva il servo, e costui si mise un sacco in spalla, gonfio di provviste, e saltò sulla coltre di lapilli. Il padrone spinse fuori i suoi due bambini, poi la giovane moglie. In fila indiana si mossero. Non era facile camminare, quei lapilli franavano scricchiolando sotto il passo. E fu allora che cominciò a piovere. In pochi secondi il nero del cielo si schiacciò sulla terra, e fu un diluvio d’acqua saponosa, acqua mista a cenere, greve come fango, velenosa di miasmi sulfurei.
In fila indiana per non perdersi nelle tenebre, le due famiglie non fecero molta strada: il diluvio le soffocò, repentino. Il servo cadde ricurvo sul fianco sinistro, con il sacco ancora sulla spalla: i due bimbi si abbandonarono supini dietro di lui, col viso non turbato, sembrerebbe inconsapevole; il padre si rovesciò indietro, come atterrato in una lotta sovrumana; e la madre in avanti, quasi nell’atto di correre verso i figli, la mano sulla bocca. E così gli altri, a tre metri di distanza. La pioggia di cenere continuò a cadere, li seppellì, fece una coltre, sopra il lapillo, di altri due metri di spessore. E sopra la cenere, tanti anni dopo, venne la terra, e sopra la terra l’erba, e poi l’orzo e le colture degli ignari uomini nuovi.
“Erano circa quattro anni che non rinvenivamo resti di vittime umane”, dice il professor Maiuri. “con queste ultime saliamo al totale di una cinquantina. Il gruppo che suscitò forse l’impressione maggiore fu quello della cosiddetta villa di Diomede: fu una delle prime esplorate, poco dopo il 1770, e nel portico sotterraneo si scoprirono disperatamente rannicchiate diciotto salme. Era la prima rivelazione della tragedia degli uomini, oltre che delle cose. Ma la tecnica dell’iniezione di gesso, per ottenere l’impronta dei corpi, fu escogitata dal primo vero archeologo che poté occuparsi di Pompei, Giuseppe Fiorelli, giusto un secolo più tardi. Fu un espediente che permise di prendere calchi non solo delle vittime umane e animali, ma anche degli alberi nei giardini, delle porte, delle scale, delle suppellettili lignee delle abitazioni”.
Quando il vecchio professore si è trovato, in questo ultimo sabato d’aprile, davanti ai nuovi morti della sua città, la commozione non gli ha impedito di osservare con occhio di perito. Ci ha detto: “II sacco del primo uomo, quasi sicuramente un servo, non contiene oggetti, dunque non argenteria, non vasi, probabilmente nemmeno monete. Non ho avuto il coraggio di spaccarlo, del resto sarebbe inutile. Il sacco, per la sua forma, le dimensioni e il relativo peso, non poteva contenere che provviste, forse ceri o fave, qualche focaccia di pane. Le vesti di ciascuno appaiono povere. Si vedono bene quelle della donna del gruppo più numeroso, il gesso ha colmato con precisione l’impronta delle ceneri, che aderirono fortemente come una guaina a tutto il corpo. Era una bella e giovane donna, un poco esile, con un abito da lavoro nei campi. Non portava gioie, correva a piedi nudi. E i bambini non possedevano nemmeno quegli amuleti che i genitori usavano legare al collo ai propri figli per proteggerli contro malocchio e malattie. Una famiglia di contadini, la cui tragedia doveva compiersi con spietata rapidità, senza lasciare il tempo di portare in salvo nemmeno se stessi”.
Ecco allora tornare vivi per noi, otto nuovi personaggi di Pompei. Si allineano con tutti gli altri per completare il discorso commemorativo per raccontare la storia di quel mezzogiorno di agosto, ognuno con la testimonianza del suo crudele calco di gesso. C’è la giovane fanciulla bellissima, crollata bocconi col pugno alla bocca per lo spasimo dell’asfissia, la fronte premuta sull’altro braccio e la veste, forse mossa dal fango, si sollevò fino alla vita, lasciandola nuda. C’è l’uomo erculeo, caduto supino vicino alla giovane figlia e alla madre, e il mastino che sembra ancora divincolarsi, stretto al collare, dopo avere tentato di nuotare sopra la colata di lapilli irrompente nella sua casa, arrampicandosi via via fino al soffitto per tutta la lunghezza della catena. Le statue di gesso parlano da una distanza di diciannove secoli, ma dicono cose che sono anche nostre, che possiamo capire senza sapere di archeologia e di epigrafi: l’orrore, la disperazione, la speranza, la lotta per vivere. Sulla soglia della casa su cui sta ancora scritto in mosaico il “cave canem”, due ragazze indugiarono per raccogliere le loro piccole gioie: così le trovarono i posteri, morte nella fiducia dei giovani.
Nella stanza ostruita di una casa furono rinvenuti due scheletri, di un grosso cane e di una donna: quello del cane era integro. ma quello della padrona era a brani, e i brani erano sparsi per ogni angolo. Che cosa aveva fatto quel cane. Forse impazzito prima di cadere avvelenato dai gas? In un’altra stanza, ecco i sette bambini quasi ancora intenti nel gioco, e più oltre l’uomo con l’accetta. Si era sentito bloccato, chiuso in trappola dal muro di lapilli contro porte e finestre, ma era un uomo gagliardo e si avventò con l’arma su una parete che dava all’esterno, riuscì a fare il buco, ma ne scrosciò un rivolo di lapillo e di mota, si gettò allora contro la parete che dava ad altre stanze, riuscì a perforare anche questa; gli apparve un invalicabile cumulo di macerie disfatte; e si lasciò allora morire. Come quello schiavo incatenato, di cui sono rimaste le gambe ancora avvinte nei ceppi.
“Non sono molti”, dice Maiuri, “coloro che morirono in Pompei. Forse non più di qualche centinaio. Furono i ritardatari, gli incerti, i sorpresi, gli infermi, gli avidi, i poveri villici ignoranti come questi scoperti ora. Morirono subito perché non poterono e non seppero fuggire, o perché si attardarono a raccogliere denaro e gioielli, forse qualcuno a rubare, o perché ancora non capirono che quella nube nera che oscurava il sole sarebbe calata fino a terra, seguendo la grandine dei lapilli. Ma gli altri, innumerevoli altri, migliaia e migliaia di persone, raggiunsero inutilmente le zone più lontane anche le rive del mare. Là, come Plinio Seniore, furono inseguiti e presi dai vapori e dalle ceneri portate dal vento”. Pompei contava più di ventimila abitanti. Quarantotto ore dopo che il grande tappo era saltato, il sole tornò a illuminare un cimitero.
Pietà per gli uomini. Non abbiamo fatto calchi dei monti di morti nelle fosse dei Lager, ed è giusto perché sono resti che appartengono alla pietà del nostro tempo. Morti scampati alla vergogna di una distruzione feroce, potevano e dovevano essere seppelliti e restituiti alla pace. Ma i morti di duemilanovecentoventidue anni fa si sono naturalmente dissolti, non possono più venire sepolti. Né sono stati uccisi dagli uomini, ma da un vulcano. Nelle forme vuote del banco di ceneri c’è soltanto un po’ d’aria, più qualche osso calcinato. Con il gesso possiamo dare senso umano a quest’aria, restituire corpo ai fantasmi. È un’opera strana, ma anche questa giusta e pietosa.
“Professore, che cosa farà di questi fantasmi di gesso?” Il vecchio saggio ci aveva già pensato. “Non mi convincono quando li vedo in museo, non è il loro posto. E allora ecco, ho pensato che il luogo più adatto è la loro casa. Riportiamoli dove loro stessi vorrebbero. Sì, la masseria delle due famiglie non dev’essere lontana, io credo che non disti più di una cinquantina di metri da questo punto di morte. Siamo nel settore degli orti, in gran parte da esplorare, e le modeste fattorie contadine vi erano fitte. Aspetteremo, dunque, di scoprirla, procedendo con lo scavo. Nel frattempo li metteremo tutti al riparo, con molta cura. Quando la prima casa sarà ritrovata, ve li porteremo insieme: breve viaggio di ritorno dopo quella fuga affannosa, e questa attesa di millenni”.
Chissà se i fantasmi possono essere grati. Comunque Pompei deve essere scavata ancora per i due quinti, e proprio nella zona dell’agro e degli orti entro le mura. Ci vorranno alcuni decenni. Molti altri fantasmi d’aria attendono, forse con impazienza, l’iniezione di gesso.
BIBLIOGRAFIA DA CONSULTARE:
Pompei è viva – Eva Cantarella, Luciana Jacobelli
Prima del fuoco. Pompei, storie di ogni giorno – Mary Beard
Pompei. L’incubo e il risveglio – Angelo Petrella
Nascere, vivere e morire a Pompei – Eva Cantarella, Luciana Jacobelli
Pompei. La vita quotidiana – Sergio Tufi Rinaldi
Pompei – Robert Harris
Vesuvius – Marisa Ranieri Panetta
Gli ultimi giorni di Pompei – Bulwer-Lytton
La vita quotidiana nella Roma repubblicana – Florence Dupont
Vita Romana. Usi, costumi, istituzioni, tradizioni – Ugo Paoli
La civiltà dell’antica Roma – Pierre Grimal
L' anima romana. Valori e stili di vita della civiltà latina – Pierre Grimal
L' ambiguo malanno. La donna nell'antichità greca e romana – Eva Cantarella
Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico – Eva Cantarella
Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell'antica Roma – Eva Cantarella
Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia – Eva Cantarella
Le grandi donne di Roma antica. Le diciannove donne che hanno avuto un ruolo al centro del potere nell'antica Città Eterna – Furio Sampoli
Gli imperatori romani – Michael Grant
Vita segreta degli antichi romani. Vizi privati, misteri occulti e costumi discutibili dei conquistatori del mondo – Enrico Benelli
La donna nella Roma antica – Gourevitch Danielle; Raepsaet-Charlier M. Thérèse
Una giornata nell'antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità – Alberto Angela
Amore e sesso nell’antica Roma – Alberto Angela
Storia romana – Indro Montanelli
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http://www.pompeionline.net/localizza-strade
http://www.pompeionline.net/localizza-edificio-in-pianta
http://www.pompeionline.net/pompei-villa-di-diomede
http://www.anticorpi.info/2014/03/la-pompei-sepolta-nel-1631-svela-i.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_di_Nocera