Università degli Studi Roma Tre
Dipartimento di Giurisprudenza
LA COSTRUZIONE
DELLA ‘LEGALITÀ’ FASCISTA
NEGLI ANNI TRENTA
a cura di
Italo Birocchi, Giovanni Chiodi,
Mauro Grondona
9
LA CULTURA GIURIDICA
TESTI DI SCIENZA, TEORIA E STORIA DEL DIRITTO
2020
La cultura giuridica. Testi di scienza, teoria e storia del diritto
Collana diretta da Beatrice Pasciuta
Coordinamento scientifico
Pia Acconci (Univ. Teramo); Italo Birocchi (Univ. Roma Sapienza); Antonio Carratta (Univ.
Roma Tre); Emanuele Conte (Univ. Roma Tre); Wim Decock (Univ. Leuwen); Carlo
Fantappiè (Univ. Roma Tre); Stephanie Hennette-Vauchez (Univ. Paris X – Nanterre);
Caroline Humphress (Univ. St Andrews); Luca Loschiavo (Univ. Teramo); Michele Luminati
(Univ. Lucerna); Francesco Macario (Univ. Roma Tre); Marta Madero (Univ. Buenos Aires);
Maria Rosaria Marella (Univ. Perugia); Sara Menzinger (Univ. Roma Tre); Marco Nicola
Miletti (Univ. Foggia); Angela Musumeci (Univ. Teramo); Paolo Napoli (EHESS Paris);
Beatrice Pasciuta (Univ. Palermo); Francesco Riccobono (Univ. Napoli Federico II); Marco
Urbano Sperandio (Univ. Roma Tre); Mario Stella Richter (Univ. Roma Tor Vergata); Isabel
Trujillo (Univ. Palermo); Kaius Tuori (Univ. Helsinki).
Collana pubblicata nel rispetto del Codice etico adottato dal Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi Roma Tre, in data 22 aprile 2020.
Questo volume si pubblica con il contributo dell’Istituto Emilio Betti di Scienza e Teoria del Diritto
nella storia e nella società.
Coordinamento editoriale
Gruppo di Lavoro
Cura editoriale e impaginazione
teseo
editore Roma teseoeditore.it
Elaborazione grafica della copertina
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Caratteri grafici utilizzati: Domaine Display Black; Futura-Bold; FuturaStd-Book; FuturaStd-Heavy; FuturaStd-Medium; MinionPro-Regular (copertina e frontespizio). Adobe Garamond (testo).
©
Edizioni
Roma, ottobre 2020
ISBN: 979-12-80060-51-8
http://romatrepress.uniroma3.it
Quest’opera è assoggettata alla disciplina Creative Commons attribution 4.0 International Licence (CC
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o usarla per produrre un’altra opera, e ne esclude l’uso per ricavarne un profitto commerciale.
L’attività della
è svolta nell’ambito della
Fondazione Roma Tre-Education, piazza della Repubblica 10, 00185 Roma.
n. 9/2020
LA COSTRUZIONE DELLA ‘LEGALITÀ’ FASCISTA NEGLI ANNI TRENTA
Contributi di:
Italo Birocchi (Università di Roma Sapienza)
Giovanni Chiodi (Università di Milano-Bicocca)
Saverio Gentile (Università Cattolica di Milano)
Massimiliano Gregorio (Università di Firenze)
Mauro Grondona (Università di Genova)
Antonio Jannarelli (Università di Bari)
Valeria Mastroiacovo (Università di Foggia)
Alessandro Tira (Università di Bergamo)
Giovanna Tosatti (Università della Tuscia)
Luis Rosenfield (Unisonos di Porto Alegre)
Alberto Vespaziani (Università del Molise)
Indice
ITALO BIROCCHI, GIOVANNI CHIODI, MAURO GRONDONA
Presentazione
9
GIOVANNA TOSATTI
Roma Capitale negli anni Trenta
13
ITALO BIROCCHI
L’integrazione dell’Università nello Stato totalitario:
la politica e il diritto nelle Facoltà di Giurisprudenza
23
SAVERIO GENTILE
Fascismo e riviste giuridiche. Il caso de ‘Il Diritto Fascista’ (1932-1943)
99
VALERIA MASTROIACOVO
Il diritto tributario alla prova del regime tra urgenze di guerra e ambizioni di sistema
141
MASSIMILIANO GREGORIO
L’idea di costituzione nella giuspubblicistica italiana degli anni Trenta
177
GIOVANNI CHIODI
Costruire una nuova legalità:
il diritto delle obbligazioni nel dibattito degli anni Trenta
201
ANTONIO JANNARELLI
Ascarelli e l’ordinamento corporativo
261
ALESSANDRO TIRA
Il diritto ecclesiastico negli anni Trenta:
sistematica concordataria e percorsi dottrinali
345
MAURO GRONDONA
Il diritto comparato e la comparazione giuridica
tra internazionalismo e nazionalismo: premesse per una discussione
369
LUIS ROSENFIELD, ALBERTO VESPAZIANI
‘Fascismo tropicale’, ovvero la recezione della dottrina fascista italiana
nel Brasile dell’ Estado Novo di Vargas
449
Indice dei nomi
462
Presentazione
Preparato da un convegno dall’omonimo titolo (tenutosi il 29 novembre
2019, presso l’Università di Roma 3), il presente libro è in ideale collegamento con il volume che l’Istituto Betti pubblicò nel 2015, I giuristi e il fascino
del regime (1918-1925). Al fondo, allora come in questa occasione, sta una
duplice idea: che sia esistita una cultura fascista e, in particolare, una cultura
giuridica fascista e che essa, caratterizzata da alcuni definiti elementi basilari
(la posizione forte dello Stato, il partito unico, il nazionalismo, l’avversione
per l’individualismo liberale e per i diritti dell’Ottantanove), andò articolandosi nel corso del ventennio precisandosi nei contorni della dittatura
mussoliniana secondo linee storicamente mosse. Variarono infatti le preoccupazioni e i temi di volta in volta posti all’ordine del giorno. Si pensi
alle discussioni sui codici, con le differenti priorità date e con i diversi accostamenti nella loro progettazione (dapprima essendo stato proposto il
compito di modernizzare il modello francese delle obbligazioni, poi svoltandosi verso l’asse tedesco); al vivacissimo dibattito sulle corporazioni,
vero crocevia culturale e oggetto di ripetuti interventi normativi, ma fondamentalmente questione irrisolta; ai convegni e ai saggi dedicati ai principi
generali e alle fonti del diritto, in collegamento con l’obiettivo di chiudere
la pagina liberale della storia italiana e di ridisegnare i nuovi assetti dell’ordinamento fascista. Si pensi ancora – e sembra un paradosso nel momento
in cui su tutta l’attività della macchina statale si proclamava il trionfo della
volontà del duce – alla necessità continuamente proposta di definire i reciproci rapporti tra le istituzioni e tra il partito unico e lo Stato e di enucleare
la categoria giuridica di “regime” in modo condiviso. Persino concetti cardine come quello di nazione furono rivisitati in relazione all’espansione imperiale imposta dalla politica del duce.
Dunque non una cultura piatta oppure sovrapposta col solo uso della
forza dittatoriale – quale parentesi nella storia italiana, come suggeriva l’interpretazione idealistica del ventennio –, bensì una cultura in costruzione
e in movimento, tipica dell’esperienza novecentesca e non solo in Italia;
una sorta di cantiere aperto per modellare istituzioni, diritto e stili di vita
della società industriale di massa secondo la visione politica mussoliniana.
Se il libro del 2015 si era posto il problema di come, ai suoi esordi e
prima ancora di divenire dittatura, il fascismo avesse attirato non solo una
9
nuova generazione di giuristi, ma anche una parte significativa della vecchia
guardia di formazione liberale, per il presente volume si è scelto di considerare la cultura giuridica negli anni Trenta, allorché al primo artefice del
regime – Alfredo Rocco – subentrarono altri protagonisti, forse più corali
e soprattutto alle prese con problemi nuovi.
È l’età del consolidamento e del consenso, ma in un movimento continuo e spesso con questioni apertesi inaspettatamente e frammentate, che
richiedevano risposte giuridiche adeguate: a cominciare dalla crisi del ’29,
che si innestava sul trapasso dall’abbozzo legislativo delle corporazioni alla
fase pratica della loro costruzione e sul tentativo, già enunciato dalla Carta
del lavoro, di contemperare l’iniziativa economica individuale con la presenza sempre più forte dello Stato nell’economia. Si sa che in generale in
quella decade si produsse un rivolgimento in senso pubblicistico degli istituti e dei codici, che investì la condizione giuridica dei singoli e di tutti gli
organismi della società civile, a cominciare dalla famiglia.
Nel titolo si è voluto indicare come chiave direttrice il termine ‘legalità’,
ma non inganni la parola. Essa non allude semplicemente a un sistema fondato su una somma o magari un insieme di leggi al tempo del consolidamento della dittatura; allude piuttosto a un ordinamento complesso
imperniato sullo Stato fascista e sul partito unico, attorno a cui venivano
organizzandosi i gangli della società di massa e si costruiva il consenso. La
dimensione ideologica era dunque in primo piano. Non occorre dilungarsi
sul fatto che la conquista del consenso è di per sé un’operazione complessa;
il diritto ne è un aspetto fondamentale, per il ruolo di disciplinamento sociale che esso sempre svolge.
In sintesi può dirsi che si mise in atto un rivolgimento del rapporto tra
politica e diritto e la formazione della legalità fascista si risolse nel processo
di ‘giuridicizzazione’ della politica del regime. In essa entra in considerazione una combinazione di ideali, programmi, provvedimenti (violentemente repressivi e fortemente restrittivi delle libertà, ma anche con profili
modernizzanti), che aspirò addirittura a farsi modello da esportare. Si parlava di terza via tra bolscevismo e liberalismo e valgano per tutte le teorizzazioni di Bottai enunciate proprio agli inizi della decade considerata. Si
espresse un caleidoscopio di posizioni che, se sono anche un segno di fragilità e di vaghezza della cultura fascista (come prevalentemente ha sostenuto la storiografia all’indomani della caduta del regime), testimoniano però
anche l’affacciarsi di prospettive costruttive: s’intende, senza che quel ventaglio di proposte significasse in alcun modo pluralismo di voci libere, restando ben fermo che potevano parlare solo gli affidatari del regime e
quanti si sentivano ad esso simpatetici.
10
Posta al centro la costruzione della legalità fascista, si comprende come
i saggi ospitati in questo volume non ricalchino l’impostazione biografica
adottata nel citato libro del 2015. I contributi, piuttosto, si occupano di
questioni e problemi interni all’universo giuridico nel periodo indicato,
senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività ed anzi deliberatamente
anche nell’intento di aprire sentieri di ricerca attraverso indagini esplorative.
Il discorso è spesso trasversale, non solo per la pretesa integralità della cultura giuridica fascista volta a costruire ‘l’uomo nuovo’, ma anche per lo scivolamento verso la caratterizzazione pubblicistica di tutti i paradigmi del
diritto e per l’obiettiva convergenza di più interessi disciplinari nelle categorie di nuovo conio (è il caso del corporativismo, che scontava non solo
l’appartenenza alla materia economica, ma anche il confluire degli aspetti
lavoristici, dell’impresa e di teoria dello Stato).
La legalità fascista è in sostanza un intreccio e un precipitato culturale
in forme giuridiche. E allora non sorprenderà che uno dei saggi compresi
nel libro riguardi Roma capitale: un centro che anche attraverso i segni –
l’ordine architettonico, la portata delle arterie viarie, ecc. – doveva esprimere
la forza della civiltà nazionale e nel contempo il ruolo centripeto e la potenza dello Stato fascista. E così pure, corrispondentemente all’ottica comparatistica e pluridisciplinare che caratterizza le iniziative dell’Istituto Betti,
un altro contributo si occupa dell’esperienza del governo di Vargas in Brasile iniziata nel 1930: non solo possibile esempio di ‘esportazione’ del modello fascista, ma anche del suo vivere nelle concrete condizioni delle
società del tempo.
L’augurio è che il libro sia un contributo, per quanto piccolo, per ricordare e per riflettere. Ricordare che cosa è stato il fascismo e riflettere sulla
importanza della dimensione giuridica anche nella dittatura e di conseguenza sulla responsabilità che, oggi come ieri, incombe sui giuristi (pratici
o di scuola) e sui semplici cives nella gestione quotidiana del diritto.
11
Giovanna Tosatti
Roma Capitale negli anni Trenta
S OmmARIO : 1. Prologo – 2. Il Governatorato di Roma – 3. Da capitale
del Regno a capitale dell’Impero
1. Prologo
All’inizio degli anni Trenta la situazione di Roma era diversa da quella
che aveva caratterizzato tutta l’età liberale: per il primo e unico periodo
della storia unitaria la Capitale godeva ora di uno status particolare, grazie
alla creazione del Governatorato, e il Governo aveva stanziato cifre decisamente superiori al passato per la Capitale.
Non era mai avvenuto dal 1870, neppure quando Crispi aveva dimostrato una particolare attenzione per la capitale: un’attenzione, peraltro,
che riguardava in genere solo il problema economico, affrontato con una
serie di leggi speciali lungo tutta l’età liberale. L’ordinamento speciale era
in genere guardato con diffidenza, perché si temeva di vedere diminuita
o limitata l’autarchia amministrativa, in uno Stato in cui, peraltro, l’autonomia delle amministrazioni locali era stata sempre assai limitata; in effetti
l’ipotesi di costituzione di una ‘Prefettura del Tevere’, circolata tra fine
Ottocento e inizio Novecento, quando si consigliò pure un ordinamento
speciale nel quale il sindaco di Roma avrebbe dovuto essere chiamato a
sedere nel Consiglio dei ministri, con piena responsabilità di fronte al Parlamento, andava in questa direzione. Nessuna proposta prese effettivamente consistenza1, ma in tutti i casi, come scriveva Paola Carucci,
«l’obiettivo non era quello di potenziare la Prefettura di Roma nei con1
A questa ipotesi, assai poco concreta, fanno riferimento A. CARACCIOLO, I sindaci di Roma,
Donzelli, Roma 1993, pp. 15-18; cfr. anche m. GUERCIO, Il decennio di Luigi Gravina (18801890). Un prefetto tra Depretis e Crispi, in La Prefettura di Roma (1871-1946), a cura di m. De
Nicolò, Il mulino, Bologna 1998, p. 262 e A. PARISELLA, Le leggi speciali per Roma del Novecento, in L’amministrazione comunale di Roma. Legislazione, fonti archivistiche e documentarie, storiografia, a cura di m. De Nicolò, Il mulino, Bologna 1996, pp. 163-199.
13
G. TOSATTI
fronti dell’amministrazione capitolina, bensì di rendere più incisivo il coordinamento del Governo centrale sull’amministrazione della città»2.
2. Il Governatorato di Roma
Con mussolini un ordinamento speciale era, si potrebbe dire, inevitabile. Già dai primissimi tempi tutte le maggiori città del Paese erano state
commissariate, cosicché se anche in qualche caso rimanevano in carica
come commissari i sindaci eletti, essi venivano ora a dipendere direttamente dal ministero dell’interno, il cui titolare era all’epoca, fino al delitto
matteotti, mussolini stesso. Si cominciò proprio dalla Capitale, nella quale
il Consiglio comunale fu sciolto già con un decreto del marzo 1923 (n.
591), che nominava un commissario nella persona del sindaco in carica,
Filippo Cremonesi, decreto cui seguirono ben due proroghe3 prima dell’istituzione del Governatorato (rdl 28 ottobre 1925, n. 1949)4; nel maggio
del 1923 anche il Consiglio provinciale di Roma venne sciolto. Subirono
la stessa sorte il consiglio comunale di Torino a partire dal 2 luglio 1923,
nel mese di aprile 1924 il comune di Venezia, dove fu nominato commissario il sindaco, Davide Giordano, il comune di Genova, dove dal maggio
1924 una serie di commissari subentrarono ad un sindaco socialista, e
quelli di Palermo dal giugno 1924, di Napoli nel 1924 (rdl 19 ottobre, n.
1619) e di milano nel 1926 (rdl 10 ottobre 1926, n. 1786), commissariato
con la nomina del deputato Ernesto Belloni, divenuto poi primo podestà
della città.
Sulla figura del commissario, assai spesso prolungato nella carica ben
oltre i termini di legge, si innestò in quel periodo la discussione circa l’opP. CARUCCI, Tra Governo e Comune: l’azione del prefetto Andrea Calenda di Tavani, in La Prefettura di Roma (1871-1946), cit. nt. 1, p. 319.
3
Rd 6 dicembre 1923, n. 2715 (per 12 mesi) e rdl 28 dicembre 1924, n. 2148 (ancora
per 12 mesi).
4
Cfr. P. SALVATORI, Il Governatorato di Roma. L’amministrazione della capitale durante il fascismo,
FrancoAngeli, milano 2006; EAD., Nuovi progetti per Roma Capitale. Filippo Cremonesi e l’istituzione del Governatorato, in «Giornale di storia contemporanea», (2004), n. 1, pp. 3-24. Giuseppe
Bottai scrisse che con lo «scioglimento del consiglio comunale si eliminava quel consesso
che, per le sue origini elettorali, costituiva il più grave ostacolo allo svolgimento di una seria
politica urbanistica, capace di conformare ogni iniziativa ai superiori interessi della Città e
della Nazione. L’amministrazione straordinaria in tre anni si occupò della realizzazione di
opere della necessità»: cfr. G. BOTTAI, Il rinnovamento di Roma, in Reale Accademia nazionale
dei Lincei, Dal Regno all’Impero 17 marzo 1861-9 maggio 1936. Pubblicazione commemorativa della
proclamazione dell’Impero, Tip. Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1937, p. 617.
2
14
ROmA CAPITALE NEGLI ANNI TRENTA
portunità di introdurre in sua vece un podestà, quasi un commissario permanente che avrebbe avuto poteri ampi e durata indeterminata: così per
la prima volta apparve nel dibattito questo termine, diversi anni prima
che esso trovasse poi accoglimento nella normativa del 1926. La proposta
di sostituzione del podestà al sindaco derivava da una considerazione che
sarebbe poi stata avanzata anche al momento dell’introduzione effettiva
di questa figura, ossia il fatto che i comuni di minori dimensioni erano divenuti campi di lotta delle fazioni locali per la conquista del potere, di cui
poi esse abusavano, con danno della pace pubblica e degli interessi della
generalità dei cittadini: la denominazione della carica derivava quindi dall’analogia con le lotte intestine del medioevo5.
Si può aggiungere che prima ancora di Roma, anche Napoli ricevette
il suo ordinamento particolare con l’istituzione dell’Alto commissariato
(rdl 15 agosto 1925, n. 1636), con l’obiettivo di «promuovere e coordinare
tutte le attività dirette al sollecito miglioramento delle condizioni economiche e sociali ed al riordinamento ed incremento dei pubblici servizi»6.
Non diversamente dal Governatorato, l’alto commissario – che sarebbe
rimasto in vita fino al 1936 – dipendeva direttamente dal ministro dell’Interno ed era svincolato dalla funzione di vigilanza e tutela esercitata dal
prefetto sulle amministrazioni locali, dando vita ad un ordinamento ancora più accentrato di quanto sarebbe accaduto nei comuni podestarili.
In sostanza, il caso di Roma, seppur legato al suo ruolo di città capitale,
va inserito in un contesto in cui il termine ‘autarchia’ veniva ad assumere
un significato del tutto diverso rispetto al passato: essa, scriveva il direttore
generale dell’Amministrazione civile Vittorio Serra Caracciolo nel 1925,
«è non soltanto problema di organizzazione, ma anche problema di attribuzioni e funzioni, nonché di controllo e ingerenza dello Stato»7.
Cfr. in proposito G. TOSATTI, Le amministrazioni locali nel passaggio tra ordinamento liberale e
podestarile, in Autonomia, forme di governo e democrazia nell’età moderna e contemporanea. Scritti in
onore di Ettore Rotelli, a cura di P. Aimo, E. Colombo, F. Rugge, Pavia University Press, Pavia
2014, pp. 383-393; m. GIANNETTO, Centralismo e autonomie nella riforma fascista degli enti locali
in Italia, in «Jahrbuch für Europäische Verwaltungsgeschichte», n. 10 (1998), pp. 119-151.
6
All’Alto commissariato, stabilito inizialmente fino al 30 giugno 1930, vennero deferite:
a) tutte le attribuzioni che, a norma della legge comunale e provinciale e di ogni altra legge,
spettano al prefetto; b) tutte le attribuzioni che, a norma del r.d.l. 7 luglio 1925, n. 1173,
concernente i provveditorati alle opere pubbliche per il mezzogiorno ed isole, spettano al
provveditore per le opere pubbliche; c) la sovraintendenza su tutte le amministrazioni statali aventi sede nella provincia, tranne quelle attinenti all’amministrazione della giustizia,
della guerra, della marina, dell’aviazione e delle finanze (art. 1).
7
Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), PCM, Consiglio dei ministri, Provvedimenti
legislativi, 1924-1925, ministero dell’interno, n. 216, relazione dell’8 ottobre 1925.
5
15
G. TOSATTI
Esisteva comunque il tema di un ordinamento amministrativo speciale,
come per altre grandi capitali, quali Parigi, Berlino, New York e Vienna:
il regime avvertì – scriveva Enrico Gatta nella voce dedicata al Governatorato nel Nuovo digesto italiano8 – che il Comune di Roma «non poteva
più oltre essere tenuto fuori dalla possibilità di attendere, col decoro rispondente alle sue tradizioni millenarie e con la dignità che gli competeva
alle sue funzioni di capitale dello Stato. […] Con il Governatorato si creava
un’amministrazione speciale contenente in sé i poteri, oltre che i mezzi,
dell’amministrazione statale e locale, concentrandoli in un solo alto funzionario, con opportune garanzie per ottenere da una coordinazione di
fini e di mezzi la migliore fusione e il maggior rendimento d’ogni energia
cittadina»9. Il problema della gestione amministrativa della capitale veniva
così risolto col dare allo Stato, che riconosceva i suoi doveri verso la capitale stessa, l’onore e l’onere della gestione a mezzo di funzionari statali.
Ciò peraltro non imprimeva al Governatorato il carattere di amministrazione statale, perché esso continuava ad avere piena autonomia di poteri.
Nella creazione del nuovo ordinamento ebbe pure influenza una ragione
di equità, e cioè la necessità di alleggerire la pressione tributaria alla quale
erano sottoposti i contribuenti di Roma per fornire al Comune i mezzi
necessari a fronteggiare le speciali esigenze della capitale.
Non riesce agevole inquadrare il Governatorato in una delle partizioni
della pubblica amministrazione: si trattava di un ente locale – scriveva ancora Enrico Gatta – in quanto, pur essendo retto da un funzionario statale,
esso era regolato dalla legge comunale e provinciale, sia pure con profonde deviazioni soprattutto in materia di controlli; l’autarchia risultava
limitata e di molto aumentata l’ingerenza del Governo centrale soprattutto
per quanto rifletteva la gestione finanziaria. Perciò la definizione del Governatorato che ne derivava diveniva assai complessa: un «ente locale limitatamente autarchico che attende, nell’interesse del gruppo di
popolazione vivente nella circoscrizione territoriale di Roma, ai servizi
propri del Comune e ad alcune funzioni proprie dello Stato e della Provincia, ed è sottoposto, nella gestione finanziaria, al Governo centrale»10.
Nella circoscrizione del Governatorato i servizi statali e municipali di
E. GATTA, Governatorato di Roma, in Nuovo digesto italiano, a cura di m. D’Amelio e A.
Azara, UTET, Torino 1938, vol. VI, ad vocem.
9
Relazione del Governo alla Camera sulla conversione in legge del d.l. 28 ottobre 1925,
n. 1949, in Atti parlamentari, Camera dei deputati, Leg. XXVII, sess. 1924-25, Documenti,
doc. n. 660.
10
GATTA, Governatorato di Roma, cit. nt. 8.
8
16
ROmA CAPITALE NEGLI ANNI TRENTA
polizia risultavano unificati e messi alla dipendenza del questore, a sua
volta dipendente dal ministero e non dal prefetto. La Consulta, alla quale
dalla legge di riforma del 192811 venne tolto il diritto di opposizione e la
cui composizione venne ridotta da 80 membri a un numero assai più ragionevole di 12, poteva comprendere anche donne ed era nominata con
decreto del ministro dell’Interno di concerto con quello delle Corporazioni; di fatto divenne un organismo collegiale di mera consulenza. Come
nel caso dei comuni, ormai retti dai podestà, tutto il potere veniva di fatto
concentrato nella figura del Governatore.
Per comprendere a fondo l’accentramento in mani governative del potere sulla capitale è sufficiente guardare alle nomine: infatti il risultato di
questa organizzazione coincise per un verso con la scelta di una serie di
governatori, dopo Filippo Cremonesi, del tutto acquiescenti alla volontà
di mussolini, in genere esponenti della nobiltà romana, per altro verso con
la immissione nei ruoli del Governatorato di personale statale con funzioni
dirigenziali che ne occuparono di fatto tutte le posizioni di vertice.
Come Governatori si succedettero infatti Ludovico Spada Veralli Potenziani (9 dic. 1926-12 sett. 1928)12, Francesco Boncompagni Ludovisi
(13 sett. 1928-23 genn. 1935), Pietro Colonna (nov. 1936-26 agosto 1939,
data della sua morte), infine Gian Giacomo Borghese, fino ad agosto
1943, personaggi tutti appartenenti alla nobiltà romana. Nella sequenza
di queste nomine fa eccezione la scelta caduta su Giuseppe Bottai nel gennaio del 1935, un uomo politico di livello nazionale, già ministro delle
Corporazioni (dal 1929 al 1932), più avanti dell’Educazione nazionale,
che secondo mussolini non aveva mai particolarmente gradito quell’incarico13; a lui si deve la nomina a segretario generale di Virgilio Testa, che
interrompeva la prassi di chiamare in quel ruolo un funzionario della carR.d.l. 6 dicembre 1928, n. 2702.
Il governatore fu autore di un volume Ventidue mesi governatore di Roma. Novembre 1926 Settembre 1928, Grafia S. A. I. Industrie Grafiche, Roma 1928. Per la sua biografia cfr. la
voce di G. PARLATO in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXV, Istituto della Enciclopedia
Italiana Treccani, Roma 2016, ad vocem.
13
Cfr. il profilo biografico di S. CASSESE in Dizionario Biografico degli Italiani, XIII, Istituto
della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1971, ad vocem; ACS, Segreteria particolare del Duce,
Carteggio riservato 1922-1943, b.4, fasc. 64 «Bottai Giuseppe». Il 7 ottobre del 1936 Bottai
si arruolò volontario per l’Etiopia, sarebbe stato nominato governatore di Addis Abeba
nel mese di maggio; nel suo Diario di quegli anni assai rari sono gli accenni a Roma, sempre
per progetti urbanistici come la sistemazione dei Borghi (1 settembre 1936) o i lavori per
l’Esposizione del 1941 (31 ottobre 1936); sarebbe stato lo stesso Bottai a suggerire il nome
del suo successore, Pietro Colonna (15 novembre 1936): cfr. G. BOTTAI, Diario 1935-1944,
a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, milano 1982, p. 114 (alla data 15 novembre 1936).
11
12
17
G. TOSATTI
riera prefettizia. Per l’altro aspetto, segretario generale e vicegovernatore
furono tratti dai ruoli prefettizi (tranne Virgilio Testa, di cui si è appena
detto), tanto che non è sbagliato sostenere che, pur nell’indebolimento
della figura del prefetto di Roma, spogliato di molte competenze a favore
del governatore, la carriera prefettizia in genere poté invece espandere la
sua influenza attraverso una considerevole presenza negli uffici del Governatorato14; lo Stato poi avrebbe finito anche per controllare l’intero
settore dei lavori pubblici non solo dal punto di vista finanziario, ma anche
dal punto di vista tecnico, come notava Paola Salvatori, «essendo riuscito
a insediare alla direzione degli uffici competenti municipali funzionari del
ministero dei lavori pubblici, quali erano appunto prima Giuseppe Canonica, poi il ben più potente Paolo Salatino»15.
3. Da capitale del Regno a capitale dell’Impero
Vengo al secondo punto: lo sviluppo urbanistico e architettonico della
città, per rispondere non solo alle esigenze della necessità16, ma anche a
quelle della grandezza ‘imperiale’ di Roma, una mitologia politica profondamente radicata nel passato, ma irreversibilmente proiettata nel futuro17.
Ancora prima della marcia su Roma mussolini aveva fatto riferimento ad
un destino ‘imperiale’ della capitale, nel discorso di Udine del 28 settembre
1922, in questi termini: «Noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro
spirito, […] pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre
dell’Italia imperiale che noi sogniamo»18. Ispirato dalle elaborazioni seduSi veda in proposito SALVATORI, Il Governatorato di Roma, cit. nt. 4, pp. 30-33.
Ibid, p. 39. Canonica e Salatino erano ambedue ingegneri del Genio civile.
16
Nel suo discorso del 21 aprile 1924, in occasione del conferimento della cittadinanza
romana, mussolini affermò che i problemi della capitale potevano essere divisi in quelli
della necessità e quelli della grandezza: «I problemi della necessità sgorgano dallo sviluppo
di Roma e si racchiudono in questo binomio: case e comunicazioni. I problemi della grandezza sono d’altra specie: bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica,
ma accanto all’antica e alla medievale bisogna creare la Roma monumentale del XX secolo»: B. mUSSOLINI, La nuova politica dell’Italia. Discorsi e dichiarazioni, a cura di A. Giannini,
Alpes, milano 1926, vol. III, pp. 51-56.
17
L’espressione è di L. SCUCCImARRA, Romanità, culto della, in Dizionario storico del fascismo, a
cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, Einaudi, Torino 2002, vol. II, ad vocem.
18
B. mUSSOLINI, Scritti e discorsi. La Rivoluzione fascista (23 marzo 1919-28 ottobre 1922), Hoepli, milano 1934, p. 308 ss.; cfr. G.Q. GIGLIOLI [rettore delle belle arti], Roma imperiale, in
Reale Accademia nazionale dei Lincei, Dal Regno all’Impero 17 marzo 1861-9 maggio
1936_XIV, cit. nt. 4, p. 598.
14
15
18
ROmA CAPITALE NEGLI ANNI TRENTA
centi e visionarie di margherita Sarfatti19, mussolini aveva fatto del mito
di Roma imperiale una chiave fondamentale del suo apparato ideologico20,
ancora una volta, però, imposta dall’alto, dal centro: Roma subiva la definizione del suo ruolo, il rapporto tra la capitale e lo Stato e tra Roma e
la nazione restava contraddittorio e distorto, fondato sulla ideologia e non
su un effettivo primato morale e economico.
A questa impostazione ideologica si affiancava un chiaro obiettivo politico: una volta risolto con il Concordato il problema dei rapporti con il
Vaticano, si voleva affiancare al carattere ‘sacro’ della città un carattere ‘imperiale’ strettamente legato allo Stato centrale, non meno forte e significativo del primo sul piano simbolico, istituzionale, urbanistico e
architettonico. Ovviamente la proclamazione dell’Impero avrebbe permesso a mussolini di celebrare finalmente il ruolo di Roma non più solo,
e non tanto, come capitale del Paese, ma come ‘cuore pulsante dell’Italia
imperiale’.
Di fatto, Roma all’inizio degli anni Trenta era ancora una città di dimensioni modestissime, se confrontata con altre capitali: aveva infatti
poco più di un milione di abitanti, mentre Berlino nel 1925 superava i 4
milioni, Parigi nel 1926 i 5 milioni, Londra nel 1939 gli 8 milioni, New
York già nel 1930 quasi i 7 milioni (e gli 11 milioni compresa la metropolitan
area). E tuttavia in questo periodo, e nonostante le norme che dalla fine
degli anni Venti tendevano a limitare l’aumento della popolazione nelle
città, il ritmo di crescita della popolazione fu molto più rapido che nel
resto del Paese, con un tasso di incremento demografico doppio rispetto
a milano (unica altra città che superava allora il milione di abitanti) e triplo
rispetto a Torino; un aumento derivato non tanto dall’incremento delle
nascite, quanto dall’immigrazione (esattamente l’opposto di quanto indicavano gli indirizzi governativi). La capitale crebbe nelle sue attività, diventando comunque la terza città industriale d’Italia e il centro reale del
credito, sede di strumenti decisionali per l’economia del Paese; ciò che
«Già nel 1919, al momento della fondazione del primo fascio, margherita aveva insistito
sul valore ideologico e propagandistico che avrebbe avuto l’associazione del fascismo con
Roma imperiale. margherita vagheggiava un capo che imponesse alla civiltà moderna un
nuovo genere di cultura, una cultura che poggiasse sulle virtù romane dell’ordine e della
disciplina. La concezione che margherita aveva di Roma non derivava tanto dallo studio
approfondito dei classici, quanto dalla letteratura italiana del tardo Ottocento, in particolare
dal poeta Giosue Carducci»: così Ph.V. CANNISTRARO, B.R. SULLIVAN, Margherita Sarfatti.
L’altra donna del duce, mondadori, milano 1993, pp. 337-338.
20
R. mORASSUT, Roma capitale 2.0. La nuova questione romana: un riformismo civico per la capitale,
Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
19
19
G. TOSATTI
determinò, ovviamente, un’espansione notevole dell’attività edilizia, sia
per la realizzazione delle opere pubbliche e la valorizzazione dei monumenti della Roma imperiale, sia per la costruzione di nuovi quartieri e
borgate; non mi soffermerò qui sugli sventramenti, le politiche di ‘liberazione dei monumenti’ e la creazione frettolosa di molte borgate, perché
in molti ne hanno scritto.
Piuttosto, se guardiamo allo sviluppo della città in relazione al suo
ruolo di capitale amministrativa, gli anni Venti vanno considerati come
compimento del progetto giolittiano, che aveva previsto la dislocazione
delle sedi ministeriali in diverse zone della città: furono così inaugurati
uno dopo l’altro nel 1924 il ministero di grazia e giustizia a via Arenula
(arch. Pio Piacentini), nel 1928 il ministero della marina sul Lungotevere
delle Navi (arch. Giulio magni), e quello della Pubblica istruzione su viale
Trastevere (arch. Cesare Bazzani). Invece fa parte già di una nuova fase la
costruzione della sede del ministero industria e commercio in via Veneto,
degli architetti Pio Piacentini e Giuseppe Vaccaro, inaugurata nel 1932
dopo soli quattro anni dall’inizio dei lavori21.
Nella seconda metà degli anni Trenta la prospettiva cambiò completamente: come notava Luca Scuccimarra, una «progressiva accentuazione
del tema dell’impero – ereditato dall’ideologia coloniale italiana e già presente nella mitologia del ‘fascismo-movimento’ – precedette e accompagnò l’avvio della politica di potenza fascista»22; da questo momento Roma,
da capitale della nazione italiana, si trasformava in capitale di un impero,
riacquistando il ruolo universale – come quello della Chiesa cattolica, che
pure aveva Roma come suo centro – vagheggiato da mussolini fin dall’inizio del regime.
Simbolo perfetto di questa rinnovata visione della città era la via Imperiale, il lungo tratto di strada che avrebbe congiunto il centro del potere
(Piazza Venezia) con il nuovo quartiere dell’E42, sede dell’Esposizione
universale. «Attraverso via dei Trionfi (l’attuale via di S. Gregorio) e via
del Circo massimo – scriveva Giuseppe Bottai nel 1937 – veniva così a
chiudersi intorno ai colli del Campidoglio e del Palatino l’anello delle vie
imperiali»23. molto si è scritto sul progetto dell’E42, meno di questo perSu questo palazzo cfr. F. BORSI, G. mOROLLI, D. FONTI, Il Palazzo dell’industria, Editalia,
Roma 1986; in generale P. BERTAGNOLIO, L’edilizia pubblica, in La terza Roma. Lo sviluppo
urbanistico, edilizio e tecnico di Roma capitale, a cura di S. De Paolis, A. Ravaglioli, F.lli Palombi,
Roma 1971, pp. 47-55.
22
SCUCCImARRA, Romanità, culto della, cit. nt. 17, p. 541.
23
BOTTAI, Il rinnovamento di Roma, cit. nt. 4, p. 622.
21
20
ROmA CAPITALE NEGLI ANNI TRENTA
corso, che pure costituiva un progetto unitario (come era stato nei primi
anni di Roma Capitale la scelta dell’asse di via XX Settembre) ma anche
fortemente simbolico: si era pensato infatti di costruire lungo questa arteria una serie di edifici pubblici che ne avrebbero fatto il nuovo asse di
sviluppo della Roma ministeriale e non solo, ora strettamente connesso
con l’immagine rinnovata di Roma, tornata ai suoi ‘fasti imperiali’.
La lunghezza complessiva della via (la futura via Cristoforo Colombo)
era di 26 km fino a Ostia, il tratto urbano fino alle mura Aureliane 1.300
metri circa, dalle mura all’Esposizione circa 4,5 chilometri. Il tratto urbano
si pensò che fosse la collocazione migliore per la sede del ministero degli
affari esteri, di cui venne predisposto un progetto di massima24: si scrisse
in una relazione del Genio civile di Roma che «la collocazione in questa
zona piena di verde e di suggestività ambientale, della massima rappresentanza dello Stato, darebbe veramente degno risalto al monumento
dell’Impero fascista, senza turbare i resti del grande Impero romano, e
con i quali anzi, mediante aggiornati studi, dovrebbe fondersi»25; fu l’unico
edificio per il quale venne effettivamente avviata almeno la progettazione,
con la pubblicazione del bando di concorso l’11 aprile del 1939 sul Bollettino ufficiale del ministero dei lavori pubblici26.
Per gli edifici che si era previsto di allineare lungo il tratto della via
Imperiale compreso tra le mura Aureliane e l’E42, un documento della
Facoltà di architettura dell’Università di Roma chiedeva che essi avessero
«carattere di austera nobiltà, sia per le proporzioni, sia per la scelta dei
materiali», e che i diversi tratti della via assumessero un aspetto unitario,
suggerendo l’altezza massima degli edifici27. Nei progetti degli ultimi anni
Oltre a questa ipotesi ancora nel maggio 1938 venne avanzata una proposta diversa, di
utilizzare l’area di Piazza Barberini per collocarvi la nuova sede del ministero degli esteri
o quello della Cultura popolare (che fu poi effettivamente dislocato a via Veneto); ma
venne presa in considerazione anche l’area di Castro Pretorio: cfr. ACS, Min. lavori pubblici,
Dir. gen. Edilizia statale e sovvenzionata, Div. XVIII, Progetti 1920-1940, b. 686 B, fasc. «ministero affari esteri».
25
Ibidem.
26
La proposta, come si sa, rimase sulla carta; poco più di un anno dopo con l. 26 ottobre
1940, n. 1734 venne stabilito il cambiamento di destinazione dell’edificio in costruzione
nell’area del Poligono di tiro della Farnesina, da sede del Direttorio nazionale del PNF e
delle organizzazioni dipendenti a sede del ministero affari esteri: ibidem, b. 720 B, fasc. n.
10 «Casa Littoria»; cfr. L. QUATTROCCHI, Un “italianissimo palazzo”. Da Casa Littoria a Farnesina, 1937-1959, in ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Alle
origini dell’Unione europea. Architettura e arte italiana per il Palazzo della Farnesina, a cura di D.
Lacagnina, Silvana Ed., Cinisello Balsamo 2014, pp. 32-55.
27
ACS, Min. lavori pubblici, Dir. gen. Edilizia statale e sovvenzionata, Div. XVIII, Progetti 192024
21
G. TOSATTI
Trenta – il progetto venne definito il 24 ottobre 1938 – in questo tratto
dovevano situarsi la Biblioteca nazionale centrale di fronte alla sede del
ministero della cultura popolare, le sedi di diversi enti pubblici (Infail,
Incis, Opera nazionale combattenti), l’Agenzia Stefani, il Convitto nazionale femminile, diverse accademie (Santa Cecilia, quelle delle Arti, dell’Arte drammatica e la Filarmonica). Un percorso fortemente simbolico,
si diceva, voluto da mussolini stesso, cui venivano sottoposti tutti i progetti: il Governatorato mostrava anche in questa occasione la sua innata
debolezza, veniva in evidenza l’esautoramento completo dell’istituzione
in un aspetto fondamentale delle politiche cittadine, come la determinazione dello sviluppo urbanistico della città; e i ‘problemi della grandezza’
imposti dal duce oscuravano tutte le altre serie problematiche della città,
legate alla nascita improvvisa e disordinata di tante borgate, abbandonate
quasi completamente al loro destino. La ‘grandezza’ prendeva decisamente il sopravvento sulla ‘necessità’.
In sostanza, l’ordinamento speciale di Roma risultava funzionale soltanto ad asservire completamente la città alle politiche mussoliniane, che
non guardavano allo sviluppo armonico della capitale e non riflettevano
una particolare considerazione dello Stato italiano per la sua capitale, ma
piuttosto a farne una mirabile scenografia, una vetrina della grandezza del
regime. Non vi furono disegni efficaci né la volontà di aiutare la città a
costituirsi come il vero centro del Paese28: non poteva essere questo l’ordinamento speciale degno di una capitale.
1940, b. 683 bis, fasc. «Costruzione e manutenzione edifici pubblici dello Stato».
28
m. DE NICOLò, Città multipla, città dimezzata: la capitale tra Stato e amministrazione locale
(1870-1944), in «Roma moderna e contemporanea», VII (1999), n. 1-2, p. 76.
22
Italo Birocchi
L’integrazione dell’Università nello Stato totalitario:
la politica e il diritto nelle Facoltà di Giurisprudenza
La maggioranza dei professori universitari merita la più ampia fiducia. [Tuttavia] se qualcuno
si avvale tuttora del proprio stato per appartarsi
dal Regime, o per svolgere subdolamente azione
ad esso contraria, occorrerà trovare il modo di
un intervento efficace, completo e definitivo.
[A. STARACE, Relazione alla sessione invernale del
Gran Consiglio, 14-16 febbraio 1935]
La servitù di un letterato è sempre volontaria,
anche quando è passiva. Perciò nessuna scusa
può essere veramente riconosciuta a chi macchiò
quella dignità, che è essenziale alla natura sacra
della parola.
E se molti avessero formata testuggine a resistere,
la forza dell’intimidazione sarebbe stata sconfitta.
[F. FLORA, La dignità della cultura, in «Il corriere
della sera», 26 agosto 1943]
SOmmARIO: Introduzione: 1. Quale autonomia per il giurista durante il regime fascista? La tentata chiusura della Critica di Croce come spunto di discussione –
Parte I: 2. Scienza giuridica e regime fascista: alcune premesse – 3. L’ideologia di
fondo: l’appello Ai giuristi di de Francisci e il rapporto tra politica e diritto – 4.
Le misure di irreggimentazione – 5. La fedeltà premiata – 6. Lo status del giurista
di scuola – Parte II: 7. La forza dinamica del diritto e l’incontro dei giuristi col fascismo – 8. Il giurista intellettuale organico (con un excursus su Vassalli e Calamandrei ‘legislatori’)
23
I. BIROCCHI
1. Quale autonomia per il giurista durante il regime fascista? La tentata chiusura
della Critica di Croce come spunto di discussione
Nel 1940 il regime decise di chiudere la rivista di Croce, la Critica: inammissibile che a distanza di tanti anni dall’avvento del fascismo il filosofo
potesse ancora avere la sua palestra letteraria, ove ‘indisturbato’ aggregava
pensieri e uomini, scopriva e discuteva indirizzi culturali, individuava temi
e problemi, lanciava talenti. Il filosofo non poteva propriamente definirsi
indisturbato, come invece pensava la dittatura, posto che, dopo l’attentato
Zamboni, il suo studio era stato devastato dagli squadristi, mentre in generale la sua attività era sorvegliata e le persone che avevano contatti con lui
erano schedate. ma si comprende che il regime avvertisse come intollerabile
la situazione di impotenza di fronte a un oppositore notorio e in piena attività1. Niente affatto dimenticato era stato l’affronto subito col manifesto
degli intellettuali antifascisti che Croce era riuscito a organizzare in pochissimo tempo e non meno presente era il ricordo dell’intervento in Senato
sui Patti lateranensi: che dunque tacesse la tribuna con cui anche esteriormente si dimostrava la continua presenza dell’oppositore.
Il filosofo rispose con le proprie armi. Scrisse di aver sempre personalmente agito secondo ideali dettati dalla coscienza e, se certo questi non
corrispondevano a quelli del regime, tuttavia la Critica non era un periodico
politico bensì dall’inizio del secolo svolgeva «un’assidua opera per la formazione e l’applicazione di un metodo moderno e scientifico degli studi
di filosofia, storia e letteratura e per contribuire a togliere alla cultura italiana
quel che di chiuso e di provinciale ancora le rimaneva». Dunque il decreto
di chiusura della rivista da parte del governo era mero uso del potere e
certo avrebbe provocato un danno enorme agli studi2.
Il provvedimento di chiusura della rivista fu revocato dal ministro PaÈ appena il caso di ricordare che come parlamentare Croce aveva uno scudo forte,
avendo seggio dal 1910 al Senato che non era elettivo, bensì a vita (non incorse dunque
nel provvedimento di decadenza disposto il 9 novembre 1926 nei confronti di tutti i deputati antifascisti, aventiniani o no); e non poté essere espulso dall’Università o da altre
amministrazioni per mancato giuramento (nel 1931) o per attività antinazionali perché
non inquadrato nei ranghi delle istituzioni dello Stato o controllate dal regime (per esempio, gli Ordini degli avvocati).
2
La lettera di Croce (Foggia, 19 giugno 1940) fu indirizzata all’editore Giovanni Laterza
con preghiera di inoltrarla al ministro Pavolini «come doverosa protesta». È pubblicata in
Filosofi Università Regime. La Scuola di Filosofia di Roma negli anni Trenta. Mostra storico-documentaria, a cura di T. Gregory, m. Fattori, N. Siciliani De Cumis, Istituto di Filosofia della Sapienza - Istituto Italiano per gli studi filosofici, Roma-Napoli 1985, p. 424.
1
24
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
volini3. È un caso emblematico che mostra il marchio di autorevolezza del
filosofo napoletano; non quella insita nell’esercizio di una carica e nemmeno quella che usualmente si associava all’insegnamento su una cattedra
universitaria, bensì l’autorevolezza derivante da un apprezzamento generalizzato di una attività intellettuale, riconosciuta (del tutto a malincuore e
quale danno minore) come indipendente dalla stessa dittatura.
Ci si può chiedere se qualcosa di simile si sia verificato nel mondo del
diritto e specialmente in quello dell’Università, che apparentemente, dopo
il giuramento imposto nel 1931, sembra proseguire sui suoi sentieri senza
frizioni con la dittatura.
A metà degli anni Trenta soddisfazione verso l’ambiente accademico
fu espressa dal segretario del partito nazionale fascista, all’interno di una
voluminosa relazione in apertura della sessione invernale del Gran Consiglio (14-16 febbraio 1935). La si è riportata in epigrafe, insieme alla minaccia per chiunque avesse voluto «appartarsi dal regime» o addirittura
«svolgere subdolamente azione contraria»: in tale ipotesi, col solito terrificante linguaggio si prospettava «un intervento efficace, completo e definitivo» che, secondo quella simbiosi tipica della dittatura tra organi di governo
e di partito, si sarebbe concretizzato nell’azione discrezionale del ministro
dell’Educazione Nazionale4.
Certo, i proclami e la propaganda non sono la realtà ed anzi spesso ne
sono molto lontani5. E in effetti una tesi storiografica molto diffusa (anche
se oggi meno di prima) tende ad accreditare che, se questo fu l’obiettivo
del fascismo, la realtà fu assai distante: sarebbero stati conservati margini
di autonomia del corpo docente, sarebbe rimasto in mano agli accademici
il reclutamento, pur con storture del resto non proprie solo del ventennio,
e in definitiva il rapporto tra gli atenei e la politica del regime si sarebbe risolto in «una maglia di controlli burocratici» sicuramente condizionanti ma
in fondo non intaccanti la vita universitaria6. Soprattutto la scienza giuridica,
sfruttando roccaforti consolidate difficili da scalfire – la dogmatica e l’atti3
La risposta del ministro (24 giugno 1940), ibid., p. 425. Sull’episodio cfr. G. GALASSO,
Croce e lo spirito del suo tempo, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 337-339.
4
La relazione del segretario Achille Starace è in Archivio Centrale dello Stato [d’ora in
poi ACS], Segreteria particolare del duce (1922-1945), Carteggio riservato, b. 31, fasc. Gran Consiglio, sottofasc. 13, ins. A, 1935; i passi citati nel testo e in epigrafe si trovano a p. 14.
5
Così opportunamente m. SBRICCOLI, Le mani in pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana
negli anni del fascismo (1999), ora in ID., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti
(1972-2007), Giuffrè, milano 2009, II, p. 1009.
6
G. mONTRONI, La continuità necessaria. Università e professori dal fascismo alla Repubblica, Le
monnier, Firenze 2016, pp. 4-5 (citaz. a p. 4).
25
I. BIROCCHI
tudine al sistema –, avrebbe resistito alle pretese della politica, per certi
versi imponendo a sua volta le proprie vedute al regime.
Se questa è la tesi, conviene rimarcare alcune sue implicazioni7. Innanzi
tutto accredita una fascistizzazione – il temine è orribile ma lo si userà per
comodità espressiva – solo esteriore, frutto di un compromesso per il quale
da un lato il regime poteva vantare di aver imposto i segni della propria autorità (il giuramento, il rettore e i presidi nominati dal governo, l’inserimento
nei curricula di qualche materia legata al fascismo) e dall’altro la comunità
accademica poteva mantenere i tratti sostanziali della sua tradizionale autonomia, scientifica e operativa. Inoltre asserisce una ininterrotta continuità
nell’esperienza dell’istituzione universitaria, sempre fondata sull’autonomia:
quella perdurante nel passaggio tra l’età tardo-liberale e il fascismo e successivamente nella transizione verso l’ordinamento costituzionale.
Sin troppo facile rilevare che la tesi ora ricordata si appiattisce sulla testimonianza (interessata) dei protagonisti di allora, i quali quasi tutti sostennero di aver operato senza sostanziali interferenze e su un piano
tecnico, salva la sovrapposizione di una veste agevolmente individuabile (e
perciò semplice da cancellare) di cui sarebbe stato responsabile il regime
fascista (oltre ai riferimenti all’ordinamento corporativo, i richiami alla
stirpe, le lodi rivolte al duce, ecc.)8. Non che la storiografia non debba tener
Essa è molto diffusa tra i giuristi positivi ed ha dominato nella seconda metà del Novecento. Di recente è riapparsa in G. DODARO, Giuliano Vassalli penalista partigiano. Lo scudo
del diritto contro l’uso autoritario della legalità, Aracne, Roma 2018, p. 116. Nella medesima direzione: D. VENERUSO, L’Italia fascista 1922-1945, Il mulino, Bologna 1996, pp. 133-134;
L. AmBROSOLI, Alcuni appunti sull’università italiana durante il fascismo, in Cento anni di università.
L’istruzione superiore in Italia dall’unità ai nostri giorni, a cura di F. De Vivo e G. Genovesi,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1986, pp. 170-171.
8
Ha ben esposto queste prospettazioni dottrinali giustificative (non senza manifestare
l’imbarazzo per la commistione tra profili personali e ruoli istituzionali ricoperti) F. TREGGIARI, Questione di stato. Codice civile e discriminazione razziale in una pagina di Francesco SantoroPassarelli, in Per saturam. Studi per Severino Caprioli, a cura di G. Diurni, P. mari, F. Treggiari,
Fondazione Centro italiano di studi sull’Alto medioevo, Spoleto 2008, pp. 857-858. Su
quel canovaccio furono impostate tutte le difese nei procedimenti di epurazione esperiti
a partire dal 1945, che si leggono nelle carte d’archivio. Per comodità del lettore si rinvia
alle memorie edite di F. VASSALLI, In tema di “epurazione” (Deduzioni alla Commissione ministeriale), Tipografia del Senato del dott. G. Bardi, Roma 1945 e di G. DEL VECCHIO, Una
nuova persecuzione contro un perseguitato. Documenti, Tipografia artigiana, Roma 1945 (che accenna anche alla sua epurazione in quanto ebreo, nel 1938, ma è particolarmente rivolto
a difendersi nel procedimento di epurazione cui fu sottoposto in quanto fascista alla fine
del 1944: p. 7 ss.). Per quella osmosi che legava culturalmente i giuristi di scuola e la magistratura e forse anche per la spinta politica a chiudere la fase della transizione, l’impostazione difensiva fu in sostanza accolta dai collegi giudicanti che monotonamente la
riproposero (le ultime pronunce furono emesse negli anni Cinquanta inoltrati). Si può em-
7
26
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
conto delle attestazioni allora espresse, salvo però valutarle criticamente:
l’attore in scena può proporre il proprio punto di vista, ma la sua spiegazione non può essere il parametro esclusivo della valutazione storica. Nel
merito, poi, allo storico viene spontaneo diffidare dei continuismi accreditati da quella tesi, pur essendo vero che di ‘funzione sociale’ (della proprietà,
del contratto …) o dell’autonomia e del pluralismo la scienza giuridica parlava da prima della Grande guerra, poi durante il ventennio e, ancora, in
corrispondenza della Carta del 1948. Così, ad esempio, la previsione normativa della nostra Costituzione (art. 33 co. 6) nell’affermare il diritto dell’Università, come ente di alta cultura, a darsi ordinamenti autonomi non
si limita a prevedere un decentramento gestionale, bensì assicura la libertà
di ricerca e di elaborazione come essenza della vita dell’istituzione e come
diritto/strumento inalienabile di chi fa scienza, innanzi tutto libero da condizionamenti della politica. Proprio per questo essa ha un significato di rottura rispetto alla situazione precedente.
ma certo il problema è tuttora aperto, è di natura essenzialmente storica
e, poiché riguarda complessivamente la collocazione della scienza di scuola
nella cultura giuridica del tempo, richiede molte indagini incrociate9. Qui si
blematicamente citare la conclusione del procedimento di epurazione a carico del civilista
della Sapienza, Giuseppe messina. Con sentenza del 27 febbraio 1945 era stato liberato
da ogni addebito dalla Commissione di I grado perché le sue attività erano state ritenute
di carattere tecnico, ma l’Alto Commissario propose ricorso. Anche in II grado fu assolto
(sentenza del 25 maggio 1945). Il collegio giudicante riteneva che non bastasse essere stato
deputato sotto il fascismo per essere dichiarato indegno di servire lo Stato: bisognava distinguere le cariche ricoperte (membro del Governo, del Gran Consiglio, Federale, membro del Direttorio del PNF, segretario politico delle città più importanti, ecc.), che in re
ipsa comportavano esercizio di attività politica faziosa, da quelle altre che erano da valutare
di volta in volta. Quanto a coloro i quali, come messina, erano stati parlamentari, la sentenza rilevava che potevano considerarsi una sorta di comparse convocate in adunanze di
carattere teatrale, avendo solo la possibilità di presentare lievi emendamenti alle proposte
di legge. In particolare il giurista siciliano aveva partecipato ai lavori di riforma dei codici
e si ricordava innanzi tutto che tale attività aveva coinvolto anche professori antifascisti,
per giungere poi al punto centrale dell’argomentazione: «la riforma dei codici – specie
quella del codice civile, i cui studi si sono iniziati fin dal 1865 – è un’opera di carattere
prevalentemente tecnico. Quel che c’è di aberrante in essi è facilmente individuabile; e
tale parte aberrante non è stata l’opera dei tecnici, che hanno partecipato alla riforma, ma
è stata imposta dall’alto» (in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 313, fasc. messina Giuseppe). Il
giurista come puro tecnico, dunque, e, se parlamentare, marionetta (la sentenza non si poneva il problema di come si diventasse deputati durante il regime). Poco più tardi, comunque, verrà del tutto abolita la distinzione, presente in questa pronuncia, tra cariche di primo
livello e cariche secondarie, sicché ministri e gerarchi come de Francisci, Asquini, De marsico, ecc. furono anche loro declassati a marionette ed assolti.
9
Di recente l’ha riproposto G. mELIS. La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fa27
I. BIROCCHI
proverà appena a delineare uno schizzo. Nel guardare alla fascistizzazione
delle Facoltà giuridiche nel corso degli anni Trenta si osserverà il processo
dapprima dal lato del regime (§§ 2-6), poi degli altri attori in scena (il mondo
accademico, tratteggiato però solo nel versante dei professori)10: ci si chiederà dunque quale fu il ruolo del giurista di scuola (§§ 7-8).
2. Scienza giuridica e regime fascista: alcune premesse
Rispetto alla fase d’avvio del regime fascista, sul piano giuridico non
c’era più il ‘costruttore’ – Alfredo Rocco, guardasigilli dal 1925 alla metà
del 1932 – a cui era stato affidato il compito di innalzare l’intelaiatura di
base (la pax con la Chiesa, i due codici del comparto penale, le leggi di pubblica sicurezza, la legislazione eccezionale con le istituzioni relative, l’avvio
dell’organizzazione corporativa) e di elaborare una ideologia connettiva incentrata sullo Stato forte che nel complesso davano vita a un sistema ordinamentale antitetico ai fondamenti liberali dell’architettura postunitaria.
Ora le direttrici portanti dell’edificio avevano bisogno di estendersi all’intera
società civile, nell’obiettivo di governarla nelle articolazioni dei processi
produttivi, secondo istanze che poterono essere anche di modernizzazione
(il tracollo economico del ’29, in Italia anticipato di qualche tempo per la
recessione susseguente alla decisione di attestare il cambio a ‘quota 90’, richiedeva una profonda ristrutturazione degli apparati economico-finanziari
e con essi anche un nuovo slancio di settori tradizionali come quello agricolo)11. Da qui l’attenzione per i codici del comparto privatistico, che erano
stati momentaneamente messi in stato di attesa da Rocco e che tornavano
alla ribalta sotto le spinte funzionalizzatrici di natura pubblicistica. Da qui
scista, Il mulino, Bologna 2018, pp. 253-299.
10
Ovviamente il processo di fascistizzazione riguarda anche l’apparato amministrativo e
il mondo degli studenti (si dovrebbe ad esempio ripercorrere la storia dei GUF, fucina di
una leva fascista negli atenei e però anche di futuri oppositori al regime: per la testimonianza di Giuliano Vassalli v. di recente DODARO, Giuliano Vassalli penalista partigiano, cit.
nt. 7, pp. 19-35). ma sono ambiti che richiederebbero una trattazione troppo ampia e non
possono essere svolti in questa sede. E per quanto attiene alla scienza giuridica, che non
si svolge solo entro le mura universitarie ma anche nell’incontro con i pratici e la legislazione e si esprime in forme variegate (riviste, sentenze, convegni, rassegne, commemorazioni), sarà possibile solo qualche richiamo in queste direzioni (v. soprattutto § 2).
11
G. mARONGIU, La crisi del 1929 e le ripercussioni sull’Europa e sull’Italia negli anni ’30, in Il
corporativismo nell’Italia di Mussolini. Dal declino delle istituzioni liberali alla Costituzione repubblicana,
a cura di P. Barucci, P. Bini, L. Conigliello, Firenze University Press, Firenze 2018, spec.
pp. 9- 51.
28
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
anche l’espansione di miti come la nazione: mentre restava ferma, ed era
ormai strutturale, la legislazione eccezionale che colpiva ‘gli elementi antinazionali’, ora si costruiva il consenso per ‘la grande nazione’ che apriva
innumerevoli cantieri di lavoro, guardava con sete di potenza all’Adriatico
e al mediterraneo e riusciva addirittura a farsi Impero; e d’altra parte questa
nazione doveva essere dipinta come pura e forte e dunque escludere dal
suo novero i supposti elementi ‘estranei o inferiori’ (sarà la futura legislazione antiebraica). Difficile per le masse identificarsi nell’azione dell’ente
astratto (lo Stato), più semplice sentirsi parte della nazione: il che, tuttavia,
poneva il problema del rapporto tra i due concetti, il primo essendo prettamente giuridico, il secondo politico/sociologico12. L’assai mediocre Starace, che tenne la segreteria del partito per quasi tutto il quarto decennio
del secolo, gestì organizzativamente e coreograficamente questa chiamata
a raccolta.
Entro tale contesto nel 1934 venne avviato il progetto di una summa
collettiva del pensiero giuridico-istituzionale del regime – il Nuovo Digesto
Italiano – affidato alla direzione di un giurista al centro di una rete vastissima
di tessitori del mondo del diritto a contatto diretto con la società civile,
mariano D’Amelio (1871-1943): oltre agli accademici, l’impresa prevedeva
la robusta partecipazione di magistrati, esponenti dell’alta burocrazia, avvocati, mentre era tutto sommato ristretta la presenza dei grandi maestri,
che noi siamo abituati a pensare come il centro di ogni elaborazione13. ma
non per questo il risultato complessivo dell’opera fu meno rappresentativo
nel raffigurare il diritto vigente. Lo stesso genere letterario prescelto –
quello enciclopedico, a preferenza, per esempio, di una collana di trattati –
12
Ibid., pp. 50-51 e, sul versante della discussione del rapporto tra nazione e Stato nella
dottrina degli anni Trenta (Esposito, Costamagna, mortati) m. GREGORIO, Retoriche dei giuristi e costruzione dell’identità nazionale, a cura di G. Cazzetta, Il mulino, Bologna 2013, pp.
243-252.
13
Secondo una stima approssimativa la composizione dei collaboratori alla compattissima
impresa editoriale era la seguente: accademici (57%), magistrati (23%), membri dell’alta
burocrazia (10,5%), avvocati (4,5), altri (5%) (i dati sono in I. BIROCCHI, Enciclopedie giuridiche
tra storia e valutazioni scientifiche, in Evoluzione e valutazione della ricerca giuridica, a cura di G.
Conte, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2015, p. 222). Si nota dunque che un terzo
degli autori proveniva dall’esercizio pratico della giurisprudenza (magistrature, amministrazioni). Quanto all’estrazione universitaria, conviene notare che una parte notevole
degli accademici esercitava anche la professione di avvocato (la cui percentuale è perciò
necessariamente sottostimata) e che nel dato (57%) sono conteggiati anche i liberi docenti:
una schiera che partecipò in modo imponente all’impresa (basti pensare che verso il 1940
i titolari di libera docenza nella Facoltà giuridica romana – serbatoio a cui attinse prevalentemente D’Amelio – erano circa 120 a fronte di 20 cattedratici: dati ricavati da «Annuario Università di Roma», a.a. 1940-41).
29
I. BIROCCHI
indicava l’intento: un’opera scientifica ma confinante con l’alta divulgazione, attuata attraverso una diffusa e però compatta utilizzazione di esperti,
che nei risultati doveva ulteriormente diffondere lo spirito forte e coeso
del regime, ramificato in tutti i campi della società e dunque del diritto,
equilibrato nella rappresentazione di nuovi e vecchi istituti. Era ovviamente
una panoramica di parte, poiché venivano tenuti al di fuori i capisaldi dell’ideario degli oppositori (i diritti di libertà; la separazione dei poteri e il sistema delle garanzie; la concezione classista del lavoro; la visione laica e
artificiale della famiglia; l’internazionalismo), ma essa combinava un’accurata rivisitazione della tradizione e il nuovo diritto fascista, senza lotta tra
le scuole e senza gli eccessi che altrove, e non solo nelle riviste e nelle pubblicazioni di partito, avevano libero sfogo. L’opera fu condotta in porto in
tempi eccezionalmente contenuti (1937-40 gli anni di pubblicazione: niente
di simile per questo genere letterario nella storia della cultura giuridica italiana), a testimonianza di quella singolare capacità di calare le dirompenti
novità istituzionali e legislative introdotte dal fascismo entro i collaudati
calchi giuridici, di coniugare la visione unitaria del diritto con le sue articolazioni disciplinari, di organizzare le risorse intellettuali, propria di colui
che, dopo la scomparsa di Rocco, forse può essere considerato l’eponimo
del giurista di regime14.
Che l’impresa del Nuovo Digesto fosse diretta dal primo presidente della
Cassazione e non da un giurista di estrazione universitaria può forse destare
sorpresa, ma il fatto stesso ci ricorda che la scienza giuridica non è solo
quella distillata nelle aule o nei gabinetti universitari e che di volta in volta
nel partecipare alla sua elaborazione prevalgono comparti differenti a seconda delle temperie culturali e degli assetti socio-ordinamentali15. L’altisLa sua biografia intellettuale testimonia quanto detto nel testo. A sugello, quasi al termine
della sua vita, ne diede conferma con m. D’AmELIO, L’autonomia dei diritti – in particolare del
diritto finanziario – nell’unità del diritto, Cedam, Padova 1941 (letto in estr. con paginazione
a sé). Il saggio era costruito su un multifunzionale equilibrio: tra unitarietà del diritto e
autonomie disciplinari, tra apporti della scienza di scuola e della pratica giurisprudenziale,
tra il discorso giuridico e quello fattuale-economico. In particolare, nato su invito del caposcuola pavese Benvenuto Griziotti e ospitato nella rivista da questi diretta, esso combatteva le due estreme posizioni che si fronteggiavano: da un lato quella dell’esclusiva
appartenenza del diritto finanziario al settore amministrativo, dall’altro quella che lo considerava un unicum a sé stante rispetto agli altri rami del diritto (il supremo magistrato insisteva sulla metafora botanica: p. 4) per la sua stretta inerenza alla materia economica. In
generale D’Amelio sosteneva che l’autonomia disciplinare dipendeva dalla complessità e
dallo sviluppo della vita socio-economica e che fosse da riconoscere allorché la materia
fosse retta da principi generali propri (p. 5 e passim); da qui il carattere storico e relativistico
dell’autonomia.
15
Il che poi significa semplicemente che il diritto, e dunque la scienza del diritto, ha una
14
30
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
simo magistrato non solo era di per sé dotato di grande autorità – era ricorrente, e con fondamento, l’affermazione che potesse pronunciare la sua
parola in tutte le commissioni per l’ingresso nei ranghi dello Stato –, ma
esprimeva nella sua esperienza anche la valenza scientifica del diritto: s’intende, secondo i calchi del fascismo. Il densissimo saggio dedicato a La vocazione del secolo XX alla codificazione ne era quasi un manifesto16. Ben lungi
dal riproporre per l’ennesima volta triti discorsi sui codici, in poche pagine
il primo presidente della Cassazione sgomberava il campo dalle due opposte correnti presenti nella dottrina italiana: quella degli attendisti, che ritenevano prematuro procedere nel completamento dell’opera codificatoria
mentre era ancora in atto la rivoluzione fascista, e quella dei pasdaran che,
guardando all’esperienza nazionalsocialista, reputavano il codice uno strumento vecchio perché rigido e premevano per intraprendere la via tracciata
in Germania, con una legislazione agile di principi e per così dire programmatica e i giudici a farsi interpreti di quelle direttrici generali plasticamente
adattandole alle esigenze della ‘comunità’. D’Amelio parlava da giurista di
regime a giuristi del fascismo e indicava la strada nel mezzo tra i due
estremi. Al momento il secondo era più pericoloso17. Il diritto del nazionalsocialismo era incentrato sul Partito e sul Führer come capo mistico
dell’«allucinante organizzazione» da cui Schmitt e gli altri giuristi facevano
derivare il diritto, la comunità tedesca18; quello del fascismo, invece, aveva
come perno lo Stato ed emanava interamente da questo. I codici in preparazione disponevano appunto le regole poste dallo Stato per una società
complessa che aveva bisogno di norme articolate, capaci di esprimere lo
spirito del fascismo19.
dimensione prettamente storica. Come esempi, basti pensare allo scarso peso, in Italia ma
anche in Francia, dei giuristi di scuola nel corso del Seicento, e, viceversa, per buona parte
dell’Ottocento, ai caratteri prevalentemente accademici della scienza giuridica tedesca e
invece essenzialmente di estrazione pratica (avvocatura) di quella italiana.
16
m. D’AmELIO, La vocazione del secolo XX alla codificazione, in «Nuova antologia», CCCXC
(1937), pp. 163-171. Sul saggio basti citare P. CAPPELLINI, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di
esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, in «Quaderni fiorentini»,
XXVIII (1999), t. I, pp. 195-196 e P. RESCIGNO, Codici. Storia e geografia di un’idea, Laterza,
Roma-Bari 2013, pp. 23-24.
17
Al rapporto tra la scienza giuridica italiana e quella tedesca in quegli anni è dedicato A.
SOmmA, I giuristi e l’asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista e nazionalsocialista, Klostermann, Frankfurt am main 2005.
18
D’AmELIO, La vocazione del secolo, cit. nt. 16, p. 169.
19
Ivi. Subito dopo l’alto magistrato si diffondeva sul ruolo della Carta del lavoro rispetto ai
codici. Nel saggio erano in sostanza passati in rassegna i temi che sarebbero stati oggetto
31
I. BIROCCHI
Niente ritardi, dunque, e d’altra parte nessuna fuga in avanti, in questo
contrastando la nebulosa vasta ma troppo composita dei dottrinari ‘rivoluzionari’, da Costamagna ai giuristi-filosofi che erano nati nell’alveo gentiliano e che erano poi cresciuti nel mobile laboratorio di Bottai e ancora
nelle sperimentazioni pubblicistiche degli ultimi anni Trenta20. D’Amelio
tracciava un modello di diritto che, saldamente in mano allo Stato, doveva
svolgersi nell’equilibrio tra rivoluzione e recupero della tradizione, tra teoria
e prassi e nella coerenza tra il polo della legislazione (l’aspetto volontaristico
che muoveva dal centro ma raccogliendo spinte ed elaborazioni in continuo
divenire) e quello della sua attuazione attraverso la giurisdizione e l’amministrazione. Non era un disegno astratto. Nella visione di D’Amelio tutti
questi nessi erano racchiusi entro la politica che, attraverso le diverse istituzioni, li permeava dei suoi valori dominanti, sicché in definitiva la sfera
giuridica esprimeva anche una dimensione culturale: il diritto si connotava
di politica e ben poteva dunque supportare i canoni del fascismo21. Si comprende allora come l’impressionante sequenza dei ruoli da lui ricoperti nel
cinquantennio di attività dopo la laurea non fosse una somma di uffici,
bensì una mappatura essenziale degli snodi costitutivi della rete politicoistituzionale e, insieme, della cultura giuridica tra la fine dell’Ottocento e il
della famosa discussione che si tenne a Pisa nel 1940 sui principi generali del diritto e i
codici.
20
Senza che in questa sede se ne possa trattare, la presenza di questa variegata e rumorosa
corrente è testimoniata, per gli anni qui presi in considerazione, dal violentissimo attacco
di C. COSTAmAGNA, Professori ebrei e dottrina ebraica, pubblicato nel 1938 e diretto contro la
scuola classica del diritto pubblico che, secondo il magistrato ultrafascista, pretendeva addirittura di esportare «la porcheria ebraico-liberale costruita nel tardo Ottocento» e che
operava ancora «colle Enciclopedie, coi vecchi o nuovi Digesti e coi congressi scientifici
diretti dai soliti bacchettoni»; solo di contenimento la risposta di de Francisci, soprattutto
interessato a difendere la valenza del diritto romano (il saggio e il carteggio conseguente
sono ripubblicati in SOmmA, I giuristi e l’asse culturale, cit. nt. 17, pp. 300-306; citaz. a p. 302).
Quanto a Bottai, di cui è noto il sodalizio (critico) con Volpicelli e Spirito e l’impulso dato
agli studi sullo Stato e il corporativismo, le sue posizioni risentirono anche della mobilità
delle occupazioni (nei ruoli di governo) e delle sedi operative accademiche (passaggio dalla
cattedra pisana a quella romana); l’ambizioso programma pisano, che contava anche su
Cesarini Sforza e su mossa, dovette ridimensionarsi – a seguito di una sorta di diaspora
fu affidato infine al limitato Biggini – e sembra anzi che, ormai sulla poltrona del dicastero
dell’educazione, il ministro pensasse di dedicarsi a una rifondazione complessiva del sistema dell’istruzione.
21
Nonostante le sue elevatissime mansioni e le cariche istituzionali, D’Amelio prese la
tessera del PNF solo nel gennaio 1933, all’incirca in coincidenza con il tesseramento di
massa dei cattedratici di diritto.
32
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
tramonto del regime fascista22.
Questo excursus dedicato alla figura di D’Amelio non significa che il
comparto giurisprudenziale universitario fosse secondario per la dittatura.
Al contrario, nella politica del fascismo esso era vitale nei due principali
profili della sua attività: quello dell’insegnamento, che involgeva direttamente la formazione delle future leve dirigenziali, e quello degli specialismi
disciplinari, di cui il regime aveva bisogno per la loro utilizzazione entro la
concreta pratica politica. Per gli anni Trenta si pensi, oltre alle competenze
dei civilisti, commercialisti, navigazionisti e processualcivilisti per i codici
allora in preparazione, a quelle dei cultori del diritto finanziario e tributario
per la riorganizzazione dell’apparato delle entrate e la gestione delle finanze,
o a quelle degli agraristi per il rinnovamento produttivistico e le connessioni
tra il settore primario e l’industria, e ancora a quelle di una variegata costellazione di studiosi (lavoristi, commercialisti, amministrativisti, civilisti e
filosofi) ai fini dell’enucleazione del sistema corporativo.
Diffondere e generalizzare nelle Facoltà giuridiche i principi e la visione
del regime era perciò assai importante. Quel mondo del diritto che dall’inizio del secolo aveva costituito l’ossatura intellettuale portante dello Stato
doveva continuare ad esserlo, ora in simbiosi con i programmi mussoliniani.
Era la fase cosiddetta ‘integrativa’ del proselitismo intellettuale, lanciata
particolarmente negli anni Trenta e mirante «a conformare gli individui al
regime, ad ampliare la partecipazione sotto tutti gli aspetti di ogni individuo
Si rinvia al profilo ricostruito da F. AULETTA in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XIIXX secolo) (d’ora in poi: DBGI), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. mattone, m.N. miletti, Il mulino, Bologna 2013, I, pp. 635-638. È ora disponibile online
<http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/All/4C91CE4A53C27CD84125646F005AA
8CF/$FILE/0699%20D’Amelio%20mariano%20fascicolo.pdf: consultato il 24 marzo
2020> la sterminata scheda di servizio, in cui ogni punto sembra suggerire una lettura
trasversale rispetto ai dati della biografia intellettuale del giurista napoletano. Un esempio
per tutti, quello derivante dall’ufficio di capo-gabinetto del governo Scialoja nel 1909-10,
che propone il collegamento con gli innumerevoli ‘incontri’ tra i due giuristi: non solo al
Palazzaccio, negli anni Venti, rispettivamente la sede del primo presidente della Cassazione
e delle cause patrocinate dall’avvocato Scialoja, ma anche per la preparazione del codice
eritreo (D’Amelio mise eccezionalmente a frutto la sua esperienza giovanile di magistrato
in terra d’Africa per accelerare la carriera in magistratura e per estendere la sua rete di rapporti e di attività), la comune partecipazione alla Rivista del diritto commerciale (diretta dal
cognato di D’Amelio, Sraffa, e dal collega di Facoltà di Scialoja, Vivante), la colleganza
nella direzione delle commissioni che si alternarono negli anni Venti per la riforma dei
codici (famosa la difesa di entrambi del codice unico delle obbligazioni italo-francese,
creatura, si sa, di Scialoja), la condivisa titolarità del seggio al Senato (per D’Amelio dal
1924), l’appartenenza alle istituzioni culturali di maggior prestigio. C’è da stupirsi se
D’Amelio abbia anche lasciato un ritratto commemorativo del romanista della Sapienza
(m. D’AmELIO, Vittorio Scialoja, in «Nuova antologia», CCCLXX [1933], pp. 396-404)?
22
33
I. BIROCCHI
alla società ideologicizzata»23. L’incontro in effetti avvenne e tuttavia è un
tema che solo abbastanza recentemente ha riscosso attenzione, sia per la
già rilevata interessata refrattarietà della scienza giuridica a passare al setaccio critico l’attività dei propri padri, sia perché la fascistizzazione allude a
un processo culturale e, nell’immaginario circolante, l’universo del diritto
non viene per lo più raffigurato come una componente della cultura: il diritto sarebbe tecnica, ovviamente neutra. In realtà quel processo si realizzò
come una integrazione multiforme che investì ideologie, modi di pensare,
comportamenti; fu messo in atto attraverso un intreccio – non dunque una
somma – di provvedimenti di varia natura che toccarono i diversi aspetti
del mondo delle Facoltà giuridiche e in particolare, l’orientamento dei programmi e, per così dire, lo status operativo dei docenti (il reclutamento e le
chiamate, i trasferimenti verso le sedi prestigiose, la concessione di cariche
o seggi parlamentari, l’inserimento in commissioni concorsuali o legislative,
l’introduzione di materie da insegnare e le missioni all’estero). Si attuò attraverso una rete di concessioni e di controlli, condizionamenti e premi e
si valse non secondariamente dei legami tra l’istituzione universitaria, i singoli e le gerarchie del partito. Per questo non conviene solo guardare alla
normativa generale, ma anche alle circolari e ai documenti amministrativi,
ai carteggi tra ministero e rettori, ai fascicoli personali e alle biografie dei
vari protagonisti, nonché all’occasione per la quale un’opera fu scritta e alle
sue utilizzazioni.
Il processo cominciò da subito secondo la promessa di ristabilire ‘l’ordine’ e di affermare quello ‘rivoluzionario’; nel contempo si faceva spazio
agli uomini nuovi. Nelle Facoltà di diritto esso fu inizialmente promosso
con misure settoriali negli ambiti di primario interesse (nomina di personaggi affidabili nei ruoli-chiave dei rettori e dei presidi; inserimenti ‘mirati’
nel listone del 1924; trasferimenti come premio alla fedeltà)24. È però sulla
soglia degli anni Trenta che si configura un progetto pervasivo e molto articolato, che si appaia al concorrente disegno riguardante gli altri principali
luoghi deputati a praticare il diritto (si pensi almeno all’avvocatura e alla
magistratura): le Facoltà di Giurisprudenza, insomma, parteciparono al processo di fascistizzazione con un ruolo particolare ratione materiae, investite
di una specifica collocazione riguardante la dimensione giuridica (comune
G. SEDITA, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Le lettere, Firenze
2010, p. 30.
24
Si rinvia a I. BIROCCHI, Il giurista intellettuale e il regime, in I giuristi e il fascino del regime (19181925), a cura di I. Birocchi e L. Loschiavo, Roma TrE-Press, Roma 2015, pp. 9-61 (il volume contiene specifiche trattazioni dedicate all’attrattiva esercitata dal fascismo montante
su diversi giuristi, protagonisti nel primo dopoguerra).
23
34
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
agli altri ambiti nei quali il giuridico si elaborava e si praticava)25. S’intende
che il giurista di scuola non ha mai scritto su dettatura del gerarca (che del
resto aveva ampia possibilità di scelta sulle persone a cui affidarsi) e sotto
questo profilo era libero; e tuttavia formulava le sue dottrine in un contesto
entro il quale operavano in modo diffuso le ideologie e le direttrici del regime – alternative non esistevano – e il lavorio non meno efficace di giuristi
che si potrebbero definire pratici, ma non nell’accezione oggi corrente, dal
momento che in quel tessuto essi erano considerati altrettanto autorevoli
nel discutere sulle questioni aperte, nell’elaborare soluzioni, nel rappresentare l’Italia nei tavoli internazionali per la definizione di trattati. A parte il
già menzionato D’Amelio, vengono in mente i nomi di massari e Saltelli,
Longhi e Garofalo, Ambrosini, Costamagna e, onnipresente e poliedrico,
Amedeo Giannini26. Diversi di loro del resto avevano avuto l’opportunità
della cattedra (rifiutandola) o erano stati investiti di un incarico di insegnamento, o addirittura erano passati dalla lunga milizia nella magistratura alla
scuola; tutti comunque erano autori di spicco, spesso dirigevano riviste o
comunque avevano tribune in cui pubblicare saggi, erano membri di commissioni legislative e spesso ricoprivano cariche presso enti di primaria importanza negli ingranaggi del regime. Emblematiche, al rovescio, le figure
e l’attività scientifica di alcuni maestri riconosciuti per tutti gli anni Trenta:
Vassalli, a parte la prolusione alla Sapienza e qualche commemorazione,
pubblicò solo una raccolta di scritti e qualche saggio d’occasione, per lo
più su temi sviscerati nelle commissioni legislative in cui era stato impegnato; Asquini pubblicò pure una raccolta di scritti, svariati testi derivanti
dall’impegno politico-istituzionale (conferenze, relazioni di missioni e numerosi interventi sulla questione corporativa da lui seguita anche come viceministro) e la trascrizione in forma di dispense dei pochi corsi tenuti; De
Gregorio, meno noto ma altrettanto eminente, chiamato alla Sapienza nel
1935 ove a lungo fu collocato in modo ‘defilato’ sulla cattedra privatistica
o su quella di Diritto industriale, pubblicò essenzialmente un Corso, piccoli
saggi e una riedizione aggiornata di una giovanile monografia sui bilanci
Nel quadro più generale che, sul finire degli anni Venti, muoveva dalla critica alla riforma
Gentile, giudicata «poco fascista»; v. G. BELARDELLI, Il ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 26.
26
Padre di massimo Severo, con tessera fascista dal 1923, impressiona per l’eccezionale
versatilità (dal diritto ecclesiastico, al commerciale, all’aeronautico, passando per quasi
tutte le discipline) e per le molteplici dimensioni dei suoi impegni (consigliere di Stato,
ambasciatore, professore, direttore di riviste), tutti di rilevanza primaria (cfr. la relativa
voce di G. mELIS, in DBGI, I, pp. 981-984; si rinvia allo stesso DBGI per i profili degli
altri giuristi citati nel testo).
25
35
I. BIROCCHI
delle società anonime, essendo comunque uno dei maggiori esperti in Italia
degli aspetti pratici in materia di assicurazione, di società commerciali e di
diritto bancario. Tutti e tre, comunque, assai presenti e, come si sa, con un
ruolo di primo piano nei lavori di codificazione (e De Gregorio fu anche,
con Donato menichella, protagonista assoluto della legge bancaria del
1936)27.
Una scienza giuridica che era dunque osmosi: tra politica e diritto, tra
personaggi che operavano in istituzioni diverse ma contigue, tra generazioni
di giuristi28. Facendo seguito alla fase più violenta e sovvertitrice che instaurò la dittatura, negli anni Trenta il diritto fu chiamato a consolidare e
sviluppare la società di massa: ne fu il tessuto connettivo. Non conta semplicemente il numero delle leggi nuove, sicuramente una minoranza rispetto
a quelle prefasciste rimaste in vigore, tutte peraltro nei settori chiave (costituzionale, penale, della pubblica sicurezza, dell’ordinamento giudiziario,
dell’organizzazione del lavoro, dell’economia e finanza, dei vari settori dell’amministrazione) e prevalentemente attraverso apparati normativi complessi come i codici e i testi unici29; conta ancora (e forse soprattutto) la
torsione a cui leggi e istituti precedenti furono sottoposti, secondo l’ideologia e la cultura del fascismo.
Si può dunque parlare della fascistizzazione del diritto come di un processo a cui partecipò, in parte forzosamente in parte di buon grado, l’Università, tutt’altro però che da considerare come un comparto isolato30. Essa
consistette in una sorta di socializzazione del ‘giuridico’ secondo le vedute
del regime31; riguardò innanzi tutto i suoi sacerdoti considerati nella loro
Sulla sua figura I. BIROCCHI, L’età vivantiana: tra Sraffa e Rocco, giovani commercialisti crescono
(Mossa e Asquini dalla formazione alla cattedra, 1909-1921), in ‘Non più satellite’. Itinerari giuscommercialistici tra Otto e Novecento, a cura di I. Birocchi, Edizioni ETS, Pisa 2019, pp. 228229 e soprattutto la voce di N. RONDINONE, in DBGI, I, pp. 680-681.
28
Tra la fine degli anni Venti e la prima metà dei Trenta scompaiono (o non sono più
attivi nella scuola) grandi maestri quali Scialoja e Alfredo Rocco, Vivante e Sraffa, Orlando
e Brugi, Alfredo Ascoli e De Ruggiero, Bonfante e Riccobono, Ferri e Lucchini, Scaduto
e Salandra, Brandileone e Fadda, Ruffini e Anzilotti; poco dopo, ma comunque ormai in
declino, si aggiunsero mortara e Chiovenda. Prendevano il loro posto i giuristi nati attorno
agli anni Ottanta, da Carnelutti ad Arangio Ruiz, Vassalli, mossa, Perassi, Asquini, Calamandrei, Betti, Zanobini, Jemolo, mortati, maggiore, Finzi.
29
Cfr. mELIS. La macchina imperfetta, cit. nt. 9, p. 254 ss.
30
Sull’intreccio tra coercizione e consenso v. G. TURI, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali
nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 19 e 49 ss. (spec. 53).
31
R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1974,
pp. 101-102.
27
36
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
appartenenza all’istituzione universitaria, ma anche come attori influenti
della società civile e tese ad affermare l’ideologia del fascismo nel comparto
del diritto32, si avvalse di misure di irreggimentazione e di poteri direttivi
saldamente in mano al governo e gestiti gerarchicamente33, si esplicò anche
attraverso premi e provvedimenti corruttivi34 e si accompagnò a controlli
e restrizioni di varia natura che complessivamente delineavano lo status del
professore di diritto e la sfera entro cui la sua attività si svolgeva35. D’altra
parte si affermò anche attraverso la cooperazione attiva, pur non uniforme,
del ceto dei giuristi36.
Per semplificare si potrebbe dunque parlare di uno svolgimento bidirezionale, con un percorso discendente dall’alto e un altro ascendente dal
basso, se non fosse che l’immagine rischia di restituire una rappresentazione
troppo meccanica, mentre invece nel suo sviluppo si realizzò una compenetrazione dei vari momenti, senza un ‘prima’ e un ‘dopo’. In quanto processo ideologico/culturale, esso fu per definizione incompiuto e non
sembra che realizzò tutte le aspettative enunciate dalla dittatura – avveniva
in una fase di trasformazione delle Facoltà di Giurisprudenza, ormai di
massa, e influirono certamente i sopraggiunti sconquassi della guerra37 –,
senza che per questo se ne possa negare l’affermazione.
3. L’ideologia di fondo: l’appello Ai giuristi di de Francisci e il rapporto tra politica
e diritto
Lo scenario fu aperto al pubblico nell’ottobre 1932, decennale della
marcia su Roma: alla presenza di mussolini, si celebrò il I congresso giuridico, ministri di cerimonia il guardasigilli de Francisci e il rettore Alfredo
Cfr. infra § 3.
Cfr. § 4.
34
Cfr. § 5.
35
Cfr. § 6.
36
Cfr. §§ 7-8.
37
Ecco i dati forniti dal ministro Bottai nel 1940: mentre l’Università italiana aveva all’incirca raddoppiato gli studenti iscritti nell’ultima dozzina d’anni giungendo a circa 90.000
in quell’anno (erano 85.535 nel 1939-40), le Facoltà di Giurisprudenza (in numero più elevato in assoluto: 26) facevano la parte del leone con circa un quarto degli iscritti e con un
gettito (espressione del ministro) di 2732 laureati sul totale di 12.044 (G. Bottai, Ripresa
della vita universitaria [1940], ora ripubblicato in L. Pomante, Giuseppe Bottai e il rinnovamento
fascista dell’Università italiana (1936-1942), FrancoAngeli, milano 2018, pp. 108-109).
32
33
37
I. BIROCCHI
Rocco da poco scambiati nelle rispettive cariche. Protagonista un’élite di
giuristi scelti (dal regime), chiamati ad illustrare contorni e contenuti di un
istituto giuridico o linee di orientamento nel campo specifico della propria
competenza38. Il ministro-romanista tenne la relazione cardine, che era un
vero e proprio manifesto Ai giuristi, nel quale tracciava le coordinate per
stabilire nelle Facoltà giuridiche un rapporto di funzionalità ideologica dell’insegnamento e della ricerca rispetto al regime39. Il programma si articolava in una duplice direzione:
a’) innanzi tutto occorreva sgombrare il campo dall’idea che i nuovi
compiti della scienza giuridica potessero essere svolti attraverso semplici
ritocchi o «rabberciature» della dogmatica ottocentesca: «idolatria del passato», pigrizie o «atteggiamenti di conservatorismo difensivo» dovevano
essere banditi40.
Di contro bisognava operare per far corrispondere il diritto ai valori
della politica sotto l’imperio dello Stato. Non c’era separazione, ma solo
distinzione tra politica, diritto, economia41. La scienza del diritto doveva
elaborare una nuova dogmatica storica, che non era un insieme di necessità logiche universali, né di verità teoriche, bensì principi posti al servizio
di un interesse pratico. In proposito il dibattito che da una decina d’anni
rimbalzava nella polemica tra de Francisci e Betti veniva risolto con un
deciso richiamo alle ragioni del regime, che avevano ormai dalla loro
anche la storia:
A realtà nuova, dogmatica nuova. La realtà nuova è la nostra rivoluzione
che ha trasformato e trasforma sempre più profondamente l’intima struttura della Nazione, ispirata ad una nuova concezione della società, dello
Stato, dei gruppi, dei rapporti fra il singolo e lo Stato, fra il singolo e i
gruppi, fra i gruppi e lo Stato e dei gruppi fra loro […]. Alla scienza giuridica italiana il compito di costruire la dogmatica nuova che, se vuol essere espressione e rappresentazione di tale nuova realtà, non può non
Cfr. N. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, Giuffrè, milano 2003, p. 90 ss.
che offre una panoramica critica sui partecipanti, le relazioni e le principali direttrici delle
discussioni. Per il settore penale v. in particolare m. SBRICCOLI, La penalistica civile. Teorie e
ideologie del diritto penale nell’Italia unita (1990), ora in ID., Storia del diritto penale e della giustizia,
cit. nt. 5, I, pp. 587-588.
39
P. DE FRANCISCI, Ai giuristi italiani, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica diretti
da Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli», V (1932), fasc. VI, pp. 269-284; cfr. A. DE GENNARO,
Crocianesimo e cultura giuridica italiana, Giuffrè, milano 1974, pp. 639-640 nt. 507.
40
DE FRANCISCI, Ai giuristi italiani, cit. nt. 39, p. 270.
41
Ibid., p. 276.
38
38
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
ispirarsi ai concetti fondamentali, ai motivi dominanti, agli indirizzi e ai
fini del nostro regime42.
Perciò la scienza giuridica doveva avere
come punto di partenza la concezione fascista dello Stato, ente sovrano
nel quale si realizza l’unità morale, politica ed economica della nazione e
la cui volontà è preminente e decisiva in confronto ai gruppi e agli individui singoli43.
Nelle sue diverse attività – sia che elaborasse una dogmatica, sia che interpretasse, sia che insegnasse – il giurista doveva dismettere le soverchie
preoccupazioni logico-formali e impiegare robuste dosi di volontarismo,
ovvero procedere secondo giudizi di valore: quelli del regime. Bisognava
dunque comprendere e far comprendere le finalità a cui era chiamato a rispondere l’ordinamento giuridico e in sostanza trarre dalle concezioni generali (politiche, sociali, economiche) le linee direttrici attraverso cui
interpretare e implementare il diritto44;
a’’) nonostante la pretesa portata universale del paradigma individualista,
da tempo la presenza di nuove forme associative nella vita economica richiedeva il rinnovamento delle strutture sociali, a cui ora avevano la missione di provvedere la politica del regime e, corrispondentemente, la scienza
giuridica. È l’aspetto modernizzante del fascismo, tutt’altro però che neutro
o deideologizzato. La riorganizzazione giuridico-istituzionale doveva avvenire a partire dallo Stato, centro motore e protagonista preminente rispetto
a individui e gruppi; anzi, sul piano ordinamentale questi esistevano solo
in quanto lo Stato conferiva loro una «definizione e posizione», cioè una
identità giuridica45. De Francisci spiegava il senso del preteso pluralismo
degli ordinamenti entro lo Stato: in tanto una aggregazione sociale dotata
di fini specifici poteva avere rilevanza giuridica in quanto il suo statuto fosse
assorbito entro l’ordinamento statuale. Cadeva così la tradizionale distinzione tra diritto pubblico e privato, giacché quest’ultimo era semplicemente
una forma particolare del diritto pubblico46; di conseguenza l’intero ambito
Ivi.
Ibid., p. 277.
44
Ibid., pp. 273-275.
45
Ibid., pp. 277-278.
46
Ibid., pp. 279-280. merita riportare il pensiero di Santi Romano che, allievo di Orlando,
42
43
39
I. BIROCCHI
del giuridico veniva ridisegnato secondo tre sfere concentriche di principi
e di norme, da studiare specificamente da parte del giurista nelle rispettive
funzioni e tuttavia già pre-disposte in posizione di preminenza o di subordinazione a seconda dell’ampiezza del rispettivo raggio. La prima era quella
comprendente le norme riguardanti lo Stato e le sue strutture (a), il cui
compito integrava tutte le attività della nazione organizzate entro aggregazioni più o meno settoriali; la seconda si suddivideva in due sezioni concernenti rispettivamente gli statuti degli enti pubblici e territoriali con
potestà derivanti immediatamente dallo Stato (b) e le norme sulle associazioni di vario grado (b’), che costituivano la novità caratteristica introdotta
dal fascismo e che offrivano un campo aperto agli studi dei giuristi; la terza
annoverava il complesso settore una volta denominato ‘diritto privato’, che
prevedeva sì spazi aperti all’autonomia privata (si pensi al principio di libertà
dell’iniziativa economica o al contratto) ma considerati anch’essi come esercizio di una funzione pubblica (c)47.
Per quanto generali, le indicazioni erano precise: stabilivano un binario
entro il quale incanalare l’attività del giurista sotto il profilo pratico, essenzialmente nei due settori (b’’ e c) ove si trattava di organizzare le relazioni
germoglianti nella vita civile (rapporti di lavoro e in genere i principali istituti privatistici) attraverso forme giuridiche segnate dall’ideologia fascista.
I temi non erano nuovi. Si pensi alla questione del pluralismo delle fonti
normative in collegamento con la teoria istituzionalistica: nei secondi anni
Venti vi aveva scritto criticamente il giovane e brillante Cammarata48 ed è
non poteva rinnegare l’importanza delle categorie civilistiche nello sviluppo storico complessivo della scienza giuridica, e tuttavia, sulla scia di de Francisci sebbene in maniera
meno netta, segnalava che i tempi erano cambiati e che ora perciò la dogmatica civilistica
molto aveva da apprendere dai pubblicisti: «A tutto ciò, naturalmente, non è rimasto estraneo il mutato clima politico. La sempre crescente ingerenza dello Stato in ogni sfera dell’attività umana; la forza d’attrazione e di assorbimento da esso esercitata su tante altre
organizzazioni, adesso divenute suoi satelliti; i mezzi di cui lo Stato dispone per affermare
la sua potestà sovrana, hanno, com’è noto, ridotta sensibilmente la sfera riservata al diritto
privato, anzi hanno conferito a quest’ultimo alcuni caratteri, per cui la stessa distinzione
fra diritto pubblico e diritto privato deve oramai, non certo negarsi, ma profilarsi in modo
diverso da quello tradizionale» (S. ROmANO, L’insegnamento di diritto pubblico nelle Facoltà di
Giurisprudenza, in «Annali della Università d’Italia», I [1939], n. 1, pp. 12-15, citaz. a p. 13).
Come si vede, il presidente del Consiglio di Stato usava il termine ‘satellite’ per definire il
rapporto tra le varie organizzazioni e lo Stato.
47
DE FRANCISCI, Ai giuristi italiani, cit. nt. 39, pp. 280-282.
48
A.E. CAmmARATA, Il concetto del diritto e “la pluralità degli ordinamenti giuridici”, Giannotta,
Catania 1926, ove, tra la concezione ‘statuale’ e quella ‘sociale’ del diritto il giovane filosofo
riconosceva come principio fondamentale della giurisprudenza la forma logica tra norma e
attività pratica, cioè tra la regola e il regolato (spec. pp. 37-40; molte le suggestioni, ma uti40
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
fin troppo nota l’agile summa – peraltro non originale e chiaramente preparata con finalità concorsuali – costituita dal libro di Cesarini Sforza49. Questo lavorio fu accompagnato da forse più interessanti applicazioni in sede
giurisdizionale (le norme del diritto cavalleresco furono considerate una
espressione della teoria istituzionalista e generarono provvedimenti amministrativi che nel loro collidere con altre regole dell’ordinamento furono
impugnati di fronte al Consiglio di Stato50) e dall’intenso dibattito sulle corporazioni.
La riflessione su quei temi veniva ora inserita entro un disegno praticopolitico, che almeno per qualche tempo si nutrì di tendenze sperimentali51;
ma gli insistiti riferimenti agli obiettivi di modernizzazione e di progresso
e la spinta a riorganizzare gli apparati di lavoro, a rendere efficienti gli organismi decisionali e a costruire le strutture proprie della società civile come
una rete di connessioni ordinate verticalmente e orizzontalmente non ne
facevano venir meno la direttrice politica e l’impronta autoritaria tipica della
dittatura52. Si proiettava l’immagine della nazione in marcia, dinamica e polizzate criticamente, tratte da Kelsen, Santi Romano e Stammler). Studente a Pisa probabilmente per seguire Gentile, Cammarata aveva frequentato il corso di Romano che proprio allora elaborava il suo Ordinamento giuridico, ventenne si era laureato con Vincenzo
miceli (1919) e a Roma aveva frequentato poi una cerchia composita di intellettuali di matrice crociana e gentiliana, tra cui max Ascoli, poi amico di una vita. Laico e massone,
sempre di idee antifasciste, non prese mai la tessera del PNF e certo a questo deficit è dovuto il suo relativo ritardo nell’andare in cattedra (al concorso di messina del 1929 non fu
classificato nella terna). Cfr. C. PALUmBO, Sul pensiero filosofico-giuridico di A.E. Cammarata.
Dalla legalità alla giustizia nel ‘formalismo’ giuridico, Giappichelli, Torino 2017 (con bibliografia
di scritti e profilo biografico curati dalla figlia m. CAmmARATA, pp. 151-176).
49
W. CESARINI SFORZA, Il diritto dei privati, Sampaolesi, Roma 1929. Nel 1929, prima ancora
di vincere la cattedra, il giurista aveva intrapreso un corso di lezioni di Diritto corporativo
presso l’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Bologna, che diede
come frutto un testo inizialmente litografato (1931) e poi ampliato in ulteriori e fortunate
edizioni (ho sottomano la terza, aggiornata con la legislazione del 1934: ID., Corso di diritto
corporativo, Cedam, Padova 1934).
50
P. CALAmANDREI, Regole cavalleresche e processo (1929), ora in ID., Opere giuridiche, I, morano,
Napoli, 1965, riedizione Roma TrE-Press, Roma 2019, spec. pp. 238-242.
51
D. CAVALIERI, Il corporativismo nella storia del pensiero economico italiano: una rilettura critica, in
«Il pensiero economico italiano», II (1994), pp. 7-49 (letto nell’edizione separata online,
pp. 1-38, spec. p. 26: <https://mpra.ub.uni-muenchen.de/43839/1/mPRA_paper_
43839.pdf> consultato il 2 aprile 2020).
52
Per il comparto giuridico si pensi alla soppressione dell’Associazione generale fra i magistrati italiani (1925) e degli Ordini locali degli avvocati, sostituiti (sebbene con processo
graduale) dall’organizzazione dei sindacati sotto il controllo del regime (A. mENICONI,
Storia della magistratura italiana, Il mulino, Bologna 2012, spec. pp. 149-152, EAD., La «maschia avvocatura». Istituzioni e professione forense in epoca fascista [1922-1943], Il mulino, Bologna
41
I. BIROCCHI
tente nel far leva sui nuovi soggetti produttivi, nel darsi una organizzazione
che poteva addirittura assurgere a modello, nella capacità di rigenerare la
propria cultura, naturalmente di orientamento autarchico53; il tutto espresso
attraverso la forza dello Stato.
A corollario di questo programma, nel curriculum delle Facoltà di Giurisprudenza o nei corsi di laurea in Scienze politiche integrate si introdussero materie nuove. In primo luogo il Diritto corporativo che, trasversale
e spesso insegnato poco tecnicamente, era non di rado utilizzato per mettersi in vista o ottenere benemerenze o favori e tuttavia per la sua importanza attraeva molti giuristi di prima grandezza54. Inoltre si stabilì
l’insegnamento di Diritto coloniale, la cui produzione manualistica rilanciava impianti e temi sui quali già prima dell’avvento del regime si erano cimentati eminenti pubblicisti55, mentre, proprio alla fine degli anni Trenta,
2006, p. 125 ss. e F. TACCHI, Gli avvocati italiani dall’Unità alla Repubblica, Il mulino, Bologna
2002, p. 432 ss.).
53
Ancor valido il quadro di G.C. mARINO, L’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli
anni trenta, Editori Riuniti, Roma 1983; il concetto di Italia in cammino reso circolante da
un fortunato libro di Giacchino Volpe (ibid., p. 41) si attestò stabilmente nella cultura nazionale, rilanciato anche attraverso gli strumenti propagandistici dell’Istituto LUCE (ad
esempio, L’Italia fascista in cammino, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1932).
54
Lo insegnò anche Betti (come al solito, senza ricavarne niente); Del Vecchio nel 1936
ottenne un cospicuo finanziamento per la sua Rivista internazionale di filosofia del diritto adducendo che essa era anche un veicolo internazionale per diffondere la struttura corporativa ideata dal fascismo («illumina gli studiosi stranieri sui principi dello Stato corporativo
sorto dalla Rivoluzione fascista e sulla elaborazione della nuova legislazione nazionale»:
lettera al ministro, 13 gennaio 1936, in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 163, fasc. Del Vecchio
Giorgio). Il rilievo sulla non infrequente atecnicità dell’insegnamento è nel verbale contenente la delibera della Facoltà di Giurisprudenza di Roma (13 novembre 1933) di conferire
la cattedra di Diritto sindacale e corporativo ad Asquini, che era allora sottosegretario del
ministero delle Corporazioni («considerato che fra la folla di giuristi talvolta improvvisati
che nel fervore dei nuovi studi di diritto corporativo e sindacale si sono fatti innanzi con
preparazione non di rado inadeguata…»: ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione
Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 22, fasc. Asquini Alberto). Non se ne fece niente perché il giurista non accettò la proposta. La trasversalità
della materia derivava, oltre che dalle ovvie connessioni con l’economia, dalla sua posizione
all’incrocio tra impresa e lavoro e dalla dislocazione verso il diritto pubblico; le implicazioni
teoriche inoltre attiravano gli specialisti della filosofia e delle dottrine dello Stato. Una tale
convergenza interdisciplinare è ben rappresentata nel panorama tracciato da I. STOLZI,
L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia
fascista, Giuffrè, milano 2007. V. anche infra su nt. 63.
55
Innanzi tutto il celebre corso tenuto all’Istituto Alfieri di Firenze da Santi Romano ed
edito nel 1918 (su cui v. G. BASCHERINI, Ancora in tema di cultura giuridica e colonizzazione.
Prime note sul Corso di diritto coloniale di Santi Romano, in «Giornale di storia costituzio42
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
la solita Facoltà romana si distinse nell’incardinare in un apposito Istituto
con fondi autonomi la cattedra di quell’insegnamento. Ancora, comparvero
nei curricula la Storia e dottrina del fascismo (ambita e insegnata da giuristi
come Carlo Costamagna e Cesarini Sforza a Roma56 e assegnata, assolutamente controvoglia, a Salvatore Satta a Padova57), la Cultura militare (che
nale», XXV [2013], pp. 117-135). In quello stesso decennio sul diritto coloniale erano intervenuti pubblicisti del calibro di Enrico Catellani, Umberto Borsi e Arnaldo Bertola.
56
Costamagna, che, come si sa, era un magistrato e fu ininterrottamente deputato dal
1929 alla caduta della dittatura, insegnava per incarico ruotando su diverse materie di
stretto interesse per il regime (tenne anche il corso di Legislazione fascista): attingo le notizie da F. LANCHESTER, La tradizione giuspubblicistica a “La Sapienza” (2014), in appendice
(http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2015/02/F-LanchesterLa-tradizione-giuspubblicistica-a-la-Sapienza.pdf. [consultato il 12 marzo 2020]). Clamorosa la sua bocciatura al primo concorso bandito per una cattedra di Diritto corporativo
espletato a Pisa nel 1929-30 (ID., Momenti e figure nel diritto costituzionale in Italia e in Germania,
Giuffrè, milano 1994, spec. pp. 106-116 e ora, con documenti inediti, S. GENTILE, «La
scienza per la scienza e perisca il mondo»? Il coinvolgimento del duce nel primo concorso per la cattedra
di Diritto corporativo (Pisa, 1929-1930), in «Le carte e la storia», XXVI [2020], n. 1, pp. 126139). Cesarini Sforza fu ternato nel concorso catanese di Filosofia del diritto del 1929-30
(vincitore Volpicelli, in commissione Giovanni Gentile, Giorgio Del Vecchio e Giuseppe
maggiore), in un complesso gioco di alchimie accademiche e di regime (cfr. F. AmORE
BIANCO, Il cantiere di Bottai. La scuola corporativa pisana e la formazione della classe dirigente fascista,
Cantagalli, Siena 2012, pp. 105-109); dopo l’iniziale titolarità della cattedra di Filosofia del
diritto a Pisa, divenne titolare di quella di Diritto corporativo, nonché direttore della Scuola
corporativa; nel 1935 e di nuovo nel 1936 premette per il trasferimento alla Facoltà di
Scienze politiche romana sulla stessa cattedra o su quella di Storia e dottrina del fascismo,
asserendo, per quest’ultima (lettera al ministro, 6 luglio 1936), che si trattava di un insegnamento di grande importanza e presentando un articolato piano di trattazione della materia. Anche nel 1937 il preside pisano presentò ulteriormente le sue benemerenze, questa
volta derivanti da un corso (di 10 lezioni) di Diritto corporativo tenuto a Digione (notizie
ricavate da ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria,
Fascicoli professori universitari, III serie, b. 116, fasc. Cesarini Sforza Widar). È noto che, probabilmente grazie anche ai legami con il nuovo preside della Facoltà giuridica romana
nonché antico commilitone di partito e già professore a Bologna, Leicht, Cesarini Sforza
riuscì infine ad approdare nell’Università della capitale in sostituzione di Del Vecchio,
esautorato per le leggi razziali (gli subentrò nel 1938 come incaricato e dal 1939 come ordinario). L’impegno militante nel fascismo, quasi sempre sottaciuto dalla letteratura che
lo riguarda, e il ruolo importante nella costruzione dell’ideologia del regime sono opportunamente rimarcati da m.J. PELáEZ, El aristócrata Widar Cesarini Sforza (1886-1965), catedrático de las Facultades de Jurisprudencia de Pisa y de Roma, veneno fascista en el pensamiento jurídico
del siglo XX, septiembre 2008 (in http://www.eumed.net/rev/cccss/02/mjp.htm: consultato il 18 marzo 2020). V. anche la testimonianza di Elio Toaff, che da studente e in quanto
ebreo dovette subire gli insulti del cattedratico pisano, in F. PELINI, I. PAVAN, La doppia
epurazione. L’Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra, Il mulino, Bologna 2009,
pp. 102-103.
57
Ne ha ricostruito la storia C. mONTAGNANI, Insegnare il fascismo e difendere la libertà. L’espe43
I. BIROCCHI
arrivò addirittura ad essere obbligatorio e di durata biennale58) e la Demografia in rapporto alla razza, che era un insegnamento complementare,
spesso inserito dagli studenti nel curriculum, dedito ovviamente ad ammantare di veste scientifica la politica razziale59.
È vero che si trattava di materie per lo più di contorno rispetto al solido
e collaudato tronco degli insegnamenti giuridici, ma il fatto è che la loro
introduzione si integrava complessivamente in quella direttrice, che ho chiamato ideologica e che si sostanziava in un intreccio tra politica e diritto.
Rocco l’aveva teorizzata nelle sue grandi linee e ora il suo successore rilanciava il discorso per portarlo a un livello pratico-effettuale. Quello di de
Francisci era uno storicismo forte e radicale, che spingeva innanzi al giurista
la realtà nuova, anzi ‘rivoluzionaria’, del regime fascista. Ne chiedeva l’impegno e il contributo e fu tutt’altro che flatus vocis.
Se già è significativo riscontrare la non sporadica (e poco onorevole)
pedissequa ripresa di alcune parole d’ordine lanciate dal manifesto di de Francisci in prolusioni e saggi degli anni successivi, anche da parte di giuristi di
buon nome, ne è una testimonianza eloquente l’impressionante lavorio,
rienza di Salvatore Satta, Editoriale scientifica, Napoli 2015.
58
Cfr. AmBROSOLI, Alcuni appunti, cit. nt. 7, p. 170. A Roma l’insegnamento era affidato a
Paolo Ceci, che aveva una formazione giuridica e che, se non sembra brillare per la produzione scientifica, era però deputato ininterrottamente dal 1929. Per la bisogna produsse
comunque un manuale: P. CECI, Lineamenti di cultura militare, Edizioni universitarie, Roma
1939.
59
In quella vera fucina di pensiero e di azione che, in rapporto al regime, era negli anni
Trenta la Facoltà di Giurisprudenza romana operava Corrado Gini, figura di demografosociologo-economista di grande prestigio anche tra colleghi titolatissimi, sia per la sua formazione giuridica, sia per la fama internazionale (ricevette una laurea ad honorem presso
l’Università di Harvard nel 1936 al termine di un corso di lezioni), sia per i rapporti politico-istituzionali intrapresi dalla Grande guerra in poi (fu chiamato il 28 gennaio 1929, allorché rivestiva la carica di presidente dell’Istat): notizie in ACS, Ministero della Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Istruzione Superiore, Fascicoli personali professori ordinari, III versam.
1940-1970, b. 232, fasc. Gini Corrado. Il grande statistico firmò il manifesto degli intellettuali fascisti e mussolini lo chiamò a far parte della commissione dei ‘Soloni’, ma non
stupisce che sia controverso il suo rapporto col regime: come al solito si tende a sottolineare il profilo tecnico della sua attività, che egli stesso fece valere vittoriosamente in sede
di appello nel procedimento di epurazione. Qui interessa sottolineare la somiglianza della
sua esperienza intellettuale – ovviamente all’interno delle varie specializzazioni – con quella
dei suoi colleghi giuristi (v. infra, §§ 7-8). Come è stato riconosciuto, con le sue teorie neoorganiciste e gli studi di eugenetica, Gini appare esponente di quell’élite strategica che cooperò col regime indicando alla politica ‘le leggi’ dello sviluppo sociale e proponendo «un
modello di società organica, priva di conflitti, nella quale l’individuo subordina i propri
interessi a quelli dell’aggregato nazional-razziale incorporato nello Stato» (così F. CASSATA,
Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Carocci, Roma 2006, p. 15).
44
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
certo anche di mediocre fattura, che si sviluppò sulle architetture del diritto
pubblico. Si pensi alla rimeditazione del sistema delle fonti che toccava un
perno come la Carta del lavoro e le ramificazioni dell’ordine60; o alla questione
dell’unità Stato-partito, al dibattito sulla posizione istituzionale del PNF e
alla definizione di ‘regime’, cui prese parte una moltitudine di giuristi, anche
grandi61. Oppure si consideri il settore, vastissimo nelle implicazioni, del
diritto corporativo, che ebbe trattazioni imponenti non solo nei nuovi strumenti dedicati – riviste, collane, congressi, oltre che ovviamente corsi di
lezioni62 – ma anche nelle sedi tradizionali della scienza giuridica ‘ufficiale’,
tanto che diventò un tema ricorrente presso i commercialisti che salirono
alla ribalta negli anni Trenta (i De Gregorio, Finzi, Valeri, Greco, Ascarelli,
oltre ai corporativisti precedentemente arruolati come Asquini e mossa) e
si ritrova a permeare prolusioni, discorsi sul metodo, saggi e recensioni
della Rivista del diritto commerciale e, a rimorchio, quelle meno nobili ma vivacissime nate sul terreno lavoristico verso la fine degli anni Venti. Anzi, più
che un tema il corporativismo diventò la pelle entro cui molti giuristi operavano; ed erano poi gli homines novi che nelle pagine della rivista andavano
prendendo il posto dei due antichi fondatori e che in quel circuito tematico
colloquiavano con gli altri specialisti63. Al rapporto tra il codice civile appena entrato in vigore e l’ordinamento corporativo Pugliatti dedicò un punTra la vasta riflessione, agli inizi degli anni Trenta, G. CHIARELLI, Il diritto corporativo e le
sue fonti, La Nuova Italia, Perugia-Venezia 1930 e D. DONATI, L’efficacia costituzionale della
Carta del lavoro, in «Archivio di Studi Corporativi», II (1931), fasc. 2, pp. 163-191.
61
Basti il rinvio a m. GREGORIO, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politico in Italia
tra Otto e Novecento, Giuffrè, milano 2013, p. 157 ss.
62
In particolare si allude alla pubblicistica che ebbe il suo centro nella Scuola di scienze
corporative dell’Università di Pisa, ove è tra l’altro da segnalare la convergenza di studiosi
di discipline diverse: ad esempio, mossa e Guido Zanobini, Giuseppe Bottai e Donato
Donati, Guido Sensini e Giovanni miele.
63
Tutt’altro che orpello facilmente eliminabile con la cancellazione dei riferimenti contenuti nella legislazione vigente – come semplicisticamente accreditò poi la voce di maggioranza della scienza giuridica – il diritto corporativo attrasse in uno sforzo sistematico
non solo i fedelissimi del regime, come Costamagna, e studiosi d’assalto politicamente
entusiasti, ma giuristi posati e strutturalmente robusti quali Cesarini Sforza (v. supra, nt.
49) e Zanobini. Il manuale di quest’ultimo, nato agli inizi del decennio nel fertile ambiente
pisano nella forma di dispense dattiloscritte, ebbe poi numerose edizioni (qui si è consultata la quinta, al termine degli anni Trenta: G. ZANOBINI, Corso di diritto corporativo, Giuffrè,
milano 1940). Nella squadratissima trattazione il giurista tra l’altro dedicava un capitolo ai
rapporti tra il diritto corporativo e gli altri rami del giure (pp. 53-63), un altro al metodo
per l’esposizione della materia (pp. 79-84) e, anche attraverso la considerazione comparatistica, metteva in evidenza «la soluzione fascista» del problema della unificazione della
società nello Stato (pp. 27-29).
60
45
I. BIROCCHI
tualissimo saggio che, grazie alla nota acribia logica e alle capacità sistematiche del civilista siciliano, scopriva i più reconditi (e problematici) collegamenti tra le norme codicistiche e quell’ordinamento, considerato come
fonte innervatrice dei rapporti regolati dal codice64. Si trattava ormai non
di norme sporadiche, bensì
di un sistema unitario di organi ed istituti […] dato che l’ordinamento
corporativo si è collocato al centro del nostro diritto positivo, e in ogni
direzione si ramifica e fa sentire la sua influenza fino ai più lontani limiti;
e dato che la riformata legislazione generale ha condotto, dopo la corporativizzazione dello Stato, anche alla corporativizzazione dell’ordinamento
giuridico65.
Parole chiarissime e forse conclusive per l’autorevolezza del giurista e
per la data e la sede prestigiosa nella quale venivano espresse. ma non è
meno significativa l’attività che a noi oggi appare sottotraccia e cioè l’insieme delle conferenze, dei seminari, dei corsi (spesso all’estero) che servivano ora a sistemare, ora a divulgare, ora a propagandare le nuove
costruzioni del diritto fascista; come pure gli interventi, magari di poche
pagine, sulle riviste in merito ai progetti in discussione. In tutti questi casi
si ragionava su un diritto in divenire e si usciva dal recinto chiuso della lezione scolastica o della monografia accademica. In qualche modo il giurista
si faceva politico, come assennatamente riconosceva Calamandrei nel 1941,
riflettendo sulla propria posizione di legislatore66; e può ben dirsi che la sua
voce circolasse nella polis, rilanciando o definendo o sistemando i temi all’ordine del giorno. Non in minima parte la integrazione delle Facoltà di
Giurisprudenza entro il regime quasi paradossalmente risiedette in un lavorio portato all’esterno: non tanto è da cercare nella elaborazione di grandi
sistemi che si sostituissero a quelli concepiti nel giolittismo, ma molto più
in una attività minuta, poco appariscente e però costante, tesa a proiettare
nella società civile, in forme giuridicamente articolate, le direttrici diventate
norma tra il 1925-30. Valga per tutti l’esempio di Emilio Betti, fascista convinto sin dai primi anni Venti, ma preso dalla missione del gregario del duce
S. PUGLIATTI, L’ordinamento corporativo e il codice civile, in «Rivista del diritto commerciale
e del diritto generale delle obbligazioni», XL (1942), pt. I, p. 374 (complessivamente pp.
358-375).
65
Ibid., p. 375.
66
Rinvio a mELIS, La macchina imperfetta, cit. nt. 9, pp. 298-299, che riporta il passo del giurista fiorentino.
64
46
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
solo nel corso degli anni Trenta: ebbene, a parte le dediche o certe premesse
introduttive che si rinvengono nelle grosse opere da allora pubblicate nei
diversi campi del diritto, non si ritrovano i segni di una ‘ideologia fascista’
sistematicamente adoperata. ma il Betti che combatté per tutto il decennio
contro il codice italo-francese delle obbligazioni contrastando anche l’iniziale tentativo del guardasigilli Solmi di rispolverarlo, che dedicò un tempo
vasto (lasciando anche per un intero anno la didattica a milano) ai corsi o
conferenze in Germania e Austria, che ne scrisse i resoconti indirizzati al
ministro Bottai e all’opinione pubblica per implementare lo spirito del fascismo nell’insegnamento, che si impegnò con Vassalli nella codificazione
civile, che disse la sua nel dibattito pisano sui principi generali, che non disdegnò di scrivere su riviste minori o, a conclusione della parabola, sul Corriere della sera, era certo parte attiva e influente entro il processo67.
La dimensione di questo impegno complessivo non fu omogenea ma
nel complesso esso sicuramente contribuì a consolidare l’immagine del regime, la sua forza, il suo seguito. Non è raro – e però non è il caso di Betti
– riscontrare nei documenti l’indicazione sicura che un tale lavorio fu sfruttato per far carriera secondo un desolante rapporto do ut des col regime o,
se si preferisce, come riconoscimento grazioso di una ‘naturale’ relazione
di fedeltà instaurata con il potere.
Inevitabilmente nello Stato totalitario il conformismo assumeva i connotati della cultura fascista.
4. Le misure di irreggimentazione
Per quanto riguarda le misure di irreggimentazione viene in considerazione innanzi tutto il potere di nomina dall’alto dei rettori e presidi. L’ordine
era concepito gerarchicamente sicché i preposti non erano più considerati
come primi inter pares, espressione della volontà della comunità di appartenenza, bensì come autorità sovraordinate. Il modo in cui interpretò il proprio ruolo Del Vecchio, fascista sin dai tempi bolognesi e dunque
antemarcia e rettore dell’Università di Roma tra il 1925 e il 1927, è significativo: se già è esplicita la sua affermazione di operare per «trasfondere
nell’ambiente universitario lo spirito del fascismo» e di aver già ottenuto
Da ultimo m. BRUTTI, La dissoluzione dell’Europa”: ideologia e ricerca teorica in Betti (!9431955), in Dall’esegesi giuridica alla teoria dell’interpretazione: Emilio Betti (1890-1968), a cura di
A. Banfi, m. Brutti, E. Stolfi, Roma TrE-Press, Roma 2020, pp. 44-45.
67
47
I. BIROCCHI
«risultati assai soddisfacenti»68, soprattutto importa sottolineare che impostò l’esercizio della carica come finalizzato a sradicare l’abito di autonomia
dei docenti e a imporre il disciplinamento69.
Proprio per l’importanza dei ruoli chiave nella scala gerarchica dell’Università, nel 1930 il Gran Consiglio stabilì che i rettori e i presidi di Facoltà
dovessero essere scelti di preferenza tra i professori fascisti con cinque anni
di anzianità di tessera70. E la scelta dei personaggi che furono immessi negli
anni Trenta nei ruoli di direzione delle Università e Facoltà giuridiche – Petrocelli71, Rocco, de Francisci, Gino Arias (che nel 1930 successe quale preside a Firenze a un altro fascista convinto, Giovanni Brunetti), lo stesso
Del Vecchio come preside, Pier Silverio Leicht, Silvio Pivano, Pietro Vaccari, manlio Udina, Giuseppe maggiore, Widar Cesarini Sforza, Carlo Alberto Biggini, Arnaldo Bruschettini, mattia moresco, Umberto Navarrini,
Giacomo Acerbo72 – sembra proprio che rispondesse non solo al criterio
formale dell’anzianità di tessera, ma a quello sostanziale di affidabilità per
il regime.
Il provvedimento più appariscente di disciplinamento fu l’imposizione
V. la lettera riservata di Del Vecchio al ministro della Pubblica istruzione Fedele, 12
aprile 1926, pubblicata in Filosofi Università Regime, cit. nt. 2, p. 143.
69
Nel 1926 Del Vecchio aveva preteso di imporre a tutti i professori la presenza alla cerimonia di riapertura al culto della chiesa di S. Ivo; diversi docenti, di ascendenza israelitica
come peraltro lo stesso rettore, si assentarono senza presentare una giustificazione, mentre
Giorgio Levi della Vida addirittura scrisse al rettore di non voler essere presente. Fu considerato un crimen laesae maiestatis: nel filo diretto intrattenuto col duce il rettore comunicò
che «nel caso presente, trattandosi di rapporto gerarchico tra inferiore e superiore, io non
avrei potuto, senza mancare a un mio preciso dovere, lasciar passare senza sanzione un
così palese disconoscimento della autorità rettorale». Non era del resto una autorità fine
a se stessa: come concludeva la relazione trasmessa a mussolini, essa era dedicata al
«trionfo dell’idea e della disciplina fascista nell’Università della Capitale» (la lettera di Del
Vecchio a mussolini, 26 agosto 1926, è pubblicata ibid., pp. 146-149: citaz. a pp. 147 e
149). A contrario si può portare l’esempio di Giorgio Errera, che nel 1923 rifiutò la nomina
a rettore di Pavia, perché lo svolgimento del relativo incarico, alle dipendenze del ministro,
lo avrebbe messo in conflitto con la sua coscienza liberale: «ora nell’attuale ordinamento
universitario il Rettore è una emanazione diretta del ministro e se vuole agire onestamente
ed efficacemente non può dividerne del tutto le idee» (E. SIGNORI, Minerva a Pavia. L’ateneo
e la città tra guerre e fascismo, Cisalpino, milano 2002, p. 121). Lo scienziato pavese sarà uno
dei pochi professori che rifiutarono il giuramento nel 1931.
70
ACS, Segreteria particolare del duce (1922-1945), Carteggio riservato, b. 30, fasc. Gran Consiglio,
sottofasc. 8, inserto A, 1930.
71
Cfr. DODARO, Giuliano Vassalli penalista partigiano, cit. nt. 7, pp. 143, 148 e passim.
72
Questi due ultimi, giuristi di fama, operarono però nella Facoltà di Economia e commercio romana (già Istituto superiore di scienze economiche e commerciali).
68
48
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
del giuramento di fedeltà al fascismo (art. 18 del r.d.l. 28 agosto 1931 n.
1227): riguardava non solo l’impegno ad essere fedele al regime, ma anche
a «esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici
col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al
Regime Fascista». La promessa solenne non concerneva dunque solo la
fedeltà personale, ma si estendeva alla missione educativa: formare giovani
fascisti.
Si è detto che fu la misura più appariscente: non significa che ebbe solo
una valenza esteriore o, addirittura, che fosse priva di significato perché paradossalmente neutralizzata dal grandissimo numero dei professori che si
sottomisero e che non poteva non suscitare dubbi sul sentimento di convinzione. Certamente tra i giuristi gli antifascisti erano molti di più dei tre
– Francesco Ruffini, Edoardo Ruffini Avondo, padre e figlio73, e Fabio Luzzatto74 – che ebbero il coraggio di dire no al regime, ma l’esercizio del nicodemismo, doloroso e comprensibilissimo, non toglie che la prova di forza
ci fu e fu vinta dal fascismo: per l’immagine trionfante che ne scaturiva e,
nei confronti dei nicodemisti, per l’avvilimento da cattiva coscienza – in
fin dei conti il contenuto del giuramento era la negazione della professione
di scienza – che ne derivava per i professori antifascisti. Il corpo accademico
e, per quanto qui interessa, il mondo del diritto accettava la sottomissione
e, di conseguenza, che si potesse essere esautorati dal ruolo «per incompatibilità con le generali direttive politiche del governo»75. Se organizzazione
ci fu, per l’occasione, da parte dei professori contrari al regime (e in effetti
si hanno notizie di contatti per sostenersi a vicenda, se non proprio per
concertare una decisione), essa si risolse semplicemente nell’accordarsi per
prestare il giuramento e non si trattò ovviamente di una manifestazione
antifascista. Ci furono anche prove dignitose di non accettazione, ma si
trattò di comportamenti individuali e silenziosi, per lo più sconosciuti al73
Specificamente per il ‘no’ dei due giuristi A. FRANGIONI, Francesco Ruffini. Una biografia
intellettuale, Il mulino, Bologna 2017, pp. 448-455. Quello del grande ecclesiasticista ebbe
anche un’eco internazionale – se ne interessò Einstein – sia per la notorietà dello studioso,
sia per il pregresso impegno negli organismi della Società delle nazioni.
74
Gli fu tolta perciò la cattedra di Diritto agrario presso la Scuola superiore di agricoltura
a milano (nel 1938 gli sarà anche revocata la libera docenza in quanto ebreo; ‘disciolta’ la
massoneria nel 1925, aveva comunque mantenuto legami con gli adepti). Su di lui G. BOATTI, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino
2010, pp. 287-304.
75
Così si legge nel provvedimento di dispensa dal servizio firmato dal ministro (29 dicembre 1931) nei confronti di Ernesto Buonaiuti, il professore di Storia del cristianesimo
della Sapienza che rifiutò il giuramento (il documento è pubblicato in Filosofi Università Regime, cit. nt. 2, p. 135).
49
I. BIROCCHI
l’esterno e senza contrapposizione e dunque solo elusivi dell’imposizione.
È il caso di mario Rotondi che chiese ed ottenne il trasferimento all’Università cattolica, i cui professori erano esentati dalla prestazione del giuramento76. E c’è poi l’esempio di Orlando che, per il particolare prestigio –
era il giurista e l’uomo di governo della vittoria del 1918 –, ebbe una considerazione speciale dal regime, il quale voleva evitare a tutti i costi che il
vecchio maestro della Sapienza manifestasse il suo rifiuto e magari coagulasse qualche adesione; ci fu in effetti una sorta di trattativa, nel corso della
quale al prestigioso pubblicista siciliano fu offerta l’esenzione dal giuramento ma, poiché Orlando chiese di estendere il ventilato privilegio a tutti
i colleghi che volessero rifiutare l’atto di sottomissione e che di questo si
desse adeguata pubblicità, non se ne fece niente e il grande cattedratico,
per non giurare, preferì essere messo a riposo77.
misura apparentemente formale, l’imposizione del giuramento diede
potente impulso alla fascistizzazione dell’Università e non vale rilevare i diversi gradi di convinzione o le riserve mentali con cui essa fu accettata78.
Se non si parte dall’idea che la sfera del diritto sia appannaggio di una casta
socialmente isolata, di certo l’immagine che complessivamente ne derivò
fu deprimente per i condannati dal Tribunale speciale, i confinati, i fuorusciti e quanti lottavano in clandestinità79; fu invece galvanizzatrice per gli
entusiasti e i fiancheggiatori del regime, tra l’altro ben felici dei sentimenti
di scoramento necessariamente alberganti tra i colleghi che a malavoglia si
erano piegati al giuramento. Rispetto alla profonda divisione che solo sei
anni prima aveva espresso il mondo degli intellettuali con la contrapposizione dei due manifesti, ora il fascismo ricavava una adesione sostanzialmente compatta che poté essere sfruttata per far avanzare il processo
totalitario.
Ne fu un ulteriore strumento la tessera del partito, a sua volta requisito
Come lui non giurò nemmeno il collega della Cattolica Francesco Rovelli (cfr. la voce
di A. TRAVI, in DBGI, II, p. 1749).
77
Lo racconta G. CAPOGRASSI, Il problema di V.E. Orlando (1952-53), ora in ID., Opere, V,
Giuffrè, milano 1959, p. 373.
78
Rispetto alla tradizione civilistica, una pagina innovatrice sul significato del giuramento
ha scritto vent’anni fa G. ALPA, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Laterza,
Roma-Bari 2000, pp. 263-264, prodromo del resto di una revisione delle tesi sul rapporto
tra la civilistica e il fascismo (pp. 263-303), che sarà messa a frutto dalle indagini più specifiche di Rondinone e Somma (v. infra).
79
Lo riconobbe onestamente A.C. JEmOLO, Anni di prova (1969), Passigli, Firenze 1991,
pp. 163 e 166. Per quanto detto nel testo cfr. SOmmA, I giuristi e l’asse culturale, cit. nt. 17,
pp. 29-30.
76
50
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
di fidelizzazione e di omogeneità, ovvero di smantellamento delle contrapposte caratteristiche dello statuto liberale sulla cui base in passato si era
svolta l’attività della scienza giuridica. Come si sa, sul finire degli anni Venti
Augusto Turati aveva lanciato una campagna di verifiche degli iscritti del
PNF, per eliminare, si diceva, i profittatori e gli arrivisti. Con il segretariato
di Starace si invertì la rotta verso l’espansione dei tesserati80: il partito diventava di massa e dunque si annacquava, votandosi senza mediazioni al
duce e occupando le posizioni nel corpo dello Stato. In effetti in coincidenza con il decennale della marcia su Roma si registrò un’ondata di iscrizioni anche tra i giuristi: sia tra quanti erano da tempo convinti sostenitori
del fascismo, ma in precedenza non avevano sentito il bisogno di prendere
la tessera – è il caso di Emilio Betti –, sia tra quanti, magari tiepidi o non
militanti, non intendevano essere posposti ai colleghi (iscritti) nella considerazione e negli incarichi proposti dal regime – è il caso di Filippo Vassalli81 –. Fu un processo strisciante e mai del tutto completato, dal momento
che i professori già in ruolo non ebbero mai l’obbligo di tessera, ma certamente avanzò notevolmente a partire dal 193382 e più ancora dopo il 1935,
allorché nella sede solenne del Gran Consiglio Starace ribadì l’obbligo dell’iscrizione al PNF per i nuovi concorsi banditi dallo Stato e dagli enti parastatali83. Giustamente si parla di «una realtà sommersa fatta di angherie
esercitate per via amministrativa», in capo alla quale stava appunto il tesseramento al partito84.
Di fatto dunque si affermò un doppio regime tra i professori o gli aspiranti tali: quelli senza tessera, muniti, per così dire, solo di capacità giuridica,
e quelli iscritti al PNF, dotati di piena capacità d’agire. In mancanza di tessera, infatti, si partiva svantaggiati persino nelle semplici prove (aperte) per
il conseguimento della libera docenza85; e i professori ordinari non iscritti
DE FELICE, Mussolini il duce. I, cit. nt. 31, p. 224.
Ci sono anche esempi di giuristi autorevolissimi che, ovviamente già in cattedra e a
Roma, non presero mai la tessera: è il caso di Luigi Rossi, il maestro di mortati che, dopo
il lungo impegno politico e ministeriale (governi Nitti, Giolitti e Facta), si dedicò essenzialmente all’insegnamento, collaborando tra gli altri con Sergio Panunzio, Bottai, maraviglia all’Istituto di Diritto pubblico e legislazione sociale della Facoltà di Scienze politiche
(cfr. la relativa voce di F. LANCHESTER, in DBGI, II, spec. p. 1740; v. anche infra, § 8).
82
DE FELICE, Mussolini il duce. I, cit. nt. 31, p. 244 nt. 3.
83
V. la citata relazione di Starace in ACS, Segreteria particolare del duce (1922-1945), Carteggio
riservato, b. 31, fasc. Gran Consiglio, sottofasc. 13, ins. A, 1935, p. 45.
84
BELARDELLI, Il ventennio degli intellettuali, cit. nt. 25, p. 37.
85
In relazione alla domanda di ammissione all’esame di libera docenza presentata da Sal80
81
51
I. BIROCCHI
erano solitamente esclusi (o preventivamente messi in minoranza) dalla
partecipazione alle commissioni concorsuali (la cui nomina, in base allo
stesso decreto che nel 1931 aveva imposto il giuramento, era di pertinenza
del ministro86); i non tesserati avevano inoltre difficoltà ad ottenere il passaporto (e dunque a poter compiere missioni o partecipazione a convegni
all’estero) e, come si vedrà meglio tra breve, erano discriminati per l’ottenimento di incarichi o il trasferimento in sedi più ambite87. In mancanza di
iscrizione si era dunque menomati o almeno tutto si complicava. Impensabile, negli anni Trenta, una vittoria concorsuale del penalista antifascista
Paolo Rossi, futuro presidente della Corte Costituzionale, che nel 1932
aveva pubblicato un volume critico sulla pena di morte reintrodotta nell’ordinamento dal fascismo e che aveva poi edito – ma il volume era stato
immediatamente bandito dalla circolazione – un libro su Scetticismo e dogmatica nel diritto penale (1937)88. E si spiega: nell’ideologia del totalitarismo solo
la condivisione dei fini educativi e del programma del fascismo, simboleggiata dal giuramento e ribadita dal possesso della tessera, rendeva interamente capaci di partecipare da protagonisti alla vita della sezione sociale di
propria pertinenza. È la situazione candidamente tratteggiata da Del Vecchio nel 1945, allorché, dopo aver riconosciuto «gli errori politici dei capi»
del fascismo, prospettava le due soluzioni che astrattamente si presentavano, l’uscita dal partito o il lavorarci dentro per correggerlo. E scriveva:
vatore Satta il 24 maggio 1932, il ministero dell’Educazione nazionale incredibilmente interpellò il prefetto di milano, ove aveva recapito il giovane incaricato dell’Università di
Camerino. Il prefetto attestò che lo studioso sardo non aveva precedenti sfavorevoli e che
dal canto suo non aveva elementi per «esprimere un parere sull’opportunità o meno di
ammettere il Dr. Satta a conseguire l’abilitazione alla libera docenza in diritto processuale
civile» (ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Superiore, Liberi
docenti, 1930-1950, b. 445, fasc. Satta Salvatore). Lo studioso sardo conseguì la libera docenza nel gennaio 1933 (v. anche infra, in questo stesso paragrafo).
86
V. oltre nel prossimo paragrafo.
87
Persino Ruffini, senatore del regno, ex ministro, prestigioso membro di accademie e organismi internazionali, dovette temere di perdere il passaporto (FRANGIONI, Francesco Ruffini, cit. nt. 73, p. 351). E pur essendo certo il più autorevole ecclesiasticista in Italia fu
tenuto al di fuori della commissione nominata dal suo ex allievo Alfredo Rocco per la riforma delle leggi ecclesiastiche (1925): ratione fidelitatis il guardasigilli preferì investire Arrigo
Solmi, Francesco Ercole, Carlo Calisse e Amedeo Giannini (ibid., p. 316).
88
Rossi si presentò al concorso penalistico svolto a Sassari nel 1942, vinto da Giuliano
Vassalli; non fu ternato (in commissione sedevano De marsico e Petrocelli). Su suo ricorso,
nel dopoguerra la prova concorsuale fu reiterata due volte e infine (incredibilmente tra i
commissari c’era ancora il penalista di regime Petrocelli) ottenne di essere dichiarato idoneo. Sulla vicenda e sulla figura del giurista v. S. VINCIGUERRA, in DBGI, II, p. 1741; dettagli sui tre concorsi (1942-49) in mONTRONI, La continuità necessaria, cit. nt. 6, pp. 93-97.
52
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
La prima soluzione era però oltremodo difficile, e praticamente quasi impossibile, anche perché sarebbe stata interpretata e forse punita come una
specie di diserzione; né avrebbe avuto, comunque, altro effetto che quello
di far cessare immediatamente qualsiasi attività di carattere pubblico, almeno per chi non avesse potuto e voluto prendere la via dell’esilio89.
Non tutti presero la tessera, ma certo verso la fine degli anni Trenta era
assai difficile resistere per gli antichi liberali in cattedra90.
5. La fedeltà premiata
Se con questi strumenti il regime creò nelle Università le condizioni per
un’ampia azione di fidelizzazione, il sistema divenne ancor più coeso attraverso i poteri discrezionali attribuiti al ministero e, come ovvio, da questo
esercitati senza alcun controllo.
Entrano in considerazione la legislazione del 1931 e quella del 1935.
Infatti, quello stesso provvedimento che imponeva il giuramento conteneva
89
DEL VECCHIO, Una nuova persecuzione, cit. nt. 8, p. 17. Non sembra che il filosofo del diritto esagerasse: nella cultura del totalitarismo e ancor più nei militanti come lui, il legame
con il partito esprimeva una unione mistica, la scissione unilaterale era considerata «diserzione», le conseguenze si prospettavano tremende o molto dolorose (a riprova si potrebbe
ricordare la vicenda di Ugo Spirito).
90
È il caso di Adolfo Omodeo e di Guido De Ruggiero, il quale confessava a Calamandrei
che stava per crollare (con precisa indicazione delle pressioni subite da parte del rettore
de Francisci: P. CALAmANDREI, Diario. I. 1939-1941, Edizioni di storia e letteratura, Roma
2015, 27 gennaio 1940, p. 148). E si ha notizia che lo stesso Calamandrei tra il 1942 e il
1943 fu sottoposto a duri attacchi come antifascista. Nella prima occasione fu additato a
pubblico disprezzo insieme ad altri intellettuali «bigi» (Giorgio La Pira, Enrico Finzi, Stanislao Cugia, Francesco Calasso e gli avvocati Adone Zoli, futuro leader democristiano, e
Arrigo Paganelli) accusati di opporsi al partito. Nella seconda (aprile-giugno 1943) dovette
subire una inchiesta ordinata dal ministro Biggini e nell’autodifesa (5 giugno 1943) il giurista fiorentino rivendicò coraggiosamente il suo dissenso rispetto alla politica totalitaria
del PNF («Fino a che fu lecita in Italia la pluralità dei partiti [parlo di quasi vent’anni fa]
io, che mai prima della Grande Guerra mi ero occupato di politica, manifestai francamente
il mio dissenso, che era soprattutto un dissenso sui metodi, suggerito dalla mia mentalità
di studioso che non vede possibilità di scienza ove non sia libertà di opinione e di critica,
suscitatrice di energie») aggiungendo di non aver mai voluto seguire l’onda delle adesioni
opportunistiche che negli ultimi anni si erano moltiplicate (traggo le notizie da ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Superiore, Fascicoli professori universitari, III versam., b. 88, fasc. Calamandrei Pietro; riferimenti all’episodio del 1942, con gli
stessi nomi dei compagni «bigi» e con qualche commento, in P. CALAmANDREI, Diario. II.
1942-1945, a cura di G. Agosti, La Nuova Italia, Scandicci 1997, 9 gennaio 1942, p. 43).
53
I. BIROCCHI
tra l’altro una disposizione sulla composizione delle commissioni concorsuali, che prevedeva la formazione di rose di candidati-commissari attraverso votazioni della Facoltà che chiedeva il concorso (tre nominativi), di
tutte le altre Facoltà italiane (sei nominativi) e del Consiglio superiore dell’Educazione nazionale (sei nominativi), lasciando poi al ministero la nomina dei cinque commissari scegliendone rispettivamente uno, due e due
dalle tre categorie precedentemente formate91. Era un meccanismo che accordava di fatto totale potere al ministero e dunque al regime: il voto della
Facoltà infatti era normalmente orientato dal preside (che, si sa, era di nomina governativa), quello dell’organo consultivo non poteva certo designare professori sgraditi e tra i sei eletti dal complesso delle Facoltà ben
poteva il ministro scegliere i due membri restanti sicuro di trovare figure
‘adatte’. Come si riscontra dai fascicoli concorsuali i 15 nominativi che arrivavano all’attenzione del ministro erano accompagnati da una di queste
tre etichette: fascista, non fascista, firmatario (del manifesto Croce)92. ma
non basta: il processo di irreggimentazione era più a monte, coincidendo
col momento stesso in cui si avviava l’itinerario per la messa a concorso di
una cattedra in una certa disciplina, che in fin dei conti si perfezionava solo
con l’assenso del ministro. Se a ciò si aggiunge che, ancora in base al decreto
del 1931, il governo poteva non consentire i trasferimenti di cattedre decisi
dalle Facoltà (con la vaga espressione contenuta nell’art. 19: «nell’interesse
degli studi»), si ha l’immagine di quanto penetrante fosse il potere del regime nel reclutamento e nella promozione dei professori.
La normativa generale del r.d.l. 20 giugno 1935 n. 1071 rivide il sistema
nell’ottica di quella «bonifica fascista della cultura» che, come è stata ufficialmente definita, stabiliva in via definitiva uno spostamento dei concetti
fondamentali su cui si reggeva l’Università:
Rispetto alla precedente disciplina (r.d.l. 13 gennaio 1927 n. 38), vi era una inversione
tra il numero degli eletti della Facoltà e quello dei designati dall’organo consultivo, che era
presieduto dal ministro e i cui membri erano espressioni dell’alta gerarchia del regime o
nominati dal re su sua proposta (A. mORELLI, Istruzione superiore, in Nuovo Digesto Italiano,
VII, Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1938, p. 390): la modifica dava ulteriori
poteri di controllo al ministro.
92
Nella formazione della commissione per il concorso messinese di Procedura civile vinto
da Satta nel novembre 1933, Carnelutti (qualificato ‘non fascista’), Calamandrei e Chiovenda (entrambi giustamente classificati ‘firmatari’) furono esclusi dal ministro, nonostante
che Chiovenda fosse il primo dei votati delle Facoltà, con 181 suffragi (ACS, Ministero della
Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Superiore, Divis. I, pos. 21, Concorsi a cattedra
univers., 1924-1954, b. 67). I candidati al concorso pensarono bene di allegare anche la tessera del PNF: l’iscrizione di Satta al partito è datata 15 maggio 1933 (ivi).
91
54
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
autonomia, libertà vengono sostituite, nelle funzioni cardinali, da autorità, unità. L’azione centrale ed unitaria dello Stato viene applicata in
pieno, sul postulato che la scelta deve sempre cadere dall’alto […]. Nulla
che rimanesse fuori dello Stato93.
Per usare le parole del ministro dell’Educazione nazionale, il quadrumviro Cesare maria De Vecchi di Val Cismon,
Tutte le disunioni, tutte le dispersioni, tutti gli autonomismi, tutto ciò
che tende a svellersi, a slegarsi dalla funzione unitaria dello Stato non
adeguandosi al clima spirituale della Nazione rinnovata deve aver termine94.
Così la centralità del ministro, combinandosi con la discrezionalità,
diventava potere assoluto95. Erano sue prerogative stabilire a quale insegnamento attribuire un nuovo posto e se per trasferimento o per concorso
(art. 5); nominare le commissioni concorsuali; disporre di propria iniziativa il trasferimento «nell’interesse dell’educazione nazionale e degli studi»
(art. 5); ammettere, a suo insindacabile giudizio, all’esame sulla libera docenza (cioè all’ingresso nell’insegnamento) anche chi non possedesse i reG. SANGIORGIO, Dalla riforma del 1923 alla Carta della Scuola. II. Dal 1924 ad oggi, in «Annali
della Università d’Italia», I (1939), n. 2, p. 218. Al ministro risale l’illustrazione del programma, ex post: C.m. DE VECCHI DI VAL CISmON, Bonifica fascista della cultura, mondadori,
milano 1937 (sarà un titolo fortunato).
94
Le parole del ministro si leggono in SANGIORGIO, Dalla riforma del 1923 alla Carta della
Scuola, cit. nt. 93, p. 218. Come affermava mORELLI, Istruzione superiore, cit. nt. 91, p. 388,
il riassetto operato nel 1935 rispondeva ai principi guida del regime: «unità di comando,
gerarchia, disciplina».
95
È noto lo scontro, avvenuto nel 1939, tra il ministro Bottai e Betti, che si lamentava di
non essere mai nominato quale commissario, pur essendo professore autorevole nella disciplina romanistica e studioso di provata fede fascista: il ministro ingiunse il silenzio al
professore dell’Università di milano, ricordandogli con tono aspro che la composizione
delle commissioni concorsuali era di competenza esclusiva del ministro (la lettera di Betti,
16 luglio 1939, e la risposta del ministro, 2 agosto 1939, sono pubblicate in E. mURA,
Emilio Betti, oltre lo specchio della memoria, in E. BETTI, Notazioni autobiografiche [1953], a cura
di E. mura, Cedam, s.l. 2014, pp. LXXI-LXXIII). Lo stesso atteggiamento di principio
Bottai affermò alla fine del 1936 in occasione di una sommessa protesta della presidenza
della Bocconi nei confronti di una imposizione ministeriale per l’incarico di Diritto commerciale (rispetto alla proposta dell’ateneo milanese a favore del ben più titolato Paolo
Greco: m.A. ROmANI, «Bocconi über alles!»: l’organizzazione della didattica e della ricerca (19141945), in m. CATTINI, E. DECLEVA, A. DE mADDALENA, m.A. ROmANI, Storia di una libera
Università. II. L’Università Commerciale Luigi Bocconi dal 1915 al 1945, Egea, milano 1997, pp.
204-206).
93
55
I. BIROCCHI
quisiti di legge, valutando (vagamente) le esigenze dell’educazione nazionale: poteva al contrario annullare gli atti della commissione se contrari
alle esigenze della stessa educazione nazionale (art. 11). Poteva infine sostituirsi alle autorità accademiche per i provvedimenti disciplinari contro
gli studenti (art. 16).
Applicata all’istituzione universitaria, era in sostanza l’interpretazione
autentica della teoria della pluralità degli ordinamenti sotto l’egida fascista.
In concreto si trattava di una vera e propria legislazione corruttiva, che
nasceva dalla situazione di monopolio senza freni – non si era più in uno
stato di diritto, nemmeno di stampo liberale96 –. Nell’affermare il proprio
potere totale il regime faceva leva sugli interessi della corporazione accademica – erano i cosiddetti spazi di autonomia dell’istituzione – e dunque
lasciava che le Facoltà avanzassero proposte sui posti da mettere a concorso, sulle chiamate e i trasferimenti (ambitissime ovviamente le sedi più
prestigiose); ma su tutto aveva un potere di veto, poteva anche operare
d’ufficio e maneggiava inoltre in esclusiva la distribuzione delle cariche e
degli incarichi. Si sviluppò una corsa a dimostrare la propria fidelitas da
parte delle Facoltà e dei singoli studiosi. L’intreccio tra politica e diritto,
teorizzato ideologicamente in vista della formazione dell’uomo nuovo,
ebbe così una non edificante applicazione pratica attraverso la frequentazione delle anticamere ministeriali e la coltivazione di relazioni personali
con le gerarchie del partito. In questo gioco, in generale destinato a rimanere nascosto per la comprensibile omertà delle parti e per il velo di astrat96
Come detto, di solito la storiografia è propensa a dar rilievo agli spazi di autonomia che
sarebbero stati mantenuti dalle Facoltà, a testimonianza della resistenza del corpo accademico rispetto al regime, le cui affermazioni, come quelle del ministro De Vecchi citate
nel testo, sarebbero al più manifestazioni di intenti o sovrapposizioni esterne non intaccanti la continuità dell’istituzione. ma è una petizione di principio che, se anche non fosse
smentita dalle carte d’archivio, contiene innanzi tutto un vizio logico: in una situazione di
monopolio del potere è lecito piuttosto attendersi il contrario – e dunque l’assenza di autonomia dell’istituzione –, oppure postulare la corrispondenza di fondo tra gli intenti del
governo e il mondo delle Facoltà giuridiche. Una critica spietata ma non esagerata all’«accomodarsi docile alla mediocre corruzione», a «prendere le ‘direttive’ da un segretario di
partito», ad accettare il conformismo del pensiero fu espressa nell’agosto 1943 da un letterato che aveva tutti i titoli per parlare, in nome della coerenza antifascista e di un ideale
forte della cultura che non tollerava la giravolta delle parole: F. FLORA, La dignità della
cultura, in «Il corriere della sera», 26 agosto 1943 (cfr. i brani citati in epigrafe e v. oltre, §
8). Va nella stessa direzione la testimonianza di un personaggio proveniente da tutt’altra
esperienza, Ugo Spirito, secondo la quale una commissione scientifica presieduta da
D’Amelio e composta da personaggi del calibro di Vittorio Rossi, allora presidente dell’Accademia dei Lincei, Alberto De Stefani e Roberto michels si conformò prona all’esito
concorsuale preventivamente disposto per ragioni politiche dal ministro De Vecchi (U.
SPIRITO, Memorie di un incosciente, Rusconi, milano 1977, pp. 77-83).
56
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
tezza che tendenzialmente circonda l’esercizio della scienza giuridica, è
possibile intravedere le cose attraverso testimonianze insospettabili e lo
spoglio delle carte d’archivio.
La legislazione del 1935 d’altronde dava nuovo slancio a una prassi in
atto. Già sulla soglia degli anni Trenta, con affermazione ribadita anche nel
volgere della sua vita, in privato Jemolo riscontrava che a Bologna bisognava essere tesserati per poter essere ‘chiamati’ in Facoltà97. E in effetti
mossa (che vi aspirava) non vi arrivò mai, come pure messineo (i due notoriamente non si iscrissero mai al PNF); in compenso l’Alma mater accolse
De marsico e poi Giulio Battaglini, che prevalse su marcello Finzi dopo
una lotta in cui i due contendenti mobilitarono i rispettivi patroni nelle gerarchie di potere e nel contempo misero in evidenza come titoli di merito
le benemerenze fasciste98. A Roma l’arrivo sulla cattedra di Diritto agrario
A.C. JEmOLO, Lettere a Mario Falco, II, a cura di m. Vismara missiroli, Giuffrè, milano
2009, p. 104 (lettera del 10 aprile 1929) e ID., Anni di prova, cit. nt. 79, p. 154 («Nel fascismo
[…] c’erano le chiamate nelle Facoltà, ma con le indicazioni del Federale e del fiduciario»).
Nello stesso senso il pur moderato giudizio di V.E. ORLANDO, Intorno alla crisi mondiale del
diritto. La norma e il fatto (1950), in ID., Scritti giuridici varii (1941-1952), Giuffrè, milano 1955,
p. 305. Si può aggiungere la testimonianza di Filippo Vassalli, che in un excursus sulla funzione dei partiti nella gestione del potere scriveva: «In Italia il fascismo schiuse vasti e in
vero per lo innanzi ignorati orizzonti in questa concezione politica, giungendo a fare del
possesso della tessera d’iscrizione al partito condizione di capacità per alcuni elementari
diritti del cittadino e introducendo nelle leggi tutta una minuta graduatoria di così dette
“benemerenze”, decisive sulla capacità e stabilite in relazione a eventi rilevanti pel gruppo»
(F. VASSALLI, Osservazioni di uomini di legge in Inghilterra (1946), ora in ID., Studi giuridici, Giuffrè, milano 1960, III/2, p. 563 nt. 4): attestazione insospettabile, ma purtroppo resa solo
in tempi sicuri.
98
Chiedendo l’aiuto del guardasigilli Solmi, marcello Finzi (5 aprile 1935) gli annunciava
tra l’altro un suo lavoro prossimo su L’occupazione delle fabbriche, scritto «con sentimento
fascista», e allegava un curriculum con i meriti fascisti nell’espletamento della sua attività
(conferenze sul diritto corporativo; vari seminari in Germania; opera svolta per costituire
a Ferrara il nucleo dei Professori Universitari Fascisti, ecc.); si sa che il penalista ferrarese
fu colpito dalle leggi razziali e dovette rifugiarsi in Argentina, a Cordoba (cfr. in particolare
E. TAVILLA, Marcello Finzi giurista e docente a Modena, in Marcello Finzi giurista a Modena. Università e discriminazione razziale tra storia e diritto, a cura di E. Tavilla, Olschki, Firenze 2006,
spec. p. 29 per i rapporti con la giuspenalistica tedesca vicina al nazionalsocialismo). Le
missive di Battaglini al ministro, che pure coinvolgevano oltre allo stesso Solmi anche altri
ministri, il direttore de Il popolo d’Italia, il rettore e altri maggiorenti degli ambienti politico-accademici, erano datate 22 e 29 marzo 1935: si possono leggere, insieme a quelle di
Finzi, in ACS, Ministero di Grazia e Giustizia, Gabinetto affari diversi, ministro Solmi, n. 2,
fasc. aprile 1935. Su Battaglini «penalista di regime» v. DODARO, Giuliano Vassalli penalista
partigiano, cit. nt. 7, pp. 95-110. Per la verità, non sempre le benemerenze di regime bastavano per andare in cattedra: sfolgoranti quelle riconosciute a Costamagna nel già riferito
concorso pisano del 1929-30 (LANCHESTER, Momenti e figure, cit. nt. 56, p. 112 nt. 48): ma
inutilmente perché tra i commissari erano presenti forti divergenze sulle linee strategiche
97
57
I. BIROCCHI
di Ageo Arcangeli, esponente assai in vista del regime a Bologna, avvenne
sicuramente per esigenze del partito99. Ancora alla Sapienza romana, certamente per meriti politici e come premio di fedeltà, furono trasferiti, senza
chiamata della Facoltà, nel 1935 Arias100 e nel 1941 Renato Balzarini, fededa far valere per la cattedra messa a concorso (il Diritto corporativo), sicché si giunse a
un pasticciato e contraddittorio giudizio che portò all’annullamento degli atti della commissione.
99
Nella lettera di accettazione del trasferimento Arcangeli dichiarava di lasciare a malincuore Bologna aggiungendo: «Compii quest’atto per un complesso di circostanze che Ella
e i Colleghi conoscono» (la lettera, indirizzata al rettore, 28 maggio [1929] era scritta su
carta intestata Camera dei deputati: in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori ordinari, II versam., II serie, b. 5, fasc. Arcangeli
Ageo). È probabile che il trasferimento avvenisse per le esigenze di organizzazione corporativa del comparto dell’agricoltura, a cui subito fu preposto il giurista, che al momento
della chiamata era il direttore della Rivista di diritto agrario nonché autorevole consulente
della Confederazione generale dell’Agricoltura. Nella delibera della Facoltà (28 gennaio
1929) si legge che la destinazione della cattedra a Diritto agrario era dovuta alla «importanza che nell’attuale rinnovata economia vanno prendendo gli studi giuridici connessi
col regime dell’agricoltura».
100
Arias, deputato in carica, era stato membro della commissione dei ‘Soloni’ e preside
della Facoltà fiorentina dal 1930. Fece valere la conoscenza diretta del duce e i meriti di
partito già per il trasferimento da Genova a Firenze nel 1924; non gli bastarono, invece,
nonostante avesse Alfredo Rocco dalla sua, per essere chiamato a Roma già nel 1925, nella
costituenda Facoltà di Scienze politiche (v. la sua lettera, Firenze, 27 novembre 1925, al
ministro Pietro Fedele). Nel 1935 si rivolse direttamente al ministro per essere trasferito
sulla cattedra di Economia politica corporativa. Non meraviglia che nel Curriculum scientifico
e politico inviato al ministero in vista della nomina elencasse tra i suoi titoli l’intervento al
Congresso del PNF del 1922 (allora egli militava nel partito nazionalista), le missioni di
propaganda fascista all’estero e le cariche ricoperte nel partito e persino un elogio del
duce. Nonostante le sue benemerenze fu espulso dall’Università a seguito delle leggi antiebraiche: non gli valse la conversione al cattolicesimo (avvenuta verso il 1932: O. OTTONELLI, Gino Arias (1879-1940). Dalla storia delle istituzioni al corporativismo fascista, Firenze
University Press, Firenze 2012, pp. 35-36) né la provata fede fascista, non smentita neanche
dopo il 1938 (v. le lettere al ministro Bottai del 29 agosto 1940 da Cordoba in Argentina,
quasi alla vigilia della morte, e del 13 agosto 1938, nella quale tentava di scongiurare l’imminente allontanamento rivendicando la fedeltà al fascismo sua e della famiglia, ricordando
che il figlio, da volontario in Spagna nelle fila franchiste, combatteva «i nemici foraggiati
dall’oro degli ebrei».). Per sua fortuna un grande studioso ebreo, Rodolfo mondolfo, lo
aiutò a ottenere in Argentina una modesta cattedra che almeno gli assicurò la sussistenza
negli anni finali della vita. Tutte le notizie sono tratte da ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III versam., b.
20, fasc. Arias Gino. Appropriato il giudizio di R. FAUCCI, Dall’«economia programmatica» corporativa alla programmazione economica. Il dibattito fra gli economisti, in «Quaderni fiorentini»,
XXVIII (1999), t. I, pp. 22-23, che, inserendolo nell’indirizzo di maggioranza dei corporativisti nel dibattito degli anni Trenta, ne rileva la scarsa caratura teoretica e lo spirito
conservatore.
58
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
lissimo del regime, giovane cultore del diritto corporativo, deputato dal
1939101. Addirittura clamoroso il trasferimento a Pisa, nel 1938, di Biggini.
L’ex avanguardista che poteva persino vantare una (fittizia) iscrizione al
PNF dal 1920, deputato in carica nonché futuro ministro della Repubblica
di Salò, era allora un giovane professore che insegnava nella periferica e
scomoda Università di Sassari, mentre desiderava avvicinarsi alla sua terra
– era ligure – e insegnare in una Facoltà di maggior prestigio, quale quella
di Pisa, che tra l’altro avrebbe aperto prospettive allettanti in ordine ai prediletti studi di diritto corporativo. Da qui la sua candidatura allorché si bandì
un posto a cattedra di Diritto costituzionale nella città sull’Arno102. Il modo
stesso in cui si procedette è singolare, perché la Facoltà raccolse i nomi e i
titoli degli aspiranti e stilò una terna da proporre al ministro per la decisione.
Biggini non fu nemmeno ternato, nonostante gli sforzi del preside, Cesarini
Sforza, e del rettore: aveva del resto come concorrenti studiosi del calibro
di mortati e di Esposito che erano allora già straordinari della materia e comunque ben più titolati (e mortati aveva già prevalso su di lui in un concorso a Cagliari)103. Biggini scrisse allora una lettera riservata al ministro
Bottai in cui, dopo aver espresso la propria indignazione per essere stato
posposto, gli chiedeva un colloquio. Val la pena leggere:
Sono umiliato e veramente triste, anche perché, dopo la improvvisa e
recente morte di mio padre, la mia sistemazione a Pisa risponde a necessità familiari. Tra i sei voti contrari ci sono quattro volontà di non
iscritti al Partito: uno di costoro mi ha chiaramente detto – alcuni giorni
or sono – che un ostacolo è la mia qualità di deputato e che a Pisa si voSu Balzarini, giovanissimo avanguardista nel 1920, libero docente dal 1934, ordinario
a Trieste e poi trasferito a Roma sulla cattedra di Diritto corporativo v., anche per le fonti
d’archivio, la voce di A. GAGLIARDI, in DBGI, I, pp. 155-156 e m.R. DI SImONE, Giuristi
e fascismo all’Università di Trieste, in Giuristi al bivio. Le Facoltà di Giurisprudenza tra regime fascista
ed età repubblicana, a cura di m. Cavina, Clueb, Bologna 2014, spec. p. 105.
102
È praticamente certa l’ipotesi che dietro il bando della cattedra ci fosse un lavorio extrauniversitario da parte dello stesso Biggini: la situazione accademica a Pisa (tra l’altro Cesarini Sforza aveva già un piede nella Facoltà di Roma, quale incaricato, e stava per rimanere
scoperta la cattedra di Diritto corporativo) e il tenore della lettera che si citerà tra breve la
avallano.
103
Lo precedette, entrando nella terna, anche Bruno Breschi, allora ordinario di Diritto
internazionale a Perugia. La Facoltà deliberò il 10 novembre 1938. Per inserire nella terna
Biggini il preside ottenne solo l’adesione di Santoro e di De Vergottini; per il voto contrario
si schierarono mossa, Ferrara, Diana, Funaioli, Frezza e miele (ACS, Ministero della Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b.
57, fasc. Biggini Carlo Alberto).
101
59
I. BIROCCHI
gliono dei giuristi puri e non dei giuristi politici. Ti prego di accordarmi
giovedì, venerdì o sabato della prossima settimana un colloquio104.
Detto e fatto: il colloquio fu fissato per il sabato successivo e, in barba
alla graduatoria stabilita dalla Facoltà, il decreto di trasferimento di Biggini,
senza chiamata dell’Università interessata e con decorrenza dal 1° dicembre
1938, fu firmato da Bottai il 28 novembre. Laconica la motivazione del ministro: «riconosciuta la necessità di trasferire alla cattedra di Diritto costituzionale della Facoltà di Giurisprudenza l’on. Prof. Carlo Alberto Biggini
…»105. Difficile immaginare un esito con maggiore discrezionalità decisionale. Che poi esso non rispondesse solo al vantaggio personale del professore ligure ma si inserisse nel progetto di rilancio della Scuola corporativa
pisana a cui molto teneva il ministro nelle sue strategie accademiche è un
fatto106: ma ciò conferma il rapporto di dipendenza della Facoltà giuridica
dalla politica del regime.
Per qualche profilo è simile il caso Solmi, rispetto al quale la Facoltà di
Giurisprudenza di Roma – si sa: in diretta comunicazione con gli apparati
e le istituzioni di regime anche per l’elevato numero di senatori, deputati,
ministri, sottosegretari e diplomatici presenti nelle sue fila – nel 1935
espresse una sorta di voto a futura memoria dichiarando che la cattedra di
Storia del diritto italiano rimasta vacante sarebbe stata proposta per il professore emiliano se non fosse stato guardasigilli: l’impedimento attuale, dovuto a impegno pubblico, non doveva andare a danno dell’interessato107.
Ovviamente si trattava di una dichiarazione che poteva servire a mantenere
buoni rapporti col ministro, ma del tutto inefficace e del resto in contrasto
con la posizione di colui – peraltro di provata fede fascista: Leicht – che fu
chiamato in quelle circostanze. ma Solmi approdò comunque alla Sapienza.
Appena seppe del suo esautoramento dalla carica di ministro deciso dal
duce chiese a mussolini immediata udienza, la ottenne ed evidentemente
contrattò una sorta di buonuscita che prevedeva diverse prebende (le richieste da lui avanzate, scritte su un foglio e niente affatto onorevoli, furono
quasi tutte soddisfatte), tra le quali il trasferimento alla Facoltà romana
Lettera di Biggini a Bottai, 11 novembre 1938, ivi. Un appunto di segreteria indica: sabato, ore 10,45.
105
Ivi.
106
AmORE BIANCO, Il cantiere di Bottai, cit. nt. 56, passim e spec. pp. 289-294.
107
Il verbale della seduta del 2 aprile 1935 del Consiglio della Facoltà romana si può leggere
in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli
professori universitari, III serie, b. 22, fasc. Asquini Alberto.
104
60
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
(aveva cattedra a milano). E tanto per chiarire la situazione scrisse subito
dopo al ministro Bottai dicendogli che, senza alcuna altra formalità, doveva
semplicemente emanare un decreto di trasferimento per la cattedra di Diritto comune108. Anche in questo caso, detto e fatto: forse fu il più veloce
trasferimento di cattedra nella storia degli atenei italiani.
Che la Sapienza romana non si facesse scappare un ministro di regime
era del resto prassi. Se ne ebbe un altro esempio, questa volta surreale, con
la chiamata alla cattedra civilistica – non ad honorem, bensì in organico – di
Dino Grandi, che poteva vantare qualche esercizio dell’avvocatura in gioventù oltre all’esperienza da gerarca e in particolare da guardasigilli: fu proposta dalla Facoltà romana e disposta dal ministro Bottai109.
6. Lo status del giurista di scuola
Quale corollario del clima e dei provvedimenti illustrati in precedenza,
occorre infine accennare a un insieme di controlli e restrizioni di varia natura che, mentre si estrinsecavano anche attraverso forme di intimidazioni,
108
L’ex guardasigilli scrisse al ministro Bottai (13 luglio 1939). La documentazione è in
ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Miscellanea
di Direzioni diverse [I-II-III] [1929-1945], b. 58, fasc. Solmi Arrigo. La vicenda è raccontata
anche in I. BIROCCHI, Solmi, Arrigo, in Dizionario biografico degli italiani, XCIII, Istituto della
Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2018, p. 225.
109
Il fatto è noto e qui si riporta la delibera, adottata all’unanimità, della Facoltà (Roma,
Università Sapienza, Facoltà di Giurisprudenza, Verbali, reg. n. 5, 21 dicembre 1940), quale
segno della sua completa fascistizzazione: «La Facoltà di Giurisprudenza, considerate le
alte benemerenze che il ministro di Grazia e Giustizia avv. Conte Dino Grandi ha acquisito
nel campo giuridico per l’opera insigne da lui data per una rapida attuazione del pensiero
del Duce, inteso a dare all’Italia un complesso di codici degno del tempo Fascista, compiendo ed integrando quanto era stato iniziato e predisposto dai suoi eminenti predecessori, considerando come nell’opera sua il ministro Grandi abbia saputo fondere, con chiara
conoscenza dei bisogni della Società contemporanea, la splendida tradizione italiana che
scaturisce dalla sorgente inesauribile del diritto romano e si matura nelle creazioni geniali
del diritto intermedio con lo spirito della rivoluzione fascista; nell’intento di mostrare
l’adesione sua piena a questa grande opera e legarla all’Università italiana, nel nome di chi
le ha dedicato tutte le sue geniali energie, delibera di proporre al ministro dell’Educazione
nazionale la nomina del ministro della giustizia Dino Grandi a professore ordinario di
Diritto civile». All’ex guardasigilli la cattedra fu revocata con decreto 12 gennaio 1944 del
ministro Biggini, per essersi schierato contro mussolini nella seduta del Gran Consiglio
del 25 luglio 1943 (il provvedimento si può leggere, con indicazione delle altre cattedre
romane revocate per lo stesso motivo, in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione
Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III versam., b. 164, fasc. De
marsico Alfredo).
61
I. BIROCCHI
complessivamente tracciavano la sfera concreta entro cui l’attività del professore di diritto si svolgeva. Ne risultava insomma il suo modo di stare, il
suo statuto reale, che pure è quasi invisibile, forse perché nella vita quotidiana e nel privato si sminuzzava in tanti condizionamenti particolari, che
non siamo abituati a considerare nello svolgimento dell’esperienza giuridica.
ma, appunto, nella dittatura quote crescenti del privato venivano trasferite
nel pubblico per il supposto prevalere dell’interesse generale, senza però
che lo statuto ufficiale registrasse apertamente l’erosione.
C’erano innanzi tutto i controlli polizieschi sui personaggi segnalatisi
in qualche modo come avversi al regime o semplicemente, dal 1932 in poi,
non tesserati. La gamma di questa attività di vigilanza è molto ampia, a seconda del grado di pericolosità. Spie di professione seguivano e mandavano
periodici rapporti sull’unico professore di diritto che lasciò la cattedra, in
Italia – l’amministrativista Silvio Trentin, fuoruscito in Francia agli inizi del
1926 e poi uno dei dirigenti di Giustizia e libertà110 – e su Errico (o Enrico)
Presutti – l’antico allievo di Venezian che, aventiniano, fu a sua volta l’unico
professore di diritto esautorato dall’Università a seguito dei provvedimenti
eccezionali del 9 novembre 1926111 –. Su Giulio Paoli, penalista nella neonata Università di Firenze, firmatario del manifesto Croce, si abbatté la
vendetta del regime per aver votato ‘no’ alle elezioni del 1928 (i solerti commissari del seggio erano anche spie e la particolare carta delle schede consentiva facilmente di accertare il segno del voto): d’imperio il ministero lo
trasferì alla Facoltà di Scienze politiche di Pavia, lontano dalla sua città, dai
Assai dignitosa la lettera di dimissioni, 7 gennaio 1926 (è pubblicata da F. ROSENGARSilvio Trentin dall’intervento alla Resistenza, Feltrinelli, milano 1980, p. 86). Informali,
ma memorabili le parole con cui, a fine dicembre o agli inizi di gennaio, salutando a Roma
per l’ultima volta Giovanni Amendola, aveva comunicato la sua irrevocabile decisione
delle dimissioni e dell’esilio: «Io non posso rimanere in Italia. Se fossi un professore di
matematica forse potrei restare, ma come professore di diritto come posso restare qui ad
insegnare quando l’attuale regime è contrario a tutto ciò in cui credo?» (ibid., p. 87). Era
stata appena emanata e stava per entrare in vigore la legge 24 dicembre 1925 n. 2300 che
consentiva al governo di dispensare dal servizio i pubblici dipendenti che non dessero
«piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o [si ponessero] in condizioni
di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo».
111
Non mette conto riferire dell’attività spionistica nei confronti di Trentin che risale almeno al suo passaggio alle fila repubblicane (egli poi fu anche firmatario del manifesto
Croce). Quanto a Presutti, i resoconti si riferiscono a contatti intrattenuti «nel vestibolo
del Palazzo di giustizia» a Napoli o in Cassazione a Roma. Il documento più circostanziato
è datato Roma, 11 novembre 1934: rilevava che egli frequentava esponenti del «soppresso
mondo politico» e si incontrava con i fratelli massoni, purtroppo difficilmente controllabili
(ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione polizia politica, fascicoli
personali 1926-1944, b. 1065, fasc. Presutti Enrico).
110
TEN,
62
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
suoi studenti, dal Tribunale ove svolgeva con successo la professione112. Il
giovane max Ascoli, antifascista, discriminato accademicamente e sottoposto a misure di polizia prima che decidesse di lasciare l’Italia nel 1931,
fu poi costantemente spiato sia nella sua attività negli Stati Uniti, sia nei
suoi viaggi in Francia, in particolare per i suoi contatti con gli esponenti di
Giustizia e libertà113. ma con più o meno discrezione periodici ‘rendiconti’
riguardavano l’operato della vecchia guardia liberale – Orlando, per esempio
– e certamente poi tutti i ‘firmatari’ del manifesto Croce; avervi aderito
restò una macchia indelebile per il resto del ventennio, se non purgata attraverso atti di ‘abiura’ come l’iscrizione al PNF. Successe così che, in
quanto ‘firmatario’, all’autorevolissimo e però riservato Chiovenda nel 1928
mussolini in persona negasse l’autorizzazione per una missione scientificodidattica a Barcellona114; mentre non stupisce, e lo si rileva qui solo per mostrare la forza di pressione della fascistizzazione nel suo procedere, che nel
1932 lo stesso processualcivilista della Sapienza cedesse e prendesse la tessera e che a lui nel 1934 fosse dato ampio spazio per una missione a Bucarest, concertata con l’ambasciata italiana e con risvolti smaccatamente
propagandistici115. A un altro ‘firmatario’ come il commercialista Giuseppe
Il giurista visse gli anni Trenta in tristissime condizioni. Su di lui v. P. CALAmANDREI,
Ricordo di un giurista: Giulio Paoli (1943), ora in ID., Opere giuridiche, X, Problemi vari e ricordi di
giuristi. Arringhe e discorsi di politica legislativa, riedite da Roma TrE-Press, Roma 2019, pp.
208-213 (anche online); altri particolari in DODARO, Giuliano Vassalli penalista partigiano, cit.
nt. 7, pp. 110-112; dopo il ritratto contenuto nella voce di V. TOLASI, in DBGI, II, p. 1503
una bella ricostruzione dell’opera è stata proposta da S. SEmINARA, in «Quaderni fiorentini», XLIII (2014), t. II, pp. 864-870 (in sede di recensione di G. PAOLI, Fare l’avvocato, a
cura di m. Pisani, Edizioni ETS, Pisa 2011).
113
Notizie su max mosé Ascoli, laureato in Giurisprudenza e in Filosofia, professore a
Camerino e poi a Cagliari e sulla sua attività di esule negli anni Trenta, in ACS, Ministero
dell’Interno, Pubblica sicurezza, Divisione affari riservati, categoria B, 1949-1965, b. 20. Sulla figura complessiva D. GRIPPA, Un antifascista tra Italia e Stati Uniti. Democrazia e identità nazionale nel pensiero di Max Ascoli (1898-1947), FrancoAngeli, milano 2009 e Max Ascoli.
Antifascista, intellettuale, giornalista, a cura di R. Camurri, FrancoAngeli, milano 2012.
114
Documentazione in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione
Superiore, Fascicoli personali professori ordinari, II versam., 1900-1940, II serie, b. 35, fasc. Chiovenda Giuseppe. Una trattazione specifica in F. CIPRIANI, Giuseppe Chiovenda, il manifesto
Croce e il fascismo (1995), ora in ID., Scritti in onore dei patres, Giuffrè, milano 2006, pp. 281285.
115
Chi volesse potrebbe apprendere i particolari in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione,
Direzione Generale Istruzione Superiore, Fascicoli personali professori ordinari, II versam., 19001940, II serie, b. 35, fasc. Chiovenda Giuseppe. Il giurista restò comunque ai margini della
scena, non più nominato membro delle commissioni che negli anni Trenta attesero ai progetti di codice di procedura civile (sostanzialmente strumentali le sovrabbondanti citazioni
del suo nome nella relazione al re illustrativa di quel codice: v. F. CIPRIANI, Piero Calamandrei,
112
63
I. BIROCCHI
Valeri, non meno riservato e con l’aggravante, rispetto a Chiovenda, di non
aver preso la tessera del partito, nel 1937 fu negata l’autorizzazione a far
parte dell’Institut Scientifique d’Etudes de communications et de transports di Parigi116. Contro Roberto De Ruggiero, il pupillo di Scialoja, prestigioso civilista della Sapienza, anche lui ‘firmatario’, nel 1931 venne intentato un
procedimento disciplinare per «incompatibilità con le direttive politiche del
Governo» in quanto sarebbero state sentite sue parole di disapprovazione
in relazione a una sguaiata manifestazione di squadristi nella capitale (si dovette penosamente difendere dall’accusa di essere ‘antinazionale’)117.
Si potrebbe continuare illustrando le briglie costrittive a cui specialmente dopo la svolta dei primi anni Trenta erano sottoposti gli ‘irregolari’:
un mossa, ad esempio, corporativista convinto, ma spirito libero e mai
iscritto al PNF118; un Florian, pure mai iscritto119; o un Ascarelli, che dismise
l’attività militante giovanile presso i circoli gobettiani e salveminiani, ma la
la relazione al re e l’apostolato di Chiovenda [1997], ora in ID., Ideologie e modelli del processo civile.
Saggi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pp. 57-74, spec. pp. 65-74).
116
Il diniego fu espressamente basato sulla doppia motivazione positiva (aver firmato il
manifesto Croce) e negativa (non essere iscritto al partito). Chiederà e otterrà infine la
tessera nel 1940 (notizie desunte da ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale
Istruzione Universitaria, Fascicoli personali professori ordinari, III versam. [1940-70], b. 470, fasc.
Valeri Giuseppe).
117
Cfr. la lettera del giurista al ministero dell’Educazione nazionale (29 agosto 1931) in
ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Superiore, Fascicoli personale
insegnante, II versam., II serie, b. 48, fasc. De Ruggiero Roberto.
118
Ebbe molti problemi per una missione in Iugoslavia programmata per il 1937 e autorizzata dopo quasi due anni e solo alla condizione che si attenesse strettamente alle direttrici dell’ambasciata; non ebbe l’autorizzazione per una missione a Berlino nel 1943 (notizie
in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli
professori universitari, III serie, b. 330, fasc. mossa Salvatore Lorenzo); ulteriori ‘noie’ sono
ricordate in BIROCCHI, L’età vivantiana, cit. nt. 27, pp. 232-233 nt. 202 e in R. TETI, Codice
civile e regime fascista. Sull’unificazione del diritto privato, Giuffrè, milano 1990, pp. 242-245 nt.
126 (importante nel rivelare, ormai negli anni Quaranta, lo sbocco apertamente politico
dell’antica conflittualità tra Asquini e mossa e la connotazione politico-ideologica delle
discussioni sulla codificazione civile. Tra il 1941 e il 1942 sulla polemica tra i due direttori
era anche intervenuto d’autorità il ministro Grandi, che la definiva «meschina e irritante»,
mentre essa era il segno che dalla dialettica delle posizioni si stava passando allo scontro;
cfr. la lettera di Grandi a Biggini, Roma, 13 gennaio 1942, pubblicata in L. GARIBALDI,
Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini, mursia, milano 1983, pp. 402403).
119
Per la mancanza di questo requisito si discusse se autorizzare una sua missione a Buenos
Aires (novembre 1938) e se fosse opportuna la concessione del titolo di emerito (ACS,
Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Superiore, Fascicoli personale insegnante, II versam., II serie, b. 62, fasc. Florian Eugenio).
64
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
cui semplice vicinanza agli ambienti del pensiero antifascista lo rendeva sospetto e dunque elemento da controllare120. Non è però il caso di moltiplicare gli esempi e piuttosto conviene notare che il controllo diventò un abito
che rivestì l’intero universo mentale di coloro che operavano nell’istituzione
universitaria: un abito che riguardava tutti, anche gli allineati, magari sottoposti a disamine più leggere, ma pur sempre incerte nell’esito121. Che i giuNella fase di ascesa e consolidamento della dittatura Ascarelli si diede esclusivamente
al lavoro accademico, coltivando interessi svariatissimi di lettura e occupando in breve e
ancora giovanissimo una posizione distinta nella commercialistica per i due caratteri che
ne caratterizzavano l’opera: da un lato il pragmatismo, che lo indusse a misurarsi, ma senza
provincialismi, con la struttura corporativa che oramai andava permeando l’economia e
dunque gli assetti ordinamentali; dall’altro lo spirito critico con cui osservava i problemi,
che ne rendevano la riflessione aliena dagli omaggi al principio di autorità (senza giri di
parole poteva contrastare le tesi di Rocco e persino quelle di Vivante, suo maestro). Prese
la tessera del PNF nel 1932, senza mai cariche né incarichi politici; per i legami familiari,
l’origine israelitica, le relazioni accademiche, l’attivismo prorompente, le curiosità intellettuali (e le conoscenze linguistiche) che ne facevano il prototipo del cittadino cosmopolita,
fu a sua volta giurista ‘irregolare’. Ascarelli si ritrovava benissimo nella cerchia di un ‘eretico’ di matrice cattolica come Ernesto Buonaiuti (C. FANTAPPIÈ, Il conflitto delle fedeltà: Arturo Carlo Jemolo e il fascismo, in I giuristi e il fascino del regime, cit. nt. 24, p. 172) e di giovanissimi
intellettuali come Carlo Rosselli e max Ascoli (ferrarese, ma conosciuto sicuramente prima
dell’insegnamento di Ferrara nel fertilissimo e composito circolo di amici legati alla filosofia idealistica, che si incontravano a Roma nei primi anni del fascismo; poi per qualche
tempo lo ritrovò come collega a Cagliari e fu da lui, ormai in America, sostenuto nella ricerca di una sistemazione dopo il forzato esilio: cfr. E. CAmURANI, Max Ascoli: una scelta
americana, e R. CAmURRI, Max Ascoli: un esule non esule, entrambi in Max Ascoli. Antifascista,
intellettuale, cit. nt. 113, rispettivamente pp. 95-96 e 190), leggeva Croce e però stimava
anche il fuoruscitismo (s’intende, pure prima che lui stesso fosse costretto ad essere fuoruscito). È vero che negli anni Trenta proiettò la sua riflessione scientifica, al pari in genere
della giuscommercialistica coeva, all’interno dell’ordinamento e della cultura del corporativismo, ma contro una tesi davvero poco provveduta sul suo presunto ‘fascismo’, v. C.
mONTAGNANI, In «difesa» di Tullio Ascarelli, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», LXVII (2013), pp. 621-637, e ora m. STELLA RICHTER jr, Racconti ascarelliani, Editoriale
scientifica, Napoli 2020, pp. 47-52, che ho potuto leggere in bozze per la generosità dell’Autore.
121
Ne sono un esempio i controlli e i diversi dinieghi di autorizzazioni riguardanti Del
Vecchio (che pure era iscritto al partito dall’agosto 1921), anche prima del varo ufficiale
delle leggi antiebraiche: nell’agosto 1938, essendo preside della Facoltà giuridica romana,
fu designato presidente della Associazione Italo-Bulgara, ma il ministero dell’Educazione
nazionale non gli diede il permesso di accettare in quanto non ariano; il 4 marzo 1938 il
ministro Bottai, in accordo con la presidenza del Consiglio dei ministri e del ministero
degli Esteri, non ritenne opportuno che Del Vecchio accettasse la nomina a componente
del Comitato d’onore del Centre d’information législative international costituito a Ginevra, dato
il carattere dell’Istituto. ma forse la vicenda più interessante, che mostra la natura politica
dei controlli, concerne la richiesta di Del Vecchio (16 febbraio 1935) di essere autorizzato
ad accettare la condirezione della rivista berlinese Archiv für Rechts-und socialphilosophie, alla
quale tra l’altro aveva già collaborato (l’invito veniva dal professor Carl August Emge, che
120
65
I. BIROCCHI
risti-fascisti potessero anche accogliere con favore un tale abito non toglie
che lo status del professore ne venisse menomato: a parte gli ovvi risvolti
ricattatori che il controllo sottintendeva, il regime affermava la sua essenza
sottraendo autonomia decisionale anche ad attività che si considerano normalmente di esclusivo carattere accademico-scientifico122. L’integralità del
regime non prevedeva, insomma, zone franche. È appropriato parlare di
affermazione della politica (del fascismo) über alles, che è un altro modo di
definire il processo di fascistizzazione.
7. La forza dinamica del diritto e l’incontro dei giuristi col fascismo
Con riferimento all’Università esso non restò un vago programma del
regime. Jemolo ha parlato amaramente degli effetti del totalitarismo fascista
come un’opera di pervertimento123; inevitabile il senso di depressione124.
nel 1937 avrebbe benevolmente appoggiato la pubblicazione in tedesco del manuale di
filosofia del diritto del collega italiano): nel marzo successivo il ministero della Stampa e
la propaganda diede parere nettamente negativo («[quella rivista] segue passo passo i dettami della ideologia nazionalsocialista; ideologia che ha tendenza, soprattutto nel campo
filosofico e del giure, a scostarsi sempre più dai principi fondamentali del Fascismo»: tutte
le notizie sono tratte da ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione
Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 163, fasc. Del Vecchio Giorgio). Si
può notare, in generale, che proprio perché le richieste di autorizzazioni non avevano un
esito scontato, l’esame richiedeva abbastanza tempo, sicché non era raro che gli impegni
all’estero dovessero venire posticipati o annullati per il ritardo (forse talora strumentale)
con cui giungeva la risposta (Betti e mossa se ne lamentarono più volte). Albertario fu severamente ammonito dal ministro Bottai (che pure era suo collega alla Sapienza) per aver
tenuto una conferenza a Colonia il 7 dicembre 1938 senza la preventiva autorizzazione
del ministero: a poco valse la prova che la richiesta del romanista lombardo era stata presentata preventivamente all’evento, accompagnata dalla nota che era di razza ariana e di
religione cattolica (la documentazione è in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione
Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 6, fasc. Albertario
Emilio).
122
Non aveva torto VASSALLI, In tema di “epurazione”, cit. nt. 8, p. 15 nel respingere l’accusa
di collusione con il regime nazista solo perché aveva fatto parte del Comitato bilaterale
per le relazioni giuridiche italo-tedesche: affermava che esserne membro era un corollario
naturale e anzi necessario del suo ufficio di giurista. ma il civilista romano dimenticava che
il governo fascista si riservava di sindacare quali fossero gli organismi di cui i professori
potevano far parte: il che smentiva un pilastro della sua autodifesa e cioè la separazione
tra lo Stato (di cui si dichiarava fedele servitore) e il governo fascista (pp. 8-9, spec. nt. 8).
123
JEmOLO, Anni di prova, cit. nt. 79, p. 160.
124
Ibid., pp. 157 e 168 («Nell’insieme l’esperienza del fascismo è stata tra le più deprimenti:
quelle che fanno sentire quanto povera cosa siamo tutti noi, quanto pochi siano i corag66
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
meno ancora per il comparto giuridico si può accreditare l’idea di una zona
rimasta autonoma e sostanzialmente esente dall’ideologia della dittatura.
L’ideologia è infatti una merce particolare, per come la si produce e la
si acquista125; e ha effetti espansivi dal momento che chi la fa propria è disposto normalmente a diffonderla. Implica poi uno svolgimento continuo
nel corso del quale diventa difficile distinguere la coercizione dal consenso
spontaneo e anzi il prodotto che tende a realizzarsi – in quel caso: la società
di massa fondata sul consenso che elimina violentemente dal proprio seno
i dissenzienti – sembra non solo l’unica realtà esistente, ma anche l’unica
concepibile. Si può allora comprendere l’invito, proposto all’inizio di questo
saggio, a non considerare le singole misure separatamente tra loro e come
se fossero inoculate su un organismo inerte o addirittura impermeabile.
L’integrazione dell’Università entro la politica e l’ideologia fascista si
svolse per intrecci, con più attori protagonisti. Se fin qui se ne è parlato
come di un itinerario procedente dall’alto attraverso la propaganda ideologica, la legislazione, la fidelizzazione, i controlli intimidatori, bisogna
pur tener conto che il corpo docente fu ben lungi dall’essere semplice elemento passivo: fu, a vari livelli e con diverse consapevolezze, un protagonista attivo e si prestò nel suo insieme quale intellettuale-costruttore
del regime e, nel contempo, costruttore del consenso. Lo squadrismo diventò ordine giuridico e il fascismo si fece Stato grazie anche all’opera di
un ceto di intellettuali (economisti, giuristi, filosofi, tutti con una visione
complessiva della società) molto duttili nel comprendere l’irreversibilità
della crisi del modello atomistico ottocentesco e nell’affiancarsi alla politica che proponeva una forma di riorganizzazione integrale delle masse
entro un ordine capitalistico avanzato incapsulato nello Stato forte126. Tra
loro appunto i giuristi che, impegnati quotidianamente nello stilare leggi,
giosi, quanto il coraggio civile sia tanto più raro e ben più arduo dell’eroismo sui campi di
battaglia. Un’esperienza atta a far perdere la fiducia nell’uomo»).
125
Dopo l’esperienza dell’uso di massa dell’ideologia nella Grande guerra, il fascismo
sfruttò abilmente questo strumento incorporandolo nel suo disegno sociale (spunti in m.
TRONTI, Lo Stato del capitalismo organizzato, in Stato e capitalismo negli anni Trenta, Editori riuniti
- Istituto Gramsci, Roma 1979, p. 71).
126
Sarebbe superfluo richiamarsi a Gramsci, se non fosse che l’analisi del pensatore sardo
sul rapporto tra regime e intellettuali, tra uso della forza e consolidamento del potere attraverso la costruzione del consenso è solitamente ignorata dalla storiografia giuridica
(puntualissimo A. GRAmSCI, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, e ID., Passato
e presente, entrambi Editori riuniti, Roma 1991, pp. 103 e 109 e rispett. 104-105); con la
conseguenza che la sua riflessione è scarsamente utilizzata anche per quanto riguarda le
articolazioni sul dibattito della scienza giuridico-politica negli anni Trenta (ad esempio in
tema di corporativismo: op. ult. cit., pp. 95-103).
67
I. BIROCCHI
sostenerle ideologicamente, interpretarle entro il sistema della legalità fascista, complessivamente operarono nel disegnare l’organizzazione ordinamentale dello Stato totalitario127.
È un’affermazione radicale ancorché non nuova, di cui a vario titolo si
può dubitare per la problematica interrelazione intercorrente tra il concetto
di ceto, la categoria dell’intellettuale e il mondo della politica128. Ci si può chiedere
innanzi tutto se si possa parlare appropriatamente di un ceto di giuristi, come
gruppo sufficientemente omogeneo. Si corre il rischio di appiattire la varietà
e dunque la dialettica di posizioni che si manifestarono persino tra quanti
furono saldamente schierati col regime sentendosene parte (un Betti e un
de Francisci, un Volpicelli e un Asquini e così via); ancor più, con riferimento ai giuristi chiamati a preparare i codici, appare stonato unificare le
posizioni di Calamandrei e Betti, manzini e Vassalli, Redenti e Nicolò, AnP. COSTA, Lo ‘Stato totalitario’: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in «Quaderni fiorentini», XXVIII (1999), t. I, pp. 61-174. Contro la vecchia interpretazione che
considerava la propaganda fascista come una sovrapposizione senza efficacia sulle elaborazioni dei ‘giuristi puri’ ha scritto belle pagine A. mAZZACANE, La cultura giuridica del fascismo: una questione aperta, in Diritto, economia e istituzioni nell’Italia fascista, a cura di A.
mazzacane, Nomos, Baden-Baden 2002, pp. 4, 6 e passim; le sue intuizioni paiono del tutto
confermate dalle indagini, diverse per impianto, ma confluenti nei risultati, di RONDINONE,
Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 38, p. 725 ss. (che per il codice civile parla di
«convergenza fra motivi politici e motivi tecnici» e di uno «stabile rapporto dialettico fra
i politici [il ministro e i giuristi politici], che intendono contrassegnare i codici in termini
originali, particolarmente pervadendolo dell’idea corporativa, e la maggior parte dei giuristi
puri»: rispettivamente pp. 747 e 746) e di SOmmA, I giuristi e l’asse culturale, cit. nt. 17, p. 53
e passim.
128
In un saggio risalente quasi a mezzo secolo fa, rinnovando la storiografia del dopoguerra, l’ha enunciata uno studioso, Giuseppe Vacca, che da allora non ha smesso di affrontare i molteplici aspetti del rapporto tra società e intellettuali nel Novecento, a partire
dalle considerazioni gramsciane. Il testo, derivante da una relazione congressuale del 1975,
è stato più volte riedito: qui si usa G. VACCA, Gli intellettuali nel «regime reazionario di massa»,
in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico», 8-10 (1977) [ma
1979], pp. 19-42: singolare, per i tempi, la coscienza del ruolo giocato dai giuristi e dalla
cultura giuridica nella costruzione del regime (spec. pp. 21-22 e passim). Nella fiorente letteratura sulla funzione degli intellettuali durante il fascismo, il ruolo della scienza giuridica
appare comunque marginale o addirittura inesistente se non per alcune personalità (Rocco,
in primis) e per singoli momenti (la campagna contro gli ebrei, per esempio), ma s’intende
che la spiegazione di tale marginalità risiede nella ritrosia dei cultori della storiografia giuridica a fare i conti con i loro padri. Nonostante le ormai numerose indagini settoriali di
impronta storico-giuridica, pare tuttora valido l’appunto mosso un trentennio fa di una
loro sostanziale marginalità o mancanza di incisività nell’orientamento delle storie culturali:
A. SCHIAVONE, Prefazione, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, a cura
di A. Schiavone, Laterza, Roma-Bari 1990, p. V (rilanciato con singolare consapevolezza
da I. PAVAN, Una premessa dimenticata: il codice penale del 1930, in Le radici storiche dell’antisemitismo. Nuove fonti e ricerche, a cura di m. Caffiero, Viella, Roma 2009, p. 130).
127
68
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
tonio Scialoja e Arturo Rocco. Di certo – e lo si è rilevato nelle pagine precedenti – constatare il carattere plebiscitario del giuramento del 1931 e la
consistente maggioranza di giuristi che si iscrissero al PNF non prova che
essi costituissero un ceto. È un punto su cui si dovrà ritornare129.
D’altra parte sembrerebbe contraddittorio predicare per un intero ceto
la funzione intellettuale, qualora a questa associamo la libertà di pensiero:
se l’intellettuale è colui che, quando non tradisce il proprio statuto, esercita
la libertà di coscienza e dunque di critica al potere, questo non si può predicare di una intera classe professionale, bensì solo di singoli. E del resto,
se si accredita che un ceto abbia una parte decisiva nella costruzione di un
regime, resterebbe problematico parlare dei giuristi come intellettuali, il cui
statuto prevederebbe piuttosto l’indipendenza da ogni potere politico.
In proposito riaffiora la tradizionale tesi della tecnicità della scienza giuridica. Velando il rapporto con la politica e di fatto negando l’appartenenza
del diritto al mondo della cultura essa pretende di ricondurre il ruolo della
scienza giuridica ad attività professionale tesa a connettere attraverso il diritto istituzioni e imprese, iniziative produttive e attività dei privati: una funzione che sarebbe neutra, quand’anche inserita nel progetto autoritario dello
Stato forte perché esplicata attraverso le categorie tecniche proprie del
giure130. ma come ribadivano due provveduti affreschi proposti sul finire
del secolo scorso, al di là delle adesioni esplicite o entusiastiche dei giuristi-militanti, l’incontro della scienza giuridica con il regime totalitario avvenne generalmente e risulta anzi impossibile contrastare l’affermazione
che il diritto sia «il settore nel quale meno che in qualunque altro il fascismo
può essere considerato una “parentesi”»131.
Qui si procederà seguendo una prospettiva storica e non sociologica –
non interessa definire in astratto la categoria dell’intellettuale né trattare
del ruolo delle diverse categorie di intellettuali – ed avvertendo che in queV. oltre, § 8.
Nettissimo, e ben a ragione, ancora mazzacane: «Si instaurava così “un complicato
gioco di legittimazioni incrociate, dove un ceto professionale legittima se stesso offrendo
al regime le prestazioni ‘legittimanti’ del proprio sapere specialistico”, inventando una pluralità di modelli senza rompere con l’eredità più gelosa della disciplina […]. Non vi è una
scienza a-fascista (e tanto meno anti-fascista) che si trasforma indipendentemente dalle
tendenze del regime» (mAZZACANE, La cultura giuridica del fascismo, cit. nt. 127, p. 11).
131
Si allude a P. COSTA, La giuspubblicistica dell’Italia unita: il paradigma disciplinare, in Stato e
cultura giuridica, cit. nt. 128, pp. 125-128 (cui si deve la distinzione tra giurista-militante e
giurista-giurista o giurista ‘tradizionale’, ma tuttavia impegnato nel quadro delle istituzioni
e del sistema della dittatura) e L. FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 38-39 (con la citazione riportata nel testo).
129
130
69
I. BIROCCHI
sta sede il discorso può svolgersi solo in modo sommario132.
Il giurista intellettuale nacque con la scomparsa della prima generazione
postunitaria, all’incirca in contemporanea con l’apparizione del neologismo
– ‘intellettuale’, appunto, usato come sostantivo – che gradualmente, e non
senza impieghi promiscui, si sostituì a ‘letterato’. Da subito si andò affermando con caratteristiche specifiche che ne restituivano un’immagine complessa: applicata al diritto impersonava infatti la figura di un giurista
completo, tendenzialmente però dedito ad una specializzazione e con un
marcato risvolto pratico nella sua attività (per i legami, da un lato con la
politica, dall’altro con la società civile: erede immediato, in questo, dell’avvocato ottocentesco, ma ora in un periodo di sviluppo della società di
massa). Vittorio Scialoja incarnò per antonomasia tale figura perché esprimeva appieno le tre qualità di base poc’anzi enunciate (completezza, specialità, praticità). Ci furono anche giuristi, soprattutto in ambito penale, che
paiono già votati ad una spiccata specializzazione a scapito della completezza ma, a parte che le tre caratteristiche non possono certo intendersi in
modo rigido e tanto meno secondo rapporti quantitativi, per lo più qualunque specialista occupava almeno un altro ambito o coltivava attivamente
interessi per materie attigue133.
Qui importa mettere in rilievo che l’apparizione di questa nuova figura
all’interno della più generale categoria dell’intellettuale avveniva nella fase
della crisi del modello liberale e all’interno della società giolittiana, in un
fervore di iniziative pur se spesso sfocianti in un rattoppo dell’ordine esistente. Quel giurista sentiva di avere molto da dire perché possedeva le caEsso si riallaccia a diversi altri saggi: I. BIROCCHI, Sul crinale del 1944: Filippo Vassalli e la
reinvenzione del ruolo della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma dopo la caduta del fascismo, in Giuristi al bivio, cit. nt. 101, pp. 259-272; ID., Il giurista intellettuale e il regime, cit. nt.
24; ID., «La fase attardata in cui è rimasto il codice civile italiano»: una felix culpa per la scienza giuridica degli anni Dieci del Novecento. Il giurista come intellettuale, in «Revista da Faculdade de Direito, Universidade de São Paulo», CXII (2017), pp. 439-484; ID., L’età vivantiana, cit. nt.
27, pp. 167-233; ID., Emilio Betti: il percorso intellettuale e il tema dell’interpretazione, in Dall’esegesi
giuridica alla teoria dell’interpretazione: Emilio Betti (1890-1968), cit. nt. 67, pp. 9-42; ID., La
scuola processualcivilistica nella cultura giuridica italiana: gli esordi (1885-1910), in Itinéraires d’histoire
de la procédure civile. 2. Regards étrangers, sous la direction de L. Cadiet, S. Dauchy, J.-L. Halpérin, Institut de Recherche Juridique de la Sorbonne Éditions, Paris 2020, pp. 95-122.
133
Si abuserebbe della pazienza del lettore e occorrerebbe troppo spazio per comprovare
con i nomi dei giuristi e con le rispettive fonti bibliografiche quanto detto nel testo, che
comunque si basa fondamentalmente sull’incrocio di indicazioni tratte dal Dizionario biografico dei giuristi italiani (letto come apporto a una storia della cultura giuridica, non come
somma di biografie), dagli Annuari del ministero della Pubblica istruzione e dallo spoglio
di oltre un centinaio di fascicoli personali di giuristi di quella generazione conservati presso
l’Archivio Centrale dello Stato.
132
70
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
tegorie dogmatiche, era attento al sociale e partecipava alle discussioni –
tipico lo strumento delle recensioni nella palestra delle riviste, a volte sorprendenti per prontezza d’intervento, qualità delle osservazioni e spettro
degli interessi – in virtù appunto della combinazione tra completezza e specializzazione che lo rendevano duttilissimo134. Se è leggendaria la versatilità
di un D’Amelio e di un Carnelutti, che nacque come avvocato e che si
formò nel celebre cenacolo della Rivista del diritto commerciale, quasi altrettanto ampia era la gamma di interessi di Bonfante e di Brugi, di Rocco e di
mortara, di Donati e di Solmi, di Arcangeli e di Betti, di Cammeo e di Santi
Romano. Persino il giovane Vassalli, negli anni Dieci, si giostrava tra la materia d’origine (il diritto romano), la procedura civile, il diritto privato e
quello costituzionale135. Ed è inutile continuare con i nomi: il giurista era
costruito secondo una specializzazione che non smentiva la fondamentale
completezza perché le categorie di base erano quelle romano-civilistiche,
allora ritenute di impiego espansivo nelle altre branche del diritto. L’effetto
polifonico era notevole e denotava la libertà dell’interprete ma, nel contempo, anche la sua appartenenza a un ceto: i temi all’ordine del giorno in
una società industriale interessata all’avventura coloniale e attraversata da
pulsioni nazionaliste e dalle lotte di classe, presto anche impegnata nella
guerra, richiedevano del resto risposte nuove sul piano istituzionale, normativo e interpretativo. Dice tutto la turba di giuristi che nei primi venti
anni del secolo occupava i seggi nei due rami del Parlamento o che era impegnata nella Presidenza del Consiglio o nei gabinetti ministeriali e nei sottosegretariati, o ancora presso le amministrazioni comunali e provinciali.
Stretto, dunque, il legame con la politica, ma attraverso partiti per lo più liquidi o in formazione, talvolta effimeri o di scarsa consistenza nel voto
elettorale – istruttivo l’itinerario di Alfredo Rocco, radicale e poi nazionalista, attentissimo ai profili della propaganda e perciò fondatore di riviste,
animatore di convegni, eponimo di ‘manifesti’ –, sicché anche all’interno
Si può dire che l’attitudine dogmatica avesse spiccata propensione pratica e dunque
guardasse al sociale. Interpretando quasi il senso comune un giurista non di prima fila
come Agostino Diana (1875-1956) nel 1913 inaugurò l’anno accademico a Siena con una
prolusione appunto su La socializzazione del diritto (Stabilimento arti grafiche Lazzeri, Siena
1914). Il processualcivilista (già professore a Urbino, poi approdato a Siena, 1906, e infine,
dal 1919, a Pisa) si incrociò spesso con Calamandrei, col quale condivideva l’appartenenza
alla scuola di Carlo Lessona (a cui Diana subentrò nella cattedra pisana, mentre Calamandrei prese il suo posto a Siena); più tardi saranno entrambi firmatari del manifesto Croce
(cfr. G.B. FUNAIOLI, In memoria del prof. Agostino Diana, in «Annuario dell’Università di Pisa»,
1956).
135
E. mURA, Filippo Vassalli dagli esordi romanistici alla cattedra civilistica genovese (1907- 1918),
in «Historia et ius», 16/2019, paper 14, pp. 1-31.
134
71
I. BIROCCHI
dell’aggregazione partitica era preponderante la voce individuale: un canale
cetuale che si esprimeva a partire dal luogo in cui il giurista si era formato
e continuativamente operava, l’Università.
In questo senso può dirsi che il giurista fosse parte di un ceto e però
anche un intellettuale. E a conferma basta del resto guardare le iniziative
e i problemi di cui si occupavano Anzilotti e Romano, Orlando e Rocco,
Vivante e Scialoja, Sraffa e Ruffini, Venezian e Salandra, Ferri e Lucchini,
Nitti e Bonfante, Salvioli e Luigi Rossi e dietro di loro il grosso delle ormai
articolate schiere di studiosi legate alle rispettive scuole. Si parlava nei circoli giuridici, nelle riviste di settore (aggiornatissime sui disegni di legge
in discussione o nei provvedimenti normativi esteri appena emanati, indizi
sicuri dei legami con le istituzioni e dell’appartenenza a un mondo aperto),
nei periodici culturali – nella Nuova antologia scrivevano spesso i giuristi –.
E i quotidiani davano notizia di conferenze e interventi, talvolta dei ‘manifesti’ lanciati da giuristi (per l’entrata in guerra, ad esempio). A livelli intermedi fioriva una mole di riviste ora con coloritura del sindacalismo, ora
del nazionalismo, connotate comunque da una forte presenza di autori di
estrazione giuridica: dibattito pratico, talora con posizioni effimere e mutevoli, che però produceva mattoni per future architetture136. Senza perdere la dimensione tecnica, la scienza del diritto era percepita come
appartenente alla sfera della cultura: non solo serviva per regolare l’esistente, ma anche per prevedere (o provvedere a) le linee ordinamentali del
futuro. Era funzionale a programmare dinamicamente, dunque era organica al ‘progresso’137. Nel mondo intellettuale non era più solo il filosofo
ad avere un ruolo centrale, ma anche il giurista (e sempre più anche l’economista): la polemica che nel 1917 venne ingaggiata da Croce e Gentile,
da una parte, e da Bonfante (per conto anche del suo maestro Scialoja),
dall’altra, ha forse un significato che va al di là della questione allora messa
sul tappeto. Come spesso era accaduto negli anni precedenti, e con discussioni altrettanto franche, nei confronti di altri indirizzi del sapere, i due filosofi miravano ad affermare l’egemonia culturale del neoidealismo nel
136
Per gli anni compresi tra l’impresa di Tripoli e lo scoppio della Grande guerra, l’intenso
quadro intellettuale, con una ricca esposizione dei temi approntati e dei metodi impiegati,
è ricostruito da L. BORSI, Costituzionalismo 1912-1913. Nazione e classe, Giuffrè, milano 2017
(p. 93 per lo spunto indicato nel testo).
137
L’apoteosi di questa funzione si ebbe nelle emergenze dello sforzo bellico allorché si
cominciò a progettare il dopoguerra. Non stupisce che, in Italia, a prendere l’iniziativa e
a insistere per provvedervi fosse il caposcuola riconosciuto con una riflessione ad ampio
spettro (V. SCIALOJA, I problemi dello Stato italiano dopo la guerra, Zanichelli, Bologna 1918) e
più ancora con una intensa attività legislativa e amministrativa.
72
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
sistema delle conoscenze, che mal soffriva possibili alternative, tanto più
che ora il pericolo proveniva da una disciplina che aveva la sua roccaforte
nell’Università, verso la cui cultura pratica e interessata Croce aveva notoriamente espresso tutte le sue riserve138.
Non stupisce che un pragmatico di grande statura, un personaggio cui
starebbe stretta l’odierna etichetta di organizzatore culturale, Angelo Sraffa,
nel 1913 inaugurasse la cattedra commercialistica torinese con un discorso
sulla funzione del giurista e dichiarasse che non era più il caso di continuare
a ruminare commenti sterili sulla legislazione: occorreva che il giurista
agisse direttamente sul piano della produzione del diritto139.
Gli anni del dopoguerra videro il non preordinato incontro tra questa
variegata ma ferrata forza intellettuale e il movimento fascista. Tra i giuristi
di scuola una parte forse maggioritaria stette in attesa pensando comunque
di utilizzarne la carica per ridisegnare l’ordinamento dopo la crisi postbellica, un’altra subì il fascino di quel movimento inizialmente poco decifrabile.
Esso era certo accesamente nazionalista – e va ricordato che una quota
assai influente e numericamente robusta dei cattedratici di diritto era stata
interventista, a cominciare da Scialoja –, antigiolittiano e antisocialista ma
confusamente aperto verso una riorganizzazione della società di massa; nasceva come manganellatore e però andò candidandosi al ripristino ‘dell’ordine’ vagheggiando agli esordi anche ricette liberiste in economia140. Per la
scienza giuridica furono anni di impegno tra i vari schieramenti, ma furono
cure inquiete e con un diffuso senso di vivere una transizione incerta: fermo
restando il capitale quale motore e perno della società, intere branche del
diritto e delle istituzioni apparivano da rifondare o almeno riassestare.
Il delitto matteotti scosse le coscienze e una parte dell’ala liberale si avvide di non poter più oltre far conto nemmeno strumentalmente sul fascismo141; fu la fiammata che si espresse nell’Aventino e nel manifesto Croce,
Ci si riferisce a B. CROCE, Scienza e Università, in «La critica», IV (1906), pp. 319-321.
BIROCCHI, L’età vivantiana, cit. nt. 27, p. 192; cfr. A.m. mONTI, Angelo Sraffa. Un ‘antiteorico’ del diritto, Egea, milano 2011, pp. 169-176.
140
Il riferimento va al neoliberismo autoritario di De Stefani. Più in generale si rinvia a I
giuristi e il fascino del regime, cit. nt. 24.
141
Si allude alle posizioni di Jemolo, mosca, Orlando; ma l’elenco sarebbe lungo, anche
perché tra quanti condividevano tale atteggiamento c’erano pure Croce, il cui carisma intellettuale attirava evidentemente molte simpatie, ed Einaudi. Per quanto riguarda gli economisti liberali FAUCCI, Dall’«economia programmatica» corporativa, cit. nt. 100, p. 18, spiega
le loro iniziali simpatie verso il primo fascismo in quanto questo «sembrava appunto proporsi di ripristinare le regole del gioco di mercato in nome del supremo interesse nazionale».
138
139
73
I. BIROCCHI
ma presto la schiera degli oppositori divenne esigua anche per la forza del
potere, disgregante nei confronti degli avversari e di converso capace di
aggregare attorno a sé molti strati intellettuali. Si prospettava un cambio
generazionale della classe dirigente e si delineava la possibilità di un ruolo
attivo da svolgere nelle nuove condizioni della società di massa nello Stato
forte. Non è strana negli anni del primo dopoguerra – e va al di là delle celebrazioni per il centenario della nascita – la messe di riflessioni e ricordi
dedicati alla figura di Crispi, proposti in lettura nei quotidiani e perciò a
beneficio dell’opinione pubblica e però anche elaborati attraverso libri, discorsi e raccolte di documenti che videro impegnati personaggi come Orlando e Jemolo, ovvero due generazioni riunite nel recupero culturale del
politico siciliano142. Il grosso dei giuristi si incanalò entro le direttrici del
fascismo, ne fu allettato, diede il suo apporto, spesso convinto, a volte più
distaccato ma non critico. Nobili, ma indotti al silenzio ed emarginati, i non
molti dissenzienti, per lo più mimetizzati nelle loro dimore, in una posizione
che possiamo immaginare come «una trincea sgradevole e sporca»143.
8. Il giurista intellettuale organico (con un excursus su Vassalli e Calamandrei ‘legislatori’)
Quell’insieme di giuristi che, tra attendisti, simpatizzanti e militanti del
fascismo, si era mantenuto sostanzialmente aperto agli eventi nella transizione compresa tra la marcia su Roma e la crisi che seguì al delitto matteotti,
nel quindicennio successivo mostra sì differenti gradi di convinzione e diverse tonalità negli atteggiamenti, ma sostanzialmente nell’esercizio della
propria ars agì in modo coeso. Si ha ragione di pensare a un nicodemismo
abbastanza diffuso, comprensibile ma non da riportare a un fenomeno di
opposizione; il fatto è che a fare tendenza e cioè a implementare la cultura
del fascismo nell’Università era il gruppo, peraltro numeroso, dei giuristi
‘attivi’, quasi sempre impegnati anche in altre istituzioni, preposti alla direzione di riviste, incaricati di missioni e mansioni speciali, in rapporti di lavoro con colleghi della magistratura e con le gerarchie del partito. Esso
accettò, e talvolta formulò in prima persona, i capisaldi della dittatura e
A.C. JEmOLO, Crispi, Vallecchi, Firenze 1922 (su cui v. FANTAPPIÈ, Il conflitto delle fedeltà,
cit. nt. 120, pp. 173-175); V.E. ORLANDO, Crispi. Con documenti inediti, Priulla, Palermo s.d.
[1924].
143
L’immagine, riferita al rapporto tra intellettuali antifascisti e regime, è di E. GARIN, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori riuniti, Roma 1987, prefazione alla prima edizione
(1974), p. XXVIII.
142
74
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
operò per articolarli e metterli in pratica144. In quest’ottica si prestò all’attività di riforma dei codici e delle istituzioni; sorresse ideologicamente e
tradusse in enunciati operativi le pulsioni antilibertarie arrivando a fare della
legislazione eccezionale un sistema; sostenne l’orientamento a colpire con
le misure di sicurezza categorie sociali di persone (gli avversari del regime)
indipendentemente dai loro comportamenti; contribuì a forgiare il progetto
organizzativo della società di massa attraverso le corporazioni; avallò e sorresse giuridicamente la politica coloniale ed espansionistica145.
Questo ruolo fu complessivamente svolto attraverso la torsione funzionalista di tutti gli istituti, muovendo da una domanda che, passando per
la direzione-mediazione dello Stato, esprimeva una visione socio-economica complessiva e si faceva cultura giuridica. Come scriveva alla chiusura
del decennio il fedelissimo allievo di Rocco, lo spirito corporativo ormai
permeava l’intera legislazione, «incidendo sullo stesso concetto di diritto
soggettivo, dichiarato funzione dell’interesse collettivo»146. In effetti, di contro alla vituperata visione atomistica, nel rapporto tra uomo e beni entrava
in gioco la ‘funzione sociale’, sintagma magico già penetrato nel mondo
del diritto attraverso le suggestioni positivistiche dei trascorsi anni Ottanta
ma ora pervasivo e orientato in senso unidirezionale e autoritario: in suo
nome i diritti individuali retrocedevano a relitti o, al più, ad aspettative sbiadite147. Del ‘sociale’ – anche nelle sue proiezioni verso altri popoli – unico
interprete e quasi dominus era lo Stato, che si riservava il controllo di istituzioni-aggregazioni nuove come l’impresa e regolava direttamente altre più
o meno antiche, ma ora comunque da re-indirizzare secondo una funzione
(famiglia, corporazione, nazione), sempre comunque in vista dell’accrescimento della potenza dello Stato148.
Suggestioni importanti per una ricerca sulla cultura e sugli intellettuali del fascismo,
che paiono ben attagliarsi anche al campo del diritto, in m. ISNENGHI, L’Italia del fascio,
Giunti, Firenze 1996, pp. 127-148.
145
Come doviziosamente ha dimostrato G. BARTOLINI, The Impacts of Fascism on the Italian
Doctrine of International Law, in «Journal of the History of International Law», XIV (2012),
pp. 237-286, spec. 249-286.
146
A. ASQUINI, Una svolta storica del diritto commerciale, in «Rivista del diritto commerciale e
del diritto generale delle obbligazioni», XXXVIII (1940), pt. I, p. 511.
147
Cfr. TREGGIARI, Questione di stato, cit. nt. 8, pp. 854-855 e 862-863, che riporta diversi
impressionanti brani di giuristi di fama come Francesco Degni, Lodovico Barassi, Francesco Ferrara. Segue i percorsi del ‘sociale’ nel suo affermarsi dopo la Grande guerra I.
STOLZI, Politica sociale e regime fascista. Un’ipotesi di lettura, in «Quaderni fiorentini», XLVI
(2017), pp. 241-291.
148
Si produceva «un’opera di demiurgia sociale, attraverso la quale lo Stato plasmava la
144
75
I. BIROCCHI
La prospettiva ideologica si nutriva di slogan accattivanti – costruire
l’uomo nuovo, affermare la civiltà della Rivoluzione fascista ed esaltare la
potenza della stirpe –, ma naturalmente nell’impegno quotidiano c’erano
compiti meno altisonanti e più pragmatici: come l’obiettivo di ‘modernizzare’ quegli antichi istituti (la famiglia che produce figli e che può diventare
una vera e propria impresa agraria; la corporazione che si spoglia della veste
mutualistica e dell’autonomia del lavoro artigianale e diventa reggimento
di occupazioni spersonalizzate e burocratizzate nella società di massa; la
nazione che deve superare l’originaria immagine politica e dunque la risorgimentale separatezza rispetto allo Stato proiettandosi e sciogliendosi in
esso) e di far assurgere la nuova realtà produttiva (l’impresa) a modello della
società in marcia149. Il prorompere del ‘sociale’ investiva pure il sistema tradizionale delle fonti, che riceveva un nuovo orientamento sia al vertice –
vivissime le discussioni sui principi generali del diritto – sia alla base, tendenzialmente ora espressiva della teoria istituzionalista, senza però che l’assetto gerarchico venisse scalfito: ed era anche in questo caso un ambito di
riflessioni indotte dalla necessità di ripensare la società di massa secondo
un’organizzazione autoritaria e sufficientemente elastica da rispondere alle
esigenze della produzione da immettere sui mercati150.
Ecco l’incontro del diritto con la politica e l’economia. L’intreccio fu
molto stretto, anche per la confusione tra istituzioni e strutture del partito
e si realizzò materialmente attraverso le persone, spesso impegnate in più
sfere: anche il giurista, come tutti gli esponenti dell’universo culturale, doveva rifuggire le chiusure isolazionistiche e farsi «interventista»151.
società sottoposta al suo potere» (STOLZI, Politica sociale, cit. nt. 147, p. 262).
Le parole d’ordine della modernità e del progresso attiravano ovviamente i giuristi, ma
nella dittatura il terreno era ambiguo, con pericolose derive specialmente in campo penale
(per il pensiero di Antolisei nel 1940 cfr. E. DE CRISTOFARO, Legalità e pericolosità. La penalistica nazifascista e la dialettica tra retribuzione e difesa dello Stato, in «Quaderni fiorentini»,
XXXVI [2007], t. II, pp. 1080-1081. V. infra per il pensiero di Filippo Vassalli).
150
Non stupisce che il dibattito sulle fonti fosse trasversale e investisse anche il problema
di come recepire giuridicamente sollecitazioni e usi provenienti dal mondo dell’economia;
perciò interessava vivamente gli studiosi del diritto commerciale e corporativo, con posizioni assai variegate (a partire dal famoso congresso ferrarese del 1932 e muovendo dalla
relazione di Vivante le tratteggia RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt.
38, pp. 92-114).
151
VACCA, Gli intellettuali nel «regime reazionario di massa», cit. nt. 128, p. 28. Sul fascino e il
rinnovamento dell’azione intellettuale batteva Giuseppe Bottai nella sua rivista (1935):
«marcia di nuove idee, di nuovi istituti, di nuove formule di reggimento civile, di ordinamenti sociali ed economici» (cit. in L. mANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 305).
149
76
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
Il discorso dovrebbe a questo punto addentrarsi nelle grandi aree del
diritto, ognuna delle quali presenta le sue specificità. Si può pensare a branche ‘giovani’ come il diritto tributario o del lavoro (ora coinvolto nella problematica costruzione del corporativismo) o, d’altra parte, a discipline
d’antica tradizione quale il diritto romano. Altre, come il pubblico ed il penale si trovarono al centro di ripensamenti o spesso di veri e propri rivolgimenti dei paradigmi in accompagnamento delle legislazioni che fecero
rispettivamente irruzione nell’ordinamento negli anni 1925-31152. ma tensioni vivissime, esaltato dal protagonismo delle nuove generazioni, percorsero discipline consolidate come il commerciale e persino il civile, ben al
di là della questione dell’unificazione del codice153. Si dovrebbe inoltre tener
conto delle varie sensibilità individuali e dei particolari impatti provocati
nelle singole materie dal cambiamento dei paradigmi culturali. Ad esempio
sarebbe utile soffermare l’attenzione sull’espletamento dei concorsi, veicolo
di reclutamento dei professori ma anche finestra, per lo storico, da cui osservare gli indirizzi metodologici nuovi, i temi al centro dell’attenzione, le
scuole in ascesa e così via154; o magari osservare da vicino la straordinaria
fioritura di riviste che negli anni Trenta si affiancarono a quelle tradizionali
lanciando proposte e soluzioni sui nodi tematici dell’attualità. Qui si deve
però semplificare guardando alle linee generali.
Le forze intellettuali operanti in campo giuridico ebbero una funzione
fondamentale nel costruire il fascismo come regime e nel dargli l’anima
progettuale rispetto ai ‘poteri paralleli’ che avevano in se stessi una consistenza autonoma e come tali potevano potenzialmente minacciare la stabilità del governo mussoliniano. Si allude soprattutto alla Chiesa e all’apparato
organizzativo della cattolicità, forza viva e non direttamente assoggettabile
alla dittatura pur all’indomani dei Patti del 1929 – la crisi del 1931 con
Inutile, in questa sede, ricordare la bibliografia abbondantemente dedicata a questi settori nell’ultimo cinquantennio.
153
Numerosi spunti in CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 16, pp. 175-292, e in RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 38.
154
Ad esempio, per quanto riguarda il diritto costituzionale si può notare che per circa un
decennio (1925-35) non fu bandito alcun concorso (in buona parte perché si era sia nel
pieno dei sovvertimenti istituzionali, sia in una fase di transizione generazionale, segnalata
anche dalla separazione dalla cattedra di due maestri come Orlando e Romano); che alla
riapertura si presentarono studiosi di diversa estrazione quali mortati, Esposito, Zangara,
Origone; che i giudizi dei commissari enunciavano in trasparenza presupposti metodologici nuovi e rivelavano le pieghe assunte nelle vivaci discussioni disciplinari (se ne è occupato F. LANCHESTER, Pensare lo Stato. I giuspubblicisti nell’Italia unitaria, Laterza, Roma-Bari
2004, pp. 59-61 e in dettaglio, con apposita appendice sui concorsi giuspubblicistici del
ventennio, ID., Momenti e figure, cit. nt. 56, pp. 323-433).
152
77
I. BIROCCHI
l’Azione cattolica lo dimostrava155 –; e in minor misura si può pensare alla
monarchia che, seppur ridimensionata rispetto alla primitiva posizione disegnata nello Statuto, conservava un suo ruolo e una potenziale capacità
di aggregazione in caso di crisi156.
Quelle forze intellettuali furono vitali per enucleare e articolare un programma altrimenti velleitario e incerto e per rendere operativa e viva la legislazione. In particolare, i maestri del diritto, i cattedratici e l’insieme degli
studiosi che animavano le Facoltà giuridiche agirono nel complesso come
un ceto intellettuale, con proprie connotazioni distintive. Un ceto, sia perché
incanalati dalle misure di governo di cui si è detto, sia perché muniti di una
funzione e perciò organici al sistema; intellettuale, perché, entro i binari dati,
l’apporto fu attivo e creativo; con le proprie connotazioni distintive, perché
operavano in vista di realizzazioni pratiche, con l’utilizzo di categorie di
pensiero specifiche (quelle del diritto) e immediatamente proiettate nel vivere quotidiano157.
Forse è possibile a questo punto affrontare le possibili obiezioni alla
tesi qui affermata, fondamentalmente due: la diversità dei percorsi individuali, che renderebbe difficile parlare di un ceto responsabile, proponendo
piuttosto tanti profili atomistici di per sé inabili ad opporsi al regime; la dimensione tecnica della scienza giuridica, che l’avrebbe resa impermeabile
DE FELICE, Mussolini il duce. I, cit. nt. 31, p. 246 ss.; S. COLARIZI, L’opinione degli italiani
sotto il regime 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 116-132.
156
Parla di tre ‘poteri paralleli’, ognuno potenzialmente dotato di forza autonoma e perciò
pericoloso per la vocazione totalitaria del regime, COLARIZI, L’opinione degli italiani, cit. nt.
155, spec. p. 110 ss.: ai due indicati nel testo l’autrice aggiunge il grande capitale, le cui
istanze appaiono però del tutto recepite dal programma iniziale del partito nazionalista
poi fatto proprio convintamente dal fascismo; la stessa capacità dimostrata dalla dittatura
di governare la crisi del ’29 tenendo a freno le tensioni sociali altrove manifestatesi rinsaldò
un rapporto che fu non di convivenza tra ‘poteri paralleli’, bensì di collaborazione convinta
entro l’assetto condiviso della politica.
157
«Le stesse divisioni e gli scontri fra i giuspubblicisti del tempo presuppongono l’appartenenza ad un ceto socialmente e professionalmente definito e ad una comunità di linguaggio che comporta la condivisione da parte di tutti di schemi, valori e procedimenti
argomentativi» (mAZZACANE, La cultura giuridica del fascismo, cit. nt. 127, p. 11). Come già
accennato, il discorso sulla fascistizzazione delle Facoltà giuridiche è ovviamente collegato
a quello riguardante la magistratura, l’amministrazione e l’avvocatura, su cui negli ultimi
anni si sono moltiplicati gli studi. Con riferimento alla giuspubblicistica degli anni Trenta
parla di «ceto professionale dei giuristi» F. LANCHESTER, La dottrina costituzionalistica italiana
tra il 1848 e il 1954, in «Quaderni fiorentini», XXVIII (1999), t. II, p. 750; entro la dialettica
tra giuspubblicistica militante e tradizionale si dipana efficacissimo il saggio di COSTA, La
giuspubblicistica dell’Italia unita, cit. nt. 131, pp. 125-145.
155
78
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
alla dittatura e che in sostanza sarebbe stata garanzia della sua autonomia158.
In realtà non è in discussione la diversità dei profili personali. Così, in
una non dimenticata analisi delle personalità che animarono la Facoltà giuridica fiorentina, è stata messa in evidenza la distanza tra un Giovanni Brunetti, declinante scientificamente e arroccato in una «incondizionata,
plateale e viscerale adesione al fascismo», e l’antiformalista Enrico Finzi,
mosso da sincera «simpatia intellettuale per un ordine nel quale egli si riconosce[va] volentieri come giurista, cogliendone il carattere di lettura squisitamente risolta in termini di diritto della struttura socio-politica e delle
sue potenziali conflittualità»159. E pure una vivace dialettica si scorge tra
Betti, fascista convinto, storicista idealista e gregario del duce nelle sue missioni ma mai inserito in alcuna gerarchia del regime ed anzi emarginato dal
potere accademico, e de Francisci, anche lui fascista convinto ma per il
resto sostanzialmente l’opposto. E tuttavia Betti avrebbe sottoscritto di
buon grado le parole pronunciate dal collega sulla necessità di rovesciare
«questa benedetta autonomia della volontà privata», non solo nel ristretto
campo delle obbligazioni ma in ogni campo del diritto, «secondo lo spirito
e i fini della politica fascista»160.
Così ancora, per fare un altro esempio, è notissima la diversità di metodo e di carattere, il differente approccio verso il potere, l’acre rivalità accademica intercorrenti tra mossa, mai iscritto al PNF, e Asquini, in
posizione di vertice ancora nell’esperienza di Salò; eppure c’era un vasto
terreno comune nella ricerca di strutture e strumenti operativi e in fondo
le due visioni corporative convivevano e si integravano nell’azione del regime. In tale integrazione sta la chiave. La cultura del fascismo fu tutt’altro
Su questi orientamenti, un tempo assai in voga ma tuttora presenti nella storiografia,
si rinvia a I. STOLZI, Fascismo e cultura giuridica: persistenze ed evoluzioni della storiografia, in «Rivista di storia del diritto italiano», LXXXVII (2014), spec. pp. 263-264 e 283.
159
P. GROSSI, Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana 1859-1950, Giuffrè, milano
1986, p. 186.
160
P. DE FRANCISCI, Relazione al disegno di legge sullo Stato di previsione della spesa del Ministero
della giustizia per l’esercizio finanziario dal 1° luglio 1931 al 30 giugno 1932, cit. in C. LANZA, La
«realtà» di Pietro de Francisci, in I giuristi e il fascino del regime, cit. nt. 24, p. 218. È significativo
che in uno dei vari saggi in cui Betti sviluppò la polemica con l’allora ministro romanista
si appoggiasse all’autorità indiscutibile di mussolini (in particolare a un discorso tenuto
nel 1932) per affermare che «lo strumento idoneo [di conoscenza] può essere fornito solo
dalla dogmatica odierna, quale parte integrante inseparabile della stessa educazione intellettuale che ci siamo procurata come giuristi del nostro tempo» (E. BETTI, L’attuazione di due
rapporti causali attraverso un unico atto di tradizione (Contributo alla teoria della delegazione a dare)
(1933), ora in ID., Diritto Metodo Ermeneutica. Saggi scelti, a cura di G. Crifò, Giuffrè, milano
1991, p. 207).
158
79
I. BIROCCHI
che un blocco omogeneo nello spazio del ventennio ed entro i binari tracciati c’era una certa possibilità di movimento per «il persistere di memorie
culturali differenti – idealistiche, storicistiche, positivistiche – a nessuna
delle quali il fascismo poté rinunciare»161. Come è stato detto, il fascismo
giuridico ci appare «una galassia non meno frastagliata, mobile e talora contraddittoria del fascismo tout court, galassia all’interno della quale si sono
confrontate, scontrate o più semplicemente affiancate idee assai diverse sul
ruolo del diritto e dei suoi operatori»; senza tuttavia che per questa complessità venisse meno l’identità storica del fascismo e perciò la possibilità
di parlare di una cultura fascista162.
L’elegantissimo e posato Vassalli – gran sistematore, tessitore della legislazione postconcordataria e dei rapporti oltretevere, convinto assertore
della necessità di funzionalizzare gli istituti alla piega sociale del capitalismo
moderno – conviveva con i giovani radicalcorporativi Spirito e Volpicelli,
dai quali era certamente distante: e mossa, quasi isolato in Italia nelle simpatie per la scuola del diritto libero, trovava fertili occasioni d’incontro con
Betti che quella scuola non amava per niente (si sa che il cattedratico pisano
gli offrì ospitalità nella rivista che dirigeva e testimoniò a suo favore nel
procedimento di epurazione), al di là dell’amicizia risalente all’esperienza
giovanile di Camerino e mantenuta ben salda fino alla morte. Non sembra
provocatorio dire che nella sua assoluta eterogeneità il commercialista sardo
operò ancora ben addentro ai binari propri del giurista ‘interventista’ sotto
il regime: esperto tecnico su temi chiave della materia (l’impresa, la cambiale
e i titoli di credito), capace di colloquiare sia con i corporativisti d’assalto
sia con il collega d’Università Bottai, curioso e prensile rispetto alle discipline contigue, informatissimo sulle cose accademiche163, era un pesce entro
l’acqua164. Che sia stato scelto nella triade (con Asquini e Valeri) chiamata
a dirigere la Commerciale dopo la scomparsa di Sraffa e il ritiro di Vivante
non stupisce, pur essendo in frizione con potenti tesserati di partito e pur
mAZZACANE, La cultura giuridica del fascismo, cit. nt. 127, p. 11.
Così STOLZI, Fascismo e cultura giuridica, cit. nt. 158, p. 264 e cfr. p. 269 e 283. L’Autrice
rileva che anche i giuristi ‘militanti’ a loro volta appartenevano ad orientamenti variamente
articolati e tutt’altro che omogenei (p. 268).
163
Fama ricorrente (v. A.C. JEmOLO, Lettere a Mario Falco, I, a cura di m. Vismara missiroli,
Giuffrè, milano 2005, p. 417 alla data 17 ottobre 1922) e sempre puntellata da testimonianze, pur se aneddotiche (cfr. CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt. 90, p. 259, alla data 5 settembre 1940).
164
Nell’ambito corporativo ha di recente ribadito che le diverse posizioni di mossa, Enrico
Finzi, Cesarini Sforza e Arena avevano però anche una direttrice di convergenza STOLZI,
Politica sociale, cit. nt. 147, p. 280 ss.
161
162
80
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
covando amicizie socialiste165: la cultura del regime riuscì a far coesistere
tre personalità assai diverse, che nella libertà del 1945 si sarebbero inevitabilmente separate166.
Certo, nel nutrito gruppo di attivisti si notano anche emarginazioni,
come ci ricorda il dignitoso diario di mortara, scritto nel 1933 allorché all’indefesso giurista, già professore e magistrato, rimaneva solo la sua rivista
e l’avvocatura167; e tuttavia ci riappare subito l’immagine del ceto se pensiamo a quella rete fatta sì di amicizia, parentela, solidarietà israelitica ma
anche di scuola e in definitiva di professione del diritto, che univa lo stesso
mortara e Sraffa, D’Amelio e Sraffa, ancora Sraffa e Vivante, mortara e
Asquini, mossa e i due direttori della Rivista milanese, Sraffa e Bonfante,
Rocco e Asquini, Rocco e Sraffa, Bolaffio e Sraffa: di volta in volta tra loro,
ma in una trama pluridirezionale di cooperazione che dai rapporti personali
si estendeva all’attività giuridico-accademica. Che in quell’elenco esemplificativo Sraffa sia quasi costantemente presente non è un caso: personalità
singolare nell’impegno di insegnamento a Parma, milano Bocconi, Torino,
milano Statale, nell’opera di direzione-aggregazione della Rivista, nell’esercizio della professione forense, nella fondazione di una scuola e di un cenacolo intellettuale, nella scoperta di talenti, egli è però anche un tipico
protagonista di quel ceto che operò creativamente dapprima del tutto con
indipendenza e poi, costretto, entro l’alveo del regime168. Il ruolo di Sraffa
165
Per esempio Zerboglio, mai iscritto al PNF, di cui aveva sposato in seconde nozze la
figlia Vera. Le notizie su mossa sono ricavate da ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 330, fasc.
mossa Salvatore Lorenzo.
166
Nell’annata del 1945 della Commerciale manca la firma di Asquini, alle prese con l’epurazione, e sulla codificazione civile la rivista presentava un articolo critico di Valeri e due
aspri saggi ‘liberatori’ di mossa.
167
Nel 1923, è ben noto, mussolini varò il provvedimento per il pensionamento anticipato
che esautorò mortara dalla magistratura e consentì la promozione di D’Amelio a primo
presidente della Cassazione unica. Quanto al diario, si allude naturalmente al testo pubblicato da Satta: L. mORTARA, Pagine autobiografiche, in «Quaderni del diritto e del processo
civile», I (1969), pp. 39-65.
168
Sin dal 1922 furono diversi gli attriti e gli scontri col regime, che portarono alle dimissioni da rettore della Bocconi nel 1926 e che ne nobilitano la figura (ROmANI, «Bocconi über
alles!», cit. nt. 95, spec. pp. 160-166). Sono conosciuti i rapporti di amicizia tra il figlio
Piero (violentemente accusato dal duce di «disfattismo bancario» per un saggio pubblicato
nella rivista inglese di Keynes), i Rosselli e Gramsci e in particolare l’aiuto che il grande
commercialista, anche grazie al legame di parentela con D’Amelio, provò a dare al comunista sardo; ci si potrebbe chiedere come questo si conciliasse con l’amicizia sempre mantenuta con Rocco, principale artefice delle leggi eccezionali che colpirono tragicamente
Gramsci e il suo partito. La risposta riguarda la coscienza di Sraffa, comunque riconosciuto
81
I. BIROCCHI
mostra anche un ulteriore volto delle brutture del fascismo, di solito dimenticato perché ogni regime totalitario fa sparire dalla vista ciò che esso
emargina e perciò stesso tende a perdersi: quella ricchezza intellettuale che
il giurista toscano esprimeva così bene e che si estendeva, ad esempio, all’intensa cooperazione con il laboratorio di economia politica torinese (in
particolare con Luigi Einaudi e Attilio Cabiati) fu tarpata e poi annichilita
in nome appunto di una fascistizzazione che tutto doveva controllare e che
impose perciò di tagliare collaborazioni e mettere a tacere i pensieri liberi169.
Quanto all’argomento della neutralità e tecnicità della scienza giuridica,
con riferimento agli anni Trenta esso non era merce nuova. Dalla fine
dell’Ottocento la scuola italiana si era posta come artefice di sistemi costruiti con materiali depurati da contaminazioni estranee al diritto. La storia non veniva negata, ma stava al di fuori vivendo attraverso le
trasformazioni della dogmatica (che però, come detto, non perdette mai
una proiezione pratica); in particolare il metodo tecnico-scientifico affermatosi in campo penale contribuì ad accreditare una riduttiva fama tecnica
ad autentici primattori della scena intellettuale e, fatalmente, sociale. Nessuno, però, ha seriamente pensato di abbassare a mera attività logica la
funzione della giurisprudenza e del resto di Arturo Rocco – colui al quale
come polo antifascista da tutti coloro che entravano in contatto con lui, o per una collaborazione con la rivista o per un incarico alla Bocconi (v. A. SAPORI, Angelo Sraffa come l’ho
conosciuto, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni»,
XLIII [1945], pt. I, pp. 170-173); ma qui l’interrogativo è posto soprattutto per mostrare
che al di là delle differenti personalità individuali, ci fu un atteggiamento di ceto che finì
per instradarsi, talvolta controvoglia ma spesso con adesione convinta e fattiva, entro gli
indirizzi del regime. Si può pensare tipicamente alla figura di Vivante, non tanto perché
prese precocemente la tessera del PNF (1926), quanto per la simpatia di fondo con l’ideologia del corporativismo e per il favore verso la concentrazione dei poteri che manifestò
in tante proposte tecniche, a cominciare dal progetto di riforma delle società anonime, in
ciò aspramente attaccato da economisti liberali quali Cabiati ed Einaudi; l’adesione ai fatti
da sempre predicata dal maestro veneziano come canone della giuscommercialistica diventava adesione agli assetti strutturali dell’economia del regime (v. in proposito V. CARIELLO, «Un formidabile strumento di dominio economico». Contrapposizioni teoriche, ‘battaglie’
finanziarie e tensioni ideologiche sul voto potenziato tra le due guerre mondiali, in «Quaderni fiorentini», XLIV [2015], t. I, spec. pp. 541-561).
169
Fondato da Cognetti de martiis, quel laboratorio annoverò poi studiosi del calibro di
Giuseppe Prato, Achille Loria e Pasquale Jannaccone. In accordo con Bonfante e previa
intesa con Einaudi, Sraffa nel 1918 offrì a Cabiati un incarico di insegnamento, all’interno
di un vasto piano di riorganizzazione della Bocconi. La collaborazione con i due grandi
economisti dovette però interrompersi nel 1926, come pure dovettero prendere altre vie
i giovani allievi che si affacciavano allora agli studi (Raffaele mattioli, Carlo Rosselli, lo
stesso Piero Sraffa e, pur non economista, Piero Gobetti: v. R. mARCHIONATTI, Attilio Cabiati. Profilo di un economista liberale, Aragno, Torino 2011, p. 33 e passim).
82
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
è riconosciuto un ruolo di spicco in quella corrente metodologica – è stato
con ragione detto che «il tecnicismo, paravento di scientificità e apoliticità»
gli consentì di divenire il legislatore del tutt’altro che neutro diritto penale
fascista170. C’è però una variante dell’argomentazione sulla tecnicità della
scienza giuridica che, usata sottilmente dai protagonisti di allora, ha riscosso successo fino ai giorni nostri; essa è volta a nobilitare i suoi cultori,
presentati in fin dei conti come resistenti al regime. Il giurista sarebbe un
tecnico in quanto capace di distillare dalla storicità del diritto lo spirito e
le formule appropriate: non un’attività dipendente dalla politica, quindi,
bensì un ruolo neutro volto a tradurre in termini giuridici il portato ‘naturale’ dei rapporti economico-sociali in evoluzione. Due grandi come Filippo Vassalli e Piero Calamandrei l’hanno predicato a proposito del
proprio impegno nella fase finale dei lavori di codificazione avviata da
Grandi nell’estate 1939; e il fatto che l’uno fosse afascista e l’altro addirittura antifascista ha contribuito ad accreditare la tesi della neutralità della
scienza giuridica. Sia consentito perciò un excursus riguardante specificamente il loro coinvolgimento nell’opera legislativa del regime.
In entrambi c’era innanzi tutto una visione forte della legalità. Nel suo
abito mentale Vassalli era essenziale e privo di orpelli teorici. Parlava di
legalità come «criterio meramente storico»171; e dunque, par di capire, essa
non poteva avere gli stessi caratteri nel periodo liberale e nello Stato autoritario (alla sua generazione era appunto capitato di vivere in quest’ultimo). La legalità era un bene in sé e le condotte dei cittadini andavano
valutate secondo il sistema di legalità di volta in volta vigente, fosse pure
quella dell’ordinamento fascista. Come perno di un ordine nella certezza,
essa aveva un carattere statico e tuttavia occorreva riconoscere anche la
storicità del diritto, derivante da un complesso di spinte che salivano dal
mondo reale – dall’economia, dal sociale, dai costumi – e che chiedevano
di trovare uno sbocco normativo o interpretativo172. In tal modo il sistema
L. GARLATI, Arturo Rocco inconsapevole antesignano del fascismo nell’Italia liberale, in I giuristi e
il fascino del regime, cit. nt. 24, p. 207; ha notato che il metodo tecnico-giuridico poté al più
fornire uno strumento per il nicodemismo in campo penale SBRICCOLI, Le mani in pasta,
cit. nt. 5, pp. 1031-1033. Il dibattito sui concetti giuridici fiorito a cavallo tra gli anni Trenta
e Quaranta con la sua prevalente impostazione storicista smentisce subito la tesi che attribuisce alla dogmatica solo un impoverente valore logico (su quel dibattito cfr. DE GENNARO, Crocianesimo e cultura giuridica, cit. nt. 39, pp. 3-91).
171
VASSALLI, In tema di “epurazione”, cit. nt. 8, p. 6.
172
In generale P. GROSSI, Il disagio di un ‘legislatore’ (Filippo Vassalli e le aporie dell’assolutismo
giuridico) (1997), ora in ID., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Giuffrè, milano 2008, pp. 415444 e STOLZI, L’ordine corporativo, cit. nt. 54, pp. 278-299.
170
83
I. BIROCCHI
assumeva un carattere dinamico, nella continua e graduale assimilazione
del nuovo. Partito da posizioni piuttosto conservatrici nel primo dopoguerra – fedele allievo di Scialoja, Vassalli paventava che il diritto eccezionale immesso nel sistema per le esigenze belliche potesse diventare
coacervo di norme prive di ragione nelle condizioni di pace – l’impegno
continuo al fianco del legislatore lo rese uno dei più ascoltati giuristi durante il regime, con cui sostenne sempre di aver cooperato per affermare,
nel settore della propria competenza cattedratica, le ragioni evolutive del
diritto. Così, per riprendere un suo cavallo di battaglia, c’era stata una proprietà assoluta considerata atomisticamente come emanazione del soggetto in quanto tale – era la concezione dominante nei codici
dell’Ottocento – e una proprietà che teneva conto di una funzione sociale173; e questa ‘socialità’, proprio perché rispondeva alle esigenze dei
rapporti produttivi della modernità, non poteva che essere posta al centro
della riflessione dal giurista ‘tecnico’, indipendentemente dal suo operare
nell’ordinamento fascista o nella democrazia successiva.
Era però una ricostruzione fin troppo semplificata, che il giurista proponeva a posteriori174. Non certo neutra, per cominciare, fu la scelta dei
Era anche il tema della relazione svolta in occasione del convegno giuridico tenuto per
il decennale della marcia: F. VASSALLI, Il diritto di proprietà (1933), ora in ID., Studi giuridici,
cit. nt. 97, II, pp. 415-447. Applicato alla proprietà il sintagma ‘funzione sociale’ aveva allora una lunga storia ed era stato al centro della trattazione del saggio di Renner d’inizio
secolo, rivisto, sull’onda anche della recente esperienza costituzionale di Weimar e della
Carta del Carnaro, nel 1929 (ora in trad. ital.: K. RENNER, Gli istituti del diritto privato e la
loro funzione sociale, Il mulino, Bologna 1981). Da ultimo un’importante rivisitazione storica
è quella di A. IANNARELLI, Funzione sociale della proprietà e disciplina dei beni, in La funzione
sociale nel diritto privato tra XX e XXI secolo, a cura di F. macario e m.N. miletti, Roma TrEPress, Roma 2017, pp. 33-64.
174
Il pensiero giuridico di Vassalli poggia su un impianto storicista che fu sempre la sua
costante, dal primo ingresso negli studi con moriani alla successiva formazione con Scialoja, fino alla maturità e all’epilogo nel secondo dopoguerra. ma parrebbe opportuno
anche distinguerne le varie fasi, in relazione alla collocazione del giurista nelle diverse attività e ai suoi rapporti con le istituzioni. Lo si vede nel contatto venticinquennale con
Scialoja, in cui sembra da distinguere un periodo di apprendistato (all’incirca 1908-18) e
un altro di discesa in campo nella consulenza legislativa (ma sempre all’ombra del maestro);
negli impegni nel ventennio fascista, nel cui mezzo, in coincidenza con la scomparsa di
Scialoja, si nota un distacco dalle origini liberali e un coinvolgimento nei punti fondanti
dell’ideologia giuridica del regime; e naturalmente nel trapasso conseguente alla caduta
del fascismo, che produsse una crisi e un ripensamento – non fu evidentemente estraneo
l’impegno militante del figlio e di altri stretti familiari contro la dittatura – alla luce del
quale rivide gli itinerari precedentemente percorsi. A posteriori, e certo per autodifesa, il
giurista accreditò la costanza della propria impostazione ‘tecnica’ e la linea di continuità
del suo operato, come se non avesse pubblicamente plaudito l’ordine giuridico del regime.
173
84
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
commissari da parte del regime e niente affatto tecnico o necessitato fu il
risultato codificatorio nel suo subordinare alle esigenze dell’economia corporativa il diritto dei privati e nell’ammissione dell’equità – con i profili
discrezionali che ne derivavano fatalmente – a tutela del supposto interesse
pubblico175.
Parallelo ma certo diverso l’itinerario di Calamandrei, assai più tormentato per una sensibilità civile e politica messa in luce sin dalla gioventù e
dimostrata sia dalle sperimentazioni letterarie giovanili, sia dalla collaborazione a fogli e circoli antifascisti176. Quella sensibilità si proiettava anche
nello studio scientifico dedicato ai settori nei quali operava: l’avvocatura –
e il problema di Troppi avvocati, più volte trattato e non certo solo in termini
numerici, riguardava in generale il ruolo della professione –, l’Università e
naturalmente i variegati aspetti della giurisdizione. Erano interessi che si
possono definire ‘costituzionali’, svolti con accostamento storico-pragmatico (con ampio uso delle statistiche, per esempio) e con fermo richiamo
alle architetture fondanti dello Stato di diritto. Dal 1926 – antifascista notorio, essendo anche firmatario del manifesto Croce, e attivo nel circolo
fiorentino di Salvemini – rimase vivo essenzialmente solo il risvolto tecnico
della legalità. Quel che da allora unì i due percorsi paralleli di Vassalli e di
Calamandrei fu la concezione dinamica della rispettiva disciplina, giacché
entrambi insistevano sulla necessità di rinnovare profondamente gli impianti della codificazione ottocentesca: in particolare, con una accentuazione dei caratteri pubblicistici. È su questo punto che avvenne l’incontro
col programma del guardasigilli fascista.
Che nel 1939 Grandi si rivolgesse a Vassalli per il codice civile era quasi
scontato; lanciato in origine da Scialoja e ormai inserito nel pensatoio della
Sapienza, da più di venti anni il giurista lavorava ininterrottamente nelle
commissioni di riforma civilistiche essendone una sorta di memoria storica177. Costituiva invece una sorpresa che per la procedura civile il ministro
175
Punti articolati diffusamente da CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 16, spec. pp.
200-205, 223, 259, 263-264; ulteriori considerazioni in BIROCCHI, Emilio Betti, cit. nt. 132,
pp. 26-28.
176
È noto che Calamandrei fu interventista e fu tra i primi che entrò in Trento nel novembre del 1918. Già in cattedra, si era pure cimentato in prove letterarie.
177
Sotto questo profilo nemmeno Asquini gli stava alla pari, anche per la partenza in leggero ritardo dovuta alla più giovane età. Dal primo dopoguerra Vassalli gravitava nella capitale, dove aveva posto lo studio professionale e dove si riunivano le commissioni delle
quali era membro. Già nel 1926 era stato ventilato il suo arrivo alla Sapienza (lo rivela lui
stesso: VASSALLI, In tema di “epurazione”, cit. nt. 8, p. 9), ma evidentemente Scialoja alla fine
fece prevalere il criterio dell’anzianità (fu chiamato l’altro suo allievo De Ruggiero).
85
I. BIROCCHI
si rivolgesse, oltre che a Redenti e a Carnelutti – due membri usuali delle
commissioni di quel ramo del diritto –, a Calamandrei, che diventava così
‘legislatore’178: non un legislatore impersonale, bensì quello fascista. Il giurista ne fu lusingato e però certo la proposta accrebbe il suo tormento, che
era lo stato d’animo predominante già in precedenza. Le pagine del Diario
lo attestano. Erano fortissime e continue le pressioni che venivano dal rettorato e dai colleghi per iscriversi al PNF (avrebbe potuto approfittare della
decisione del partito di aprire le porte in modo generalizzato agli ex combattenti), ma anche persone amiche insistevano per entrare nei ranghi del
fascismo per lavorarvi dentro179. Con spirito scoraggiato Calamadrei scriveva della propria inutilità180. Estraneo al regime per scelta, si sentiva incompreso dai giovani e legato a un concetto di libertà che era solo il grido
di un isolato: «come non accorgersi che in questo clima gli uomini liberi
non possono che tacere?»181.
Il diarista non accenna neanche di sfuggita a come decise di accettare
la proposta di Grandi. C’è comunque una notazione, scritta mentre si accingeva a partire per la riunione romana della Commissione, il 17 dicembre
1939, che esprime sentimenti combattuti ed angosciati:
[U.P. rileva] che attraverso una transazione che ormai, nelle presenti condizioni, ha perduto ogni significato morale, si possono tenere posizioni
che gioveranno ad altri ed impediranno dolori e ingiustizie non nostre,
ma altrui (per es. rimanendo professore, ingiustizie nei concorsi) … Così
mi ha lasciato non già in dubbio sul da farsi; ma in preda all’odio sempre
178
Nel 1937 Calamandrei aveva scritto per la Facoltà fiorentina il parere in merito al progetto Solmi (al quale mosse rilievi critici): ma operava su un terreno dottrinale e, s’intende,
faceva largo uso di nicodemismo (così G. CIANFEROTTI, Ufficio del giurista nello Stato autoritario ed ermeneutica della reticenza. Mario Bracci e Piero Calamandrei: dalle giurisdizioni d’equità della
Grande Guerra al Codice di procedura civile del 1940, in «Quaderni fiorentini», XXXVII [2008],
pp. 273-274 nt. 64).
179
Inutile citare partitamente le tante pagine del Diario (a fine 1939 e poi nel 1940) sulle
pressioni (ricevute e respinte) per l’iscrizione al PNF. L’idea del fido Bracci di entrare nel
partito e lavorarci dentro si ricava da CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt. 90, p. 133, in data 16
dicembre 1939.
180
«Eppure che dovremmo fare? Non è possibile aderire, per agire nel fascismo: anche se
il nostro stomaco ce lo permettesse, vediamo per quotidiana esperienza come si sono
illusi coloro che hanno sperato di poter agire di dentro (per es. Gentile) mentre in realtà
non c’è che una testa che comanda e schiaccia chiunque vuol pensare con libertà. E allora,
rimanendo spiritualmente fuori, che cosa fare di utile?» (CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt.
90, p. 41, in data 15 maggio 1939).
181
Ivi, in data 14 maggio 1939.
86
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
più violento contro tutti questi assassini, che mettono i galantuomini in
queste torture182.
Lo sentiamo mentre provava «a salvare ancora questo piccolo frammento di sincerità che ormai m’è riuscito di mantenere per 18 anni, rimanendo fuori dal fascismo e non mettendomi finora nessun vestito da
maschera»183; e però si era convinto che come cattedratico della materia
non potesse rifiutare la proposta proveniente dal guardasigilli. Il nicodemismo sovveniva in difesa. Innanzi tutto, avrebbe agito da ‘tecnico’, ben
sapendo che il gerarca lo conosceva come antifascista e che tutto sommato
aveva l’interesse a presentare come tale il suo apporto. Quanto al risultato,
il ministro avrebbe potuto vantare di aver finalmente accantonato il vecchio codice liberale introducendo nel processo i punti fondanti del regime:
la centralità dell’interesse dello Stato, la speditezza del procedimento di
contro alle dilazioni interessate delle parti e di conseguenza la centralità
del giudice con correlativo incremento dei poteri. Dal suo canto Calamandrei accettava di buon grado la concezione pubblicistica del processo come
pure le misure di razionalizzazione fondate comunque sulla terzietà del
giudice e sul principio di legalità formale. Quest’ultimo fu il suo baluardo:
far leva sulla legalità poteva significare condizionare il regime attraverso il
codice che si sarebbe prodotto vincolando in particolare il magistrato a
sottostare alla normativa senza far ricorso alla teoria del ‘diritto libero’
che, in voga in Germania, concedeva ampi margini di discrezionalità al
giudice quale interprete della volontà del Führer184. Il giurista fiorentino
Ibid., p. 135, in data 17 dicembre 1939.
Ibid., p. 133, in data 10 dicembre 1939.
184
Ha ragione CIANFEROTTI, Ufficio del giurista nello Stato autoritario, cit. nt. 178, p. 284 e passim nel rinvenire nell’accettazione dell’incarico all’opera di codificazione da parte di Calamandrei anche la volontà di contribuire a sconfiggere la dottrina del diritto libero e il ruolo
del giudice svincolato dalla legge in auge tra i giuristi vicini al nazionalsocialismo. F. CIPRIANI, Una nuova interpretazione di Calamandrei, in In ricordo di Franco Cipriani, a cura di A
Filipponio e V. Garofoli, Giuffrè, milano 2010, p. 3 ss., ha rilevato che non si trova traccia
di questo nelle fonti coeve o precedenti, sicché sarebbe una interpretazione successivamente addotta dal giurista fiorentino e poi accolta dalla storiografia. In realtà le fonti sono
abbondantissime e testimoniano la notevole compattezza della dottrina italiana attorno
al principio di legalità, a cominciare ovviamente da Calamandrei e anche tra i giuristi più
vicini al regime (Betti e de Francisci, ad esempio). Sebbene non mancassero le posizioni
‘totalitarie’, come in Costamagna e maggiore, era quella l’aria che si respirava nella cultura
giuridica italiana (ne era espressione nitida, come al solito, il già ricordato D’AmELIO, La
vocazione del secolo, cit. nt. 16, spec. pp. 167-169). D’altra parte si può riconoscere che, proprio perché era diffusa l’avversione della dottrina ad attribuire poteri arbitrari al giudice,
Calamandrei non poteva ritenere indispensabile la propria presenza nella Commissione
182
183
87
I. BIROCCHI
aveva inoltre un’altra arma da giocare a proprio supporto: poteva affermare che non metteva a disposizione della dittatura una mera competenza
tecnico-individuale, bensì una tecnica irrobustita dalla storia, cioè depurata
dalle contingenze politiche e largamente condivisa nel dibattito disciplinare
e più in generale accolta dalla scuola italiana185. Da commissario avrebbe
dunque fornito una sorta di apporto corale e impersonale, perché risalente
alle acquisizioni della moderna processualcivilistica. Il ricorso all’autorità
scientifica di Chiovenda, addirittura plateale nella relazione al re scritta dal
giurista fiorentino e corretta poi da Grandi e dagli altri suoi fiduciari –
«una specie di gioco degli specchi. Difficile comprendere quando Calamandrei fosse sé stesso e quando si immedesimasse nel ministro»186 –, è
da ricondurre a questa chiave187.
Sono spiegazioni plausibili e furono effettivamente spese dal giurista
fiorentino, che però dovette anche fare i conti con la propria morale. Il
fatto è che aveva accettato di lavorare a un’opera cardine della legislazione
del regime e, al di là delle motivazioni che egli poteva addurre, la cooperazione in sé era un dato sconcertante. Lo incalzavano gli stupiti interrogativi
degli amici che condividevano il suo antifascismo, come Leone Ginzburg
per profondervi il proprio lavoro di «ortopedia» (così in una ben nota lettera del 5 novembre 1939): Carnelutti e Redenti o eventualmente qualche più giovane esponente della
processualcivilistica che fosse stato chiamato a sostituirlo non erano diversamente disposti.
Si trattava insomma di una giustificazione strumentale. Rimane valido il giudizio in proposito espresso da GROSSI, Stile fiorentino, cit. nt. 159, spec. pp. 157-158 nt. 75.
185
Come sempre si segnalava l’intervento a mo’ di consuntivo di m. D’AmELIO, Le tendenze
sociali del nuovo codice di procedura civile, in «Rivista di diritto processuale civile», XVIII (1941),
pt. I, pp. 3-13. Nella vastissima letteratura basti qui il rinvio a V. ANSANELLI, Contributo allo
studio della trattazione nel processo 1815-1942, Giappichelli, Torino 2017, pp. 161 ss. (per le
posizioni di Chiovenda fino al suo progetto del 1919) e 225 ss. (dal progetto Carnelutti al
codice del 1940); una sintesi dei principali problemi in A. CARRATTA, Funzione sociale e processo civile fra XX e XXI secolo, in La funzione sociale nel diritto privato, cit. nt. 173, pp. 127-128.
186
G. mELIS, A. mENICONI, Il professore e il ministro. Calamandrei, Grandi e il nuovo Codice, in
Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), a cura di G. Alpa, S. Calamandrei,
F. marullo di Condojanni, Il mulino, Bologna 2018, p. 153.
187
Non mette conto in questa sede addentrarsi sulle citazioni di Chiovenda nella relazione
al re e poi nella memorialistica e negli epistolari successivi (anche di Grandi): si rinvia a
CIANFEROTTI, Ufficio del giurista nello Stato autoritario, cit. nt. 178, spec. pp. 304-305 e 309.
Qui basti dire che l’uso del nome dell’antico maestro della Sapienza era palesemente strumentale e sul momento poté anche configurarsi come un azzardo, sia per il risentimento
che creò in Carnelutti, sia per l’avversione che esso poteva generare (come detto, Chiovenda era uno dei firmatari del manifesto Croce e da allora la sua autorità nella disciplina
era scemata, anche per il distacco da Scialoja). Per conferire autorevolezza scientifica al
codice bastavano i tre corifei della disciplina che intelligentemente Grandi aveva chiamato
all’impresa (l’unico vero allievo di Chiovenda era Redenti).
88
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
e Sandro Policreti188. Nella fase in cui accettò e svolse l’incarico non poteva
inoltre dare (e darsi) la motivazione che ex post poté avanzare – non poter
rifiutare di lavorare «a una legge che non era espressione di un regime, ma
di un cinquantennio di studi e che per questo si prevedeva destinata a sopravvivere al fascismo»189 – dal momento che quella legge era ancora da
fare e il risultato normativo e gli usi successivi erano ignoti e comunque
non in mano sua. Ancora, c’era un problema di ambiguità perché, come lo
stesso Calamandrei ebbe a dire nella famosa conferenza su Fede nel diritto
tenuta agli inizi del 1940, nel farsi legislatore il giurista tendeva a dismettere
l’abito critico per assumere sostanzialmente la veste del politico190. E per
la verità quest’ultimo punto da solo bastava a rendere traballante la ‘tecnicità’ della sua opera quale membro della commissione191.
In realtà, l’incarico era tutt’altro che una consulenza tecnica192. Il processualcivilista fiorentino sapeva di non poter separare il proprio apporto
dal contesto in cui operava: è vero infatti che qualunque teoria giuridica ha
senso e si commisura in relazione all’ordinamento entro cui si pone193. InRiferisce i dubbi di Sandro Policreti CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt. 90, p. 161, in data
14 marzo 1940; per quelli di Leone Ginzburg v. S. CALAmANDREI, Un Codice destinato a durare, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile, cit. nt. 186, p. 207.
189
È una lettera a Luigi Preti, del 14 febbraio 1955, molto nota alla storiografia: è riportata
da A. GALANTE GARRONE, Calamandrei. Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista
della nostra storia, Effepi libri, monte Porzio Catone (Rm) 2018, p. 217 e da mELIS, mENICONI, Il professore e il ministro, cit. nt. 186, p. 136.
190
In un sottile confronto dialettico col ministro Calamandrei riconosceva che «nel campo
dell’opera legislativa politica e diritto coincidono» (v. la lettera a Grandi, 20 febbraio 1940,
in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile, cit. nt. 186, Appendice documentaria,
pp. 275-276; cfr. mELIS, mENICONI, Il professore e il ministro, cit. nt. 186, p. 138 e CALAmANDREI, Un Codice destinato a durare, cit. nt. 188, p. 208). Nessun dubbio che il giurista fiorentino fosse cosciente del ‘salto’ intercorrente tra l’incarico politico/legislativo e gli spazi
dignitosamente percorribili sotto la dittatura («scrivere articoli sulle riviste giuridiche»):
assai nota la lettera a Bracci del 18 novembre 1938 (per tutti v. GALANTE GARRONE, Calamandrei, cit. nt. 189, pp. 218-219).
191
Era un rovello ed ebbe perciò a ritornarci immediatamente (P. CALAmANDREI, Il nuovo
processo civile e la scienza giuridica (1941), ora in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura
civile, cit. nt. 186, pp. 179-204, spec. 181-182).
192
Così anche CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 16, p. 231 nt. 69 e p. 259; cfr. STOLZI,
Fascismo e cultura giuridica, cit. nt. 158, pp. 277 e 282.
193
Sono parole di F. VASSALLI, Motivi e caratteri della codificazione civile (1947), ora in ID., Studi
giuridici, cit. nt. 97, III/2, p. 621, che uso però in altro senso rispetto a quello inteso dall’autore (si tratta del famoso testo che riproduceva un saggio pubblicato già nel 1942 ma
con le modifiche, non secondarie, suggerite all’autore dalle mutate condizioni politiche).
Espressioni di fuoco contro «la flotta dei giuristi conformisti e tecnici dell’autopompa»,
188
89
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nanzi tutto nella commissione non poteva essere messa in discussione la
leadership politica di Grandi, che peraltro masticava diritto per la laurea in
giurisprudenza e per l’antico esercizio dell’avvocatura e che nella commissione poteva contare sull’aiuto di magistrati scelti da lui stesso; inoltre parallelamente incombeva la riforma dell’ordinamento giudiziario (dalla quale
a breve sarebbe emerso un assetto che avrebbe subordinato ulteriormente
l’ordine giudiziario al regime: r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) nonché il nuovo
codice civile sicché il combinato disposto di questa legislazione non poteva che
rafforzare il progetto complessivo del fascismo194; infine la commissione
lavorava in uno Stato totalitario che non si sapeva per quanto tempo si sarebbe ancora protratto (nel Diario ci sono tante pagine che ripropongono
l’angoscia di una permanenza duratura), con la possibilità dunque di utilizzare a proprio piacimento il risultato legislativo servendosi anche di una
magistratura opportunamente sottomessa195. Situazione molto stretta, e Calamandrei splendidamente (l’avverbio viene spontaneo per riconoscere una
umanità vissuta fuori dai miti) lo riconosceva allorché in privato meditava
sulla conferenza appena tenuta su Fede nel diritto e dunque sul tema o piuttosto su quel cavallo di battaglia – la legalità – a cui si aggrappava da giurista
operante nella dittatura:
ma siamo poi nel vero a difender la legalità? È proprio vero che per
poter riprendere il cammino verso la «giustizia sociale» occorre prima
ricostruire lo strumento della legalità e della libertà? Siamo noi i precursori dell’avvenire o siamo i conservatori di un passato in dissoluzione196?
mentre cooperava con Grandi, Calamandrei dubitava appunto che la
la tecnica servile messa a disposizione del tiranno, l’investitura a compilare i codici «proveniente dall’alto di una arroganza nera sul basso di una spregevole esibizione» scrisse L.
mOSSA, Per il diritto dell’Italia, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle
obbligazioni», XLIII [1945], pt. I,, spec. p. 4 (il giurista sardo parlava di Facoltà trasformate
«in cori di salmi ed alleluja» per le opere giuridiche del regime e «tremanti e belanti ad
ogni muovere di ciglia» dei gerarchi).
194
L’immagine di combinato disposto è di CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 16, p. 233
nt. 69 e pare azzeccata.
195
In proposito l’ottica storiografica è spesso gravemente deformata dal fatto che guarda
ex post alla codificazione, sapendo dunque che questa fu tra gli ultimi atti di una dittatura
‘agonizzante’: al contrario, al momento in cui Grandi impostò i lavori e chiamò i collaboratori l’opera era progettata per consolidare il regime e anzi celebrarne il trionfo nel tempo.
196
CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt. 90, p. 149, in data 27 gennaio 1940 (citato anche da
GALANTE GARRONE, Calamandrei, cit. nt. 189, p. 220).
90
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
legalità formale potesse costituire un valore in un ordinamento dittatoriale
e si poneva il problema del passaggio da una legalità formale a una sostanziale197; è ben noto che, appena dopo la liberazione di Firenze, il corso di
Diritto costituzionale inaugurato nell’autunno 1944 sarà da lui dedicato a
definire questo passo. E sarà una svolta, un punto di discontinuità. Qui,
per concludere, occorre ritornare agli itinerari dei due giuristi emblematicamente impegnati nella codificazione. Nella loro comune affermazione di
aver dato un apporto tecnico che in fondo era solo il risultato storico a cui
era arrivata la propria disciplina le due posizioni non sono eguali soprattutto
perché il legame col potere era stato assai differente198; nel caso di Vassalli
attraversò tutto il ventennio e fu circondato da fiducia199. E tuttavia c’è una
cultura comune che, introitata la critica alle proiezioni liberali nel diritto,
esaltava gli aspetti pubblicistici (del processo, della funzione dell’avvocatura,
degli istituti privatistici) e si incanalava simpateticamente entro i binari dello
Stato mussoliniano200. Negli ultimi anni esse convergono, a riprova di un
197
Su questo travaglio, che denuncia la forte influenza crociana e che si svolge tra il 1938
e il 1943, belle pagine, poco sfruttate dalla storiografia, ha scritto DE GENNARO, Crocianesimo e cultura giuridica, cit. nt. 39, pp. 444-574.
198
m. ISNENGHI, Introduzione, in CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt. 90, p. XXXII ha assimilato
la posizione di Calamandrei a coloro che «hanno per anni circumnavigato il regime e non
ne sono stati né risucchiati né estranei». ma francamente, almeno con riferimento al
mondo dei giuristi e per l’arco complessivo del ventennio, questa assimilazione sembra
troppo severa: l’estraneità di Calamandrei pare assodata perché l’antifascismo del giurista
fiorentino era sincero, dichiarato apertamente e non solo attraverso l’adesione al manifesto
Croce e la mancata iscrizione al PNF. Non ebbe alcun incarico (fino all’offerta di Grandi)
e alcuna carica (nel 1923 rifiutò la proposta di avere la direzione generale dell’istruzione
universitaria: BELARDELLI, Il ventennio degli intellettuali, cit. nt. 25, pp. 5-6 e 36). I pericoli di
purghe e bastonature, nel Diario elegantemente riferiti solo ai suoi amici e conoscenti antifascisti, erano concretissimi anche per lui.
199
È notissimo che in numerose occasioni Vassalli rivendicò di aver svolto per circa un
quarto di secolo l’ufficio di legislatore, a partire dal primo dopoguerra (ad esempio VASSALLI, In tema di “epurazione”, cit. nt. 8, pp. 10-14; altre notazioni in GROSSI, Il disagio di un
‘legislatore’, cit. nt. 172, p. 418): prova vivente della realizzazione di quel compito di cimentarsi direttamente nell’opera di legislatore che Sraffa aveva indicato come indilazionabile
nel 1913 (v. § precedente), ma che naturalmente non era previsto svolgersi nelle condizioni
di una dittatura. Ha parlato degli anni Venti come una fase di avvicinamento di legislazione
e interpretazione, di momento astratto e concreto, derivante in particolare dalla penetrazione dell’idealismo crociano, A. SCIUmÈ, Croce e la cultura giuridica italiana degli anni Venti
del Novecento, in «Italian Review of Legal History», 2 (2017), n. 9, p. 24.
200
Per quanto riguarda Calamandrei, puntuale ed equilibrata l’analisi di A. CHIZZINI, Correnti del pensiero moderno e poteri del giudice civile nel pensiero di Piero Calamandrei: tre variazioni sul
tema (2010), ora in ID., Pensiero e azione nella storia del processo civile. Studi, Utet, milanofiori
Assago 2016, pp. 141-159.
91
I. BIROCCHI
agire come ceto all’interno del regime; e questo poté avvenire o spontaneamente (per convenienza o per convinzione ideologica), oppure per la
forza coattiva e l’accerchiamento ideologico della dittatura (nei confronti
di coloro che resistevano).
Guardata nel suo contesto, la fascistizzazione penetrò avvolgente e nessun argomento storicistico vale ad attenuarne la portata. Quale necessità o
quale portato storico sottostava alla norma che dichiarava decaduti i deputati antifascisti, o che imponeva la cancellazione dall’albo degli avvocati ‘antinazionali’, o che stabiliva la misura del confino per intere categorie di
persone (di nuovo, ‘antinazionali’)201?
Conviene ripetere: il regime prese forma, si mantenne e visse con il
contributo fondamentale dei giuristi e sarebbe far torto a Rocco e a manzini, a Vassalli e de Francisci, ad Asquini e Del Vecchio, a Bottai e Panunzio,
a Volpicelli e maroi, ad Arcangeli e Arias, a Solmi e Romano, a Cesarini
Sforza e a De marsico, a maggiore e Betti, a Ferrara e Cicu, insomma ai
capiscuola e ai colonnelli, sminuirli al rango di ‘operai’. Esso nacque sulla
forza ma divenne tale attraverso il diritto, che fu re-inventato – talvolta si
trattò di un ri-orientamento – permeando le istituzioni, la legislazione e la
cultura. Persino un giurista di antica formazione liberale come Luigi Rossi,
in virtù di un realismo che sentiva particolarmente vivo nel campo costituzionale, riconosceva sul finire degli anni Trenta che non poteva essere
teorizzata alcuna antitesi tra diritto e politica e che anzi quest’ultima poteva
anche fungere da modello per il primo202.
Sono norme contenute in tre complessi legislativi del 1926, di cui fu padre diretto Alfredo Rocco col sostegno della scienza penalistica: rispettivamente quello per il riassetto
della professione di avvocato (che in realtà si articolò in una normativa in progress: la legge
25 marzo 1926 n. 453, il regolamento del 26 agosto 1926 e il regio decreto del 6 maggio
1926 n. 747) e quelli emanati a seguito dell’attentato Zamboni: l’ordine del giorno presentato alla Camera da Augusto Turati, 9 novembre 1926, e votato dall’assemblea per la
decadenza dei deputati non fascisti e il testo unico di pubblica sicurezza (r.d. 6 novembre
1926 n. 1848) per il confino. Nella sua triplice qualità di avvocato, deputato aventiniano e
esponente ‘antinazionale’ ne fu destinatario, ad esempio, Emilio Lussu, che ha lasciato pagine memorabili sulla ‘storicità’ e ‘neutralità’ dei provvedimenti ricordati. Nei suoi confronti l’irragionevolezza del decreto di cancellazione all’albo è stata in qualche modo
acclarata, dopo l’avvento della Repubblica, dalla dichiarazione di nullità, con effetto ex
tunc e con conseguente riammissione all’albo, da parte dell’Ordine degli avvocati di Cagliari
(1949). Per riparare il confino a Lipari (dal novembre 1927) non intervenne invece alcun
ristoro istituzionale: l’interessato tuttavia mise in atto un rimedio fai da te (la clamorosa
fuga del luglio 1929, con Carlo Rosselli e Fausto Nitti). Dettagli in I. BIROCCHI, Emilio
Lussu giurista (1910-1927). La formazione giovanile, la concezione autonomistica e l’esercizio dell’avvocatura, Editoriale scientifica, Napoli 2020, pp. 185-203.
202
Cfr. LANCHESTER, Momenti e figure, cit. nt. 56, pp. 11 ss. e 19 ss. e P. RIDOLA, Sulla fonda201
92
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
L’atteggiamento dei giuristi verso la legislazione razziale dice tutto. Per
fortuna i fanatici non furono in maggioranza, ma si coagulò comunque una
vasta cultura ufficiale – le relazioni annuali dei rettori della fine del 1938
sono eloquenti nel manifestare appoggio o addirittura entusiasmo203 – che
complessivamente nuotava in quella «immensa palude abitata da figure silenti», la quale accettò la discriminazione razziale nel comportamento pubblico mentre tutti i colleghi ebrei la subivano204. Con le debite eccezioni nel
mondo del diritto prevalse l’ideologia del regime totalitario con l’assorbente
supremazia dello Stato e la sottomissione dei diritti fondamentali individuali, ora anche in omaggio alla ragion di razza e di famiglia205. Tutt’altro
zione teorica della «Dottrina dello Stato». I giuspubblicisti della Facoltà romana di Scienze politiche
dalla istituzione della Facoltà al 1943, in Passato e presente delle Facoltà di Scienze politiche, a cura
di F. Lanchester, Giuffrè, milano 2003, pp. 124-125.
203
Impressionante il quadro tracciato da G. CIANFEROTTI, Le leggi razziali e i rettori delle
Università italiane (con una vicenda senese), in «Le carte e la storia», 2004/2, pp. 15-28: numerose
anche le espressioni di acquiescenza di maestri del diritto, soprattutto in nt. 19. Ci furono
tuttavia giuristi dissenzienti e taluno in singole manifestazioni tenne anche comportamenti
conseguenti (v. ad esempio la testimonianza del futuro rabbino Elio Toaff, iscritto alla Facoltà giuridica pisana nel 1936, sulla possibilità di preparare la tesi di laurea grazie all’offerta
di mossa e sulla relativa discussione in sede di esame: PELINI, PAVAN, La doppia epurazione,
cit. nt. 56, p. 103); ma per lo più il dissenso (anche quando operò concretamente a favore
di qualche perseguitato) non si manifestò pubblicamente sicché all’esterno permanevano
tutti i segni dell’adesione culturale alla politica del regime.
204
Fondamentale S. GENTILE, La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella
prospettiva storico-giuridica (1938-1945), Giappichelli, Torino 2013, spec. pp. 15-111 per gli
atteggiamenti della dottrina e 9-13 per i concetti espressi nel testo (citaz. a p. 10). È vero
comunque che la legislazione del 1938, il forte avvicinamento a Hitler e la guerra iniziata
non molto dopo indussero crisi di coscienza e talvolta a un deciso impegno antifascista:
è il caso di Jemolo (cfr. C. FANTAPPIÈ, Arturo Carlo Jemolo. Riforma religiosa e laicità dello Stato,
morcelliana, Brescia 2011, p. 65 e ID., Il conflitto delle fedeltà, cit. nt. 120, p. 182), Calamandrei,
Bobbio (N. BOBBIO, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 47
ss.), Calasso (v. il ricordo degli anni 1938-40 in N. BOBBIO, La mia Italia, Passigli, Firenze
2000, p. 358), Greco (ibid., p. 337, A. GALANTE GARRONE, [Testimonianza], in Maestri della
Facoltà di Giurisprudenza torinese: Paolo Greco, Giuffrè, milano 1991, pp. 12-15 e G. COTTINO,
Greco, Paolo, in DBGI, I, pp. 1062-1063); questi stessi fatti poterono anche indurre la scelta
della militanza partigiana armata (è il caso, ad esempio, dei giovani Giuliano Vassalli ed
Ettore Gallo).
205
Si sa che spesso la ‘tutela della razza’ era collegata alla ‘salvaguardia della famiglia’ per
la concezione antiindividualistica e organicistica che permeava il diritto fascista (GENTILE,
La legalità del male, cit. nt. 204, p. 91 nt. 447, p. 322 e passim; TREGGIARI, Questione di stato,
cit. nt. 8, spec. p. 840). Quanto a quest’ultima si può citare la normativa (25 febbraio 1939,
n. 335) che, per incrementare le nascite, subordinava la presa di servizio da parte dei vincitori di concorso pubblico alla condizione di essere sposato o, in alternativa, imponeva
di contrarre matrimonio entro due anni, a pena di perdere il diritto. Penosa la lettera inviata
al duce (Cosenza, 1° settembre 1941) dal penalista Francesco Alimena, vincitore di con93
I. BIROCCHI
che un orpello, questo fu il nucleo generalmente condiviso, che agli inizi si
proiettò soprattutto nella materia costituzionale e penale e poi in quella
maggiormente legata al vivere civile. Non interessa qui parlare delle responsabilità morali, che comunque sono sempre individuali e sono poi del tutto
assenti quando il regime si pose e fu avvertito come avversario sovrastante206; importa piuttosto rilevare la funzione complessiva del tessuto giuridico, entro cui è dato trovare in posizione attiva gli ideatori e gli architetti,
gli ideologi, i divulgatori, gli esecutori e i facilitatori che dissero di non aver
visto dopo che si erano voltati dall’altra parte per non vedere207.
Nel 1947 Jemolo, tormentato e pensoso come sempre, di fronte a un
pubblico di studenti e di colleghi si intrattenne sul tema dell’impassibilità
del giurista, che può essere una forma di difesa, talvolta di nobile distacco,
ma può essere anche una forma di ignavia208. Difficile, per un giurista, farsi
scudo dell’impassibilità escludendosi dalla storia, ovvero dal suo ruolo
nella vita sociale209. L’ecclesiasticista romano ci dice che non gli si può
corso nel 1939 ma senza poter prendere servizio perché celibe («Poiché la legge [sopra
citata, art. 1] mi dava due anni di tempo, mi detti subito da fare per contrarre matrimonio
e così adempiere al mio dovere verso la nazione. La verità di ciò può essere accertata attraverso indagini»): il giurista era costretto a spiegare i motivi per cui non era riuscito a
sposarsi e chiedeva una proroga (ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale
Istruzione Universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie, b. 8, fasc. Alimena Francesco).
206
Lapidario ed efficacissimo Calamandrei che, parlando della decadenza degli intellettuali,
non solo rilevava la mancanza di libertà causata dalla dittatura, ma anche l’assenza di sete
di libertà in chi nel regime era costretto a vivere (CALAmANDREI, Diario. I, cit. nt. 90, p. 50,
alla data 2 giugno 1939).
207
Forti e ben provvedute, per il settore penale, le considerazioni di SBRICCOLI, Le mani in
pasta, cit. nt. 5, pp. 1031-1034, che così conclude: «[Nella fase fascista] le responsabilità
della trasmutazione del sistema penale furono politiche e culturali, non metodologiche.
Responsabilità primarie dei penalisti egemoni, che avevano direttamente partecipato alle
scelte e dato loro organica forma giuridica, mettendo la loro sapienza al servizio di un disegno che evidentemente condividevano. Responsabilità piene dei penalisti militanti che
condividevano, lodavano, propalavano. Responsabilità derivate per tutti gli altri che, variamente appiattiti dietro un metodo che glielo consentiva, pur nella presenza di qualche
discussione ‘cifrata’, che manteneva accesa una piccolissima fiammella di penale civile, si
posero comunque a gestire scientificamente quella legislazione ed i suoi ricaschi sulla
scienza, facendo consistere la loro presa di distanze nel solo fatto di non tesserne le lodi»
(pp. 1033-1034).
208
A.C. JEmOLO, Confessioni di un giurista, Giuffrè, milano 1947, pp. 13-15. Il passo è commentato anche da mONTAGNANI, In «difesa» di Tullio Ascarelli, cit. nt. 120, p. 625 nt. 12.
209
Nel 1925, in un dolente e sconfortato frammento autobiografico dello stesso Jemolo
(«Il presente non potrebbe essere più nero: tutto quello che ci sembrava impossibile si verificasse si è verificato: un assetto politico ove alla libertà è fatto minor posto che non ne
abbia mai fatto altro assetto, ove il soffocamento del cittadino è maggiore che non sia mai
94
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
chiedere di essere un eroe nelle dittature, ma sembra aggiungere che almeno è legittimo attendersi che il giurista non presti man forte. Questa
impassibilità, del tutto aliena dalla condivisione e certo espressiva di forte
coraggio civile, sarebbe stata necessaria e sarebbe suonata come una condanna del regime210.
Amarissime e sferzanti nel 1936 le parole di Lussu, il quale pure era
propenso a ritenere che l’intellettuale non costituisse una categoria omogenea ed invece entrasse in considerazione solo nella sua dimensione individuale: i professori universitari avevano spesso usato i loro privilegi di
status per separarsi o nascondersi olimpicamente, ma nel complesso, dal
punto di vista dell’opposizione al regime, la loro «saggezza» aveva fatto fallimento ed anzi non si era proprio manifestata211. E Francesco Flora, il
grande letterato crociano che aveva rifiutato di inchinarsi al potere in cambio della cattedra, nel 1943 puntualizzò il significato della presunta autonomia del letterato chiuso in una torre d’avorio:
Altri credettero talvolta, o vollero illudersi, d’essere machiavellici contro
i grossi padroni: e appunto non s’accorgevano che le concessioni a cui
eran costretti li contaminavano proprio in quel gioco, sicché essi ne rimanevan vittime quando eran poi forzati a quei più bassi servizi di cui
risentivano l’umiliazione. Torre d’avorio? Troppe volte essi ne uscivano
per dare incenso ai padroni e per dare biada al loro stomaco212.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’analisi realistica e senza sconti, ma pur
non priva di misericordia, allargata ‘all’uomo tradizionale’ del Satta del De
stato, ove non v’è posto per voci che non siano di plauso […]») si coglie forse l’illusione
che la chiusura rispetto al sociale fosse possibile, come forma di difesa di fronte alla forza;
ma i segni indicano che il cattedratico bolognese sentisse l’inanità e la responsabilità della
propria scelta (il frammento, 21 novembre 1925, è molto spesso citato: è pubblicato in
Lettere di Ernesto Buonaiuti ad Arturo Carlo Jemolo (1921-1941), a cura di C. Fantappiè, introduzione di F. margiotta Broglio, ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale
per i beni archivistici, Roma 1997, pp. 244-247, citaz. a p. 244; un commento in FANTAPPIÈ,
Il conflitto delle fedeltà, cit. nt. 120, p. 178).
210
Ipotizza una spiegazione sulla caduta di questo ‘spirito civile’ in Jemolo negli anni
Trenta (e più precisamente forse tra il 1927 e il 1938) FANTAPPIÈ, Il conflitto delle fedeltà, cit.
nt. 120, p. 180.
211
E. LUSSU, Teoria dell’insurrezione, ora in ID., Tutte le opere. 2. L’esilio antifascista 1927-1943.
Storia e milizia, a cura di m. Brigaglia, Aìsara, Cagliari 2010, p. 449.
212
F. FLORA, La dignità della cultura, cit. L’intervento di Flora è meritatamente famoso.
Ampi brani sono stati riportati da R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Feltrinelli, milano 1962, pp. 378-380.
95
I. BIROCCHI
profundis – si sa, scritto tra il giugno del 1944 e la Liberazione, ma rifiutato
da parecchie case editrici prima che finalmente trovasse pubblicazione
presso l’editore giuridico del processualcivilista sardo –:
È probabile che molti degli italiani che prestarono ossequio ai nuovi venuti, guardandosi nello specchio con una certa indulgenza, non riescano
a scoprire nel loro volto il marchio della bestia, e trovano che la cupa
rassegna ora compiuta non li riguarda. È questo il gregge di coloro che
accettarono la servitù per non morire, i servi de danno vitando, che vorrebbero contrapporsi ai servi de lucro captando, e rivendicare nei loro confronti una certa purezza. Si può forse concedere che, secondo la casistica
del suo codice, questa gente che continuò a recare nel cuore la nostalgia
di una libertà che non aveva avuto il coraggio di difendere (provando
così che essa non era vera libertà) meriti qualche attenuante: ma forse
nessuno più di questi servi reca le stimmate dell’uomo tradizionale, e
vanamente essi cercano di sottrarsi al giudizio della storia213.
È il romanzo – si sa anche questo – in cui il giurista che più ha meditato sul valore risolutivo del giudizio chiedeva all’uomo, e non solo al borghese o ‘uomo tradizionale’, di fare i conti con se stesso all’indomani del
ventennio.
Parole tormentate e parole aspre di alcuni testimoni di quei tempi. A
Flora rendeva omaggio Calamandrei allorché, nello stesso anno della poc’anzi richiamata conferenza di Jemolo, commemorava Chiovenda nel decimo anniversario della sua scomparsa: fu l’occasione per ricordare coloro
che non si erano piegati alla dittatura214. È significativo che nell’elenco di
Calamandrei, pur semplicemente esemplificativo, non figurasse alcun giurista. Il processualcivilista fiorentino comunque aggiungeva che tra il
gruppo di intellettuali antifascisti meritava di essere annoverato anche ChioS. SATTA, De profundis, a cura di R. Bodei, Ilisso, Nuoro 2003, p. 71. Il libro è rilevante
per molti spetti toccati nel presente saggio (ad esempio, per il rifiuto della tesi del fascismo
come parentesi storica: p. 62): si rinvia alla Prefazione del curatore e a I. BIROCCHI, E. mURA,
Satta, Salvatore, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, XC, Roma 2017, pp. 714-720 (per i problemi incontrati per l’edizione del De profundis:
p. 717).
214
«La stessa missione che durante il ventennio esercitò dal suo vertice Benedetto Croce
in tutti i campi del pensiero, di tener aperti gli scambi dello spirito tra l’Italia e il mondo
civile e di attestare al mondo la presenza ininterrotta della civiltà italiana, fu adempiuta
entro più limitati campi di studio, da uomini come Omodeo, De Ruggiero, Calogero, marchesi, Pancrazi, Flora» (P. CALAmANDREI, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937 - 5 novembre
1947), in ID., Opere giuridiche, X, cit. nt. 112, p. 262).
213
96
L’INTEGRAZIONE DELL’UNIVERSITà NELLO STATO TOTALITARIO
venda, che sappiamo discriminato dal regime e perciò appartato215.
Per il tema che qui è stato svolto, al termine degli anni Trenta il provvedimento, ricordato all’inizio, di chiusura della Critica di Croce suggerisce
una riflessione finale. Come sappiamo, esso fu revocato dal governo dopo
la reazione del filosofo. Nessun dubbio che questi era una personalità eminente e anzi unica, ma l’ambiente filosofico seppe anche dare una testimonianza corale di sé in quel congresso milanese del 1926 in cui i partecipanti,
presente anche Croce come relatore, quasi all’unanimità levarono le loro
voci – innanzi tutto quella del presidente Piero martinetti e quella di Francesco De Sarlo, stentorea nel suo antifascismo – per il libero pensiero della
scienza, per l’indipendenza dal potere216. E puntuali furono gli echi tra l’intellettualità che combatteva il regime217.
Niente di tutto questo nel mondo giuridico di quegli anni218. È un segno,
a contrario, che quel mondo operava come intellettuale organico del regime219.
V. supra, § 6.
Il congresso (marzo-aprile 1926) fu interrotto per ordine del regime. Le relazioni sono
state raccolte e ne è stata ricostruita la storia: Filosofi antifascisti. Gli interventi del congresso milanese della Società filosofica italiana sospeso dal regime nel 1926, a cura di F. minazzi, mimesis,
milano-Udine 2016. Di particolare interesse per il diritto (concezione dello Stato, rapporto
tra diritti del cittadino e potere) e ferma nel rivendicare l’autonomia universitaria nell’elezione delle cariche e la libertà della scienza, quella di F. DE SARLO, L’alta coltura e la libertà,
ivi, pp. 333-362 (dopo l’accesa polemica sul piano filosofico intercorsa con Croce nel
1907, l’autore si era riavvicinato al filosofo napoletano, sicuramente anche in nome del
comune schieramento antifascista): il suo intervento, applauditissimo, scatenò la rabbia
fascista – lividi Gentile e mussolini – e provocò la chiusura anticipata delle assise.
217
V. la lettera di Carlo Rosselli alla madre, Genova 13 aprile 1926, in I Rosselli. Epistolario
familiare 1914-1937, a cura di Z. Ciuffoletti, mondadori, milano 1997, p. 291 (Rosselli, pupillo di Attilio Cabiati e Luigi Einaudi e amico di Piero Sraffa, aveva allora un incarico di
insegnamento a Genova ed era assistente alla Bocconi).
218
Si spiegano le parole di un giurista-testimone: «mai come negli anni tra il 1929 e il ’42
Croce e la sua Critica furono il filo di luce che impedì a tanti italiani di vacillare» (JEmOLO,
Anni di prova, cit. nt. 79, p. 166).
219
Così, riferito alla civilistica, CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 16, p. 224. Usa questa
espressione con riferimento al legame che unì Arias al regime fascista OTTONELLI, Gino
Arias, cit. nt. 100, pp. 277-278. Il recentissimo saggio di C. STORTI, Una costituzione per il
regime? 1940: lo scoppio della guerra e del conflitto tra partito fascista e scienza giuridica, in «Giornale
di storia costituzionale», 39 (2020), pp. 143-172 esprime la tesi che la dottrina giuridica
«era riuscita a costruire intorno ai lavori legislativi una sorta di ‘cordone sanitario’, che le
aveva consentito, infine, di mantenere saldo nelle sue mani il controllo sulla codificazione
e sulle fonti del diritto» (p. 162); ma mi sembrerebbe che le posizioni della scienza giuridica
(pubblicisti, ma anche civilisti come Betti e Funaioli) analizzate dall’Autrice si muovessero
tutte entro gli spazi tracciati dalla politica del regime, con la dialettica di proposte su cui il
presente saggio ha insistito e che gli eventi bellici contribuirono ad accentuare.
215
216
97
Saverio Gentile
Fascismo e riviste giuridiche.
Il caso de ‘Il Diritto fascista’ (1932-1943)
S OmmARIO : 1. Il regime e le riviste giuridiche – 2. Il Diritto fascista. Rivista
di studio e commento delle leg gi fasciste nella dottrina e nella giurisprudenza a) I
protagonisti: Bernardo Pirro, (soprattutto) Corrado Petrone e Salvatore
Foderaro – b) I rapporti con il Regime – c) La fondazione nel decennale
della marcia su Roma: il programma ed i collaboratori – 3. Gli itinerari
dottrinali e le polemiche a) La ricerca dell’autonomia scientifica (e didattica) del diritto fascista e dei relativi Princìpi fondamentali – b) Il referendum di Petrone e l’idea della creazione dell’Istituto di diritto Fascista
– c) «Contro le mummie liberali, afasciste e, talvolta, addirittura antifasciste»: il
coinvolgimento dei giovani – d) L’eterno ritorno ovvero la questione
del ‘metodo giuridico’ – 4. Nelle nebbie fitte dell’autosuggestione: «si
può ben dire che il regime corporativo sia uscito rafforzato dalla guerra»
– 5. Appendice documentaria
1. Il regime e le riviste giuridiche
Un regime necessita per sua natura di eroi e di nemici, di leggi repressive, di apparati polizieschi, di sicofanti, di adunate oceaniche (spontanee
o meno). Necessita di violenza, pensata minacciata e attuata. Necessita, ancora, di intellettuali – veri o presunti – e di giornali. Un giornale, quotidiano
o periodico che sia, rappresenta ‘fisicamente’ una scelta, ed un’opzione, intellettuale, culturale, ideologica, filosofica e politica, soprattutto. La carta
stampata allora (anche) come formidabile strumento di potere: questo
aspetto al fascismo fu da subito ben chiaro e presente. La stampa periodica
specializzata, similmente intesa, rappresenta e costituisce uno spaccato di
eccezionale, e singolare, rilevanza per concorrere a decifrare un’esperienza
quale quella fascista che ancora molto, forse anche più di quanto non si sia
ritenuto, ha da offrire agli studiosi in genere ed agli storici del diritto in specie1. Una Rivista infatti è espressione, primariamente, di un’operazione cul1
Per una ragionata ricognizione di contributi rientranti nella prospettiva che ho assunto
99
S. GENTILE
turale (e politica) attraverso cui addivenire a risultati politici (e culturali)2.
E allora mi pare lecito asserire che le stesse costituissero per il regime un
mezzo cui ovviamente ricorrere: non a caso si è, efficacemente, definito
«quello fascista come il ‘Ventennio delle riviste’3». Era nelle cose infatti che
nell’approntare mezzi e strumenti per dar forma ai propri progetti, non di
rado anche confusi e incerti, ed alle proprie ambizioni e velleità, ci s’appellasse ad un tale strumento4. ma non un semplice e modesto, ancorché dignitoso, pedone, ché i periodici ebbero l’ambire d’esser altro. Il regime,
piuttosto, (anche) per il loro tramite, mosse le sue torri e i suoi alfieri. Si
trattava di un quid certamente acconcio a spalleggiare, lo si ammetta pure,
ad aiutare, quando non a soccorrere, il fascismo nel suo continuamente
rinvio a I. STOLZI, Fascismo e cultura giuridica. Persistenze ed evoluzioni della storiografia, in «Rivista
di Storia del Diritto Italiano», LXXXVII (2014), pp. 257-285.
2
Ha rimarcato il molto significativo rilievo proprio delle riviste giuridiche P. GROSSI in La
‘cultura’ delle Riviste giuridiche italiane, a cura di P. Grossi, milano 1984. Ancora, il medesimo
autore – nella Premessa a Periodici giuridici italiani (1850-1900) Repertorio, a cura di C. mansuino,
milano 1994, p. V − ha poi richiamato «all’attenzione di tutti i giuristi un tema – quello dei
periodici giuridici – di rilevanza centrale per la storia del pensiero giuridico moderno, ma
ancor oggi sostanzialmente poco conosciuto. Si tratta di un ampio continente culturale,
ancora per buona parte sommerso». Tra le non poche iniziative promosse in materia dallo
studioso fiorentino rinvio alla pubblicazione dell’interessante numero dei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XVI (1987), interamente dedicato
alle Riviste giuridiche italiane (1865-1945). Utile lo studio condotto da A. COLZI e O. ROSELLI,
Le riviste giuridiche dal 1943 al 1948 e la trasformazione costituzionale dello Stato: ricerca bibliografica,
in Verso la nuova Costituzione. Indice analitico dei lavori della Assemblea Costituente. Spoglio sistematico
delle riviste giuridiche dell’epoca, a cura di U. De Siervo, Bologna 1980, pp. 99 ss. Interessanti
(e generali) annotazioni possono leggersi in S. CASSESE, La ‘cultura delle riviste’, in «materiali
per una storia della cultura giuridica», IV (1974), pp. 703-717.
3
G. BELARDELLI, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, RomaBari 2005, p. 87. Poco oltre (p. 91) l’autore indica Roma come la «capitale delle riviste» in
considerazione delle numerosissime iniziative editoriali che colà si avviarono. Risulta sempre da considerare che «nel contesto più ampio del progetto di organizzazione del consenso, la politica culturale fascista individuò proprio nelle riviste uno dei luoghi dove essere
elaborata e, al tempo stesso, organizzata» (così A. VITTORIA, Le riviste del duce. Politica e
cultura del regime, milano 1983, p. 7). Più in generale, rinvio a G. mANACORDA, Letteratura e
cultura del periodo fascista, milano 1979; La stampa italiana nell’età fascista, a cura di N. Tranfaglia,
P. murialdi, m.Legnani, Roma-Bari 1980; G. TURI, Il fascismo e il consenso degli intellettuali,
Bologna 1980; L. mANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Torino
2002; A. VENTURA, Intellettuali. Cultura e politica tra fascismo e antifascismo, Roma 2017.
4
Certamente da stimarsi da un lato quale «lo strumento più snello e agile attraverso il
quale dar corpo alla ‘dogmatica nuova’» e dall’altro come «il mezzo privilegiato per conferire dignità scientifica a quegli specialismi che, come ad esempio il diritto corporativo,
aspiravano a costituire i nuovi rami del ‘diritto fascista’» (S. FALCONIERI, La legge della razza.
Strategie e luoghi del discorso giuridico fascista, Bologna 2011, pp. 155-156).
100
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
operare al fine di pensarsi, e ripensarsi, nella non segreta speranza di una,
e definitiva, affermazione scientifica e culturale volta pure a contribuire alla
«educazione morale-giuridica degli italiani» reputata alla stregua di «uno dei
problemi fondamentali dello Stato fascista»5.
Nel quadro di un rinnovato interesse per lo studio sub specie iuris del
fascismo6, intendo con questo contributo – giovandomi anche dell’individuazione e dello studio di documentazione rinvenuta presso l’Archivio
Centrale dello Stato – illustrare la genesi i motivi e i caratteri de Il Diritto
fascista, un periodico su cui – ad oggi – non si era ancora accesa la fiaccola
dell’attenzione da parte degli studiosi7. Una rivista in orbace, certamente,
in quanto funzionale ai desiderata del regime, e con esso anzi indefettibilmente e quasi militarmente solidale, ma comunque un foglio «laboratorio»
con un autonomo «progetto in azione»8, in cui impegnarsi a leggere i segni
dei tempi (nuovi) ed a declinare in proposte e norme paradigmi teorie e
concezioni non di rado sì astratte da apparire fumose. Un «laboratorio»
di «puri» nel senso che i suoi Direttori, anzi animatori, mi appaiono genuinamente e sinceramente impegnati a cercare una via tutta fascista al
diritto. Beninteso con il fez calcato sul capo9.
Proprio da costoro avvio la mia indagine.
5
V. mONTEFUSCO, Problemi del Diritto (stampa e propaganda), in «La Vita italiana», LIII (1939),
p. 474. Di qualche interesse è P.m. BARDI, I periodici del fascismo (contributo a una storia del giornalismo), Bologna 1932 che si presenta quale «rassegna delle pubblicazioni periodiche del
fascismo».
6
Penso, a titolo di esempio, a lavori quali Il diritto del Duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di L. Lacchè, Roma 2015 e I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di
I. Birocchi, L. Loschiavo, Roma 2015, ma anche allo studio di m. CARAVALE, Una incerta
idea. Stato di diritto e diritti di libertà nel pensiero italiano tra età liberale e fascismo, Bologna 2016.
A. mAZZACANE, La cultura giuridica del fascismo: una questione aperta, in Diritto, economia e nell’Italia fascista, istituzioni, a cura di A. mazzacane, Baden-Baden 2002, pp. 1-12 aveva ben
rilevato i ‘ritardi’ della storiografia giuridica in materia, solo in parte recuperati negli ultimi
tre lustri.
7
Tra i fogli di regime Lo Stato di Costamagna ha certamente richiamato maggiormente
l’attenzione degli studiosi. Rimando per tutti, a m. TORALDO DI FRANCIA, Per un corporativismo senza ‘corporazioni’: «Lo Stato» di Carlo Costamagna in «Quaderni fiorentini per la storia
del pensiero giuridico moderno», 18 (1989), pp. 267-327.
8
P. GROSSI, Pagina introduttiva, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno», XVI (1987), p. 1.
9
Non a caso, in un mio studio monografico, avevo definito i responsabili de Il Diritto fascista
come facenti parte della «italica e scientifica falange razzista» (S. GENTILE, La legalità del male.
L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico giuridica, Torino 2013, p. 20).
101
S. GENTILE
2. ‘Il Diritto fascista. Rivista di studio e commento delle leggi fasciste nella dottrina
e nella giurisprudenza’.
a) I protagonisti: Bernardo Pirro, (soprattutto) Corrado Petrone e Salvatore Foderaro
La Rivista conobbe il suo debutto nella più fatidica delle date, venendo
infatti tenuta a battesimo nel decennale della marcia su Roma ossia il 28
ottobre 1932. Essa nacque per iniziativa di Bernardo Pirro. Questi venne
dapprima affiancato e poi sostituito da Corrado Petrone, a cui si associò
nella codirezione – ma soltanto nel 1943 – Salvatore Foderaro10. La documentazione reperita mi è favorevole al fine di ricostruire, per quanto
possibile, le vicende del foglio e dei suoi protagonisti.
Di Bernardo Pirro si conosce, in letteratura, assai poco. mi è così di
grande ausilio l’analisi del suo fascicolo personale custodito in Archivio.
Da un ‘Appunto per la Segreteria particolare di S. E. il Capo del Governo’11 apprendo che il nostro aveva vinto un concorso presso il ministero dell’Interno nel 1926 intraprendendo però una carriera tutt’altro che
da funzionario modello ricevendo richiami disciplinari e «punizioni» e,
più in generale, facendosi notare «per leggerezza di carattere e per scarso
senso di disciplina» e dando luogo «più di una volta a rilievi per la sua
condotta, sia in ufficio che fuori servizio»12. L’impressione che emerge a
compulsare i documenti è quella di una figura su cui non aleggia una particolare considerazione: questa volta così si inceppa bruscamente il meccanismo per cui il ministero dell’Interno, dalle cui fila Pirro proveniva,
fungeva da sicura e capace giberna di fedeli gregari del regime. Nel 1937
Ricorda rapidamente ciò anche m. SESTA, Profili di giuristi italiani contemporanei: Antonio Cicu
e il diritto di famiglia, in «materiali per una storia della cultura giuridica», VI (1976), p. 479 nt.
137. Più precisamente, nelle prime uscite la pubblicazione risulta «fondata e diretta» da Bernardo Pirro. Sul numero dell’ottobre 1936 (anno V, fascicolo 1) B. P. compare solo quale
«fondatore» ma anche tale riferimento scompare dal febbraio 1937 (V, 3). Sul numero di
giugno 1937 (V, 5) Corrado Petrone è indicato come «Presidente». Sul foglio del dicembre
1937 (V, 7) è, alfine, «Direttore» e tale rimane fino a quando è affiancato, nella ‘condirezione’, da Salvatore Foderaro nel numero novembre 1942 – febbraio 1943.
11
In Archivio Centrale dello Stato (d’ora in avanti soltanto ACS), Segreteria Particolare
del Duce (poi SPD), Carteggio ordinario 1922-1943 (poi CO), b. 2091, f. 537556 Pirro dr
Bernardo. Questo documento, risalente al 10 gennaio 1930, è la sintesi di un’ampia relazione
(del 9 gennaio 1930) elaborata dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza – Divisione
Affari Generali e Riservati del ministero dell’Interno, cui s’erano evidentemente chiesti
lumi.
12
Ibidem. Tra l’altro, nel 1927, aveva subìto «la punizione della riduzione dello stipendio
per un mese per avere ingiustamente accusato uno straniero di aver fatto un’affermazione
gravissima nei riguardi della incolumità di S. E. il Capo del Governo».
10
102
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
gli si accosta, non è un caso, Corrado Petrone13: l’operazione intende essere, credo, un chiaro tentativo di superare, e accantonare, un qualche discredito che, specie negli ambienti politicamente più importanti,
circondava Pirro. Da questo punto di vista, anzi, Petrone era forse la figura
ideale: già magistrato, con robusta esperienza in uffici e dicasteri, abile organizzatore di eventi dalla indubbia valenza anche politica14, fervente fascista dalla inappuntabile condotta, non sprovvisto di entrature politiche
importanti. Il cambio di passo è esemplare. Egli riesce, con indubbia energia, a ritagliare uno spazio (ulteriore) al foglio, non essendo – d’altronde
– un personaggio nullius nominis come Pirro. Nativo delle terre di molise
(1898), aveva intrapreso la carriera di magistrato (1921) sulle orme del
padre, che fu consigliere della Corte di Cassazione dal 1923 e senatore
dal 193915. ma la sua vera vocazione era decisamente un’altra: egli subì
sempre fortemente il richiamo della politica, evidentemente per lui terreno
ideale in cui impegnarsi e spendere energie, nel tentativo di realizzare riforme e così tradurre in concreto operare aspirazioni e ideali. Lunga la
sua carriera nel Partito Nazionale Fascista, a cui risulta iscritto sin dal
1919, e numerosi gli incarichi ricoperti, soprattutto – anzi dichiaratamente
– in una prospettiva corporativa/sindacale. Nel 1927 prestò servizio
presso il Gabinetto del ministero delle Corporazioni, nel 1934 fu all’Ufficio sindacale per le controversie del lavoro, nel 1938 membro del Consiglio nazionale delle corporazioni, nel 1941 – finalmente – membro della
Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Ad osservarne con attenzione il
profilo, mi appare un vero e proprio intellettuale/militante e giurista/funzionario16: uno di quei personaggi imbevuti di ideologia fascista – non reUna puntuale descrizione del cursus honorum di Corrado Petrone in CARAVALE, Una incerta
idea, cit. nt. 6, p. 149 nt. 42. Un breve profilo in Chi è? Dizionario degli italiani di oggi, Roma
1940, pp. 737-738.
14
Una vicenda solo in apparenza secondaria e invece emblematica di un precoce attivismo
fu quella che vide Petrone tra i fondatori e gli animatori (e il Presidente) del Comitato
Olimpico Studentesco Italiano (COSI) che avrebbe dato vita (aprile 1922) alle «prime
Olimpiadi nazionali studentesche» conseguendo un indubbio successo di immagine (per
la presenza, accanto a «oltre 2.000 studenti italiani» anche «di diverse centinaia di studenti
stranieri»): L. RUSSI, Lo sport universitario e il fascismo. Un caso di nazionalizzazione colta, in Sport
e fascismo, a cura di m. Canella, S. Giuntini, milano 2009, p. 102.
15
michele Arcangelo Petrone, nato a montagano (Campobasso) nel 1869, era stato anche
a capo della Corte di Appello di Catanzaro prima e dell’Aquila poi: G. mELIS, La macchina
imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, Bologna 2018, p. 349.
16
m. ISNENGHI, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino
1979. Di particolare interesse la seguente riflessione: «quanto al rapporto tra quotidiani e
rivista si può formulare l’ipotesi che la pubblicistica periodica, folta e dispersa, sia il gran
13
103
S. GENTILE
siduando nessuno spazio per indecisioni e dubbi nei riti e nelle litanie del
novello sistema politico – e desiderosi di offrire il proprio contributo ed
il proprio sapere giuridico/tecnico alla costruzione e al consolidamento
del regime in un’ottica di perenne (ri)messa a fuoco di obiettivi traguardi
e ambizioni e in una sorta di inesauribile moto perpetuo mussolinianamente orientato. Parallelamente a questa attività, vi è quella di studioso –
che lo vide tra l’altro portare il proprio (piccolo) contributo anche al magnum opus codificatorio17 – nella duplice veste di scrittore prolifico18 e di
aspirante cattedratico19. Fu anche – ed è di primario interesse in questa
sede – direttore di periodici quali Conquiste dell’Impero e, soprattutto, Il Diritto fascista appunto. Più esattamente, Petrone fu un vero operatore, meglio
agitatore, culturale – da posizioni che, in senso lato ed ampio potrebbero
forse stimarsi (anche) molto confusamente socialiste20, sulla scia del primo
sottobosco che il regime conserva come valvola di sicurezza per le esercitazioni ideologiche,
le nostalgie, le istanze, i dibattiti di categorie emarginate dal potere reale, per motivi sociali,
politici o di generazione: piccola borghesia intellettuale, fascismo di provincia, fascismo
intransigente, gruppi di fronda, gruppi giovanili, ecc; mentre ai quotidiani verrebbe richiesta
una maggior compattezza e ufficialità, in vista delle diverse funzioni, che per un quotidiano
sono di aggregazione di più larghe masse tramite una forma di educazione collettiva degli
adulti. Schematizzando: a) le riviste servono il regime organizzando il dissenso, b) i quotidiani lo servono organizzando il consenso» (p. 190). Sulle “polemiche utili come una pura
e semplice valvola di sfogo” all’interno di tante pubblicazioni fasciste E. R. TANNENBAUm,
L’esperienza fascista. Cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, milano 1974, p. 336.
17
N. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, milano 2003, p. 461 (anche nt. 13).
Più in particolare, Petrone era stato uno dei «parecchi giuristi o pratici» che aveva realizzato
delle «osservazioni» alle «bozze II» del Libro dell’impresa e del lavoro (1941).
18
Tra le opere di C. P. ricordo solo le principali: Il procedimento civile avanti i pretori e i conciliatori, Roma 1924; Princìpi di diritto amministrativo e di legislazione scolastica, Aquila 1925; L’essenza dello Stato fascista, Roma 1927; Il nuovo diritto costituzionale e amministrativo (con Gaetano
Napolitano), Roma 1927; La Legge sul Gran Consiglio, Roma 1929; L’ordinamento corporativo
dello Stato fascista, Roma 1933; Princìpi di diritto fascista, Roma,1937.
19
Conseguita la libera docenza nel 1936 in Introduzione alla storia e princìpi di diritto fascista,
avrebbe insegnato presso l’Università di Roma (Facoltà di Scienze politiche). Inoltre, durante la Repubblica avrebbe fondò e diresse una nuova rivista, ‘Le Corporazioni’, attiva dal
1956 al 1960. Nell’autunno del 1957 si propose di organizzare un «Convegno di studi corporativi antimarxisti» e si candidò «nelle file del mSI, alle elezioni del 1958 […] non risultando comunque eletto» (C. SCIBILIA, L’olimpiade economica. Storia del Comitato Nazionale per
l’Indipendenza Economia (1936-1937), milano 2015, pp. 58-59, ma anche pp. 47-61). Segnalo
altresì che collaborò con Bruno Spampanato – esponente della sinistra fascista, favorevole
alla RSI e direttore de Il Messaggero – pubblicando nel 1944 alcuni articoli dedicati a tematiche lavoristico/corporative e sociali: I quotidiani della Repubblica sociale italiana (9 settembre
1943 – 25 aprile 1945), a cura di V. Paolucci, Urbino 1947, p. 191.
20
Emblematica è la sua opera dal titolo Spunti di socialismo etico. Economia libera o programmata?,
Roma 1950.
104
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
mussolini21, per le continue venature sociali riscontrabili nei suoi scritti e
(soprattutto) nei suoi interessi corporativi, del resto tipici della così detta
‘sinistra fascista’ nelle cui fila è stato annoverato22 – non privo di una sua
qualche progettualità. In definitiva, e se mal non m’appongo, il suo è il ritratto nitidissimo del «giurista militante» per come l’ha dipinto, con la consueta acuta sensibilità, Pietro Costa23.
A Petrone, lo si è anticipato, si affiancò dal 1943 – in articulo mortis –
Salvatore Foderaro24. Anch’egli proveniente dalla magistratura, era fresco
vincitore del concorso a professore di diritto pubblico tenutosi presso
l’Università di Cagliari, ed era tosto stato chiamato a Perugia sulla cattedra
lasciata vacante da Giuseppe Chiarelli25. Troppo breve, però, fu la sua
Rinvio almeno ai saggi in Mussolini socialista, a cura di E. Gentile e S. m. Di Scala, RomaBari 2015 (in particolare a quello di E. GENTILE, Una rivoluzione per la terza Italia, pp. 205245).
22
G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna 2000, p. 140 (e p.
236).
23
P. COSTA, La giuspubblicistica dell’Italia unita: il paradigma disciplinare, in Stato e cultura giuridica
in Italia dall’unità alla Repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma-Bari 1990, p. 126: «[…] una
figura di giurista nuova e originale, specifica della cultura del fascismo: un giurista che
tende a immettere i contenuti della sua scelta ideologico-politica entro le strategie e gli
schemi rappresentativi propri della tradizione disciplinare nella quale egli si è formato e
nella quale continua in qualche modo a operare; potremmo dirlo, in questo senso, un giurista ‘militante’. La novità di questa figura di giurista non deriva dal fatto che egli reiteratamente espone le proprie convinzioni politiche, si impegna in un’attività di propaganda
o si compromette nel conflitto politico: questi tratti sono tranquillamente attribuibili a
non pochi giuristi dell’Italia liberale. La novità sta nel diverso rapporto che il giurista militante tenta di stabilire fra ideologia politica e strategia disciplinare: facendo divenire la
prima parte integrante della seconda, piegando quest’ultima a sorreggere le nuove tesi
ideologico-politiche, ma anche costringendosi ad esprimersi nell’alveo disciplinarmente
tacciato».
24
Salvatore Foderaro (nato a Cortale, presso Catanzaro, nel 1908 e morto a Roma nel
1979) entrò in magistratura nel 1933 ma presto mostrò di preferire l’attività accademica
(con studi prima dedicati al diritto penale e poi al diritto pubblico). Dopo l’8 settembre
1943 partecipò, da posizioni monarchiche, alla lotta partigiana. Dopo la guerra venne
eletto per cinque legislature alla Camera dei deputati per la Democrazia cristiana: si veda
G. CARAVALE, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, 48, Roma 1997, pp. 413-415.
Circa l’intensa attività politica dopo il 1945 di F. rinvio a G. BAGET-BOZZO, Il partito cristiano
al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti 1945/1954, II, Firenze 1974, p. 332 il quale ne ricorda l’appartenenza al gruppo dei ‘vespisti’, un’aggregazione che «nasceva dalla reazione
alla disciplina governativa e al carattere chiuso del gruppo degasperiano, mentre sentiva
estraneo a sé lo stile dossettiano, che apparteneva ad un’altra generazione. (…) Un gruppo
prevalentemente di destra».
25
La «Relazione della Commissione giudicatrice del concorso a professore straordinario
alla cattedra di Istituzioni di diritto pubblico della R. Università di Cagliari» è interamente
21
105
S. GENTILE
esperienza al periodico26 che in quello stesso, e per tanti aspetti drammatico, ’43 cessò ogni attività. Appare allora chiaro che – dei tre personaggi
richiamati – quello decisivo per le sorti de Il Diritto fascista fu, senza dubbio, Petrone, come ben testimonia pure la documentazione rinvenuta e
di cui darò conto.
b) I rapporti con il Regime
mario Sbriccoli – celiando, ma non troppo – di Pirro e Petrone
avrebbe scritto che appartenevano a quegli scrittori particolarmente attenti al «gioco di maiuscole e minuscole, perché a queste cose (…) davano
grande importanza»27. I due, nei loro scritti, abusano di questo «gioco»:
sol si pensi che Petrone si era addirittura inventato «la formula ‘DUCE
PERPETUO’, tutta in maiuscolo, beninteso»28.
Ovviamente, i promotori di una iniziativa come quella in parola cercarono di instaurare un rapporto con l’entourage del Duce o comunque
con persone ad esso vicine. Il chiaro intento era quello di ingraziarsi questi
riportata da F. LANCHESTER, Momenti e figure nel diritto costituzionale in Italia e in Germania,
milano 1994, pp. 395-405 (anche p. 359). A fronte di non meno di sedici candidati, la
Commissione aveva individuato proprio in Foderaro il primo dei ternati (gli altri due erano
Carlo Lavagna e Franco Pierandrei) con il seguente giudizio: «è assistente alla cattedra di
Istituzioni di diritto pubblico presso la R. Università di Roma, libero docente della stessa
disciplina, nonché di diritto costituzionale. È incaricato di diritto costituzionale e di diritto
corporativo presso l’Università di Camerino. È stato proclamato vincitore ex aequo del premio del Direttorio Nazionale del PNF per assistenti universitari. Il candidato presenta tredici pubblicazioni. […] Ha saputo gradualmente impadronirsi del metodo giuridico,
dimostrando notevoli attitudini di giurista. Tale capacità del candidato risulta in modo
spiccato nel ‘Contributo alla teorica della personalità degli organi dello Stato’, ove il difficilissimo tema è studiato in modo approfondito, sulla base di una larga conoscenza della
dottrina italiana e straniera, giungendosi alla formulazione di una teoria che si presenta
suggestiva e ben dimostrata» (pp. 398-399). Sulla produzione scientifica di Salvatore Foderaro, diffusamente, m. GALIZIA, Gli scritti giovanili di Carlo Lavagna alla soglia della crisi dello
Stato fascista, a cura di F. Lanchester, Il pensiero giuridico di Carlo Lavagna, milano 1996, pp.
37-54 (a pp. 37-38 si ricorda che Foderaro, al momento della vittoria del concorso, era
«giudice del Tribunale di Roma ed applicato alla Direzione Nazionale del Partito Fascista,
con compiti relativi all’ufficio legislativo ed al settore disciplinare»).
26
In precedenza Foderaro aveva pubblicato sulla Rivista: si pensi al saggio Osservazioni
sulla natura della rappresentanza politica, in «Il Diritto fascista», VIII, 1-2 (novembre 1939 –
febbraio 1940), pp. 43-74.
27
m. SBRICCOLI, Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli anni del fascismo,
in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 28 (1999), p. 823
nt. 13 e ora anche in ID., Storia del diritto penale e della giustizia, II, Scritti editi e inediti (19722007), milano 2009, p. 1007 nt. 13 (l’osservazione è effettuata a proposito di Paolo Orano).
28
SCIBILIA, L’olimpiade economica, cit. nt. 19, p. 59.
106
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
potenti, cercando di intercettarne l’appoggio e l’incoraggiamento, quando
non la protezione e l’amicizia, potenziale volano poi (anche) per cariche
ed onorificenze. Un esplicito, ed ufficiale, riconoscimento si traduceva
poi, più prosaicamente, in sovvenzioni ed aiuti economici per la pubblicazione29. Si spiega così l’invio dei vari numeri del foglio al Segretario particolare di mussolini, la richiesta continua – l’invocazione quasi – della
concessione di un’udienza del Duce, agognato premio e sperato riconoscimento, l’istanza di finanziamenti, la speranza di avvicinare ministri e
gerarchi, più o meno influenti. A conti fatti nulla di (troppo) nuovo: sono
dinamiche del tutto comprensibili e non inedite30.
Così già Pirro faceva pervenire con regolarità agli ambienti politici che
contavano i vari fascicoli della Rivista, il primo numero come i successivi.
Nel luglio 1933 l’invio era accompagnato da una lettera per il segretario
particolare di mussolini, Osvaldo Sebastiani, con la quale si presentava
rapidamente il giornale – che aveva «iniziato lo studio e la divulgazione
del diritto creato dalla Rivoluzione»31 – e si chiedeva un incontro con il
In ACS, Ministero Cultura popolare (Minculpop), Gabinetto, b. 257, f. 2131 Petrone Corrado,
giornalista consta che Il Diritto fascista riceveva una sovvenzione di 10.000 lire annue (nel
marzo 1940 Petrone chiedeva che venisse raddoppiato). Quanto a Conquiste dell’Impero,
aveva ricevuto da gennaio 1939 a ottobre 1941 50.000 lire di contributi per la pubblicazione
(e appariva comunque «fortemente indebitata»). In ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 257, f.
2130 Il Diritto fascista vi è un ‘Appunto’ (5 giugno 1943) della Direzione Generale per la
Stampa italiana al ministro della Cultura popolare con cui si faceva presente la richiesta di
sovvenzioni presentata da Salvatore Foderaro. La Direzione Generale, formulando il suo
nulla osta, proponeva di elargire la somma di 10.000 lire, il che puntualmente avveniva a
seguito dell’intervento del Duce (infatti, in un biglietto del Capo della polizia al ministro,
13 luglio 1943, si legge che «il Duce ha concesso una sovvenzione di 10.000 lire alla Rivista
Il Diritto fascista. Si prega compiacersi disporre che la somma venga rimessa a questo ministero per la consegna all’interessato»). Più interessante ancora la breve istruttoria effettuata
sul periodico dalla quale s’appurava che lo stesso aveva una «tiratura di mille esemplari a
numero, distribuiti prevalentemente in omaggio alle autorità, agli studiosi e alle biblioteche»
e che aveva «spese di stampa aggirantisi sulle 7/8000 lire a numero». Rimando poi a G.
SEDITA, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Firenze 2010, da cui
risulta che oltre novecento intellettuali e quattrocento giornali ricevettero finanziamenti.
30
Ad esempio, ho riscontrato la richiesta di udienze e di finanziamenti da parte di giuristi
in diversi miei studi. mi permetto pertanto di rinviare, almeno, a: S. GENTILE, Di alcune
carte inedite di Giangastone Bolla. Un’ occasione di riflessione circa il rapporto tra i giuristi e il regime
fascista, in «Jus. Rivista di scienze giuridiche», LXV (2018), pp. 61-63 e 68; ID., Il fascicolo
della ‘Rivista di Storia del Diritto Italiano’ custodito presso l’Archivio Centrale dello Stato, in «Rivista
di Storia del Diritto Italiano», XCI (2018), pp. 440-442; ID., ‘L’Archivio di Antropologia criminale, Psichiatria e Medicina legale’ nelle carte del Ministero della Cultura popolare. Brevi riflessioni
a margine degli ottant’anni dalla legislazione antiebraica, in «Rivista italiana di medicina legale»,
XXXIV (2018), pp. 1219-1222.
31
ACS, SPD, CO, b. 2091, f. 537556 Pirro dr Bernardo.
29
107
S. GENTILE
Duce onde «ricevere l’ambito sprone di qualche parola»32. La domanda
era però destinata a restare senza risposta, confinata nel campo dolce delle
aspirazioni33. Nella continua richiesta di udienze fu pervicace, anzi instancabile, Petrone34. Quest’ultimo però poteva contare su appoggi certo
molto più solidi35. In particolare, emerge chiaramente una prossimità con
Sebastiani36, assai vicino a mussolini dal 1934 al 1941, ed anche con il potente ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano37, e con Adelchi Serena il
quale, tra l’altro, da Segretario del Partito Nazionale Fascista lo chiamò a
far parte – unitamente ad altri giuristi come Biggini, de Francisci, Panunzio e Costamagna – della «commissione consultiva dell’Ufficio studi e legislazione del PNF» che l’alto esponente politico aveva istituito con lo
scopo dichiarato di coadiuvare rafforzare e raccordare il momento politico/rivoluzionario con quello legislativo38.
Come si vedrà, Petrone scrive a più riprese al Segretario del Duce –
che svolgeva una importante funzione di filtro tra il dittatore e i numerosi
postulanti – ragguagliandolo, di continuo, in merito alle fortune, alle prospettive ed alle vicende editoriali della sua creatura cartacea ed alle iniziative assunte non omettendo anche di segnalare la sua attività di
conferenziere e docente39.
32
Ivi.
Peraltro, la burocrazia – dalla memoria di elefante – sa essere spietatamente gelida. Così,
a Pirro che nel 1942 aveva inviato alla Segreteria particolare il suo Princìpi di storia e dottrina
del fascismo si rispondeva in modo oltremodo stringato: «Pervenuto volume. De Cesare»
(12 giugno 1942), ivi.
34
Dalla documentazione compulsata emerge che egli chiese udienze, ad esempio, il 10
settembre e l’8 novembre 1937, il 16 ottobre 1938, il 7 agosto 1939, il 28 marzo 1940, il
25 aprile 1943. Fu ricevuto ad esempio nel marzo 1940, allor quando presentò al Duce la
collezione completa de Il Diritto fascista (e di Conquiste dell’Impero): ACS, SPD, CO, b. 1586,
f. 518430 Petrone avv. Corrado. Per un esempio di una di siffatte richieste si veda Appendice
documentaria n. 1.
35
Non si è mancato di rilevare che «nel nuovo scenario del potere fascista […] decisivi si
fecero i rapporti personali, la possibilità di trattare direttamente con le alte gerarchie del
fascismo, la capacità di stabilire alleanze», A. SCOTTO DI LUZIO, Editoria, in Dizionario del
fascismo, a cura di V. de Grazia e S. Luzzatto, I, Torino 2002, p. 455.
36
Il 20 giugno 1940 Petrone scriveva a Sebastiani dichiarandosi «grato» per la «generosa
protezione» accordatagli: ACS, SPD, CO, b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado.
37
Si veda Appendice documentaria n. 2.
38
E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma 1995,
pp. 257-258. Cenni in A. PEDIO, La cultura del totalitarismo imperfetto. Il ‘Dizionario di Politica’
del Partito Nazionale Fascista (1940), milano 2010, p. 129.
39
Per esempio il 19 aprile 1938 informava Sebastiani che il 28 successivo avrebbe pro33
108
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
c) La fondazione nel decennale della Marcia su Roma: il programma ed i collaboratori
La Rivista nasce mensile con pubblicazione «il 28 di ogni mese» – il
riferimento alla marcia su Roma è sin troppo chiaro – per poi divenire
bimensile anche se tale ultima cadenza non verrà di fatto quasi mai rispettata, comparendo non di rado fascicoli ad intervalli temporali più ampi.
merita ricordare che essa cangerà diverse volte il suo titolo a dimostrazione di come, e quanto, si procedette da un lato con qualche difficoltà
ma dall’altro secondo una continua e frizzante inquietudine che in effetti
pare riflettersi dalle sue pagine40.
Come anticipato, il foglio è fondato il 28 ottobre 1932. È (già) tempo
di bilanci. Evidentemente per Pirro erano maturi i tempi per una compiuta
riflessione su quello che si riteneva uno dei maggiori frutti e portati della
Rivoluzione del ’22 ovvero proprio sul Diritto fascista.
Gli lascio la parola:
Stimolare una trattazione sistematica, strettamente scientifica, di tutto il
diritto fascista mediante lo studio e la illustrazione delle sue norme al fine
di alimentare e far prosperare quella Scuola fascista del diritto che con
un proprio sistema organico generale giuridico, dovrà, rinnovando la
gloriosa tradizione romana, seguire degnamente nel mondo l’espansione
del Fascismo: ecco lo scopo che noi ci proponiamo41.
È chiaro allora il tentativo di creare un locus di studio e discussione
che non si nasconde l’ambizione di concorrere a realizzare – per il tramite
nunziato «la Prolusione al Corso libero di Princìpi di diritto fascista presso la Facoltà politica
della Regia Università di Roma» quindi aggiungeva che avrebbe esaminato «rapidamente
un argomento di grande attualità, La concezione fascista della proprietà, soprattutto al lume
degli scritti e discorsi del DUCE. Accennerò anche alle riforme apportate all’essenza della
proprietà dalle leggi sulle miniere, sulla bonifica integrale e sugli ammassi di prodotti agricoli, nonché al nuovo concetto di proprietario-produttore», in A. C.S., SPD, CO, b. 1586,
f. 518430 Petrone avv. Corrado.
40
Infatti, nasce come Il Diritto Fascista. Rivista di studio e commento delle leggi fasciste nella dottrina
e nella giurisprudenza, poi diviene (1936) semplicemente Il Diritto fascista, quindi – all’inizio
del 1937 – Il Diritto fascista. Organo dell’Istituto di Diritto fascista ma a fine dello stesso anno
di nuovo, soltanto, Il Diritto fascista. Nel gennaio 1939 Il Diritto fascista. Rivista di studio e
cultura e nel novembre dello stesso anno, e sino alla fine, Il Diritto fascista.
41
B. PIRRO, Il Diritto fascista, in «Il Diritto fascista. Rivista di studio e commento delle leggi
fasciste nella dottrina e nella giurisprudenza», I, 1 (28 ottobre 1932), p. 12. D’ora in avanti,
per brevità, citerò la Rivista semplicemente con la sigla DF e indicherò il numero dell’annata (numerazione romana), il numero del fascicolo (numerazione araba) e poi la data cronica tra parentesi.
109
S. GENTILE
di una novella Scuola che può contare su quelle antesignane e «gloriose
di Roma e dell’evo medio»42 – un vero e proprio «sistema organico generale giuridico» appunto. In Pirro e nei suoi sodali appare infatti ben presente una vocazione progettuale di questo tipo, stimata come necessaria
anzi imprescindibile. Da questo punto di vista non può che fargli (ampiamente) agio la frenesia normativa e riformistica del regime, in effetti imponente, che nel preciso tentativo di edificare un ordine giuridico, una
entità statale, nuovi ha, e talora ben in profondità, riscritto «le leggi integrative dello Stato fascista (sulla Difesa dello Stato; sulle associazioni segrete; sui funzionari delle pubbliche amministrazioni; sulla cittadinanza);
poi le costituzionali (sul Primo ministro, legge instauratrice di un sistema
fascista di Governo, distinto dal parlamentare e dal costituzionale, il sistema del Primo ministro, nuova gerarchia di natura e stile squisitamente
fascista; sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche);
le amministrative (sulla pubblica istruzione, intesa ad avere uno scopo e
a formare il carattere non al supino insegnamento; sulle questioni finanziarie, ecc.); le sociali (sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro con
tutte le numerosissime conseguenti leggi integratrici); nonché le leggi tecniche giudiziarie come l’unificazione della Cassazione e la produzione del
diritto fascista culminante nella Riforma dei Codici, già in atto per quelli
di diritto e procedura penale»43. Per tacere dei vastissimi, e almeno in parte
inediti, pelaghi costituiti dal diritto corporativo e da quello coloniale. Ad
imporsi allora, proprio per effetto di materie e istituti nuovi, è una risistematizzazione ed un ripensamento degli stessi ambiti scientifici vieppiù
indispensabile in quanto la rivoluzione fascista ha ormai scolorito distinzioni classiche, ma irrimediabilmente datate e superate, quale quella tra
diritto pubblico e privato con quest’ultimo risucchiato nel primo e ridisegnato quanto a fini e contenuti. Quella stessa Rivoluzione che appare
come erculea colonna tra il prima e il poi del mondo giuridico, risultando
la lunga fase precedente l’avvento dei fasci – poggiante sui princìpi del
1789 e sui corollari del giusnaturalismo – nulla più che un residuo storico
e ideologico da sostituirsi in toto con lo Stato Fascista «intuito, spiegato e
sagomato nella dottrina del Duce44» il solo in grado da un lato di «salvare
la civiltà» e dall’altro di indicare la via alle restanti Nazioni. Da ultimo,
compito del Diritto fascista sarà quello di «seguire degnamente nel mondo
le orme dell’Impero» che mussolini si appresta a ricostituire, restituendo
Ivi.
Ibid., p. 17.
44
Ibid., p. 14.
42
43
110
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
a Roma l’antico ruolo e il vecchio prestigio la cui mancanza era stata «con
dolore» rimpianta anche da Bartolo da Sassoferrato45.
In effetti, il culto – assolutamente fideistico – di mussolini è forse il
primo aspetto che si presenta nitido all’attenzione dello studioso. Sol si
pensi che l’editoriale testè analizzato era preceduto da uno scritto – ben
noto invero – di mussolini dal titolo La dottrina politica e sociale del Fascismo46.
Chiosandolo, Pirro non esitava a scorgere nel pensiero del fondatore del
Fascismo «il principale documento» su cui «rivolgere i nostri studi nell’intento di sistematizzare la legislazione fascista secondo i princìpi fascisti»47.
E il modo stesso in cui appariva strutturato il periodico era conseguente
rispetto a siffatti propositi.
Infatti la pubblicazione, «assai accurata»48, era divisa in quattro parti.
Una prima dedicata alla Dottrina e riportante «gli articoli e gli studi originali
intorno alle norme fasciste» da raccordarsi, auspicabilmente, «ai principi
generali del diritto fascista» onde addivenire alla edificazione di «un sistema del diritto fascista», che rappresenta ad ogni evidenza la meta anelata. Una seconda incentrata sulla Legislazione – ed assumente le forme di
«un indice riassuntivo, razionalmente diviso, rigorosamente completo di
tutta la legislazione fascista» – ovvero sulla «pratica del diritto fascista»
che s’appaia così alla teoria della Dottrina. Una terza riservata, ovviamente, alla Giurisprudenza ma in cui trovavano spazio esclusivamente le
sentenze solidali con le finalità scientifiche perseguite e cioè la «impostazione e coordinazione sistematica del diritto fascista». Un’ultima, infine,
«La nostra Patria è fatalmente predestinata all’Impero sia esso inteso nel senso comune
sia in quello più pieno, più razionale, esposto dal Duce nella Sua Dottrina. […] Da quando
l’Impero è stato spostato da Roma non lo si è potuto ricostruire. Con dolore lo esprime
Bartolo: ‘Et ideo Imperium romanum postquam fuit ab Italicis saeparatum, semper decrevit in oculis nostris…’» (BARTOLO, Tract. De regim. Civitatis), ibid., p. 19.
46
Tale studio era comparso nel volume XIV dell’Enciclopedia Italiana nonché «già pubblicato
su tutti i giornali e formante la prefazione del nuovo Statuto del partito Nazionale Fascista»
come si legge nella nt. 1 di commento al contributo, ibid., p. 1.
47
Ivi. Riporto per esteso la nota di commento di Pirro: «Ci onoriamo riportare lo Studio
del DUCE […] perché dato lo scopo della nostra Rivista, esso rappresenta il punto di
partenza dei nostri studi. In tale Scritto, con quella limpidezza che proviene all’Autore
dall’essere Egli stesso il Creatore della Dottrina, sono esposti i princìpi basilari del Fascismo. Ne discende che da tali princìpi, e da essi soltanto, muove anche l’attività normativa
soggettiva e oggettiva dello Stato Fascista. Pertanto, lo Studio del DUCE forma il principale documento sul quale dovremo rivolgere i nostri studi nell’intento di sistematizzare la
legislazione fascista secondo princìpi scientifici».
48
Così la definisce R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di
una generazione, milano 1962, p. 360.
45
111
S. GENTILE
assumeva la forma della Rassegna di opere: forniva ragguagli «dei congressi
giuridici e delle altre adunate» e riportava «la recensione o la menzione»
delle opere (libri, articoli e discorsi) inviate alla direzione49. A queste quattro sezioni era sovente anteposta una Premessa – prima a firma di Bernardo
Pirro e poi a nome de La Direzione – che costituiva una sorta di giornale
di bordo in cui il nocchiero effettuava il punto sulla rotta seguita, indicava
(e ribadiva) le mete prefissate e non era mai dimentico, per così dire, di
incoraggiare i partecipanti all’impresa. Si capisce allora come proprio queste Premesse rivestano spesso un ruolo importante e siano ai miei occhi
meritevoli di particolare attenzione.
Nel secondo fascicolo del suo giornale il direttore poteva compiacersi
per le «numerose adesioni, le collaborazioni o promesse di collaborazioni
pervenuteci dai giuristi dottrinali e pratici»50 venendo così confortato circa
la «tempestività» della sua iniziativa volta alla riflessione e allo studio del
diritto fascista ovvero di «quella cioè, tra le istituzioni del regime, destinata
a durare più a lungo nei secoli»51. Pirro sembra così rinvenire e trovare
negli ambienti culturali/scientifici quell’attenzione, o considerazione, che
altrove gli era stata negata. Espressero il proprio plauso, tra gli altri, il ministro per l’Educazione nazionale, Francesco Ercole, Giuseppe Bottai,
sempre attento verso iniziative di siffatto tenore, Alfredo Rocco nonché
diversi cattedratici – da Vittorio Scialoja a Giorgio Del Vecchio, da Dionisio Anzilotti ad Antonio marongiu – ed anche esponenti della Suprema
Corte – su tutti mariano D’Amelio – e delle Corti di Appello che «ai buoni
voti» aggiunsero «la designazione di numerosi magistrati nell’ambito delle
rispettive giurisdizioni per le specifiche collaborazioni alle diverse materie
giuridiche»52. Peraltro, solo dal numero del novembre 1939 (e sino a quello
di gennaio-marzo 1942) compare l’indicazione del nome dei collaboratori.
Una folta schiera, se è vero che ho contato non meno di quarantacinque
Dal fascicolo n. 2 del primo anno (28 gennaio 1933) e sino al n. 6 del terzo anno (28
aprile 1935) il Sommario riportava questa quadripartizione ragionata (con la spiegazione
delle quattro parti come succintamente riportato nel testo). Dai numeri successivi esso si
presenta più snello, restando immutata la quadripartizione che però diviene eventuale nel
senso che la sessione dedicata alla Giurisprudenza è talora omessa, come ad esempio nel
fascicolo n. 3 del quinto anno (28 febbraio 1937). Aggiungo anche che, dalla fine del 1936,
la quarta parte diviene Rassegna critica per cui qualche saggio di norma precedeva la Rassegna
delle opere nonché la Rassegna delle riviste.
50
Il contributo, senza titolo, era firmato La Direzione e copriva le pagine 3-4 del secondo
fascicolo (anno primo) del giornale.
51
Ivi.
52
Ivi, p. 4.
49
112
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
nomi tra alti magistrati, avvocati e, soprattutto, docenti. Di tali ultimi mi
limito a citare Ludovico Barassi, Widar Cesarini Sforza, Carlo Alberto
Biggini, Ferruccio Pergolesi, Giacomo Perticone, Francesco Vito e Nicola
Jaeger, poi giudice della Corte Costituzionale nella Repubblica53. Peraltro
pressoché tutte le Università del Regno erano rappresentate: da milano a
macerata, da Perugia a Catania, da Bari a Napoli, da Trieste – con il suo
Rettore, l’internazionalista manlio Udina – a Genova ed a Roma, ovviamente. molti tra questi però si limitarono ad un’adesione simpliciter formale
in quanto non produssero contributi cartacei.
Tra i giudizi elogiativi di cui fu oggetto la pubblicazione mi limito a
riportare quello di un Presidente di Sezione della Corte di Cassazione,
Ugo Aloisi:
[…] il Suo intendimento di illustrare, con metodo rigorosamente scientifico, il nuovo diritto dello Stato fascista, non può che riscuotere il
plauso di quanti uomini di pensiero e di azione, riconoscono nella giustizia, che il diritto è chiamata ad applicare, il più saldo fondamento dello
Stato. L’elaborazione dottrinale è il necessario presupposto della giurisprudenza. Si accinga dunque al lavoro con entusiasmo da giovane, cioè con entusiasmo fascista e l’avvenire più radioso coronerà i suoi sforzi54.
Queste righe sono interessanti perché ben riassumono il senso delle
altre note di compiacimento pervenute al direttore ma soprattutto perché
fanno riferimento anche ad un importante dato anagrafico. E infatti la
battaglia, e la polemica, portata avanti da Pirro prima e da Petrone poi acquisirà anche i contorni di una vera e propria disputa generazionale in
specie nei confronti dei vecchi professori considerati freddi, quando non
restii, nei confronti del celebrato nuovo corso.
Circa le (indolori, ben spesso) continuità tra regime e Repubblica, rinvio a H. WOLLER,
I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna 1997.
54
Alcuni giudizi sulla nostra Rivista, in DF, I, 2 (gennaio 1933), p. 78 (si riportano i molto favorevoli giudizi anche di Francesco Ercole, ministro per l’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, ministro di Stato, mariano D’Amelio, Primo Presidente della Corte di
Cassazione, Adolfo Giaquinto, Avvocato Generale della Corte di Cassazione, Antonio
Azara, Segretario Generale della Commissione per la riforma dei Codici, Vincenzo Casoli,
Primo Presidente della Corte di Appello di Torino, Giulio Ronga, Presidente della magistratura del Lavoro della Corte di Appello di Roma, Gino Olivetti, Segretario generale
della Confindustria, Silvio Pivano, Rettore della R. Università di Torino). Corsivo mio.
53
113
S. GENTILE
3. Gli itinerari dottrinali e le polemiche. a) In particolare la ricerca dell’autonomia
scientifica (e didattica) del diritto fascista e dei relativi Princìpi fondamentali
Dopo aver ragionato in merito all’animus della Rivista, interroghiamoci
ora circa il perimetro concettuale all’interno del quale prese forma e sostanza questo progetto. Non essendo certo possibile dare conto di tutti i
filoni di indagine perseguiti, mi limito ad enucleare i più significativi itinerari dottrinali che vennero tracciati prima e percorsi poi. Si dispiega un
processo continuo serrato e assolutamente coerente di acquisizioni per
cui gli snodi essenziali ruotano intorno a taluni motivi estremamente ricorrenti – e in maniera a volte verrebbe da dire quasi ossessiva – e preponderanti tra le pagine del periodico.
Abbiamo osservato come sul tavolo da lavoro è chiaramente posto il
‘diritto fascista’. Ebbene occorre elaborarne e decretarne l’autonomia
scientifica, consentendo codesta operazione di studiarlo nella maniera più
rigorosa e analitica possibile così favorendone una nitida messa a fuoco,
e poi quella didattica, affinché le giovani generazioni studiose possano
conoscerlo e apprenderlo, venendone – sottinteso logico essenziale – plasmate. Da ultimo (ma decisivo), appare contestualmente imprescindibile
– nel procedere alla elaborazione quanto meno dei princìpi essenziali (qualificanti) di questo diritto – un preciso cangiamento di paradigma volto
all’affermazione di una nuova scienza – ma anche e soprattutto una novella sensibilità e coscienza per gli (e negli) studiosi – per il tramite della
quale declinare la rivoluzione fascista in coerenti obiettivi.
Rispetto a ciò, il foglio cercherà, e solleciterà – a più riprese – una collaborazione con studiosi e scienziati del diritto che non mancherà di ottenere riscontri meritevoli di attenzione55.
ma procediamo con ordine.
Il vero e proprio fil rouge della Rivista – il motivo dominante e il carattere di gran lunga ricorrente – è costituito dal serrato impegno orientato
a precisare i caratteri del diritto fascista onde procedere nel senso di attribuirgli il ruolo e la posizione che merita all’interno del vasto pelago giuridico. Un simile operare si risolveva nel ritagliare l’apposita, ed esclusiva,
autonomia di tale diritto.
Il programma non era privo di ambizioni.
55
Sul fascicolo di apertura gli entusiasmi non erano stati assenti: «certamente questo modesto periodico si renderà subito insufficiente per soddisfare gli studiosi fascisti che vorranno servire l’Idea anche nel campo del diritto. Altri però ne sorgeranno fino a preparare
quel clima scientifico per la costituzione di quella Scuola del diritto fascista da noi auspicata» (PIRRO, Il diritto fascista, cit. nt. 41, p. 18).
114
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
Dire autonomia equivaleva a dire esistere o, ancor più, esser-ci e
quindi, in ultima analisi – ed è ciò che più conta – ricevere legittimazione
a inserirsi nel panorama giuridico, nel dibattito scientifico. Significava
(poter) partecipare a pieno titolo ad una partita, rectius una sfida, ambiziosa
e difficile ma esaltante perché ricchissima di possibilità di sviluppi ed evoluzioni. E s’aggiunga che enucleare individuare e tracciare i confini del diritto fascista si risolveva già (pure e al contempo) nel (molto contribuire
a) definirlo. Così procedendo il passaggio successivo si identificava giocoforza nell’orientare gli sforzi ermeneutici/interpretativi alla volta della
enunciazione dei princìpi fondamentali di questo diritto. Aggiungo che,
in codesta lucida e inesausta operazione di precisazione degli obiettivi, la
consapevolezza – e maturità – più fruttuosa coincide con la fase in cui la
direzione del foglio è affidata a Petrone.
Così, il diritto fascista si presenta, nella riflessione di Pirro, quale un
«diritto nuovo e non, soltanto, riformato», frutto della grande rivoluzione
del ’22 che, foriera di sollecitazioni e sviluppi profondi, impone ed esige
radicali ripensamenti56. Un diritto che – ricalcando il pensiero del Duce
per come era stato declinato, e sviluppato, nella ben nota voce Fascismo
pubblicata sulla Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere ed Arti – ripudiava
l’egualitarismo di schietta matrice giusnaturalistica consacrato dalle (e
nelle) conquiste della Rivoluzione ottantanovarda cui la tradizione giuridica italiana, primariamente codicistica, risultava ancora aggiogata, per
proclamare quell’epoca radicale che esattamente sul terreno del giure ritrovava la sua vocazione più autentica e sincera. Un diritto dinamico, giacché alla perenne volta di nuovi orizzonti da traguardare, politicamente
(ben) orientato, e quindi insofferente a troppo rigide e astratte costrizioni
dogmatiche, poggiante invece su di «una visione veramente organica della
società»57 tale per cui lo Stato – autentico e genuino «fatto spirituale e morale» – conosce, e scopre e rivela, i suoi punti cardinali nella «autorità»,
nell’«interventismo», nello «integralismo» e nel «corporativismo»58. Il
nuovo ordine dovrà poggiare sopra due figure essenziali: il «cittadino-laB. PIRRO, Premessa, in DF, III, 1-3 (gennaio 1935), p. 7: «conseguentemente occorre, allora, domandarsi: ‘i rabberciamenti, i coordinamenti che si tentano per sostenere l’impalcatura di un diritto che non è più il nostro sono quindi destinati presto o tardi a fallire e
solo, invece, una elaborazione radicalmente nuova, nelle premesse e nei presupposti, desunti dai reali e nuovi fattori politici e sociali che viviamo, potrà dire di avere assolto allo
sviluppo immancabile che la Rivoluzione ha da avere nella creazione e diffusione del suo
diritto?’».
57
B. PIRRO, Introduzione e istituzioni di diritto fascista, in DF, III, 4-6 (aprile 1935), p. 137.
58
Ibid., p. 140.
56
115
S. GENTILE
voratore, produttore» nonché il «cittadino-soldato, guerriero»59: il primo
lavorerà e si adopererà per creare e consolidare quell’ordine e il secondo
per proteggerlo e consentirgli di prosperare. Il diritto, mirabile prodotto
degli sconvolgimenti politici e sociali mussoliniani, dovrà accompagnare
questi e consolidarli in una operazione di continuo (auto)ripensamento
in cui destinata, sin da subito, a cadere non può che essere, primariamente,
la classica distinzione tra diritto pubblico e privato, giusta la formula «tutto
nello Stato, nulla contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato»60.
Tutto questo, ovviamente, richiede, e anzi presuppone, un atteggiamento di adeguata apertura ai recenti, e inediti, indirizzi da parte di una
scienza giuridica che si vuole abbandoni per sempre quello che, di volta in
volta, è chiamato «quietismo», «spirito borghese» o «vecchia criteriologia»61.
Nell’ottobre del 1936 Corrado Petrone reca, in argomento, il suo contributo. Si tratta di interventi che si riveleranno in grado di animare un
dibattito e richiamare l’attenzione di una parte almeno della comunità
scientifica. Già la data non è casuale. In quell’anno, infatti, egli aveva ottenuta – e proprio insieme a Pirro62 – la libera docenza in Introduzione alla
storia e princìpi di diritto fascista, impartita (ma vorrei dire officiata) presso la
Facoltà di Scienze politiche della regia Università di Roma63. Il riconoscimento di tale disciplina era stato testé voluto dal ministro dell’Educazione
nazionale, il quadrumviro Cesare maria De Vecchi, e rientrava chiaramente in quel «processo di ‘fascistizzazione’ della scuola»64 – più in geneIbid., p. 139.
Ibid., p. 161. La novella «ripartizione del diritto fascista» si sarebbe dovuta suddividere
(pp. 168-169) in un Diritto statuale generale (‘Ordinamento’, corrispondente grosso modo
al diritto costituzionale, e ‘Svolgimento’, ovvero il diritto amministrativo) e in un Diritto
statuale particolare articolantesi in numerose branche: Diritto corporativo, militare, penale,
penitenziario, finanziario, giudiziario, aeronautico, coloniale, delle genti, ecclesiastico e sociale (il Diritto sociale, dato dalla fusione del Diritto civile con quello commerciale, appariva, non a caso, in ultima posizione).
61
Ibid., pp. 173-175.
62
Tra le opere di Bernardo Pirro menziono: La dottrina del fascismo nell’opera di Michele Bianchi,
Roma 1938; Princìpi fondamentali della dottrina del fascismo: il principio corporativo, Roma, 1938;
Princìpi di storia e dottrina del fascismo, Roma 1942.
63
Ntt. 19 e 109 del presente lavoro.
64
E. SANTARELLI, De Vecchi Cesare Maria, in Dizionario biografico degli italiani, 39, Roma 1991,
p. 527. De Vecchi (1884-1959) fu ministro dell’Educazione nazionale dal gennaio 1935 al
novembre 1936. m. OSTENC, La scuola italiana durante il fascismo, Roma-Bari 1981, p. 215
ha osservato che «con De Vecchi il rumore degli stivali risuona fino nelle aule scolastiche».
59
60
116
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
rale della cultura e dell’insegnamento – che andava nel medesimo torno
di tempo conoscendo marcate spinte acceleratorie. In tale movimento
sussultorio, perché a strappi molto più che cheto e pacato, Petrone rilancia
e chiede a gran voce «di incasellare nell’ufficiale insegnamento universitario nuove e ben salde cattedre di ‘Princìpi di diritto fascista’ 65» del resto stimate
coincidenti «con le più elementari ragioni interpretative e valorizzatrici
dei bisogni e degli interessi fondamentali dell’era fascista»66. Nel novembre
Giuseppe Bottai sostituiva De Vecchi. Il nuovo ministro inviava una lettera al giornale in cui giustificava la deprecata mancanza adducendo ragioni destinate a lasciare insoddisfatto Petrone67 il quale tornava a
reclamare la «autonomia scientifica della disciplina Princìpi di diritto fascista»
da reputarsi come una sorta di «orientamento giuridico generale» per gli
studenti. Quindi andava direttamente al ‘nocciolo della questione’:
Si ritiene o no che il fascismo va dettando nuovi princìpi giuridici che
sconvolgono alle fondamenta il tradizionalismo ed il tecnicismo liberale,
dando vita a nuovi fiorenti istituti e trasformando profondamente le
varie discipline giuridiche, pubbliche e private? Si ritiene o no necessario
che detti nuovi princìpi debbano essere incasellati in una nuova disciplina
giuridica generale che serva di orientamento e guida ai giovani fascisti
che si incanalano nello studio del diritto? La Rivoluzione Fascista, nella
sua ferrea logica, non può darci che una risposta affermativa.
Allora noi fascisti – che ci rifiutiamo sdegnosamente di metterci al seguito dei vecchi professori liberali che ancora infeudano le cattedre universitarie – […] siamo disposti ad attendere che l’idea trovi la sua logica
concretizzazione68.
In effetti, la strategia di Petrone è chiara e lucida: ragioni etiche e poC. PETRONE, Rassegna critica, in DF, V (1), ottobre 1936, p.112 (corsivo mio).
Ivi.
67
DF, V (2), dicembre 1936, pp. 259-260. La missiva bottaiana risultava tutta incentrata
su di un piano formale e burocratico/amministrativo destinato a lasciare inappagato Petrone. Il gerarca, ad esempio, ricordava che «precisamente nella R. Università di Perugia
(Facoltà di Scienze Politiche) al detto insegnamento è assegnato un posto di ruolo, così
che risulta anche accolto il voto di fare tale materia l’oggetto di una vera e propria cattedra
universitaria. Circa poi la possibilità di assegnare a tale disciplina un posto di ruolo anche
presso altre Università, la questione potrà essere esaminata in seguito, in relazione alle esigenze didattiche delle Università che rilasciano la laurea in Scienze Politiche. Come vedi,
dunque, le tue preoccupazioni non hanno ragione di essere».
68
Ibid., p. 262.
65
66
117
S. GENTILE
litiche, assai prima che giuridiche, esigono l’«autonomia scientifica e didattica»69 del diritto fascista ed è interessante rilevare come i due aspetti
– lo studio e l’insegnamento – siano strettamente interrelati, presupponendosi a vicenda.
Lo studioso non lesina energie: anima la lotta cartacea sul suo periodico, pubblica una monografia – intitolata Princìpi di diritto fascista70 e fatta
recapitare al Duce71 – e non manca di stilare un pro-memoria per le Autorità – inviato al potente Sebastiani72 – in cui ribadisce l’opportunità della
istituzione ufficiale dell’insegnamento73, da lui sino ad allora impartito
dallo studium romano come «materia né obbligatoria, né complementare,
e quindi non utile dal punto di vista accademico»74 ma – ad onta di ciò –
frequentata e seguita da un buon numero di studenti75. Né si limita a questo. Infatti egli promuove quello che definisce un vero e proprio referendum
tra gli studiosi perché facciano conoscere la loro opinione al riguardo76.
Su tale iniziativa appare opportuno sostare brevemente.
b) Il referendum di Petrone e l’idea della creazione dell’Istituto di diritto Fascista
A merito di Petrone occorre anticipare che non si trattò del classico
69
C. PETRONE, Autonomia scientifica e didattica dei Princìpi di diritto fascista, in DF, V, 4 (aprile
1937), pp. 477-485 (era la prolusione al Corso di Principi di diritto fascista tenuta da Petrone
nell’Università di Roma per l’anno accademico 1936-37). Si veda anche B. PIRRO, Autonomia
scientifica dei princìpi di Diritto Fascista, in DF, V, 3 (febbraio 1937), pp. 357-367.
70
C. PETRONE, Princìpi di diritto fascista, Roma Conquiste dell’Impero, 1937.
71
Il 13 settembre 1937 P. inviava il volume al Segretario particolare di mussolini, Osvaldo
Sebastiani, perché facesse avere al Duce questo lavoro definito il «I corso universitario di
una nuova disciplina mirante ad individuare i salutari princìpi giuridici fascisti»: ACS, SPD,
CO (1922-1943), b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado.
72
Nel maggio 1937 Petrone aveva fatto pervenire il documento a Sebastiani il quale, a sua
volta, l’aveva girato al ministro dell’Educazione nazionale: ACS, SPD, CO (1922-1943),
b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado.
73
Il testo del pro-memoria in Per i ‘Princìpi di diritto fascista’, in DF, V, 5 (giugno 1937), pp.
593-595.
74
Ibid., p. 595.
75
«Facciamo presente che presso la R. Università di Roma, mentre per alcune materie […
] insegnate da professori di ruolo, le richieste di esami sono state scarse o addirittura negative, per i Princìpi di diritto fascista sono state presentate 24 domande, tanto che si è dovuta
istituire un’apposita commissione esaminatrice, composta dai proff. Balzarini, Petrone e
Pirro. Non è questa una prova indiscussa che nelle Università italiane è sentita, è voluta la
istituzione di questa nuova disciplina?», ivi.
76
Ibid, p. 596: «con il prossimo numero avrà inizio il nostro referendum, che mira a fornire
al ministro dell’Educazione nazionale elementi definitivi di chiarificazione».
118
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
sasso scagliato nello stagno e destinato ad affondare nella indifferenza silente degli spettatori.
Al contrario, la proposta – lanciata nel giugno 1937 e specificamente
indirizzata a «quei professori universitari che hanno del tutto superato il
tecnicismo liberale giuridico ovvero non vi hanno mai aderito» – non
mancò di destare interesse. Infatti, già nell’agosto successivo pervenivano
i pareri di tre studiosi – Sergio Panunzio77, Gaspare Ambrosini e Beniamino Petrone – di diversi studenti, sempre stimolati e sollecitati ad aderire
e partecipare alle iniziative volta a volta proposte e suggerite dalla Rivista,
e di un uomo politico. Quest’ultimo – mario muzzarini, presidente della
Confederazione fascista degli agricoltori – non andava in realtà oltre una
generica, ma convinta, adesione sul presupposto della «necessità di una totale penetrazione dello spirito fascista negli studi giuridici»78. Particolarmente lucido articolato e pensato è il contributo di Panunzio. Non
sorprende. Costui – chiamato alla Facoltà romana di Scienze politiche nel
1927 divenendone presto figura di spicco e presenza forte79 – andava orientando i suoi sforzi speculativi circa la messa a fuoco della natura, dell’essenza e, in misura specifica, dell’«organizzazione dello Stato fascista»80. Ne
sarebbe sortita, nel 1936, la nota Teoria generale dello Stato fascista in un clima
culturale/scientifico che vedeva proprio allora cominciare a incrinarsi seriamente la posizione monolitica della scienza costituzionalistica81 che – a
seguito delle continue riforme sugli assetti del potere nonché di una, nitidamente percepibile, (ulteriore) accelerazione totalitaria – rifletteva ora in
profondità, tra l’altro, circa «la compatibilità del nuovo assetto con lo stesso
Statuto albertino»82. Questo è il contesto in cui il giurista di molfetta – del
In merito a Sergio Panunzio (1886-1944) «presenza costante nel dibattito politico e culturale del Ventennio» mi limito a rinviare a D. IPPOLITO, ad vocem, in Dizionario biografico dei
giuristi italiani (XII – XX secolo), dir. da I. . Birocchi, E. Cortese, A. mattone, m. N. miletti,
II, Bologna 2013, pp. 1500-1502 (citazione a p. 1501. D’ora in avanti citerò il Dizionario
semplicemente DBGI).
78
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, V, 6 (agosto 1937), p. 697.
79
Si veda nt.109.
80
P. RIDOLA, Sulla fondazione teorica della ‘Dottrina dello Stato’. I giuspubblicisti della Facoltà romana
di Scienze politiche dalla istituzione della Facoltà al 1943, in Passato e presente delle Facoltà di Scienze
politiche, a cura di F. Lanchester, milano 2003, p. 130.
81
F. LANCHESTER, La dottrina giuspubblicistica italiana alla Costituente: una comparazione con il
caso tedesco, in ID., I giuspubblicisti tra storia e politica. Personaggi e problemi nel diritto pubblico del
secolo XX, Torino 1998, p. 72 (più in generale, pp. 63-78).
82
GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit. nt. 38, pp. 203 ss.
77
119
S. GENTILE
resto «uomo di scienza e di azione»83 – scrive a Petrone.
Panunzio ricorda che nel 1926 aveva presentato a mussolini lo
«schema di progetto» da cui sarebbe nata la Facoltà di Scienze politiche
dell’Università di Perugia84 per la quale – con la collaborazione del Preside
di Giurisprudenza, Angelo Criscuoli – aveva pensato ad un insegnamento
denominato Sistema della Legislazione fascista perchè ritenuto meglio rispondente al fine di assicurare un «maggior grado di organicità della disciplina»85. La proposta era stata però fatta cadere a livello ministeriale.
L’accademico ha ben chiaro in mente come procedere all’ordinata sistematizzazione di quella che definisce la ‘Enciclopedia giuridica’ cioè la suddivisione del possente e nobile tronco del sapere giuridico nei diversi rami
delle discipline. Posto che il diritto fascista appare ancora, per ovvie ragioni, un quid in definiendum si rivela opportuno che «tutte le singole leggi
che si vanno, dall’inizio del Regime, emanando siano messe e prese insieme e studiate a titolo provvisorio in quella specifica ‘disciplina’ che è il
Sistema della Legislazione»86. Una materia, del resto, per sua natura destinata
«a scomparire e a dare il posto, senz’altro, all’insegnamento del diritto in
tutte le sue specificazioni, il quale diritto, preso nella sua totalità ed in
ogni sua molecola, nel nuovo clima storico, a Legislazione spiegata, concretamente non meno che astrattamente, non può che essere fascista»87.
La implacabile ghigliottina della logica è attivata: fintanto che il fascismo
non ha egemonizzato il mondo giuridico nella totalità dei suoi gangli ha
dunque ragione di esistere il Sistema destinato, poi, a venir riassorbito dalle
varie, singole, discipline. Fino ad allora però è molto auspicabile il novello
insegnamento da impartirsi, peraltro, non solo nella Facoltà di Scienze
politiche ma anche in quelle di Giurisprudenza ed Economia88.
Gaspare Ambrosini – studioso versatile che, dopo i primi interessi di
P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, milano 2000, p. 150 (pure
pp. 151-163). Nel medesimo volume, su W. Cesarini Sforza, pp. 163-171.
84
Su questa Facoltà, «destinata a formare i quadri e i funzionari (‘gli operai dello Stato’)
del nascente ‘Stato nuovo’ mussoliniano» si veda F. TREGGIARI, Università e giuristi a Perugia
(1925-1945), in Giuristi al bivio. Le Facoltà di Giurisprudenza tra regime fascista ed età repubblicana,
a cura di m. Cavina, Bologna 2014, p. 230. Circa il ruolo decisivo attribuito dal regime
alla città di Perugia si rinvia a L. DI NUCCI, Nel cantiere dello Stato fascista, Bologna 2008, pp.
69-90 (a p. 71 si ricorda come si volesse far divenire Perugia la «Oxford italiana»).
85
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, V, 6 (agosto 1937), p. 690.
86
Ibid., p. 691.
87
Ibid, p. 692.
88
Ibid, p. 693.
83
120
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
stampo ecclesiasticistico, aveva virato con decisione verso il diritto costituzionale89 – suggerisce rivelarsi preferibile che l’insegnamento in questione, ritenuto opportuno, assuma la più acconcia denominazione di
Princìpi dell’ordinamento Fascista o Princìpi del Regime Fascista sul presupposto
che «fanno pensare a qualche cosa di più dello stretto diritto, e perciò sarebbero più rispondenti alle finalità della nuova disciplina, e ne fonderebbero meglio l’autonomia»90. Chi aderisce toto corde all’iniziativa è il
giuspubblicista Beniamino Petrone91 al quale «appare incontestabile la necessità ed urgenza di una generalissima, preliminare, propedeutica disciplina che […] elabori ed affini, in autonomo campo visivo, i fondamentali
criteri che ispirano ed alimentano la grandiosa riforma del mondo giuridico che è in corso ad opera del Fascismo»92.
La Direzione del periodico si dichiarava molto soddisfatta per i positivi
riscontri93, attaccava il «misoneismo scientifico» cieco e sordo verso il
nuovo corso94 e ribadiva «le ragioni notevolissime e imprescindibili che
Gaspare Ambrosini (1886-1985) proprio in quel 1937 era stato «chiamato alla Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Roma sull’insegnamento di Diritto coloniale e poi
sulla cattedra di Vittorio Emanuele Orlando», R. BIFULCO, ad vocem, in DBGI, I, p. 51.
90
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, V, 6 (agosto 1937), p. 695.
91
Nt. 109 di questo lavoro.
92
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, V, 6 (agosto 1937), pp. 696-697 (corsivo dell’autore)
che termina il suo pensiero: «così soltanto, e cioè con la urgente e non più procrastinabile
istituzione di detta autonoma generica disciplina, si potrà dare all’opera riformatrice fascista ed allo spirito di comprensione degli intellettuali italiani quella unità e chiarezza organica di vedute e di collaborazione attiva che valgano ad assicurare al grandioso
programma di rinnovamento un processo di assestamento razionale e perfetto: razionale
e perfetto di fronte alla storia del passato e, più ancora, di fronte alla storia dell’avvenire».
93
«Larghissimo, dunque, è stato il consenso sull’opportunità attuale dell’istituzione di una
disciplina che investighi e definisca i nuovi princìpi giuridici, in base ai quali si vanno man
mano trasformando sulle loro varie branche i sistemi di diritto pubblico e privato», ibid.,
p. 702.
94
«Nei tempi moderni, molti tra i così detti tecnici del diritto sono convinti che esistano
ormai sub specie aeternitatis varie specializzazioni del diritto (civile, commerciale, penale finanziario, amministrativo, corporativo, costituzionale ecc.), per cui si possa e si debba parlare esclusivamente di modifiche di esso ovvero di ulteriori specificazioni e suddistinzioni
degli stessi, e non già di un nuovo diritto generale che prenda il nome della Rivoluzione
Fascista. Orbene è proprio questo misoneismo scientifico che bisogna a qualunque costo
superare. Non è il vecchio diritto civile che continua, non è il vecchio diritto penale che
si perpetua, non è il tradizionale diritto amministrativo che vive tuttora; sono invece in
elaborazione nuove discipline fondate su nuovi salutari concetti giuridici. È rimasto il
nome classico, la crosta antica di demarcazione, ma il contenuto è profondamente trasformato! Al diritto liberale si è sostituito, nelle varie discipline giuridiche, il diritto fascista»,
ibid., pp. 704-704.
89
121
S. GENTILE
reclamano senza ulteriori indugi» l’agognata «autonoma disciplina scientifica e didattica»95.
I caldi entusiasmi dell’estate del ’37 dovettero più o meno repentinamente raffreddarsi prima e congelarsi poi se è vero che del referendum si
perdono le tracce per oltre due anni, tornando alla ribalta soltanto alla
fine del 1939. È facile opinare nel senso che una forte, e innegabile, rinnovata sollecitazione pervenne dalla decisione della Facoltà di Giurisprudenza romana – di cui era preside dal settembre 1938 un giurista vicino
al regime quale lo storico del diritto Pier Silverio Leicht96 – di comprendere «fra le materie affini la disciplina Princìpi di diritto fascista»97. Il dibattito
così si rianimava tanto che giungevano al giornale i contributi di Widar
Cesarini Sforza98, Guido Zanobini99, Antonio Falchi100 e Renzo Sertolis
Ibid., p. 705 ove si legge anche: «risulta ad abundantiam l’urgenza della soluzione totalitaria
del problema da noi auspicata. Si tratta – affermiamo con piena coscienza – dell’adozione
di un provvedimento squisitamente fascista ed in perfetta linea con l’inesauribile spirito
rivoluzionario del nostro dinamico Regime». In precedenza (p. 703) si era scritto che «non
bisogna abbandonare la denominazione Diritto fascista anche se essa può dare a priva vista
luogo ad equivoci e può consentire a qualche pubblicista la facile critica che oggi tutto il
diritto è fascista e che quindi non può essere chiamato Diritto fascista una determinata disciplina. Orbene, noi vogliamo appunto che questa materia generalissima eviti l’equivoco
di far pensare ad un determinato diritto, privato o pubblico; vogliamo che, attraverso il
prisma di quella generica disciplina senz’altro si pensi a tutto il diritto che il fascismo crea
giorno per giorno, nel campo pubblico e in quello privato».
96
Su Pier Silverio Leicht (1874-1956) G. FERRI, ad vocem, in DBGI, I, pp. 1161-1162.
97
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, VIII, 1-2 (novembre 1939 − febbraio 1940), p. 75 (e
poi p. 76): «quest’anno un passo avanti è stato compiuto verso il raggiungimento della
mèta. Il Consiglio dei Professori della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di
Roma ha per l’anno accademico 1939−40 compresa fra le materie affini la disciplina Princìpi
di diritto fascista, presentemente svolta nella predetta Università da tre liberi docenti. Dato
che è il ministero dell’Educazione Nazionale che fissa le materie normali e quelle complementari per tutta l’Italia, il massimo che poteva essere concesso a favore della nuova
disciplina è stato fatto dalla Facoltà romana. […] Dopo di che possiamo confermare la
nostra fondata speranza che il fascistissimo ministro dell’Educazione Nazionale non mancherà per l’anno 1940-41 ad accogliere integralmente la nostra proposta. Intanto teniamo
a far presente che all’unica sessione di esami concessa nel 1936 decine e decine furono gli
studenti presentatisi, che numerosi sono anche i giovani laureati che hanno inutilmente
manifestato il desiderio di prendere la libera docenza nella predetta materia e che infine
non pochi sono i professori universitari che, completamente o con qualche riserva, hanno
aderito alle nostre idee».
98
Riguardo la figura di Widar Cesarini Sforza (1886-1965): C. LOTTIERI, ad vocem, in DBGI,
I, pp. 514-517. Sul periodo romano dello studioso: G. CARCATERRA, Widar Cesarini Sforza
alla ‘Sapienza’, in I filosofi del diritto alla ‘Sapienza’ tra le due guerre, a cura di G. Bartoli, Roma
2017, pp. 109-121 (ma in questa collettanea anche G. BARTOLI, Il diritto tra idea e fenomeno:
il ‘caso’ Widar Cesarini Sforza, pp. 531-572).
95
122
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
Salis. Il ventaglio delle risposte era cangiante oscillando da un lato tra il
dissenso radicale di Zanobini – a detta del quale era già di per sé sufficiente il Diritto costituzionale, calamitante nella sua orbita i Princìpi101 – e
quello appena più sfumato di Cesarini Sforza – orientato nel senso di ribadire «l’organicità degli studi per la laurea in Giurisprudenza» tali da relegare, se del caso, l’insegnamento in questione ad un semplice «corso
libero»102 – e dall’altro tra l’assentimento condizionato di Falchi – per cui
si stimava meglio acconcia per la disciplina la denominazione di Princìpi
generali dell’ordinamento vigente – e quello «totalitario»103 di Sertolis Salis. Costui – «figura molto prossima al regime»104 – nell’attivazione dell’insegnamento dei Princìpi aveva scorto la possibilità di «ovviare all’inconveniente,
spesso lamentato, dell’eccessivo frazionamento e delle troppo numerose
specializzazioni, per così dire, della scienza giuridica»105: la disciplina in
parola avrebbe ricompreso tutti quei nuovi diritti meritevoli di attenzione
come «il diritto razziale o razzista che dir si voglia»106. Il riferimento non
si presenta inutile o innocuo. Nel medesimo lasso di tempo in cui Corrado
Petrone si batteva per l’istituzione della cattedra dei Princìpi di diritto fascista
specularmente Stefano mario Cutelli, dalla Direzione de Il diritto razzista107,
si faceva promotore di un piccolo ma agguerrito, e chiassoso, movimento
che, agitando la bandiera dell’antisemitismo giuridico, puntava con deci99
Su Guido Zanobini (1890-1964), «certamente annoverabile tra i maggiori amministrativisti italiani del Novecento», chiamato all’Università di Roma nel 1934, A. SANDULLI, ad
vocem, in DBGI, II, pp. 2083-2086.
100
Su Antonio Falchi (1879-1963), filosofo del diritto che insegnò a Genova dal 1925 al
1961: R. SAU, ad vocem, in DBGI, I, p. 816.
101
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, VIII, 1-2 (novembre 1939 – febbraio 1940), p. 89.
102
Ibid., pp. 85-86: «Questa infatti dovrebbe essere la funzione dell’insegnamento universitario non ufficiale: funzione ausiliaria e di fiancheggiamento, particolarmente desiderabile
data la crescente complessità degli studi giuridici».
103
Ibid., p. 90 (così, Petrone, ne aggettiva l’adesione).
104
GENTILE, La legalità del male, cit. nt. 9, p. 23 (alla nt. 36 s’aggiunge ch’egli – oltre ad
essere docente incaricato di Diritto coloniale presso l’Università Statale di milano e quella di
Pavia – era membro dell’Istituto Fascista di cultura, consultore alla Scuola di mistica fascista, docente al Centro di preparazione politica del P. N. F. di Roma, consulente dell’Ufficio Studi e Legislazione presso il Direttorio Nazionale del P. N. F.). Circa la sua mancata
epurazione rinvio a m. G. DI RENZO VILLATA, La Facoltà di Giurisprudenza della Statale di
Milano tra battute d’arresto e…voglia di ricominciare, in Giuristi al bivio, cit. nt. 84, p. 84.
105
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, VIII, 1-2 (novembre 1939 – febbraio 1940), p. 88.
106
Ivi.
107
Diffusamente in GENTILE, La legalità del male, cit. nt. 9, pp. 44-61.
123
S. GENTILE
sione degna di miglior causa al riconoscimento – una volta di più scientifico e accademico – della relativa disciplina108. Petrone e Cutelli, ambedue
giuristi e Direttori di periodici, appaiono così figure molto simili e accomunate – oltre che nella fede cieca in mussolini – nella battaglia per la
netta e decisa fascistizzazione delle cattedre e del pensiero giuridico.
Codesta vicenda – i cui protagonisti gravitano, quasi nella loro totalità,
nell’orbita dell’Università dell’Urbe109 – si sarebbe invero trascinata a
lungo ma il più volte auspicato riconoscimento ministeriale dell’insegnamento non avrebbe mai visto la luce, benché richiesto sino alla fine110.
Ibid., pp. 15-20.
Più dettagliatamente, figuravano ‘Professori liberi docenti’ Presso la Facoltà di Giurisprudenza Beniamino Petrone – per Diritto costituzionale – e Bernardo Pirro – per Storia e
principii di diritto fascista – mentre, in veste di ‘Professori ordinari’ figuravano Guido Zanobini – Diritto amministrativo – Widar Cesarini Sforza – Filosofia del diritto – e Gaspare Ambrosini per il Diritto coloniale. Appartenevano, invece, alla Facoltà di Scienze politiche –
oltre, ovviamente, Sergio Panunzio, ordinario, sulla cattedra di Dottrina dello Stato – Corrado
Petrone, libero docente per Introduzione alla storia e principii di diritto fascista. S’aggiunga che,
alla Facoltà giuridica, tra i ‘liberi docenti, erano compresi anche Carlo Costamagna – Principii di legislazione fascista – e Nicola macedonio, Introduzione alla storia e principii di diritto
fascista, laddove, a Scienze politiche, Renato Balzarini era ‘incaricato’ per il Diritto corporativo.
Petrone, Pirro e macedonio avevano conseguito la libera docenza insieme il 27 aprile 1936
(vedi nt. 59 di codesto lavoro). Per tutte queste notizie: Regia Università degli studi di
Roma, «Annuario per l’anno accademico 1939-40», Roma 1940, pp. 213-249 (in particolare
p. 216, p. 217, p. 225, p. 228, p. 230, p. 243, p. 245, p. 245, p. 249). In argomento rimando
a m. CARAVALE, Per una storia della facoltà di Scienze politiche in Italia: il caso di Roma, in «Le
carte e la storia», I (1995), 2, pp. 17-28; E. GENTILE, La Facoltà di Scienze politiche nel periodo
fascista, in Passato e presente delle Facoltà di Scienze politiche, cit. nt. 80, pp. 45-85; F. LANCHESTER,
Leopoldo Elia e la tradizione giuspubblicistica a “La Sapienza”, in La “Sapienza” del giovane Leopoldo
Elia 1948-1962, a cura di F. Lanchester, milano 2014, pp. 3-8. Sulla Facoltà di diritto è
utile I. BIROCCHI, Sul crinale del 1944: Filippo Vassalli e la reinvenzione del ruolo della facoltà di
Giurisprudenza della Sapienza di Roma dopo la caduta del fascismo, in Giuristi al bivio, cit. nt. 84,
pp. 259-272. Infine, tutt’altro che inutile ricordare che anche Salvatore Foderaro figurava
tra i promettenti ‘giovani studiosi’ dal luminoso avvenire (quali Vezio Crisafulli, Vincenzo
mazzei, Vincenzo Gueli, mario Nigro, Flaminio Franchini e Danilo De’ Cocci) frequentanti, tra gli anni Trenta e Quaranta, l’Istituto di diritto pubblico e di legislazione speciale
della Facoltà di Scienze politiche romana: RIDOLA, Sulla fondazione teorica della ‘Dottrina dello
Stato’, cit. nt. 80, p. 111.
110
In DF, X, 5 e 6 (luglio-ottobre 1942), Per i Princìpi di diritto fascista, pp. 209-214 si ripercorrevano le tappe della travagliata vicenda ricordando anche un colloquio, risalente al
1937, di Petrone e Pirro con il ministro Bottai in cui quest’ultimo aveva dichiarato di «non
essere affatto sostanzialmente contrario alla istituzione della nuova disciplina (precisata
nel suo campo più strettamente giuridico) ma di ritenere il problema non ancora maturo
presentandosi per esso opportune precisazioni scientifiche e dibattiti giornalistici prima
che la scienza ufficiale e le autorità amministrative potessero prendere posizione e adottare
decisioni» (pp. 211-212). Precedentemente (e analogamente), in DF, IX, 1 e 2 (novembre
108
109
124
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
Sorte non dissimile conobbe un’altra iniziativa di Petrone alla quale
accenno soltanto. Alludo alla circostanza per cui sul già ricordato numero
dell’agosto 1937 il nostro caldeggiava anche la creazione di un Istituto di
diritto Fascista che, in tutto frutto della nuova era, si proponeva l’ambizioso
fine di accompagnare la Rivoluzione dei fasci fornendo ausilio scientifico111. Più precisamente, nella mente del suo ideatore – al quale, ça va sans
dire, sarebbe spettata la Presidenza112 – l’Istituto avrebbe vigilato «a che la
novità fascista, nel dogma e nella storia della scienza giuridica, non venga
travisata o comunque offuscata per scopi od interessi» senza omettere «la
necessità di controllare, dirigere e integrare, e, soprattutto unificare, secondo i superiori princìpi della Rivoluzione, le attività dirette allo studio
e alla diffusione in Italia e all’Estero, degli originali ordinamenti economici
e giuridici del fascismo»113. Era così delineata una sorta di sommo custode
e supremo garante dell’ortodossia giuridica in orbace. E non m’appare
sprovvisto di valore, e significato, far presente, ed avvertire, che a ragionare entro il perimetro di tale figura concettuale – tracciando segni e immaginando scenari – Petrone si ritrovi in blasonata ed illustre compagnia,
avendo avanzato proposte ben simili, quanto ad intenti e sviluppi, studiosi
del calibro di Fulvio maroi114 ed Emilio Betti115.
1940-febbraio 1941), Per i Princìpi di diritto fascista, pp. 43-50 s’era fatto il punto sulla questione e s’era data notizia dell’adesione (p. 49) del professor Giacomo Perticone «alla opportunità della formulazione dei Princìpi generali dell’ordinamento fascista» (entrambi i contributi
erano firmati La Direzione).
111
In DF, V, 6 (agosto 1937), pp. 739-742 è riportato il testo integrale dello Statuto dell’Istituto di diritto Fascista, composto da 13 articoli e datato 9 maggio 1937.
112
mentre il giornale di Petrone, Il Diritto fascista, sarebbe stato «l’organo ufficiale per gli
atti e le manifestazioni dell’Istituto» (art. 13), ibid., p. 742.
113
Ibid., p. 740.
114
F. mAROI, Per un Istituto Fascista del diritto, in «La Vita italiana», LIII (1939), pp. 145-151.
maroi (p. 145) affermava con decisione «la opportunità della creazione di un organo di
elaborazione, di propulsione, di coordinamento, di diffusione del movimento giuridico
fascista, dei princìpi ed istituti cioè che sono espressione della dottrina fascista nel campo
giuridico e di ogni suo progressivo sviluppo». Inoltre, individuava (pp. 146-149) le seguenti
finalità dell’Istituto fascista del diritto: 1) presiedere «alla identificazione e segnalazione di
quelle che sono le progressive esigenze giuridiche della nuova realtà sociale creata dal fascismo»; 2) «elaborazione dogmatica del nuovo diritto fascista […] fin qui lasciata alla iniziativa individuale»; 3) ruolo essenziale nel campo «della nuova codificazione», di cui
l’Istituto «potrebbe essere chiamato ad organizzare tecnicamente il lavoro di riforma legislativa»; 4) «divulgazione del pensiero giuridico mussoliniano nel mondo».
115
E. BETTI, Sul Codice delle obbligazioni. L’influenza francese e l’esempio tedesco nel progetto (quarto
libro) di riforma del Codice civile, in «monitore dei Tribunali. Giornale di Legislazione e Giurisprudenza civile e penale», LXXX (1939), p. 423: «per quel che riguarda l’organizzazione
125
S. GENTILE
Detto che tale proposta fa il paio con la precedente e ne costituisce
anzi, in assoluta coerenza, un logico sviluppo aggiungo che pure l’esito è
identico risolvendosi in nulla, nonostante l’idea fosse stata «esposta personalmente al Duce ed approvata entusiasticamente dall’Eccellenza Dino
Grandi»116.
c) «Contro le mummie liberali, afasciste e, talvolta, addirittura antifasciste»: il coinvolgimento dei giovani
In questo paragrafo intendo soffermarmi su di un aspetto che considero particolarmente meritevole di attenzione.
Certamente una delle cifre, una delle maggiori, dell’avventura editoriale di Petrone è costituita da una costante attenzione nei confronti dei
più giovani117, in particolare verso gli studenti dei Gruppi Universitari Fascisti. In ciò aveva svolto un ruolo decisivo l’essere stato, egli stesso, animatore e promotore di iniziative indirizzate alla gioventù studentesca
anche molto riguardevoli quanto ad energie spese e risultati conseguiti118.
Il periodico si mostrò prodigo di ospitalità per i contributi dei giuristi
in formazione, in primis studenti119: ne sortirono interventi a volte ancora
tecnica del lavoro di riforma, è da constatare con dispiacere che il nostro paese non ha ancora purtroppo
un organismo analogo all’Accademia per il diritto tedesco. Si tratta di un organismo fondato nell’ottobre del 1933, destinato a mettere a profitto ai fini della riforma tutte le forze dei giuristi tedeschi e le loro competenze migliori: un organismo, la cui composizione è
determinata appunto dal criterio della competenza tecnica, salva solo la pregiudiziale dell’appartenenza alla razza ariana, e non già rimessa al capriccio del caso o al giuoco delle
aderenze personali. […] Qui basterà aver segnalato quello che, a nostro avviso, sarebbe
un esempio da seguire» (corsivo mio).
116
Per i princìpi di diritto fascista, in DF, X, 5-6 (luglio – ottobre 1942), p. 214 (firmato La
Direzione).
117
Riscontro così, e confermo, che il «‘problema dei giovani’ fu uno dei temi centrali della
stampa fascista degli anni Trenta», R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso
1929-1936, Torino 1974, p. 103.
118
Nt. 12 di questo lavoro.
119
Nella Premessa (a firma La Direzione) a D.F., III, 7-9 (settembre 1935), pp. 215-216 può
leggersi: «a cominciare dal prossimo fascicolo, sarà riservato un apposito numero di pagine
per la pubblicazione periodica dei lavori di camerati dei GUF. Questa collaborazione avrà
così un carattere sistematico, certamente produttivo di utili risultati per gli studi sula nuova
scienza giuridica nazionale che dobbiamo al Fascismo. A solo titolo di guida, indichiamo
che daremo la preferenza ai lavori che tratteranno qualcuno dei seguenti argomenti: Presupposti storici e politici del diritto fascista; lineamenti scientifici e individualità del diritto
fascista; Capo del Governo; Partito; Gran Consiglio del Fascismo; Sindacato fascista; Corporazione fascista; Consiglio Nazionale delle Corporazioni; Comitato Corporativo Centrale; principio costituzionale dello Stato fascista; Popolo; cittadino-produttore-soldato;
126
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
acerbi nella loro semplicità ma che dimostrano chiaramente – talora con
l’ovvio (e facile) entusiasmo che, non di rado, li contraddistingue – un
forte desiderio di partecipazione e di coinvolgimento. Così, in un editoriale del gennaio 1933, ci si compiaceva per «la schietta ed entusiastica
collaborazione dei GUF, collaborazione di capitale importanza per l’esatta
interpretazione, per lo studio e per il sempre maggiore incremento del diritto fascista»120 e si indiceva altresì una Gara goliardica in diritto fascista pubblico aperta a tutti i «giovani ossequienti»121. Insomma si trattava di
stimolare la «elaborazione scientifica della gioventù fascista»122 dandole
modo di esprimersi e rivelarsi123.
Il giornale si ripropone senz’altro di fungere da palestra, luogo di
scambio, confronto e discussione a vantaggio degli spiriti in formazione:
proprio per tale ragione, perché il suo studio consente uno sguardo per
così dire dal di dentro a queste dinamiche, riflettere su tale esperienza –
in una prospettiva culturale politica e anche antropologica – mi è parsa
teoria delle fonti del diritto fascista; istituto della famiglia e della proprietà; attività e società
commerciali; lineamenti storici del diritto fascista, ecc. […] Sarà intensificata la parte dottrinaria, argomento al quale va ancora, e sempre, vivamente puntata la volontà studiosa e
creativa dei giovani, con la guida dei rarissimi maestri (due o tre, in tutto), senza scoraggiamenti (per le temporanee vittorie della vecchia scuola), senza frettolosità (per dimostrare
la capacità e il fondamento delle nostre ragioni) e con la netta fiducia nel trionfo della
verità storica, politica e scientifica anche sul terreno della scienza giuridica».
120
D.F., I, 4 (giugno 1933), p. 283.
121
Ivi: «il tema è il seguente: Parallelo tra la forma di governo fascista e le forme di governo costituzionale e parlamentare».
122
Nella Premessa a D. F., I, 9 - 10 (ottobre 1933), pp. 475. Inoltre (p. 476) si prorogava il
termine di consegna dei lavori «coincidendo con la sessione autunnale degli esami universitari» e s’aggiungeva che «la Commissione giudicatrice della gara» era composta «come
segue: S. E. on. Prof. Alfredo Rocco, ministro di Stato e Rettore dell’Università di Roma,
presidente; on. Prof. Sergio Panunzio e on. Avv. Vico Pellizzari, componenti». Nella Premessa a D.F., II, 3 e 4 (maggio 1934), p. 694 si precisava che avevano inviato lavori i GUF
«di Alessandria, Bari, Cagliari, Cuneo, Napoli, Palermo, Pavia, Roma, Sassari».
123
Il Saggiatore. Rivista mensile di lettere, IV, 6-7-8 (ottobre 1933) nel corso di una inchiesta
sui giovani aveva raccolto una serie di testimonianze ad opera «di giovani forze, le quali,
pur nelle differenze molte volte notevoli del loro atteggiamento spirituale, sono unite da
una volontà di essere, di agire su una stessa realtà che rappresenta gli stessi problemi: che
sono poi quelli veri, reali, quelli che contano» (pp. 242) ed aveva, tra gli altri, coinvolto il
medesimo Petrone; costui nel suo contributo aveva ribadito con passione la necessità di
«una concezione dualistica […] che deve guidare nella vita culturale e pratica il nuovo italiano fascista: l’affermazione, il trionfo dell’io e l’affermazione, il trionfo della NazioneStato» (p. 361). Petrone era presentato come ‘Segretario della Federazione Nazionale dei
Sindacati Fascisti dell’Industria dell’Acqua, Gas e Elettricità’ e quale ‘membro del Consiglio
Nazionale delle Corporazioni’ (p. 387).
127
S. GENTILE
operazione scientificamente utile. La Rivista come luogo primariamente
di dibattito, e con ogni probabilità anche vivace, dunque. Se ne ha conferma in un documento dell’aprile 1942 in cui Petrone scrive al Duce al
fine di informarlo circa le ultime attività promosse:
Sono terminate le riunioni dei redattori e collaboratori (vecchi e giovani
delle ultime leve) di Conquiste dell’Impero e Il Diritto Fascista, delle quali
ebbi a parlarVi nel colloquio che mi concedeste nello scorso gennaio.
Ci siamo occupati dei problemi della rappresentanza politica e della rappresentanza sindacale, dei rapporti tra Sindacati e Corporazione, dell’autosufficienza economica e dell’azienda produttiva. Le varie relazioni e i
risultati dottrinali raggiunti nelle discussioni saranno pubblicati nel prossimo numero de Il Diritto Fascista124.
Come si vede, in questa occasione, ad essere passato sotto la lente
aguzza dell’attenzione è l’intero mondo economico/sociale/produttivo
studiato in tutte le sue, molteplici, implicazioni politiche e giuridiche125.
E ancora. In una lettera del febbraio 1938 indirizzata a Dino Alfieri – ministro della Cultura Popolare – l’infaticabile direttore rimarca – e rivendica,
non senza orgoglio – c he la sua Rivista «è compilata da un gruppo di giovani professori e di giovanissimi laureati e studenti, ai quali si sono entusiasticamente uniti alcuni vecchi professori il cui indirizzo scientifico è
stato ed è in perfetta linea con la nuova rigenerante concezione giuridica
fascista»126. Siamo ad un punctum – forse al punctum – decisivo. Il coinvolIn ACS, SPD, CO, b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado. La comunicazione termina
come segue: «premesso che non è mancata qualche isolata voce eccessivamente sovvertitrice che ha
parlato addirittura di crisi del sistema corporativo senza però sapere proporre nulla di concreto e costruttivo,
in generale ci si è trovati d’accordo nei seguenti punti: 1) il sistema corporativo è saldo e
fondato sulla realtà; vanno pertanto adottate modifiche non del sistema bensì nel sistema;
2) fulcri del sistema restano la Legge del 3 aprile 1926 e la Carta del Lavoro; 3) su tali granitiche basi vanno studiate le riforme che, al lume dell’esperienza, adattino i princìpi alla
realtà economica e sociale» (corsivo mio). In DF, X, 3 e 4 (aprile-giugno 1942) – in una
pagina intitolata Discussioni utili e firmata La Direzione – si dà conto di ciò (p. 95).
125
Che rappresenta, in effetti, uno dei maggiori interessi di Petrone: CARAVALE, Una incerta
idea, cit. nt. 6, pp. 288-289. Per qualche aspetto del pensiero del nostro I. STOLZI, L’ordine
corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista,
milano 2007, p. 62 (nt. 119) nonché p. 117 (e nt. 78). C. mOZZARELLI, Gerarchi/gerarchia,
in Dizionario del fascismo, cit. nt. 35, p. 587 rammemora che «il giurista Corrado Petrone
[…] arriverà a proporre l’elezione dal basso dei gerarchi – termine spesso virgolettato –
e il loro controllo da parte del popolo».
126
In ACS, SPD, CO, b. 2351, f. 549258 Petrone Corrado. Il documento integrale in Appendice
documentaria n. 3.
124
128
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
gimento dei giovani studiosi − oltre che rispondere, negli auspici, all’ambizione di creare una futura classe dirigente in camicia nera giacché perfettamente allineata e solidale con il regime – si palesava espressione di
una vera e propria polemica generazionale condotta, non senza asprezza,
avverso studiosi ritenuti irrimediabilmente ancorati a logiche dinamiche
elaborazioni e riti sorpassati. Un mondo, con i suoi ardenti slanci giovanili,
preme e spinge per sostituirsi ad un altro:
Così, mentre molte rassegne si addormentano e addormentano, nell’inane,
anacronistica fatica di turibolare incensi a mummie liberali, afasciste, e, talvolta,
addirittura antifasciste, santoni più che sterili, dai quali nulla più esse sanno di poter
attendersi, noi offriamo ai nuovi e giovani studiosi nostri, d’oltralpe e d’oltremare, la elaborazione scientifica della gioventù fascista127.
Concetto ribadito – nel settembre 1939 – in una missiva destinata a
Sebastiani in cui si lamentava «l’opposizione aperta o celata di vari santoni
universitari tuttora nostalgicamente agganciati a vecchie concezioni sociali»128.
In realtà, e a ben guardare, nella filigrana della contesa si scorge, e si
intuisce facilmente, il vero oggetto del contendere.
d) L’eterno ritorno ovvero la questione del ‘metodo giuridico’
Le polemiche che animano le ospitali pagine de Il Diritto fascista contro
la cultura e il sapere scientifico tradizionale e pervicacemente non allineato
– fisicamente rappresentato dagli «elementi professorali antifascisti»129,
individuati e additati soprattutto «negli ebrei e nei loro epigoni»130, ritenuti
Premessa a D. F., I, 9-10 (ottobre 1933), p. 475 (corsivo mio).
In ACS, SPD, CO, b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado. Il documento integrale in Appendice documentaria n. 4.
129
C. PETRONE, Cultura ufficiale e cultura mussoliniana, in D.F., VII, 1 (novembre – dicembre
1938), p. 54.
130
«Osiamo chiedere che tutti i malati di lue culturale ebraica vengano inesorabilmente
defenestrati dalle Università italiane. Ogni cattedra rappresenta un delicato posto di responsabilità che non può essere dato o conservato a elementi non ritenuti fascisti dal
punto di vista culturale. ma non basta, non basta fermarsi agli ebrei ed ai loro epigoni.
Tra i vecchi e giovani maestri della vecchia scuola vi sono elementi ben più infidi di qualche
ebreo spazzato giustamente via. […] Questi professori non ebrei, ma che pur essendosi
abbeverati più o meno palesemente a sorgenti giudaiche, sono riusciti a dare ai loro studi
una parvenza di originalità, sono ben più pericolosi degli ex-alunni degli ebrei, in quanto
la eliminazione di questi ultimi non potrà essere che questione di tempo, potendo essi essere facilmente individuati», ibid., pp. 55-56.
127
128
129
S. GENTILE
ancora ampiamente dominanti nelle logiche universitarie131 – non sono
che, in qualche modo, frammenti del conflitto dottrinale imperversante,
nell’ora storica, sul terreno, accidentato e molto frequentato, del metodo
giuridico132. Similmente, l’aver a lungo duellato per l’ottenimento dell’autonomia scientifica (e didattica) del diritto dei (e dai) fasci littori non rappresentava che un episodio, tra i molteplici, di quello scontro.
Si ponga ora mente alla circostanza temporale per cui l’avventura editoriale petroniana s’avvia – 28 ottobre 1932 – a dieci anni dalla presa del
potere da parte di mussolini e immediatamente dopo il I Congresso giuridico italiano, tenutosi tra il 5 e il 9 dello stesso mese a Roma, nella solennità della Sala di Giulio Cesare del Campidoglio. Inaugurando il
simposio, Pietro de Francisci – da meno di tre mesi ministro di Grazia e
Giustizia133 – lanciava per i giuristi italiani il «fortunato slogan»134 per cui
«a realtà nuova dogmatica nuova»135. In fin dei conti, rispondendo alle sollecitazioni, Pirro e Petrone, a loro modo, non avevano fatto altro che raccogliere la sfida lanciata dal Guardasigilli.
Ho anticipato che sul fascicolo della Rivista del febbraio 1943136 – in
«Ai posti migliori universitari ed anche alle più modeste cattedre non sono arrivati che
gli allievi o dei professori ebrei o dei maestri non ebrei di nascita ma dalla mentalità e cultura indiscutibilmente antifascista. Tranne rare ma benefiche eccezioni, gli uomini politici
riusciti ad entrare nelle Università, hanno prima dovuto, in buona o mala fede, innacquare
molto della loro intransigenza, hanno dovuto aderire ad alcuni dei concetti fondamentali
dei maestri. […] Chi non è stato allievo di un professore ebreo, ovvero di un ‘maestro antifascista’ non entra nelle Università!», ibid., p. 57.
132
Su cui, almeno, G. CIANFEROTTI, Il pensiero di V. E. Orlando e la giuspubblicistica italiana
fra Ottocento e Novecento, milano 1980, pp. 271-308; COSTA, La giuspubblicistica dell’Italia unita:
il paradigma disciplinare, cit. nt. 23, pp. 122-125; G. SPECIALE, Verso un nuovo ordine, in Tempi
del diritto. Età medievale, moderna, contemporanea, a cura di P. Alvazzi del Frate, m. Cavina, R.
Ferrante, N. Sarti, S. Solimano, G. Speciale, E. Tavilla, Torino 2018, pp. 411-415. Circa i
rapporti dei giuristi vicini al regime nei confronti della tradizione giuspubblicistica italiana:
m. FIORAVANTI, Dottrina dello Stato-persona e dottrina della costituzione. Costantino Mortati e la
tradizione giuspubblicistica italiana, in Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, a cura di m. Galizia
e P. Grossi, milano 1990, pp. 92-114.
133
Su Pietro de Francisci, romanista insigne, che aveva assunto la carica il 20 luglio 1932,
succedendo ad Alfredo Rocco (e che restò a capo del ministero fino al 24 gennaio 1935):
C. LANZA, ad vocem, in DBGI, I, pp. 675-678.
134
C. LANZA, La «realtà» di Pietro de Francisci, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), cit.
nt. 6, p. 228.
135
P. DE FRANCISCI, Discorso di S. E. il Ministro di Grazia e Giustizia in Atti del I Congresso giuridico italiano, Le Discussioni, Roma, 1933, p. 13. Tale Discorso venne poi pubblicato in varie
sedi (dal Diritto del lavoro di Bottai alla Rivista di diritto pubblico).
136
A titolo di curiosità aggiungo che proprio su questo numero del foglio, all’ultima pagina,
131
130
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
realtà rivelatosi l’ultimo numero del periodico, evidentemente di lì a breve
travolto dagli accadimenti – si forniva notizia dell’affiancamento di Salvatore Foderaro a Petrone nella condirezione, comunicata allo stesso
Capo del Governo137. Qui interessa però molto la motivazione addotta:
la scelta non possedeva «un valore meramente casuale» ma veniva giustificata sul presupposto che Foderaro era descritto come «un giovane che
sente vivamente i tempi nuovi e pur segue il metodo tecnico-giuridico»138. Poi si aggiungeva:
si vuole così sperare che questo nostro passo verso l’indirizzo tecnico
tradizionale della dogmatica giuridica venga compreso nella sua debita
portata139.
L’editoriale segna un decisivo cambio di rotta nella strategia di Petrone. Costui dovette aver inteso che lo scontro frontale con i fautori della
scienza giuridica tradizionale s’era al dunque risolto in un ben magro bottino quanto a risultati conseguiti e – reputato «superato quasi completamente il periodo distruttivo o rivoluzionario nel campo giuridico
scientifico»140 ovvero la fase pugnace e battagliera – riteneva ora conveniente e «opportuno, anzi necessario, uno stretto legame tra tecnica e vita
si forniva notizia della nascita di uno Studio legale de ‘Il Diritto fascista’ con le seguenti parole:
«ad iniziare dall’anno XXI è annesso alla Rivista uno Studio Legale, il quale è diretto dal
Prof. Avv. Salvatore Foderaro, al cui studio farà capo. Lo Studio tratta cause civili, penali
ed amministrative dinanzi a tutte le giurisdizioni della Capitale; e si occupa altresì della
consulenza, alla quale collaborano giuristi insigni, versati nelle varie branche del diritto,
dando inoltre motivati pareri sull’opportunità di gravami e ricorsi. Possono altresì, presso
la sede dello Studio, eleggere domicilio tutti gli avvocati e procuratori residenti nelle varie
provincie. Gli avvocati e procuratori che intendano diventare corrispondenti dello Studio,
possono rivolgersi alla sede de ‘Il Diritto fascista’, Corso Vittorio Emanuele 142 Roma».
137
Riporto l’Appunto per il Duce’ dei primi del ’43 ove può leggersi: «DUCE! Animati
dalla stessa Fede ed uniti nello stesso Ideale, riprendiamo – quali Condirettori – nel nome
Vostro, Duce, la pubblicazione de Il Diritto Fascista in quest’anno XXI. La nostra Rivista,
pur conservando sempre la sua caratteristica peculiare di organo di avanguardia e di battaglia nel campo del Diritto, diventa ora altresì organo tecnico di dommatica giuridica.
Quale viatico ed ambito premio al nostro lavoro, Vi chiediamo, DUCE, di volerci concedere di offrirVi di persona il primo numero dell’anno XXI. Professor Consigliere Nazionale Corrado Petrone e Professor Salvatore Foderaro», in A.C.S, SPD, CO, b. 1586, f.
518430 Petrone avv. Corrado.
138
C. PETRONE, Ai Lettori!, in D.F., XI, 1 e 2 (novembre 1942 - febbraio 1943), p. 5 (mio
corsivo).
139
Ivi.
140
Ivi.
131
S. GENTILE
reale»141 che ci si sforzava di (ri)conciliare in armonia. Se non era un vero
e proprio «compromesso»142 si trattava comunque di qualcosa che gli si
avvicinava molto.
Petrone in tal modo intuisce e comprende che non è più la stagione
delle polemiche aspre e dei toni sprezzanti. Gli sfugge, però, che anche
per lui la clessidra ha esaurito la rena e il suo tempo è ormai passato.
4. Nelle nebbie fitte dell’autosuggestione: «si può ben dire che il regime corporativo
sia uscito rafforzato dalla guerra»
Petrone ha tentato – per il tramite de Il Diritto fascista – di aprire un
varco e ritagliarsi uno spazio nel complesso mondo editoriale prima e
scientifico poi del Ventennio. Egli difetta della robustezza e della solidità
di pensiero del grande studioso, di cui non ha neppure la profondità di
acume o «l’originalità»143. Lo si può ritenere uno di quei giuristi engagés in
cerca di un, pur piccolo, posto al sole nel panorama accademico144. Per
Ivi.
«Sicchè, non a guisa di compromesso, ma come una necessità schiettamente sentita, si
cercherà di mostrare sin da questo numero dalle colonne di questa Rivista […] come la
dogmatica possa disposarsi con le esigenze della realtà della vita», ibid., pp. 5-6. In precedenza, C. PETRONE, Il nuovo metodo di studio delle scienze, in D. F., IX, 3 e 4 (marzo – giugno
1941), pp. 8-10.
143
Talchè m. CARAVALE, L’ombra di Banquo: il fantasma della libertà nella giuspubblicistica del
primo decennio fascista, in «Historia et ius», 8 (2015), paper 1, p. 13 definisce il suo pensiero
come caratterizzantesi per apparire «senza alcuna originalità» (utile anche la nt. 67).
144
Senza ottenere gli sperati riconoscimenti, però. Un esempio. Subito dopo aver dato alle
stampe il suo Princìpi di Economia fascista e nazionalsocialista, Petrone chiedeva nel luglio 1941
all’allora ministro della Cultura popolare, Alessandro Pavolini, «l’alto onore della consegna
personale al DUCE dell’opera ovvero una speciale pubblica segnalazione». Il successivo
10 agosto il ministero si dichiarava «spiacente» di non poter assicurare nessuna delle richieste avanzate. Tra le carte di Archivio si conserva un’articolata recensione (datata 2
agosto 1941) – anonima ma proveniente dalla Direzione Generale della Stampa Italiana
istituita presso il ministero della Cultura popolare – dell’opera in questione. Vi si legge
che il volume, pur stimato come «concepito ed attuato con serietà di intenti e di mezzi»,
era considerato dal recensore non meritevole di essere presentato a mussolini soprattutto
per una ragione «assai grave» ovvero la critica mossa alla definizione di più alta giustizia sociale in quanto, a detta di Petrone, non esprimente bene «il concetto di raccorciamento
delle distanze economiche e sociali». ma tale definizione apparteneva, ricordava il funzionario, al Duce stesso e dunque non era data la possibilità – ché questo, implicitamente ma
ben chiaramente, asseriva lo scrivente – di criticare mussolini. Infine, tra le altre «osservazioni», e mende, allo scritto non si ometteva di segnalare la (imprudente) citazione dello
«scrittore ebreo Arias», da reputarsi quanto meno una grave svista per il recensore: ACS,
141
142
132
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
meglio dire, la sua mi appare piuttosto quale la figura di un agitatore culturale – ché i regimi hanno brama anche di questi personaggi – in cui
l’ideologia predomina e sovrasta su di ogni pretesa di autentica scientificità, tosto ricondotta al piccolo cabotaggio delle velleità. Non immune
neppure dal veleno dell’antisemitismo – di cui invece diviene diffusore –
nondimeno, occorre dirlo, restando distante dalle ciarlatanesche canaglierie de Il diritto razzista. Un pasdaran, di certo, a suo (discutibile) modo un
‘puro’ accostabile ad un Berto Ricci145, ad un Niccolò Giani146 – che sarebbe facilmente potuto essere uno dei frequentatori abituali delle riunioni
de Il Diritto fascista – ed ai sodali della Scuola di Mistica Fascista147 che furono
accecati, e soggiogati, da mussolini ma ebbero a loro merito quanto meno
la limpidezza ingenua della giovanile intransigenza disinteressata148.
Minculpop, Gabinetto, b. 116, f. 706 Petrone Corrado.
145
A proposito di una pagina del quale si è commentato che «gli emblemi del giovanilismo
ci sono tutti: vitalismo, entusiasmo, asprezza verbale, esplicitezza dei contenuti, insofferenza neo-romantica per la dimensione del finito, presunzione titanistica di intervenire
sulla storia, non disgiunta dall’eredità operazionistica del pragmatismo nord-americano
che continuava ad avere una parte di rilievo nella cultura del fascismo», O. ABBAmONTE,
La politica invisibile. Corte di Cassazione e magistratura durante il Fascismo, milano 2003, p. 38.
Sono tratti largamente riconducibili a Petrone, definito dallo studioso «uno scrittore ben
al corrente dei giochi retorici del regime» (p. 60).
146
Su Niccolò Giani (1909-1941), laureato in Giurisprudenza a milano nel 1931, fondatore
e anima della Scuola di Mistica fascista Sandro Italico Mussolini, caduto, da volontario, sul fronte
greco-albanese nel marzo 1941: A. GRANDI, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di
Mistica Fascista 1930-1943, milano 2004 nonché T. CARINI, Niccolò Giani e la Scuola di Mistica
Fascista 1930-1943, milano 2009.
147
In merito alla Scuola, sorta a milano nella primavera del 1930 per iniziativa del Gruppo
Universitario Fascista milanese rinvio a D. mARCHESINI, La scuola dei gerarchi. Mistica fascista:
storia, problemi, istituzioni, milano 1976.
148
Condivido molto quanto leggo in E. GARIN, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1987,
p. XXVIII per cui «fra gli eroi e i traditori, fra coloro che tentarono di salvare un brandello
di dignità ‘dissimulando’ e quelli che per interessi vari si abbandonarono a ogni viltà, ci
furono anche alcuni che dolorosamente si resero conto di scelte sbagliate e tentarono ‘dall’interno’ un cambiamento di rotta; e ci furono i giovani incolpevoli che si aprirono una strada
sofferta attraverso i ‘lunghi viaggi’, non tutti uguali, e spesso senza una bussola. L’analisi del rapporto
intellettuali-fascismo, la storia della cultura italiana sotto il fascismo non è fatta di grandi
battaglie – non è in genere una guerra di movimento. È per lo più la quotidiana dimora in
una trincea sgradevole e sporca, punteggiata da scaramucce e scontri di pattuglie, fra combattenti così ben mimetizzati che distinguere l’amico dal nemico è spesso la maggiore insidia da superare. Né va dimenticata la lentezza dei processi culturali e la loro complessità,
e l’ostacolo rappresentato da postumi moralismi e da torbidi risentimenti. Per questo l’indagine sui rapporti intellettuali-fascismo è così difficile» (corsivo mio).
133
S. GENTILE
Un intellettuale, non senza pretese, polemista149 e agitatore: lui stesso
si definisce il promotore della «campagna culturale sostenuta dai giovani studiosi
di diritto»150. Né Petrone si limita a questo. Nel fatale giugno 1940 – subito
dopo la scellerata dichiarazione di guerra – in una lettera al solito Sebastiani scrive:
nel maggio u. s. abbiamo affisso in tutta Italia un manifestino nel quale
spiccava netta la frase Siamo pronti! ed abbiamo pubblicato un numero
della Rivista Conquiste dell’Impero dedicato a dimostrare il perfetto stato
della preparazione italiana nei campi militare, economico e spirituale. Ai
primi di questo mese abbiamo affisso in tutta Italia un manifesto entusiasmante con le frasi: Vinceremo! – Verso l’Europa Mussoliniana ecc. ed
abbiamo pubblicato un numero della Rivista dedicato a dimostrare il
profondo significato della guerra liberatrice italiana151.
Quindi comunicava di partire per il fronte onde «fare il mio dovere di
soldato di mussolini»152.
Un autentico propagandista dunque che non esita a ideare stampare
e diffondere ‘manifestini’ per tutta l’Italia in sostegno alla pagina di gran
lunga più funesta dell’intera storia italiana. Con questa ennesima dimostrazione di sconsiderata – o, forse, ottusa – ortodossia l’operazione di
complicità e spalleggiamento al regime può dirsi, e considerarsi, compiuta.
L’ultima pagina del fascicolo di ottobre 1942 della Rivista suona quasi
Tra le tante polemiche di cui fu protagonista, F. AmORE BIANCO, L’esperienza teorica della
Scuola di scienze corporative dell’università di Pisa, in Economia e Diritto in Italia durante il Fascismo.
Approfondimenti, biografie, nuovi percorsi di ricerca, a cura di P. Barucci, P. Bini e L. Conigliello,
Firenze, 2017, p. 168 ricorda quella contro Filippo Carli e Widar Cesarini Sforza, accusati
di ancora «accettare ‘le vecchie leggi economiche’ e di abbracciare nuovamente ‘la superata
concezione edonistica’».
150
In una lettera del 6 settembre 1937 a Sebastiani in ACS, SPD, CO, b. 1586, f. 518430
Petrone avv. Corrado: «Eccellenza, rimetto in omaggio il libro che pubblica il Corso di Princìpi
di diritto fascista da me tenuto quest’anno all’Università di Roma. Nell’occasione, memore
e grato dell’appoggio sempre avuto dall’ E. V., mi permetto di accludere una lettera per il
DUCE. Nella lettera riassumo gli estremi della campagna culturale sostenuta dai giovani
studiosi di diritto e chiedo di poter avere l’onore di consegnare personalmente al DUCE
il primo Corso di Princìpi di diritto fascista e lo Statuto dell’Istituto di diritto Fascista. Giudicherà l’E. V. sull’opportunità o meno di sottoporre al DUCE la mia richiesta. Con devoti
ossequi». L’acclusa missiva in Appendice documentaria n. 5.
151
In ACS, SPD, CO, b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado (documento datato 20 giugno
1940).
152
Ivi.
149
134
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
come una (inconsapevole) beffa. È intitolata Regime corporativo durante il periodo bellico. Vi si legge tra l’altro: «si può ben dire che il regime corporativo
sia uscito rafforzato dalla guerra»153.
La fede illimitata, lo speranzoso ottimismo e l’incrollabile e fanatica
fiducia nelle sorti del fascismo avevano ormai alterato la stessa percezione
del mondo reale e Petrone, anima inquieta, finì con il ritrovarsi – insieme
a molti altri − «in un mondo di fantasmi»154. O forse – e per meglio dire
– di spettri.
Una volta di più i desideri – della medesima consistenza dei sogni (ma,
anche, degli incubi) – si scontravano con la – brutale ma sincera – verità.
In questa occasione con quella, concreta e drammatica, degli eventi tumultuosi, e sanguinari, di fine 1942. Sarebbe stata l’ultima illusione, ovvero
la fine della storia. La fine di una storia155.
5. Appendice documentaria156
Lettera di Petrone al Segretario particolare del Duce, Osvaldo Sebastiani (29 luglio 1939)
Eccellenza,
memore della benevolenza amichevole da Voi dimostratami in più occasioni, oso rivolgermi a Voi ancora una volta. Desidererei consegnare
personalmente al Duce la raccolta de Il Diritto Fascista dell’anno XVI e del
primo periodo di pubblicazione di Conquiste d’Impero (ottobre 1936-maggio
1936).
La consegna ha un duplice particolare significato: 1) nella Rivista giuridica sono svolti e sviluppati i princìpi essenziali del diritto autoritario
fondato soprattutto sul fatto storico che «nei periodi aurei sono sempre
1.
Regime corporativo durante il periodo bellico, in D. F., X, 5 e 6 (luglio – o ttobre 1942), p. 242.
Con acume si è scritto che «il governo fascista finì per muoversi in un mondo di fantasmi che esso prendeva per realtà», F. VENTURI, Il regime fascista, in Trent’anni di storia italiana
(1915-1945), a cura di F. Antonicelli, Torino 1975, p. 187.
155
«Cominciò allora il dramma di una generazione che, nella sua maggior parte, non era
uscita dal fascismo se non quando il fascismo era stato sconfitto dalla storia» (L. LA ROVERE, Storia dei GUF. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943,
Torino 2003, p. 398).
156
I documenti n. 1 e 2 in ACS, S.P.D., C.O, b. 1586, f. 518430 Petrone avv. Corrado. Il documento n. 3 in ACS, Minculpop Gabinetto, b. 257, f. 2131 Petrone Corrado, giornalista. I documenti n. 4 e 5 in ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 116, f. 706 Petrone Corrado. Sottolineature
originali.
153
154
135
S. GENTILE
gli uomini di genio che guidano i popoli i quali ultimi ispirano ogni loro
azione soprattutto alla fede nei capi»: non è quindi la libertà la molla delle
azioni umane ma la fede; 2) i fascicoli di Conquiste dell’Impero si iniziano
con l’impresa abissina, proclamando fin dal primo numero l’ineluttabilità
della costituzione dell’Impero Fascista, si svolgono nel periodo delle sanzioni, dichiarando subito come benefico per l’Italia in quanto incitatore
alla conquista dell’indipendenza economica, prima tappa imperiale, e si
concludono con la proclamazione mussoliniana dell’Impero Fascista.
Ove avessi ventura di essere ricevuto dal Duce oserei anche prospettargli le mie idee sindacaliste, maturatesi, più che negli studi, in dieci anni
di pratica esperienza di dirigente sindacale al centro e alla periferia della
Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Industria e di funzionario
dell’Ufficio sindacale del Direttorio Nazionale del PNF. Naturalmente
dette idee spesso sono tutt’altro che in linea con l’attuale struttura e i vigenti sistemi delle Confederazioni sindacali, specie dei lavoratori!
Un fervido devoto alalà!
Missiva per il Segretario particolare del Duce, Sebastiani (5 marzo 1940)157
Eccellenza,
con lo schietto stile fascista appreso fin dal 1919 mi rivolgo direttamente a Voi per chiederVi di volere giudicare se io sia degno di essere ricevuto dal Duce per consegnargli le raccolte di Conquiste dell’Impero e de Il
Diritto Fascista. Nello stesso tempo oso pregarVi di volere esaminare la
possibilità ed opportunità di concedere il contributo di lire ventimila raddoppiando così quello concesso l’anno scorso. Forse, in linea assoluta, Vi
sembrerò troppo audace nelle mie aspirazioni, ma, Eccellenza, se volete
scendere nell’esame accurato di altre richieste e concessioni, potrete convincerVi che, in linea relativa, i miei desideri sono più che legittimi.
mi trovo, quindi, obbligato ad esporvi io stesso i titoli di benemerenza
che giustificano appieno le mie domande.
Ho organizzato nel 1922 le Prime Olimpiadi Universitarie di Arte,
Scienza e Sport, preludio brillantissimo dei Littoriali Fascisti; sono stato
e sono dirigente sindacale di lavoratori al centro e alla periferia presso la
Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Industria; ho scritto libri ed
articoli in materia corporativa e giuridica e sono libero docente di Princìpi
di diritto fascista presso la Regia Università di Roma; sono Direttore delle
Riviste Conquiste dell’Impero e Il Diritto Fascista. Conquiste dell’Impero ha iniziata la sua attività con questa denominazione proprio all’inizio dell’im2.
157
Corsivo mio.
136
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
presa abissina appunto perché sentii che con la vittoriosa conclusione
della guerra africana il Duce avrebbe fondato l’Impero Fascista. All’atto
dell’applicazione delle sanzioni economiche contro l’Italia la Rivista uscì
con un numero con la scritta W Le Sanzioni, appunto perché, noi della redazione, comprendemmo per primi, che con le sanzioni l’Italia avrebbe
alfine conquistato l’indipendenza economica. Da allora la Rivista ha battagliato, fedele al titolo, per le conquiste imperiali dell’autarchia economica, della bonifica della scuola, della purezza della razza, ecc.
Il campo poi delicato e irto di ostacoli della conquista dell’autarchia giuridica è
stato percorso, con spregiudicato coraggio dall’altra mia rivista Il Diritto Fascista.
Ho l’orgoglio di poter affermare che il più diretto e popolare collaboratore del Duce, il ministro degli Esteri conte Galeazzo Ciano, ha dimostrato di apprezzare l’opera mia, ricevendomi unito al capo-redattore
Giuseppe Colalucci, e concedendomi anche un contributo economico e
nello stesso tempo morale con l’abbonare alla Rivista le Regie Ambasciate
d’Italia e quasi tutte le Regie Legazioni all’Estero. Ed è appunto questa
dimostrazione di stima e protettivo affetto del conte Ciano che mi ha convinto a rivolgermi direttamente a Voi, Eccellenza, con la fondata speranza
di essere esaudito nelle mie giuste richieste.
Per chi ha dato per vent’anni tutta la sua attività culturale a sostegno
delle idee fasciste e per chi può in piena coscienza affermare che il suo
contributo è stato e continuerà ad essere produttivo, non è troppo audace
se, dopo quattro lustri di fervido e fecondo lavoro, chiede l’altissimo viatico del Duce ed un riconoscimento economico da parte del ministro
della Cultura Popolare.
Un fervido e devoto alalà!
Lettera di Petrone al Ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri (17 febbraio
1938)
Eccellenza,
rimetto la raccolta dell’anno XV della Rivista Il Diritto Fascista. Si tratta
di una pubblicazione bimestrale che ha, nello stesso tempo, un carattere
scientifico ed un indirizzo nettamente rivoluzionario. IL DIRITTO FASCISTA mira ad illustrare la feconda originalità delle varie norme e dei
vari Istituti che si creano man mano nell’Italia mussoliniana. Questa Rivista è compilata da un gruppo di giovani professori e di giovanissimi laureati e studenti, ai quali si sono entusiasticamente uniti alcuni vecchi
professori il cui indirizzo scientifico è stato ed è in perfetta linea con la
nuova rigenerante concezione giuridica fascista. IL DIRITTO FASCISTA
mira ad imporre dovunque i princìpi universali dell’eterno diritto di Roma.
3.
137
S. GENTILE
Prima sua manifestazione è l’imminente pubblicazione di Mussolini giurista,
dovuta alle penne di eminenti Professori e fiorenti speranze giovanili. In
considerazione di questo programma oso chiedere all’Ecc. Vostra di poter
consegnare direttamente al Duce la raccolta de IL DIRITTO FASCISTA;
nell’occasione potrei anche consegnare le raccolte dei primi due anni di
Conquiste dell’impero. Con devoti ossequi.
Lettera di Corrado Petrone al Segretario particolare del Duce, Sebastiani (27
settembre 1939)
Eccellenza,
mi rendo perfetto conto che in questi momenti non è possibile distogliere nemmeno per un istante il DUCE dalla sua grandiosa attività. mi
permetto, quindi, rimettere a Voi la raccolta annuale de Il Diritto Fascista
perché vogliate segnalare al DUCE l’omaggio. Oserei ritenere che l’invio
meriti un particolare rilievo pubblicistico dato il carattere speciale della
Rivista. Infatti Il Diritto Fascista è l’unica Rivista giuridica che ha da vari
anni ingaggiata un’ardente battaglia nel campo scientifico ed in specie universitario che può essere definita autarchica in quanto mira a dimostrare
il progressivo superamento del tradizionale diritto liberale e l’organica affermazione del nuovo diritto dell’epoca mussoliniana. In particolare Il Diritto Fascista, fra l’opposizione aperta o celata di vari santoni universitari
tuttora nostalgicamente agganciati a vecchie concezioni sociali, sostiene
l’opportunità della istituzione di una nuova disciplina propedeutica Princìpi di diritto fascista, che detti i concetti generali in base ai quali si trasformano vecchi Istituti, sorgono nuovi enti, si affermano originali
princìpi etici ed economici, nasce, insomma, rigoglioso il nuovo diritto
fascista non più fondato sul contratto e sulla convenienza materialistica,
bensì saldamente basato sull’organizzazione statale e sulla fede dei popoli
nei supremi dirigenti statali. Con la nuova istituzione della materia si eviterebbero pericolosi errori di indirizzi mentali nei giovani studiosi e si indirizzerebbero sul serio i nostri studi giuridici e politici in senso
totalitariamente fascista.
Questo è il programma che svolge da anni la redazione de Il Diritto
Fascista composta di alcuni giovani professori universitari e di vari studenti,
i quali tutti sarebbero spronati nella loro battaglia non facile e piena di insidie accademiche, ove ricevessero, sia pure indirettamente, una breve parola dal DUCE.
Un devoto alalà!
4.
138
FASCISmO E RIVISTE GIURIDICHE
Lettera di Petrone al Duce (6 settembre 1937)158
DUCE,
da anni un gruppo di vecchi fascisti, giovani studiosi di diritto, sostiene
l’opportunità di includere fra gli insegnamenti delle Regie Università d’Italia la nuova disciplina Princìpi di diritto fascista.
Questa materia deve elaborare ed insegnare i nuovi princìpi di vita e
di azione giuridica che sgorgano dal Fascismo mussoliniano: come è passata alla storia con il nome di Diritto romano la stupenda concezione giuridica di Roma, così bisognerà consegnare alla storia in compiuto e ben
definito sistema il Diritto fascista, creato dal genio del DUCE PERPETUO. Di fronte alla Storia deve apparire ben netto il distacco fra il diritto
dell’epoca liberale e il nuovo diritto dell’epoca fascista! Nella mia qualità
di iniziatore di questo movimento oso chiedere all’E. V. di ottenere il
grande onore di essere ricevuto, anche per consegnare all’E. V. lo Statuto
dell’Istituto di Diritto Fascista, costituito recentemente, e il mio libro riportante il primo Corso di Princìpi di diritto fascista, tenuto quest’anno
presso la Regia Università di Roma.
Sono già stato ricevuto più volte dall’E. V. negli anni 1923-24-25 come
Presidente del Comitato Studentesco Olimpico ed ho avuto l’ambito
onore di parlare per due volte al Consiglio Nazionale delle Corporazioni
alla presenza dell’E. V.
Viva il DUCE PERPETUO!
5.
158
Tale missiva era acclusa ad un biglietto indirizzato a Sebastiani.
139
Valeria mastroiacovo
Il diritto tributario alla prova del regime
tra urgenze di guerra e ambizioni di sistema
S OmmARIO : 1. Doverosi chiarimenti sul titolo – 2. Una necessaria digressione sulla ‘precedente’ riforma tributaria – 3. Il conservatorismo
e il naufragio dell’imposta unica – 4. La necessità di una ‘rieducazione
tributaria’– 5. L’urgenza della riforma tributaria nei primi anni Trenta
– 6. La riforma degli ordinamenti tributari del 1936 e il tempo della finanza di guerra – 7. L’accreditamento del diritto tributario per una prospettazione di riforme sistematiche
1. Doverosi chiarimenti sul titolo
Può apparire quanto meno bizzarro che in occasione di un Convegno,
di respiro interdisciplinare, sulla legalità fascista negli anni Trenta si sia
scelto di dedicare spazio al diritto tributario alla prova del regime, ancorché
sia noto che, all’epoca, il «diritto tributario» non solo non aveva ancora raggiunto un’autonomia in ambito accademico1, ma era ancora dibattuto che
questo ne avesse una sul piano scientifico e concettuale2.
Gli studiosi convergono sul dato che la prima cattedra di Diritto tributario – alla quale
fu chiamato Gian Antonio micheli – venne istituita il 1° novembre 1963, nella Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Roma. Lo studio delle origini del diritto tributario come
scienza autonoma, in relazione ad altri settori del diritto e dell’economia è stato oggetto
di numerosi saggi. Seppur con differenti considerazioni, è stato comunque riconosciuto
un ruolo determinante all’attivismo scientifico negli anni Trenta di autorevoli accademici,
anche attraverso la fondazione di riviste scientifiche, Associazioni e Istituti finalizzati all’approfondimento di tematiche tributarie, curando il confronto con gli appartenenti al
mondo delle professioni e dell’amministrazione finanziaria, in una prospettiva propositiva
verso il legislatore, e così promuovendo un ruolo strategico dell’insegnamento giuridico
del diritto tributario (ancorché accademicamente collocato, per lo più, nell’ambito delle
cattedre di diritto finanziario e scienza delle finanze e, talvolta, di diritto amministrativo).
2
Il dibattito sull’autonomia della materia si incentra proprio negli anni Trenta; gli ‘antiautonomisti’ sono figure del calibro di Santi Romano, Oreste Ranelletti e Francesco D’Alessio (di quest’ultimo si segnala Premessa allo studio del diritto finanziario, in «Rivista italiana di
1
141
V. mASTROIACOVO
diritto finanziario», 1937, I, pp. 111-132, in particolare p. 120). Critico si era mostrato
anche Luigi Einaudi che, attaccando una «coda, non necessaria e non pertinente se non
per accidente», ad una recensione (Aldo Boldi, I procedimenti tributari demografici – L’imposta
sui celibi e le esenzioni alle famiglie numerose, Torino, Utet, 1931) dal titolo Come studiare il fenomeno
finanziario, in «La riforma sociale. Rivista critica di economia e di finanza», 1932, pp. 681685, aveva osservato che «quando una schiera di giuristi veri, affinati nell’uso della tecnica
giuridica nel campo del diritto privato e di quello pubblico, avrà affrontato la materia del
diritto tributario, ricavandone soddisfazioni intime di scoperta di terreni ignoti e suggerimenti forse atti ad arricchire le più antiche branche del diritto, anche il diritto tributario,
che oggi costituisce la quintessenza della noia per docenti e per discenti, potrà aspirare
alla dignità, oggi esistente solo sulla carta, di disciplina atta ad essere insegnata da cattedra
universitaria. Finora siamo nello stadio dei tentativi; e finora perciò bisogna rassegnarsi a
lasciare che nella scienza della finanza dominino spiritualmente gli economisti» (p. 683):
si trattava di una critica alla Scuola di Benvenuto Griziotti, che oltre all’autonomia della
materia propugnava un nuovo metodo di studio. Ne scaturì un confronto diretto già nel
fascicolo seguente: si veda B. GRIZIOTTI, Sul metodo di ricerca e critica negli studi finanziari, ibidem, 1933, pp. 193-197, con postilla di L. EINAUDI, ibidem, pp. 197-200. Ancora nel 1938,
A. DENI, Risveglio degli studi italiani sulla finanza pubblica, in «Diritto e pratica tributaria»,
1938, pp. 3-12, osservava che «nel decennio scorso si è notato in Italia un risveglio notevole
di studi in materia finanziaria (e più particolarmente tributaria)», evidenziandone due metodi di studio diversi: «una prima corrente, a indirizzo prettamente economico», che si
poggia su una scuola tradizionale e «una seconda corrente di studiosi» che seguono un
metodo giuridico «sforzandosi di costruire una nuova branca del diritto pubblico, denominato finanziario, del quale una parte preponderante ed assorbente presenta soltanto caratteri di autonomia: il diritto tributario»; la critica dell’Autore si fa aspra concludendo che
non persuadono quelle «teorie nate dentro il tepore delle biblioteche e che non resistono
all’aria fredda della strada» (p. 11). Scettico si era dichiarato anche A.D. GIANNINI, Istituzioni
di diritto tributario, milano, Giuffrè, 1938, p. 28, il quale, restando ben saldo ad un’impostazione dogmatica e sistematica (punto di riferimento, negli anni a venire, per gli studi istituzionali della materia tributaria, non senza influssi anche sulla produzione normativa),
osservava che se «deve riconoscersi al prof. Griziotti dell’Università di Pavia il merito di
aver suscitato in Italia un largo interesse per gli studi di diritto tributario» non è «accoglibile
il suo criterio direttivo che possono fondersi in una dottrina unica e organica così gli
aspetti giuridici, come quelli politici ed economici del diritto finanziario», (dello stesso
Autore sul tema si segnala Intorno alla cd. autonomia del diritto tributario, in «Rivista di diritto
finanziario e scienza delle finanze», 1941, I, pp. 57-65). La storia ha proseguito il suo corso
e l’autonomia scientifica del diritto tributario oggi non è più in discussione, né qui è opportuno entrare nel merito del dibattito sulle origini di tale settore del diritto al quale, tra
l’altro, negli ultimi anni è stata dedicata rinnovata attenzione. Oltre ai Convegni Aipdt del
21 giugno 2018 su “L’attualità dell’autonomia scientifica del Diritto tributario” e 12 luglio 2018
su Tendenze e metodi della ricerca nel Diritto tributario, si segnalano, tra gli altri, gli scritti di S.
CIPOLLINA, Origini e prospettive dell’autonomia scientifica del diritto tributario, in «Rivista di diritto
finanziario e scienza delle finanze», 2018, I, pp. 163-189; F. PAPARELLA, L’ autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del
diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in «Rivista di diritto tributario», 2019, I,
pp. 587-620; G. FALSITTA, Per l’autonomia del diritto tributario, in «Rassegna tributaria», 2019,
p. 257-264. Sul tema si rinvia inoltre a D. FAUSTO, La polemica sull’unità disciplinare tra scienza
delle finanze e diritto finanziario, in «Quaderni di storia dell’economia politica», VIII, 1990,
142
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
Altrettanto peculiare è che si soffermi l’attenzione sulle scelte effettuate
dal legislatore in materia tributaria in quel lasso temporale durante il quale
si alternarono e si sovrapposero le necessità pressanti della guerra, gli interessi di talune categorie a mantenere regimi particolari di favore, aspirazioni
sistematiche (finanche nella forma della codificazione), ancorché sia autori
dell’epoca3 sia studiosi moderni abbiano recisamente stigmatizzato tale pe-
2.3., pp. 240-249; si ricorda, tra l’altro, per il vivace confronto scientifico ricostruttivo: A.
AmATUCCI, L’insegnamento del diritto finanziario, in «Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze», 1999, I, pp. 492-525; G. FALSITTA, Osservazioni sulla nascita e sullo sviluppo
scientifico del diritto tributario, in «Rassegna tributaria», 2000, pp. 353-374; ID., La sistemazione
del diritto finanziario nella coeva opera di O. Ranelletti e di A.D. Giannini e la data di nascita della
“scuola” finanziaria napoletana, in «Rivista di diritto tributario», 2004, I, pp. 959-992; A. AmATUCCI, La questione metodologica tra teoriche vecchie e nuove e l’autonomia scientifica del diritto tributario,
in «Diritto e pratica tributaria», 2005, I, pp. 255-286; G. FALSITTA, Saggio dialettico sullo svolgimento della ricerca e sull’insegnamento del diritto tributario in Italia, in «Rivista di diritto tributario»,
2005, I, pp. 1281-1348. Per completezza si segnala, infine, che, nel 1938, DENI, Risveglio
degli studi, cit. in questa stessa nota, p. 12, a conclusione delle sue considerazioni critiche
aveva precisato che «forse i tempi sono maturi per azzardare l’ipotesi che ad una sistemazione definitiva degli studi finanziari si pervenga mediante la seguente divisione della materia e conseguente istituzione di due insegnamenti autonomi, regolati da metodi di studio
diversi, ma necessariamente coordinati: a) Politica ed economia finanziaria (fase politico economica); b) Diritto e organica finanziaria (fase giuridico-amministrativa)»; tale impostazione
sembra in parte coincidere con quanto di recente prospettato da R. LUPI, Diritto amministrativo dei tributi. Ovvero: le imposte si pagano quando qualcuno le impone, Castelvecchi, Roma
2017, par. 1.7, che ha auspicato una nuova collocazione del diritto tributario tra lo studio
della scienza delle finanze e quello della scienza dell’amministrazione.
3
Si segnala, tra gli altri, il severo giudizio di m. PUGLIESE, La riforma degli ordinamenti tributari,
in «Archivio di diritto pubblico», 1937, II, pp. 557-589, in particolare p. 557; nonché E.
mAGNI, Paolo Thaon di Revel per il pareggio del bilancio, in «Diritto e pratica tributaria», 1939,
pp. 187-198, il quale introduce il suo scritto osservando che «non sempre la pubblica finanza ha potuto rispettare i precetti della scienza, ma talvolta, sotto l’assillo delle imperiose
necessità, l’arte improvvisa del finanziere ha dovuto prevalere sul ponderato studio per
fronteggiare straordinarie contingenze con provvedimenti straordinari. Questo felice ritorno alle concezioni classiche ed auree della nostra finanza pubblica è dovuto al Fascismo
continuatore, anche in questo, dell’italico risorgimento» (p. 187); lo scritto, dichiara l’Autore, è finalizzato a passare «in rapida rassegna gli studi del ministro che segnano l’orientamento di disegnate riforme e le direttive di marcia per la loro realizzazione […]
divulgando così, riuniti in poco spazio, gli originali e fondamentali studi che han preceduto
e che accompagnano l’annunziata riforma tributaria, di universale interesse presente e futuro» per concludere che «il contribuente italiano, degno dell’alto elogio di S. m. il Re Imperatore, avviatosi “a diventare, a mezzo dell’organizzatore sindacale, un collaboratore ed
un alleato dei competenti organi dello stato fascista”, saprà far fronte ai nuovi oneri con
coscienza e con disciplina, convinto della loro necessità e utilità, tranquillizzato nel constatare come la pubblica finanza riprenda, per merito dell’infaticabile ministro, interprete
fedele del Duce, la via maestra del nostro primo risorgimento politico».
143
V. mASTROIACOVO
riodo come quello della «discrasia tra le parole e le scelte concrete»4.
Se è vero che il decennio in considerazione sembra fallire sia i grandi
progetti di riforme sistematiche (che si collocano prima5 e dopo di esso6),
sia le scelte decisive per una fiscalità di guerra (che prendono significativo
avvio proprio dal 19407), è innegabile che il dibattito scientifico di quegli
anni, sollecitato da ‘giovani studiosi’, produce ancora oggi qualche eco sia
in sede accademica, che negli sviluppi della legislazione di settore.
Le proposte dell’«imposta unica e progressiva» e del «contingente» per
la ripartizione dei tributi, quintessenza della logica del corporativismo nell’ambito del diritto tributario, resteranno utopie irrealizzate. Tuttavia, dai
documenti rinvenuti, emerge in controluce, ma in termini alquanto netti,
che già in quegli anni le questioni fondamentali del diritto tributario erano
essenzialmente tutte sul tavolo della politica: si trattava di stabilirne le priorità, anche evidenziandone il fattore strategico. L’accesso a quel tavolo si
rivelava, pertanto, decisivo e i giuristi dell’epoca avevano piena consapevolezza del ruolo riservato alla componente accademica8.
In quest’ottica, gli anni Trenta appaiono uno snodo imprescindibile. Fu
allora che prese corpo il richiamo al «diritto tributario», come sostiene la
dottrina maggioritaria. Fu allora che furono individuate e discusse sul piano
legislativo – ancorché poi rinviate per ragioni di opportunità politica – le
principali opzioni dettate dalla finanza di guerra, da un lato, e dall’ambizione
4
G. mARONGIU, Impero, guerre, disavanzo tra gli ambiziosi progetti di riforma tributaria, in La politica fiscale del fascismo, marco ed., Cosenza 2005, p. 321, cui si rinvia per una più compiuta
trattazione anche del contesto storico; si veda inoltre D. FAUSTO, La finanza pubblica fascista,
in Intervento pubblico e politica economica fascista, a cura di D. Fausto, FrancoAngeli, milano
2007, p. 702.
5
Il riferimento è al progetto meda-Tedesco-Soleri. In particolare si rinvia alla Relazione
governativa del progetto di legge del 1919 di Riforma generale delle imposte dirette sui
redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali, pubblicato in Documenti e discussioni sulla formazione del sistema tributario italiano, a cura di S. Buscema, N. D’Amati, I, Cedam, Padova
1961, p. 260 (si veda infra nt. 21).
6
Il riferimento è a Vanoni e alla sua idea di codice tributario, con una parte di principi generali
e una disciplina uniforme per l’accertamento e la riscossione dei tributi, in cui si inseriva
un progetto di riforma per un’imposizione sui redditi personale e progressiva (su cui più
ampiamente infra sub par. 6).
7
In particolare il 1° luglio 1940 entra finalmente in vigore l’imposta ordinaria sul patrimonio (approvata con r.d.l. 12 ottobre 1939, n. 1529, convertito nella legge 8 febbraio
1940, n. 100), tributo già previsto dal citato ed inattuato progetto meda del 1919. Nello
stesso anno l’imposta sugli scambi, introdotta da De Stefani, viene sostituita (con il r.d.l.
9 gennaio 1940) dall’imposta generale sull’entrata (antesignana dell’attuale iva), con ottimi
immediati risultati sul bilancio dello Stato.
8
Su tale profilo si rinvia infra sub par. 7.
144
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
a ‘sistematizzare’, dall’altro.
Starà al paziente acume del lettore di queste pagine valutare quanto a
lungo l’enfasi sugli obiettivi della riforma del sistema tributario – sui quali
da sempre difficilmente è mancato un diffuso consenso – abbia prevalso
sulle scelte concretamente adottate dal legislatore, per lo più dettate da esigenze contingenti e, di conseguenza, fatalmente asistematiche: sicché talune
citazioni testuali, in questo breve scritto, potranno apparirgli singolarmente
‘attuali’.
2. Una necessaria digressione sulla ‘precedente’ riforma tributaria
Il tema prescelto impone tuttavia una preliminare digressione a ritroso.
La reiterazione dei proclami sulla necessità di una ‘riforma fiscale’ –
sintagma ambiguo quanto basta a evocare, al contempo, radicali rivoluzioni
e mere sistemazioni – ha infatti, da subito, caratterizzato il regime fascista.
La legge 3 dicembre 1922, n. 16019, concernente la delegazione di pieni
poteri al Governo del re, autorizzava il «riordinamento del sistema tributario
e della pubblica amministrazione», nonostante (o, come si dirà, proprio a
causa) su entrambi i profili il Parlamento avesse da poco predisposto testi
normativi10, tuttavia giacenti da mesi al vaglio delle diverse Commissioni.
Il ministro del tesoro Tangorra, incaricato, dal canto suo, di curare la
riforma relativa alla pubblica amministrazione, in un discorso alla Camera
dei Deputati11 aveva osservato che «la ragione fondamentale di questo scarsissimo risultato di una legge, da cui tanti frutti si speravano, risiede[va] nel
cumulo di interessi di ogni specie, che si [erano] opposti alla sua applicazione». Invocando lo stato d’eccezione, egli affermava che «i pieni poteri
sono una necessità assoluta se si vuole realmente applicare una riforma bu-
La legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 15 dic. 1922, n. 293, all’art. 1 disponeva
«per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità
del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello
stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le
spese, il governo del re ha, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi
vigore di legge». L’art. 2 stabiliva che «entro il mese di marzo 1924 il governo del re darà
conto al parlamento dell’uso delle facoltà conferite dalla presente legge»; i poteri, come è
noto, vennero prorogati.
10
Legge 13 agosto 1921, n. 1080, recante provvedimenti per la riforma dello Stato, la semplificazione dei servizi e la riduzione del personale.
11
La Stampa, 26 novembre 1922, p. 1, in <http://www.archiviolastampa.it>.
9
145
V. mASTROIACOVO
rocratica12».
Che tale aspetto fosse inscindibile dalla riforma tributaria si desumeva
dalle stesse conclusioni del ministro, il quale si diceva convinto che si trattasse di «uno degli elementi principali che potranno apportare al pareggio
il bilancio dello Stato».
Proprio questo avrebbe consentito al De Stefani, cui si era demandato
di predisporre la riforma fiscale, di dichiarare che nei suoi «barattoli da ministro non nascond[eva] sorprese finanziarie», impegnandosi per poche
nuove entrate e tante minori spese. Affermava De Stefani che
il problema tributario è un problema assai più modesto di quello che
molti immaginano […] Avevamo un sistema tributario e il sistema è arrivato al caos. Dal caos bisogna tornare al sistema […] Lo scarto tra ordinamento nominale e quello reale, fra l’imperativo della legge e
l’applicazione della legge, è troppo grande. Lo ridurremo. Per cui a coloro che mi domandano se chiederemo nuovi sacrifici ai contribuenti rispondo: chiederemo a coloro che frodano il sacrificio di non frodare!
L’azione di governo si sarebbe, dunque, concentrata sulla riforma dell’accertamento. Essa avrebbe stroncato anche «le evasioni legali ed in genere
tutte le forme di protezionismo finanziario riducendole a limiti più ragionevoli», così trovando larga materia per maggiori entrate senza ricorso a
nuove forme di imposta. Sul piano della politica economica si sbandierava
infatti l’abbandono del principio del “sacrificio minimo”, propugnando
quello “produttivistico”13. Tuttavia, a fronte di un intervento che sembrava
di pura attuazione dell’esistente, il ministro aggiungeva un programma strategico chiaro nelle finalità e niente affatto nei contenuti: «l’attrezzatura economica della nazione – affermava – ha bisogno di un continuo afflusso di
12
Il menzionato articolo precisa che il ministro «ricorda che furono già dai precedenti
Governi predisposte delle riforme concrete circa le modificazioni alle circoscrizioni giudiziarie, la riduzione dell’Intendenza di finanza, degli Uffici del Registro ed Agenzie delle
Imposte, per la soppressione dei monopoli industriali, per la riforma della legge sulle pensioni e sulla contabilità di Stato. La Commissione parlamentare consultiva non dette il suo
parere e quindi i provvedimenti non sono stati applicati».
13
Principio per cui lo Stato, anziché accrescere la pressione tributaria, mira a congegnare
le imposte «in guisa da ridurre al minimo la loro pressione sui produttori si dà crescere al
massimo il flusso del reddito da distribuire tra capitalisti, proprietari, imprenditori e lavoratori». Così, nelle conclusioni, L. EINAUDI, La Guerra e il sistema tributario italiano, Laterza,
Bari 1927.
146
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
capitali perché sia conservata e possa progredire»14.
Il governo annunciava apertamente che avrebbe colpito i consumi piuttosto che il capitale: «seguiremo dunque questo criterio finanziario indiretto,
in cui l’interesse della privata economia si concili con le necessità dello
Stato. Bisogna parlarci chiaro. Una finanza fondata su criteri di persecuzione del capitale è una finanza folle!».
A notte fonda del 25 novembre 1922, con appello nominale, la Camera
approvò i pieni poteri15 dopo una serrata relazione dell’on. matteotti che,
smascherate16 le cosiddette ragioni tecniche poste a base della straordinaria
richiesta, aveva tristemente concluso che
quanto ai pieni poteri tributari noi non conosciamo alcun Parlamento
che in regime costituzionale li abbia concessi, poiché essi formano la
Continua il ministro: «piuttosto che impedire l’ammortamento dei capitali nazionali,
premendo sul risparmio che si reinveste e tanto conteso dallo Stato all’attività economica
privata, conviene premere sui consumi e ciò nell’interesse definitivo della popolazione più
disagiata. La lotta contro la formazione del capitale privato ricade sulle spalle dei lavoratori.
Noi agevoleremo invece, per quanto lo consentono le attuali condizioni, la formazione
del risparmio, indipendentemente da questi criteri d’ordine economico la nostra opera si
svolgerà decisamente nel senso della semplificazione di tutto l’ordinamento tributario, che
è andato fantasticamente complicandosi dall’inizio della guerra, e vi arriveremo mediante
la fusione di imposte attualmente distinte, l’assorbimento di altre in imposte più generali
e modificando i modi di accertamento e di esazione. Il cittadino ha diritto di poter controllare la ragione e la misura dei tributi, ricerca oggi assolutamente impraticabile. Quando
venni richiesto dei miei propositi io dissi che avrei picchiato sui chiodi meno battuti, sapendo che per questa via avrei potuto alleggerire la mano su quelli che furono fin qui oggetto di più gravi colpi».
15
Votanti 365, voti favorevoli 275, voti contrari 90 (elenco pubblicato in La Stampa, 26
novembre 1922, p. 2, in <http://www.archiviolastampa.it>).
16
matteotti (il cui discorso è riportato nello stesso articolo di cronaca parlamentare citato
alla nota precedente) pone immediatamente in risalto che la questione finanziaria è solo
un espediente per la richiesta dei pieni poteri. «Si dice anche che “la camera si è dimostrata
incapace di risolvere i problemi più gravi dell’economia e della finanza”. – ma o la incapacità è ritenuta costituzionale, organica, dipendente dallo stesso modo di funzionamento
dei parlamenti moderni, e allora la vera legge attendibile sarebbe quella che ne riformasse
la costituzione o il modo di funzionare; o la incapacità è di questa sola camera, e, a parte
la dimostrazione che manca, l’unica risoluzione da prendere sarebbe quella che la camera
fosse immediatamente sciolta e sostituita da un’altra capace di riprendere subito ed esercitare il suo potere e la sua funzione. La verità è che il disordine amministrativo ed economico attuale non tanto dipendono da difetti del parlamento, ma traggono inizio proprio
dal momento in cui il parlamento cessò di funzionare normalmente, e la legislazione, anziché conforme alle norme costituzionali, fu tutta affidata, dalla dichiarazione di guerra
in poi, al potere esecutivo, all’alta burocrazia e alle altre forze che sulle prime due hanno
agito».
14
147
V. mASTROIACOVO
prima e fondamentale prerogativa senza la quale un Parlamento non esiste […] mentre sembrava finalmente cessato il pericolo continuo della
legislazione di guerra e ripristinata la tranquillità economica più produttiva, una legislazione straordinaria ricaccia i migliori nel dubbio e nell’inerzia.
Ad un così grande sacrificio delle prerogative costituzionali in materia
riservata alla legge, come quella tributaria, non corrispose l’efficiente risultato promesso.
Non mancò chi17 fece sentire con sottile ironia la critica a tale politica
17
A. CABIATI, La finanza … nuova, in La Stampa, 28 novembre 1922, p. 1, in http://www.archiviolastampa.it. È il caso di precisare che Attilio Cabiati fu senza dubbio un economista
liberale, con spiccato interesse per il diritto tributario, che collaborò, tra l’altro, con La
Stampa dal 1921 al 1927, con scritti critici e particolarmente lucidi nell’analisi sistematica
dei tributi, fino a che ne fu allontanato per ragioni politiche (si rinvia alle considerazioni
di F. BIENTINESI, La battaglia quotidiana delle idee. Attilio Cabiati e «La Stampa», 1921-1927,
in «Il pensiero economico italiano», 1/2010, pp. 183-200). Negli stessi anni fu protagonista
di una vicenda analoga in ambito universitario menzionata da m.G. DI RENZO VILLATA,
G.P. mASSETTO, La ‘seconda’ Facoltà giuridica lombarda. Dall’avvio agli anni Settanta del Novecento,
in «Annali di Storia delle Università italiane», 2007, p. 73, nt. 39. Il consiglio di facoltà di
giurisprudenza dell’Università statale di milano dell’8 marzo 1926 su proposta di Ranelletti,
che viene ringraziato «dell’opera preziosa nell’insegnamento del diritto finanziario», deliberò all’unanimità che, quanto al Diritto finanziario e scienza delle finanze, si provvedesse
«con titolare» e Giorgio mortara – nipote del rabbino (si rinvia peraltro a m. BONI, Il figlio del
rabbino. Lodovico Mortara, storia di un ebreo ai vertici del Regno d’Italia, Viella, Roma 2018) –
propose al ministro della Pubblica istruzione che Attilio Cabiati, stabile di Politica commerciale nel Regio istituto superiore di studi commerciali di Genova, venisse trasferito
per l’anno 1926-1927. A tale vicenda diede grande rilevanza il genovese Antonio Uckmar
nello scritto introduttivo del primo numero di Diritto e pratica tributaria del 1926 (A. UCKmAR, Il diritto tributario, in «Diritto e pratica tributaria», 1926, p. 6: «Il governo nazionale,
sempre vigile per il raggiungimento del benessere della nazione, ha intuito l’eccezionale
importanza del problema, e non solo con sagaci provvedimenti tende a snellire e a semplificare il sistema tributario, ma cerca con ogni mezzo di dare incremento agli studi relativi.
A tal fine ha istituito un’apposita cattedra presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università
di milano, affidandone l’incarico al prof. Cabiati»). A ben vedere, dai documenti originali
(gentilmente concessi dall’Archivio storico dell’Università di milano) è risultato, che, pochi
mesi dopo la citata deliberazione il Consiglio di facoltà del 20 novembre del 1926, vista la
lettera ministeriale del 6 novembre del 1926, attribuiva, come secondo insegnamento gratuito al prof. Oreste Ranelletti, Istituzioni di diritto amministrativo e finanziario, e al contempo il preside comunicava il trasferimento del prof. Attilio Cabiati, al quale, tuttavia,
veniva «concesso un congedo di due mesi». Successivamente, nell’adunanza del 12 febbraio
del 1927, il preside comunicava che «in seguito della revoca del trasferimento del prof.
Cabiati, occorre provvedere alla cattedra di diritto finanziario e scienza delle finanze. E la
Facoltà propone che tale insegnamento venga affidato come secondo insegnamento gratuito, al prof. O. Ranelletti, in sostituzione delle Esercitazioni da questo tenuto». Il corso
di Cabiati, se ebbe inizio, durò davvero poche lezioni e il nuovo posto da titolare di Diritto
148
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
finanziaria ricordando come il programma del ministro collimasse con il
capitolo quarto dell’Isola dei Pinguini18 di Anatole France19. Quindici secoli
sono passati – chiosava sarcastico Cabiati – dalle origini dello stato di Pinguinia e «il nuovo ministro delle Finanze ripete, punto per punto, il discorso
del pinguino. Evidentemente quella tavola di bronzo è divenuta l’unico
testo su cui l’on. De Stefani si è educato alla scienza delle finanze»20. In vefinanziario e scienza delle finanze immediatamente ‘riassorbito’ in organico. È del tutto
probabile che a fondamento del suo allontanamento vi fossero quelle stesse contestazioni
studentesche per i contrasti con il regime fascista che, nel medesimo periodo, portarono
alla cessazione della sua collaborazione con l’Università Bocconi (risalente al 1918) dove
insegnava politica economica e monetaria (notizia riportata nella sezione “I protagonisti”
sul sito <www.unibocconi.it>). Durante gli anni Trenta continuò comunque a pubblicare
assiduamente su «La Riforma sociale. Rivista critica di economia e finanza» diretta da Einaudi.
18
A. FRANCE, L’ile des pingouins, Calmann-Lévy Editeurs, Paris 1908, ora L’isola dei Pinguini,
trad. C. Verga, rev. m. Bellini, Isbn Edizioni, milano 2012, p. 61.
19
Nel romanzo l’Autore narra la prima assemblea degli Stati di Pinguinia, radunati per
stabilire i tributi che il popolo dovrà pagare per sopperire alle pubbliche spese e al mantenimento della Chiesa, e descrive morio, il più ricco fra quelle bestie, che, rispondendo
al venerabile mael, che aveva proposto una tassazione proporzionata alla ricchezza di ciascuno, così arringa la folla di pinguini: «Ritengo giusto che ciascuno contribuisca alle spese
pubbliche e al mantenimento della Chiesa. […] Bisogna dunque considerare innanzitutto
l’interesse pubblico e fare quello che esso richiede. E ciò che esso richiede, padre, ciò che
esso esige è di non chiedere molto a coloro che posseggono molto, altrimenti i ricchi sarebbero meno ricchi e i poveri più poveri. I poveri vivono dei beni dei ricchi e per questo
tali beni sono sacri. […] I segni dell’opulenza sono ingannatori. Di certo c’è soltanto quello
che tutti mangiano e bevono: le imposte siano quindi proporzionate a quanto ognuno
consuma. Sarà cosa saggia e giusta». Tra gli applausi degli anziani il monaco Bulloch chiede
che questo discorso venga inciso su tavole di bronzo perché degno di passare alla storia
«tra millecinquecento anni i migliori Pinguini non parleranno diversamente» (p. 61). Il capitolo si chiude con ancor più triste ironia. Il narratore osserva che «benché i bambini
morissero in grande quantità e le carestie e le pestilenze giungessero con perfetta regolarità
a spopolare interi villaggi, tuttavia nuovi pinguini, sempre più numerosi, contribuivano
con la loro miseria privata alla prosperità pubblica».
20
Non vennero risparmiate critiche neanche sul diverso fonte delle politiche di accertamento osservando che «il ministro dopo avere annunciato quell’altra novità, che per ben
tassare i redditi, bisogna accertarli, si affretta a dire che ciò si farà imponendo il rispetto
delle leggi finanziarie esistenti e dell’ordinamento tributario scritto. Parole auree, in quanto
soddisfano la piazza, la quale potrà illudersi che la giustizia verrà finalmente realizzata; e
nel contempo allegrano i frodatori, i quali del sistema di accertamento dell’odierna legislazione sanno perfettamente cosa pensare. Perché, con l’attuale accertamento catastale,
il reddito del proprietario fondiario non si conoscerà mai. Con gli attuali mezzi di indagine,
i redditi dei conduttori di terreni non saranno mai precisati. E, così potrà il Fisco continuare a torturare le società commerciali, perché il reddito tassato non è oggi quello distribuito fra gli azionisti, i guadagni globali di onesti ultimi non verranno mai conosciuti;
sicché non sarà mai possibile la tassazione progressiva del reddito complessivo; e l’imposta
149
V. mASTROIACOVO
rità, «si trattava di seppellire l’ultima preoccupazione dei capitalisti, perché
potessero concorrere liberamente alla futura gloria del regime: di seppellire,
cioè, il progetto meda-Tedesco-Soleri»21.
3. Il conservatorismo e il naufragio dell’imposta unica
In effetti, l’esigenza di salvare l’imposta fondiaria fece naufragare la moderna riforma meda già confezionata, «una riforma generale che unificasse
e modificasse in un nuovo testo completo ed organico tutte le nostre leggi
relative all’imposta sui redditi»22, a vantaggio dell’introduzione di una serie
di imposte reali e cedolari.
Sul fronte della tassazione reddituale, dai pieni poteri derivò solo l’imposta complementare sul reddito (approvata con r.d.l. 20 dicembre 1923,
di successione – malgrado le sue grottesche altezze – resterà uno specchietto per le allodole. Disarmata così la Finanza di mezzi sicuri di accertamento e garantito che, fra il reddito del capitale ed il consumo, quest’ultimo sarà il preferito del nuovo ministro, tutti oggi
sappiamo quali sono “i chiodi su cui batterà” la nuova politica».
21
I rivolgimenti economici degli anni Venti e l’affermarsi dei redditi non fondiari (per
l’espansione di fonti mobiliari di produzione della ricchezza) avevano aperto un dibattito
dottrinale e parlamentare sull’opportunità di rinnovare il sistema fiscale introducendo
(anche sulla scorta dell’esperienza inglese dell’income tax) un’imposta generale e personale
sui redditi. Limitandoci a considerazioni essenziali, il progetto meda si proponeva di risolvere principalmente il problema della sovrapposizione di imposte (doppia tassazione
interna); delle aliquote elevate; dei rapporti tra finanza locale e statale. Era strutturato sulle
imposte dirette, ipotizzando di introdurre: un’imposta normale sull’entrata (con deduzione
delle perdite e dell’imposizione patrimoniale, per far gravare la tassazione sul reddito disponibile); un’imposta complementare progressiva sul reddito; un’imposta integrale sul
patrimonio; oltre ad attuare un coordinamento tra finanza locale e statale. Al sistema di
esenzione dell’imposta normale sul reddito si proponeva dunque di affiancare un’imposta
complementare progressiva che trovava applicazione oltre la soglia dell’esenzione (in un
periodo storico in cui la tassazione sui redditi non riguardava ancora le società, ma solo i
dividendi distribuiti alle persone fisiche), con funzione perequativa tra l’imposta sull’entrate
e le imposte indirette. Si trattava di un progetto ‘moderno’ ben confezionato, finalizzato
ambiziosamente a risolvere i problemi dell’ordinamento tributario attraverso un’imposizione progressiva unica e tuttavia mai attuato anche perché contrastato dalle classi conservatrici che preferivano una soluzione diversa basata sul mantenimento del sistema
previgente con l’aggiunta di un’imposta residuale sui redditi mobiliari. Il ministro De Stefani ripiegò infatti sull’introduzione di un’imposta complementare sul reddito, strutturata
in modo molto meno efficace come una mera sovraimposta agli imponibili fiscali accertati
in occasione delle imposte sui terreni, sui fabbricati e sui redditi mobiliari, la quale si rivelò
per nulla risolutiva e per ciò, dai più, bene accetta.
22
In questi termini F. mEDA, L’assestamento dei tributi diretti nella finanza italiana, in «La Giustizia tributaria», 1924, p. 163.
150
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
n. 3062, ma applicata dal 1° luglio del 1925): un’imposizione progressiva
che si aggiungeva a quella proporzionale sui redditi del contribuente persona fisica già considerati ai fini dell’imposta sui terreni, dei fabbricati e
della ricchezza mobile, in un sistema basato sull’imposizione diretta a carattere reale. La dottrina23, riprendendo le parole dell’on. Tumedei nella Relazione sull’entrata, per l’esercizio 1927-1928, della Giunta generale del
Bilancio, segnalava che, nonostante questa modifica, nel 1926 il reddito
complessivo denunciato non corrispondeva nemmeno alla ventesima parte
del reddito nazionale24.
Tale sistema complesso si contrapponeva per frammentarietà (e ciò
permase per tutto il periodo dello sviluppo industriale degli Stati moderni)
allo schema adottato fin dall’inizio dagli altri Stati industriali e basato appunto sull’imposta unica personale e generale sui redditi; la politica tributaria di De Stefani restava concentrata – in termini di resa finanziaria – sui
consumi attraverso l’introduzione dell’imposta sugli scambi e numerose
altre imposte indirette25.
Risultava palese che le problematiche maggiori erano l’esito della timida
introduzione di una mera ‘supplementare’ di imposte reali, anziché di un
vero e proprio tributo a carattere globale e personale, con funzione perequativa26. Ancora nel 1927, piuttosto che intervenire sulla disciplina sostanLe citazioni e le stime di seguito nel testo sono tratte dalla Relazione della Giunta Generale
del Bilancio dell’on. Tumedei, riportata in F. FLORA, Evasione fiscale e pressione tributaria, in «Diritto
e pratica tributaria», 1927, pp. 98 e 99.
24
Su 41 milioni di italiani solo 404 mila risultavano avere un reddito globale superiore a
6.000 lire, che era la soglia di esenzione dalla tassazione. «Solo l’evasione in grande stile
può spiegare l’enigma» nota ancora l’on. Tumadei riportato dal Flora, cit. nt. 24, p. 99:
«sfuggono infatti al tributo personale tutti i contribuenti ed i redditi che, comunque non
sono colpiti da alcune delle altre imposte dirette. Sfuggono i redditi esenti dalle imposte
stesse; sfuggono la rilevante massa degli interessi del debito pubblico e dei depositi bancari;
sfuggono i dividendi delle azioni e gli interessi delle obbligazioni, perché l’imposta non
colpisce che le sole persone fisiche; sfugge tutta la ingente massa dei redditi derivanti da
attività di intermediari, di affaristi, da guadagni di congiuntura, redditi che l’imposta di
ricchezza mobile non giunge a colpire; sfuggono i salari degli operai, e gran parte degli
stipendi degli impiegati privati. […] Basti osservare che la media dei redditi degli industriali,
commercianti e professionisti raggiunge appena le lire 4500. Ciò si ripercuote sulla complementare, il cui minimo imponibile, al netto delle passività, deve almeno raggiungere le
lire seimila».
25
Il 30 dicembre 1923 vennero varati ben sedici testi unici relativi all’imposizione indiretta
con numerazione da 3268 a 3283.
26
Lo stesso De Stefani successivamente la definì addirittura duramente «un aborto perché
l’opposizione della plutocrazia mi aveva consigliato di limitarne il campo di applicazione.
Era un’imposta anormale. ma allora non ho potuto fare di più per non poter compro23
151
V. mASTROIACOVO
ziale del tributo, si paventava «la facoltà di ricorrere alle manifestazioni esteriori [di capacità contributiva] che la rivelano, ossia a induzioni, a criteri
presuntivi, al tenore di vita del contribuente», misura che nell’immediato
venne rinviata27 e che di lì a poco si rese improcrastinabile28. Proprio il fatto
che fosse un’imposta di secondo grado, applicata in base a dichiarazione
largamente evasa, la rese di marginale importanza sia per gettito che per
principio, oltre che generatrice d’un ingente contenzioso. Eppure, fino alla
seconda guerra mondiale, il sistema non subì sostanziali mutamenti, nemmeno nelle aliquote: l’imposta di ricchezza mobile continuò ad evolversi
diventando l’imposizione diretta principale, connotata da tutte le denunciate
imperfezioni.
Già dal 1925 la fortuna di cui De Stefani aveva goduto era svanita. Entrato in conflitto con Banca d’Italia per contrarietà sulla politica monetaria
a quota novanta, egli fu sostituito da Volpi fino al 1928. A questi si deve
l’introduzione della nota imposta sui celibi29, che tuttavia non incise di
mettere il nascente regime», Lettera al direttore del Corriere della Sera del 27 febbraio 1932,
in F. mARCOVALDI, Vent’anni di economia e politica. Le carte di De’ Stefani. 1922 - 1941, Franco
Angeli, milano 1986, p. 255.
27
FLORA, Evasione fiscale, cit. nt. 23, p. 99 conclude «il rimedio è grave e lo stesso on. Tumedei propone si attenda ancora prima di attuarlo».
28
Fu il ministro Jung che, con il successivo r.d.l. 17 settembre 1932 n. 1261, stabilì che
doveva tenersi conto anche dei redditi la cui esistenza si fosse manifestata «per circostanze
o elementi di fatto, con speciale riguardo al tenore di vita del contribuente». Si introdusse,
così, per la prima volta il metodo presuntivo o sintetico o anche induttivo, ai fini della determinazione del reddito, in contrapposizione al metodo analitico.
29
Introdotta con r.d. n. 2132 del 1926 dal 13 febbraio 1927, prevista per i celibi da 25 a
65 anni, si aggiungeva all’imposizione per ricavare somme da destinare alla beneficenza e
alla protezione alla maternità e all’infanzia; contributo fisso (per dare un’idea dell’incidenza
del nuovo tributo si pensi che la quota fissa per il primo scaglione era di 70 lire, equivalente
all’abbonamento annuale congiunto alle riviste Diritto e pratica commerciale e Diritto e pratica
tributaria) in ragione dell’età, che saliva fino ad anni 50 e poi scendeva; raddoppiato dal 1°
gennaio 1929, subì due aumenti nel 1934 e nel 1932 con aliquota aggiuntiva in ragione
del reddito; fu abolita nel 1943 dal governo Badoglio. Ancora a Volpi si deve, nel 1925,
l’eliminazione dell’imposta sul valore locativo sulla casa di proprietà, poi reintrodotta con
la riforma della finanza locale del 1931 (a sostegno della politica demografica fascista
venne introdotta la riduzione del 5% per figlio convivente a carico di età inferiore a 20
anni). Erano gli anni del raggiunto pareggio del bilancio e della ripresa economica «sgravi
notevoli furono accordati ai privati, alle Provincie, ai Comuni, alle società per azioni, agli
istituti di credito, alle Casse di risparmio, ai sindacati di assicurazione, ecc. in tema di imposte dirette, sui terreni, sui fabbricati, sulla ricchezza mobile, sui redditi agrari, sulle tasse
di registro, sulla tassa scambi, sulle tasse graduali di bollo, ecc.»: così A. DENI, Il sistema tributario dello Stato e le organizzazioni sindacali, in «Diritto e pratica tributaria», 1935, p. 262. Il
riferimento è al d.l. 20 settembre 1926, n. 1643 i cui contenuti ben rappresentavano il denunciato ‘ginepraio’ della legislazione tributaria.
152
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
molto sul quadro generale delle entrate30.
Subentrò il ministro mosconi, ritenuto un collaboratore meno ingombrante. Oramai, risolti i più pressanti problemi delle finanze, grazie alla rinascita economica dal 1924 (che consentiva, anzi, di mantenere
l’ordinamento tributario in un sostanziale conservatorismo), occorreva sbrigare l’ordinaria (rectius gattopardesca) amministrazione.
4. La necessità di una ‘rieducazione tributaria’
I provvedimenti legislativi in materia tributaria non avevano dato gli
esiti annunciati, nemmeno sul fronte dell’evasione fiscale. A ciò si continuavano ad aggiungere la progressiva frammentazione della disciplina dell’accertamento, della riscossione e del contenzioso per ogni singolo
tributo31e l’inadeguatezza degli Uffici amministrativi sul fronte dei controlli,
che contribuivano a rendere il Fisco una mala bestia «onde qualunque artificio, qualsiasi menzogna o finzione da parte del contribuente per evadere
un contributo è considerato, anche dalle persone più oneste, come un
mezzo correttissimo di legale e legittima difesa»32.
Il soffio vitale e innovatore della nuova era instaurata dal governo nazionale doveva intervenire a rinnovare la mentalità del contribuente. Si auspicava un’efficace, sia pur lenta, ‘rieducazione tributaria’33: «l’individuo non
deve concepire lo Stato come un nemico, il contribuente non deve consiL’imposta complementare, sommata a quella sui celibi, dava entrate inferiori al tre per
cento del totale, mentre le imposte indirette raggiungevano quasi il quaranta per cento;
per considerazioni di maggiore dettaglio si rinvia all’ampia trattazione di mARONGIU, La
politica fiscale del fascismo, cit. nt. 4, p. 195.
31
«Non è a stupirsi come non soltanto i contribuenti, ma gli avvocati stessi ed i professionisti in genere siano, salvo rare eccezioni, completamente all’oscuro delle disposizioni
tributarie e non riescano ad orientarsi in mezzo al dedalico ginepraio. Ciò spiega le rapidissime fortune accentrate in pochi esperti in materia in questi ultimi anni, quando il contribuente, assillato dalle continue richieste del fisco, spaventato perché completamente
all’oscuro dei suoi doveri e dei suoi diritti, vedeva in coloro che possedevano la conoscenza
dell’intricata materia quasi dei taumaturghi che potessero riuscire a salvarlo da oscure sciagure». Così UCKmAR, Il diritto tributario, cit. nt. 17, p. 5.
32
Così in un articolo di fondo del Secolo XIX, 12 aprile 1927. Il contribuente e il fisco, riprodotto in «Diritto e pratica tributaria», 1927, pp. 55-56.
33
Si rinvia al comunicato dell’Associazione nazionale dei consulenti tributari pubblicato
in «Diritto e pratica tributaria», 1927, p. V, in apertura del secondo fascicolo, che raccomanda a tutti gli associati la «rigida osservanza» del postulato del regime di collaborazione
tra contribuente e Fisco nel «far applicare giustamente la legge», prospettando a garanzia
un «albo di esperti in diritto tributario».
30
153
V. mASTROIACOVO
derare come completamente sciupate le somme che paga al fisco e d’altro
canto lo Stato non deve considerare il cittadino come un nemico, il contribuente come un frodatore»34. Tale pacificazione doveva segnare l’esito naturale della trasposizione nell’ordinamento tributario dei principi
dell’ordinamento corporativo, analogamente a quanto teorizzato per l’eliminazione della lotta di classe35.
L’urgenza della riforma fiscale e la lotta all’evasione, che avevano costituito lo stato d’eccezione all’origine della richiesta dei pieni poteri, alla
fine degli anni Venti continuavano ad essere rappresentati dalla dottrina
come questioni impellenti e improrogabili. Tuttavia la raffigurazione della
patologica complessità della legislazione tributaria, più che una reale esigenza della politica, sembra costituire un ‘canale’ di confronto per la dottrina e un espediente di accreditamento presso il regime.
Tutti sono concordi sulla necessità di una riforma dell’ordinamento tributario, che, all’ormai antiquato e non più rispondente ai tempi, ne sostituisca uno nuovo ispirato ai principi dello Stato corporativo; tutti
concordano nel ritenere che occorra snellire la complicata congerie di
leggine e leggi tributarie, che sia necessario cambiare l’abito mentale del
contribuente, eliminare, o, per lo meno far diminuire le evasioni. Su ciò
tutti sono d’accordo, ma le difficoltà sorgono quando si devono formulare proposte concrete di riforme36.
Così G. CURATO, Il contribuente ed il fisco, prolusione al Corso libero di scienza delle finanze
nella R. Università di Napoli, in «Diritto e pratica tributaria», 1929, pp. 159-168 (citazione
p. 161).
35
Tra gli scritti sui rapporti tra la riforma tributaria e il corporativismo precedenti al primo
Convegno di studi corporativi tenutosi in Roma nel 1930, si segnalano A. UCKmAR, Verso
una revisione corporativa della pubblica finanza, in «Il diritto del lavoro», 1928, I, pp. 664-670;
ID., Riforme tributarie e Stato corporativo, in «Diritto e pratica tributaria», 1929, I, pp. 36-39;
B. GRIZIOTTI, La trasformazione delle finanze pubbliche nello Stato Corporativo fascista, in «Il diritto
del lavoro», 1929, I, pp. 712-717; ID., Principii di Politica, Diritto e scienza delle finanze, Cedam,
Padova 1929.
36
UCKmAR, Riforme tributarie e Stato corporativo, cit. nt. 35, p. 36. In questo scritto si formula
una proposta che è una vera provocazione al Governo e ben rappresenta l’inadeguatezza
della disciplina dell’imposizione reddituale dell’epoca: visto che per arginare l’evasione
sono state nel tempo elevate le aliquote, sulla base di un reddito fiscale ormai solo “teorico” l’Autore, proprio considerato che «il regime fascista è il regime della sincerità e della
lealtà», ritiene che tali finzioni e ipocrisie siano da bandire e propone per le imposte sui
redditi mobiliari di «ridurre a metà tutte le aliquote, e raddoppiare automaticamente tutti
i redditi iscritti a ruolo. […] Così facendo, se non si giungerà proprio alla verità, ci si avvicinerà di molto, e la pressione tributaria apparente verrà ad accostarsi a quella reale, il
che è tutt’altro che trascurabile sia nei rapporti tra contribuente e Stato, sia nei confronti
34
154
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
Poco dopo, la ‘rieducazione tributaria’ intraprese la via più dritta della
sanzione.
Il mosconi iniziava il suo mandato col varare importanti riforme, prima
tra tutte la legge n. 4 del 7 gennaio 1929 Norme generali per la repressione delle
violazioni delle leggi finanziarie, che introduceva sanzioni penali e amministrative contro le evasioni e le frodi fiscali. Si trattava di una legge generale, recante clausola di auto rafforzamento e con espressa previsione
dell’ultrattività delle sanzioni, la cui entrata in vigore venne, tuttavia, agganciata alle contemporanee riforme del codice Rocco. Era una disciplina
strutturalmente raffinata37 (tutt’ora in parte in vigore), che lasciava ben presagire un nuovo corso di semplificazione e rinnovamento dell’ordinamento
tributario38.
A ben vedere, era ancora l’inizio dell’anno e nessuno poteva prevedere
che il ministro avrebbe dovuto far fronte alla più devastante crisi finanziaria
del XX secolo: il crollo della borsa di New York (24 ottobre 1929) e il conseguente duraturo effetto depressionario si manifestarono in Italia, per decenni, come rifiuto del liberismo e spinta verso il corporativismo39.
5. L’urgenza della riforma tributaria nei primi anni Trenta
mosconi aveva dunque iniziato a lavorare nella prospettiva di una riforma sistematica, ma ora incombeva il dissesto e dovette intervenire con
un incremento del prelievo fiscale40. La sua lotta all’evasione era stata apche si fanno all’estero tra le pressioni tributarie dello Stato».
37
Jarach, nel suo scritto sulla codificazione inglese, la definirà «le preleggi penali finanziarie» portandole ad esempio di una valida codificazione di sistema (D. JARACH, Il progetto di
codificazione dell’imposta sul reddito in Inghilterra, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle
finanze», 1938, I, p. 154).
38
Va precisato tuttavia che la disciplina sanzionatoria, la quale non poteva certo risolvere
le persistenti problematiche sul piano sostanziale (riferibili alla conformazione dell’imposta
complementare rispetto a quella di ricchezza mobile, anche in ragione dei prescritti margini
di esenzione), aveva degli evidenti limiti intrinseci incidendo diversamente a seconda delle
diverse categorie di tributi ed essendo subordinata alla pregiudiziale tributaria (si veda G.
TREmONTI, I precedenti storici della pregiudiziale tributaria assoluta e le ragioni della sua permanenza
dal 1929 ad oggi, in «Diritto e pratica tributaria», 1980, I, pp. 644-651).
39
G. mARONGIU, La crisi del 1929 e le ripercussioni sull’Europa e sull’Italia negli anni ’30, in Il
Corporativismo nell’Italia di Mussolini. Dal declino delle istituzioni liberali alla Costituzione repubblicana, a cura di P. Barucci, P. Bini, L. Conigliello, Firenze University Press, Firenze 2018,
pp. 1-51.
40
Fu reintrodotta l’imposta sulle successioni, anche nei trasferimenti familiari, che era
155
V. mASTROIACOVO
prezzata dalla dottrina: «ma le pene non bastano, occorre che il contribuente si convinca del sacrosanto dovere di corrispondere quanto è dovuto
allo Stato»41.
La struttura dei tributi rimase immutata per decenni e i risultati della
lotta all’evasione furono di poco rilievo: spesso, come accennato, le misure
approvate venivano di anno in anno rinviate, con provvedimenti che ne
procrastinavano la decorrenza. Conseguentemente le soluzioni varate avevano il pregio di raccogliere il plauso degli innovatori e al contempo, in
quanto prorogate, incontravano il compiacimento dei conservatori.
La rigida applicazione del principio ‘produttivistico’ sconsigliava un radicale e improvviso intervento sulla disciplina sostanziale. Per eliminare o
diminuire la costante perdita di gettito si reputava, pertanto, determinante
il richiamo ai principi del corporativismo, che di per sé implicavano la certezza del diritto (semplificando ‘leggi e leggine’) e il cambiamento dell’abito
mentale del contribuente.
Restava, tra l’altro, ancora del tutto irrisolto l’annoso e pesante problema della riforma della burocrazia, la cui inefficienza (stante l’incapacità
dei funzionari di districarsi in una legislazione così stratificata e complessa)
non solo incideva gravemente sulla odiosità del rapporto tra Fisco e contribuente, ma anche sul bilancio dello Stato in termini di mancato gettito42.
stata eliminata da De Stefani nel 1923, si intervenne sul gettito dell’imposta sui terreni e
dell’imposta sui fabbricati; tuttavia, ancora una volta, l’incremento maggiore attenne alle
imposte indirette ed in particolare la tassa di bollo e sugli scambi. Nel 1930 vennero abolite
le cinte daziarie comunali (r.d.l. 20 marzo 1930, n. 141) e introdotte imposte su specifici
beni: dolciumi, cacao, cioccolato, alcoli, cani, gas, luce, ecc. il cui pagamento avveniva con
abbonamento obbligatorio in capo al produttore. Tale manovra venne giudicata positivamente, in quanto reputata di stile corporativo (così A. UCKmAR, Ordinamento corporativo e
ordinamento tributario, in Atti del primo Convegno di Studi sindacali e corporativi tenutosi a Roma il
2 e 3 maggio 1930, Edizioni del diritto del lavoro, Roma 1930, vol. I, p. 318); si segnala A.
GARINO CANINA, Le nuove tendenze della finanza italiana, in «Archivio di studi corporativi»,
1930, p. 506, secondo il quale «l’abolizione dei “centoventicinque grotteschi stati doganali
interni, che creano centonovantacinque compartimenti-stagni” – come ebbe a definirli
mussolini – non era, soltanto una riforma volta a rendere più uniforme e più organico il
sistema tributario, eliminando una forma di imposizione antiquata, costosa nell’esazione
e progressiva alla rovescia; ma rappresentava pure un nuovo orientamento di politica tributaria, assai vantaggiosa dal punto di vista strettamente economico, poiché si veniva in
tal guisa ad eliminare una dannosa forma di protezionismo municipale, causa di frequenti
e gravi ostacoli agli scambi, mentre si mirava a meglio formare l’unità economica interna
della Nazione». In realtà, come segnalato, con tale manovra, mentre si restringeva l’autonomia degli enti locali, venivano introdotte imposte su generi di largo consumo, con incremento del gettito statale.
41
Così UCKmAR, Riforme tributarie e Stato corporativo, cit. nt. 35, p. 37.
42
Si trattava, fin dalla prima ora, di un capitolo importante della più ampia riforma tribu156
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
In verità permaneva il conservatorismo. Il 1° ottobre 1930 il Duce proclamava a viva voce che «fascista o è corporativo o non è fascista», ma l’attuazione delle corporazioni tardava ancora a venire e le ripercussioni sul
fronte tributario sembravano limitarsi al proliferare di pubblicazioni sulle
riviste scientifiche43.
taria e tale urgenza passava anche attraverso il tema della formazione. Abbiamo già ricordato che la riforma della burocrazia e in particolare degli Uffici finanziari era stata varata
con legge 3 dicembre del 1922, n. 1601 per «rendere agili le funzioni e diminuire le spese
dello Stato»; posta nel nulla dalla richiesta di pieni poteri, costituì tema fondante dello
stato di necessità ed espressamente annunciato come caposaldo per il raggiungimento del
pareggio del bilancio senza aumento della pressione fiscale. In argomento si rinvia allo
scritto di A. DENI, Riforma burocratica ed Uffici finanziari esecutivi, in «Diritto e pratica tributaria», 1932, pp. 86-97, che esordisce segnalando come il giornale Le Forze Civili, in quei
giorni, aveva iniziato una campagna serrata per la riforma della burocrazia pubblicando,
a mo’ di denuncia, i vari brani della relazione presentata dieci anni prima alla seduta del
Gran Consiglio Fascista, rappresentando poi l’attuale immobilismo governativo sul tema
con un parallelismo alle vicende storiche «della burocrazia francese che attraverso la bufera
di sangue […] riuscì a rimanere estranea ad ogni spirito di rinnovamento rivoluzionario,
a superare la stessa rivoluzione, a conservare gli ordinamenti amministrativi dell’ancien régime, ed a consegnarli, quasi intatti, all’impero napoleonico» (p. 86). Lo scritto di Deni prosegue dando conto di una corrispondenza di Griziotti inviata ai partecipanti al secondo
Congresso Nazionale fascista dei Funzionari delle imposte dirette del 19 ottobre 1930 in
cui, interrogato sulla necessità di una maggiore efficienza tecnica nell’ordinamento degli
uffici finanziari, oltre a ritenere indispensabile per un ‘buon funzionario moderno’ una
specializzazione attraverso un programma di studi e soprattutto mediante un lavoro di laboratorio scientifico per lo studio dei problemi concreti, auspica «tanto per incominciare»
che i migliori dei procuratori delle imposte siano d’ufficio comandati in centri di studi finanziari e all’uopo segnala che a Roma e a Pavia sono già sorti «due laboratori d’investigazione tributaria»: l’uno sotto la direzione di De Stefani, l’altro sotto la sua direzione (vd.
nt. seguente). Con tono pungente Deni conclude osservando, in sostanza, che a fronte di
tanto immobilismo governativo, sarebbe stato già un passo importante «per l’elevamento
dei funzionari e la modernizzazione degli uffici finanziari» introdurre «il titolo minimo di
studio (laurea) per l’ammissione in carriera dei procuratori di concetto» (p. 95).
43
Dal 1929 al 1933 il dibattito scientifico sul corporativismo si fece fervente e dopo i temi
del diritto del lavoro, grande importanza ebbero quelli della finanza (si veda D. FAUSTO,
L’idea di una finanza pubblica su basi corporative, in Il Corporativismo nell’Italia di Mussolini. Dal
declino delle istituzioni liberali alla Costituzione repubblicana, cit. nt. 39, pp. 95-117). In quegli
anni si assistette alla fioritura di riviste (tra cui, nel 1930, l’Archivio di studi corporativi, diretto
da Giuseppe Bottai, nel cui Programma pubblicato nel primo numero si affermava che
«bisogna convincersi che il corporativismo non è un fenomeno particolare, esaurientesi
nel materiale complesso degli istituti positivi […] ma è il principio organico e propulsivo
di una nuova costruzione integrale del mondo sociale. Il corporativismo è un’intuizione
totale nuova dell’economia e del diritto, della scienza e dello Stato; e quindi esige una revisione completa delle scienze sociali in funzione dei disparati e superiori principi che esso
comprende». Di tale integralità e unicità di approccio alla scienza si sente eco nella ‘fucina’
di Griziotti con la fondazione, nel 1929, dell’Istituto di finanza presso l’Università di Pavia
«sorto presso il Consiglio Provinciale dell’Economia con il preciso scopo di contribuire
157
V. mASTROIACOVO
Nel mentre ci si apprestava a corroborare il regime e a conquistare popoli, la reale priorità della politica finanziaria del tempo consisteva nel non
allarmare la piccola e media borghesia. Con lucida giustificazione strategica44 continuava a rimanere «scartata la possibilità di aumentare il numero
dei tributi o di inasprire le aliquote (anzi tanto i tributi quanto le aliquote
dovranno continuare a diminuire)», ritenendo di dover «perseverare nell’attuale indirizzo di favorire ed incitare la produzione, perché l’aumento
della ricchezza privata, oggetto e fonte di tributi, accresce automaticamente
le entrate pubbliche».
Una simile linea d’indirizzo non faceva che trasporre nell’ordinamento
tributario l’essenza dell’ordinamento corporativo (Tutto per lo Stato – nulla
fuori dello Stato – nulla contro lo Stato45), proseguendo in quel mutamento di
«asse di rotazione»46 di concezioni economiche volto a sostituire l’interesse
nazionale all’interesse individuale. Indirizzo ripreso e riaffermato in occasione del primo Convegno di Studi sindacali e corporativi del 1930 a
con le forze della scienza allo sviluppo degli interessi nazionali» (così B. GRIZIOTTI, Comunicazione, in Atti del primo Convegno di studi sindacali e corporativi, cit. nt. 40, II, Comunicazioni
e verbali, p. 270). Tale impostazione ritornò costantemente negli scritti successivi e il Griziotti stesso ebbe a rivendicare, in occasione di una sua prolusione presso la Scuola Superiore di Scienze Corporative di Pisa il 18 maggio 1935 (B. GRIZIOTTI, Orientamenti scientifici
dell’economia e finanza corporativa, in «Archivio di studi corporativi», 1935, p. 138), l’originalità
del suo pensiero affermando che «fin dal 1909» aveva esposto il suo orientamento al Convegno delle Scienze di Padova, così «fra gli Economisti italiani contemporanei posso annoverarmi tra quelli, che con spirito di sistema anticiparono idee, le quali trovarono ora
un indiscutibile riconoscimento nell’economia e nella finanza corporativa» (segue una
lunga nota 1, con tutti i riferimenti ai suoi scritti sul tema). Tale precisazione venne da lui
ribadita in Vecchi e nuovi indirizzi di scienza delle finanze, in «Annali di economia», 1935, vol.
10, n. 2, 651-763 (in particolare a p. 658 il paragrafo intitolato Dissenso fin dal 1909 e nt. 1
di p. 660 con riferimento ai suoi contributi apparsi dal 1912 sul «Giornale degli economisti»
sul tema del metodo di studio della finanza pubblica). In questi scritti Griziotti definisce
la finanza come «scienza d’assieme», concetto che ebbe successivamente a specificare con
preciso riferimento al diritto tributario in occasione dell’introduzione (B. GRIZIOTTI, Per
il progresso scientifico degli studi e degli ordinamenti tributari, in «Rivista di diritto finanziario e
scienza delle finanze», 1937, I, p. 1) al primo numero della Rivista di diritto finanziario e
Scienza delle finanze (sul metodo della Scuola di Pavia in relazione al tema dell’autonomia
del diritto tributario si rinvia supra nt. 2).
44
Le citazioni nel periodo sono tratte dalla relazione tenuta da UCKmAR, Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, cit. nt. 40.
45
Parole di mussolini nel discorso per il terzo anniversario della marcia su Roma (milano,
28 ottobre 1925), ribadite in quello dell’Ascensione del 26 maggio del 1927, in B. mUSSOLINI, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, La Fenice, Firenze-Roma, 1951-1980, vol.
XXII, p. 389.
46
Espressione utilizzata da GRIZIOTTI, Orientamenti scientifici dell’economia e finanza corporativa,
cit. nt. 43, p. 139.
158
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
Roma47 e ribadito, ancora dopo un decennio, in occasione dei lavori delle
Commissioni di studio istituite presso l’Istituto nazionale di Finanza corporativa48.
D’altro canto, il regime continuava a predicare che, pur non aggravando
l’onere fiscale, la distribuzione più equa della pressione fiscale sarebbe dovuta venire colpendo inesorabilmente le evasioni. Pur essendo, pertanto,
affermazione ampiamente condivisa che la riforma tributaria fosse ormai
improrogabile e che, quanto alla parte sostanziale, dovesse comprendere
tutti i tributi (poiché unico è il contribuente colpito!); che, quanto all’attuazione, dovesse condurre a procedimenti, termini e modalità identici per
ciascun tributo; che, quanto al processo, dovesse portare all’abolizione dei
numerosi procedimenti contenziosi per l’istituzione di un unico organo
giudicante; e che, in altri termini, «il legislatore statale [dovesse] studiare il
problema nel suo complesso, elaborare un nuovo e completo ordinamento
tributario ispirato ai nuovi principi» del corporativismo, si precisava, nuovamente, che «le riforme tributarie non possono essere repentine». Ed infatti si rimarcava che «il passaggio da un sistema ad un altro importa
necessariamente una crisi nel gettito tributario, una perturbazione nell’equilibrio dell’economia privata, crisi e perturbazione che potrebbero essere letali; occorre, pertanto, che le eventuali modifiche siano appartate per gradi,
senza improvvisazioni o salti nel buio, così come per gradi viene attuandosi
tutto l’ordinamento corporativo».
Tra freno e acceleratore, proprio sulla scorta dell’esperienza corporativa,
nel già ricordato Convegno di Roma del 1930 venne rilanciata l’idea di attribuire ai sindacati un ruolo di collaboratori49 dell’Amministrazione finan«In altri termini, all’interesse particolare dell’individuo si sostituisce l’interesse della categoria, il quale a sua volta, è subordinato all’interesse della Nazione; e così dall’unità elementare si arriva all’unità massima: la corporazione integrale dello Stato, che è unità
complessa di azione e di coscienza» (UCKmAR, Ordinamento corporativo e ordinamento tributario,
cit. nt. 40, p. 320). Tuttavia, prosegue l’Autore, cogliendo così la distanza tra l’intenzione
e i fatti, «il vigente sistema tributario tende ancora a distribuire gli oneri proporzionalmente
ai vantaggi che l’individuo riceve dai pubblici servizi, senza tenere conto di quei criteri di
ripartizione che sono conseguenziali alla concezione corporativa […] Tutto l’ordinamento
corporativo è semplicità, snellezza, lealtà; il nostro sistema tributario, invece è complicato,
pesante, permeato di finzioni e adattamenti» (p. 322). Dalla medesima relazione a Convegno sono tratte anche le citazioni al capoverso successivo nel testo.
48
Per i riferimenti ai verbali dell’INFC si rinvia a G. DELLA TORRE, Una nota su Ezio Vanoni,
l’“officina” Griziotti e l’Istituto nazionale della finanza corporativa, 1937-1943, in Ezio Vanoni tra
economia politica e cultura e finanza, Atti del Convegno Nazionale di Studi a cura di D. Ivone,
Salerno-Amalfi 11-12 ottobre 2006, Editoriale Scientifica, Napoli 2010, p. 497.
49
UCKmAR, Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, cit. nt. 40, p. 331, il quale precisa
47
159
V. mASTROIACOVO
ziaria per un’equa distribuzione dei tributi50, idea successivamente ripresa
da Thaon di Revel per il cosiddetto «contingente di studio»51.
E tuttavia questa ‘rivoluzione’ tardava a venire su più fronti. Nel 1932,
in occasione del secondo Convegno di studi sindacali e corporativi a Ferrara, Bottai acutamente denunciava una distanza di non poco conto tra le
parole e i fatti. Intervenendo con giudizio severo sulla teoria radicale di
Spirito, egli chiamava alla conta chi «vorrebbe fissare l’ordinamento corporativo come una morta farfalla sull’album di scienza […] coloro hanno
una maschera straordinariamente corporativa, ma una maschera di cartone
[…] sotto la maschera c’è talora il pallido voto degli Amleti liberali che fra
l’essere e non essere preferiscono l’essere stati» e chi «vorrebbe imprimere
un massimo o almeno un minimo di accelerazione al moto di trasformazione degli istituti corporativi verso forme, norme e funzioni più vaste, più
profonde, più impegnative»52.
Erano anche gli anni del primo Congresso giuridico italiano53. Era
«tempo ormai che, alla luce del […] pensiero rivoluzionario e guardando
con occhi chiari la realtà vivente della Nazione», i giuristi si decidessero «a
definire […] i principi essenziali sui quali insiste la legislazione fascista». E
che il nascente diritto tributario aspirasse a diventare parte integrante dei
percorsi di studio obbligatori nella formazione del giurista vi è prova in
che ad essi certo non si chiede di «servire da uffici delatori per gli agenti del fisco», quanto
«da consulenti tecnici per la finanza, collaborare per l’accertamento dei redditi, non già
indicando il reddito o la potenzialità economica dei singoli, ma, ad esempio, concludendo
concordati di massima, determinando i minimi ed i massimi dei redditi degli appartenenti
ad una determinata categoria professionale, facendo equiparare l’onere tributario dei contribuenti che godono presso a poco delle stesse entrate».
50
DENI, Il sistema tributario dello Stato e le organizzazioni sindacali, cit. nt. 29, pp. 261-266, ebbe
a sottolineare che il ‘nuovo’ ciclo di attività in senso corporativo caratterizzata dalla collaborazione fra uffici delle imposte dirette ed organizzazioni sindacali «non è di oggi» (p.
263), ricordando che ebbe validi sostenitori in Benini, Einaudi, Flora, Griziotti, Gangemi,
Uckmar, Scandale, Cardelli, montemurri, Guzzardi, oltre allo stesso Deni.
51
P. THAON DI REVEL, Contingente, quotità e contingente di studio, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1938, I, pp. 319-343.
52
Citazione da Il discorso del Ministro Bottai al Convegno di Ferrara, pubblicato in «Nuovi Studi
di diritto, economia e politica», 1932, p. 212.
53
P. DE FRANCISCI, Ai giuristi italiani, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1932,
pp. 269-284 (anche citazioni nel periodo successivo nel testo), che conclude la prolusione
auspicando «che questo Congresso dimostrasse non solo la possibilità, ma l’utilità di questa
collaborazione tecnica e al tempo stesso squisitamente politica, perché mirante alla realizzazione costante e completa della volontà dello Stato attraverso il rafforzarsi e il perfezionarsi del suo ordinamento giuridico».
160
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
chiusura di diversi scritti54.
L’urgenza di una riforma tributaria meditata al cospetto della dottrina,
dei centri scientifici specializzati e delle Associazioni di categoria e sindacali
continuava, anche in quegli anni, a diluirsi tra esigenze metodologiche, primogeniture55 e continuo irrompere sulla scena di contingenti necessità finanziarie.
mosconi ‘venne dimesso’ per contrasti sulla politica monetaria con
Banca d’Italia. Al suo sostituto, Jung56, venne fissato l’obiettivo di realizzare
Senza la pretesa di essere esaustivi si segnala UCKmAR, Il diritto tributario, cit. nt. 17, p. 6,
che ricordando la chiamata di Cabiati per l’insegnamento di Diritto tributario (per precisazioni sulla vicenda si rinvia supra nt. 17), si augura che «anche presso altre Università del
regno si istituiscano analoghe cattedre, in modo che lo studente in giurisprudenza non
esca più dall’Università digiuno di diritto tributario»; C. PODESTà, Per una riforma del contenzioso amministrativo in materia d’imposte dirette, in «Diritto e pratica tributaria», 1926, p. 49, fa
esplicito riferimento a che negli studi universitari si desse posto ad una cattedra di diritto
tributario, colmandosi in tal modo una lacuna dell’attuale ordinamento; F. FLORA, Evasione
e pressione tributaria nelle relazioni parlamentari, ibidem, 1927, pp. 102-103, che denunciava «nella
grande maggioranza di altre scuole di giurisprudenza nelle quali le Facoltà, abusando della
libertà loro consentita, bandiscono di continuo concorsi per discipline secondarie, ma
quasi mai per la Finanza affidata in ben quindici facoltà ad incaricati i quali della materia
che esige lunghi studi speciali non si sono quasi mai occupati. […] invitando le Facoltà a
bandire anche qui concorsi di Scienza delle Finanze e Diritto Finanziario, che in passato
valsero a popolare le nostre Università di studiosi valenti, che dispersi poi nell’insegnamento, negli uffici pubblici, nella vita politica, accrebbero il lustro della cattedra, degli istituti amministrativi e della tribuna politica». Ancora nel decennio qui in osservazione si
segnala A. UCKmAR, Scienza delle finanze o diritto finanziario?, in «Diritto e pratica tributaria»,
1939, p. 186, che conclude nel senso che «è indispensabile che […] i nostri giovani possano
apprendere nelle Università quei principi istituzionali di diritto finanziario che sono indispensabili per dedicarsi ad una professione o ad un impiego, oppure per salire ai posti più
elevati di comando».
55
Rinvio infra sub par. 7.
56
Era il 1932. Jung, tre medaglie d’argento nella prima guerra mondiale (N. DE IANNI, Il
ministro soldato. Vita di Guido Jung, Rubettino, Soveria mannelli 2009), inviato nel 1922 a
Washington per trattare il consolidamento del debito italiano, aveva affiancato De Stefani
nel salvataggio del Banco di Roma; aveva preso la tessera del Partito Nazionale Fascista
nel 1924 ed era divenuto presidente dell’INE (Istituto nazionale esportazioni) nonostante
l’inchiesta sulla ditta di famiglia per favoritismi. Avendo avuto un ruolo decisivo nella SOFINDIT (che consentì il salvataggio del Credito italiano), Jung si mostrò la persona giusta
per la nascita dell’IRI nel 1933 (Istituto per la ricostruzione industriale) attraverso una politica di compressione della circolazione monetaria e una grande operazione di consolidamento: non solo assorbimento dell’istituto di liquidazione, ma di tutti gli altri organismi
che direttamente o indirettamente fanno credito alle industrie (Banca commerciale, Credito
italiano e Banco di Roma: holding di credito e finanziarie di industrie). Al termine del suo
mandato (1935) partecipò alla campagna di Etiopia, ma non venne risparmiato dagli effetti
delle leggi razziali (dopo una così valorosa carriera militare e politica, anche se discriminato,
fu congedato da tutti i ruoli nel 1938).
54
161
V. mASTROIACOVO
il pareggio del bilancio senza aumentare i tributi, senza fare ricorso alla moneta, ma comprimendo la spesa57.
La riforma tributaria seppure solo nella prospettiva compilativa di una
codificazione dei testi normativi restava un tema urgente cavalcato dalla
politica e sollecitato dalla dottrina. ma nei dieci anni (1930-1940) qui passati
in rassegna non si sarebbe registrato alcun reale sviluppo.
6. La riforma degli ordinamenti tributari del 1936 e il tempo della finanza di guerra
In particolare, anche il R.d.l. 7 agosto 1936, n. 1639 per «la riforma
degli ordinamenti tributari», annunciato come «soffio di vita nuova corrispondente ai tempi ed al clima creato nel Paese dal Regime fascista»58, e
presentato dalla relazione governativa quale primo passo «per la realizzazione di un codice fiscale destinato [...] a sostituire la complessa e spesso
intralciante legislazione finanziaria»59, era in realtà un testo di contenuto
Cresce ancora l’imposizione indiretta. Aumenta l’imposta di bollo e la tassa sugli scambi
commerciali passa dallo 0,50% all’1,50% (da 425 milioni a 911 milioni nel 1934): mentre
il gettito delle imposte sui redditi era sceso, quello sui tributi indiretti era ancora più dei
due terzi del totale delle entrate.
58
Citazione di Thaon di Revel riprodotta in mAGNI, Paolo Thaon di Revel, cit. nt. 3, p. 198.
59
Più precisamente, il r.d.l. 7 agosto 1936, n. 1639 prevedeva al Titolo I, il riordinamento
di uffici e servizi dell’amministrazione finanziaria, al Titolo II, modificazioni ed aggiunte
alle norme per le valutazioni in materia di imposte dirette, al Titolo III, modificazioni ed
aggiunte alle norme per le valutazioni in materia di trasferimenti della ricchezza, al Titolo
IV, degli organi per la risoluzione delle controversie in materia di imposte dirette e di imposte sui trasferimenti della ricchezza, al Titolo V, dell’assistenza e della rappresentanza
nelle questioni di carattere tributario, al Titolo VI, modificazioni ed aggiunte alle norme
di procedura in materia di imposte dirette e di imposte sui trasferimenti della ricchezza,
infine, al Titolo VII, relativo alle disposizioni transitorie e finali, l’art. 47, infine, autorizzava
il Governo del Re, «sentita una Commissione parlamentare, composta di tre senatori e tre
deputati nominati dalla rispettiva assemblea, a coordinare e riunire in testi unici le disposizioni delle leggi riguardanti le imposte dirette, nonché quelle riguardanti le imposte indirette di registro, di successione, di manomorta, surrogatorie del registro e del bollo ed
ipotecarie vigenti, e che saranno emanate fino alla data di approvazione dei testi unici predetti». Proprio il riferimento finale, nell’art. 47, alla circostanza di dover tenere conto delle
disposizioni eventualmente emanate fino a conclusione dell’opera di riunione, manifestava
la vera natura del progetto quale mera sistemazione dell’esistente, indebolendo l’idea di
codice come sistema. Se, dunque, come sopra evidenziato nel testo, la Relazione governativa alla legge di conversione 7 giugno 1937, n. 1016 (pubblicata in Documenti e discussioni
sulla formazione del sistema tributario italiano, cit. nt. 5, II, p. 293) nell’illustrare il progetto, affermava che questi testi unici «possono considerarsi fin d’ora come i primi due libri di un
codice fiscale», si trattava di un’idea di codice come «romanzo d’appendice» o, meglio definito in dottrina «fatto a puntate» (R. SACCO, I codici civili dell’ultimo cinquantennio, in «Rivista
57
162
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
vario ed eterogeneo60, ben lontano dai modelli di codificazione già sperimentati in note esperienze straniere61.
Esperienze che invece Vanoni e gli altri studiosi dell’Istituto di Finanza62
di diritto civile», 1993, I, p. 315), ancora distante da una concezione sistematica.
60
PUGLIESE, La riforma degli ordinamenti tributari, cit. nt. 3, p. 557, nel commentare la riforma
del 1936 afferma: «siamo ben lungi da quella codificazione dei principi del diritto tributario
materiale e degli istituti generali del diritto tributario formale e processuale, che da tempo
s’invoca nel nostro paese». A ben vedere, già dall’inizio del Novecento, sulla scorta delle
riflessioni della dottrina tedesca, vi era chi (si veda G. CARANO DONVITO, Appunti sulla codificazione del diritto tributario, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», fasc. 45, 1900,
ora in Giovanni Carano Donvito. Scritti scelti di Scienza delle finanze e di diritto finanziario, a cura di N. d’Amati e A. Uricchio, Cacucci, Bari, 2011, pp. 203-229), interrogandosi
sulla maturità dello sviluppo del diritto tributario (alla luce dell’opera di A. ZORLI, Diritto
tributario italiano, Bologna, Società tipografica, già Compositori, 1887), riteneva opportuno
distinguere «nella compilazione d’un codice, in generale, un’evoluzione del contenuto (elaborazione del diritto da codificarsi) ed un’evoluzione della forma». Quanto al riordino della legislazione, si prospettava l’adozione della «partizione gaiana, adattata già a fondamento
dei codici civili», distinguendo una parte generale e una parte speciale «nella prima comprenderemo le disposizioni che riguardano tutti i tributi in generale, senza alcun riguardo
o richiamo a questo od a quello; nella seconda parleremo singolarmente di ciascun tributo,
così come nel codice civile, dopo l’esposizione delle norme comuni a tutti i contratti in
genere, si passa a parlare dei singoli contratti» (p. 219). Più precisamente, secondo questa
impostazione, nella parte generale avrebbero dovuto confluire «le norme che riguardano
le persone; quelle che riguardano le cose (basi imponibili); quelle che riguardano le azioni,
ossia le varie fasi o i vari momenti attraverso i quali si esplica il fenomeno del tributo (accertamenti, valutazioni, riscossioni, ecc.)» (p. 219).
61
Questa osservazione assume una valenza particolare, anche considerando che tra i compiti assegnati da Thaon di Revel all’Ufficio di coordinamento tributario e di studi legislativi,
istituito nel 1937 presso il ministero, vi era quello di «segnalare quanto viene fatto all’estero
in materia di riforme fiscali e di tecnica della legislazione fiscale» (P. THAON DI REVEL, Il
coordinamento tributario, in «Rivista italiana di diritto finanziario», 1939, I, pp. 57-66); funzione
in sostanza replicata in occasione dell’INFC (si veda Statuto sub art. 2, n. 5: «incoraggia
investigazioni comparate degli ordinamenti finanziari nazionali e stranieri in rapporti alle
tipiche condizioni ambientali» (pubblicato in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle
finanze», 1941, 232-234).
62
Proprio in quegli anni E. Vanoni, pubblica L’esperienza della codificazione tributaria in Germania, in «Rivista internazionale di scienze sociali», anno XLV, fasc. V, settembre 1937
(ora in ID., Opere giuridiche, II, Giuffrè, milano 1962, pp. 381-409). La Rivista di diritto finanziario e scienze delle finanze nata a vocazione espressamente internazionale (si veda lo scritto
introduttivo al primo numero di GRIZIOTTI, Per il progresso scientifico degli studi e degli ordinamenti
finanziari, cit. nt. 43, p. 6) aveva pubblicato sul tema numerosi contributi sia di studiosi
italiani che stranieri: E. BECKER, Accentramento e sviluppo del diritto tributario tedesco, ibid., 1937,
I, pp. 155-167; E. ALLIX, A. PIANTIER, La codificazione fiscale in Francia, ibid., 1937, I, p. 168185; C. SHOUP, m. BOGGERI, La disorganizzazione fiscale negli Stati Uniti, ibid., 1938, I, pp.
32-45; JARACH, Il progetto di codificazione dell’imposta sul reddito in Inghilterra, cit. nt. 37, p. 143154 (in particolare, in questo saggio Jarach richiama la legge n. 4 del 1929 quale esempio
del corretto «metodo di codificazione da seguire per l’intera materia tributaria consistente
163
V. mASTROIACOVO
avevano iniziato ad approfondire nei contenuti e nei metodi, determinandosi così a sollecitare l’attenzione del ministro verso un nuovo modello di
codificazione:
la codificazione richiede la posizione di principi, che devono permanere
nel tempo. […] La codificazione deve possedere tanta intima autorità da
garantirne l’immutabilità contro gli stimoli dei facili riformatori. La codificazione, se non vuole mancare al suo scopo, deve poter respingere
per la forza stessa che emana dalla sua elaborazione, i tentativi di modificazione dei principi accolti. È esperienza universale che l’Amministrazione da un lato, e gruppi di interessi privati dall’altro, urgono sugli
organi legislativi per ottenere la variazione degli istituti più controversi
nel senso propugnato da ciascuna di tali forze63.
Concludeva Vanoni che rispetto a ‘tale dinamica’ di contrapposti interessi «le vicende della recente riforma delle imposte dirette in Italia (ottobre
1935 - gennaio 1936) sono tra le più istruttive». Il progetto di riforma tributaria del 1936, infatti, era stato salutato con favore a centro pagina de
La Stampa di quel luglio64 per «spirito di giustizia sociale e praticità di accertamento». In particolare, nell’articolo, erano stati lodati l’introduzione
di moderni istituti come il domicilio fiscale, l’anagrafe dei contribuenti65 e
nel riunire in una parte generale, come la Reichsabgabenordnung germanica, tutte le norme
sia di diritto materiale, sia di diritto formale che possono essere comuni a tutte le specie
di imposte e di raccogliere poi in altri testi distinti le norme al diritto tributario speciale,
ossia ad ogni imposta». Tale scritto seguiva di poco quello di Vanoni sulla codificazione
in Germania e precedeva, solo di numeri di pagine nel medesimo numero della rivista,
quello dello stesso Vanoni sulla codificazione in Italia, Il problema della codificazione tributaria,
in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1938, I, p. 361 ora in ID., Opere
giuridiche, II, Giuffrè, milano 1962, pp. 411-454): all’Istituto di Finanza di Pavia il tema era
ampiamente sviluppato, arricchito dalle esperienze oltre confine, pronto ad essere veicolato
sui tavoli della politica.
63
VANONI, L’esperienza della codificazione tributaria in Germania, cit. nt. 62, p. 383, ma si veda
anche p. 407.
64
La Stampa, 7 luglio 1936, pagina 1, <http://www.archiviolastampa.it>, annuncia «il Consiglio dei ministri di sabato scorso, dopo l’importante complesso di provvedimenti per la
costruzione civile ed economica dell’Impero, ha deliberato la riforma dell’ordinamento
tributario, non più adeguato alle esigenze della Nazione e dello Stato».
65
Quanto all’anagrafe dei contribuenti, all’esito di una sperimentazione effettuata nel Lazio
(che nel progetto era strutturata a livello locale e non nazionale – come invece proposto
da Einaudi, in Corso di scienza delle finanze, ed. La riforma sociale, Torino 1926, p. 162), l’ufficio delle imposte aveva lamentato problemi di spesa, di personale e di organizzazione,
ancorché a tale istituto veniva riconosciuto l’effetto di rendere «impossibili o ridurre al
164
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
«specialmente l’innesto che felicemente compie dell’ordinamento corporativo su quelli finanziari dello Stato»; particolare plauso era stato riservato
alla previsione di un’«unicità dei criteri, sveltezza delle procedure e responsabilità collegiale, di cui vengono ad essere investiti anche gli elementi designati dagli organi sindacali».
Tuttavia, tale novità venne percepita dagli Uffici distrettuali delle imposte come «un inammissibile sindacato sull’esercizio del potere sovrano
d’imposizione da parte dello Stato»66. Tanto che «una lieve modificazione
della riforma corporativa degli ordinamenti tributari, non priva di significato», si ebbe con la legge di conversione67:
il primo comma dell’art. 8 veniva sostituito da un altro nel quale non è più
fatto obbligo agli ispettorati compartimentali delle imposte dirette di sentire “preliminarmente” le Unioni dei lavoratori competenti per ragioni di
materia, allorché stabiliscono, in base ad elementi certi, i redditi soggetti
all’imposta di ricchezza mobile»68.
Intanto, per dirne una, dal settembre del 1935 al gennaio del 1938 ben
minimo le evasioni e di radicare nella massa dei contribuenti la convinzione dell’impossibilità di sfuggire al pagamento dei tributi il che costituirà un passo decisivo verso la formazione di quella coscienza tributaria del cittadino» (così F. FRETTO, La riforma tributaria,
in La Stampa, 15 settembre 1936, pag. 7, <http://www.archiviolastampa.it>). A ben vedere, invece il fattore di spesa incise enormemente sull’attuabilità in concreto dell’anagrafe
e il domicilio fiscale rimase sostanzialmente utilizzabile ai solo fini dell’accertamento dell’imposta di ricchezza mobile, inapplicabile ai tributi fondiari e alla complementare, continuando così a permanere una pluralità di competenze territoriali degli Uffici fiscali in
ragione di un’impostazione ancora essenzialmente reale.
66
E. D’ALBERGO, Problemi della finanza italiana, in «Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze», 1937, p. 193.
67
R.d.l. 7 giugno 1937 n. 1016, che convertiva, con numerose modificazioni, il r.d.l. 7 agosto 1936 n. 1639.
68
E. D’ALBERGO, Finanza pubblica, in «Rivista internazionale di scienze sociali». 1938, pp.
468-469. Veniva invece previsto l’accordo contemporaneo di tali Ispettorati con le Unioni
provinciali o interprovinciali dei datori di lavoro e dei lavoratori e dei professionisti e
artisti. Una collaborazione antesignana dei moderni ‘studi di settore’; già allora del resto
si discuteva delle ripercussioni di tale disciplina procedimentale sul piano sostanziale che
introduceva «in via di fatto» il sistema del contingente. Così D’ALBERGO, Problemi, cit. nt.
66, 193; a tali obiezioni rispose lo stesso ministro Thaon di Revel nello scritto, Contingente,
quotità e contingente di studio, cit. nt. 51, p. 339, precisando quanto da lui già espresso (Concetti
fondamentali della riforma, in «La Terra», aprile 1937) ovvero che il termine di studio unito a
contingente «serve ad indicare che non si tratta di un dato valido a determinare l’obbligo e
l’ammontare dell’imposta dovuta complessivamente dalla categoria determinata, ma di un
dato che il Fisco ricerca a solo, anzi esclusivo scopo di studio e di controllo».
165
V. mASTROIACOVO
undici provvedimenti normativi (tra decreti, decreti-legge e leggi) si erano
succeduti nel disciplinare la tassazione dei dividendi delle società per
azioni69; e bisognava raggiungere il pareggio del bilancio70.
Per l’elenco dei riferimenti legislativi si rinvia a A. GUASTI, Questioni sull’applicazione dell’imposta straordinaria sul capitale delle società per azioni, in «Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze», 1938, p. 155. Osservava E. VANONI, Primi indirizzi della finanza di guerra in
Italia, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1940, I, pp. 101-112, in particolare p. 107 che «il bilancio italiano è da diversi esercizi, e in particolare dopo l’esercizio
1935-1936, un bilancio di guerra»: la situazione economica si era aggravata e si dovette
fare ricorso alla leva fiscale, seppur con varie giustificazioni (quali l’autarchia, il problema
demografico, ecc.), che ne consentissero la convivenza con il principio produttivistico.
Venne introdotta un’imposta cedolare sui frutti dei titoli al portatore 10%, al fine di coprire
l’evasione della complementare sul reddito (mantenendo però l’esenzione sui titoli di
Stato); incrementata l’imposta sui celibi; introdotte imposte straordinarie sul patrimonio:
r.d.l. 5 ottobre 1936 sulla proprietà immobiliare; r.d.l. 19 ottobre 1937 n. 1729 sul capitale
delle società per azioni (undici modifiche in tre anni 1935-1938); r.d.l. 9 novembre 1938
sul capitale delle aziende industriali. Con r.d.l. 21 febbraio 1938 n. 246 (ancora oggi in vigore), fu istituito il canone per abbonamento sulle radioaudizioni «per chiunque detenga
uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione».
70
mAGNI, Paolo Thaon di Revel, cit. nt. 3, pp. 187-198. Questo nuovo corso della politica fiscale sembra in parte influenzato dal pensiero di Vanoni (Chiose alle nuove imposte sul patrimonio e sull’entrata, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1940, I, pp.
22-42), che, seppur lamenta come l’urgenza di introdurre nuove fonti di entrata non abbia
consentito di approfondire gli studi per l’elaborazione degli strumenti richiesti dall’attuazione di un’imposta personale a largo gettito e più in generale una codificazione tributaria,
valuta, al contempo, positivamente efficaci interventi straordinari come l’imposta speciale
di registro sulle plusvalenze immobiliari (legge 21 ottobre 1940, n. 1511), alla quale riconosce il fine di evitare la corsa agli investimenti reali e assorbire i guadagni dipendenti
dagli aumenti di prezzo dei beni immobili. In effetti, in sostanziale discontinuità rispetto
alla politica finanziaria da tempo predicata dal regime del ‘raggiungimento del pareggio di
bilancio senza aumentare i tributi’, Vanoni (Primi indirizzi della finanza di guerra in Italia, cit.
nt. 69, pp. 101-112) denuncia con lucidità che «alla esigenza primordiale, più volte affermata dal Capo del Governo, del pareggio del bilancio e della limitazione degli aggravi fiscali, si son venute sovrapponendo nell’ultimo decennio le esigenze indilazionabili del
potenziamento militare ed economico della Nazione, conseguenti agli squilibri politici internazionali». In un successivo breve scritto (Finanza e guerra, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1940, I, pp. 301-305), Vanoni esordisce illustrando il
programma di finanziamento degli armamenti del ministro delle finanze americane dopo
le elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, ponendo l’accento sull’aumento delle
imposte e al ricorso al credito per la parte di spese che le imposte e le altre entrate non
possono coprire. L’Autore pone l’interrogativo se si debba procedere alla chiusura del
‘circuito di capitali’ con più imposte o più crediti e risponde che «la finanza forte opera
allora innanzitutto attraverso le imposte. L’aumento dell’imposizione ha un alto valore
politico: esso porta, come è noto, entro i limiti in cui l’aumento concorre a fronteggiare
le spese belliche, a far gravare il peso della guerra sulla generazione che l’ha voluta e che
è pronta a soggiacere ai sacrifici che essa comporta […] il ricorso ai debiti pubblici è giustificato solo nei limiti in cui le spese di guerra eccedono la possibilità di incremento dei
69
166
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
Del resto, una prospettiva d’insieme mancava ancora, sia ai progetti ministeriali promossi da Thaon di Revel, attraverso le funzioni assegnate all’Ufficio di coordinamento tributario e di studi legislativi71, per
l’inquadramento della legislazione fiscale «entro un geniale, armonico sistema di diritto tributario»72, sia al progetto di Carta della Finanza, annunciato dallo stesso ministro in occasione dell’inizio dei lavori dell’INFC73.
Questa avrebbe dovuto essere la terza Carta del Fascismo dopo quella del
Lavoro e della Scuola, per «rendere possibile di disciplinare in futuro il metodo finanziario fascista, coordinando e fondendo in un’unica visione di
comando il passato, il presente e il futuro di un Regime che, essendo destinato a lungamente durare, deve, anche nel campo finanziario, procedere
con metodo logico, e con gradualità non disgiunta ad una continuità di
azione e di direzione».
La concezione vanoniana74 di codice tributario per principi ebbe occatributi. Il debito incrementa l’avvenire: esso diluisce i sacrifici nel tempo, ma prepara difficoltà ed ostacoli all’economia e alla finanza della pace». Lo stesso Griziotti si convincerà
della improcrastinabile necessità di perorare una chiusura del circuito dei capitali sul fronte
dei tributi (introduzione delle imposte sugli enti collettivi e sugli esenti dal servizio militare
e del contributo speciale progressivo sugli aumenti di patrimonio; l’aggravio dell’imposta
complementare sul reddito e dell’imposta successoria), piuttosto che sull’indebitamento,
cercando di veicolare queste urgenze nelle Commissioni di studio istituite presso l’Istituto
Nazionale di Finanza Corporativa, tuttavia con ancora scarso riscontro a livello governativo (DELLA TORRE, Una nota su Ezio Vanoni, l’“officina” Griziotti e l’Istituto nazionale della finanza corporativa, 1937-1943, cit. nt. 48, pp. 487-502).
71
Istituito con r.d.l. 4 marzo 1937, n. 304, recante il riordinamento dei ruoli del personale
dell’Amministrazione finanziaria.
72
Circolare del ministero delle finanze n. 1300 del 1° febbraio 1938; si vedano THAON DI
REVEL, Il coordinamento tributario, cit. nt. 61, p. 57; B. GRIZIOTTI, La razionalizzazione delle finanze pubbliche e l’ufficio di coordinamento tributario e di studi legislativi, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1938, I, p. 60.
73
Discorso dell’Eccellenza Thaon di Revel, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1941, I, pp. 227-231, in particolare p. 228.
74
Come già ricordato, l’idea di un codice tributario, caratterizzato da una necessaria preliminare individuazione di principi della materia, venne prospettata da Vanoni come ipotesi
di studio nel 1938 (Il problema della codificazione tributaria, cit. nt. 62, pp. 411-454), con tentativi di sottoporla all’attenzione della politica nonostante le impellenti ragioni di guerra.
Si rinvia all’approfondito saggio di R. BRACCINI, Un progetto di codice tributario del 1942. La
«redazione provvisoria delle norme generali del diritto tributario» dell’Istituto Nazionale di Finanza
Corporativa, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1999, I, pp. 337-429;
attraverso un ponderoso studio basato su una documentazione archivistica fino ad allora
inedita (Redazione provvisoria delle norme generali di diritto tributario del 23 dicembre 1942 e annessa
Relazione) l’Autore dà conto del primo progetto di codice tributario realizzato in Italia, attribuendone la paternità principalmente a Vanoni. Per le più dettagliate vicissitudini circa
167
V. mASTROIACOVO
sione in un modo o nell’altro di essere prospettata in seno alle Commissione di studio dell’INFC agli inizi degli anni Quaranta75, mentre diversa
sorte toccava ad altri76.
il susseguirsi delle diverse bozze, essenzialmente legate all’INFC da cui era, di fatto, scaturito il primo testo, si rinvia al pregevole scritto, segnalando fin d’ora che l’Autore rileva,
significativamente, che «fin dalla sua genesi il progetto ha conosciuto una sorta di segregazione conoscitiva» solo in parte riconducibile al dovere di riservatezza degli atti formati
dalle Commissioni scientifiche in seno all’INFC.
75
In particolare il citato scritto di DELLA TORRE, Una nota su Ezio Vanoni, cit. nt. 48, p.
487 dà conto del formarsi di due schieramenti in seno alle Commissioni di studio: uno a
sostegno di una riforma minimale (con Cosciani e la maggioranza dei commissari) e uno
a favore dell’avvio, proprio in tempi di guerra, di riforme strutturali (con Griziotti e Vanoni: si veda VANONI, Primi indirizzi della finanza di guerra, cit. nt. 69, p. 106, egli stesso precisava che «non è certo un momento come l’attuale in cui ogni energia ed ogni forza
economica è impegnata nello sforzo della guerra, che può essere attuata una modificazione
sostanziale dell’ordinamento dei tributi. ma è importante che la necessità di un orientamento più decisamente personale dell’imposizione sia stata riconosciuta e che il problema
venga fin d’ora impostato, di guisa che siano preparati sin da questo momento tutti gli
elementi per la sua risoluzione»). In occasione dei lavori delle Commissioni di studio Vanoni presentò ugualmente gli Appunti sulla riforma dell’imposizione personale, ma nella seduta
del 7 aprile del 1942 fu ritenuto inopportuno procedere in tal senso, dovendosi preferire
una «sistemazione provvisoria di guerra» e, tuttavia, successivamente nella seduta del 17
novembre 1942, venne incaricato della revisione e formulazione dei principi generali del
sistema tributario italiano, per il quale presentò un articolato dal titolo Proposte di modificazioni e aggiunte alle norme generali di diritto tributario (si segnala, per completezza, che la Redazione provvisoria delle norme generali di diritto tributario del 23 dicembre del 1943 e la relativa
Relazione sono state pubblicate in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze»,
1999, I, pp. 388-429, di seguito al prezioso scritto di BRACCINI, Un progetto di codice tributario
del 1942, cit. nt. 74, pp. 337-387). La profonda vocazione di Vanoni a una visione sistematica dell’ordinamento tributario, non andava disgiunta – come già detto – dall’acuta capacità di individuare, nella contingenza, efficaci strumenti straordinari di politica fiscale
in tempo di guerra, pur fermo nella convinzione che «quando il momento eccezionale
sarà superato, e disposizioni di eccezione cadranno ed il mercato potrà essere liberato da
strutture, che avranno perso la loro ragione di essere» (VANONI, Finanza e guerra, cit. nt.
70, p. 305). Ciò lo rendeva determinante nei tavoli di lavoro presso Istituti accreditati dalla
politica e probabilmente influì sulla sua determinazione all’iscrizione al Partito Nazionale
Fascista. Verosimilmente per questa ragione il suo nominativo (unitamente a quello di
Griziotti) risultava sia tra i componenti della ‘Commissione per la finanza di guerra’ che ‘Diritto’
e non già alla ‘Commissione per la finanza ordinaria’, tra i cui componenti figurava Cosciani
(dal maggio del 1938 assunto in Assonime). Per gli elenchi completi della Probabile composizione delle Commissioni di studio si rinvia a R. FAUCCI, Appunti sulle istituzioni economiche del
tardo fascismo, 1935-1943, in «Quaderni storici», 1975, pp. 607-630, in particolare p. 627.
76
Il riferimento è qui in particolare a D. Jarach, che lasciò l’Italia a seguito delle leggi razziali, trasferendosi in Argentina, ove, poi, nel 1947 su incarico del governo di Buenos Aires
redasse un progetto di codice fiscale, approvato sostanzialmente senza modifiche e utilizzato in seguito come modello in molte altre province argentine (sia consentito il rinvio
alla voce di V. mASTROIACOVO, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), dir.
168
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
E tuttavia appariva chiaro che la riforma tributaria non era questione
di potere. Né l’autorizzazione del 1922, né il pieno dispiegarsi del regime
negli anni Trenta diedero frutti realmente significativi sul fronte della sistemazione dell’ordinamento tributario, nemmeno nella forma compilativa
della predisposizione di testi unici. Ancora nel 193877, per commentare le
scelte di politica fiscale, si faceva riferimento al capitolo quarto de L’Île
des Pingouins, denunciando la continua preponderanza delle imposte indirette nel bilancio dello Stato, con ripercussioni in termini di eguaglianza
tributaria.
Anche l’imposta unica personale progressiva sul reddito restava un traguardo di là da venire78.
da I. Birocchi, E. Cortese, A. mattone, m. N. miletti, Il mulino, Bologna, 2013, I, pp.
1120-1121). Nel suo scritto Il progetto di codificazione dell’imposta sul reddito in Inghilterra, cit.
nt. 37, p. 154, egli aveva puntualmente osservato che «la codificazione non può raggiungere
risultati soddisfacenti se non è compiuta in base ad un indirizzo preciso di tecnica giuridica,
e se non è affidata, come la codificazione del diritto civile, del diritto commerciale, del diritto penale e del diritto processuale, non ad empirici ma a giuristi, particolarmente edotti
della dogmatica e della sistematica del diritto tributario. […] Una codificazione nel senso
più elevato della parola, e non di semplice formazione di un testo unico, non solo per
l’imponenza dell’opera, ma soprattutto per i criteri unitari e sistematici che vi presiedono».
77
P.J.A. ADRIANI, Il significato sociale del diritto tributario, in «Rivista di diritto finanziario e
scienza delle finanze», 1938, I, p. 345 (si veda supra nt. 19).
78
Nel dopoguerra Vanoni riuscì solo in parte a portare a termine il suo progetto di riforma
tributaria (di cui vi è traccia nei lavori della Commissione per la riforma tributaria 1947-1949).
Un primo passaggio fu la Legge 11 gennaio 1951 n. 25, Norme sulla perequazione tributaria
e sul rilevamento fiscale straordinario, detta di ‘perequazione tributaria’, la quale, tra l’altro, introduceva la dichiarazione annuale dei redditi. Seguita poi dal Piano Vanoni ovverosia un
dettagliato Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64 per raggiungere un ben equilibrato progresso economico, in armonia con il pensiero già espresso
nel Codice di Camaldoli (come è noto Vanoni non portò a compimento il suo piano: fu
vittima di un collasso cardiaco il 16 febbraio 1956 all’esito di un lungo discorso in Parlamento). Tra la copiosa letteratura sull’opera di Vanoni e il suo contributo alla riforma del
diritto tributario nella fase post bellica, anche quanto alla formazione dei relativi principi
nella Carta costituzionale, ci si limita a rinviare alle considerazioni di L. EINAUDI, Di Ezio
Vanoni e del suo piano, in Prediche inutili, dispensa seconda, Einaudi, Torino, 1956, pp. 89130, il quale nel commentare le misure prospettate nel documento, constatato come si
tratti dell’esito di un percorso battuto già da tempo da Vanoni, osserva che «lo scoglio
contro cui si rompono i piani non è tanto la difficoltà di trovarne i mezzi; quanto la volontà
di produrli e sovratutto, quando siano stati consegnati, di usarli bene» (p. 108, enfasi nostra). Il Piano
Vanoni ebbe, dunque, un suo parziale compimento nel testo unico delle leggi sulle imposte
dirette approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645; tuttavia, anche in questo caso, l’eccessiva gradualità di attuazione – riconducibile alla volontà politica – stemperò in massima
parte l’originario effetto perequativo. Seguirono, nel tempo, i lavori di tutt’altra illustre
Commissione per lo studio della riforma tributaria (istituita con decreto dell’8 agosto 1962), diretta
di fatto dal vicepresidente Cesare Cosciani: le imminenti elezioni politiche determinarono
169
V. mASTROIACOVO
7. L’accreditamento del diritto tributario per una prospettazione di riforme sistematiche
A ben vedere, dunque, già sul finire degli anni Venti, l’accademia sollecitava a più voci una formazione e qualificazione scientifica degli interlocutori istituzionali, di cui denunciava l’incapacità di promuovere quell’opera,
pur ritenuta ineludibile, di riforma e di semplificazione della legislazione
fiscale. Rimarcare la specificità della materia tributaria e l’incompetenza del
ceto politico sui relativi temi erano argomenti spesi su riviste scientifiche e
in Convegni anche al fine, non troppo dissimulato, di ampliare i tavoli tecnici delle commissioni governative agli studiosi del diritto tributario e veicolare in quelle sedi idee innovative e tecnicamente efficaci affinché si
pervenisse ad una riforma sistematica dell’ordinamento tributario.
Nel 1926 la rivista Diritto e pratica commerciale pubblicava, come supplemento, il primo numero di Diritto e pratica tributaria79, sotto la direzione di
Antonio Uckmar. La copertina precisava che essa costituiva «Organo Ufficiale della Associazione Nazionale dei Consulenti Tributari» e che nel consiglio di direzione vantava la presenza di Giuseppe Bottai, all’epoca
Sottosegretario al ministero delle corporazioni e presidente dell’Associazione stessa.
Nel concludere lo scritto introduttivo80, dopo aver constatato la complessità del sistema tributario, Uckmar lodava il governo nazionale che,
«sempre vigile per il raggiungimento del benessere della Nazione, ha intuito
l’eccezionale importanza del problema, e non solo con sagaci provvedimenti tende a snellire e semplificare il sistema tributario, ma cerca con ogni
la Commissione ad anticipare al ministro delle finanze Trabucchi una relazione provvisoria
che costituiva «una traccia sufficientemente particolareggiata del piano di riforma […] per
approfondire e completare gli studi inerenti» (documento poi pubblicato dallo stesso a C.
COSCIANI, Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, Giuffrè, milano
1964, oggetto di accurata analisi in AA.VV., Il progetto di riforma tributaria della commissione
Cosciani cinquant’anni dopo, a cura di B. Bises, Il mulino, Bologna, 2015, specialmente pp.
47-74). Per una riforma tributaria al passo con le esperienze straniere (orientata ad un sistema di imposizione personale e progressivo) sarebbe stato necessario attendere ancora
alcuni anni (legge delega per la riforma tributaria 9 ottobre 1971, n. 825), tuttavia l’analisi
degli eventuali e concorrenti influssi dei diversi tentativi di riforma stratificati nel tempo,
esorbita dal presente studio (in argomento si veda, tra gli altri, S. BOTARELLI, Le scelte di
politica tributaria negli anni delle riforme (1948-1971), in «Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze», 2005, I, pp. 54-86).
79
Per completezza si rinvia a G. FALSITTA, Il contributo di ‘Diritto e pratica tributaria’ alla promozione e al progresso dello studio del diritto tributario, in «Rivista di diritto tributario», 2007, I,
pp. 101-128.
80
UCKmAR, Il diritto tributario, cit. nt. 17, p. 1.
170
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
mezzo di dare incremento agli studi relativi […] in modo che lo studente
in giurisprudenza non esca più dall’Università digiuno di diritto tributario».
Il riferimento a quest’ultima disciplina non era un refuso; precisava l’Autore
che con esso voleva intendere «una nuova importantissima branca del diritto pubblico […] che per la sua mole e la sua importanza costituisce un
diritto speciale ed autonomo»81.
Di lì a poco, nel 1928, veniva dato alle stampe il primo numero della
Giurisprudenza delle imposte dirette, edita da Assonime82 e a seguire, nel 1931,
de La rivista tributaria (edizione Jovene), finalizzate essenzialmente all’analisi
sistematizzata della legislazione, della giurisprudenza e della prassi amministrativa.
Già dall’inizio del secolo83 Griziotti, con pubblicazioni su varie riviste
scientifiche, aveva posto la questione sul metodo scientifico nell’approccio
alle scienze giuridiche, poi sperimentata in concreto dal 1929 con la fondazione dell’Istituto di Finanza dell’Università di Pavia. In quegli anni i suoi
studi erano stati determinanti nel dibattito sui temi urgenti del diritto tributario, tra cui proprio la riforma dell’ordinamento fiscale.
Al primo Convegno degli Studi sindacali e corporativi nel 1930 sul tema
della riforma dell’‘ordinamento tributario’ relatore a Roma era Antonio
Uckmar.
La sua relazione, strutturata in tre capi tra loro coordinati84, si presentava complessa ed estesa. L’Autore premetteva che essa era stata originariamente affidata «molto opportunamente» a De Stefani, e che tuttavia:
pochi giorni or sono impreveduti impedimenti hanno reso impossibile a
S.E. di redigere la relazione, e l’incarico è stato affidato a me. L’autorità
del precedente relatore, la vastità e l’importanza del tema, la mancanza
assoluta del tempo necessario per compiere uno studio adeguato all’argomento e, soprattutto, la coscienza della mia incapacità, mi imponevano
81
Tale passaggio dello scritto del 1926, venne inserito come premessa nella quarta di copertina, di una nuova collana di riferimento per gli studiosi della materia tributaria, edita
dal 1929 per i tipi della Cedam (ad oggi ancora attiva): un progetto editoriale per «un’opera
vasta e completa che riunisca, coordini, dia una sistemazione organica e scientifica alla
complessa materia, inquadri, in una parola, questa nuova disciplina giuridica».
82
Cui fece seguito nel 1940 Giurisprudenza delle imposte indirette, poi dal 1947 fuse nell’unica
rivista Giurisprudenza delle imposte.
83
Supra nt. 43.
84
UCKmAR, Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, cit. nt. 40, p. 313, i tre capi (Cenni
generali; Necessità di riforme; Il sistema tributario nell’ordinamento corporativo) sono a
loro volta distinti in sottoparagrafazioni.
171
V. mASTROIACOVO
un rifiuto assoluto, ma lo spirito di disciplina mi ha costretto ad accettare
il lusinghiero e gentile invito rivoltomi da S.E. Bottai. La Commissione
vorrà tener presente che questo studio è stato pensato e scritto in soli cinque
giorni, e quindi vorrà scusare le pecche e le deficienze [enfasi nostra].
Una fortunata circostanza fortuita.
Tuttavia se è vero che all’epoca Uckmar non aveva ancora compiuto
35 anni, va rammentato che sul tema vantava già diverse pubblicazioni 85:
ve ne è ampia traccia nella sua relazione.
Inoltre la richiesta perveniva direttamente da Bottai, che, al di là dell’obiettiva caratura politica, era stato, per l’appunto, membro del Consiglio
di direzione di Diritto e pratica tributaria al momento della sua fondazione.
Non si trattò certo di una sostituzione avventata.
Per di più, col senno di poi, va rilevato che la modestia del giovane nel
presentarsi al consesso – un classico espediente retorico per invocare clemenza – si rivelò il suo tallone di Achille, che consentì a Griziotti di replicare, anche anticipando un significativo accreditamento presso
Commissioni di studi destinate a discutere, negli anni a venire, proprio i
temi della riforma tributaria.
Nelle Comunicazioni a Convegno86 Griziotti (di due lustri più anziano)
precisò che «il problema tributario finanziario è talmente importante […]
che è opportuno che tutto quanto il lavoro di preparazione non sia fatto in
cinque giorni […] ma in un lungo periodo di travaglio per portare una serie
di proposte ben coordinate». Lo studioso citò di seguito l’esperienza inglese
del Comitato di Colwyn che aveva dibattuto «il problema di promuovere
la prosperità perfezionando il sistema tributario […] con la collaborazione
di scienziati, politici e uomini d’affari, mediante interrogatori, inchieste,
monografie e relazioni». Proseguì ricordando che in Germania la società
Federico List, che fa capo alla più grande organizzazione di studi economici
tedeschi presso l’Università di Kiel, aveva convocato un Congresso per studiare il problema della formazione del capitale in rapporto al sistema tributario. Griziotti precisò che queste esperienze venivano richiamate non
già per il risultato raggiunto, ma per il metodo seguito, affermando che su
questi argomenti «i Convegni e le discussioni devono essere preparati e coordinati da centri scientifici organizzati».
In conclusione egli affermò al consesso che fosse opportuno rimandare
l’approvazione di qualsiasi proposta concreta e «invitare tutti gli studiosi a
85
86
Infra nt. 35.
Comunicazione, cit. nt. 43, pp. 268-270.
172
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
indirizzare tutte le loro forze per risolvere questo grande problema». Con
l’occasione, nella qualità di Direttore dell’Istituto di finanza dell’Università
di Pavia da poco «sorto presso il Consiglio Provinciale dell’Economia con
il preciso scopo di contribuire con le forze della scienza allo sviluppo degli
interessi nazionali» annunziò che l’Università e il Consiglio avevano ottenuto
dal ministro Bottai l’approvazione del programma di lavoro da svolgere, tra
cui «un Congresso Nazionale per lo studio della riforma finanziaria, in relazione al Regime corporativo, facendo apposita collaborazione di tutte le
forze vive del Paese non solo della scienza, ma anche della produzione».
Non abbiamo rinvenuto notizie su tale Congresso, che probabilmente
non si tenne, ma è certo che l’Istituto di Finanza lavorò alacremente in quegli anni e di ciò ne sono testimonianza importanti scritti e opere monografiche di carattere sistematico su tematiche di ampio respiro.
L’interesse scientifico per il diritto tributario continuava a crescere. Nel
1937 venivano contemporaneamente fondate due riviste di «intonazione
più scientifica»87 rispetto a quelle fino ad allora dedicate alla materia tributaria: Rivista italiana di Diritto finanziario88 e Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze89.
Esse erano il frutto di impostazioni differenti90.
La prima nasceva dal suggerimento di «amici antichi e fedeli»91 della Rivista di Diritto Pubblico (tra i quali di certo Achille Donato Giannini) per evitare che l’incremento degli scritti in materia finanziaria finisse per alterare
l’equilibrio «delle varie branche del Diritto pubblico». D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione, ne firmò la presentazione segnalando
«l’influenza che il Diritto Finanziario manifesta anche nel campo del puro
diritto civile, dove introduce, indirettamente, attraverso la norma fiscale,
istituti nuovi o risolve controversie concernenti principi generali delle obbligazioni e dei contratti», così anche preludendo a uno studio sistematico
dei singoli istituti.
Così A.D. GIANNINI, Istituzioni di diritto tributario, milano, Giuffrè, 1945, p. 31.
Il Comitato direttivo era composto da mariano d’Amelio, Francesco D’Alessio e Achille
Donato Giannini e la Direzione da Giorgio Tesoro e Carlo d’Amelio; dopo il periodo bellico, questa rivista verrà incorporata nella Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze.
89
Il Comitato scientifico era composto da mariano d’Amelio, Edwiin R.A. Seligman, Ernest Blumenstein e la Direzione da Benvenuto Griziotti, mario Pugliese, Pietro Bodda ed
Ezio Vanoni.
90
Sulla questione metodologica dello studio del diritto tributario negli anni Trenta si rinvia
infra nt. 2.
91
m. D’AmELIO, Presentazione, in «Rivista italiana di Diritto finanziario», 1937, I, pp. 1-3,
da cui anche le citazioni seguenti nel periodo.
87
88
173
V. mASTROIACOVO
La seconda – fondata da Griziotti – nasceva al fine di diffondere il metodo della ‘finanza integrale’ elaborata nell’ambito dell’Università (da lui
definita «fucina della scienza per la vita»), proponendosi come:
anello di congiunzione fra gli studiosi del diritto finanziario e la scienza
delle finanze, tra i teorici e i pratici, cui preme una più razionale elaborazione del diritto positivo, fra i finanzieri italiani e quelli stranieri, affinché vengano ad accrescersi le possibilità di cooperazione scientifica
fra gli studiosi delle leggi e degli ordinamenti finanziari e i pratici che
questi e quelle devono nei pubblici uffici o nel foro ogni giorno applicare92.
Griziotti, confermando la sua fedeltà al regime, si dichiarava pronto a
completare la riforma dell’uomo nuovo fascista attraverso il metodo scientifico presso istituti culturali:
è fondamentale che l’Università anche nel ramo delle dottrine economiche, finanziarie, sociali e politiche abbia i suoi istituti di ricerca scientifica
in stretta relazione con gli organi dello stato e della vita sociale per lo
studio dei problemi concreti per il compimento di quelle ricerche o catene di indagini aventi per scopo la soluzione di quesiti di interesse generale93.
92
GRIZIOTTI, Per il progresso scientifico degli studi e degli ordinamenti finanziari, cit. nt. 43, p. 1. Si
rinvia a L. EINAUDI, Ricordo di Benvenuto Griziotti, in «Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze»,1956, I, pp. 339-340; G. GHESSI, I primi cinquant’anni della Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze (1937-1991), in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle
finanze», 1996, I, pp. 541-566; S. CIPOLLINA, La fondazione della “Rivista di diritto finanziario
e scienza delle finanze” nei documenti dell’archivio Griziotti di Pavia, in «Rivista di diritto finanziario
e scienza delle finanze», 2017, I, p. 265.
93
Si veda anche B. GRIZIOTTI, L’Università e la ricerca scientifica nell’ordinamento corporativo dell’economia e delle finanze, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1937, I,
pp. 337-350, in cui denuncia che non è possibile «prendere provvedimenti economici e finanziari in base agli studi di una commissione provvisoria, costituita coi rappresentanti di
Enti corporativi arrivati da ogni parte d’Italia o da vari uffici dei ministeri, senza nemmeno
sospettare la necessità di studi sistematici intorno alla questione da regolare»; PUGLIESE,
La riforma degli ordinamenti tributari, cit. nt. 3, p. 588, che alla fine del suo saggio afferma «è
necessario cambiar metodo. Le leggi tributarie debbono formar oggetto d’esame e di studio da parte degli studiosi al pari d’ogni altra legge, senza ingiustificate prevenzioni ed assurdi preconcetti antifiscali, e gli organi amministrativi devono dal canto loro sentir l’utilità,
più che l’obbligo, di sottoporre almeno le leggi tributarie fondamentali (escluse quelle, del
resto rare, la cui elaborazione debba per ovvi motivi restar segreta) all’esame e al giudizio
delle facoltà giuridiche, dei sindacati forensi e della magistratura, abbandonando ingiustificate suscettibilità e malintese diffidenze».
174
IL DIRITTO TRIBUTARIO ALLA PROVA DEL REGImE
Entrambe le impostazioni concorsero al dibattito per una riforma sistematica del diritto tributario94.
Nell’interesse generale, l’accreditamento presso sedi istituzionali, anche
per incarichi legislativi specifici e commissioni tecniche, diveniva opportunità di prospettare teorie più rigorose e progetti di più ampio respiro95,
seminando un germoglio che stenta ancora oggi a spuntare ancorché continui ad essere talora irrigato con passione96.
94
mette conto peraltro ricordare che in quegli anni (1937) Enrico Allorio vinceva il concorso di diritto processuale civile (dopo essersi laureato con Emilio Betti nel 1934) e, già
autore di diverse opere di teoria generale del diritto, si apprestava di lì a poco a pubblicare
(1942) la prima edizione del Diritto processuale tributario, la cui impostazione sistematica concorse nello sviluppo degli studi successivi della materia tributaria.
95
In tal senso appare particolarmente significativo lo scritto di DELLA TORRE, Una nota su
Ezio Vanoni, cit. nt. 48, p. 487 ss., in cui si dà atto che in occasione della partecipazione
alle riunioni dell’appena istituito INFC, il Vanoni – che solo nel 1938 aveva preso la ‘tessera
del pane’ – in occasione dei progetti governativi sulla chiusura del circuito dei capitali,
oltre ad insistere sulla necessità di privilegiare un intervento sul fronte dei tributi, piuttosto
che all’indebitamento, continuava a proporre in ogni occasione di confronto in tavoli istituzionali – ancorché con scarsi riscontri a livello governativo – la revisione del sistema
tributario e un orientamento dell’imposizione sui redditi in chiave personale. Nella Commissione ‘Diritto’, per il dibattito sulla riforma, insieme a Vanoni e Griziotti, figuravano,
tra altri, Achille Donato Giannini, massimo Severo Giannini, mariano d’Amelio, Luigi
Berliri e Antonio Uckmar.
96
molto sinteticamente basti osservare sul tema che solo una parte del materiale proveniente dall’opera della Commissione giuridica del 1942 e dalla successiva elaborazione vanoniana sarà utilizzata per formare il titolo I del t.u. delle imposte dirette, d.p.r. 29 gennaio
1958 n. 645 (artt. 1-48: Disposizioni generali). Con la tipologia normativa prescelta nel
dopo-guerra (riconducibile al genere dei ‘testi unici’) si consumerà l’abbandono del proposito di codificazione della «parte generale» del diritto tributario. Tuttavia - così conclude
il suo densissimo studio BRACCINI, Un progetto di codice tributario del 1942, cit. nt. 74, p. 386
- «come un fiume carsico, l’idea di un “codice dell’ordinamento tributario” che si dovrebbe
aprire con “una parte generale contenente le norme comuni ai vari tributi, alle procedure
e modalità della loro applicazione, e in generale al rapporto tributario” riappare nei progetti
legislativi italiani ad un cinquantennio dalla sua prima formulazione». Il riferimento è ai
diversi disegni di legge (sia di rango costituzionale che ordinario) che furono presentati
nei primi anni Novanta per l’emanazione di uno Statuto del contribuente e disposizioni sulla normativa tributaria, sul riordino e sulla semplificazione dell’ordinamento tributario, in séguito confluiti
in testo unificato che ha portato all’approvazione della sola legge 27 luglio 2000, n. 212
(Statuto dei diritti del contribuente), che attualmente costituisce l’unica legge recante principi
generali in materia tributaria. Sugli ulteriori tentativi di una codificazione di settore, anche
facendo ricorso alla previsione di disposizioni preliminari di parte generale, si rinvia a G.
FALSITTA, Vicende, problemi e prospettive delle codificazioni tributarie in Italia, in «Rivista di diritto
tributario», 2002, I, 195; ID., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giuffrè, milano 2008, p.
434. Successivamente, nel 2008, Victor Uckmar istituí e coordinò presso il Cnel una Commissione, composta unicamente da professori di Diritto tributario di tutta Italia (anche in
segno di protesta nei confronti del governo che «ha avuto per sei volte la delega a emanare
175
V. mASTROIACOVO
un codice tributario e non l’ha mai fatto»: G. Pistelli, Victor Uckmar: il codice tributario è
pronto, in «Italiaoggi», 8 aprile 2014, p. 5). Questa Commissione elaborò, sotto forma di
codice, un dettagliato articolato normativo (sia della parte attuativa che di quella sostanziale
dei singoli tributi) preceduto da Disposizioni preliminari. L’allora presidente Cnel Antonio
marzano, esercitando i poteri di cui all’art. 993 della Costituzione, ne trasse una proposta
di legge delega (del quale il menzionato articolato avrebbe costituito altresì attuazione)
presentata in Parlamento e mai assegnata per la discussione. Si veda G. mARONGIU, Verso
il codice tributario, in «Diritto e pratica tributaria», 2010, pp. 227-231; ID., Relazione introduttiva
al Convegno, in Per un nuovo ordinamento tributario, Contributi coordinati da V. Uckmar, in occasione dei Novant’anni di Diritto e pratica tributaria, a cura di C. Glendi, G. Corasaniti,
C. Corrado Oliva, P. de’ Capitani di Vimercate, Cedam, Padova 2019, pp. XVII-XXXIV;
ex multis m. LOGOZZO, La codificazione tributaria tra mito e realtà, in «Rivista trimestrale di diritto tributario», 2019, pp. 37-61. Nel 2017, l’eredità di un progetto di codificazione ‘sistematica’ e ‘per principi’ della materia tributaria è stata raccolta da Astrid (Fondazione per
l’analisi, gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche e sull’innovazione
nelle amministrazioni pubbliche), con un gruppo di lavoro coordinato da Augusto Fantozzi; al contempo tale eredità continua a costituire uno degli obiettivi principali delle
Commissioni di studio istituite presso le associazioni dei professori di diritto tributario.
Siamo ancora oggi allo stadio dei tentativi, peraltro in un tempo in cui il ruolo dei giuristi
presso i tavoli istituzionali è, come noto, notevolmente mutato.
176
massimiliano Gregorio
L’idea di costituzione nella giuspubblicistica italiana degli anni Trenta
S OmmARIO : 1. Fascismo e costituzione: un ossimoro? – 2. La costituzione fascista: un problema ben presto archiviato – 3. La riflessione
dottrinale degli anni Trenta: regime e costituzione
1. Fascismo e costituzione: un ossimoro?
È possibile parlare di costituzione o addirittura di costituzionalismo1 a
proposito del regime fascista? La spontanea ritrosia che colpisce l’interprete
nell’accostare tali espressioni suggerisce che il problema non sia mal posto.
Sul punto conviene dunque fare un po’ di chiarezza preliminare.
A mio parere improponibile – va detto con nettezza – risulta l’accostamento tra fascismo e costituzionalismo; almeno se con quest’ultimo termine intendiamo quella nobilissima e plurisecolare tradizione di pensiero
votata a dividere e limitare il potere, ritenendo queste due condizioni indispensabili alla garanzia dei diritti individuali2. Il regime mussoliniano, come
tutte le dittature, imboccò ovviamente la strada diametralmente opposta:
quella dell’accentramento dei poteri, dell’abbattimento dei vincoli al loro
esercizio e dunque della negazione dei diritti. Differente è invece il discorso
relativo al binomio fascismo e costituzione. A tal proposito, l’imbarazzo
dell’interprete si fonda su ragioni diverse e tutto sommato assai meno irresistibili.
La prima e più rilevante di queste pare annidarsi nell’idea che un’esperienza autoritaria o dittatoriale difficilmente possa avere una costituzione3.
Non si tratta di un pregiudizio, ma di una precisa eredità, l’ennesima, laAl tema Quale costituzionalismo durante il fascismo? ha dedicato un seminario, tenutosi il 16
giugno 2017 a Firenze, la stessa Associazione Italiana dei Costituzionalisti.
2
Così m. FIORAVANTI, Costituzione, Il mulino, Bologna 1999, p. 85.
3
Del resto non è forse la Costituzione (in maiuscolo, stavolta, ad indicare l’attuale carta
repubblicana) dichiaratamente antifascista? Come tutte le sue consorelle europee del secondo dopoguerra, essa si caricò sulle spalle il peso di rifondare e difendere la democrazia
riconquistata. E ciò da solo varrebbe a spiegare l’imbarazzo nell’accostare al fascismo il
concetto di costituzione.
1
177
m. GREGORIO
sciataci dalla rivoluzione francese e, più esattamente, dal celeberrimo articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. E non tanto
perché esso affermi che per avere una costituzione servano almeno i due
fondamentali requisiti della garanzia dei diritti e della separazione dei poteri;
quanto piuttosto perché in quell’agosto del 1789 venne consacrata sulla
carta una concezione valoriale della costituzione che, in fondo, ci appartiene
ancora oggi. Se si muove dunque dal presupposto che la costituzione non
possa avere un contenuto qualsiasi, ma debba invece incarnare la condizione minima, necessaria e indispensabile, per ritenere accettabile di vivere
sotto un determinato regime politico, risulta allora piuttosto naturale escludere il ventennio fascista dal novero delle esperienze costituzionali4. ma
questo esito non è scevro da problematicità. È vero che il secondo Novecento ha creato un legame indissolubile tra democrazia e costituzione, ma
ritenere la prima un elemento coessenziale alla seconda, ci metterebbe di
fronte alla complicatissima incombenza di dovere definire un’idea di democrazia quando questa, nel percorso della modernità giuridica, ha subito
una molteplicità di slittamenti semantici davvero considerevole5. Erano democratici, solo per fare un esempio, i regimi liberali prefascisti? La domanda, per nulla retorica, animò – come è noto – una vivacissima polemica
tra Ferruccio Parri e Benedetto Croce nelle primissime sedute della neonata
Consulta Nazionale6. ma anche se volessimo accantonare la definizione
dell’idea di democrazia, per accontentarci di individuare un nucleo duro di
principi assunti come indispensabili all’esistenza della costituzione, la situazione non migliorerebbe granché. Nel passaggio tra Otto e Novecento
mutò infatti, e assai profondamente, la sostanza di molti principi costituzionali fondamentali quali, solo per fare alcuni esempi, il principio di eguaglianza7 o la stessa fondazione teorica della garanzia dei diritti8.
Dunque, non pare esistere una teoretica causa ostativa al riconoscimento dell’esistenza di una costituzione fascista. Né varrebbe obiettare, fa4
Di «costituzione perduta» in riferimento al periodo compreso tra le due guerre parla ad
esempio il pur interessante saggio di F. RImOLI, L’idea di costituzione. Una storia critica, Carocci, Roma 2011.
5
Si vedano, al proposito, le interessanti osservazioni di P. COSTA, Democrazia e conflitti, in
«Giornale di storia costituzionale», 2019, n. 38.
6
Le sedute cui ci si riferisce sono quelle del 26 e 27 settembre 1945.
7
Si veda il recente m. DOGLIANI, C. GIORGI, Art. 3 Costituzione italiana, Carocci, Roma
2017.
8
Ci si riferisce al passaggio dalla garanzia dei diritti alla loro inviolabilità di cui parla m.
FIORAVANTI, Legge e Costituzione. Il problema storico della garanzia dei diritti, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 43 (2014), t. II, pp. 1077 e ss.
178
L’IDEA DI COSTITUZIONE
cendo leva su una considerazione di diritto positivo, che il fascismo non
varò mai una propria carta. Il regime infatti non ignorò il problema e produsse, anzi, svariati progetti di riforma costituzionale. Il fatto poi che nessuno di questi giunse a compimento non significa che il fascismo rinunciò
all’idea di dotarsi di una propria costituzione. Più semplicemente, come è
del resto noto, raggiunse l’obiettivo per altre vie, preferendo disarticolare
l’architettura statutaria a colpi di riforme legislative, sfruttando il carattere
flessibile dell’ottriata carta albertina. Ora, appare innegabile che quella massiccia opera di stravolgimento produsse effettivamente, per quanto attraverso una progressiva stratificazione, un ordinamento costituzionale nuovo,
dotato di caratteri peculiari propri capaci di distinguerlo nettamente da
quello precedente. E come è ovvio che fosse, quel nuovo ordinamento
ebbe anche i suoi interpreti e i suoi teorici.
Dunque una costituzione e una cultura costituzionale fascista, a mio
parere, sono effettivamente esistite. Nelle pagine seguenti si cercherà pertanto di definirne i tratti salienti e, cosa ancora più importante, di collocarle
all’interno di un quadro interpretativo convincente. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto. A chi guarda alla vicenda del costituzionalismo moderno
da una prospettiva storica, viene spontaneo e naturale riconoscere e isolare
almeno tre grandi stagioni costituzionali9: 1) Quella iniziale delle rivoluzioni
di fine Settecento; 2) quella della Staatsverfassung ottocentesca, concepita
come attributo (nonché come prodotto) del Rechtsstaat; 3) infine quella della
costituzione democratica novecentesca, avviata quasi sperimentalmente nel
primo dopoguerra, ma poi compiutamente coronata dalle costituzioni della
seconda parte del secolo. In questo quadro, il rischio di tornare a considerare il periodo tra le due guerre come una parentesi, un deprecabile incidente, un inciampo nel coerente percorso della storia costituzionale, è
ovviamente forte. Per evitarlo, occorre allora restituire all’esperienza costituzionale fascista il proprio ruolo, riconoscendola come figlia legittima del
secolo XX10. Il primo tratto caratterizzante la cultura (e quindi anche la cultura costituzionale) fascista fu infatti quello di appartenere pienamente al
Novecento e dunque di presentarsi come radicalmente antitetica a quella
che aveva costruito e consentito di mantenere la stabilità politica e istituzionale degli stati nazionali nel secolo XIX.
Così anche il recente contributo di m. FIORAVANTI, Costituzionalismo, Carocci, Roma 2018.
Non si ignora il fatto che, seguendo questa proposta interpretativa, si corre il rischio di
evidenziare qualche sgradevole grado di parentela tra la cultura costituzionale fascista e
quella repubblicana. ma in fin dei conti, sarebbe strano il contrario, essendo esse espressione di due stagioni certo molto diverse, ma appartenenti al medesimo secolo.
9
10
179
m. GREGORIO
In fondo, è considerazione ovvia. Il fascismo degli esordi, quello sansepolcrista, nasceva proprio dall’esigenza di contrapporre all’imbelle e sfibrato Stato ottocentesco le energie nuove liberate dalla Grande guerra: al
notabilato elitario e autoreferenziale si voleva sostituire la gioventù combattentistica italiana, uscita vincitrice dalla carneficina bellica ma poi tradita
dai suoi stessi governanti che, dall’estremo sacrificio di migliaia di eroici
fanti non erano riusciti ad ottenere niente di meglio di una ‘vittoria mutilata’. Fondate o meno che fossero le critiche ai risultati ottenuti dall’Italia
al tavolo di Versailles, non può certamente sfuggire che l’ansia di rinnovamento, il desiderio di un palingenetico rivolgimento politico in grado di
fondare su basi nuove il rapporto tra istituzioni e cittadini, di cui il fascismo
(e naturalmente non solo il fascismo) si fece portatore, non appartenevano
più alla cultura del secolo precedente ma, al contrario, erano chiara e consapevole espressione di un tempo nuovo. In questa ottica, peraltro, il primo
dopoguerra italiano si inserisce coerentemente in quella fioritura di trasformazioni (anche sotto il profilo costituzionale) che costellarono l’intera Europa. Cosa le accomunava? In termini generalissimi, e consapevolmente
semplificatori, potremmo individuare questo elemento comune nella richiesta di una più ampia partecipazione popolare alla determinazione dei
fini della res publica. E dunque: se il Novecento giuridico trova la propria
epifania nel riconoscimento del pluralismo sociale, il problema fondamentale che l’avvento del secolo nuovo pose alla cultura costituzionalistica era:
come consentire a questa società composita, plurale (e quindi conflittuale)
di contribuire alla determinazione degli scopi dell’agire statuale (che invece
deve essere, per definizione e per ovvia necessità, univoco e coerente)? Ora,
occorre dire che il fascismo non si sottrasse all’onere di offrire una soluzione al problema appena descritto. Certo, si trattò di una soluzione aberrante perché antidemocratica, ma fu una risposta. E anzi: potremmo
affermare, senza timore di discostarci troppo dal vero, che alla fortuna politica del fascismo, al consenso che esso seppe conquistare nel paese, contribuì in modo determinante proprio quella semplicistica promessa di
riuscire a comporre organicisticamente tutte le istanze plurali (espresse non
più dai singoli individui ma da realtà sociali collettive) nel superiore interesse
della nazione; per poi fare di essa la stella polare dell’operato dello Stato,
rendendo così quest’ultimo finalmente degno di essere definito nazionale11.
Di stato nazionale parlava naturalmente anche la Rechtsstaatslehre ottocentesca. ma assai
diverso era il significato dell’aggettivo «nazionale», che qualificava lo Stato. Se nell’immaginario ottocentesco e risorgimentale la nazione risultava un’entità vaga e sfuggente, connotata in senso culturale da una pluralità di fattori che accomunavano gli individui (lingua,
costumi, tradizioni, religione), con l’avvento del nazionalismo – dal quale il fascismo trasse
11
180
L’IDEA DI COSTITUZIONE
Che il regime si rendesse perfettamente conto di appartenere a questa
nuova pagina della storia costituzionale appare peraltro di tutta evidenza.
Lo si desume, ad esempio, dalla lettura del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 1925, col quale venne istituita la celebre
Commissione dei 18, incaricata di studiare proposte di modifica all’ordinamento costituzionale statutario. Nella premessa all’articolato, il decreto
motiva infatti l’opportunità della nomina della Commissione con la «necessità di sviluppare e perfezionare con prudenti norme complementari le
istituzioni giuridiche concernenti i rapporti fondamentali tra lo Stato e tutte
le forze che esso deve contenere e garantire»12. Fatto salvo l’atteggiamento
prudenziale del Governo, che aveva evidentemente tutto l’interesse, in quel
peculiare frangente storico-politico, a presentare la futura riforma non
come frattura rivoluzionaria, ma come mero aggiustamento, come marginale integrazione di complemento, salta però agli occhi la precisa individuazione del terreno sul quale le riforme avrebbero dovuto essere calate:
ossia la relazione tra lo Stato e le forze sociali. Non gli individui, dunque,
erano chiamati a confrontarsi con lo Stato (come nella narrazione ottocentesca), ma le forze sociali. E tale messaggio venne recepito con grande chiarezza dalla Commissione. Quando questa sei mesi dopo ultimò i lavori,
infatti, il suo Presidente Giovanni Gentile ne presentò le conclusioni «a
S.E. l’on. Benito mussolini, Presidente del Consiglio dei ministri»13, con
un’introduzione scritta a mo’ di missiva in cui notava:
Oggi […] lo Statuto di Carlo Alberto è inadeguato alla struttura reale
dello Stato, che si trova a regolare una società dove il cittadino singolo
non conta più come tale. […] Le corporazioni, i sindacati, gli ordini professionali, le associazioni degli interessi specificati sono costituite o in
via di costituirsi. I partiti politici non si rivolgono più a individui, ma a
la propria idea di nazione – quest’ultima divenne un soggetto dotato di una sua volontà
politica, di una missione storica addirittura. La dimensione nazional-collettiva prese dunque il sopravvento su quella individuale pretendendone la subordinazione. Su quest’ultimo
punto si veda il recente contributo di m. CARAVALE, Una incerta idea. Stato di diritto e diritti
di libertà nel pensiero italiano tra età liberale e fascismo, Il mulino, Bologna 2016; mentre, più in
generale, sugli slittamenti semantici del concetto di nazione nel primo Novecento, sia consentito rimandare a m. GREGORIO, Declinazioni della nazione nella giuspubblicistica italiana, in
Retoriche dei giuristi e costruzione dell’identità nazionale, a cura di G. Cazzetta, Il mulino, Bologna
2013, pp. 231-256.
12
Relazioni e proposte della Commissione per lo studio delle riforme costituzionali, Le monnier, Firenze 1930, p. VII.
13
Ibid., p. IX.
181
m. GREGORIO
categorie di individui associati. […] E lo Stato invece ignora anche oggi
le categorie; e come accade di tutte le forze che si ignorano, non può assoggettarle, come sarebbe necessario, né può garantire ad esse quella libertà che è possibile soltanto dentro lo Stato14.
2. La costituzione fascista: un problema ben presto archiviato
Ora, proprio il riferimento alla Commissione dei 18 ci offre l’opportunità di entrare più addentro alla sostanza del rapporto che il fascismo ebbe
col concetto di costituzione. La scelta di nominare il gruppo di studio ci
dice infatti, in primo luogo, che mussolini avvertì da subito e assai decisamente il bisogno di dotare lo Stato fascista di una sua propria e specifica
costituzione. E, in secondo luogo, che, nell’ottica di soddisfare tale bisogno,
il duce del fascismo scelse, almeno inizialmente, di imboccare la via maestra
della riforma organica del testo statutario. A onor del vero, occorre anche
precisare che quella Commissione non fu neppure la prima nominata per
questo scopo. Un anno prima infatti, peraltro nel pieno clamore della crisi
aventiniana successiva all’omicidio matteotti, era stato il Partito Nazionale
Fascista (o, per meglio dire, mussolini attraverso il Pnf) a nominare un
gruppo di 15 esperti allo scopo di mettere a punto una proposta di riforma
costituzionale. Questa prima commissione, che non produsse risultati apprezzabili, complice anche la delicatissima contingenza politica, venne dunque successivamente assorbita dalla già citata Commissione dei 18, sin da
subito ribattezzata «Commissione dei Soloni», nominata l’anno successivo,
con tutt’altri – come si è avuto modo di sottolineare – crismi istituzionali15.
Come accennato, i 18 Soloni conclusero i loro lavori in tempi decisamente
rapidi e altrettanto rapidamente ne trasmisero le risultanze al Capo del Governo. Questi, tuttavia, non le apprezzò affatto e, a pensarci bene, l’esito
era tutt’altro che imprevedibile. Stante il proposito della Commissione di
Ibid., p. XX. Si noti che la missiva di Gentile volta a presentare i lavori conclusivi della
Commissione dei 18 era suddivisa in paragrafi e quello dal quale si è estratto il passaggio
riportato recava significativamente il seguente titolo: «Il nuovo problema costituzionale
che il fascismo deve risolvere».
15
La vicenda può essere letta come un esempio paradigmatico della ostentata e tutt’altro
che involontaria confusione di piani tra dimensione istituzionale e dimensione partitica
che, nei primi anni di vita del regime, caratterizzò il fascismo. Tuttavia, occorre anche notare che la situazione politica, tra il settembre 1924 e il 31 gennaio 1925, era cambiata drasticamente, alla luce della svolta dichiaratamente autoritaria, inaugurata con il famigerato
discorso di mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925.
14
182
L’IDEA DI COSTITUZIONE
voler «mantenere fermi i principii informatori dell’ordinamento vigente»16,
il rafforzamento del potere esecutivo e il corrispondente ridimensionamento del legislativo, resi necessari da una supposta degenerazione della
consuetudine costituzionale che aveva condotto ad un’eccessiva parlamentarizzazione della forma di governo, non potevano che ripartire dalla lettera
dello Statuto. ma quest’ultimo, come la stessa Commissione non mancò di
notare, «non nomina in nessun articolo il ministero o il Gabinetto od il
Consiglio dei ministri e nemmeno il Presidente del Consiglio dei ministri».
In altre parole, rafforzare l’esecutivo facendo leva sulla lettera della carta
ottriata da Carlo Alberto conduceva inevitabilmente ad una conclusione
obbligata: quella della rivalutazione della figura del monarca. La relazione
Barone finì peraltro per ammetterlo candidamente quando nella chiosa affermava: «La Commissione si è trovata concorde nel voto che le maggiori
sorti dell’Italia rinnovata siano rimesse soprattutto nelle mani del suo Re»17.
Evidentemente non era questa una soluzione che poteva risultare gradita a
mussolini, il quale aveva invece bisogno di un nuovo assetto costituzionale
che ruotasse, se non attorno alla propria persona, quanto meno attorno
alla carica che egli ricopriva18.
Alla luce degli insoddisfacenti risultati prodotti dalla Commissione dei
Soloni, il duce del fascismo, non abbandonò però i propositi di riforma.
Più semplicemente, preso atto delle difficoltà che un’organica revisione costituzionale comportava, decise di raggiungere l’obiettivo imboccando una
strada differente. Facendo leva sul carattere flessibile dello Statuto albertino,
optò cioè per un progressivo ma sistematico svuotamento del contenuto
originario della carta, da attuarsi per via legislativa ordinaria. Del resto, i rischi di incoerenze e disorganicità cui ci esponeva preferendo la seconda
strada alla prima non rappresentavano un ostacolo insormontabile. Il rigore
qualitativo della normazione non fu mai, infatti, una vera priorità del disegno politico mussoliniano che, alla chiarezza delle forme giuridiche, preferì
sempre la sostanza delle scelte politiche. Piuttosto al regime interessava
agire rapidamente e, coerentemente con tale necessità, la messa a punto di
Così si intitolava il Capo II della Relazione «Sui rapporti fra potere esecutivo e potere
legislativo» (la c.d. Relazione Barone, dal nome del Commissario che la redasse). Cfr. Relazioni e proposte, cit. nt. 12, p. 9.
17
Ibid., p. 81.
18
Sulle perplessità che mussolini espresse di fronte alle proposte della Commissione dei
Soloni, si vedano: I. SCOTTI, Il fascismo e la Camera dei Deputati. La Costituente fascista 19221928, in «Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari», 1/1984, pp.101 e ss.
oltre che il sempre valido A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1978.
16
183
m. GREGORIO
un ordinamento costituzionale schiettamente fascista si realizzò nel breve
giro di un quinquennio19. Le principali tappe di questa tambureggiante attività di riforma sono note e vale dunque la pena richiamarle solo per
sommi capi. Le prime e più eclatanti innovazioni vennero certo introdotte
con le due leggi fascistissime approvate nei due mesi a cavallo tra 1925 e
1926 (L. 2263 del 24 dicembre 1925 e L. 100 del 31 gennaio 1926), che
modificarono radicalmente il rapporto tra Governo e Parlamento e, con
essi, l’equilibrio tra i due poteri che la lettera dello Statuto e la prassi costituzionale avevano disegnato. Questa prima ma già radicale riforma riprendeva peraltro alcune delle proposte emerse nella relazione finale della
Commissione dei Soloni, prima fra tutte quella relativa alla recisione del
rapporto fiduciario tra la Camera dei Deputati e il Governo20, grazie alla
quale quest’ultimo risultava ricevere la propria legittimazione costituzionale
unicamente della Corona. ma le inseriva in tutt’altro scenario. La L.
2263/1925, infatti, istituendo la carica monocratica del Capo del Governo
introduceva molto più di un mero cambiamento lessicale21. Se il Presidente
del Consiglio dei ministri era ancora un primus inter pares, il nuovo Capo del
Governo Primo ministro Segretario di Stato (questa la dizione integrale)
Se si assume come dies a quo di tale vicenda il 1924, anno in cui – come ricordato – il
Pnf nominò la prima Commissione di 15 esperti per studiare e mettere a punto un’organica riforma dello Statuto albertino, il dies ad quem può essere individuato nel 1929, anno
in cui venne approvata la seconda legge organica sulla posizione del Gran Consiglio del
Fascismo all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano (la L. 9 dicembre 1929 n.
2099). Non sfuggirà che questo quinquennio 1924-1929 coincide esattamente con la
XXVII legislatura che fu, a tutti gli effetti, una vera e propria legislatura costituente.
20
Sull’affermarsi dell’istituto fiduciario nella storia parlamentare italiana si veda F. ROSSI,
Saggio sul sistema politico dell’Italia liberale. Procedure fiduciarie e sistema dei partiti fra Otto e Novecento, Rubbettino, Soveria mannelli 2001. V’è da notare peraltro che il requisito del rapporto
fiduciario tra Camera e ministero (sia nella sua versione primo-novecentesca che aveva
visto l’affermarsi, per via di convenzione costituzionale, dell’istituto della fiducia preventiva; sia nella sue versione tardo-ottocentesca della fiducia da verificarsi a posteriori, secondo la pratica del cosiddetto sincero esperimento) non era ritenuto sufficiente – nella
Rechtsstaatslehre italiana – alla legittimazione dell’esecutivo. Secondo la ricostruzione orlandiana, infatti, l’esecutivo necessitava di una doppia investitura: quella politica, rappresentata
dall’appoggio della Camera rappresentativa e quella giuridico-istituzionale data dal gradimento espresso dal Sovrano. Pare perfino superfluo notare che nel lessico dottrinale orlandiano una legittimazione politica e una giuridica non potevano ovviamente essere poste
sullo stesso piano. Sul punto si veda m. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo in La Costituzione italiana, a cura di m. Fioravanti, S. Guerrieri, Carocci, Roma 1999.
21
Lo stesso mortati, come è noto, evidenziò le innovazioni introdotte dalla riforma affermando che, in seguito ad essa, era nata una nuova forma di Stato: quella che lui definiva
«il regime fascista del Capo del Governo». Cfr. C. mORTATI, L’ordinamento del Governo nel
nuovo diritto pubblico italiano (1931), Giuffrè, milano 2000, p. 221.
19
184
L’IDEA DI COSTITUZIONE
figurava come gerarchicamente sovraordinato ai ministri e, pertanto, unico
interlocutore del Sovrano. Lo si comprende bene se si considera soprattutto
lo slittamento, introdotto proprio dalla L. 2263/1925, della competenza a
determinare l’indirizzo politico di Governo. Come è stato recentemente
sottolineato, infatti, la legge del dicembre 1925 innovava «il regio decreto
14 novembre 1901, n. 466 (“decreto Zanardelli”), recante Oggetti da sottoporsi
al Consiglio dei ministri»; questo «all’art. 6, comma 1, attribuiva anch’esso al
“Presidente del Consiglio dei ministri” l’obbligo di mantenere “l’unità d’indirizzo politico”, ma, ex artt. 1 e 2, la determinazione di questo spettava al
Consiglio dei ministri»22. La prima vera riforma costituzionale del fascismo
innovò dunque, e assai profondamente, il volto dell’esecutivo; ma riflessi
non minori ebbe sui rapporti tra questo e il potere legislativo. La volontà
di marginalizzare il ruolo del Parlamento era già evidente nel dicembre
1925, quando venne affidato proprio al Capo del Governo il potere di approvare gli ordini del giorno dell’assemblea, trasformandolo quindi nel dominus quasi assoluto dei lavori di quest’ultima. ma il quadro si completò
ulteriormente un mese dopo quando l’integrazione legislativa del gennaio
1926 riconobbe all’esecutivo (e dunque, in virtù del combinato disposto
con la norma precedente, essenzialmente al Capo del Governo) un’amplissima potestà legislativa che, lungi dal proporsi come meramente accessoria
e integrativa rispetto a quella del Parlamento, diventava in sostanza concorrente con essa quando non, di fatto, minacciosamente sostitutiva.
Né i propositi di riforma si arrestarono qui. Anzi, possiamo considerare
il 1926 come un anno determinante nella costruzione della nuova statualità
fascista perché, oltre al completamento dei nuovi assetti tra legislativo ed
esecutivo, esso vide nascere almeno altre due fondamentali riforme, volte
ad incidere in profondità la carne viva della legalità statutaria. Nel novembre
venne varato il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 1848
del 6 novembre 1926) e, con esso, il regime ottenne il risultato di mettere
fuori legge ogni altro partito diverso dal Pnf. L’art. 215 del TULPS affidava
infatti ai Prefetti il potere di scioglimento di ogni associazione che avesse
svolto «attività contraria all’ordine nazionale dello Stato», curandosi di precisare nel successivo art. 218 che «sotto il nome di associazioni si intendono
i partiti, i gruppi e le organizzazioni politiche in genere, anche temporanee».
Di fatto, dunque, la costruzione del regime a partito unico in Italia si raggiunse per via amministrativa, ben celata dietro la tranquillizzante pretesa
di perseguire le attività contrarie al vaghissimo concetto di «ordine nazionale
C. TRIPODINA, L’“indirizzo politico” nella dottrina costituzionale al tempo del fascismo, in «Rivista
AIC», 1/2018, p. 2.
22
185
m. GREGORIO
dello Stato». E poiché nella retorica di regime il fascismo si ergeva a unico
garante del superiore interesse nazionale, ne conseguiva logicamente che
ogni organizzazione ostile all’esecutivo fosse, per ciò solo, necessariamente
anti-nazionale. ma per rafforzare (forse sarebbe meglio dire per blindare)
l’assetto di potere fascista neppure l’eliminazione formale del pluralismo
venne ritenuta sufficiente. Del resto, quelle attività che fino al 1926 potevano svolgersi alla luce del sole, ben avrebbero potuto essere portate avanti
in clandestinità. Per cui mussolini si dotò, sempre in quello stesso anno,
anche di un organismo giurisdizionale ad hoc, schierato a difesa dell’ormai
rodato concetto del superiore interesse dello Stato nazionale (naturalmente
sempre inteso come coincidente col progetto politico fascista): il famigerato
Tribunale Speciale per la difesa dello Stato23, i cui componenti – che provennero per lo più dalla milizia – erano naturalmente tutti di nomina governativa.
Innovazioni non meno importanti si aggiunsero infine nel proseguimento della legislatura. L’anno successivo venne infatti approvata dal Gran
Consiglio del Fascismo la Carta del Lavoro e se è vero che questa non produsse immediate ulteriori alterazioni degli assetti costituzionali, è non meno
vero che rappresentava comunque il primo fondamentale atto di concreta
edificazione del futuro ordinamento corporativo, forse il più ambizioso
progetto di riforma del fascismo, che prometteva di innovare ben più che
il complessivo assetto dell’economia nazionale. Attraverso il suo principio
cardine (quello corporativo per l’appunto) esso mirava invece, almeno secondo le interpretazioni della giuspubblicistica più prossima al regime24, a
riscrivere alcuni dei più rilevanti fondamentali del diritto e dell’ordinamento
costituzionale25. Peraltro che la Carta del Lavoro non avesse prodotto nell’immediato alcuna modifica all’impianto statutario è vero sino ad un certo
punto. Come è noto, la sua approvazione da parte del Gran Consiglio del
Fascismo, all’epoca ancora organo apicale del Pnf, fu seguita da una inattesa
quanto sconcertante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Regno che,
Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato è stato per altro oggetto di una rinnovata
attenzione scientifica. Si vedano, ad esempio, due recenti contributi: J.C.S. TORRISI, Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il giudice politico nell’ordinamento dell’Italia fascista, Bononia
University Press, Bologna 2016; m. FRANZINELLI, Il Tribunale del duce. La giustizia fascista e
le sue vittime (1927-1943), mondadori, milano 2017.
24
Su tutti, si veda A. VOLPICELLI, Legislazione e rappresentanza nello Stato corporativo in «Archivio di studi corporativi», 1935, fasc. I., in particolare pp. 12-13.
25
Per una complessiva ricostruzione storico-giuridica del corporativismo fascista si rimanda a I. STOLZI, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione
giuridica dell’Italia fascista, Giuffrè, milano 2007.
23
186
L’IDEA DI COSTITUZIONE
se da un lato garantiva al documento il massimo di visibilità possibile, dall’altro non poteva che essere annoverata come l’ennesimo26 vulnus alla legalità statutaria e, in particolare, alla separazione tra sfera istituzionale e
sfera partitica.
La linea di confine tra queste due dimensioni, progressivamente resa
più friabile, come detto, da un’articolata serie di micro-provvedimenti,
venne peraltro abbattuta completamente di lì a un anno, grazie alla riforma
che possiamo ritenere la chiosa finale del progetto costituzionale fascista.
Ci si riferisce cioè alla costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo avvenuta con la L. n. 2693 del 9 dicembre 1928 (poi successivamente
modificata e integrata dalla L. n. 2099 del 9 dicembre 1929). A seguito del
combinato tra le due leggi, quello che fino al giorno prima era il massimo
organo direttivo del Partito nazionale fascista, divenne un primario organo
dello Stato che, per competenze costituzionali, risultava secondo soltanto
alla Corona. Del resto il Gran Consiglio, ancor prima della sua formale costituzionalizzazione, aveva già svolto rilevanti attività di schietta natura pubblicistica. Su tutte, possiamo ricordare che la riforma della legge elettorale
del 1928, introducendo il plebiscito, aveva affidato proprio al Gran Consiglio il delicato compito di compilare la lista da sottoporre al vaglio dell’elettorato. Le due leggi del dicembre 1928 e 1929 giunsero dunque a
formalizzare una situazione che di fatto esisteva già. ma non si limitarono
a questo. A seguito della riforma, il novello organo costituzionale acquistò
nuove e rilevantissime funzioni, tra le quali spiccava senza dubbio quella
di dover compilare – in caso di successione a mussolini – una lista di papabili candidati al ruolo di Capo del Governo tra i quali il Re avrebbe dovuto scegliere. La natura dell’eventualità era meramente ipotetica e certo
assai improbabile. ma rimaneva sotto gli occhi di tutti la gravissima compressione cui la prerogativa costituzionale regia di incarico nella formazione
del ministero andava incontro.
Ora, senza soffermarsi ulteriormente sui molteplici corollari prodotti
da quest’ultimo provvedimento di riforma (primo tra tutti la sostanziale trasformazione del Pnf in organo dello Stato27), preme piuttosto tirare le fila
Poco meno di un mese prima, l’utilizzo del fascio littorio (già trasformato dal R.D. 2061
del 12 dicembre 1926 in simbolo ufficiale dello Stato italiano) era divenuto obbligatorio
per tutte le amministrazioni statali.
27
Cfr. C. COSTAmAGNA, Il partito fascista organo dello Stato in Studi in onore di Silvio Spaventa,
Tip. de l’Italie, Roma 1935. Sul complessivo dibattito relativo alla natura giuridica del Pnf,
tema pionieristicamente affrontato da Paolo Pombeni in P. POmBENI, Demagogia e tirannide.
Uno studio sulla forma-partito del fascismo, Il mulino, Bologna 1984, sia consentito rimandare
a m. GREGORIO, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politico in Italia tra Otto e Nove26
187
m. GREGORIO
del ragionamento sin qui svolto. E la conclusione, al proposito, non può
che essere una. Ossia che al termine della XXVII legislatura, dello Statuto
albertino si poteva ben dire quanto Carl Schmitt disse della Costituzione di
Weimar nell’incipit di Staat Bewegung Volk: ossia che esso non esisteva più28.
Certo, formalmente non risultava abrogato (del resto, la stessa sorte subì in
Germania la WRV29), ma la sua struttura interna, nel breve volgere di un
quinquennio, era stata del tutto disarticolata e completamente trasformata,
a partire proprio dai gangli fondamentali. Dietro alla facciata, pur rimasta
in piedi, dello Statuto albertino era germogliato dunque un nuovo ordinamento costituzionale. Esso si affermò in maniera disorganica, attraverso
trasformazioni progressive, ma questo non gli impedì certo di mostrare i
suoi caratteri schiettamente fascisti. Del resto, sia mussolini sia i giuspubblicisti a lui più fedeli ritenevano sostanzialmente un dato acquisito e non
problematico l’esistenza di un nuovo ordinamento costituzionale, costruito
a misura del regime. La stessa scelta di costituzionalizzare il Gran consiglio
del fascismo, infatti, se da un lato rappresentava il coronamento di quell’opera di alluvionale trasformazione dell’ordinamento, dall’altro rispondeva
anche alla chiara esigenza di tutelarne l’assetto complessivo. La previsione
contenuta nell’art. 12 della L. 2693 del 1928 che imponeva come obbligatorio il parere del Gran Consiglio «su tutte le questioni aventi carattere costituzionale» (con annesso elenco tassativo di materie ritenute per
definizione costituzionali, tra le quali spiccavano, al primo posto della lista,
«la successione al Trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona») si
spiegava con la necessità di attribuire al nuovo organo la precipua funzione
di garante del nuovo ordine costituzionale fascista. E che l’esistenza di
quest’ultimo fosse pacifica anche da un punto di vista dottrinale è testimoniato dalla proposta di Sergio Panunzio che, nel 1933, suggeriva l’opportunità per il regime di dotarsi di un organo, che a parere dell’autore «non
[poteva] che essere giurisdizionale»30, preposto a dirimere i conflitti di comcento, Giuffrè, milano 2013, in particolare pp. 173 e ss.
28
«Die Weimarer Verfassung gilt nicht mehr». Questo l’incipit del saggio di C. SCHmITT,
Staat Bewegung Volk, Hanseatische Verlaganstalt, Hamburg 1933, p. 5.
29
Come nota Dieter Grimm, Hitler si impegnò a realizzare «pezzo dopo pezzo lo smantellamento della Costituzione di Weimar, senza che questa venisse mai formalmente abrogata». Cfr. D. GRImm, La Costituzione di Weimar vista nella prospettiva del Grundgesetz, in
«Nomos. Le attualità nel diritto», 2/2012.
30
S. PANUNZIO, Rivoluzione e Costituzione, Treves, milano 1933, p. 206. Peraltro anche Costamagna, appena qualche anno prima, aveva evocato la categoria della rigidità della costituzione come conseguenza della costituzionalizzazione del Gran Consiglio. Il necessario
coinvolgimento di quest’ultimo nell’attività legislativa in materia costituzionale rappresen188
L’IDEA DI COSTITUZIONE
petenza tra le diverse fonti giuridiche. In altre parole, dopo le riforme che
avevano riconosciuto potestà legislativa non solo al Parlamento ma anche
all’esecutivo, dopo la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo (che dunque andava annoverato tra gli organi dello Stato atti a produrre
fonti del diritto) e dopo, infine, la riforma del Consiglio Nazionale delle
Corporazioni (con L. n. 206 del 20 marzo 1930) dotato anch’esso di potestà
normativa sulle materie di sua competenza, per Panunzio il rischio che nascessero conflitti tra diverse fonti giuridiche era ormai molto alto. Di qui,
l’opportunità di dotarsi di un organo giurisdizionale delegato a dirimere le
eventuali controversie: funzione che, è pure superfluo notarlo, è tipicamente
svolta nelle democrazie dai supremi tribunali costituzionali.
3. La riflessione dottrinale degli anni Trenta: regime e costituzione
Giunti a questo punto della riflessione, dunque, potrebbe sorgere il
dubbio legittimo che il tema oggetto del presente contributo risulti completamente fuori luogo o, nel migliore dei casi, mal calibrato sotto il profilo
cronologico. Quale dovrebbe essere infatti il senso di una riflessione sull’idea di costituzione negli anni Trenta quando, se è vero quanto in precedenza affermato, questo problema il fascismo lo aveva già risolto prima
che terminasse il decennio precedente? In verità un senso c’è, ma per comprenderlo occorre inforcare un nuovo paio di occhiali. Il quarto decennio
del secolo, infatti, fu un intorno di tempo assai ricco e fecondo per il nostro
tema, ma tanta ricchezza e fecondità non sono da misurarsi sul terreno
delle riforme dell’ordinamento costituzionale31, bensì su quello – diverso e
complementare – della sistemazione teoretica e dottrinale. Anzi, assumendo
questo secondo punto di vista, possiamo con certezza affermare che gli
anni Trenta offrono non solo un patrimonio ricchissimo di spunti utili a
indagare la riflessione giuspubblicistica del ventennio, ma rappresentano
anche un riferimento imprescindibile per comprendere i sentieri che il pensiero costituzionalistico italiano percorse nella transizione dal fascismo all’età repubblicana.
tava infatti un aggravamento procedurale rispetto al procedimento legislativo ordinario
che giustificava il ritenere la legge costituzionale gerarchicamente superiore all’ordinaria.
Cfr. C. COSTAmAGNA, Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, Bemporad, Firenze
1929, p. 176 in particolare.
31
Per quanto riforme non mancarono neppure nel decennio successivo. Una su tutte:
l’abolizione della Camera dei Deputati, sostituita nel 1939 dalla Camera dei Fasci e delle
Corporazioni.
189
m. GREGORIO
Proviamo dunque a cominciare dal fondo. Come è ormai ben noto, sul
finire del decennio una nuova generazione di costituzionalisti mise in opera
quella che altrove si è definita come una vera e propria «cesura dottrinale»32.
Senza indulgere in eccessive spiegazioni di dettaglio, essa può essere definita
come l’apertura di una nuova via dottrinale, altra rispetto alla giuspubblicistica di regime, ma distante anche dalla tradizionale scuola giuridica nazionale. Dalla prima i giuristi più giovani mutuarono l’attenzione per i nuovi
problemi posti dal Novecento giuridico – quali l’indirizzo politico, il partito,
la rappresentanza – ma di essa rifiutavano il dispregio per la dogmatica e il
costante rifugiarsi nella retorica del metagiuridico; dalla seconda recuperarono invece l’attenzione per il rigore dogmatico, pur nella ferma convinzione che il Rechtsstaat come forma politica risultasse storicamente ormai
del tutto superato. Ora se questa cesura dottrinale fu senza dubbio un affresco tratteggiato a più mani (quelle di Crisafulli, di Esposito, di Lavagna,
di Zangara ecc. ecc.), spiccarono certamente tra le altre quelle, assai sapienti,
di Costantino mortati. Il grande giurista calabrese, infatti, mise a frutto quel
denso e fiorente patrimonio collettivo di riflessioni, cimentandosi – con
ottimi frutti, come è noto – nella produzione di una organica e sistematica
ricostruzione di teoria generale del diritto: una vera e propria teoria della
costituzione33, insomma. Ed è dunque per questa ragione che La costituzione
in senso materiale può, a buon diritto, essere considerata un fondamentale
spartiacque nella transizione dalle teorie dello Stato ottocentesche alle dottrine della costituzione del secondo Novecento34.
Ora, muovendo da questo presupposto, e cioè intendendo assumere il
saggio mortatiano del 1940 come momento culminante di un grande processo di transizione, si pone all’interprete un problema che così potrebbe
essere formulato: da dove trasse mortati la sua idea di costituzione? Non
si tratta, ovviamente, di mettere in discussione l’originalità della ricostruzione del giurista calabrese, ma piuttosto di interrogarsi sul terreno sul quale
fiorì la sua intuizione, su chi lo aveva precedentemente dissodato e come.
La questione non sembra peregrina, perché la fortuna che il lemma costituzione aveva avuto nei decenni precedenti, a ben vedere, non lasciava presagire la centralità da esso poi assunta nella sintesi di mortati. Proviamo ad
Cfr. GREGORIO, Parte totale, cit. nt. 27, in particolare pp. 217 e ss.
Il riferimento è ovviamente a C. mORTATI, La costituzione in senso materiale (1940), Giuffrè,
milano 1998.
34
Cfr. m. FIORAVANTI, Dottrina dello Stato-persona e dottrina della costituzione. Costantino Mortati
e la tradizione giuspubblicistica italiana, in ID., La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e
della costituzione tra Otto e Novecento, Giuffrè, milano 2001, t. II, pp. 657 e ss.
32
33
190
L’IDEA DI COSTITUZIONE
argomentare. Se si prende in considerazione la tradizione giuspubblicistica
italiana post-unitaria, la costituzione aveva rappresentato un riferimento
imprescindibile soprattutto per quella parte di dottrina eclettica35 più restia
a farsi permeare delle rivoluzionarie proposte metodologiche di Vittorio
Emanuele Orlando. ma quando questi autori parlavano di costituzione, si
riferivano essenzialmente alla costituzione storica britannica36, esempio di
virtù e di moderazione costituzionale e, pertanto, modello indiscusso cui
ogni forma politica avrebbe dovuto ispirarsi37. Gli esponenti della scuola
giuridica nazionale invece, più attenti all’influenza della dottrina germanica
e orientati alla costruzione di una teoria dello Stato di diritto, non avevano
riconosciuto al concetto di costituzione altrettanta centralità. Tanto che per
tutta la Rechtsstaatslehre europea possiamo assumere come valida la definizione di Staatsverfassung che Georg Jellinek fornì nella sua Allgemeine Staatslehre: «La costituzione dello Stato comprende i principi giuridici che
designano gli organi supremi dello Stato e stabiliscono il modo della loro
creazione, i loro reciproci rapporti, la loro sfera di azione, e inoltre la posizione fondamentale dell’individuo di fronte al potere statale»38. Dunque
la costituzione, in questa seconda accezione era schiettamente loi politique,
ossia legge dello Stato che si diversificava dalle altre essenzialmente per la
delicata materia che disciplinava: l’organizzazione dei massimi organi costituzionali dello Stato in primis e, in secondo luogo, la complessiva relazione tra questo e i propri sudditi. Come pare ovvio, nessuna di queste
proposte teoriche può essere considerata un precedente utile ad innervare
la riflessione mortatiana. Le suggestioni di cui quest’ultima si nutrì arrivarono dunque da altri lidi.
Il primo di questi, e senza dubbio il più noto, è rappresentato dalla riSia consentito rimandare a m. GREGORIO, Apologia breve dei non-orlandiani, in Iuris quidditas.
Liber amicorum per Bernardo Santalucia, Editoriale Scientifica, Napoli 2010, pp. 105 e ss.
36
Per una definizione del concetto di costituzione storica si rimanda alla brillantissima
descrizione che ne fece Emilio Broglio: «[…] la costituzione si potrebbe paragonare a
quegli alberi secolari e sempreverdi, come i cedri del Libano, i quali, perché mutano continuamente, una a una, le loro foglie, pare che non le mutino mai, e sieno sempre li stessi».
Cfr. E. BROGLIO, Delle forme parlamentari, Brescia, Tip. La sentinella bresciana, 1865, pp.
370-371. Il merito di aver scovato la citazione va ascritto a L. BORSI, Storia Nazione Costituzione. Palma e i ‘preorlandiani’, Giuffrè, milano 2007.
37
Va tuttavia precisato che l’influenza del costituzionalismo inglese non risultava affatto
estranea neppure al pensiero di V.E. Orlando. Solo che il marcato storicismo che sempre
animò la riflessione del grande maestro palermitano si era formato non solo alla scuola
britannica, ma anche a quella tedesca di Savigny.
38
G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, Julius Springer, Berlin 1920, p. 505. La traduzione è
di chi scrive.
35
191
m. GREGORIO
flessione svolta dalla dottrina di lingua tedesca a lui coeva39. Di costituzione
e democrazia aveva cominciato a scrivere già a partire dal secondo decennio
del secolo Hans Kelsen40. ma furono soprattutto i feroci critici del formalismo kelseniano che formavano il plurale e composito mosaico della dottrina weimariana (Smend, Triepel, Heller, Koellreutter, Leibholz, Radbruch)
ad influenzare l’interpretazione di mortati e, tra questi, il più significativo
di tutti fu senza dubbio Carl Schmitt, con la sua Verfassungslehre del 192841.
Il legame tra il pensiero schmittiano e quello di mortati rappresenta del
resto un acclarato topos letterario, giustificato dalle molteplici assonanze
(pur senza trascurare le significative differenze)42; ma più che il peculiare
dialogo intellettuale tra i due autorevoli interpreti, pare importante sottolineare la complessiva attenzione che, oltre allo stesso mortati43, la generalità
della nuova generazione di giovani giuspubblicisti italiani rivolse alla dottrina germanica novecentesca44.
ma se è vero che la riflessione costituzionalistica europea del primo
Novecento venne tenuta a battesimo tra Weimar e Vienna, in quello spazio
concettuale che andava definendosi tra forma e sostanza, tra una via contenutistica e una via procedurale alla costituzione democratica, è non meno
Con l’espressione si intende alludere alla dottrina di lingua tedesca e quindi non solo a
quella proveniente dalla Germania, ma anche dall’Austria e dalla Svizzera. Sul punto conviene comunque rimandare a D. SCHEFOLD, Mortati e la ‘dottrina tedesca’, in Costantino Mortati
costituzionalista calabrese, a cura di F. Lanchester, ESI, Napoli 1989, pp. 111 e ss.
40
Il riferimento è alla prima fondamentale opera di Kelsen, gli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze del 1911 (cfr. H. KELSEN, Problemi fondamentali
della dottrina di diritto pubblico esposti a partire dalla teoria della preposizione giuridica, a cura di A.
Carrino, ESI, Napoli 1997). Interamente dedicata al concetto di democrazia è poi la celeberrima opera del 1920: H. KELSEN, Von Wesen und Wert der Demokratie, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», Bd. 47, Heft 1 (1920), pp. 50 e ss.
41
C. SCHmITT, La dottrina della costituzione (1928), Giuffrè, milano 1984.
42
Un ottimo riferimento per cogliere, assieme alle assonanze, anche le prese di distanza e
dunque la complessiva originale rielaborazione che mortati fece del pensiero schmittiano
è il suo saggio del 1973: C. mORTATI, Brevi note sul rapporto tra costituzione e politica nel pensiero
di Carl Schmitt, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», II
(1973), pp. 511 e ss.
43
Se il conteggio fatto da Dian Schefold non è errato, ne La costituzione in senso materiale,
l’autore di lingua tedesca più citato da mortati non è Carl Schmitt, ma curiosamente Hans
Kelsen. Cfr. SCHEFOLD, Mortati e la ‘dottrina tedesca’, cit. nt. 39, p. 117, nota 35.
44
Per molti giovani studiosi italiani che negli anni Trenta andavano completando il proprio
percorso formativo negli studi di diritto costituzionale, era infatti prassi consolidata quella
di passare un periodo di perfezionamento in Germania. Così fecero, ad esempio, subito
dopo il conseguimento della laurea, tra il 1936 e il 1937, sia Carlo Lavagna sia Franco Pierandrei.
39
192
L’IDEA DI COSTITUZIONE
vero che la giuspubblicistica nostrana non restò inerte; né si limitò a recepire acriticamente le suggestioni tedesche. Tutto ciò avvenne, è bene ricordarlo, in un contesto non semplice. Da un lato la disorganica costruzione
del progetto costituzionale fascista non incoraggiava affreschi sistematici
di ampio respiro, abbisognando piuttosto di legittimazioni postume dell’operato del Capo del Governo. Dall’altro, era la stessa dottrina ad apparire
divisa al proprio interno, lacerata dal Metodhenstreit cui si è accennato nelle
pagine precedenti. Con la conseguenza che i giuristi che si riconoscevano
nella scuola giuridica nazionale, avendo come unica preoccupazione quella
di ribadire l’eterna validità delle categorie dogmatiche tradizionali, erano
portati a guardare con sospetto al concetto di costituzione che andava configurandosi nella riflessione novecentesca, perché potenzialmente eversivo
dell’ordine giuridico e politico cristallizzato nel secolo precedente dalla Rechtsstaatslehre europea. Nonostante tutto ciò, negli anni Trenta qualche riflessione era stata avviata. Tirarne le fila non è semplice, soprattutto per il
fatto che queste non si concentrarono esattamente sulla nozione di costituzione, ma si appuntarono invece, in ordine sparso, su tutta una serie di
concetti che ad essa erano accostabili e, in parte, sovrapponibili. È lo stesso
mortati a riconoscerlo ne La costituzione in senso materiale quando nota che
«Forma di Stato, regime, sistema possono ritenersi espressioni equivalenti,
valide a designare il contenuto della costituzione nel senso qui assunto,
comprendente l’insieme delle forze politiche e dei fini, di cui esse sono portatrici, e che ispirano il complesso normativo»45.
Dunque, per stessa ammissione del giurista calabrese, la sua sistematizzazione del 1940 aveva messo a frutto una pluralità di riflessioni sparse
ad essa precedenti. La più significativa delle quali, per ricchezza di voci che
la alimentarono e per fecondità di prospettive, è quella legata al concetto
di regime46. Occorre dire subito che non è agevole orientarsi all’interno di
quest’ultima, anzitutto per l’uso assai spesso disinvolto che nella letteratura
degli anni Trenta si faceva dell’espressione. Lo segnalò anche maraviglia,
in un suo saggio destinato ad enucleare gli elementi caratterizzanti il regime
fascista: «noi usiamo promiscuamente le parole: regime, ordinamento, costituzione, sistema […] come se indicassero il medesimo fatto e il medemORTATI, La costituzione in senso materiale, cit. nt. 33, p. 196.
Già nel 1989 Salvatore Bonfiglio aveva brillantemente intuito l’esistenza di un nesso significativo tra l’elaborazione dottrinale sul concetto di regime prodotta negli anni Trenta
e la teorica mortatiana della costituzione in senso materiale. Si veda, al proposito S. BONFIGLIO, Mortati e il dibattito sul concetto di regime durante il ventennio fascista, in Costantino Mortati
costituzionalista calabrese, cit. nt. 39, pp. 394 e ss.
45
46
193
m. GREGORIO
simo concetto»47. ma cos’era allora il regime? Era anzitutto un concetto
squisitamente politico o, per usare le parole del medesimo autore, era «lo
spirito politico che lo Stato conserva sin dalla sua instaurazione di fatto»48.
Né troppo diversa risulta la definizione fornita da Carlo Costamagna per il
quale il regime era quell’elemento che caratterizzava lo Stato da un punto
di vista «filosofico e politico»49, o addirittura, come ebbe a scrivere anni
dopo, schiettamente «spirituale»50. Ad un primo sommario sguardo, dunque, la riflessione sul concetto di regime degli anni Trenta sembra dipanarsi
per intero sui sentieri del metagiuridico e pertanto pare ancora molto lontana dagli approdi mortatiani del 1940. Peraltro l’impressione non muta
sostanzialmente ampliando il novero delle voci. Per Giacomo Perticone il
regime è «programma di vita, inteso concretamente, cioè come volontà definita e non come massimario arido e astratto»51, è «sistema dei rapporti di
potenza»52. E, più prosaicamente, nella pagina successiva, lamentando di
dover usare il termine con un significato diverso da quello adoperato nelle
«formole latine» ammette in nota: «Resta perfettamente inteso che per noi
la parola italiana regime vuol dire sistema politico53».
Ora, da queste voci si possono già trarre alcune interessanti considerazioni. La prima e più evidente è che l’esistenza di un fine politico dello
Stato pare ormai un dato acquisito. Non è un aspetto banale. Significa che
la critica al secolo XIX, considerato come «L’epoca delle neutralizzazioni
e spoliticizzazioni», per parafrasare il titolo di una celebre conferenza di
Carl Schmitt54, aveva fatto breccia segnando la fine della pretesa neutralità
dello Stato, cardine concettuale della Rechtsstaatslehre ottocentesca. Se ciò è
vero, tuttavia, pareva rimanere ancora problematica la sistemazione dottrinale di questa acquisita politicità. Lo testimonia, ad esempio, la fioritura,
proprio nel decennio che stiamo prendendo in esame, di un intero filone
m. mARAVIGLIA, Caratteri del regime fascista, in Il Partito fascista nella dottrina e nella realtà politica, a cura di O. Fantini, EIA, Roma 1931, p.125.
48
Ibid., p. 126.
49
COSTAmAGNA, Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, cit. nt. 30, p. 26.
50
C. COSTAmAGNA, Elementi di diritto pubblico fascista, UTET, Torino 1934, p. 91.
51
G. PERTICONE, La libertà e la legge. Regime politico e ordine giuridico, Roma, ARE, 1936, p.
128.
52
Ibid., p. 130.
53
Ibid., p.131, nota 1. I corsivi sono nel testo.
54
C. SCHmITT, L’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni (1929), ora in ID., Le categorie del
politico, Il mulino, Bologna 2013.
47
194
L’IDEA DI COSTITUZIONE
di riflessioni, quello sul concetto di indirizzo politico, che si sviluppò soprattutto grazie ai contributi di Panunzio55, mortati56, Crisafulli57 e Lavagna58. Quanto in questa sede preme però sottolineare è soprattutto un altro
aspetto e cioè la complessiva difficoltà di coniugare l’ormai imprescindibile
politicità dello Stato con la natura schiettamente giuridica del suo ordinamento costituzionale. La dicotomia tra ordine politico e ordine giuridico
insomma, cardine fondamentale – vale la pena ricordarlo – della rivoluzionaria proposta metodologica orlandiana59, negli anni Trenta pare ancora,
pur per ragioni molto differenti, rimanere in piedi. Non solo essa continuava a campeggiare infatti iconicamente nel sottotitolo dell’opera di Perticone sopra ricordata, ma veniva ulteriormente ribadita in quegli stessi anni
da autori quali Emilio Crosa. Questi non esitava ad ammettere l’esistenza
di un fattore politico nelle costituzioni60, ma per distinguerlo accuratamente
sia dal sistema giuridico, sia dal complesso dogmatico. Ed è proprio la separazione tra quest’ultimo e il fine politico a rivelare l’obiettivo polemico
di Crosa. Perché mentre il complesso dogmatico (al quale l’autore ascrive
principi fondamentali quali la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri)
rappresenterebbe una componente universale e necessaria di ogni costituzione che voglia dirsi moderna, il fine politico ne incarnerebbe invece la
componente variabile e mutevole. Se insomma, per dirla con le parole dell’autore, il fattore politico si contraddistingue per il «carattere particolaristico», a fronte del «carattere universalistico del complesso dogmatico»61,
da ciò occorreva necessariamente dedurre l’impossibilità per il primo di
derogare al secondo. Con conseguenze evidenti sullo stesso statuto epistemologico della scienza del diritto costituzionale. Perché è vero, afferma ancora Crosa, che il giurista non può ignorare i fini politici dello Stato, ma è
55
S. PANUNZIO, Il sentimento dello Stato, Libreria del Littorio, Roma 1929, ma anche ID.,
Teoria generale dello Stato fascista, Cedam, Padova 1936.
56
C. mORTATI, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano (1931), Giuffrè, milano
2000.
57
V. CRISAFULLI, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, in «Studi Urbinati», 1939.
58
C. LAVAGNA, Contributo alla determinazione dei rapporti giuridici fra Capo del Governo e Ministri,
Edizioni Universitarie, Roma 1942.
59
Cfr. V.E. ORLANDO, Programma, in «Archivio di diritto pubblico», I (1891), pp. 1 e ss. Su
questo precipuo aspetto si rimanda a D. QUAGLIONI, Ordine giuridico e ordine politico in V.E.
Orlando, in «Le carte e la storia», 1/2007, pp.17 e ss.
60
E. CROSA, Il fattore politico e le Costituzioni, in Studi di diritto pubblico in onore di Oreste Ranelletti
nel XXXV anno d’insegnamento, Cedam, Padova 1931, I.
61
Ibid., p. 161.
195
m. GREGORIO
non meno vero che non può neppure farsi dominare da essi. E dunque,
poiché «nessuna confusione deve farsi fra quanto costituisce un presupposto necessario e metagiuridico e il diritto», «l’isolamento del fattore politico
[…] assolve, se non andiamo errati, a questo compito»62. La posizione di
Crosa è evidentemente quella di chi cerca di piegare la propria turbolenta
contemporaneità alla rassicurante e permanente validità delle categorie dogmatiche della tradizione. ma per una curiosa eterogenesi dei fini, accadde
sovente che neppure i più accaniti giuristi di regime riuscissero a rompere
questo schema concettuale. L’esempio più lampante è offerto da Carlo Costamagna. Il giurista ligure fu, nel novero degli intellettuali engagé, probabilmente quello maggiormente allineato non solo e non tanto all’ideale
politico fascista, quanto piuttosto al concreto progetto mussoliniano di rinnovamento dell’assetto costituzionale. Di conseguenza egli risultò il più
coerente teorico dello statualismo fascista. ma prendendo troppo sul serio
il celebre motto del duce «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato,
nulla contro lo Stato»63, ci si infilava in un teoretico vicolo cieco, destinato
paradossalmente a ribadire (forse anche a rafforzare) e non certo a superare
la dicotomia tra ordine giuridico e ordine politico. Solo che i rapporti di
forza tra i due termini risultavano ribaltati. I giuristi di regime rivendicavano
infatti con orgoglio la centralissima valenza politica dello Stato fascista e
vivevano nel terrore di vederla imbrigliata dalle infide interpretazioni della
giuspubblicistica tradizionale. Si spiega così il disprezzo mostrato da Costamagna verso «la pretesa “giuridicista” di considerare il regime come una
pura forma»64. Col risultato che la sua ricostruzione del concetto non poteva che attestarsi interamente nella dimensione metagiuridica: «nel regime
la nostra dottrina vede la manifestazione di quella “forza politica” che
muove dall’istinto elementare del crescere e attraverso la complessa polemica della lotta, all’interno e all’esterno del gruppo, crea l’unità spirituale
dello stato, la quale esprime la più alta personalità della vita morale»65.
Stando così le cose, non è davvero semplice spiegare che tipo di ispirazione possa aver fornito all’elaborazione mortatiana del 1940 la riflessione
pregressa sul concetto di regime. Tuttavia, in quel complesso di prese di
posizione che, per larga parte, non sembravano minimamente scalfire la
Ibid., p.180.
L’espressione venne usata dal duce in un celebre discorso tenuto il 28 ottobre 1925 a
milano, in occasione del terzo anniversario della marcia su Roma.
64
C. COSTAmAGNA, voce Regime, in Dizionario di politica a cura del PNF, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1940, IV, p. 31.
65
Ibid., p. 32.
62
63
196
L’IDEA DI COSTITUZIONE
tradizionale separazione orlandiana tra ordine politico e ordine giuridico,
si aprirono almeno un paio di brecce.
La prima è frutto delle indagini svolte da un paio di giuristi della più
giovane generazione: Giuseppe Chiarelli e Vincenzo Zangara. Il primo dedicò nel 1932 al concetto di regime un saggio specifico, il cui stesso incipit
vale a chiarirne la rilevanza ai fini del presente ragionamento. Premesso
«che può dirsi opinione dominante che il termine Regime corrisponda ad
un concetto esclusivamente politico», sottolineava il giurista pugliese, proprio per questa ragione appare ancora più urgente un’analisi che lo esamini
«sub specie iuris», allo scopo di «farne eventualmente un utile strumento di
tecnica giuridica»66.
Chiarelli muoveva infatti dalla convinzione che il concetto di regime
avesse «un intrinseco contenuto giuridico, in quanto sono le istituzioni giuridiche che caratterizzano un regime, traducendo in atto delle aspirazioni
o degli ideali che trovano, attraverso il diritto, la loro realizzazione storica»67.
Si tratta di parole che contengono in nuce la definizione di regime assunta
da Chiarelli. Egli riconosce infatti che è alle istituzioni giuridiche che pertiene il compito di portare a realizzazione concreta gli scopi politici dello
Stato ed è dunque in queste ultime, nel loro complessivo atteggiarsi e nelle
relazioni che esse costruivano tra loro, che andava rinvenuta una corretta
interpretazione del concetto di regime in senso giuridico. Quest’ultimo
quindi andava inteso come «l’insieme degli istituti giuridici coordinati allo scopo
dell’attuazione di una determinata concezione politica dello Stato e della società»68.
Su posizioni non dissimili, si attestò pochi anni dopo anche Vincenzo
Zangara che, nel suo volume dedicato a Il Partito e lo Stato, fornì la seguente
definizione di regime: esso era «il sistema giuridico che considera la struttura e l’attività funzionale di un ordinamento giuridico statale»69. Per il giurista siciliano dunque due erano gli elementi che caratterizzavano il regime:
a) «la struttura dell’ordinamento giuridico statuale»; b) «il modo di essere
e di funzionare degli organi e delle istituzioni dell’ordinamento giuridico
medesimo». Anche se, a voler essere pignoli, forse gli elementi portanti
diventavano addirittura tre perché sia la struttura ordinamentale sia il
modo di essere e funzionare delle sue istituzioni si attuavano – a parere
dell’autore – «secondo una regola, una legge […] che sono i principi giuG. CHIARELLI, Il concetto di “Regime” nel diritto pubblico, in «Archivio giuridico Filippo Serafini», CVII, fasc. 2 (1932), p. 203. In corsivo nel testo.
67
Ibid., p. 212.
68
Ivi. In corsivo nel testo.
69
V. ZANGARA, Il Partito e lo Stato, SEm, Catania 1935, p. 33.
66
197
m. GREGORIO
ridici del sistema stesso»70.
Che cosa hanno in comune queste due prese di posizione? moltissime
cose, a ben vedere. Innanzi tutto sia Chiarelli sia Zangara optano, rispetto
alle riflessioni coeve, per una scelta di campo molto chiara: quella cioè di
dare del concetto di regime un’interpretazione dogmatica, di attrarlo cioè
all’interno delle mura della riflessione giuspubblicistica. La questione non
è evidentemente di scarsa rilevanza. Se l’obiettivo di entrambi può essere
considerato quello, per usare ancora le parole di Zangara, della «trasformazione di elementi estragiuridici in elementi giuridici», ci troviamo evidentemente di fronte ad un primo tentativo di abbattere il dogma totemico
della separazione orlandiana tra ordine politico e ordine giuridico. Il tentativo era probabilmente solo abbozzato e certamente perfettibile, ma la
strada imboccata era sufficientemente chiara. Non si trattava più di preservare l’ordine giuridico dai perniciosi influssi del dis-ordine politico; ma neppure si trattava più di ribaltare le priorità, rivalutando la dimensione
metagiuridica a scapito di una dimensione tecnico-giuridica considerata servente. La sfida lanciata da Chiarelli e Zangara sembrava piuttosto un’altra,
nuova e decisamente promettente: quella cioè di giuridificare il politico,
ossia lanciare un ponte tra le due dimensioni che consentisse loro di dialogare e di assicurare quindi una continuità logica tra le premesse politiche e
l’edificazione giuspubblicistica. ma come riuscirci? Anche le strategie messe
in campo dai due autori paiono sostanzialmente coincidenti. Chiarelli punta
infatti sull’elemento del coordinamento degli istituti giuridici allo scopo di
perseguire un determinato fine politico; Zangara pare esplicitare questo
passaggio ancora più nel dettaglio, individuando due differenti modi di essere di quell’elemento coordinante: un fattore strutturale (il modo col quale
vengono costruite le relazioni tra gli istituti giuridici) e un fattore funzionale
(il concreto funzionamento, le fattive interazioni tra questi). C’è dunque un
chiaro passo in avanti rispetto alla dicotomia orlandiana. Ordine politico e
ordine giuridico non appaiono più come entità distinte, cristallizzate nelle
rispettive specificità. E ad essere sinceri, ciò pare soprattutto dovuto ad un
diverso modo di pensare l’ordinamento giuridico: non più astratta e teorica
costruzione sistematica conchiusa in sé, ma concreta articolazione di
norme, principi e, soprattutto, modalità organizzative. È difficile non rinvenire in queste intuizioni il fertile lascito della visione ordinamentale del
diritto teorizzata da Santi Romano che, tuttavia, alla dicotomia tra ordine
politico e ordine giuridico si attenne sempre rigorosamente, rivelandosi,
sotto questo profilo, persino più orlandiano di Orlando.
70
Ivi.
198
L’IDEA DI COSTITUZIONE
ma quello introdotto da Chiarelli e Zangara non fu l’unico strappo teoretico nella ricostruzione del concetto di regime. Ve ne fu infatti almeno
un secondo, che finì per aprire una frattura proprio all’interno delle riflessioni dei giuristi engagé. Ci si riferisce alla polemica sul tema che vide contrapposti Panunzio e Costamagna. Per quest’ultimo il regime «nella dottrina
fascista» non poteva essere concepito «come qualche cosa di esterno allo
stato» ma rappresentava invece «un elemento costitutivo dello stato stesso»
e, più precisamente, quell’elemento destinato a orientarne politicamente e
spiritualmente l’azione. Il bersaglio polemico del giurista ligure, peraltro dichiarato, erano le tesi del collega Panunzio, reo per l’appunto di voler collocare il concetto di regime fuori dalla cintatissima cittadella statuale. ma
cosa sosteneva Panunzio? Conviene rifarsi alla sua opera più matura, la Teoria generale dello Stato fascista del 1937. Qui, con un esercizio di arte retorica
tanto efficace sul piano comunicativo quanto vago su quello tecnico-giuridico, egli affermava: «l’idea si fa partito; il partito si fa regime; il regime si
fa Stato»71. Siamo di fronte al classico approccio panunziano al diritto costituzionale, che mirava a tenere assieme dimensione statica e dimensione
dinamica della scienza. Lo si comprende bene analizzando la sua ricostruzione del rapporto fra Stato e Partito o, sarebbe meglio dire, della transizione dal Partito-Stato allo Stato-Partito. Sotto un profilo dinamico,
affermava il giurista pugliese, il Partito «è prima, è più dello Stato», è «lo
Stato in marcia, lo Stato condendus»; viceversa, «da un punto di vista statico,
logico-giuridico, formale, dommatico lo Stato è tutto, ed il Partito vien dopo,
è una parte, è un organo dello Stato»72. Per Panunzio dunque, ricostruzioni
teoriche quali quelle del collega Costamagna coglievano solo una parte della
realtà del diritto costituzionale, quella statica, dello jus conditum. ma ne esisteva evidentemente anche un’altra, che apparteneva alla sfera dello jus condendum e che interrogava i giuristi sull’origine, necessariamente sociale,
dell’istituzione statuale. Era in questa seconda dimensione che egli collocava
teoricamente il concetto di regime, elemento di passaggio tra Partito e Stato
e dunque, tra società e istituzioni.
È evidente l’insufficienza teorica della sistemazione di Panunzio che,
al pari di molti giuristi fedeli a mussolini, finiva spesso per privilegiare l’artificio retorico a scapito del rigore dogmatico. Non è un caso, infatti, che
gli attributi della dogmaticità e del rigore giuridico egli, nella sua ricostruzione, li riservasse unicamente alla dimensione statica del diritto costituPANUNZIO, Teoria generale dello Stato fascista, cit. nt. 55, p. 547.
S. PANUNZIO, Lo Stato-Partito, conferenza tenuta il 1 maggio 1933, ora in ID., Il fondamento
giuridico del fascismo, Bonacci, Roma 1987, p. 268. I corsivi sono nel testo.
71
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m. GREGORIO
zionale. ma non è meno evidente la straordinaria novità che Panunzio introdusse nel dibattito, mettendo chiaramente a fuoco la necessità per il costituzionalista di indagare anche il momento genetico dell’istituzione
statuale. E se a questa eredità, si somma anche l’altra (la cui paternità si è
qui ascritta a ricostruzioni quali quelle di Chiarelli e Zangara), che pose con
non minor forza il tema della giuridicizzazione del politico, sembra possibile
adesso farsi un’idea un po’ più chiara della rilevanza che la riflessione svolta
attorno al concetto di regime ebbe per la teorizzazione mortatiana e per
l’idea di costituzione in senso materiale. In fin dei conti, lo spazio che si
colloca tra l’elaborazione politica prodotta dalla società e la sua cristallizzazione in istituzioni giuridiche è esattamente lo spazio della costituzione,
di quella costituzione chiamata a generare uno «Stato di tipo nuovo»73 che
– dal secondo dopoguerra – noi abbiamo preso a chiamare Stato costituzionale74. ma se vogliamo rinvenire le radici profonde di questa elaborazione è negli anni Trenta che dobbiamo cercare, per poi tornare ad
apprezzare ancora di più la formidabile intuizione di mortati che, prima e
più di ogni altro, seppe correttamente riconoscere quello spazio come eminentemente giuridico.
73
74
m. FIORAVANTI, Costantino Mortati: uno Stato «di tipo nuovo», in «Nomos», 3/2013.
E. CHELI, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli 2006.
200
Giovanni Chiodi
Costruire una nuova legalità:
il diritto delle obbligazioni nel dibattito degli anni Trenta
S OmmARIO : 1. Il progetto italo-francese: un’idea superata di codice? –
2. La difesa della linea italo-francese – 3. Il sipario strappato: Filippo
Vassalli in cattedra a Roma – 4. La solidarietà senza democrazia: Emilio
Betti verso la costruzione di una nuova legalità – 5 . Il diritto delle obbligazioni nell’orbita del corporativismo: Parigi, luglio 1937 – 6. Il «pendolo della storia». Dal codice unico italo-francese all’unificazione
italo-germanica del diritto delle obbligazioni: le larghe intese di Roma
(1938) e Vienna (1939)
1. Il progetto italo-francese: un’idea superata di codice?
Nel 1927 Emilio Betti, apostrofando con toni veementi il progetto di
codice di procedura civile varato dalla Sottocommissione, riluttante a rendere obbligatorio il principio di oralità per i motivi già addotti da Francesco
Carnelutti nel suo avanprogetto del 1926 (l’impermeabilità degli avvocati e
dei giudici chiamati ad applicarlo, educati a tutt’altri valori), così manifestava
il suo dissenso rispetto alla (secondo lui eccessiva) prudenza del legislatore:
Una legge vale non solo per quello che dispone, ma anche per le esigenze
d’ordine intellettuale e morale che pone allo spirito di coloro cui si rivolge. È vero che, di per sé, una legge non vale a riformare di punto in
bianco un costume corrotto e ad instaurare ex abrupto una educazione
che manca. Non si potrà negare, però, che essa valga, per lo meno, a
spiegare una certa influenza educativa sul costume, come la spiega ogni atto
di sana violenza messa al servizio di una buona causa. Essa vale a scuotere il torpore delle volontà adagiatesi per amor di quieto vivere in una
linea di condotta malsana; vale a sovvertire abitudini che non avevano,
in fondo, altra giustificazione che una tradizione supinamente seguita;
eccita a proporsi questioni per rendersi conto della rispondenza dei mezzi
disposti dalla legge a certi scopi; incita a volere per adeguarsi alle sue esi-
201
G. CHIODI
genze. Ha, insomma, un valore pedagogico1.
Il richiamo all’energica e incandescente reprimenda di Betti, che contempla anche un inquietante inciso2, torna utile in questa sede, perché è lo
specchio di una concezione della legalità che di lì a poco lo stesso autore,
con piglio da militante, avrebbe fatto valere anche nei confronti del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti. Alla legalità Betti assegna un valore propulsivo, educativo, pedagogico, formativo: un progetto
di riforma, per essere veramente tale, non deve arrestarsi davanti a costumi
opposti, ma deve imporre una svolta e rispecchiare le nuove aspirazioni
della coscienza sociale e dell’ordine politico del Paese cui s’indirizza. L’accenno all’educazione è significativo del ruolo che Betti assegna ad un codice
e preannuncia l’assoluto distacco dall’idea che muoveva invece il codice
unico delle obbligazioni italo-francese. Il brano prelude bene al percorso
che si intende proporre in queste pagine intorno ad alcune tappe della costruzione di una nuova legalità fascista nel campo del diritto delle obbligazioni. Tutt’altro che assenti in questa vicenda, i giuristi furono costruttori
1
E. BETTI, Osservazioni sul Progetto di Codice di Procedura Civile presentato dalla sottocommissione
per la riforma del Codice, in «Annuario di diritto comparato e di studi legislativi», II-III (1929),
pp. 121-171 (p. 124). Questo convincimento è accennato ma non sviluppato in ID., Metodica
e didattica del diritto secondo Ernst Zitelmann, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto»,
V (1925), pp. 1-39 (dell’estr.), p. 23, dove parla dell’«effetto educativo» che ogni norma
giuridica esercita nei riguardi di tutti i consociati col porre motivi tendenti a impedire o a
promuovere un determinato comportamento». Cfr. ancora ID., Sui principi generali del nuovo
ordine giuridico, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni»,
XXXVIII (1940), I, pp. 217-223, p. 220. Quanto a Carnelutti, egli non mutò parere neanche davanti al codice del 1940, al quale collaborò, e continuò a ribadire la sua opinione.
Cfr. ad esempio la versione italiana dell’articolo con cui presentò il codice ai giuristi tedeschi nella Zeitschrift der Akademie des deutschen Rechts: «Il vero è che il problema del processo,
così civile come penale, non si risolve soltanto con le leggi; la prima, anzi, delle condizioni
per una buona amministrazione della giustizia è che vi siano adibiti uomini in numero sufficiente e con sufficiente idoneità e preparazione; noi sappiamo dunque che non si può
chiedere tutto alla legge né abbiamo l’ingenuità di aspettarci dei miracoli dalla riforma di
questa» (Nuovo processo civile italiano, in «Il foro italiano», LXVI (1941), cc. 25-30, c. 25). Sul
problema, da ultimo, sia consentito il rinvìo a G. CHIODI, Francesco Carnelutti (1879-1965),
in Law and the Christian Tradition in Italy: The Legacy of the Great Jurists, ed. by O. Condorelli
and R. Domingo, Routledge, London-New York 2020, pp. 391-406 (e qui ulteriore bibliografia sul tema dell’oralità nelle riforme del processo civile).
2
Sul rapporto tra forza e diritto in Betti ha scritto pagine convincenti m. BRUTTI, Emilio
Betti e l’incontro con il fascismo, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi
e L. Loschiavo, RomaTrE-Press, Roma 2015, pp. 63-102 (pp. 75-80, 88-92). Il contesto è
accuratamente ricostruito da E. GENTILE, Violenza e milizia nel fascismo alle origini del totalitarismo in Italia, in Alfredo Rocco: dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo,
a cura di E. Gentile, F. Lanchester, A. Tarquini, Carocci editore, Roma 2010, pp. 39-66.
202
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
del diritto del regime, più che spettatori ignari o attori inconsapevoli, come
si cercherà di avvalorare anche nel presente contributo, dedicato ad esplorare alcuni episodi salienti di rilettura e riorientamento della parte generale
delle obbligazioni e dei contratti negli anni Trenta. mi concentrerò sull’idea
di legalità riflessa nelle varie proposte e sul cammino di elaborazione di alcuni princìpi.
Centrale nel consolidamento e nell’edificazione del regime, la politica
economica era già stata rivoluzionata con la legge sul lavoro del «cancelliere»3 Alfredo Rocco, che istituiva il «sindacalismo senza lotta», oggetto di
contrastanti interpretazioni4. Gli anni Trenta, per il diritto delle obbligazioni, sono ancor più decisivi, dominati come sono anche in Italia dal dibattito sull’inarrestabile processo di «pubblicizzazione» del diritto privato,
sulla crisi del modello liberale di mercato, sulle diverse forme di intervento
pubblico nell’economia e sulle eterogenee declinazioni del corporativismo,
attraverso cui il regime si proponeva di assorbire la conflittualità tra classi
imprenditoriali e lavoratrici, incanalandola e controllandola nelle corporazioni5. In Italia la discussione, lungi dal giungere ad un punto fermo e univoco, si intensifica una volta licenziato il progetto italo-francese, che fa da
catalizzatore del dibattito e costituisce una sorta di sfida tra conservatori e
riformisti.
Il codice unico si può considerare come l’esito più cospicuo, in campo
privatistico, del solidarismo francese e italiano, espressione di una «terza
via» tra liberalismo e comunismo, con cui la civilistica si distaccò dai postulati puri dell’individualismo, per avviarsi verso la strada di un diritto privato sociale6. Frutto di una cultura non solo romanistica (prevalente nella
T. ASCARELLI, La dottrina commercialistica italiana e Francesco Carnelutti, in ID., Problemi giuridici,
II, Giuffrè, milano 1959, pp. 983-999 (p. 991).
4
Cfr. per tutti I. STOLZI, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella
riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffrè Editore, milano 2007.
5
Sull’impatto concreto del corporativismo, con una revisione della tesi tradizionale della
sua scarsa incidenza pratica, v. ora gli studi di riferimento di A. GAGLIARDI, Il corporativismo
fascista, Laterza, Roma-Bari 2010, e S. CASSESE, Lo Stato fascista, Il mulino, Bologna 2010.
Fasi e strutture dello Stato corporativo sono ora riconsiderati da G. mELIS, La macchina
imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il mulino, Bologna 2018, pp. 412-448. Sulla
centralità della politica economica nel pensiero di Alfredo Rocco, oltre agli studi appena
citati, esiste un’abbondante letteratura, che cito, con alcune riflessioni, in G. CHIODI, Alfredo
Rocco e il fascino dello Stato totale (1918-1925), in I giuristi e il fascino del regime, cit. nt. 2, pp.
103-127.
6
Per questa interpretazione mi permetto di rinviare a G. CHIODI, Un esperimento di diritto
privato sociale. Il progetto italo-francese e la sua parabola dall’età liberale al fascismo, in D. Deroussin,
m. Löhnig, F. mazzarella, S. Wagner (Hg.), Bürgerliches Recht im nachbürgerlichen Zeitalter - 100
3
203
G. CHIODI
commissione italiana, tutta sotto l’egemonia di Scialoja), ma anche storicista
(che predilige gli adattamenti per piccoli e lenti passi graduali) e di una robusta visione comparatistica, punta di diamante dello slancio europeista
del primo dopoguerra (nasce per iniziativa esclusivamente scientifica sotto
l’egida della Società delle Nazioni), da cui discende l’obiettivo dell’unificazione legislativa (in due codici unici distinti) delle obbligazioni civili e commerciali, il codice scontava un notevole ritardo sui tempi. Nato per
rinnovare il modello franco-italiano, senza pretese nazionalistiche e con la
significativa discontinuità sopra segnalata (l’abbandono dell’approccio liberale puro o assoluto, fiducioso nell’ordine spontaneo del mercato), esso
nutriva l’ambizione di rilanciare la fortuna dell’archetipo francese (ora
franco-italiano), rifondando le basi della convivenza civile. Un progetto
tutto novecentesco, quindi, in cui il patto di non interferenza tra individuo
e Stato veniva meno, e si poneva l’accento sui nuovi doveri sociali dei soggetti verso la collettività, in una mutata dialettica tra libertà e solidarietà.
Queste funzioni e queste idealità spiegano tutto del suo riformismo moderato, che è tipico di chi vuole aggiornare un modello, ma non lo vuole
sovvertire, e predilige una «strategia dell’integrazione» (per usare l’efficace
terminologia di Pietro Costa) ad una drastica e radicale rottura dell’ordine,
anche per facilitare l’adesione di altri Paesi codificanti7. Ulteriori ricerche
hanno permesso di confermare come i giuristi francesi e italiani non intendessero affermare la rottura dell’ordine privatistico liberale, basato sull’autonomia privata e sul rispetto della forza obbligatoria del contratto, ma
anzi ribadirne la validità, varando tuttavia apposite istanze correttive di democrazia sociale e di diritto diseguale a specifica tutela dei contraenti deboli,
affidate sia alla discrezionalità del giudice sia al legislatore, secondo un dosaggio derivato da scelte ‘politiche’ accuratamente motivate da una scienza
giuridica ben consapevole del suo ruolo legislativo e di controparte del potere politico, che la propaganda di segno contrario non deve tendere ad offuscare. Certamente tradizionale era il sistema giuridico nel quale la riforma
Jahre Soziales Privatrecht in Deutschland, Band 1, Vom Liberalen zum Sozialen Privatrecht - Der
französisch-italienische Obligationenrechts-Entwurf von 1927, Vittorio Klostermann, Frankfurt
am main 2020, pp. 3-44. Il volume è tutto dedicato al progetto, con una serie di altri saggi.
Sulla complessa galassia del solidarismo francese, al quale faccio riferimento nel testo, e
che dà luogo ad una pluralità di posizioni sia di revisione sia di superamento dei princìpi
dell’individualismo in direzione sociale, rimando allo studio di P. COSTA, Civitas. Storia della
cittadinanza in Europa, 3. La civiltà liberale, Laterza, Roma-Bari 2001, in particolare pp. 67136, 551-562. Per la declinazione civilistica di questi motivi v. indicazioni infra, nt. 9.
7
Il «sistema dell’anello», come lo chiama m. D’AmELIO, Gli studi di diritto comparato e l’unificazione del diritto privato, in «monitore dei tribunali», LXVIII (1927), pp. 721-722 (p. 722).
204
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
andava a inserirsi, con la conferma delle usuali separatezze: diritto pubblico-diritto privato; leggi speciali-diritto comune; diritto civile-diritto commerciale. Il progetto, entro questa cornice, era ciò nonostante seriamente
intenzionato a «innovare» (pur «senza distruggere»), istituendo quei legami
sociali che il liberismo puro negava. Esso arrivava però al traguardo proprio
quando in Italia si stavano riformando le strutture economiche dello Stato.
Negli anni Trenta il codice unico, in Italia, perde quindi il consenso
della parte più riformista della dottrina e incrocia i destini della dittatura
che, nella formazione del nuovo codice civile, esige un diritto sempre più
politicamente orientato anche nel campo dei rapporti economici retti dal
diritto civile e commerciale, per nulla estranei ed anzi essenziali per la tenuta
del regime. Nell’orbita dell’ordine corporativo, che si contrappone all’ordine
liberale, rappresentato come incapace di governare una società di massa
senza disgregare lo Stato, il progetto soccombe ufficialmente nel 1937, ben
prima quindi del 1939 quando, dopo il cambio di vertice al ministero di
grazia e giustizia (Dino Grandi al posto di Arrigo Solmi), esso viene definitivamente abbandonato.
Per avvertire la perdita di consenso del progetto italo-francese, esaminiamo alcuni aspetti. Innanzitutto, l’idea di codice da esso sostenuta e veicolata: come anticipato, una revisione e non una riforma radicale e integrale
del diritto delle obbligazioni. Una tesi, questa, largamente condivisa dalla
civilistica italiana e francese del tempo. Esso mirava strategicamente a riaffermare le basi individualistiche del diritto delle obbligazioni, introducendo
però le correzioni ritenute necessarie e ormai mature in una società socialmente ed economicamente trasformata. Il modello è descritto molto bene
da Henri Capitant nel 1928: la modernizzazione è attuata inserendo nel codice soluzioni già consolidate in giurisprudenza oppure già accolte nelle
codificazioni più recenti. Giusto quello che Schmitt rimprovererà ai codici
liberali di vecchio stampo8. Le innovazioni permettono così di attribuire al
codice, secondo il grande civilista, la qualifica di «sociale», in quanto esso
realizza la giustizia, pur restando dentro il perimetro dell’autonomia della
volontà: ma si tratta ora di un diritto scritto per gli individui che presta più
ascolto alle ragioni delle parti deboli, riducendo il divario tra diritto e mo8
mi riferisco all’articolo di m. D’AmELIO, La vocazione del secolo XX alla codificazione, in
«Nuova Antologia», CCCXC, marzo-aprile 1937, pp. 163-171 (su cui v. anche infra, nt.
121) che perora la causa dei codici anche nella temperie fascista, e nel quale egli riporta,
dissociandosi, parole di Schmitt sulla vecchia concezione liberale del codice, secondo cui
«la codificazione sorge sempre alla fine del momento storico. Essa cade come un frutto
maturo dall’albero del lavoro spirituale scientifico di alcune generazioni» (p. 166).
205
G. CHIODI
rale9. Si trattava di non rovesciare il rapporto tra interesse individuale e interesse collettivo: la libertà come regola, la sua limitazione per un but social
come eccezione. La retorica utilizzata rivela che siamo ancora all’interno
dell’ordine individualistico, resistente nel suo nucleo forte ai bruschi mu9
H. CAPITANT, Un projet de Code international des obligations et des contrats, in «Bulletin de la
classe des lettres et des sciences morales et politiques», 5e série-tome 14 (1928), pp. 199213, p. 204 s. («réformer, c’est l’oeuvre des lois spéciales; consolider le droit épars en le
systématisant, c’est le propre de la codification»), p. 213. Secondo Capitant, il fulcro del
modello resta il principio dell’autonomia della volontà, la libertà di contrattare, che deve
però essere opportunamente limitata per impedire gli abusi. Tale limitazione, nel codice
unico, è rappresentata soprattutto dall’azione generale di lesione, dal momento che vengono esclusi dalla sua orbita normativa i contratti di lavoro e i contratti di adesione (anche
se non mancano norme imperative per alcuni di questi). Il secondo principio fondamentale
che dà il tono a questo nuovo diritto dei contratti è in realtà l’antico e sempre valido postulato del rispetto della parola data o della forza obbligatoria del contratto, che ha una rilevanza morale e che porta i giuristi francesi (e italiani) a respingere la teoria dell’imprévision.
Ho qui riassunto schematicamente per maggior chiarezza di quanto sviluppato nel testo
un discorso interpretativo in realtà più complesso. C’è un intervento significativo di Capitant degli stessi anni che può aiutare ulteriormente a comprendere la fisionomia di questo
liberale progressista (secondo il giudizio di Ripert). Si tratta del saggio Les transformations
du droit civil français depuis cinquante ans, in Les transformations du droit dans les principaux pays
depuis cinquante ans (1869-1919). Livre du cinquantenaire de la Société de la législation comparée, t.
I, Librairie générale de droit et de jurisprudence, Paris 1922, pp. 31-80, in cui si evidenziano
molti tratti del metodo del giurista di Grenoble, tra cui, oltre all’apertura nei riguardi della
comparazione, l’attitudine critica verso l’individualismo. «Aussi la dottrine individualiste
est-elle délaissée, et les aspirations nouvelles se cristallisent autour du fait de la solidarité
humaine», si legge a p. 34 (con rinvio al pensiero di Charmont e Tissier). E ancora, a p.
60, conclude: «Ainsi une réaction se manifeste contre l’individualisme du Code civil. Une
conception nouvelle de l’idée de justice anime aujourd’hui le législateur. Pour les rédacteurs
du Code, ce qui a été voulu par les parties est juste et doit être respecté, parce que cela a
été, pensent-ils, librement débattu, et que la justice veut avant tout le respect de la parole
donnée. Aujourd’hui, nous estimons que la justice veut avant tout que le fort n’opprime
pas le faible». Naturalmente, questo approccio sociale ha un suo limite quasi costituzionale,
che per Capitant è rappresentato dal rispetto della forza obbligatoria del contratto: ciò
impedisce al giudice non solo di risolvere il contratto in caso di imprévision, ma anche di
modificare le clausole inique; questo compito spetta al legislatore e non alla giurisdizione.
Per ulteriori acute osservazioni su questi profili di equilibrio tra punto di vista individuale
e della collettività rimando in particolare a due studi specifici di D. DEROUSSIN, La pensée
juridique de Henri Capitant. Le progrès par «l’accroissement de la vie individuelle et l’accroissement de
la vie sociale», in Les grand auteurs de la pensée juridique au tournant du XXe siècle. Le renouveau de
la doctrine française, Études réunies par N. Hakim et F. melleray, Dalloz, Paris 2009, pp. 1567, in particolare pp. 19-20, 45-59, 65-67, che ne sottolinea l’adesione al volontarismo e
al repubblicanesimo critico; e ID., H. Capitant et le droit des assurances, in «Revue d’histoire
des facultés de droit et de la culture juridique, du monde des juristes et du livre juridique»,
2018, pp. 297-337, pp. 334-335. Cfr. anche CH. JAmIN, Henri Capitant et René Demogue: notation sur l’actualité d’un dialogue doctrinal, in L’avenir du droit. Mélanges en hommage à François
Terré, Dalloz-Presses Universitaires de France, Editions du Juris-Classeur, Paris 1999, pp.
125-139.
206
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
tamenti ma presentato a dispetto di ciò con un volto sociale nuovo, allo
scopo di rinsaldare la terza Repubblica.
Entro i limiti posti dai suoi redattori, tuttavia, lo spirito sociale connotava effettivamente per la prima volta il diritto comune dei contratti e non
ispirava solo le leggi speciali. Una folata di concretezza scuoteva l’astrattezza del diritto civile tradizionale e lo avvicinava al reale teatro di competizione tra le forze sociali ed economiche che operavano nel mercato. Il
codice prevedeva infatti l’introduzione di rimedi contro l’abuso della libertà
contrattuale, come l’azione generale di lesione, applicabile a tutti i contratti
(non solo ai mutui usurari, quindi), che era stata estesa caso per caso in
Francia da una legislazione eccezionale tanto disorganica quanto secondo
molti (troppo) politicamente orientata. Anche l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare rappresentava un elemento di socialità inserito come limite al prepotere delle parti, così come la previsione
dell’azione di risarcimento del danno per abuso del diritto, vero fiore all’occhiello della disciplina della responsabilità civile. Il codice non regolava
invece i contratti di adesione, in ossequio alla consegna di considerare solo
i rapporti individuali e non quelli tra individui e imprese. Nella parte speciale del progetto, tuttavia, i redattori si erano preoccupati di dichiarare la
nullità di alcune clausole vessatorie con apposite norme inderogabili dalle
parti contraenti10, imitando la tecnica adottata in Italia nel redigere il progetto di codice di commercio del 1925. A parte diverse incongruenze della
parte speciale dei contratti civili, poche norme erano dedicate al contratto
di lavoro e nessuna al contratto collettivo, considerato materia politica da
farsi oggetto di leggi speciali: una falla del sistema, sulla quale avrebbero
puntato il dito estimatori e detrattori.
2. La difesa della linea italo-francese
Negli anni Trenta la linea franco-italiana-europea continua ad essere
presente e non scompare dall’orizzonte dei giuristi italiani. Il progetto viene
apprezzato, sia come primo esperimento di unificazione giuridica nazionale
di larga portata sia come volano di una cultura c.d. latina suscettibile di
espandersi in area europea. L’iniziativa ottiene naturalmente il pieno sostegno dei suoi apostoli e quindi della Rivista di diritto civile, che si dedica incessantemente alla sua promozione. Il perimetro nel quale si muove il suo
H. CAPITANT, Le caractère social du projet franco-italien de code international des obligations et des
contrats, in «Revue critique de législation et de jurisprudence», 51 (1931), pp. 71-82 (p. 76).
10
207
G. CHIODI
direttore Alfredo Ascoli, dalla stampa periodica alla cattedra, in piena sintonia con De Ruggiero, è quello di un diritto delle obbligazioni perennemente incardinato sui valori individualistici e sul rispetto della libertà del
volere. Lo rivela, nel numero che precede la trionfale presentazione del codice unico11, una delle celebrate note di giurisprudenza in cui il maestro era
particolarmente versato, in cui da romanista-civilista puro si contrapponeva
alla visione più oggettiva del contratto difesa da Filippo Vassalli fino in
Cassazione, ribadendo la soluzione tradizionale, ispirata al dogma della volontà, della nullità del contratto concluso da un incapace naturale per inesistenza del consenso12.
Nel 1930 il periodico accoglie, è vero, un saggio critico di Guido Tedeschi, ma ad esso Ascoli fa seguire una postilla in cui difende la tesi contenuta nella sua creatura legislativa13.
Nel medesimo numero del 1931, che ospita la brillante prolusione di
Vassalli, Arte e vita nel diritto civile, così ricca di fermenti e presagi, Ascoli,
nel recensire la comunicazione di un professore della Facoltà del Cairo, ne
A. ASCOLI, Il nuovo codice delle obbligazioni e dei contratti, in «Rivista di diritto civile», 20 (1928),
pp. 62-67. Questo scritto, insieme a ID., L’unificazione del diritto delle obbligazioni, in «monitore
dei tribunali», LXIX (1928), pp. 3-7, è quello che meglio rivela le convinzioni del nostro
civilista-romanista sull’operazione attuata con il progetto italo-francese: riaffermare la natura necessariamente individualistica del diritto delle obbligazioni, pur trattandosi di un
individualismo più sociale. In Ascoli si nota, semmai, un maggiore irrigidimento sulla natura
razionale, romanistica e quasi trascendentale, a-temporale appunto, dei dogmi del diritto
delle obbligazioni. È chiaro l’obiettivo: salvaguardare un nucleo giuridico quasi incorrotto
dal tempo corrispondente al diritto patrimoniale dei rapporti individuali. Questa sfumatura
mette quasi in ombra la natura sociale degli interventi realizzati. Nello stesso numero v.
anche A. ASCOLI, rec. a Réné POPESCO-RAmICEANO doct. en droit, La représentation dans le
proyet de code des obligations élaboré par l’Union législative entre Nations alliées et amies, nel «Bulletin
mensuel de la Société de législation comparée». Aprile-Giugno 1928, pp. 190 e seg., ibidem,
p. 416 e ID., rec. a E. BARDA, L’exécution spécifique des contrats. Étude de droit anglais comparé,
Paris, Dalloz, 1928, in «Rivista di diritto civile», XX (1928), p. 208.
12
A. ASCOLI, Note di giurisprudenza, Diritto civile. Obbligazioni e contratti. Incapacità naturale, in
«Rivista di diritto civile», XIX (1927), pp. 484-490, in opposizione a C. FADDA, Della incapacità naturale nei contratti, in «La Corte di Cassazione», IV (1927), cc. 635-640 e F. VASSALLI,
Postilla alla precedente nota del prof. Fadda, ibidem, cc. 640-650, anche in ID., Studi giuridici, vol.
II, Casa Editrice Dott. A Giuffrè, milano 1960, con il titolo Della incapacità naturale nei contratti, pp. 207-220, con parole durissime verso l’art. 10 del Progetto italo-francese: «ritengo
che sia del tutto improvvida, nociva pel credito pubblico e solo dettata da un cieco ossequio a schemi teorici la disposizione predisposta nel progetto delle obbligazioni italo-francese destinato a divenire il titolo IV del libro 3° del nostro codice civile» (p. 220).
13
G. TEDESCHI, Sulla obbligazione di esibire secondo il Progetto italo-francese delle obbligazioni, in
«Rivista di diritto civile», XXII (1930), pp. 582-595, con Postilla all’articolo precedente, pp.
595-597.
11
208
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
enfatizza le lodi: il relatore approva l’impianto e i contenuti del progetto
proprio per il suo equilibrio, cioè per il fatto di non adottare innovazioni
troppo radicali, «non richieste da alcuna necessità», scagionando anche il
progetto dall’eccessivo attaccamento alla tradizione francese14. Nel 1932
un’adesione prestigiosa, sul piano internazionale, viene assicurata dal libro
di Pierre Viforeanu, un allievo di Ripert, che accettò di scrivere l’introduzione iniziale, senza particolare entusiasmo per l’indirizzo «trop résolument
conservateur» del progetto. Si tratta di una ricerca comparatistica di grande
spessore, nella quale il giovane giurista francese plaude all’azione di lesione,
approvando nel complesso la sua nuova configurazione15.
Gli artefici del codice unico, insomma, e tra questi mettiamo in prima
fila anche De Ruggiero, autore nel 1931 di un saggio definitivo in risposta
alle critiche ricevute16 e il potente mariano D’Amelio, alter ego di Scialoja
nel replicare alle accuse spregiudicate e forse inaspettate di Betti17, non voA. ASCOLI, rec. a m.A.J. BOYÉ, Le proyet franco italien de Code des obligations et des contrats, in
L’Egypte contemporaine. Revue de la Société royale d’économie politique, de statistique et de législation,
Tomo XX, fasc. gennaio 1931, pag. 1 seg., in «Rivista di diritto civile», XXIII (1931), pp.
318-320: si tratta di un discorso del 28 marzo 1930. La recensione contiene altri spunti
interessanti, tutti evidenziati da Ascoli: Boyé riferisce che la Conferenza interparlamentare
del commercio di Berlino ha votato l’adozione del progetto nel settembre 1929 e ne propugna l’approvazione anche in Egitto; ricorda il codice delle obbligazioni albanese del
1928 e il codice delle obbligazioni libanese in gestazione, scritto con la collaborazione di
Josserand. Attesta, insomma, la fortuna incipiente del progetto come modello.
15
P. C. VIFOREANU, Contribution a l’étude du contrat dans le projet franco-italien et en droit comparé.
Formations et éléments du contrat, Préface de m. G. Ripert, Librairie de Jurisprudence ancienne
et moderne, Paris 1932, pp. 320-325. Bisogna riconoscere che, accanto alle critiche, alle
frecciatine ai commissari italiani (troppo romanisti), ai presagi di fallimento (i nazionalismi
incombenti) e ai dubbi, concernenti sia l’utilità effettiva dell’unificazione legislativa sia la
mancanza di una giurisdizione internazionale atta a garantire l’unità d’interpretazione, Ripert mette in evidenza anche i pregi dell’opera: «la création d’un esprit juridique commun,
et aussi l’effort fait ensemble pour une certaine organisation de la société et des rapports
entre les hommes. La compréhension mutuelle des besoins et des désirs de chaque peuple
contribue au désarmement moral. Le travail commun pour élaborer l’ordre juridique établit
une unité spirituelle» (p. iii). Sull’unificazione internazionale del diritto privato vista dalla
sponda francese si devono citare quanto meno i lavori di R. DEmOGUE, L’unification international du droit privé, Rousseau, Paris 1927, rec. A. ROUAST, A propos de l’unification internationale du droit privé, in «Revue trimestrielle de droit civil», 27 (1928), pp. 377-380, e F.
LARNAUDE, Rapport à Monsieur le Garde des Sceaux, Ministre de la Justice, sur l’unification législative
entre la France et l’Italie, Les Editions internationales, Paris 1929.
16
R. DE RUGGIERO, Il progetto del codice delle obbligazioni e dei contratti dinanzi alla critica, in Studi
in onore di Alfredo Ascoli. Pubblicati per il XLII anno del suo insegnamento, Casa Editrice Giuseppe
Principato, messina 1931, pp. 775-809.
17
Il riferimento è alla notissima Postilla, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto
generale delle obbligazioni», XXVII (1929), pp. 669-672. Di alta risonanza era stata la pre14
209
G. CHIODI
levano lasciare il palcoscenico né il campo ad altre visioni. La Rivista sottolinea soprattutto il favore europeo del codice unico, evidente riprova della
sua validità come modello. Ecco allora Ascoli nel 1936 recensire la traduzione francese del codice delle obbligazioni polacco del 1934, introdotta
da un saggio di Henri Capitant, ed esprimere riserve sugli articoli del codice
che si distaccavano dal progetto italo-francese: la formula casistica dell’art.
42 (lesione) e le promesse al pubblico costruite come promesse unilaterali18.
Negli anni Trenta l’omaggio più autorevole ed eclatante al codice unico,
com’è noto, arriva dalla nuova rivista-tribuna dell’Istituto di studi legislativi
diretta da Salvatore Galgano, che nel 1930 dedica un intero numero al progetto italo-francese19. Il momento sembra ancora assai favorevole all’unificazione legislativa e quindi al codice unico, come traspare dalle fiduciose
parole espresse da mariano D’Amelio in un articolo di qualche anno prima,
che saluta il periodico come «nuovo poderoso organo della cultura giuridica
internazionale»20, essenziale nel raggiungere la meta desiderata.
sentazione del codice unico a sua firma: m. D’AmELIO, Un codice unico delle obbligazioni per
l’Italia e la Francia, in «Nuova antologia», CCLV, settembre-ottobre 1927, pp. 77-89, contenente fra l’altro, va ricordato, la difesa dell’azione generale di lesione. Della linea francoitaliana egli rimarrà del resto un assiduo sostenitore, fino a che non verrà il momento
anche per lui di individuare nell’asse italo-tedesco la nuova frontiera di un diritto unico. A
riprova della prima tendenza corre l’obbligo di citare almeno Influenza di progetti dei codici
sulla giurisprudenza, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, I, Società editrice
del «Foro italiano», Roma 1931, pp. 315-327 e la voce Abuso del diritto, in «Nuovo Digesto
Italiano», I (1937), pp. 48-50, nella quale difende strenuamente l’art. 74 del codice italofrancese, ormai progetto del libro quarto del codice civile (abuso del diritto) contro la
nota chiusura di mario Rotondi e con numerose citazioni della dottrina francese. Da notare
che non altrettanto convinto della formula adottata nel codice, che gli sembrava «trop générale […] vague, imprécise», era stato Henri Capitant, in uno scritto di dieci anni prima:
Sur l’abus des droit, in «Revue trimestrielle de droit civil», 27 (1928), pp. 365-376. Il francesismo di D’Amelio (attento lettore ed estimatore di Josserand) traspare anche dalla voce
Apparenza del diritto, ibidem, pp. 550-555. Sulla svolta corrispondente alla seconda tendenza,
v. infra, nt. 161.
18
A. ASCOLI, rec. a Code des obligations de la République de Pologne, traduit par S. Sieczkowski
et J. Wasilkowski avec la collaboration de H. mazeaud; préface de m. Henri Capitant, Librairie du Recueil Sirey, Paris, 1935; I volume di p. xx-168, in «Rivista di diritto civile»,
XXVIII (1936), pp. 76-80.
19
Questi scritti sono ripubblicati in Il progetto italo francese delle obbligazioni (1927). Un modello
di armonizzazione nell’epoca della ricodificazione, a cura di G. Alpa, G. Chiodi, Giuffrè Editore,
milano 2007. La prefazione di Galgano plaude al codice unico, considerandolo un rilevante
tentativo di unificazione legislativa, che è una delle mete della comparazione, da propiziarsi
anche con la formazione di una cultura giuridica favorevole: «una simile coscienza fu il
maggior lievito delle più importanti unificazioni che la storia registri»: Prefazione, in «Annuario di diritto comparato e di studi legislativi», IV-V, I (1930), p. xiv.
20
D’AmELIO, Gli studi di diritto comparato e l’unificazione del diritto privato, cit. nt. 7, p. 721. Per
210
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
Fa specie notare che l’unico giurista italiano ammesso a interloquire
con i colleghi stranieri sia l’autore di un parere pesantemente negativo. Le
critiche di Gioachino Scaduto sono rivolte in particolare a tutte le norme
che ampliano la discrezionalità del giudice. Le ragioni sono diverse, a seconda delle proposte. In alcuni casi egli si oppone al favor debitoris, che indebolisce le ragioni del creditore autorizzando il giudice a concedere
dilazioni di grazia in caso d’inadempimento. In altri contesta le norme che
aumentano i poteri discrezionali del giudice, anche qui per varie ragioni:
perché non approva che il magistrato possa scegliere tra due soluzioni alternative (ad esempio tra risarcimento del danno o costituzione del contratto definitivo in caso di inadempimento del contratto preliminare) o
perché causano incertezza del diritto. Deriva da entrambe queste motivazioni la repulsione verso l’azione generale di lesione, che da un lato autorizza il giudice a sindacare l’equilibrio economico del contratto sulla base
di incerti parametri soggettivi e dall’altro lo lascia libero di scegliere discrezionalmente tra annullamento e revisione del contratto iniquo, con il risultato di non tutelare l’autonomia privata oppure il contraente vittima
dell’abuso21. Nel dibattito ospitato nelle pagine dell’Annuario anche qualche
osservatore straniero era rimasto colpito dall’ambigua formulazione dell’art.
22, che esigeva dal giudice un’indagine sulla mancanza di un sufficiente libero consenso da parte del leso: «non è ben chiaro che cosa si voglia dire
una riflessione sulle politiche di comparazione giuridica nell’età fascista (e quindi anche
sulle idee di molti dei protagonisti della storia qui narrata) rimando ora all’approfondito
saggio di m. GRONDONA, Il diritto comparato e la comparazione giuridica tra internazionalismo e
nazionalismo: premesse per una discussione, in questo volume.
21
G. SCADUTO, Osservazioni sul “Progetto di codice unico delle obbligazioni per l’Italia e la Francia”,
in «Annuario di diritto comparato e di studi legislativi», IV-V (1930, I, pp. 111-120, anche
in Il progetto italo francese delle obbligazioni, cit. nt. 19, pp. 679-688. La posizione di Scaduto,
alla quale si incaricherà di replicare De Ruggiero (supra, nt. 16), sarà condivisa da Betti nei
suoi interventi critici sul progetto italo-francese. Possiamo aggiungere alla lista dei detrattori anche il direttore dell’Annuario, Salvatore Galgano? A leggere un intervento posteriore
di ben venti anni, sembrerebbe proprio così. In esso l’autore conferma la sua fiducia nella
tendenza all’unificazione del diritto privato, contestando in particolare l’intolleranza di
Emilio Betti (nella prefazione al Diritto processuale civile) e di Antonio Scialoja, ma formula
un giudizio spietatamente negativo del progetto italo-francese, sostenendo che esso «sorto
da una valutazione superficiale di particolari condizioni contingenti determinatesi nel
corso della prima grande guerra -, si risolse in un tentativo vano e quanto mai infelice, per
l’organizzazione dei Comitati di studio, per il modo della preparazione del progetto e per
il modestissimo contributo»: Considerazioni sull’unificazione del diritto privato, in «Jus», n.s. II
(1951), pp. 179-188, (p. 188) e in Scritti giuridici in onore di Antonio Scialoja per il suo XLV
anno d’insegnamento, a cura di A. Lefebvre D’Ovidio e F. messineo, III, Diritto civile, N. Zanichelli, Bologna 1953, pp. 253-264 (p. 253).
211
G. CHIODI
con ciò», aveva osservato Erwin Riezler22. La curvatura volontaristica della
formula rischiava di non proteggere la vittima dell’abuso, qualora risultasse
che, anche in presenza di uno stato di bisogno, il consenso fosse stato dato
fuori da ogni pressione: era questo, anche agli occhi dei giuristi italiani favorevoli all’introduzione di un rimedio per colpire l’ingiustizia economica
del contratto23, il difetto più insidioso di quella norma.
Più drastica, e per certi versi inattesa nel contesto francese, è la lettura
del magistrato Paul-Louis Rivière, corrispondente della Académie des sciences
morales et politiques di Parigi, nel 1933. L’azione di lesione viene respinta in
blocco, perché essa implica l’affievolimento della forza obbligatoria del
contratto24: sembra pertanto una reazione all’interventismo del legislatore
francese, che in numerose leggi speciali aveva emanato un diritto che Ripert
definirà sprezzantemente di classe, frutto velenoso della democrazia25; reazione singolare perché, in realtà, l’opportunità di un’azione generale di lesione era ormai riconosciuta in modo generale dalla civilistica francese26.
A questa linea è ascrivibile Giovan Battista Funaioli, nell’articolo incluso
nello stesso numero della Rivista del diritto commerciale del 1930, che accoglie
un saggio di Betti sul progetto italo-francese. Il civilista senese, allievo di
Francesco Ferrara sr., si proclama ancora seguace del sistema individualistico del diritto privato e vorrebbe perciò l’eliminazione dell’azione di lesione: la prima ragione è che essa appare fondata (nella lettura offerta) su
un presunto vizio del volere, come la vecchia azione di lesione, e quindi
non sull’accertamento concreto di un vizio del consenso; la ragione principale, tuttavia, è che essa mette a rischio la sicurezza dei rapporti contratE. RIEZLER, Dell’invalidità del Consenso secondo il Progetto italo-francese di un codice delle obbligazioni, in «Annuario di diritto comparato e di studi legislativi», IV-V, (1930), I, pp. 175-204, ripubblicato in Il progetto italo francese, cit. nt. 19, pp. 743-772. Il civilista tedesco approvava
viceversa sia la soluzione dell’annullabilità del negozio, rispetto a quella della nullità del
BGB, sia il potere di scelta attribuito al giudice tra riduzione ed annullamento del contratto.
23
menzionati in CHIODI, Un esperimento di diritto privato sociale, cit. nt. 6, p. 29 nt. 83.
24
P.-L. RIVIÉRE, Le projet de Code franco-italien des obligations et des contrats, in «Bulletin de la
Société de législation comparée», t. LXIII, Cotillon et fils, Paris 1934, («Bulletin trimestriel»,
n. 4, Oct.-Nov-Déc. 1934), pp. 438-466 (p. 443). Il giudizio complessivo è tuttavia favorevole, proprio perché il codice è conservatore e non rivoluzionario, procede cioè assecondando gli aggiustamenti lenti della storia, ostentando «une prudence qui bien des
novateurs pourraient prende en exemple» (p. 466).
25
G. RIPERT, Le régime démocratique et le droit civil moderne, Librairie générale de droit et de
jurisprudence, Paris 1936; deuxième édition, Paris 1948, pp. 167-176.
26
CHIODI, Un esperimento di diritto privato sociale, cit. nt. 6, pp. 23-24.
22
212
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
tuali e accorda al giudice un potere di revisione del contratto27.
Altre letture del progetto italo-francese dimostrano che uno dei nodi
problematici del codice unico è il modo eccessivamente volontaristico e
discrezionale sulle cui basi è stata costruita l’azione di lesione, ormai diventata il simbolo di un diritto contrattuale improntato anche al solidarismo
sociale e alla giustizia contrattuale, e quindi ad un maggior controllo da affidarsi all’intervento giudiziale. A non soddisfare un giurista ai suoi primi
passi scientifici, Lino Salis, che per il resto è prodigo di elogi al progetto, è
infatti l’incerto e nebuloso parametro soggettivo, cioè il difficile accertamento psicologico che il giudice dovrebbe compiere secondo l’art. 22 per
annullare o revisionare il contratto economicamente sproporzionato: questo difetto di formulazione non dovrebbe tuttavia condurre ad eliminare
dal codice l’azione di lesione, ma solo a rivederne i presupposti così da arginare la discrezionalità del giudice28. Siamo nel 1933 e a distanza di due
anni dalla discesa in campo di De Ruggiero per difendere la bontà e la validità del codice unico, Salis ricostruiva con dovizia di particolari l’intero
dibattito italiano su un codice che, se mostrava difetti, complessivamente
valeva la pena di munire di efficacia normativa. L’anno è cruciale: dopo
l’appello del ministro De Francisci ai giuristi, affinché inventassero una
dogmatica nuova che corrispondesse ai postulati della dottrina fascista e
dopo i noti attacchi di Betti29, l’obiettivo dell’unificazione legislativa vacillava anche in chi, come Francesco Santoro-Passarelli, nell’ascendere la cattedra patavina, vedeva nel progetto difetti dovuti alle transazioni normali
«quando si redige un testo destinato ad applicarsi a popoli di diverse tradizioni giuridiche, idealità e condizioni economiche, per quanto affini di razza
e di civiltà»30.
G.B. FUNAIOLI, La concezione individualistica del diritto e la validità dei negozi giuridici, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXVIII (1930),
pp. 135-153.
28
L. SALIS, Sul progetto di un codice italo francese delle obbligazioni e contratti, in «Studi urbinati»,
VII (1933), pp. 77-126.
29
Cfr. infra, § 4.
30
F. SANTORO PASSARELLI, Il diritto civile nell’ora presente e le idee di Vittorio Polacco. Prolusione
al corsi di diritto civile, letta nell’Università di Padova il 12 gennaio 1933, in ID., Saggi di
diritto civile, Introduzione di P. Rescigno, I, Casa Editrice Dott. Eugenio Jovene, Napoli
1961, pp. 37-76 (p. 47 nt. 28). Lo scritto è tutto pervaso dal fervore di rispondere all’appello ai giuristi lanciato dal podio del Primo congresso giuridico italiano di Roma (5-9 ottobre 1932) dal guardasigilli Pietro De Francisci (Per una nuova dogmatica giuridica, pubblicato
anche in «Il diritto del lavoro», VI (1932), pp. 493-501) e preoccupato di stilare un elenco
di auspicabili riforme del diritto privato permeate di spirito fascista (preminenza dello
Stato sull’individuo e principio corporativo), irradiato in un nuovo codice civile, che rifletta
27
213
G. CHIODI
Scomparsi Scialoja (1933) e De Ruggiero (1934), il corifeo più autorevole
del progetto rimane il presidente mariano D’Amelio, scialojano di ferro, ma
anche ben inserito nella rete politica del fascismo31. Oltre tutto, quell’idea
di codice non era per lui tramontata, come ci rivelano alcune frasi significative di un suo intervento di qualche anno successivo32. Quanto a Vassalli,
egli si è ormai dissociato dal progetto, con l’abituale eleganza e discrezione,
ma anche con parole pungenti e senza complessi d’inferiorità nei confronti
del suo pur stimatissimo maestro, come rivelano anche taluni aspetti della
sua didattica alla Sapienza romana33. Ciò nonostante, è ancora lui l’uomo
giusto al posto giusto per coltivare i rapporti con il milieu francese e condurre
in porto anche il codice unico delle obbligazioni commerciali. La seconda
operazione, concepita come fase due dell’unificazione, tanto attesa da chi
come Alberto marghieri ne aveva deplorato il ritardo34, naufraga nel 1935,
il diritto privato fascista, poiché «l’interprete e il giudice, anche ricorrendo ai metodi più
arditi d’interpretazione, non possono dedurre le nuove concezioni a tutte le applicazioni
di cui esse sono suscettibili» (p. 46). Entrando nel merito del progetto italo-francese, Santoro-Passarelli lo reputa un testo del tutto perfettibile e non «quanto di meglio si potesse
fare nel campo, così dissodato dalla dottrina italiana e straniera e così fecondo, delle obbligazioni» (p. 60). Approva comunque l’introduzione dell’azione di lesione, che ridimensiona l’individualismo del codice, ma contesta gli eccessivi poteri discrezionali del giudice
che, in questo e altri casi, viene autorizzato a sostituirsi alla volontà delle parti, riducendo
il valore economico delle prestazioni o dando esecuzione al contratto preliminare con
sentenza (pp. 59-61). Sul manifesto di De Francisci, correlato alle posizioni bettiane, cfr.
P. COSTA, Emilio Betti: dogmatica, politica, storiografia, in «Quaderni fiorentini», 7 (1978), Emilio
Betti e la scienza giuridica del Novecento, pp. 311-393 (pp. 364-374) ed ora I. BIROCCHI, L’integrazione dell’Università nello Stato totalitario: la politica e il diritto nelle Facoltà di Giurisprudenza, in
questo volume.
31
Cfr. il profilo tracciato da F. AULETTA, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX
secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. mattone, m.N. miletti (d’ora in poi DBGI), Il
mulino, Bologna 2013, I, pp. 635-638; A. mENICONI, La magistratura e la politica della giustizia
durante il fascismo attraverso le strutture del ministero della Giustizia, in Il diritto del Duce. Giustizia
e repressione nell’Italia fascista, a cura di L. Lacché, Donzelli editore, Roma 2015, pp. 79-93
(p. 83). L’ossequio nei confronti di Scialoja è bene esemplificato dal tono encomiastico
con cui D’Amelio presenta il progetto preliminare del quarto libro delle obbligazioni nel
1936, orchestrato sotto la direzione del «più grande giurista del nostro tempo»: Codice civile.
Quarto libro. Obbligazioni e contratti. Progetto e Relazione, Roma 1936 (Commissione reale per
la riforma dei codici. Sottocommissione per il codice civile), pp. III-IV.
32
Cfr. supra, nt. 8.
33
Cfr. infra, § 3.
34
A. mARGHIERI, Verso la unificazione internazionale del diritto privato. memoria letta all’Accademia di Scienze morali e politiche della Società Reale di Napoli, in Atti della Reale Accademia di Scienze morali e politiche, 51 (1927), pp. 177-182; ID., Intorno al “Progetto di Codice delle
obbligazioni e dei contratti”, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXVI (1928), I, pp. 293-302.
214
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
anno destinato al grande recupero del codice unico delle obbligazioni civili35.
I delegati italo-francesi sono destinati infatti a rivedersi per alcuni aggiustamenti, sotto la regia di D’Amelio e Vassalli, che porterà alla riscrittura di pochissime disposizioni, in vista della metamorfosi del codice unico in progetto
preliminare del libro quarto delle obbligazioni del 193636.
Nel 1935 anche il magistrato Alberto Parrella, dalle colonne del Foro
italiano, nell’ambito di un saggio teso in realtà a promuovere a pieni voti il
progetto, di cui ostenta il favore che esso riscuote presso le alte sfere del
potere giudiziario37, e a caldeggiarne l’adozione da parte delle commissioni
legislative (si era alla vigilia dei già menzionati incontri tra le delegazioni
franco-italiane di maggio e ottobre 1935 a Roma), sottopone a critica l’art.
22, puntando il dito preoccupato contro «il potere illimitato accordato al
giudice di disconoscere o ridurre gli effetti di patti contrattuali eccessivamente onerosi»38. Sembra però anche in questo caso più una questione di
limiti da introdurre allo scopo di evitare interventi correttivi arbitrari, che
Sulla vicenda mi permetto di rinviare a G. CHIODI, Il Progetto italo-francese delle obbligazioni
commerciali (1930-1935) in alcune fonti inedite dell’archivio Filippo Vassalli, in ‘Non più satellite’.
Itinerari giuscommercialistici tra Otto e Novecento, a cura di I. Birocchi, Edizioni ETS, Pisa 2019,
pp. 287-330.
36
CHIODI, Un esperimento di diritto privato sociale, cit. nt. 6, pp. 34-35, 41-42, con riferimento
anche all’inedito Rapport établi au nom de la Commission Royale italienne pour la réforme des Codes
après examen des observations présentées par la Commission française sur le Projet de Code des obligations
et contrats. merita anche ricordare che nel maggio 1935 si tenne a Roma il Convegno italofrancese di studi corporativi, occasione di incontro ma anche di attriti con i cugini d’Oltralpe, su cui v. la precisa ricostruzione di G. SANTOmASSImO, La terza via fascista. Il mito del
corporativismo, Carocci editore, Roma 2006, pp. 190-198.
37
Interessante il richiamo all’endorsement del senatore Antonio Raimondi, che era stato
primo presidente della Corte d’appello di milano (1923-1930). Nominato nel 1929 (v. la
scheda personale nell’Archivio Storico del Senato della Repubblica, www.senato.it, Senatori), apparteneva alla rete di Scialoja. Per alcune sue sentenze cfr. La giustizia contrattuale.
itinerari della giurisprudenza italiana tra Otto e Novecento, a cura di G. Chiodi, Giuffrè, milano
2009, ad indicem. Anche Parrella, presidente di sezione on. della Cassazione, appoggia il
progetto, «aggiornamento ponderato e cosciente dei nostri istituti privati alle nuove correnti della vita giuridica universale» (c. 279), che denota «una utilizzazione coscienziosa
ed equanime delle migliori innovazioni della codificazione germanica» (c. 287). Sul coinvolgimento della magistratura nell’attività legislativa insiste a ragione I. BIROCCHI, Il giurista
intellettuale e il regime, in I giuristi e il fascino del regime, cit. nt. 2, pp. 9-61 (p. 19). Essa è del
resto chiamata a raccolta anche in altre imprese, come quella del Nuovo Digesto italiano: su
ciò v. allora ID., Enciclopedie giuridiche tra storia e valutazione scientifica, in Evoluzione e valutazione
della ricerca giuridica, a cura di G. Conte, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2015, pp.
209-240 (pp. 222-226).
38
A. PARRELLA, Il progetto italo-francese delle obbligazioni, in «Il foro italiano», LX (1935), cc.
279-288.
35
215
G. CHIODI
non di dissenso sul fatto che occorra assicurare maggiore equità e giustizia
nei rapporti contrattuali.
Nello stesso anno, un intervento (risalente per il vero al 1933) sull’Archivio giuridico a firma di Fulvio maroi, allievo devoto di De Ruggiero, già
componente della Sez. IX della Sottocommissione per l’unificazione del
diritto delle obbligazioni (1918), nonché entusiasta laudator del progetto, lascia percepire un cambio di rotta imminente all’insegna del corporativismo
e dell’espansione dell’anti-individualismo dal piano politico a quello economico39. ma è la sensazione diffusa di un sentire comune, di uno strato
profondo che pervade la cultura giuridica, di cui abbiamo molteplici altre
testimonianze: per il 1933 basti pensare alle prolusioni di Angelo Nattini e
Paolo Greco40, due voci appartenenti al mondo commerciale pronte ad assecondare l’avanzata del principio corporativo.
3. Il sipario strappato: Filippo Vassalli in cattedra a Roma
La poliedrica figura di Filippo Vassalli è qui presa in esame in quanto
egli fu un dinamico e infaticabile riformatore del diritto civile dal dopoguerra fino alla piena temperie fascista, protagonista d’eccezione della transizione dal progetto italo-francese al libro quarto delle obbligazioni, giurista
apprezzatissimo e autentico organizzatore del cantiere del codice civile nella
fase Grandi41. Incaricato da D’Amelio di mantenere i contatti con il comiF. mAROI, Diritto civile e fascismo [Discorso pronunciato in Torino il 14 giugno 1933, Istituto di Cultura Fascista], in «Archivio giuridico “Filippo Serafini”», XXIX (1935), pp. 1436 (pp. 33-34): «il liberismo economico giuridico uscito dalla rivoluzione francese è ormai
al suo declinare». La sua adesione convinta al progetto italo-francese e alla causa dell’unificazione del diritto è consegnata ai saggi Il progetto italo-francese sulle obbligazioni, modena
1928, anche in ID., Scritti giuridici, I, Giuffrè, milano 1956, pp. 337-399, e Tendenze antiche e
recenti verso l’unificazione internazionale del diritto privato (Prolusione al corso ufficiale di Istituzioni di diritto privato letta nella R. Università di Torino il 24 novembre 1928), in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», X (1930), pp. 177-223.
40
A. NATTINI, Riflessioni generali sulla nuova codificazione (Discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico 1933-1934 dell’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali
di Genova), in «Rivista di diritto civile», XXVI (1934), pp. 148-162 (pp. 156-162); P.
GRECO, Aspetti e tendenze odierne del diritto commerciale (Prolusione Parma 13 dicembre 1933),
in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», pp. 334-357
(pp. 354-257). Si può menzionare ancora, tra i civilisti, F. FERRARA, Nuovi sviluppi del diritto
corporativo (1931), ora in ID., Scritti giuridici, II, Giuffrè, milano 1954, pp. 261-271.
41
Sulla figura di Filippo Vassalli rimando alla bibliografia citata in G. CHIODI, Filippo Vassalli, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. VIII Appendice. Diritto, Roma 2012, pp. 563567, da integrare con il recente profilo di E. mURA, Filippo Vassalli dagli esordi romanistici
39
216
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
tato italo-francese e di condurre in porto anche la riforma delle obbligazioni
commerciali, egli fu poi disponibile a tagliare i ponti con quel modello e a
progettare la nuova legalità del libro quarto, avvalendosi della collaborazione di Emilio Betti. Rileggendo oggi le celebri pagine dedicate nel 1942
alla presentazione del «suo» codice civile, Vassalli a lavoro fatto (benché
non compiuto con tutti i crismi della desiderata perfezione) rappresenta
con precisione e con parole inequivocabili il deciso passaggio ad un assetto
assai diverso rispetto al modello individualistico: il passaggio cioè ad un diritto delle obbligazioni in cui l’autonomia privata, anche se riconosciuta,
viene esplicitamente agganciata allo Stato corporativo, che ne decide i fini42.
Filippo Vassalli, dunque, riformatore consapevole del diritto delle obbligazioni in consonanza con Betti, anche se con personalità e cultura diverse43.
Vale la pena, allora, di rileggere alcuni passi della sua produzione degli anni
Trenta nel tentativo di illuminare il suo itinerario.
Vassalli abbozza un programma di revisione dell’eccessivo individualismo che connota il codice civile del 1865 già nella prolusione del 1930, Arte
e vita nel diritto civile, pubblicata nella Rivista di diritto civile del 1931. Il programma, in questo stadio, a ben vedere, è ancora interno al paradigma individualistico (anche se proiettato al suo ripensamento), ma fornisce alcuni
spunti interessanti di riflessione. Si apre con un omaggio a Vittorio Scialoja,
suo mentore, e con una forte avversione per chi sostiene il declino del diritto civile. Un diritto civile da intendersi come «somma di principî di diritto
comune in materia di diritto privato» depositati in un codice di cui si riconosce l’astrattezza, che è «povertà di rappresentazione del mondo e dell’uomo»44, e di cui si respinge inoltre il culto formale per il suo testo, la
alla cattedra civilistica genovese (1907-1918), in «Historia et ius», 16/2019, paper 14, pp. 1-31,
nonché EAD., Vassalli, Filippo, in Dizionario biografico degli italiani, XCVIII (2020), di prossima
pubblicazione, letto in bozze grazie alla cortesia dell’Autrice.
42
Cfr. per tutti P. CAPPELLINI, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, in «Quaderni fiorentini», 28 (1999), Continuità e trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repubblica, tomo I, pp. 175-292. Il riferimento è
a F. VASSALLI, Il nuovo Codice civile, in «Nuova Antologia», 421 (1942), pp. 159-167 e ID.,
Motivi e caratteri della codificazione civile civile (1947), in ID., Studi giuridici, III/2, Giuffrè, milano
1960, pp. 605-634.
43
«Diversi, sed non adversi», per mutuare la metafora agostiniana. Cfr. ora su questo punto
focale delle relazioni tra Vassalli e Betti la lettura (alla quale aderisco) di I. BIROCCHI, Emilio
Betti: il percorso intellettuale e il tema dell’interpretazione, in Dall’esegesi giuridica alla teoria dell’interpretazione: Emilio Betti (1890-1968), a cura di A. Banfi, m. Brutti, E. Stolfi, RomaTrE-Press,
Roma 2020, pp. 9-42 (pp. 26-28); e ora le ulteriori osservazioni sviluppate nel saggio L’integrazione dell’Università, cit. nt. 30.
44
F. VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile (Prolusione letta nella R. Università di Roma il 9
217
G. CHIODI
ricerca dell’intenzione del legislatore e la sua onnipotenza, retaggio di scuole
civilistiche tramontate, a favore di metodi d’interpretazione e integrazione
secondo princìpi generali del diritto, da dedursi non dal solo perimetro statuale, perché «il diritto non è tutto, nonché nel codice, nelle leggi»45: una
rappresentazione così anti-positivistica del fenomeno giuridico da sollevare
le forti critiche di Santoro Passarelli, tanto quanto l’apprezzamento per
l’unificazione del diritto, che rompe il chiuso dei nazionalismi46. Un orizzonte dunque che si distende ben al di là del diritto statuale, che è solo un
punto tra il passato storico e la varietà dei diritti nazionali, che il giurista è
invitato a superare in una liberatoria dimensione comparatistica. Vassalli
esorta inoltre i giuristi a non assistere inerti ai mutamenti e a fare la loro
parte, assumendo il ruolo e la responsabilità di legislatori e non solo di interpreti del diritto vigente, perché il diritto è «opera dell’arte: opera di legislatori, di giuristi, di tribunali, e pur di quell’elemento tecnico e impersonale
ch’è la consuetudine»47: lo stesso codice civile «non è, per tanta parte, che
un momento della dottrina e la dottrina, cioè il pensiero, non si può arrestare e costituire in dogma»48. Se questa è la «missione del giurista», egli non
può non prospettare le possibili linee di sviluppo del diritto civile nello
Stato corporativo: da qui l’ammissione che «si deve far parte alle concezioni
politiche e ai bisogni nuovi che pulsano potentemente anche alle porte del
solenne edificio»49. Vero è che il discorso di Vassalli, in questa fase, è ancora
prudente in merito agli obiettivi della riforma. Se compare netto il riferimento allo Stato corporativo e alla Carta del lavoro, che proclama superiori
gli interessi della Nazione rispetto agli interessi degli individui, nonché ai
discorsi di Alfredo Rocco, sia quello del 30 agosto 1925 sia quello del 1929
in Senato in occasione del dibattito sul codice penale, compare anche un
monito affinché il primato dello Stato non assorba se non addirittura andicembre 1930), in ID., Studi giuridici, II, Giuffrè, milano 1960, pp. 395-414 (p. 400).
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 401 (nella frase contro la vischiosità dei
dogmi si nasconde forse un’altra sottile allusione al progetto italo-francese).
46
SANTORO PASSARELLI, Il diritto civile nell’ora presente, cit. nt. 30, pp. 42-43. Nella configurazione del contratto collettivo di lavoro, altro campo di scontri dottrinali, Santoro-Passarelli, molto e più di Vassalli è invece un contrattualista, che individua nel concetto di
sostituzione la chiave di volta per sostenere che il contratto collettivo ha l’anima e il corpo
del contratto, superando la nota teoria carneluttiana (pp. 65-72). Sull’autore del testo, con
rilievi condivisibili, cfr. CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 42, pp. 208-213.
47
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 399.
48
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 401.
49
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 406.
45
218
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
nienti i diritti individuali, con un richiamo alla Carta del lavoro, che riconosce la libera iniziativa, e ancora alle rassicurazioni di Rocco sull’interesse
che ha comunque lo Stato (e dunque l’ottica è pur sempre quella della concessione sovrana) a «garantire all’individuo le condizioni necessarie per il
libero sviluppo delle sue facoltà»50. Sembra insomma che Vassalli avverta i
pericoli della deriva autoritaria, della subordinazione dell’individuo allo
Stato, tipica della dottrina fascista dello Stato da lui richiamata, e li esorcizzi
chiamando i giuristi all’edificazione del nuovo ordine, inserendo anche la
trasformazione in atto nel graduale processo di riduzione del diritto privato,
come lo ha chiamato altra volta51, accelerato dalla grande guerra, e lo tratti
come una questione di determinazione di confini che si sono fatti più mobili, di delimitazione dell’eterna, eppure sempre «armonica», compresenza
di interessi individuali e collettivi nel diritto civile: «finché all’individuo si
riconoscano fini suoi propri e attitudine a proporseli e a raggiungerli, è questo il fondamento di ogni legge civile. Le diversità possono dirsi nella concreta disciplina; e qui di nuovo l’opera vigile e incessante dello studioso è
la scolta dell’opera legislativa»52. Non è dubbio invece che il diritto del fascismo stesse andando in tutt’altra direzione, nel superamento dell’individualismo, e che quella direzione, nel campo del diritto patrimoniale, Vassalli
avrebbe inteso e assecondato: basterebbe a tal proposito confrontare alcune
proposizioni sulla funzione sociale della proprietà della relazione svolta
Vassalli nel 1932 al Primo Congresso giuridico italiano, dove egli approva
la teoria dell’abuso del diritto, ritenendola conforme alla «dottrina fascista
della subordinazione dell’individuo allo Stato»53. Nel dicembre 1930 il pro50
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 410. L’idea di Rocco è sempre quella
espressa nei suoi scritti giovanili, che lo Stato debba prendersi cura degli individui nella
misura in cui ciò corrisponda all’interesse nazionale. La relazione Stato-individui è dunque
uno «spazio a consistenza variabile»: cfr. per tutti STOLZI, L’ordine corporativo, cit. nt. 4, p.
77; P. COSTA, Lo ‘Stato totalitario’: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in «Quaderni fiorentini», 28 (1999), Continuità e trasformazione: la scienza giudica italiana tra fascismo e
repubblica, t. I, pp. 61-174 (pp. 73, 79, 110-111, 147-148); ed ora, acutamente, I. STOLZI,
Politica sociale e regime fascista. Un’ipotesi di lettura, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno, 46 (2017), Giuristi e Stato sociale, t. I, pp. 241-291 (pp. 261-265).
51
Nella prolusione genovese del 1918: F. VASSALLI, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini
del diritto privato, in ID., Studi giuridici, II, cit., pp. 337-363.
52
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 412.
53
F. VASSALLI, Il diritto di proprietà, in ID., Studi giuridici, II, cit., pp. 415-447, p. 429. Ulteriori
passi in questa direzione sono segnalati da BIROCCHI, Emilio Betti, cit. nt. 43, p. 27 nt. 70.
Lo scritto di Vassalli nel quale più si avverte il rischio di un’eccessiva pubblicizzazione dei
rapporti privati e del fragile confine tra diritto privato, inteso come libera determinazione
dei fini, e diritto pubblico, inteso come eteronoma direzione dello Stato, è Diritto pubblico
219
G. CHIODI
gramma di riforma del diritto delle obbligazioni avrebbe dovuto comprendere l’azione generale di lesione, che «se pur si pretenda di rappresentare
fondata sul presupposto di un vizio del volere, è tuttavia in realtà un freno
che al volere individuale nelle relazioni di scambio viene imposto in considerazione della sproporzione evidente delle prestazioni e l’abuso delle condizioni altrui»54 (frase nella quale è da cogliere la seconda critica palese del
nostro rispetto al progetto italo-francese55); l’azione di risoluzione per sopravvenienza, già accolta del resto nel campo del diritto del lavoro dall’art.
71 delle norme del 1° luglio 1926; una disciplina dei contratti d’adesione,
dal momento che «il contratto concepito pel singolo caso, com’è nella previsione del codice, è oramai un’astrazione o comunque un caso non frequente, quando il traffico quotidiano è retto da contratti imposti con
formulari»56; una disciplina dell’abuso del diritto, accolto nel progetto italofrancese benché «senza scalfire la nozione individualistica del diritto»57; un
aumento dei casi di responsabilità oggettiva nel campo dell’illecito civile.
Profili destinati ad essere riconsiderati negli anni a venire.
Progettualità e riformismo non mancano neanche nei corsi tenuti da
Filippo Vassalli alla Sapienza di Roma sulle obbligazioni (1932-33) e sul negozio giuridico (1933-34): una verifica consente di individuare qualche ulteriore linea d’azione.
In generale, Vassalli, bene informato e inserito nell’alveo di una tradizione civilistica che tratta del contratto all’interno della super-categoria del
negozio giuridico, non si distingue per opzioni teoriche originali. A differenza, però, di De Ruggiero e di Ascoli, suoi colleghi di Facoltà e autori,
soprattutto il primo, di trattazioni di ampio respiro su tutto il diritto privato58, nella concezione di Vassalli è evidente la transizione dall’atto di voe diritto privato in materia matrimoniale (1939), in ID., Studi giuridici, v. I, Giuffrè, milano 1960,
pp. 179-195.
54
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 412.
55
La prima è quella del 1927 in merito al regime dell’incapacità naturale (supra, nt. 12). La
più nota e generale presa di posizione, in realtà una dissociazione vera e propria, viene
pronunciata nella commemorazione di Roberto De Ruggiero, Insegnamento e riforme del diritto
civile (ID., Studi giuridici, II, cit.), sulla quale v. G. CHIODI, «Innovare senza distruggere»: il progetto
italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti (1927), in Il progetto italo francese delle obbligazioni (1927) cit. nt. 19, pp. 43-146 (p. 137), e BIROCCHI, Emilio Betti, cit. nt. 43, p. 27, nt.
71. ma v. nel testo anche le affermazioni che si riferiscono alle critiche circostanziate esposte a lezione durante il corso sul diritto delle obbligazioni dell’a.a. 1932-1933.
56
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 412.
57
VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, p. 413.
58
A. ASCOLI, Diritto civile (Delle obbligazioni). Corso tenuto nella R. Università di Roma e
220
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
lontà al regolamento di interessi, la preferenza per l’oggettivazione del contratto, l’accentuazione del profilo ordinamentale nella disciplina degli interessi privati e il ridimensionamento del volontarismo, che connotavano
invece in modo evidente i sistemi dei due romanisti-civilisti, che non a caso
avevano collaborato attivamente alla stesura del progetto italo-francese.
Ciò a riprova dell’articolazione e della complessità con la quale dobbiamo
guardare alla variegata e complessa scuola del maestro Vittorio Scialoja e
dell’affinità che su questi temi lo avvicina a Betti, autore certo di una teoria
più coerente e compatta di negozio giuridico calato negli stampi consentiti
ai privati dallo Stato59. La teoria dei negozi giuridici viene svolta nell’a.a.
1933-3460. Il Sommario rimasto è solo un frammento di un discorso più
vasto, che procede quasi per aforismi: solo una traccia per la memoria di
un più articolato percorso, compiutamente organizzato a lezione. Esso, per
di più, è incompiuto e si interrompe bruscamente a p. 72, nella parte dei
vizi del consenso (violenza), privandoci sfortunatamente della possibilità
di apprendere la valutazione di Vassalli sull’art. 22 del Progetto italo-francese61. Esso è utile tuttavia a cogliere alcune trasformazioni in atto nel diritto delle obbligazioni e dei contratti, registrate e accolte dall’autore.
Tanto per cominciare, la definizione di negozio giuridico che Vassalli
propone, dopo aver difeso l’utilità didattica e il valore euristico-sistematico
della categoria più generale dell’intero diritto privato, «costruzione scientifica
dovuta a un processo logico di astrazione» adottata anche dal diritto pubblico, processuale e internazionale62, è quella di Emilio Betti, debitamente
richiamata: «atto di autonomia privata, col quale il privato dispone un regolamento di suoi propri interessi e al quale il diritto ricollega effetti desti-
raccolto dallo studente m. Donati nell’anno accademico 1927-1928, Stabilimento TipoLitografico di A. Sampaolesi, Roma s.d.; ID., Corso di diritto civile (Delle obbligazioni). Lezioni
raccolte da m. Barberio e G. Nocera, Anno scolastico 1930-31, Stabilimento Tipo-Litografico di A. Sampaolesi, Roma s.d.; R. DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, I-II, Quinta
ed. riveduta e ampliata, Casa Editrice Giuseppe Principato, messina 1929-1930.
59
Rimando per questo alle pagine analitiche di m. BRUTTI, Vittorio Scialoja, Emilio Betti.
Due visioni del diritto civile, G. Giappichelli Editore, Torino 2013, pp. 117-124, che non esita
a parlare di visione anti-liberale.
60
VASSALLI, Sommario delle lezioni sulla teoria dei negozi giuridici, a cura del dott. A. Bozzi, Anno
accademico 1933-34, Società editrice del «Foro italiano», Roma 1934.
61
Pacato come sempre, in tema di errore egli si limita a riscontrare che l’art. 14 del Progetto
italo-francese introduce il requisito della scusabilità dell’errore come presupposto dell’annullamento del contratto (VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 66).
62
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 4.
221
G. CHIODI
nati ad attuare lo scopo pratico normalmente perseguito»63 e integrata con
quella offerta da Carnelutti nella Teoria giuridica della circolazione, che ne metteva in risalto anche la funzione di strumento per la circolazione dei beni64.
Nella concezione di Vassalli, il negozio giuridico non perde la sua natura di
atto di volontà e di strumento che l’ordinamento mette a disposizione dei
privati per la determinazione dei loro privati interessi: «la volontà è il momento caratteristico del negozio giuridico, posto che nel riconoscere i negozi giuridici la legge dà riconoscimento e attuazione alla autonomia del
privato, cioè al potere del privato di dettare la regola di dati suoi interessi»65.
Secondo Vassalli, tuttavia, nel negozio giuridico non tutto è volontà o
deriva dalla volontà, per un triplice ordine di considerazioni.
a) Vi possono essere effetti non voluti dai privati: vi è contratto, infatti,
anche quando il regolamento sia tutto legale o unilaterale. Il riferimento,
in questo secondo caso, è ai contratti-tipo, ai regolamenti di fabbrica, ai
contratti di adesione. La risposta positiva di Vassalli è in linea del resto con
quanto sostenuto dalla dottrina italiana e francese: «non è necessario che
la volontà delle parti si esplichi nella formazione del contenuto dell’accordo,
è sufficiente che si determini all’accordo su quel dato contenuto»66.
b) Gli effetti, inoltre, «sono riconnessi non tanto alla volontà, ch’è un
momento interiore, quanto all’atto esterno in cui essa trova manifestazione»67. È necessario dunque che la volontà sia estrinsecata: gli effetti giuridici si collegano all’atto del privato (matrimonio, contratto, adozione,
cambiale), più che alla sua volontà. La volontà è quindi più propriamente
un antecedente rispetto all’atto, sia perché la «volontà privata non può da
sola creare effetti giuridici: il diritto costituisce sempre il binario nel quale
rimane efficiente il moto della volontà privata»68 (Vassalli sottolinea questo
passaggio che distingue il «pensiero italiano» dalla pandettistica), sia perché
la volontà, per produrre effetti giuridici, deve essere «esternata, ossia deve
uscire dalla sfera dell’autore, in guisa da poter essere sufficientemente ri63
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 12. Vassalli cita E. BETTI, Corso di istituzioni di diritto romano, vol. I, Cedam, Padova 1929, p. 299.
64
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 7: «Il negozio giuridico come mezzo per l’esercizio
dei diritti subbiettivi (interesse e volontà) e per la circolazione dei beni». Cfr. F. CARNELUTTI,
Teoria giuridica della circolazione, Cedam, Padova 1933.
65
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 8.
66
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 17.
67
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 8.
68
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 8.
222
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
conoscibile»69. A volte è anche necessario che la volontà manifestata o dichiarata sia portata a conoscenza di determinate persone (dichiarazioni ricettizie) e con certe forme.
c) La necessità della causa del negozio giuridico, definita come «la ragione economico-giuridica del negozio», sulla scia di Nicola Coviello. La
causa si distingue dalla volontà del privato, «alla quale da sola non è consentito di produrre effetti giuridici: è «l’elemento sociale o politico sempre
presente in ogni negozio giuridico... elemento che si contrappone e si combina con l’autonomia privata»70.
Nei contratti Vassalli si professa quindi con decisione causalista, in un
tempo in cui parte della civilistica francese aveva messo in discussione l’utilità di questo requisito. La sua convinzione è rafforzata dall’opinione di un
civilista letto e ammirato come Josserand71: la causa è un elemento irriducibile ad altri elementi del contratto. Nei contratti gratuiti la causa è nell’animus donandi, nei contratti onerosi bilaterali consiste nello scambio delle
prestazioni, nei contratti onerosi unilaterali nella prestazione ricevuta dal
debitore; anche i negozi astratti come la cambiale hanno una causa e precisamente la forma stessa. La causa dunque non è una categoria inutile,
nella sua duplice configurazione, oggettiva e soggettiva, come funzione
economico-sociale e come motivo individuale determinante. La causa, infine, deve esistere in astratto e in concreto: è a quest’ultima che fa riferimento il codice quando parla di causa illecita, mentre «la giurisprudenza
aggiorna incessantemente la nozione della illiceità»72. Altri sviluppi, nella
sintesi estrema e stringata della dispensa universitaria, non sono indicati:
ma ci danno comunque la traccia di uno strumento di controllo dell’autonomia dei privati che Vassalli è incline a conservare, nelle sue linee invero
tradizionali73.
d) Altri limiti all’autonomia privata possono essere dettati dalla legge.
Vassalli distingue tra regolamento negoziale (o convenzionale) e regolamento legale e ribadisce che l’ordinamento giuridico può potenziare la volontà dei privati oppure piegarla «a fini che sono posti dallo Stato»74. Anche
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 31.
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 52.
71
Di cui Vassalli cita sia la monografia Les mobiles dans les actes juridiques du droit privé, Paris
1928, sia il Cours de droit civil positif français, la cui trattazione definisce «come sempre penetrante e seducente»: Sommario, cit. nt. 60, p. 50 nt. 1.
72
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 62.
73
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, pp. 50-63.
74
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 7.
69
70
223
G. CHIODI
in questo caso troviamo conferma di un segmento conosciuto del suo pensiero: il riferimento principale ed esclusivo alla legge (non compaiono le
norme corporative) e la presa d’atto, senza ulteriori commenti, che la pubblicizzazione del diritto privato è un portato dell’evoluzione storica.
A dimostrazione di come Vassalli fosse orientato verso una teoria oggettiva del negozio giuridico, si può aggiungere che egli manifesta anche
dalla cattedra il suo dissidio nei confronti dell’eccessivo volontarismo del
progetto italo-francese in relazione al regime dell’incapacità naturale, che
viene ancora rigorosamente configurata come un requisito di esistenza del
contratto, mentre Vassalli, come già ricordato, aveva sostenuto la necessità
di modificare la concezione tradizionale, specchio di una concezione superata del negozio giuridico75.
malgrado le affermazioni che precedono, attestanti la consapevolezza
del variare delle condizioni storiche in cui l’autonomia privata si esercita,
Vassalli si professa ancora fedele alla concezione secondo cui «il negozio
giuridico è estrinsecazione di autonomia privata» e tra essi i contratti «sono
i negozi nei quali massimo è il potere confermativo della volontà privata»76.
Certo, la «partecipazione statuale ai negozi giuridici privati» non può essere
minimizzata77; la rilevante espansione dell’interventismo pubblico (giudiziario o amministrativo) nella formazione dei negozi giuridici non può essere sottaciuto. Quando ciò accade, come nei contratti collettivi di lavoro,
previsti dalla legge 3 aprile 1926, Vassalli dubita persino che si possa essere
ancora dentro alla sfera del contratto. Con una professione di fede che non
sorprende, data l’adesione ad un paradigma individualistico riveduto, ma
in cui non c’è spazio per la dimensione collettiva, Vassalli dichiara che «gli
effetti non sono quelli dei contratti: non si regolano interessi propri delle
parti contraenti, ma dalle associazioni legalmente riconosciute sono regolati
interessi di tutti gli appartenenti alla categoria» e che «porre norme obbligatorie per soggetti diversi dalle parti contraenti non è più esplicazione del
diritto soggettivo privato, quale si ha ne’ contratti, ma è esplicazione di un
potere pubblico»78. Senza calcolare che nella predisposizione delle norme
possono intervenire anche altri soggetti pubblici (magistratura del lavoro,
organi corporativi) e che nel formulare le norme stesse gli interessi delle
parti sono subordinati agli interessi superiori della produzione (dich. IV Carta
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, pp. 44-47. Cfr. supra, nt. 12.
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 56.
77
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 11.
78
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 19.
75
76
224
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
del lavoro, art. 16 legge 1926)79. Ciò nonostante, anche i contratti collettivi
meritano di essere considerati contratti, benché di diritto pubblico80, e
quindi materia di diritto civile. La conclusione del discorso si attesta nei binari già noti del pensiero di Vassalli: «è determinazione di diritto positivo
stabilire fin dove la nozione e la disciplina contrattuale possano protendersi»81. In definitiva, la sistemazione di Vassalli, pur da cenni necessariamente incompleti, si delinea come assestata su una linea critica rispetto al
dogma della volontà, ma nel contempo non disposta a fare a meno delle
ultime elaborazioni della cultura giuridica francese.
Di notevole interesse è anche il Corso sulle obbligazioni svolto nel precedente anno accademico 1932-1933. La trattazione, stavolta, è più ampia e
distesa, con quello stile elegante e conciso che era il contrassegno dello
scrittore. A parte il fatto di contenere un’ampia disamina delle obbligazioni
naturali, in cui Vassalli prende anche partito contro Josserand, schierandosi
per una concezione molto aperta «nel tempo e nello spazio», e poco statualista, del ruolo del giudice nell’individuazione dei casi di rapporto giuridico naturale82, la ragione che fa apprezzare particolarmente questo testo
sta nel fatto che esso contiene critiche mirate e severe al progetto italofrancese, di cui non avevamo conoscenza da altre fonti e che riguardano la
disciplina delle promesse al pubblico e delle promesse unilaterali83, che nello
stesso periodo viene strenuamente difesa da Ascoli84. È interessante anche
notare che, a distanza di pochi anni da Arte e vita, Vassalli conferma la sua
apertura nei confronti della risoluzione per eccessiva onerosità sopravveVASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 20.
Cfr. già VASSALLI, Arte e vita nel diritto civile, cit. nt. 44, pp. 407-408; ID., Diritto civile (Parte
generale delle obbligazioni), Lezioni raccolte dal dott. mario Stolfi, Anno accademico 19321933, Edizioni a cura del Gruppo universitario fascista dell’Urbe, Roma s.d., pp. 250-254.
Non diversamente già ID., Arte e vita nel diritto civile, cit., pp. 407-408.
81
VASSALLI, Sommario, cit. nt. 60, p. 20.
82
VASSALLI, Diritto civile (Parte generale delle obbligazioni), cit. nt. 80, p. 162 (a conclusione di
un excursus lungo più di cinquanta pagine – pp. 109-162 – che dal diritto romano arriva
fino alle fresche e apprezzate pagine di Josserand): «Ammettiamo cioè che il giudice nella
ricerca dei singoli casi di obbligazione naturale possa anche tenere conto di principi, che
sono fuor del diritto positivo italiano, ma che si sono sviluppati nello svolgimento storico
del diritto, e che sono accolti nelle legislazioni di popoli che hanno bisogni corrispondenti
al nostro e che sono in condizioni di civiltà simili a quelle che noi abbiamo raggiunto. il
giudice quindi, con un attento esame del diritto nel tempo e nello spazio, potrà determinare
i casi in cui il legislatore avrebbe negato al creditore l’azione, ammettendo soltanto la soluti
retentio in caso di volontario adempimento da parte del creditore».
83
VASSALLI, Diritto civile (Parte generale delle obbligazioni), cit. nt. 80, pp. 174-187.
84
Cfr. supra, nt. 18.
79
80
225
G. CHIODI
nuta85: uno degli ineludibili problemi nella riforma del diritto delle obbligazioni che non a caso, in una nota lettera a Grandi dell’agosto 1939, Vassalli definirà come decisivo nell’orientamento politico di un nuovo del diritto
dei contratti86. È significativo che Vassalli dichiari apertamente la sua avversione per il dogma della volontà con queste parole: «è da avvertire che
il nostro legislatore non ha inteso con ciò di portare alla massima espressione il dogma della volontà, dal momento che assai numerose sono le disposizioni che impediscono ai privati di regolare i rapporti fra di loro come
meglio aggrada»87.
4. La solidarietà senza democrazia: Emilio Betti verso la costruzione di una nuova
legalità
Confrontata con gli altri interventi sul progetto italo-francese, la personalità di Betti spicca come diversa. Non è solo, la sua, una critica tecnica
al modo in cui è stato risolto un singolo problema o su come è stato concepito il più importante intervento di giustizia contrattuale, l’azione di lesione, anche per Betti fondata su parametri soggettivi e perciò di
problematica applicazione da parte del giudice, ma è anche un violento affondo metodologico e politico al progetto di ordine sociale sotteso al paradigma individualistico che il codice unico intende conservare attraverso
temperamenti solidaristici e agli strumenti concettuali utilizzati per confermare il modello. In una visione che lega sistema politico, sociale ed economico al diritto privato, per Betti è inconcepibile che il fascismo possa
VASSALLI, Diritto civile (Parte generale delle obbligazioni), cit. nt. 80, pp. 239-242. La motivazione è la stessa fornita nelle note a V. SImONCELLI, Istituzioni di diritto privato italiano. Terza
ed. riveduta e aumentata da F.E. Vassalli, Athenaeum, Roma 1921, nt. i, pp. 286-288.
86
La lettera di Vassalli a Grandi, del 14 agosto 1939, è conservata nell’Archivio Filippo
Vassalli (dove l’ho consultata); è pubblicata da N. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, Giuffrè, milano 2003, p. 194, 211 e BRUTTI, Vittorio Scialoja, Emilio Betti, cit.
nt. 59, p. 152; è esaurientemente commentata da CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt.
42, pp. 263-264.
87
VASSALLI, Diritto civile (Parte generale delle obbligazioni), cit. nt. 80, p. 246. La posizione, sostenuta in via d’interpretazione del codice civile del 1865, si riferisce in particolare all’art.
1104 che indica come requisiti di un accordo valido la capacità di contrattare, il consenso
valido dei contraenti, l’oggetto determinato che possa formare materia di convenzione, la
causa lecita per obbligarsi: «da tale disposizione chiaramente risulta che l’ordinamento
giuridico non riconosce alle parti la facoltà di conchiudere tutti quegli accordi che loro
piacciano, ma riconosce efficacia soltanto a quegli accordi fra privati che siano diretti a
conseguire un fine che l’ordinamento giuridico ritiene degno di protezione».
85
226
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
accettare un progetto di democrazia sociale non allineato ad un regime totalitario. La polemica, quindi, investe direttamente il rapporto tra i giuristi
e la politica, il liberalismo economico in un sistema totalitario, il codice civile. Per Betti, che prende sul serio i postulati della dittatura, al nuovo ordine
deve correlarsi anche il diritto privato dello Stato, con un ripensamento di
scopi e funzioni sostenuto da una robusta dogmatica. Il fascismo dovrà risolvere i problemi dell’abuso della libertà contrattuale e disegnare il diritto
delle obbligazioni da un’angolazione diversa, nell’orbita di un ordine economico e politico che ha abbandonato i canoni dell’individualismo democratico.
A ricostruire nel preciso contesto scientifico l’itinerario di Betti88, e a
mettere in rilievo i passaggi che trattano dei temi di questo contributo (idea
di unificazione, di codice, di legalità), giova riassumere le tesi affermate nei
suoi celebri attacchi al progetto italo-francese. Nel primo articolo, del 1929,
i punti fondamentali sono quattro89.
a) Scetticismo sul fatto che un codice possa avere più forza come modello se viene redatto e adottato da due nazioni: meglio il codice di uno
Stato solo, che sia migliore nella forma e nella sostanza.
b) Scetticismo sull’obiettivo dell’unificazione, sia quella intesa come ricostituzione di un nuovo diritto romano-comune («nobile speranza… da
relegare nel campo delle utopie»), sia quella italo-francese, motivata dalla
diversità culturale, economica, politica e sociale dei due Paesi. mentre come
finalità ideale l’unificazione sembra a Betti possibile, ma in materie differenti: quelle dove il «grande commercio ha creato specie di consuetudini
generali, espresse di solito nelle clausole di contratti-tipo» e il diritto internazionale privato90.
c) Una concezione antitetica di ciò che deve essere un codice civile: un
tutto organico «dominato da un unico spirito: non già un mosaico di di-
Sul quale la storiografia si è ampiamente intrattenuta: cfr. BRUTTI, Vittorio Scialoja, Emilio
Betti, cit. nt. 59, pp. 124-144, che dimostra la coerenza della polemica innescata da Betti
con la sua teoria del negozio giuridico e i retroscena del dialogo intessuto con il potere.
Cfr. anche ID., Emilio Betti e l’incontro con il fascismo, cit. nt. 2. In questa sede serve peraltro
riannodare alcuni fili del discorso bettiano che si saldano agli sviluppi di cui farò cenno
nei paragrafi successivi.
89
E. BETTI, Il progetto di un codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXVII (1929), pp. 665-668.
90
Su comparazione e uniformazione giuridica nella visione di Betti v. ora m. GRONDONA,
Emilio Betti e la comparazione giuridica: premesse per una discussione, in Dall’esegesi giuridica, cit. nt.
43, pp. 255-285 e ID. Il diritto comparato e la comparazione giuridica, cit. nt. 20.
88
227
G. CHIODI
sposizioni incoerenti raccattate di qua e di là»91. Un codice originale nei
contenuti; originale nella sistematica (e quindi munito di una parte generale
scientificamente all’altezza); originale nella forma (e quindi improntato alla
massima precisione dei concetti).
d) Avversione per le innovazioni realizzate, che «non si trovano punto
in armonia col principio fondamentale dell’autonomia dei privati»: azione
generale di lesione, potere di concedere dilazioni al debitore; abuso del diritto. In questa fase, tutto ciò suona come ingerenza indebita, in quanto
non accuratamente determinata, nel campo dell’autonomia privata.
Nel secondo articolo, del 1930, Betti, oltre a riprendere la polemica sul
modo di fare un codice («la riforma di un codice non va fatta pezzo per
pezzo ma – dato che ogni sistema legislativo costituisce un tutto organico
– va studiata da un punto di vista unitario») introduce ora apertamente l’argomento politico, giudicando quelli che, a suo modo di vedere, sono i veri
obiettivi dell’unificazione da parte francese: conservare e consolidare una
posizione di privilegio in Europa, difendendo i propri interessi politici ed
economici. E soprattutto respinge ora chiaramente, dal punto di vista metodologico, l’imitazione di modelli stranieri. Auspica pertanto un «codice
originale e di stampo italiano», sul modello del progetto di codice di procedura civile, sia quello di Carnelutti sia quello della Sottocommissione. In
verità, deve trattarsi di un codice che realizzi i postulati della dottrina fascista: che sappia «guardare in faccia la realtà odierna e le necessità nazionali»
e che sappia rispecchiare la nuova «struttura sociale», quella «struttura assolutamente nuova, destinata ad attuare la collaborazione fra le classi sociali
e la comune loro subordinazione alle superiori esigenze nazionali»92. Parole
inequivocabili e chiare sul rapporto che Betti intende instaurare tra la politica e il diritto, e significative della lotta contro l’individualismo francese,
come dimostra il richiamo del proprio articolo apparso sul Popolo d’Italia
del 30 gennaio 1929.
Nel terzo saggio, che appare sulla Rivista del diritto processuale civile di Carnelutti nell’annata del 1930, Betti approfondisce la polemica sul «diritto romano, dunque italiano»93: e quindi sul diritto romano alla Pothier e sul
Esigenza già fatta valere nell’articolo del 30 gennaio 1929 sul Popolo d’Italia, come ricordato anche da Betti nel suo terzo articolo del 1930 (nt. 93), p. 253 nt. 2.
92
E. BETTI, Sul progetto di un codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti. Postilla alla replica
del Sen. D’Amelio, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXVIII (1930), pp. 184-189 (p. 188).
93
E. BETTI, Ancora sul progetto di un codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti (Replica al
Sen. Scialoia), in «Rivista di diritto processuale civile», VII (1930), I, pp. 249-262.
91
228
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
dogma della volontà, che ha ispirato tutto il codice, anche nelle parti che
costituiscono le sue effettive innovazioni, come l’azione generale di lesione
dell’art. 22, attaccata stavolta perché fondata su un anacronistico presupposto volontaristico. Una critica definitiva, quella di Betti: consonante a quella
di altri autori, come si è visto, ma in Betti esposta in maniera più generale,
più radicale, più a livello di sistema che di singola soluzione. E torna amplificato, nella seconda parte dello scritto, il dissidio politico contro l’unificazione con la Francia, che si sdoppia in avversione contro la scienza giuridica
francese e avversione contro la struttura politico-economica della Francia.
Sul primo versante, dei francesi Betti salva solo Saleilles e pochi altri: per
il resto li considera dei meri esegeti, incapaci di costruzione dogmatica, e
quindi se «la mentalità dei giuristi, per quanto mentalità di eccezione, è tuttavia rappresentativa della mentalità della massa»94, li reputa del tutto inferiori
dal punto di vista scientifico, pratico e sociale rispetto ai giuristi italiani.
Sul secondo punto, quello del contrasto di «civiltà», Betti è ancora più
tranchant nell’attaccare un ordine economico che è rimasto individualistico
e liberale, plutocratico e democratico, statico e conservatore, mentre quello
del popolo italiano, desideroso di ricchezza, crescita demografica ed espansione internazionale, è incentrato sull’ordinamento corporativo, additato
come la nuova frontiera del progresso, per il fatto che «attraverso la collaborazione delle associazioni professionali e per mezzo di organi proprî subordina l’attività delle classi al controllo dello Stato e gl’interessi di categoria
alle superiori esigenze della produzione»95. Nessuna «affinità di civiltà», di
conseguenza: questa la conclusione logica del discorso. Resta solo «la convenienza politica», che però Betti, pur ostentando l’incompetenza dei giuristi a risolverla, si permette di mettere fortemente in dubbio: l’unione
legislativa che un tempo, dopo la guerra, si poteva comprendere, ora è un
obiettivo politicamente superato, e qui Betti ha buon gioco nel richiamarsi
ad una serie di esternazioni politiche, trascurate da Scialoja96.
Betti contesta dunque il paradigma del giurista agnostico, neutro e non
politicamente impegnato nella costruzione del diritto del suo tempo, nel
senso non tanto di alieno da giudizi di valore o da una politica del diritto,
quanto di refrattario a collegare l’intero ordine giuridico con la politica del
regime. Nelle sue pagine traspare, con la ben nota efficacia argomentativa
del polemista di rango, la tensione verso l’edificazione di un nuovo diritto
civile, nato sulle ceneri di un individualismo liberale al quale Betti rimproBETTI, Ancora sul progetto di un codice italo-francese, cit. nt. 93, p. 257.
BETTI, Ancora sul progetto di un codice italo-francese, cit. nt. 93, p. 258.
96
BETTI, Ancora sul progetto di un codice italo-francese, cit. nt. 93, pp. 260-261.
94
95
229
G. CHIODI
vera egoismo, scarsa sensibilità sociale, incapacità di risolvere i problemi di
una società di massa. Per l’adesione convinta al fascismo, egli si considera
un giurista intellettuale pronto a fornire il sostegno della sua preparazione
tecnica al regime, è alla ricerca del consenso del capo del governo, è desideroso di impegnarsi nella propaganda all’estero97, non vuole incarichi politici, ma offre la sua collaborazione per forgiare il nuovo diritto del
fascismo e quindi si impegna nella trasformazione del diritto civile secondo
i postulati fascisti. Un disegno politicamente e culturalmente orientato che
prende forma in singoli interventi e sfocia poi, al momento della collaborazione per la stesura del libro quarto, in un manifesto programmatico che
lascia molti segni nel testo e nella relazione del codice civile98.
Il grande aspetto della questione stava nel distacco del progetto dai postulati del fascismo: un codice che si poneva ancora nel solco dell’individualismo liberale e dell’ordine democratico, anche se il rapporto tra
individuo e Stato non era più basato su un neutrale patto di non interferenza, date le forti venature di solidarismo sociale del progetto, non era più
accettabile. La tematizzazione del rapporto tra nuovo ordine corporativo e
diritto delle obbligazioni non era mai stata espressa in forma così chiara,
diretta, addirittura plateale nella ricerca di consenso da parte del potere. Un
diritto delle obbligazioni, soprattutto, coerente con il fenomeno corporativo. Ora era proprio la giustizia sociale promessa dall’individualismo e dalla
democrazia ad essere messa sotto accusa e ad essere oggetto di un’operazione di riappropriazione. Le aperture solidali del progetto erano il frutto
di una prospettiva comunque orientata alla tutela del singolo individuo e
non dello Stato, corrispondenti ad un interesse comunque privato e non
nazionale, mentre già si prospetta alla mente di Betti un codice che rispecchi
un’economia regolata e controllata dallo Stato, nel quale l’individuo sia parte
di un tutto coordinato e dominato dallo Stato, passando dalla rispettabilità
in borghese alla rispettabilità in uniforme, si potrebbe dire usando parole di Emilio Gentile che così descrive la rigenerazione dell’uomo nuovo fascista99.
E. BETTI, Per le relazioni culturali italo-tedesche. Nota del S.C. (Adunanza del 17 giugno 1943),
Ulrico Hoepli, milano 1942-43 (Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Rendiconti, Cl.
di Lettere - v. LXXVI, fasc. II-1942-43), pp. 1-12.
98
E. BETTI, Per la riforma del codice civile in materia patrimoniale (fasi di elaborazione e mete da raggiungere), Nota del S.C., Ulrico Hoepli, milano 1940-41, pp. 301-381.
99
Di «appropriazione selettiva dei materiali della tradizione» ha acutamente parlato Pietro
Costa, ripreso da I. STOLZI, Fascismo e cultura giuridica, in «Studi storici», 55, gennaio-marzo
2014, 1, pp. 139-154 (p. 144). Non diversamente operarono i giuristi nel settore della politica sociale: STOLZI, Politica sociale e regime fascista, cit. nt. 50. Le formule di E. Gentile sono
tratte dal capitolo L’uomo nuovo del fascismo. Riflessioni su un esperimento totalitario di rivoluzione
97
230
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
La critica dura alla concezione a-temporale e a-storica del diritto delle obbligazioni, all’uso strumentale della romanità e dell’italianità, all’impiego di
categorie e princìpi ispirati al volontarismo, inconciliabili con l’anti-individualismo del fascismo, la simpatia per le posizioni antidemocratiche di
Georges Ripert, erano tutti elementi di una lotta condotta contro l’individualismo sociale di cui era orgogliosa rappresentazione il progetto. Con
esagerazioni, certo, come era nella personalità dell’autore, ma anche con
critiche ormai non eludibili. Non è un caso che l’attenzione di Betti si sposti
sul modo di conciliare interventi di giustizia contrattuale attraverso l’ingerenza discrezionale del giudice nei rapporti obbligatori e nell’autonomia
privata. Il punto era proprio quello di come coordinare dogmatica e politica,
la libertà di iniziativa economica con l’inquadramento del singolo nella nazione e la subordinazione degli interessi privati all’interesse economico nazionale. Betti aveva già individuato nella causa del contratto lo strumento
che avrebbe permesso di rappresentare la nuova funzione sociale del contratto, mentre l’azione di lesione era stata concepita dagli artefici del progetto italo-francese come un’azione di annullamento per vizi del consenso
e non di nullità per illiceità della causa100. La replica di Roberto De Rugantropologica, in ID., Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 239. Ulteriori
suggestioni nel volume L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, a cura
di P. Bernhard e L. Klinkhammer, Viella, Roma 2017.
100
Fondamentale E. BETTI, Il quarto libro nel progetto del codice civile italiano, in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXXVI (1938), I, pp. 537-570,
p. 541: «Quanto al merito della norma, è ovvio osservare che essa, col sottomettere all’apprezzamento discrezionale del giudice la stabilità e la configurazione del rapporto contrattuale, scardina, dall’un lato, l’autonomia privata nella sua funzione di determinare in modo
irrevocabile (art. 38) il contenuto del contratto e, dall’altro, non difende la vittima del negozio usurario, quando il consenso appaia dato all’infuori di ogni pressione (cfr. invece il
§ 138 cod. civ. ted.). Al contrario, da un punto di vista oggettivo, rispondente alle esigenze
dell’odierna coscienza sociale, dovrebbe essere decisiva nel trattamento del negozio usuraio
unicamente la illiceità della causa a prescindere dallo stato d’animo della vittima: illiceità
che importerebbe nullità del negozio». Betti disapprova anche la restrizione dell’azione
allo squilibrio economico eccedente la metà del prezzo di mercato, introdotta nel progetto
del libro quarto delle obbligazioni su pressione francese, ma accettata a denti stretti dai
giuristi italiani, come è scritto nel Rapport cit. supra, nt. 36. Del saggio di Betti è importante
anche la severa presa di posizione contro il dogma della volontà, «corollario della concezione individualistica de diritto naturale e del liberalismo» (p. 559). Nell’intervento processualistico del 1927 da cui si sono prese le mosse si trova un’altra preziosa spia delle
linee maestre su cui sarà costruito il libro quarto delle obbligazioni, grazie anche al contributo di Betti. Si tratta di concepire una più forte e sicura tutela del credito anche attraverso
un potenziamento del processo di esecuzione. Tale esigenza «mentre segna una benefica
reazione a quel vago e confuso sentimentalismo che or ora si è detto, si presenta in pari
tempo come lo strumento più adatto a promuovere, nel campo del diritto privato, l’accresciuto senso di disciplina e di responsabilità, che si va manifestando, parallelamente, in altri
231
G. CHIODI
giero, l’appassionato cantore dell’individualismo (sociale), nel suo intervento conclusivo del 1931, è rassicurante nel riaffermare la fiducia nel volontarismo, ma appare disincantata e ingenua nel respingere brusche
discontinuità con il progetto di convivenza liberale (oltre che intollerante
agli occhi del suo interlocutore): l’esame sulla libertà del consenso assumeva
la funzione di un ulteriore requisito destinato ad aggiungersi alla prova dell’abuso dello stato di bisogno o dell’inesperienza altrui.
Nelle prese di posizione che seguiranno, Betti affinerà gli strumenti tecnici con cui affrontare la nuova fase del diritto delle obbligazioni e in particolare il problema dell’abuso della libertà contrattuale, ma accentuerà
anche gli elementi politici e ideologici del suo discorso, come emerge dalla
prefazione (datata 27 dicembre 1935) al Diritto processuale civile italiano edito
nel 1936, dove ricorre ancora una volta allo schema binario scienza giuridica-civiltà per affermare che l’unificazione è una pericolosa «cappa di
piombo» e non prelude ad un’illusoria solidarietà europea, messa in crisi
anche dalla politica anglo-americana101. 1936: in un anno decisivo per la
politica estera italiana (e per l’economia102), il progetto del libro delle obbligazioni cambierà forma, ma non pelle. Se per Betti esso non è nient’altro
che «un’edizione riveduta e corretta del codice del ’65», anche per mossa
sarà «stasi dello spirito rivoluzionario»103 nell’affrontare le sfide di una società di massa.
campi» (BETTI, Osservazioni sul Progetto di Codice di Procedura Civile, cit. nt. 1, p. 138). Da non
trascurare anche l’avversione di Betti per disposizioni poco tassative che attribuiscano al
giudice un potere discrezionale: non è ostilità al potere discrezionale, ma necessità di una
sua delimitazione. È viceversa espressione di rigetto totale quella di F. FERRARA, Rinnovamento del diritto civile secondo i postulati fascisti (1940), ora in ID., Scritti giuridici, II, cit. nt. 40, pp.
107-124 (pp. 122-123), con riferimento alla stessa norma del progetto preliminare.
101
E. BETTI, Diritto processuale civile italiano, II edizione, corredata della recente giurisprudenza, Società Editrice del “Foro Italiano”, Roma 1936 (ripr. anastatica Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2018), p. xiii. Cfr. BRUTTI, Emilio Betti e l’incontro con il fascismo, cit. nt.
2, p. 85; ma è di interesse anche l’indagine sul pensiero bettiano nel dopoguerra, sul quale
v. ora ID., La “dissoluzione dell’Europa”: ideologia e ricerca teorica in Betti (1943-1955), in Dall’esegesi giuridica, cit. nt. 43, pp. 43-100.
102
G. mARONGIU, La crisi del 1929 e le ripercussioni sull’Europa e sull’Italia negli anni ’30, in Il
Corporativismo nell’Italia di Mussolini. Dal declino delle istituzioni liberali alla Costituzione repubblicana, a cura di P. Barucci, P. Bini, L. Conigliello, Firenze University Press, Firenze 2018,
pp. 1-51. Per la politica internazionale v. infra, nt. 123.
103
BETTI, Ancora sul progetto di un codice italo-francese, cit. nt. 93, p. 262; L. mOSSA, Sul codice
delle obbligazioni (parte generale), in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle
obbligazioni», XXXVIII (1940), pp. 313-344, p. 314.
232
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
5. Il diritto delle obbligazioni nell’orbita del corporativismo: Parigi, luglio 1937
a) L’azione generale di lesione ancora nell’alveo del progetto italo-francese
A superare le secche della discussione sull’azione di lesione e su altre
rilevanti novità dell’interventismo giudiziale sociale accolto nel codice
unico, il richiamo alla dottrina fascista e al corporativismo si rivelò provvidenziale. Il corporativismo, in altri termini, si prestò a risolvere i problemi
lasciati aperti nell’agenda dei giuristi dalle fughe in avanti dei solidaristi democratici d’antan, ormai invisi al potere, ma anche dai riformisti del diritto
commerciale e dai positivisti ad oltranza. A tutti questi, anche se in realtà
esistevano valide alternative sul fronte dei solidaristi, si offriva una soluzione per uscire dall’impasse. Attratta nell’orbita della solidarietà corporativa
e del contemperamento degli egoismi tra classi contrapposte sotto la ferrea
direzione dello Stato, l’azione meritava di essere conservata: la sua giustificazione non doveva più fare riferimento alla protezione del contraente debole, pericoloso residuo di una concezione democratica dei rapporti privati,
bensì alla necessità di reagire allo sfruttamento in un ordinamento totalitario, che tra i suoi scopi comprendeva la pace sociale assicurata da uno Stato
forte e autoritario. Essa doveva inoltre essere generale, per superare la facile
obiezione che una sua specificità ristretta ad alcuni contratti occultasse la
mistica egualitaria a favore di determinate classi di individui: era precisamente l’obiezione che Ripert aveva sollevato in Francia, proponendo un
salvifico ritorno alla morale nel diritto delle obbligazioni104. Il corporativismo è il tocco di mida che serve a incanalare in nuove direzioni un dibattito
che rischiava lo stallo, ad educare verso la trasformazione dei concetti e
delle categorie della tradizione, adattate ad una visione autoritaria destinata
a superare le presunte ingiustizie dell’individualismo. È precisamente questo
il salto di qualità politico che si nota in questo filone della produzione scientifica, destinato ad assumere proporzioni più vaste nel corso degli anni
Trenta: l’assorbimento nel quadro del corporativismo fascista delle istanze
di giustizia sociale sorte in seno all’individualismo borghese liberale, al servizio di una concezione politica diametralmente opposta. Il corporativismo,
con la sua promessa di libera iniziativa economica, ma anche di equità, di
pace sociale, di disciplina nei rapporti contrattuali di lavoro, una volta esteso
ai rapporti contrattuali commerciali di massa, diventa la nuova etica da osservare anche nei rapporti contrattuali individuali.
Vediamo alcune tappe di questa lenta marcia verso il libro delle obbliRIPERT, Le régime démocratique et le droit civil moderne, cit. nt. 25, pp. 168, 174, 252 (con riferimento alla «mystique démocratique» che deforma la morale).
104
233
G. CHIODI
gazioni e valorizziamo, innanzitutto, una fonte che è rimasta finora un poco
se non del tutto appartata nella storiografia e che mi sembra invece un documento di spessore nel campo che cerchiamo di illustrare in queste pagine.
Si tratta della Semaine internationale de droit di Parigi del luglio 1937.
Nella relazione di Alberto montel, a tacitare i dubbi di chi, come Scaduto, Salis e Funaioli, aveva auspicato la cancellazione dell’azione generale
di lesione dal libro quarto del codice civile, la presa di distanza dal vecchio
ordine liberale nel nuovo ordine corporativo è utilizzata apertamente e si
traduce nella condanna dell’individualismo sconfinato, abbandonato dagli
stessi giuristi liberali, e nell’auspicio che l’azione generale di annullamento
per lesione sia mantenuta, con opportuni ritocchi volti ad eliminarne alcune
incongruenze rilevate dai giuristi, nel codice civile fascista:
Oggi più che mai si sente che sono superati i principii strettamente individualistici come è quello dell’assoluta autonomia della volontà dei
contraenti; oggi più che mai si tende a porre un limite ed un contenuto
sociale alla libertà dei privati e ad attribuire ai diritti individuali l’essenza
di diritti a limite e contenuto sociale. Questo movimento di reazione al
vecchio indirizzo è in Italia affrettato ogni giorno più dalla legislazione corporativa; è evidente che l’azione dei contratti collettivi e l’attività normativa
delle corporazioni tendono e tenderanno sempre più a temperare e a livellare gli impulsi egoistici dei contraenti, ed a garantire il singolo contro
la pressione e le coalizioni di gruppi economicamente più forti. Nel sistema si inquadra perfettamente un principio del genere di quello dell’art.
22 del progetto105 [corsivo mio].
In questa prospettiva, a montel, che parla in un convegno internazionale portandovi la voce dell’Italia corporativa, appare ancora del tutto giustificata la configurazione soggettiva dell’azione di lesione del progetto
italo-francese (ora progetto del libro quarto delle obbligazioni), che serve
a frenare la discrezionalità del giudice e non ad aumentarla, così come gli
appare corretta la qualifica di azione di annullamento e non di nullità, e del
pari giustificato il potere di scelta tra annullamento e revisione del contratto
(sotto specie di riduzione della prestazione economicamente sproporzioA. mONTEL, La revisione dei contratti ad opera del giudice. Relazione presentata alla Semaine
internationale de droit, tenutasi a Parigi nel luglio 1937, in «Giurisprudenza italiana e La
Legge», LXXXIX (1937), cc. 218-228 (224-225). Già A. GRECHI, Proprietà e contratto nella
evoluzione sociale del diritto del lavoro, Casa Editrice Poligrafica Universitaria, Firenze 1935, p.
119, aveva osservato che il principio corporativo non poteva non incidere sull’estensione
di istituti privatistici come la rescissione per lesione.
105
234
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
nata). Il riutilizzo dei materiali del passato messi al servizio di un’idea diversa arriva al risultato paradossale di giustificare la scelta volontaristica del
progetto italo-francese, nel momento in cui esso era sul tavolo della Commissione delle Assemblee legislative106 per essere esaminato; a pochi mesi
dal suo rigetto, senza che se ne presagisse ancora l’esito, malgrado gli scoperti segnali.
b) La revisione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta
Nella riunione parigina, tuttavia, il problema centrale era rappresentato
dall’ammissione del potere del giudice di risolvere o rivedere i contratti a
termine e di durata in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta per eventi
straordinari non previsti né prevedibili: un potere di intervento del giudice
che era stato decisamente escluso in Italia dal progetto italo-francese e dal
progetto del libro quarto del 1936.
Punto focale di una nuova concezione del rapporto tra i poteri pubblici
e privati in campo economico, il problema è trattato da un numero ampio
di relatori, che danno conto soprattutto delle soluzioni giurisprudenziali dei
loro Paesi, nel silenzio dei rispettivi codici107. Laddove la legislazione o la
giurisprudenza, come accade in Inghilterra, Germania, Svizzera, Ungheria,
Norvegia, Polonia, concedono la risoluzione oppure la revisione delle clausole contrattuali di determinazione del prezzo al posto delle parti, un dato
emerge ad evidenza: ciò viene fatto allo scopo di limitare il principio della
forza obbligatoria del contratto (pacta sunt servanda) in applicazione della
clausola generale di buona fede. Essa è il canale attraverso il quale passano le
istanze di socializzazione o di moralizzazione dei rapporti contrattuali.
Il relatore francese Jean-Paul Niboyet (1886-1952), professore di diritto
internazionale privato alla Faculté de droit di Parigi e direttore della Revue critique de droit internationl privé, afferma tuttavia che in Francia il legislatore,
nei casi in cui è intervenuto a derogare al principio pacta sunt servanda, lo ha
fatto nell’interesse dell’economia nazionale anziché dell’interesse individuale,
e comprende bene come in Italia il sistema corporativo possa agevolare
l’ammissione di un rimedio di revisione dei contratti. Conclude però la sua
momento topico del processo di politicizzazione del codice civile: cfr. RONDINONE,
Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 86, pp. 115-116 e tutto il cap. 4.
107
Travaux de la Semaine internationale de droit, Paris 1937, II, La révision des contrats par le juge,
Librairie du Recueil Sirey, Paris 1937: J.-P. NYBOYET, Rapport général, pp. 1-13. Per la Francia
parla anche il relatore HENRI LALOU, La révision des contrats par le juge en droit français, pp. 4555. Presiede i lavori G. RIPERT, Conclusions, pp. 215-217. I rapporteurs sono quattordici, in
rappresentanza di Germania, Inghilterra, Francia, Ungheria, Italia, Libano, Norvegia, Polonia, Svizzera, Turchia, Yugoslavia, Giappone, Romania e di nuovo Svizzera.
106
235
G. CHIODI
relazione generale dichiarandosi fermamente contrario a questa forma di
intervento dei pubblici poteri in campo contrattuale. Non è la nozione di
buona fede ad essere contestata, ma il potere del giudice di richiamarsi ad
essa per revisionare il contratto, perché la funzione sociale di ristabilire
l’equilibrio contrattuale spetta solo al legislatore e non al giudice, anche se
la via giudiziaria è incomparabilmente più flessibile, più rapida e più adatta
agli «arabeschi della vita giuridica»108.
ma c’è un’altra ragione di fondo esplicitata, che emerge prepotentemente anche nelle pagine di altri autorevoli civilisti francesi, come Capitant,
Ripert, Josserand: il principio della forza obbligatoria dei contratti è prima
di tutto imposto dalla morale. meglio affrontare il sacrificio che può costare
il mantenere la parola data, che cedere alla troppo libera revisione dei contratti: la responsabilità morale è più forte del danno economico e corrisponde essa stessa all’interesse sociale della sicurezza del mercato. Lo Stato
non deve dunque spingersi fino al punto di «rompere» i contratti109. Questa
forma di intervento pubblico, che sia attuato direttamente dal legislatore o
sia delegato al giudice, è disapprovato con accenti ancor più roboanti nello
stesso consesso dal presidente Ripert: un Ripert che ha mutato avviso sulla
revisione del contratto rispetto al suo importante libro del 1927110 e che
ora si lancia con parole di fuoco contro il rischio di dare al giudice poteri
discrezionali così ampi, si dichiara contrario ad interventi giudiziali in nome
dell’ordine pubblico economico, paventa che, a forza di intervenire per annullarli o revisionarli, nessuno più creda alla forza obbligatoria dei contratti111. La materia, da meramente tecnica, si fa quindi politica e diventa
lava incandescente. Può lo Stato estendere il suo dirigismo a dominare in
modo totalitario l’economia? Non è questo un risultato che oltre a produrre
instabilità economica comporta una tirannia economica?
In quel momento l’Italia non si trovava più in asse con la posizione
francese: è il solito montel a rivelarcelo, quando afferma l’opportunità che
lo Stato intervenga a tutelare la parte lesa anche in caso di sopravvenienza.
Non si è verificato in questa situazione un abuso della disparità di potere
della controparte al momento della conclusione del contratto, ma la coscienza
sociale e l’equità impongono che, di fronte a circostanze straordinarie e imNYBOYET, Rapport général, cit. nt. 107, p. 12.
NYBOYET, Rapport général, cit. nt. 107, pp. 12-13.
110
G. RIPERT, La règle moral dans les obligations civiles, deuxième édition, Librairie générale de
droit et de jurisprudence, Paris 1927, pp. 155-162. Cfr. invece ID., Le régime démocratique et
le droit civil moderne, cit. nt. 25, pp. 283-302.
111
RIPERT, Conclusions, cit. nt. 107, pp. 215-217.
108
109
236
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
prevedibili, lo Stato intervenga, concedendo al giudice il potere di revisionare le clausole dei contratti di durata. Sono parole che montel riprende
da Asquini, autore della relazione al progetto Vivante di codice di commercio, nella parte concernente il contratto di appalto. Si tratterebbe quindi
di estendere un rimedio già previsto in sede di riforma del codice di commercio. Dal punto di vista razionale, e cioè di analisi dei comportamenti
dei contraenti, inoltre, montel fa un’altra interessante osservazione: il fatto
che il codice preveda la revisione per eccessiva onerosità, salvo patto contrario (perché l’idea è di farne una norma dispositiva e non imperativa) è
uno sprone per le parti a riflettere sull’ipotesi della sopravvenienza e a dettare eventualmente un regolamento autonomo, diverso da quello previsto
dalla legge. montel, comunque, giustifica la revisione del contratto anche
con un argomento ideologico: essa corrisponderebbe, infatti, al mutato ordinamento sociale e politico dell’Italia fascista112.
Alla visione francese si contrappone dunque quella del corporativismo
italiano. ma anche quella della Germania nazista, che a Parigi viene esposta
da Erich Volkmar (1879-1951), direttore nel ministero della Giustizia di
Berlino, con parole che precorrono in diversi punti la più nota discussione
che si terrà a Roma nel 1938, davanti a Vassalli e ad Asquini, e che sviluppano un programma già esposto da altri giuristi tedeschi e dall’autore stesso
nel 1935: quella di un diritto delle obbligazioni distante dall’individualismo
liberale del BGB, in cui il contratto, a detta dell’autore, è scolpito nel marmo
come qualcosa di statico e di non modificabile dal giudice nel corso della
sua esecuzione113.
La concezione nazionalsocialista, viceversa, è dinamica114: per essa il
rapporto obbligatorio intercorre tra due parti che non sono più avversari
contrapposti, come nel sistema individualista, ma compagni associati in
vista della realizzazione di uno scopo fissato di comune accordo, legati
dall’obbligo di fedeltà reciproca. Tale obbligo comanda certo l’osservanza
del contratto, perché il nazionalsocialismo rispetta l’iniziativa privata, ma
pretende anche che l’attività economica non sia esercitata per fini egoistici,
bensì sia animata dallo spirito della collettività. Il creditore, quindi, non può
mONTEL, La revisione dei contratti, cit. nt. 105, c. 227.
E. VOLKmAR, La révision des contrats par le juge en Allemagne, in Travaux de la Semaine internationale de droit, cit. nt. 107, pp. 15-31 (pp. 27-31). Sul personaggio cfr. L. GRUCHmANN,
Justiz im Dritten Reich 1933-1940. Anpassung und Unterwerfung in der Ära Gürtner, 3. verbesserte
Auflage, R. Oldenburg Verlag, münchen 2001, pp. 242-244; oltre alla scheda personale in
bundesarchiv.de.
114
Sui rapporti tra concezione fascista e nazionalsocialista del diritto v. i riferimenti bibliografici infra, nt. 118.
112
113
237
G. CHIODI
pretendere che il rischio contrattuale sia sopportato dal debitore in conseguenza del sopravvenire di eventi straordinari e imprevedibili. La fedeltà
alla collettività impone al creditore obblighi di cui, in un sistema liberale, non
sarebbe gravato. Il rapporto obbligatorio evolve ed è, come testualmente
dichiara Volkmar, un fatto organico suscettibile di sviluppo a seguito di avvenimenti nuovi di cui è il giudice, organo della collettività, a dover tenere
conto. Volkmar precisa che, in questa concezione, la fedeltà al contratto
muta di significato e non esclude la modifica delle sue clausole per adeguarlo al mutamento delle circostanze.
Il diritto delle obbligazioni nazionalsocialista va tuttavia ancora più in
là e prevede la concessione all’autorità giudiziaria di poteri di controllo dell’autonomia privata ancora più invasivi e penetranti. Se il diritto privato liberale impone al giudice di applicare il contratto alla lettera, così come è
scritto, nel rispetto della volontà delle parti, nell’ordine del futuro viceversa
il giudice dovrà valutare se esso corrisponda o meno all’interesse economico
della collettività. Il nuovo giudice non dovrà limitarsi ad interpretare e ad applicare la legge, ma dovrà intervenire attivamente nella vita economica, valutando se un determinato assetto di diritti e di obblighi corrisponda al
sentimento popolare o viceversa appaia ingiusto e antisociale.
Il giudice, di conseguenza, si vede conferire non solo il potere di revisione di un contratto divenuto economicamente iniquo per circostanze sopravvenute straordinarie e imprevedibili, ma anche di annullamento o
revisione delle clausole immorali nel senso appena descritto, perché contrarie al sano sentimento popolare o agli interessi dell’economia generale.
La dirompente proposta che segue all’ammissione della revisione per
sopravvenienza non è discussa dagli altri relatori. Genera invece sconcerto
il fatto che si possa affermare la fedeltà al contratto secondo il principio
pacta sunt servanda e contemporaneamente ammettere che esso possa essere
rifatto dal giudice quando non è più conveniente per il debitore: una sorta
di assicurazione contro i calcoli economici errati di un contraente. ma Volkmar nella sessione finale, di fronte all’obiezione postagli da un delegato
olandese, interviene a chiarire che non è questo lo scopo della revisione
giudiziale, che si appoggia in realtà sulla clausola di buona fede e non su
una volontà fittizia e immaginaria delle parti: essa impone di rivedere il
piano economico stabilito nel contratto solo di fronte ad avvenimenti straordinari e imprevedibili e ne affida il compito al giudice. Il relatore intende
così fugare il timore che poteri così vasti possano rendere totalmente instabile il mercato economico: al punto da lasciare sullo sfondo la curvatura
238
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
politica del suo ragionamento115. A chiudere il convegno è però Ripert, con
la sua perorazione a favore del mantenimento rigoroso del principio della
forza obbligatoria del contratto, derivato dall’antichità classica e dal cristianesimo116.
I cenni che precedono sono utili a comprendere a quali cambiamenti
stava andando incontro il diritto delle obbligazioni e dei contratti, anche
fuori dal campo dei rapporti di lavoro, e segnalano insieme alle consonanze
anche le differenze tra la concezione fascista e nazionalsocialista del diritto
dei contratti, che si manifesteranno pure in seno al Comitato giuridico italogermanico, creato dai governi delle due dittature per rendere più strette le
relazioni tra i due Paesi e l’uniformità del loro diritto in vari campi, compreso quello delle obbligazioni117. Si vuole ora un’autonomia privata controllata dallo Stato e dai suoi organi. Ciò non significa soppressione
dell’iniziativa privata, degli scambi contrattuali e del principio pacta sunt servanda, ma attribuzione allo Stato del potere di sindacare l’esercizio dell’autonomia privata per valutare se essa corrisponda agli scopi dell’economia
nazionale. Non necessariamente, quindi, il controllo può portare ad una
compressione dell’autonomia privata118. Ciò che importa ora è la tutela degli
interessi della collettività e non dei soli interessi individuali, nel quadro di
un’economia totalitaria diretta dallo Stato forte: la percezione del cambiamento in corso traspare anche dalla documentata voce sul contratto scritta
da Giuseppe Osti per il Nuovo Digesto Italiano, opus magnum enciclopedico
del regime sotto l’accorta direzione di D’Amelio, in un discorso che si
sforza di conciliare l’autonomia privata (in una versione già riveduta e corretta rispetto alla tradizione liberale pura) con l’irruzione del principio corVOLKmAR, Intervention, in Travaux de la Semaine internationale de droit, cit. nt. 107, cit. nt.
107, p. 214.
116
RIPERT, Conclusions, cit. nt. 107, p. 217.
117
Cfr. infra, § 6.
118
La tesi del liberalismo economico del diritto nazionalsocialista e fascista dei contratti,
opposto all’affossamento del liberalismo politico, è la chiave interpretativa proposta da
A. SOmmA, Autonomia privata e struttura del consenso contrattuale. Aspetti storico-comparativi di una
vicenda contrattuale, Giuffrè Editore, milano 2000, pp. 344-353; ID., Parallele convergenti. La
comune matrice del fascismo e del liberismo giuridico, in Rivista critica del diritto privato, XXII, n. 1,
marzo 2004, pp. 61-88; e diffusamente nella monografia I giuristi e l’Asse culturale RomaBerlino. Economia e politica nel diritto fascista e nazionalsocialista, Vittorio Klostermann, Frankfurt
am main 2005, specialmente pp. 211-234, 716-722. Sull’ambiguità dell’interventismo statuale fascista, che distava dalla democrazia sociale e «si presentava necessariamente sussidiario dell’iniziativa privata, ma che nondimeno ambiva a presentarsi come rottura della
liberale armonia prestabilita» v. le osservazioni di B. SORDI, La resistibile ascesa del diritto pubblico dell’economia, in «Quaderni fiorentini», 28 (1999), II, pp. 1039-1075 (p. 1051, 1053).
115
239
G. CHIODI
porativo119.
Il regime nazionalsocialista, rispetto a quello fascista, si affida tuttavia
anche all’azione elastica di un organo come il giudice, che può, molto più
della legge, snidare e colpire forme antisociali di esercizio dell’autonomia
privata. Il giudice si vede assegnato un compito di valutazione discrezionale,
che in Italia il fascismo (nel campo che qui interessa) respingerà, riservando
ad altri organi dello Stato le decisioni di politica economica e lasciando al
giudice interventi correttivi di minor portata e rigidamente delimitati dallo
Stato stesso. Non tanto per riaffermare il principio di legalità in senso liberale e garantistico, ma perché preferirà affidarsi alla certezza del comando
statuale nel perseguimento dei propri fini anche in campo economico, anziché all’azione mutevole e incontrollabile del magistrato: al primato della
politica e dello Stato sull’azione fluida, ma oltre certi limiti non disciplinabile del giudice; alla volontà dello Stato piuttosto che alla volontà del magistrato120. Anche questa sfumatura di senso traspare del resto dalla celebre
(e in quel momento risolutiva) posizione di mariano D’Amelio, espressa
sulla Nuova Antologia del marzo-aprile 1937 (e quindi a pochi mesi di distanza dalla Settimana parigina e con conoscenza di prima mano delle velleità della dittatura nazionalsocialista), in un articolo che sblocca, per così
dire, il corso dei lavori preparatori del codice civile, da un lato fermando
l’avanzata dei militanti estremisti «di sinistra», che volevano fare a meno di
un codice civile a favore di princìpi generali elastici (con la concessione tattica del valore legislativo della Carta del lavoro, «non legge, ma superlegge;
119
G. OSTI, Contratto (Concetto, distinzioni), in «Nuovo Digesto Italiano», IV (1938), pp. 3670, pp. 48-52. In queste pagine il civilista bolognese, che collaborerà alla stesura del libro
quarto delle obbligazioni, adotta una concezione ‘relativa’ dell’autonomia della volontà,
ormai distante dall’individualismo ispiratore del codice civile del 1865, e sottolinea, riferendosi soprattutto ad Ascarelli, il ruolo incisivo assunto dalle norme corporative nel limitare l’autonomia privata nei contratti di lavoro e nei contratti d’impresa; anche se resta,
a suo avviso, una sfera, quella dei contratti individuali, in cui la disciplina corporativa non
trova applicazione. Per P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè editore, milano 2000, p. 212, questa percezione dei fatti economici si ricollega anche
all’impatto del maestro Giacomo Venezian.
120
Non diversamente (ma con motivazioni differenti rispetto alla politica economica) nel
campo della giustizia penale: P. COSTA, Pagina introduttiva (Il principio di legalità: un campo di
tensione nella modernità penale), in «Quaderni fiorentini», 36 (2007), Principio di legalità e diritto
penale (per mario Sbriccoli), t. I, pp. 1-39 (16-17); G. NEPPI mODONA, Principio di legalità e
giustizia penale nel periodo fascista, ibidem, II, pp. 983-1005; nello specifico v. anche B. BUSHART,
Il diritto penale totale. «Sistema di valori» o mera repressione?, in Il diritto del duce, cit., pp. 115-125
(pp. 118-120) e la vasta ricognizione di C. STORTI, Ancora sulla legalità del fascismo, in L’Italia
ai tempi del ventennio fascista. A ottant’anni dalle leggi antiebraiche tra storia e diritto, a cura di m.
D’Amico, A. De Francesco, C. Siccardi, FrancoAngeli, milano 2019, pp. 43-102.
240
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
cioè ispiratrice al giudice di più eque e moderne applicazioni dei codici»),
e scuotendo i moderati «di destra», che volevano attendere tempi più maturi
per il codice civile, affrettando il crepuscolo dei codici vaticinato da Schmitt;
dall’altro affermando il principio della certezza del diritto, come corollario
della statualità del diritto nell’ordinamento fascista, contro il Führerprinzip
e l’idea del giudice collaboratore della legge121. Si deve aggiungere un particolare di straordinario rilievo, messo in luce dalle ricerche di Rondinone:
l’adesione manifestata a queste posizioni dall’Assonime, attraverso il suo
direttore generale Luigi Biamonti122.
6. Il «pendolo della storia». Dal codice unico italo-francese all’unificazione italo-germanica del diritto delle obbligazioni: le larghe intese di Roma (1938) e Vienna (1939)
Nel 1938 al progetto di unificazione italo-francese succede un altro ambizioso progetto di unificazione del diritto patrimoniale: un diritto uniforme delle obbligazioni per le due nazioni alleate. Su questo cambio di
rotta è opportuno riflettere, facendo parlare i documenti. Quando il tema
che abbiamo appena incontrato a Parigi sarà ripreso nel 1939 a Vienna, lo
scenario politico è cambiato da tempo. Il progetto italo-francese è accantonato, infatti, nel dicembre 1937: i politici sono usciti allo scoperto nel dichiarare la sua inattualità. La vicenda è nota ed è sufficiente accennarvi per
sommi capi. Il 4 dicembre 1937 il Guardasigilli Arrigo Solmi annuncia il
m. D’AmELIO, La vocazione del secolo XX alla codificazione, cit., p. 169: «Tutto il diritto
emana dallo Stato. Cade, per tanto, quella allucinante organizzazione superstatale, per la
quale si è ritenuto che il diritto, e, quindi, i codici debbano essere espressione, non dello
Stato ma della Comunità, che ama manifestare la sua volontà legislativa, in forma più
sobria e meno precisa, salvo al giudice, membro della stessa Comunità, di compiere l’opera
del legislatore, concretandola nel momento stesso che l’applica alla fattispecie». Sul rapporto tra questo scritto e il principio di legalità cfr. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 86, pp. 136-137; P. CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit., pp. 195-197; G.
CIANFEROTTI, Ufficio del giurista nello Stato autoritario ed ermeneutica della reticenza. Mario Bracci
e Piero Calamandrei dalle giurisdizioni d’equità della grande guerra al codice di procedura civile del
1940, in «Quaderni fiorentini», 37, (2008), pp. 259-323 (pp. 282-283).
122
Cfr. il memoriale sulla riforma del codice civile (28 luglio 1937), che si trova nell’Archivio del Conte Giuseppe Volpi di misurata, riprodotto in RONDINONE, Storia inedita della
codificazione civile, cit. nt. 86, pp. 141-142. Sull’Associazione si può vedere ora la collana Tra
imprese e istituzioni. 100 anni di Assonime, in particolare, pur se con uno sguardo molto generale al periodo qui considerato, G. VISENTINI-C. CARBONI, Assonime: una lobby istituzionale,
vol. 6, con la collaborazione di L. Craia, I. monticone, m. Socci, E. Giorgini, Laterza,
Roma-Bari 2011, pp. 5-24.
121
241
G. CHIODI
ritiro del progetto del quarto libro123. L’obiettivo è quello di approvare entro
il 1938 un Codice civile in tre libri e di «riservare la materia del quarto libro
a costituire il Codice delle obbligazioni e dei contratti, a somiglianza di
quanto è stato fatto in altre legislazioni straniere. In questo caso, si avrebbe
la possibilità di realizzare un’opera legislativa profondamente maturata e
rispondente alle nuove concezioni del diritto fascista. Tale testo potrebbe
essere compiuto nel termine di due anni da oggi; ed in tal modo, pur con
questa necessaria rielaborazione, si arriverebbe a completare l’opera codificativa con qualche anticipo sulle dichiarazioni contenute nel discorso della
Corona dell’anno 1934»124. Questa preziosa testimonianza ci dice, dunque,
che l’idea di un diritto uniforme delle obbligazioni non è stata relegata in
soffitta: essa anzi, come si vedrà, fa parte di un nuovo assetto delle fonti
che non intende rinunciare al codice civile, a un separato codice unico delle
obbligazioni (nel senso che sarà chiarito) e, in questa fase, anche al codice
di commercio. Sono i contenuti politici del progetto italo-francese ad essere
scartati. ma un nuovo codice unico lo si vuole fare e, in questo stadio cruArchivio Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario 1922-43, b.
817, fasc. 500012/II: «È a riconoscere che l’attuale progetto preliminare, elaborato – come
si è premesso – in epoca ormai lontana, con altri criteri e più ristrette finalità, nell’intento
immediato di giungere ad una unificazione legislativa tra Italia e Francia, risulta oggi in
massima parte inadeguato alle reali esigenze della nuova codificazione fascista, ed anzi
quasi anacronistico per il diverso orientamento dei principi che lo ispirarono e che conducevano perfino all’assurdo di tacere completamente dei contratti di lavoro e dei contratti
collettivi. Si reputa perciò necessario ritirarlo anzitutto dalla Commissione parlamentare
e procedere quindi, ad opera del ministro, ad un completo rifacimento di esso, che tenga
precisamente conto del mutato clima politico, sociale ed economico». Il proposito è confermato alla fine dell’Appunto: «Il Libro quarto infine (Obbligazioni e contratti), che ha
bisogno di più profonda elaborazione, in rapporto col diritto creato dal Fascismo, dovrà
essere rifatto». Le tappe di avvicinamento alla Germania sono bene impresse, tra l’altro,
nelle memorie di Alberto Asquini, che sarà uno dei protagonisti di questa fase che ci accingiamo a descrivere. Sfogliando XXX Tricesimo, Editioni Anastatike, Istituto di Skriptura,
Roma-Paris-Bruxelles 1995, possiamo cogliere un arco temporale che dal fallito Patto a
quattro del 1933, attraverso la ripresa degli scambi italo-francesi nel 1934, porta all’apogeo
imperiale del 9 maggio 1936, al viaggio a Berlino del settembre 1937 e all’Anschluss del
febbraio 1938 (ibidem, pp. Ψ 29-30, 34, 36-37). La cronologia comprende anche: l’embargo
della Società delle Nazioni del 7 ottobre 1935, l’Asse Roma-Berlino del 23 ottobre 1936,
l’uscita dalla Società delle Nazioni l’11 dicembre 1937, la fondazione del Comitato per le
relazioni giuridiche italo-germaniche del novembre 1937, l’Accordo culturale tra Italia e
Germania del 23 novembre 1938.
124
Su questi testi cfr. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 86, pp. 148149; CHIODI, Un esperimento di diritto privato sociale, cit. nt. 6, pp. 37-38. Sull’opera legislativa
del ministro Arrigo Solmi, che include il rifiuto del progetto italo-francese, v. ora I. BIROCCHI, Solmi, Arrigo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani, XCIII (2018), pp. 221-226, con ulteriore bibliografia.
123
242
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
ciale dei lavori preparatori, in cui Solmi si dibatte contro problemi gravi,
non appare una bizzarria: quale smacco contrapporre come successo del
regime (e del guardasigilli) la nuova alleanza italo-germanica, rafforzata da
un’unificazione giuridica simbolica, in cui riversare i postulati delle dottrine
politiche totalitarie in campo economico.
I punti cardine del nuovo diritto uniforme delle obbligazioni vengono
messi a punto dal Comitato giuridico italo-germanico a Roma il 20-26 giugno 1938 e a Vienna il 7-12 marzo 1939. L’incontro tra la politica e il diritto
privato si celebra in queste due adunanze125. Nel resoconto che segue, tento
di riconsiderare queste fonti alla luce dell’itinerario proposto, cioè come
indice della nuova legalità di matrice autoritaria plasmata dai suoi artefici e
banco di prova per l’irruzione nel diritto privato di tutto un lessico corporativo (collaborazione, nazione, interesse nazionale) anche di ascendenza
rocchiana, che è l’impronta del fascismo anche in questo campo dell’esperienza giuridica.
Nella capitale, sotto la presidenza del ministro Solmi, si tesse la tela di
un progetto che poi non andrà in porto: si approvano cioè delle risoluzioni
o linee programmatiche, schemi di princìpi generali o fondamentali, a cui
dovrà ispirarsi il nuovo diritto delle obbligazioni italo-germanico, conformato alle direttive dei regimi fascista e nazionalsocialista. Decisivo per il
nostro discorso è il quarto tema concernente l’unificazione del diritto delle
obbligazioni civili e commerciali, che viene stabilita in quel momento.
A) L’unificazione del diritto dei contratti e della responsabilità civile e la (tendenziale)
unificazione delle obbligazioni civili e commerciali (Roma 1938)
Nella sua relazione, Hans Karl Nipperdey (1895-1968), professore all’Università di Colonia126, traccia le prime linee di un programma di codificazione, che si propone i seguenti obiettivi:
a) Conferma dei princìpi fondamentali della proprietà privata, della liSu questa fase cruciale dei rapporti tra le due dittature è d’obbligo il rinvìo alle ricerche
di RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 86, pp. 162-168, ma soprattutto,
con un vasto affresco del contesto, di SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt.
118, cap. VI, in particolare pp. 311-329 sull’Accordo culturale del 23 novembre 1938, e
cap. VII, sull’attività del Comitato istituito nel novembre 1937, pp. 403-419 (per la parte
di nostro interesse). Cfr. anche ID., Comparare ai tempi del fascismo, in «materiali per una
storia della cultura giuridica», XXXVI, n. 2, dicembre 2006, pp. 417-434. Per i profili connessi alla definizione del diritto razziale v. per tutti S. GENTILE, La legalità del male. L’offensiva
mussoliniana contro gli Ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945), G. Giappichelli Editore,
Torino 2013, pp. 90-99.
126
J. RüCKERT, Nipperdey, Hans Carl, in Neue Deutsche Biographie, 19, Duncker & Humblot,
Berlin 1999, pp. 280-282.
125
243
G. CHIODI
bertà contrattuale, della libera concorrenza e dell’associazione privata, sottoposti tuttavia ad una diversa interpretazione, a «un cambiamento decisivo
di significato rispetto all’ideologia liberale e democratica», e subordinati a
diversi limiti in nome della «responsabilità nei confronti della comunità».
Tali princìpi, si sostiene fermamente, hanno rilevanza «costituzionale», nel
senso di essere affermati non più come garanzia contro la forza dello Stato,
ma come base di un nuovo patto di convivenza che li tutela in quanto coincidenti con il bene della comunità e della nazione127. Al magistrato Salvatore
messina spetta il compito di raccordare tali affermazioni alla situazione italiana e di assicurare che il fascismo non comporta alcuna soppressione
dell’autonomia privata, ma solo «una necessaria subordinazione degli interessi individuali alle superiori esigenze dello Stato»128.
b) Un diritto unico delle obbligazioni, dei contratti e della responsabilità
civile italo-germanico, fondato sulla base giuridica comune, emersa già nella
compilazione del progetto italo-francese. A differenza di quello, tuttavia,
l’unificazione giuridica dovrà riguardare solo Italia e Germania, e non avere
vocazione europea o mondiale.
c) In Germania, un nuovo codice popolare di diritto privato, dedicato
al diritto dei contratti e della responsabilità civile, al diritto di proprietà e al
Riporto l’intero brano, che scolpisce in modo chiaro la torsione alla quale i princìpi
della tradizione liberale vengono sottoposti nel nuovo ordine costituzionale: «Beide Nationen sehen in derart charakterisierten Privatrechtsprinzipien eine Art «Verfassungsrecht»
innerhalb des Privatrechts, Grundformen der öffentlichen Ordnung der Volksgemeinschaft, soweit
wie die Rechtsstellung des einzelnen in der Volksgemeinschaft betroffen. Sie haben verfassungsrechtliche Bedeutung nicht im Sinne einer Garantie gegen die Gewalt des Staates, sondern
als Grundlagen des privaten Zusammenlebens, die um ihrer Bedeutung für die Gemeinschaft und das Wohl der Nation willen vom Staat ausgebaut, geschützt und gefördert werden. Die Reform des Privatrechts muss bemüht sein, diese Grund- und
Ordnungprinzipien im System und in den einzelnen Normen zum Ausdruck zu bringen». La
citazione è tratta da Atti del primo convegno (Roma, 21-25 giugno 1938), Istituto Poligrafico
dello Stato, Roma 1939 (Comitato giuridico italo germanico. Arbeitsgemeinschaft für die
Deutsch-Italienischen Rechtsbeziehungen), VII. IV Tema, Unificazione legislativa del diritto
delle obbligazioni, II. Relazione germanica, Dr. Hans Karl NIPPERDEY, pp. 141-146 (p. 142),
anche in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit., pp. 504-509. Cfr. anche Il comitato
giuridico italo-germanico per la riforma del diritto delle obbligazioni, in «Rivista del diritto commerciale
e del diritto generale delle obbligazioni», XXXVI (1938), I, pp. 435-439. Le tesi di Nipperdey,
esposte in un volume pubblicato dall’Akademie für Deutsches Recht, sono attentamente recensite da L. mOSSA, Il rinnovamento del diritto civile tedesco, «Rivista del diritto commerciale
e del diritto generale delle obbligazioni», XXXVI, (1938), I, pp. 523-526. Da vedere anche
A. ASQUINI, Tema IV. - Unificazione del diritto delle obbligazioni, nella rassegna I lavori del Comitato per le relazioni giuridiche italo-tedesche, in «Lo Stato», pp. 411-415.
128
S. mESSINA, Notizia preliminare, in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt.
118, p. 457.
127
244
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
diritto delle associazioni, con esclusione quindi del diritto di famiglia e delle
successioni129. In Italia, un separato codice delle obbligazioni e dei contratti,
come parte del nuovo Codice civile.
d) Rimessa in discussione del problema della parte generale del negozio
giuridico. In Italia sappiamo che la rinuncia a codificare questo Everest
della pandettistica era stata presa dagli autori del progetto italo-francese e
altresì confermata (a maggioranza) dalla Commissione delle assemblee legislative presieduta da D’Amelio nel 1936130. Anche a Nipperdey la parte
generale tedesca sembra poco felice e da eliminare, in direzione dell’assetto
di una nuova parte generale del futuro codice meglio costruita. Quanto alla
struttura, Nipperdey, si noti, rende omaggio al progetto italo-francese, che
ritiene atto a costituire un’idonea piattaforma per la discussione, con alcuni
opportuni correttivi quali la collocazione delle regole sulle prove nel diritto
processuale e il miglioramento sistematico della parte speciale dei contratti,
con l’aggiunta dei contratti-tipo.
e) Stralcio dalla discussione della questione di opportunità di un separato codice di commercio, che allo stato viene auspicato in entrambi i Paesi;
anche nel caso di un codice unico di diritto privato, la necessità di una disciplina speciale di alcuni istituti del diritto commerciale non viene messa
in dubbio.
f) Unificazione delle obbligazioni civili e commerciali. La commercializzazione del diritto civile è fortemente sostenuta dalla dottrina tedesca,
che avrebbe già deciso per il trasferimento di un numero ingente di regole
commerciali nel diritto civile, così da renderle applicabili a tutti. La questione, tuttavia, dei limiti di questa operazione è lasciata alla valutazione
politica dei singoli Paesi. Nipperdey ha ben presente che in Italia il problema riguarda l’estensione del diritto commerciale all’economia di tipo
Soluzione violentemente criticata da E. Betti nel già citato articolo Il quarto libro nel progetto del codice civile italiano, nt. 100, pp. 565-566 e tacciata di pericolosa commistione tra diritto e politica. ma le critiche di Betti a Nipperdey riguardano anche l’esclusione della parte
generale del negozio giuridico (p. 565 e nt. 2, nuova rispetto alle altre versioni di quest’articolo). Occorrerà ricordare che da questo saggio, per la pubblicazione nella Rivista del
diritto commerciale, Asquini fece espungere alcuni passaggi, che si leggono invece nella redazione intitolata Il quarto libro nel quadro del progetto del codice civile, pubblicata in Scritti giuridici
in onore di Santi Romano, IV, Cedam, Padova 1940, pp. 27-65, contenente critiche alla mancata politicizzazione della riforma del codice civile (p. 55), all’anti-romanesimo della scienza
giuridica tedesca e al vulnus recato al principio di certezza del diritto nel diritto patrimoniale
(pp. 60-61). mantenute invece le pagine contro la concezione dell’obbligazione come rapporto di collaborazione e non più di conflitto (pp. 61-62), che i giuristi tedeschi, come vedremo, volevano propugnare.
130
CHIODI, «Innovare senza distruggere», cit. nt. 55, pp. 43-146 (pp. 103-105).
129
245
G. CHIODI
agrario e che il sistema oggettivo del codice di commercio ha già enormemente favorito la commercializzazione dei rapporti131.
Alberto Asquini, nella sua relazione, fornisce ulteriori particolari sull’operazione che i due Paesi si apprestano a compiere e che costituisce
un’effettiva novità. Si tratta di unificare il diritto delle obbligazioni civili e
commerciali in un codice generale delle obbligazioni, che dovrà comprendere una parte generale delle obbligazioni e la disciplina dei contratti tipici132. Per quelli che sono già sorti come contratti commerciali
evidentemente il problema dell’unità non si pone. Esso si pone invece per
i contratti tipici come la compravendita, il mandato, il deposito e il pegno,
che sono attualmente provvisti di una duplice regolamentazione. In questo
caso, si tratterà di valutare se non sia opportuno dal punto di vista politico
Atti del primo convegno (Roma, 21-25 giugno 1938), cit. nt. 127, p. 146: «Die Abgrenzung
hängt zusammen mit den Anschauungen darüber, ob und inwieweit einzelne Klassen der
Bevölkerung, insbesondere die grosse masse der Nichtkaufleute noch des besonderen Schutzes bedürfen. Italien – in viel stärkerem masse als Deutschland – glaubt insbesondere im
Hinblick auf die bauerliche Bevölkerung in dieser Richtung vorsichtig sein zu müssen.
Weiter kommt hinzu, dass das im italienischen Handelsrecht grundsätzlich massgebende
objektive System, nach dem gewisse Geschäfte, gleichviel ob sie beruflich oder gelegentlich
betrieben werden, Handelsgeschäfte sind, sich in der italienischen Praxis bewährt hat, sodass das Bedürfnis einer Ausdehnung handelsrechtlicher Regeln auf den allgemeinen Verkehr schlechthin nicht in so erheblichem Umfang hervorgetreten ist wie in Deutschland».
Coincidenza non tanto singolare con le idee del relatore italiano, contenute nel manifesto
A. ASQUINI, Codice di commercio, codice dei commercianti o codice unico di diritto privato?, in «Rivista
del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXV (1927), I, pp. 507524, anche in ID., Scritti giuridici, v. I, Padova 1936, pp. 25-48. Asquini si riferisce in particolare alla soluzione adottata nel progetto D’Amelio di codice di commercio del 1925. Di
questo scritto si dovrà notare anche la riduzione alle sole due nazioni interessate dell’unificazione del diritto delle obbligazioni. A tale virata in senso nazionalistico il giurista-gerarca si riferisce in termini quanto mai recisi, non senza riferimento al pensiero del suo
maestro Alfredo Rocco: «le condizioni attuali dell’economia mondiale non sono le più
idonee per seguire chimere di unificazione internazionale; il nostro paese deve dare alla
riforma dei suoi codici quell’impronta che sopratutto le esigenze nazionali impongono
sotto l’impero dei principi fondamentali che il regime ha posto a base della nostra economia. In ciò sta forse la ragione attuale dominante della riforma» (p. 522).
132
Atti del primo convegno, cit. nt. 129, VII. IV Tema, Unificazione legislativa del diritto delle obbligazioni, I. Relazione italiana, Avv. Alberto ASQUINI, pp. 136-139 e in SOmmA, I giuristi e
l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, pp. 502-504. A Vienna nel 1939 Asquini preciserà:
«la riforma del diritto delle obbligazioni così in Germania come in Italia è orientata nel
senso di meglio distribuire la materia oggi divisa tra il codice civile ed il codice di commercio, unificando in un nuovo codice generale delle obbligazioni le norme sulle obbligazioni e sui contratti di carattere generale e riservando alla legge commerciale e alla
legislazione speciale di categoria la disciplina delle imprese (statuto professionale del commerciante, ordinamento delle società commerciali, concorrenza, ecc.)» (Italienisches Referat,
in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, p. 636).
131
246
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
unificare la disciplina, generalizzando norme sorte in ambito commerciale
ed eventualmente mantenendo ulteriori deroghe.
Il codice unico, d’altra parte, s’inserisce in un sistema di fonti giuridiche
diverse dal passato e che Asquini rappresenta come fondato su un doppio
binario e una doppia legalità: il codice generale e le norme corporative,
fonti subordinate alle norme imperative generali, ma destinate comunque
ad incidere sul diritto delle obbligazioni, che quindi non sarà tutto contenuto e rinserrato nel codice, ma anche fuori di esso. Quest’ultimo, in realtà,
dovrebbe contenere i princìpi inderogabili della nuova dottrina fascista e
nazionalsocialista, lasciando alle norme corporative di categoria le specificazioni e le concretizzazioni ulteriori133. Alla legalità ufficiale del passato
(s’intende: riveduta e corretta) si coordinava la nuova legalità delle norme
corporative. In questa visione politica non più codico-centrica dell’ordinamento, al codice generale spettava la statica dei princìpi cardine del sistema
e alle norme corporative, nella diversità delle loro articolazioni e procedure,
la loro evoluzione dinamica134. Un quadro all’apparenza di rassicurante efficienza e di promessa partecipazione decisionale dei gruppi interessati,
sotto la direzione vigile dello Stato. Restava sullo sfondo, ma in realtà in
ASQUINI, Relazione italiana, cit. nt. 132, p. 503: «La unificazione del diritto delle obbligazioni perciò dovrebbe avere per oggetto la legislazione generale di inquadramento degli
istituti, con margini sufficientemente larghi per poter essere integrata dalla regolamentazione corporativa, salva naturalmente l’osservanza delle norme di carattere cogente poste
dalla legislazione generale. La determinazione dei principi generali di carattere cogente, a
cui dovrà essere informato il nuovo diritto delle obbligazioni, dovrà tradurre in atto lo
spirito politico della riforma, inserendo nel nuovo sistema del diritto delle obbligazioni i
principi della nuova dottrina giuridica fascista e nazionalsocialista».
134
Un cenno alla riforma del sistema delle fonti del diritto commerciale in atto in quella
fase si legge anche in A. ASQUINI, Diritto commerciale, Anno accademico 1936-1937, Editrice
S.A. Vibo, Roma s.d., p. 22: «In passato la tendenza prevalente era di sistemare nel codice
il maggior volume della legislazione commerciale. L’ordinamento corporativo spinge invece piuttosto verso un assottigliamento della codificazione, nel senso di affidare ad essa
solo la determinazione dei principi generali, rimettendo alla regolamentazione corporativa
la disciplina degli istituti commerciali nei loro aspetti particolari ». La concezione dell’ordinamento corporativo è quella autoritaria di Rocco: «lo stretto inserimento dell’ordinamento corporativo nello Stato garantisce, che nella nuova legislazione gli interessi generali
dell’economia non siano sacrificati agli interessi particolari delle categorie» (p. 21). Infine,
secondo Asquini, il principio corporativo reagisce anche sul movimento di unificazione
legislativa internazionale, inevitabilmente contraendolo per effetto del primato della norma
nazionale: «In più l’ordinamento corporativo, come ogni altra forma di economia controllata, accentua indubbiamente anche nella legislazione commerciale l’impronta di autonomia nazionale contro le precedenti tendenze verso l’uniformità legislativa
internazionale» (p. 22). Per ulteriori spunti cfr. R. TETI, Codice civile e regime fascista. Sull’unificazione del diritto privato, Giuffrè, milano 1990, pp. 142-151; N. RONDINONE, Asquini, Alberto, in DBGI, I, cit. nt. 31, pp. 116-119.
133
247
G. CHIODI
primo piano, lo spirito della nuova legalità rivoluzionaria, che doveva penetrare anche nei princìpi che il fascismo non sconfessava, trasformandoli
al loro interno135.
Le pagine lapidarie di Asquini risolvono, dunque, un problema fondamentale della nuova legalità fascista, convertendo gli schemi teorici in legge:
il coordinamento tra codice, leggi speciali e norme corporative, che aveva
attirato l’interesse anche di altri studiosi136, diventa il luogo della discontinuità rispetto alla legalità liberale. Questo mi sembra il punto originale da
sottolineare dei dibattiti italo-germanici, al di là delle soluzioni di specie,
che pure hanno contato nell’elaborazione del libro quarto delle obbligazioni. mette conto di rilevare ancora una volta che tale ristrutturazione
dell’ordinamento è gradita alla parte imprenditoriale, nella fattispecie all’Assonime137. La disciplina delle obbligazioni, in questa prospettiva, non è
tutta contenuta nel codice, che anzi è raffigurato come incompleto ed eterointegrabile, da parte di fonti diverse, eteronome rispetto ai contratti individuali, epifania di un diverso e ulteriore livello di legalità. Negli anni Trenta,
questa è una prospettiva diffusa, che circola soprattutto tra i cultori del diritto commerciale, più pronti dei civilisti a immaginare nuove intersezioni
tra le fonti del diritto. Così ad esempio nei saggi scritti in quel periodo da
Tullio Ascarelli, che assorbe il generoso e sincero afflato solidaristico del
socialista Vivante e lo coniuga al realismo che non rifugge dal costruttivismo dogmatico del suo mentore Francesco Carnelutti, questo aspetto del
problema ottiene un particolare risalto.
Ascarelli, come mossa, è un testimone attento dell’evoluzione del capitalismo italiano di quegli anni. Coglie lucidamente i pericoli della contrattazione di massa e del prepotere dei grandi gruppi di imprese sui singoli
consumatori; avverte la perdita di centralità del codice di commercio, che
come il codice civile non si occupa di autonomia collettiva, di contratti colComitato giuridico italo germanico. Atti del primo convegno (Roma, 21-25 giugno 1938), Istituto
Poligrafico dello Stato, Roma 1939, VII. IV Tema, Unificazione legislativa del diritto delle obbligazioni, I. Relazione italiana, Avv. Alberto ASQUINI, pp. 133-139, anche in SOmmA, I giuristi
e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, pp. 501-504.
136
Tra questi è importante, e ancora una volta differente da quelle qui presentate, la voce
di Sergio Panunzio, sul quale mi limito a ricordare il saggio illuminante di P. COSTA, La
‘codificazione fascista’: osservazioni in margine ad un testo di Panunzio, in Diritto privato 1996, II,
Condizioni generali e clausole vessatorie, Cedam, Padova 1997, pp. 569-592.
137
Richiamo nuovamente il memoriale del 28 luglio 1937, che presta adesione a questa visione e in più auspica l’unità del diritto privato, tramite un unico codice civile integrabile
da leggi speciali commerciali: RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 86,
pp. 142-144.
135
248
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
lettivi o di rapporti di categoria, dislocando all’esterno, nello spazio della
competizione di mercato, la disparità di potere contrattuale delle parti, e
dando una disciplina astratta dei rapporti commerciali. Il codice di commercio, in altri termini, è organico al codice civile nel riferirsi ad un mercato
di soggetti liberi e uguali. Da questo punto di vista, anche Ascarelli nota lo
«sfasamento del codice rispetto al nuovo ordinamento costituzionale»138,
che tra le norme generali del codice e i contratti individuali interpone le
leggi speciali e le più concrete norme corporative di categoria. È in questo
contesto di mutati riferimenti costituzionali ed economici che Ascarelli imposta il problema dell’unificazione delle obbligazioni civili e commerciali.
Non si tratta di fare a meno del codice civile, né di quello commerciale, ma
di collocare all’interno del codice civile la disciplina unitaria e generale delle
obbligazioni e dei contratti, affidando alle leggi speciali e alle norme corporative il compito di disciplinare in maniera differenziata e mobile i singoli
contratti, di prevedere statuti differenziati e di prevenire gli abusi della libertà contrattuale in una prospettiva che è anche di difesa degli interessi
dei consumatori e non solo dei produttori139. In questo sistema, il codice
non scompare, anche se non può più dirsi il centro di riferimento, poiché
spetta alle fonti esterne al codice, le leggi speciali e le norme corporative,
di integrarne le prescrizioni (per lo più norme imperative) offrendo una disciplina economica più plastica, flessibile, varia e variabile e perciò aderente
alla realtà economica. Ascarelli fa un esempio significativo: il problema
dell’abuso della libertà contrattuale nei contratti di adesione. Nella prospettiva ideale da lui indicata, questo problema è destinato a trovare la soluzione
più equa nelle norme corporative di categoria e nelle leggi speciali, più che
in norme inderogabili generali, inefficaci da un lato, perché aggirabili, e pericolose dall’altro, perché non ispirate a interessi generali, che invece nella
sua visione pluralistica troverebbero ascolto in sede corporativa, data la
T. ASCARELLI, Problemi preliminari nella riforma del diritto commerciale, in «Il foro italiano»,
LXII (1937), IV, cc. 25-36 (c. 26).
139
Oltre allo scritto citato, v. anche la conferenza viennese del 12 aprile 1935 su invito
dell’International Law Association, Alcuni aspetti del diritto commerciale nello stato corporativo,
in «Diritto e pratica commerciale», XIV (1935), I, pp. 269-285 e in «Il diritto del lavoro»,
IX (1935), I, pp. 318-326. Su questo e altri saggi di Ascarelli, e sulla diversa curvatura rispetto al progetto di Rocco e Asquini, v. le considerazioni di TETI, Codice civile e regime fascista, cit. nt. 132, pp. 135-142; RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 118,
pp. 107-110; CHIODI, «Innovare senza distruggere», cit. nt. 55, pp. 124-128; STOLZI, L’ordine
corporativo, cit. nt. 4, pp. 303-315. Sulla sua visione pluralistica del diritto: P. GROSSI, Le
aporie dell’assolutismo giuridico (Ripensare, oggi, la lezione metodologica di Tullio Ascarelli) (1997),
ora in Id., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Giuffrè editore, milano 2008, pp. 445-504; e
la voce di m. STELLA RICHTER JR, Ascarelli, Tullio, in DBGI, I, cit. nt. 31, pp. 108-111.
138
249
G. CHIODI
partecipazione collettiva degli interessati nel processo decisionale, tesa a
controbilanciare la forza degli interessi imprenditoriali (come nella realtà
dei fatti poi non avvenne). Lo schema ascarelliano, che viene messo a punto
in vari interventi, testimonia l’interesse suscitato dal corporativismo nei
giuristi anche non di regime140 e la varietà di interpretazioni del fenomeno141. Stessa apertura al sociale non totalitario si nota in Lorenzo mossa,
che negli anni Trenta disegna un articolato piano di interventi a favore dei
consumatori, di cui una parte cospicua, anche se non esclusiva, è occupata
dalle norme corporative142.
B) La revisione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (Vienna 1939)
La questione della risoluzione o revisione del contratto per eccessiva
onerosità sopravvenuta fa parte dei problemi generali che avrebbero dovuto
essere risolti dal diritto uniforme italo-germanico. La messa a punto di uno
schema di disciplina sulla questione sarà effettuata al Convegno di Vienna
nel 1939. Basti riflettere alla sostanza di tre delle risoluzioni finali stilate in
quella sede.
La prima sulla quale meditare, a mio avviso, è quella relativa al processo
civile. Nella risoluzione La posizione del giudice, infatti, le due delegazioni
concordano sul fatto che la concezione liberale del processo civile è superata e che i poteri discrezionali del giudice devono essere aumentati, perché
egli non si limiterà più a tutelare i diritti individuali. La decisione estende i
suoi effetti anche alla sfera privatistica per un duplice ordine di considerazioni: da un lato, nelle valutazioni richieste dall’applicazione di clausole generali (buon costume, equità, ordine pubblico, interesse generale), il giudice
dovrà ispirarsi ai nuovi princìpi politici; dall’altro, in generale, nell’esercizio
dei suoi compiti il giudice dovrà fare riferimento «agli ideali della rivoluSul comprovato antifascismo dell’autore v. C. mONTAGNANI, In «difesa» di Tullio Ascarelli,
in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», LXVII (2013), pp. 621-637 e ora il
fresco ritratto di m. STELLA RICHTER JR, Racconti ascarelliani, Editoriale scientifica, Napoli
2020, pp. 47-52.
141
Su questa varietà di approcci al corporativismo è costruita l’eccellente monografia di
STOLZI, L’ordine corporativo, cit. nt. 4. Sulla complessità della cultura giuridica in età fascista
cfr. anche EAD., Cultura giuridica e regime fascista, in «Quaderni fiorentini», 43 (2014), Autonomia. Unità e pluralità nel sapere giuridico tra Otto e Novecento, t. II, pp. 963-974.
142
Sia consentito il richiamo a G. CHIODI, Un pioniere della giustizia contrattuale: Lorenzo Mossa
e i contratti di adesione, in «Quaderni fiorentini», 45 (2016), pp. 249-293 (anche per i rapporti
con Asquini). Cfr. ora sulla personalità di mossa I. BIROCCHI, L’età vivantiana: tra Sraffa e
Rocco, giovani commercialisti crescono (Mossa e Asquini dalla formazione alla cattedra, 1909-1921),
in ‘Non più satellite’, cit. nt. 35, pp. 167-233 (pp. 194-210).
140
250
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
zione fascista e nazionalsocialista»143. Il collegamento tra diritto sostanziale
e processo, pur nella distinzione dei due campi, merita di essere ulteriormente vagliato: anche nel diritto processuale civile, come è noto, si stavano
riconsiderando i cardini della concezione liberale del processo e si dibatteva
sul significato della pubblicizzazione nell’era fascista e sui poteri del giudice.
Con la risoluzione del quarto tema (Problemi relativi all’esecuzione dei contratti), le due delegazioni trovano un punto di accordo sulla revisione dei
contratti di durata per sopravvenienza.
La delegazione tedesca, rappresentata da Justus W. Hedemann e dal
funzionario ministeriale Erwin Pätzold, insiste su una disposizione generale da inserire nei rispettivi codici, che dovrebbe prevedere un generoso
aumento dei poteri discrezionali del giudice, autorizzandolo a risolvere il
contratto oppure a modificarne le clausole. Le due relazioni coincidono
nell’obiettivo, ma divergono nelle sfumature delle argomentazioni. Il punto
focale è la conservazione del principio della forza di legge e del mantenimento dei contratti. La revisione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta viene quindi fatta passare come un corollario e non una
contraddizione rispetto al principio pacta sunt servanda. La revisione giudiziale, inoltre, presuppone per entrambi i giuristi l’obbligo di rinegoziazione
del contratto, fallito il quale la decisione passa al giudice, previo ulteriore
tentativo di conciliazione tra le parti. Questi può addivenire alla risoluzione
del contratto, ma anche e preferibilmente al suo mantenimento, tramite
revisione del suo contenuto, previa nullità parziale delle clausole che rendono il contratto economicamente sproporzionato. Quanto ai presupposti
della risoluzione/revisione del contratto, Hedemann parla di «rapporti tra
le parti o circostanze esterne radicalmente mutati» (punto 3), «mutamento
delle circostanze così straordinario e grave, che il mantenimento significherebbe un’intollerabile durezza che contraddice al senso di giustizia del
popolo» (punto 6)144. Su questo senso di giustizia del popolo Hedemann
mi limito a citare da Le risoluzioni approvate dal Comitato per le relazioni giuridiche Italo-Germaniche
nella sua seconda sessione plenaria, in «Rivista di diritto civile», XXXI (1939), pp. 152-155.
144
Arbeitsgemeinschaft für die Deutsch-Italienischen Rechtsbeziehungen, Zweite Arbeitstagung in Wien
(6.-11. März 1939), in Bundesarchiv R 61/427: Thema IV - Probleme der Aufhebung oder Abänderung schuldrechtlicher Verträge, ff. 112-133, Deutsches Referat, Professor Dr. J.W. HEDEmANN,
in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, App. 9, pp. 594-598; Deutsches
Korreferat, ministerialrat im Reichsjustizministerium Dr. PäTZOLD, ibidem, pp. 598-603. Riporto nella sua interezza il passo saliente di Hedemann riassunto nel testo, che l’autore
divide in nove punti (ibidem, p. 597): «1. Verträge binden die Parteien als ein zwischen
ihnen bestehendes Gesetz. 2. Der Richter hat die Aufrechterhaltung geschlossener Verträge in diesem Sinne als obersten Grundsatz zu hüten. 3. Wenn sich nach dem Vertragsschluss die Verhältnisse zwischen den Parteien oder durch Aussenumstände von Grund
143
251
G. CHIODI
pone un particolare accento. Egli sottolinea inoltre che il rischio contrattuale non deve essere imputabile o assunto dalla parte che domanda la revisione del contratto (come suggeritogli dal correlatore). Pätzold discorre
di «pericoli che, secondo il giudizio umano, nessuno è stato in grado di
prevedere in anticipo e quindi non ha previsto e che distruggono l’equilibrio che le parti avevano creato nel contratto e portano ad una sproporzione tra le prestazioni»145. ma la formula da lui confezionata sulla quale
avviene la discussione con i delegati italiani è un’altra: quando «le condizioni economiche generali, nelle quali le parti stipulanti hanno riposto la
loro fiducia, si modifichino in tale misura che la prestazione che deve riausgeändert haben, ist es Pflicht der Parteien, in eine Prüfung ihres Vertrages auf seine
Aufrechterhaltung einzutreten. 4. Gelingt eine Einigung nicht, so kann jede Partei den Richter anrufen. 5. Der Richter hat seinerseits in erster Linie zu versuchen, die Parteien zu
einer Einigung zu bringen. 6. Gelingt auch diesere Versuch nicht, hat der Richter zu prüfen, ob die änderung der Verhältnisse so aussergewöhnlich und schwerwiegend ist, dass
die Aufrechthaltung des Vertrages eine unerträgliche, dem Gerechtigkeitsgefühl des Volkes
widersprechende Härte bedeuten wurde. − Ich lege besonderes Gewicht auf diese Abstellung auf das Gerechtigkeitsgefühl des ganzen Volkes. − 7. Keinesfalls darf der Richter
den Grundsatz der Aufrechterhaltung der Verträge preisgeben, wenn die änderung der
Verhältnisse der Partei, die die änderung verlangt, selbst zuzuschreiben ist oder wenn sie
dar Risiko übernommen hat. − Dieser letztere Zusatz entspringt einer Anregung des
Herrn Dr. Pätzold . − 8. Kommt der Richter zu der überzeugung, dass der Vertrag so,
wie er ist, nicht aufrechterhalten darf, so hat er weiter zu prüfen, ob der Vertrag im Ganzen
für ungültig zu erklären ist oder ob nur die unerträglichen Bestandteile weggelassen werden
sollen. 9. Bei der Wahl zwischen vollständiger Aufhebung und blosser Umgestaltung des
Vertrages hat der Richter die Interessen beider Teile sorgfältig gegeneinander abzuwägen.
Er kann dabei derjenigen Partei, die durch Weglassung eines Vertragsbestandteils einen
übergrossen Vorteil erhalten würde, einen Ausgleich in Geld oder einer anderen Leistung
auferlegen». Cfr. anche G. VASSALLI, Legge e diritto nuovi al Convegno giuridico italo-tedesco di
Vienna. Per un diritto unico delle obbligazioni, in «Lo Stato», X (1939), pp. 203-216.
145
Deutsches Korreferat, ministerialrat im Reichsjustizministerium Dr. PäTZOLD, cit. nt. 145,
p. 600: «Ich bin also der meinung, dass, wenn Gefahren eintreten, die nach menschlichen
Ermessen niemand hat vorausbedenken können und deshalb auch nicht vorausbedacht
hat und nun das Gleichgewicht, das die Parteien in dem Vertrag geschaffen hatten, zerstören
und die Belastung der einen Seite im Verhältnis zur andern Seite in ein missverhältnis bringen, der moment gegeben ist, wo eine Lösung des Vertrages eintreten muss». Più avanti la
formula proposta e che va introdotta nei codici è descritta in questi termini: «mein Vorschlag geht dahin – und ich hatte mir erlaubt, ihn schriftlich zu fixieren, und, wie ich gehört
habe, ist er auch die italienischen Delegation bekannt – dass man eine kurze gesetzliche
Klausel in die Gesetzbücher einführt, d.h., hier von diesem Kreise aus betrachtet, dass man
den Regierungen empfieht, eine gesetzliche Klausel, die dem mutamento dello stato di
fatto Rechnung trägt, in die Gesetzbücher aufzuhnehmen, und das dabei einer ausserordentlichen Veränderung der Tatsachenlage Rechnung getragen wird, dass man für diesen
Fall bestimmt: Die Parteien sind auf Grund der Vertragstreue verpflichtet, den Vertrag in
solchen Fällen der veränderten Lage anzupassen, und wenn sie dazu selbst nicht in der
Lage sind, ist est Aufgabe des Richters, das zu tun».
252
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
cevere il creditore e l’onere che incombe al debitore vengono a trovarsi in
una ingiusta proporzione reciproca»146. Gli oratori sono perfettamente al
corrente degli strumenti tecnici attraverso i quali il problema è stato prospettato in passato, nei rispettivi Paesi, dalla dottrina e dalla giurisprudenza
del periodo liberale. Giova rammentare il nucleo della relazione Volkmar
a Parigi nel 1937: la giurisprudenza tedesca aveva affrontato la questione
utilizzando la clausola di buona fede, di cui era stata offerta, allora, una
lettura politica che la rendeva manifestazione di una nuova concezione
comunitaria del contratto. Si trattava ora di re-impostare il problema e di
ricalibrare gli argomenti in funzione dei nuovi postulati rivoluzionari del
fascismo e del nazionalsocialismo. La discontinuità si avverte in entrambe
le relazioni: come si è visto, Hedemann fa riferimento al senso di giustizia
del popolo. Di taglio ancora più politico è il discorso di Pätzold, che se da
un lato parla di un obbligo di buona fede tra le parti, dall’altro sovrappone
o accosta a questo elemento, che appartiene al livello della continuità, l’idea
di comunità, che impone il rispetto dei contratti, ma anche il rispetto degli
interessi reciproci e quindi l’adattamento del contratto in caso di mutamento delle circostanze147, e insiste sul fatto che consentendo al giudice
di correggere i contratti gli si attribuisce un nuovo compito: quello non
solo di dichiarare il diritto, ma anche di crearlo148.
Arbeitsgemeinschaft für die Deutsch-Italienischen Rechtsbeziehungen, cit. nt. 144, Italienisches Referat, On. Prof. Avv. Dr. Alberto ASQUINI, Deputato al Parlamento già Sottosegretario di
Stato alle Corporazioni, in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, pp.
604-606 (p. 604).
147
Pätzold giustappone due articolazioni del principio di mantenimento del contratto
(Deutsches Korreferat, cit. nt. 144, pp. 599-600): 1. «Was gebietet nun die Gemeinschaft? Die
Gemeinschaft befiehlt auch nach nationalsozialistischer und, wie wir ja gehort haben, auch
nach faschistischer Auffassung zu allererst, dass Verträge gehalten werden müssen, und
dass man nicht bei irgend einer änderung der Tatsachenlage sagen kann. Nunmehr ist
der Vertrag nicht mehr bindend. Wirtschaften, Teilnahme am Wirtschaftleben bedeutet
gefährlich leben. Diese Gefahren muss jeder auf sich nehmen, selbst wenn er dabei an
seine Existenz geht». 2. «Der Gemeinschaftsgedanke gebietet aber noch ein anderes. Er
gebietet, dass die Vertragspartner aufeinander Rücksicht nehmen. Diese Rücksichtnahme
bedeutet nicht, dass die Verträge gelöst werden sollen, wenn eine veränderte Tatsachenlage
eintritt, sondern dass die Verträge aufrecht erhalten werden sollen, aber dass es notwendig
ist, sich der neuen Lage anzupassen, − anpassen, nicht lösen: Diese Anpassung ist eine
Verpflichtlung, wie man wohl sagen kann, die die Parteien aus dem Gesichtpunkt der Vertragstreue haben. Nun kann die Schwierigkeit eintreten, dass die Partieien nicht zu einer
Einigung kommen. Dann braucht man eine autoritäre Stelle, die sie zu einer Einigung
führt, und dafür ist nach seiner Vorbildung und deshalb, weil er uninteressiert und unabhängig von allem Parteien ist, der Richter berufen».
148
Ibidem, p. 601: «Ich glaube, dass hier eine neue Aufgabe des Richters entsteht, des Richters, der nicht immer nur Recht spricht, indem er den Parteien sagt, ob der eine oder der
146
253
G. CHIODI
Il dibattito mostra bene come il problema sia ora diventato, oltre che
tecnico, politico: come afferma Asquini «si tratta di trovare una formula
che da un lato non infirmi il principio della fede al contratto, base di ogni
sano ordine economico, e dall’altro salvaguardi quelle esigenze di equità
nella distribuzione dei rischi tra i contraenti, che rispondono alla legge della
solidarietà sociale»149. La proposta italiana è di delimitare la formula troppo
generale del relatore tedesco, consentendo tuttavia al giudice anche di modificare le clausole contrattuali e non solo di risolvere il contratto. Circondata da varie limitazioni – esclusione dalla revisione delle modificazioni
monetarie e dei contratti di speculazione a termine; introduzione di limiti
quantitativi alla revisione; integrazione del collegio giudicante con esperti
(espressione di diffidenza nei confronti della magistratura ordinaria); introduzione del tentativo di conciliazione, cioè della rinegoziazione del contratto prima di addivenire alla revisione; facoltà di scelta tra risoluzione e
revisione – la revisione del contratto per circostanze straordinarie e imprevedibili fa quindi il uso ingresso nel diritto uniforme delle obbligazioni, in
quanto ritenuta corrispondente ad un’economia controllata e diretta dallo
Stato per fini che non corrispondono più alla protezione degli interessi individuali delle parti150. Non può sfuggire l’importanza della questione. Con
questo tema non siamo più sul piano ordinamentale, ma degli effetti della
nuova disciplina, che per essere tale deve concedere poteri anche al giudice.
Con questa risoluzione siamo ad un punto di non ritorno: il libro quarto
delle obbligazioni, infatti, si ispirerà a questa impostazione. In altri termini,
la collaborazione italo-tedesca, malgrado le frizioni, rappresenta un canovaccio sul quale si svilupperà, una volta tramontata l’ipotesi di unificazione
legislativa, il libro quarto del codice civile ‘mussoliniano’.
C) Il reimpiego delle categorie della causa e delle clausole generali del buon costume/ordine pubblico
Il sesto e ultimo tema all’ordine del giorno (Principi comuni nel vigente
diritto delle obbligazioni dei due Paesi) dimostra quanto il nuovo diritto delle obbligazioni facesse leva sulla collaborazione del giudice come organo della
andere recht hat, sondern der Recht schafft, und gerade dort, wo es sehr wichtig ist, nämlich dort, wo durch eine Fortentwicklung des Lebens der Vertrag mit dem Leben nicht
mehr ganz im Einklang steht, dort gestaltet er, wenn es den Parteien nicht selbst gelingt,
den Vertrag anzupassen, den Vertrag so, dass er auch unter der neuen Tatsachenlage ein
gerechter Vertrag ist».
149
ASQUINI, Italienisches Referat, cit. nt. 146, p. 604.
150
Ibidem, p. 605.
254
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
comunità delegato a controllare l’autonomia privata, che pure era riconosciuta anche nel regime nazionalsocialista, ma solo tuttavia in quanto non
contrastante con gli interessi della comunità stessa. A questo riguardo, i relatori tedeschi, di nuovo il funzionario ministeriale Erich Volkmar e il berlinese Hans Dölle, professore dell’Università di Bonn, propongono infatti
che al giudice sia conferito il potere di annullare un contratto non solo
quando violi norme imperative o non sia conforme al buon costume, inteso
in senso tradizionale come contrario alle regole della morale generale, ma
anche quando violi gli imperativi fondamentali dell’ordine economico dello
Stato151 o lo spirito della comunità nazional socialista152 (Volkmar) o i princìpi fondamentali dell’ordine popolare generali153 (Dölle). Nuovamente:
Arbeitsgemeinschaft für die Deutsch-Italienischen Rechtsbeziehungen, Zweite Arbeitstagung in Wien
(6.-11. März 1939), in Bundesarchiv R 61/427: Thema VI - Gemeinsame Grundsätze im geltenden
Schuldrecht Deutschlands und Italiens, pp. 178-211, Deutsches Referat, ministerialdirektor im
Reichsjustizministerium Dr. VOLKmAR, in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino,
cit. nt. 118, pp. 632-641 (p. 634): «Bereits der liberalistiche Staat erklärte Verträge, die den
guten Sitten widersprechen, für nichtig. Während aber diese Nichtigkeit nur besonders
grobe Verstösse gegen dem allgemeinen Sitten begriff betraf; wird die nationalsozialistische Beschränkung der Vertragsfreiheit weiter gehen und jeden missbrauch dieser Freiheit
durch Nichtigkeit des Vertrages ahnden, der grundlegenden Geboten der staatlichen Wirtschaftsordnung gröblich widerspricht, wie man z. B. schon jetz eine mietkündigung für
nichtig erklärt, die den Zweck verfolgt, das staatliche Verbot von mietsteigerungen zu
umgehen».
152
Ibidem, p. 634: «Praktisch ist aber nur die Lösung, die es dem Richter ermöglicht, der
nur hinsichtlich einzelner Bestimmungen gegen den nationalsozialistischen Gemeinschaftsgeist verstösst, in allen Fällen, in denen dies wirtschftlich vernünftig ist, im ganzen
bestehen zu lassen und nur die anstössigen Klauseln zu streichen oder umzugestalten. So
muss es z. B. ermöglicht werden, dass ein Darlehensvertrag, der nun wegen seiner der
staatlichen Zinspolitik gröblich widersprechenden Zinsvereinbarung anstössig ist, als solcher bestehen bleibt, wenn der vereinbarte Zinssatz auf ein angemessenes mass herabgesetzt wird». Spetta al giudice decidere se sia «economicamente ragionevole» mantenere
tutte le clausole contrattuali o solo una parte di esse.
153
Deutsches Korreferat, Prof. Dr. Hans DöLLE, in SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale RomaBerlino, cit. nt. 118, pp. 641-653 (p. 648): «Richterliche Korrektur des Schuldverhältnisses.
Ein solches Verfahren wird übrigens oft nicht nur im Gesamtinteresse erwünscht sein,
sondern auch den Geboten der individuellen Billigkeit entsprechen und namentlich dem
Schutz der schwächeren Vertragspartners dienen. Jedenfalls kommt es ihm Augenblick
nur darauf an, sich von dem konservativen Standpunkt freizumachen, den z. B. Niboyet
als Generalberichterstatter im Juli 1937 auf der von der französischen Gesellschaft für
vergleichendes Recht einberufenen internationalen Rechtswoche in dieser Frage eingenommen hat. Ist der Vertrag nur ein Stück der allgemeinen Rechtsordnung, so folgt daraus,
dass er notfalls auf Antrag durch Richterspruch geändert werden kann, sofern die Harmonie zwischen seinen Bestimmungen und den Grundsätzen der allgemeinen Volksordnung empfindlich gestört ist, und das Unterbleiben der auf Grund seiner geschuldeten
Leistung dem allgemeinen Interesse zuwiderläuft».
151
255
G. CHIODI
non sono gli interessi individuali a contare (almeno direttamente: semmai
di riflesso), ma l’interesse popolare/generale/della comunità, di cui si considera interprete il giudice. Tale è il divario dalla concezione liberale, che
Dölle dichiara apertamente (nel passo già citato) che la cosa più importante
al momento è di liberarsi dalla posizione conservatrice fatta valere da Niboyet a Parigi nel 1937. La sua posizione contiene un’ulteriore sfumatura:
la configurazione dell’obbligazione come un rapporto tra parti che non
sono più in conflitto tra loro, ma si comportano da «camerati»154.
La proposta è destinata a provocare un divario con i colleghi italiani.
Sulla torsione politica del diritto delle obbligazioni Asquini è categorico
tanto quanto i tedeschi: esso deve essere tutto controllato dallo Stato, che
a tal riguardo provvede con un aumento di obbligazioni legali, che non trovano la loro fonte nell’autonomia privata ma sono espressione dei nuovi
doveri che il cittadino ha rispetto alla collettività nazionale. Obblighi che
l’ordine corporativo impone al produttore nell’esercizio dell’attività economica e che si rinvengono soprattutto nella Carta del lavoro e nelle norme
corporative: obbligazioni non di stretto diritto privato, che devono restare
fuori dal codice.
Quanto all’esercizio concreto dell’autonomia privata attraverso la prassi
contrattuale, Asquini ammette che il fascismo riconosce l’autonomia privata
nei soli limiti in cui essa non persegua scopi o fini contrari alla «superiore
esigenza dell’economia nazionale». Con quale ingerenza e con quali mezzi
(e quindi categorie) l’autonomia privata debba essere controllata è la vera
questione in gioco. In questo clima, ad assumere un nuovo significato strumentale è il requisito della causa del contratto, vista «come strumento di
adeguamento dell’autonomia contrattuale ai nuovi principi del Regime fascista e nazional socialista». La causa, dunque, intesa come funzione sociale
dell’operazione economica, si considera illecita, quando il contratto abbia
Ibidem, pp. 646-647: «Der früher häufig zum Ausdruck gekommene Gedanke, wonach
das vertragliche Schuldverhältnis eine Kampfbeziehung zwischen Glaubiger und Schuldner darstellte, die es den Gegnern erlaubte, in Rahmen der Kampfregeln sich jedes mittel
zu ihrem Vorteil zu bedienen, ist abzulehen. Sieht man das Schuldverhältnis an als eine
letztlich im Dienste des Allgemeinwohls stehende Rechtsbeziehung, so ergibt sich daraus
für die Beteiligten die Pflicht, alles zu tun, was einer möglichst reibungslosen Zweckerreichung förderlich ist. Der Gedanke der sozialen Kameradschaft zwingt dabei zugleich zu
einem Verhalten, das die Interessen des anderen Teils gebührend berücksichtigt. Nur kann
dies nicht allein ausschlaggebend sein, sondern der höchste Rechtswert ist die Gemeinschaft; sie bleibt also der letzte massstab auch für die Stellung des einen Vertragspartners
zu anderen. Verträge sind demnach grundsätzlich zu halten und müssen von beiden Teilen
so ausgeführt werden, wie es das Gemeinwohl fordert unter gebührender Rücksichtnahme
auf die Belange des andern Teils».
154
256
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
«scopi fondamentalmente incompatibili con la superiore esigenza dell’economia nazionale»155. In questo caso il contratto è senz’altro nullo. Il passo
compiuto è rilevante: dimostra tutta l’importanza del requisito della causa
nel nuovo diritto dei contratti. Questa presa di posizione non può non colpire e non suscitare confronti con l’elaborazione della causa fortemente
sostenuta da Betti.
Più difficile ed anzi pericoloso sembra ad Asquini congegnare una
norma generale che consenta al giudice di dichiarare nulle singole clausole
contrattuali, se non l’intero contratto, o addirittura di effettuarne la correzione e quindi la sostituzione giudiziale, qualora esse siano contrarie all’ordine pubblico, nel senso largo previsto dai relatori tedeschi. Un intervento
del genere si potrebbe prevedere in materia di squilibrio economico delle
prestazioni, come nel caso dell’azione generale di lesione del progetto italofrancese, che anche Asquini vorrebbe fondata più sull’illiceità della causa
che su un vizio del consenso (una ulteriore e precisa testimonianza di una
consonanza con Betti). ma il campo dell’illiceità del contratto è troppo
ampio e variegato per tollerare la previsione di un potere correttivo in materia economica così generale e indeterminato, lasciato tutto nelle mani del
giudice: senza che esso possa essere incanalato e guidato in una direzione
vigilata dallo Stato, aggiungiamo noi, riprendendo le considerazioni svolte
poc’anzi. Il relatore italiano suggerisce quindi di distinguere tra illiceità della
causa e illiceità di singole clausole contrattuali: il primo campo si presta ad
un intervento generale del giudice, il secondo solamente a interventi legislativi mirati e perciò decisi volta per volta da altri organi normativi statali156.
La formula proposta nella prima ipotesi (illiceità della causa) scolpisce
icasticamente il distacco dalla prospettiva individualistica liberale: «si ha
abuso della autonomia contrattuale non solamente nei casi di violazione di
espressi divieti legislativi e dei buoni costumi ma anche nei casi di violazione
dei principii dell’ordine politico-nazionale e delle regole fondamentali dell’economia poste dallo Stato»157. È dunque la clausola generale dell’ordine
pubblico a risultare oggetto di espansione e di allargamento158. La seconda
ASQUINI, Italienisches Referat, cit. nt. 146, p. 638.
Ibidem, p. 639.
157
Arbeitsgemeinschaft für die Deutsch-Italienischen Rechtsbeziehungen, Zweite Arbeitstagung in Wien
(6.-11. März 1939), cit. nt. 144, Thesen, p. 653.
158
Clausole generali, dunque, alle quali il regime non era affatto ostile: CAPPELLINI, Il fascismo invisibile, cit. nt. 42, pp. 217-219. All’ordine pubblico e all’interesse collettivo annette
particolare importanza anche A. SERmONTI, Per un diritto privato fascista secondo i principii della
Carta del lavoro, in «Il diritto del lavoro», XI (1937), pp. 66-76 (p. 73), che indica come connotato del diritto privato fascista una maggiore discrezionalità del giudice, basata anche
155
156
257
G. CHIODI
risoluzione, invece, fa percepire che la politica economica non può essere
lasciata, in linea di principio, alle cure del giudice, ma deve essere contenuta
nelle maglie delle norme imperative, alle quali sono subordinate le norme
corporative. L’affondo alla concezione nazionalsocialista di diritto è motivata formalmente in termini di certezza del diritto, come altrove159.
Anche l’analisi di questo problema dimostra quindi l’importanza di questa collaborazione per la costruzione del futuro libro delle obbligazioni,
poiché, come già detto, anche questo esperimento di unificazione giuridica
naufragò. Alla base dell’insuccesso si possono ipotizzare ragioni politiche,
come la circospezione se non l’avversione del nuovo ministro di grazia e
giustizia Dino Grandi160, ma anche ragioni giuridiche, che traspaiono in
modo lucido e ostentato, per esempio, da alcuni attacchi di Emilio Betti161.
su una rete di princìpi generali da definire in una parte generale e nelle varie parti speciali
del diritto privato. Su quest’ultima vicenda dei princìpi generali v. i cenni di RONDINONE,
Storia inedita della codificazione civile, cit. nt. 86, p. 148. Il tema sarà foriero di ulteriori sviluppi
nei primi anni Quaranta. Tra i giuristi di regime più inclini a corporativizzare il codice
civile, Alfonso Sermonti darà infatti il suo contributo in questa direzione con lo scritto Il
principio corporativo nella parte generale delle obbligazioni dell’aprile 1941 (conservato nell’Archivio
Filippo Vassalli).
159
Si possono allegare ancora una volta le pagine del corso di Diritto commerciale a.a. 19361937, cit. nt. 134, pp. 36-37: «ma tra l’ammettere queste doverose verità, e l’autorizzare il
giudice ad emanciparsi con disinvoltura dal sistema del diritto positivo, anche dove questo
interpretato coi sussidi della logica e dell’analogia non lascia posto a lacune, vi è una
enorme distanza. Questa distanza deve rimanere rigorosamente rispettata, se non si vuol
rinunciare a quella che è l’esigenza suprema di un ordinamento giuridico: dare allo svolgimento dei rapporti sociali il massimo di certezza». Sul legalismo di Asquini v. ora, con riferimento alla produzione giovanile, I. BIROCCHI, L’età vivantiana, cit. nt. 139, pp. 167-233
(pp. 221-223).
160
SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, pp. 404-407. Ulteriori considerazioni ora nel saggio di C. STORTI, Una costituzione per il regime? 1940: lo scoppio della guerra
e del conflitto tra partito fascista e scienza giuridica, in Giornale di storia costituzionale, 39/I (2020),
pp. 143-174 (pp. 143-145).
161
Betti ad esempio contesta vivacemente, per non dire polemicamente, la «tendenza diretta a svalutare la netta e precisa delimitazione delle ipotesi di fatto tipiche, previste dalle
norme giuridiche, e che induce talora perfino a vagheggiare come un ideale raggiungibile
della norma quella della «Tatbestandslosigkeit». Ciò significa sacrificare interamente alla
elasticità della norma la certezza del diritto e la sicurezza dei rapporti giuridici e conferire
al giudice tale ampiezza di apprezzamento discrezionale da chiamarlo al delicato compito
d’integrare e precisare le direttive legislative» (Il quarto libro nel quadro del progetto del codice
civile, cit. nt. 129, p. 61). Questo atteggiamento spiega molte delle scelte operate da Betti
nel corso dell’elaborazione del libro quarto delle obbligazioni. Nella prospettiva diplomatica e conciliante di mariano D’Amelio, invece, la collaborazione italo-tedesca, che ha peculiarità non solo sostanziali ma anche formali differenti da quella italo-francese, è l’alba
di una nuova epoca, al punto da spingerlo a declamare che «se una legislazione uniforme,
258
COSTRUIRE UNA NUOVA LEGALITà: IL DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI
Nel percorso che ci siamo sforzati di delineare per gli anni Trenta, questa
intesa è stata comunque una delle matrici della riforma attuata tra 1940 e
1942, di stampo e calco non liberale, destinata a sua volta ad essere riveduta
e rettificata, proprio nel settore più scoperto dell’intervento correttivo del
giudice sui contratti. Il volto progettuale di Asquini, che sarà responsabile
anche dell’architettura del libro quarto delle obbligazioni, ne esce confermato e rafforzato: sarà proprio lui, del resto, in una lettera molto eloquente
a mussolini del novembre 1938, a dare un’ulteriore grossa spallata al codice
unico italo-francese162. Così come è da ribadire il ruolo fondamentale avuto
dal principio corporativo, paradossalmente proprio nel momento declinante della sua parabola163, nel cammino che giungerà a dare fisionomia e
forma al codice civile164, anche nel libro quarto delle obbligazioni165.
nei limiti sopra accennati, sarà fissata fra l’Italia e la Germania dopo la vittoria, essa si
espanderà rapidamente anche in altri paesi e diventerà il diritto europeo, il nuovo diritto
comune, che auspicava la grande anima di Vittorio Scialoja» (Il diritto, in Romanità e germanesimo, a cura di J. De Blasi, Letture tenute per il Lyceum di Firenze, Sansoni Editore, Firenze
1941, pp. 67-83, p. 81)
162
La lettera è stata scoperta e pubblicata da RONDINONE, Storia inedita della codificazione
civile, cit. nt. 86, pp. 166-167, ed è opportunamente ricordata anche da SOmmA, I giuristi e
l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, p. 418. Vi si leggono alcuni passaggi molto chiari:
«Nessuno di noi si rammaricherà che il progetto del 1927 perda il sigillo di origine italofrancese, caro a Scialoja nei tempi della mistica italo-francese postbellica. […] Oggi mi
pare che, meno che mai, tale progetto possa interessarci come strumento politico italofrancese, anche se vi è ancora chi crede che un nuovo ambasciatore di Francia possa invertire la direzione del pendolo della storia. Sgombrato il terreno dalle nostalgie legislative
italo-francesi, la nostra collaborazione coi giuristi tedeschi per l’elaborazione del nuovo
diritto delle obbligazioni potrebbe essere in questo momento particolarmente feconda,
sia per dare al nuovo istituto delle obbligazioni – che conserva anche in Germania la sua
base romana – l’impronta dei nuovi principi che reggono i due paesi; sia per adeguare la
legge dei due paesi alla crescente importanza dei rapporti commerciali italo-germanici; sia
infine per poter sostituire con un nostro modello i modelli legislativi dei codici francesi,
di un secolo fa, in molti paesi dell’Europa Orientale e dell’America Latina, che, attratti in
passato dall’orbita della cultura francese, vanno ora orientandosi verso di noi e più andranno orientandosi nell’avvenire».
163
E qui il rinvio è d’obbligo all’acuta disamina di SANTOmASSImO, La terza via fascista, cit.
nt. 36, specialmente pp. 220-252.
164
SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino, cit. nt. 118, pp. 89-104.
165
Cfr. invece in senso più riduttivo, m. D’AmELIO, La codificazione italiana e la sua evoluzione
storica, Conferenza tenuta al Circolo Giuridico di Milano il 21 marzo 1942, in Linee fondamentali
della nuova legislazione civile italiana sulla famiglia, la proprietà privata, il lavoro e l’impresa, Circolo
Giuridico, milano 1943, pp. 11-26, p. 24: «Nel Libro delle Obbligazioni e in quello della
Tutela dei diritti la nuova materia trattata, è meno permeabile alle nuove idee sociali-politiche, per quanto non manchino ammirate norme di equità e di tutela dei diritti dei più
deboli. In detti libri però il valore tecnico è quello che maggiormente interessa». Posizione
259
G. CHIODI
attenta a distinguere tra continuità e discontinuità, coerente a quanto affermato in altre
sedi, come ad esempio la Presentazione del Nuovo Digesto Italiano, nel v. I (1937), p. x («La rivoluzione fascista, a sua volta, demolendo un vecchio mondo di principi democratici ed
una ideologia politico-economica, che irretiva la vita italiana, ha innovato sostanzialmente
il diritto pubblico ed alcune importanti provincie del diritto privato»). Si veda, viceversa,
quanto scrive il camaleontico G. SCADUTO, Introduzione al Libro primo del nuovo codice civile,
in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», XXXVII
(1939), I, pp. 321-332, sul rinnovamento spirituale apportato dal fascismo, capace di portare a piena realizzazione in modo integrale le aspirazioni di giustizia sociale del passato,
in un ordinamento che è tutto controllato dallo Stato, salvo opportune concessioni alla
discrezionalità del giudice necessarie a concretizzare quella giustizia sociale (pp. 324-326).
260
Antonio Jannarelli
Ascarelli e l’ordinamento corporativo
Nessuno può sperare di capire i fenomeni economici di qualsiasi epoca, inclusa la presente,
se non ha un’adeguata padronanza dei fatti storici e un’adeguata misura di senso storico o di
ciò che si potrebbe chiamarsi esperienza della
storia»
[J.A. SCHUmPETER, Storia dell’analisi economica,
I, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 16]
SOmmARIO: Introduzione: la dottrina commercialistica e l’impatto dell’ordinamento corporativo sul sistema del diritto privato – 2. Il contributo di Ascarelli:
considerazioni generali – 3. Un primo rodaggio: i contratti collettivi di lavoro tra
legge e contratto nell’approccio originale del giovane Ascarelli – 4. I rapporti di
massa e la contrattazione di categoria nella prima analisi di Ascarelli – 5. Intervento dello Stato nell’economia e discipline speciali: la crisi del modello ottocentesco e i compiti della dottrina – 6. La prima lettura sistematica dell’ordinamento
corporativo alla luce della crisi del capitalismo – 7. La trasformazione del diritto
commerciale nel nuovo ordine – 8. L’ordinamento corporativo ed il ruolo del
Consiglio delle corporazioni nella lettura ascarelliana – 9. I rapporti tra diritto e
politica ed i compiti degli interpreti – 10. L’intervento dello Stato e la frantumazione delle discipline: il definitivo tramonto del modello ottocentesco – 11. La
nuova politica del diritto nel quadro dell’ordinamento corporativo: la riforma
delle società – 12. La politicizzazione della riforma dei codici: la riforma del diritto
commerciale nel segno del primato della legislazione speciale sul codice – 13. Le
vicende finali del processo codificatorio: le intuizioni vincenti di Ascarelli
261
A. JANNARELLI
1. Introduzione: la dottrina commercialistica e l’impatto dell’ordinamento corporativo
sul sistema del diritto privato
Nella storiografia sull’epoca fascista si è da tempo sinteticamente guardato agli anni Trenta come agli anni del “consenso”1. A prescindere dal
compiuto e corretto significato da assegnare a questa formula, è indubbio
che dopo le gravi turbolenze e violenze che avevano caratterizzato gli ultimi
anni del decennio precedente, culminati con il delitto matteotti, il regime,
con la complicità della monarchia, andava a consolidare le sue strutture
portanti ed a dare contenuto agli indirizzi di politica economica e del diritto
preannunciati nella Carta del lavoro2, sì da incardinare le sue scelte nell’asÈ questo il titolo di un famoso volume di R. DE FELICE, Mussolini il duce, I. Gli anni del
consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1974, che ha dato vita ad un ampio dibattito:
per una sintesi si v. T. BARIS e A. G AGLIARD i, Le controversie sul fascismo degli anni Settanta
e Ottanta, in «Studi storici», 2014, p. 317 ss.; m. CANALI, Il revisionismo storico ed il fascismo, in
«Cercles: Revista d’Història Cultural», 2011, p. 83 ss. Per una diversa lettura si v. F. C ORDOVA , Il «consenso» imperfetto. Quattro capitoli sul fascismo, Rubbettino, Soveria mannelli 2010.
Sul tema si v. altresì i lavori di P.G. ZUNINO, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori
nella stabilizzazione del regime, il mulino, Bologna 1995; E. GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista, il mulino, Bologna 2001; ID., Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002.
Di un consenso rivolto più al fascismo-regime che al fascismo-movimento ha parlato A.
AQUARONE, Violenza e consenso nel fascismo italiano, in «Storia contemporanea», 1979, p. 145
ss. Diversa la periodizzazione prospettata da E. FImIANI, Fascismo e regime tra meccanismi statutari e «costituzione materiale», in Lo Stato fascista, a cura di m. Palla, Nuova Italia, Firenze
2001, il quale da un lato individua nell’anno 1929 il ‘tempo della raccolta’ delle semine
dittatoriali precedenti, dall’altro individua nel periodo successivo all’avventura etiopica
quell’«accelerazione totalitaria» cui sarebbe seguita la stagione delle difficoltà crescenti
nell’attuazione dell’ordinamento corporativo.
2
Sul rilievo complessivo della Carta del lavoro esiste una letteratura molto ampia: sul piano
politico si v. la sintesi prospettata da F. DE ROSA, Il fascismo corporativo. Una riflessione tra le
pagine di «Critica fascista», in Saggi e ricerche sul Novecento giuridico, a cura di A. De martino,
Giappichelli, Torino 2014, p. 44 ss. In ordine alla valenza che i giuristi italiani del tempo
riconobbero alla Carta del lavoro a proposito dell’intervento dello Stato nell’economia, si
rinvia all’illustrazione offerta da B. SORDI, La resistibile ascesa del diritto pubblico dell’economia,
in «Quaderni fiorentini», 1999, p. 1039 ss. Sul piano delle fonti, la determinazione formale
di cui alla legge 13 dicembre 1928 n. 2832, che «autorizzava il Governo ad emanare atti
aventi forza di legge per la completa attuazione della Carta del lavoro» adottata dal Gran
Consiglio il 21 aprile 1927, non venne ritenuta sufficiente da parte della dottrina e della
giurisprudenza per riconoscere valore normativo della Carta: conclusione, questa, che per
certi versi ha finito con essere attestata dalla successiva esplicita attribuzione di valore intervenuta solo con la legge 30 gennaio 1941 n. 14 (sul suo rilievo costituzionale dopo tale
legge A. AmORTH, La Carta del lavoro legge costituzionale, in «Rivista internazionale di scienze
sociali», 1941, p. 140 ss.). In senso critico contro l’indirizzo interpretativo formalistico intervenuto nei primi dieci anni dall’introduzione della Carta si v. L. mOSSA, La Carta del
lavoro e la giurisprudenza, in «Archivio di studi corporativi», 1937, p. 7 ss. In realtà, non sono
1
262
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
setto istituzionale del paese in chiave corporativa3.
Al di là della pur diversità di linee che a tale riguardo emergevano nella
galassia del corporativismo4, tali da alimentare nel tempo un dibattito non
mancate significative pronunce sia della Corte di Cassazione sia del Consiglio di Stato favorevoli nel riconoscere l’operatività giuridica di alcuni principi fissati nella Carta del lavoro: sul punto si v. E. D’ANTONIO, Principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato e Carta
del lavoro, in «Giurisprudenza Italiana», 1940, IV, c. 36 ss. Sulle diverse posizioni emerse è
preziosa sempre la rassegna di G. mAZZONI, Introduzione al diritto corporativo (I presupposti
– L’ordinamento – Le fonti), Giuffrè, milano 1941, p. 137 ss.; ID., A proposito del valore giuridico della Carta del lavoro, in «Archivio di Studi corporativi», 1941, p. 535 ss., il quale rimarcò, a conferma delle incertezze e delle tensioni interne al mondo del regime, che in
alcuni importanti snodi disciplinari la legislazione allora vigente era in evidente contrasto
con alcuni dei principi contenuti nella Carta: questi riflettevano un programma che era
già stato modificato nel corso degli anni.
3
Sulla parabola percorsa sul piano economico dal regime, dai primi anni agli sviluppi maturi degli anni Trenta, può condividersi la realistica lettura proposta da U. SPIRITO, Capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1934, p. 74, secondo il quale «La politica economica
del Fascismo, accentuatamente liberale nei primi anni (1922-25), si è andata avvicinando
al socialismo di Stato negli anni seguenti (1926-29), per avviarsi, poi, in questi ultimi tempi,
verso il corporativismo integrale. La Carta del Lavoro del 1927, pur segnando l’inizio del
vero corporativismo (“Le corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria delle forze
della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi”, dichiarazione VI), conserva, come ogni grande carta politica e rivoluzionaria, i residui del mondo contro cui si
insorge e quindi l’inconsapevole compromesso destinato a segnare la fase transitoria». Sul
tema, oggetto di una ampia letteratura si v. tra i primi studi S. LA FRANCESCA, La politica
economica del fascismo, Laterza, Bari 1976.
4
Sulla “polifonia” del termine corporativismo all’interno dello stesso dibattito emerso nel
ventennio si v. in generale le preziose indicazioni di P. COSTA, Corporativismo, corporativismi,
discipline: a proposito della cultura giuridica del fascismo, in «Quaderni di storia dell’economia politica», 1990, p. 403 ss. Per una ampia raffinata indagine a tutto campo sul tema si rinvia a
I. STOLZI, L’ordine corporativo, Giuffrè, milano 2007. A proposito del dibattito economico
emerso in Italia a partire dalla fine degli anni Venti per ampia parte del decennio successivo
si v. G. mARONGIU, La crisi del 1929 e le ripercussioni sull’Europa e sull’Italia degli anni trenta, in
Il corporativismo nell’Italia di Mussolini, Dal declino delle istituzioni liberali alla Costituzione repubblicana, a cura di P. Barucci, P. Pini, L. Conigliello, Firenze University Press, Firenze 2018,
p. 23 ss.; sul punto si v. A.m. FUSCO, Corporativismo fascista e teoria economica, in Intervento pubblico e politica economica fascista, a cura di D. Fausto, FrancoAngeli, milano 2007, p. 49 ss. Infatti, in ordine alla cultura economica, si era in presenza di un fronte molto variegato: così
R. FAUCCI, Dall’economia programmata corporativa alla programmazione economica: il dibattito tra
gli economisti, in «Quaderni fiorentini», 1999, p. 9 ss.; sulle diverse declinazioni del corporativismo si v. i saggi editi in La cultura economica tra le due guerre, a cura di P. Barucci, S. misiani, m. mosca, FrancoAngeli, milano 2015. Di «un coacervo di formule propagandistiche
e di velleitarie aspirazioni quale base dell’ideologia corporativa» ha parlato D. CAVALIERI,
Il corporativismo nella storia del pensiero economico italiano: una rilettura critica, in «Il pensiero economico italiano», 1994, p. 48, secondo il quale, il corporativismo non sarebbe riuscito a
proporre nella riflessione economica «né una nuova metodologia di ricerca, né una nuova
impostazione teorica». In effetti, già nel 1933, nel pieno del dibattito tra le diverse anime
263
A. JANNARELLI
del corporativismo dovuto alla imminente introduzione della legge sulle corporazioni, L.
EINAUDI, Trincee economiche e corporativismo, in ID., Nuovi saggi, Einaudi, Torino 1937, p. 34
ss., in part. pp. 49-50 nt. 1, aveva suggerito agli economisti di abbandonare le formule
astratte ed ideologiche, essendo viceversa necessario verificare in concreto i problemi e
soluzioni a partire da quello ineludibile dei prezzi. A suo dire, «preme solo di affermare
[…] che l’ipotesi della concorrenza perfetta non ha nulla a che fare con il liberalismo ed,
ovviamente, quella del monopolio perfetto con il socialismo. Gli economisti conoscono,
definiscono e studiano solo ipotesi astratte, puri strumenti di ragionamento, del tipo di
quella della concorrenza perfetta e del monopolio perfetto. In qualità di economisti possono vivere e lavorare tranquillamente senza aver mai ragione di incontrare sui loro passi
liberalismo e socialismo. Se essi, in aggiunta, sono anche liberali o socialisti, questa è faccenda che li riguarda personalmente, ma non tocca, se sono persone serie, l’“economica”
che essi coltivano. Perciò, anche, se essi intendono studiare, come economisti, il corporativismo, debbono necessariamente tradurlo in premesse astratte della teoria del prezzo.
Altrimenti essi attenderanno, ben o male, a seconda delle loro attitudini mentali, a qualche
altra disciplina, non certo alla “economica”». Sull’utilizzo degli schemi già presenti nella
scienza economica del tempo, al fine di adattarli alle condizioni specifiche legate all’azione
delle istituzioni corporative, si era espresso m. FANNO, Introduzione allo studio della teoria economica del corporativismo, milani, Padova 1935; sulla persistente valenza dell’economia classica
si v. L. GANGEmI, Politica corporativa e dinamica economica, Cremonesi editore, Roma 1934:
ivi in appendice una preziosa rassegna della letteratura economica corporativa. In realtà,
sulla sostanziale carenza di una letteratura economica costruita sulla figura dell’homo corporativus da contrapporre all’homo oeconomicus secondo le prospettazioni di Arias (su cui si
v. ex multis L. CERASI, Etica e politica della corporazione nel fascismo dei primi anni trenta, in «Studi
di storia», 8/2019, p. 101 ss. e O. OTTONELLI, Gino Arias (1879-1940). Dalla storia delle
istituzioni al corporativismo fascista, Firenze University Press, Firenze 2012), si v. la ricerca
sulla manualistica economica italiana emersa durante il ventennio svolta da R. FAUCCI e
N. GIOCOLI, Manuals of economics during the Ventennio: forging the homo corporativus?, nella
più ampia quanto interessante indagine An Institutional History of Italian Economics in the Interwar Period, a cura di m. Augello, m.E.L. Guidi e F. Bientinesi, vol. I, Springer, Cham
2020, p. 171 ss. A ben vedere, a prescindere dalle fumose costruzioni teoriche, il movimento fascista sin dalle origini ha ospitato al proprio interno posizioni sociali e spinte
ideologiche profondamente diverse, dovute alla convergenza tra le posizioni nazionalistiche e quelle anarco-sindacaliste e socialiste. Più precisamente, come ebbe ad osservare,
nel 1931, un acutissimo giurista come O. KAHN FREUND, The Social Ideal of the Reich Labour
Court – A Critical Examination of the Practice of the Reich Labour Court, in ID., Labour Law and
Politics in the Weimar Republic, Basil Blackwell, Oxford 1981, p. 108 ss., in part. pp. 109-110,
il meccanismo socio-politico alla base del fascismo, sia nella versione italiana sia in quella
tedesca, si caratterizzava in termini negativi, in particolare «as rejection of three systems
which have until now dominated the social policy of capital age, namely liberalism, social
conservatism and collectivism. Liberalism, which condemns all combinations and leaves
the structuring of social relations to the free play of social and economic forces, is as distinct from fascism as social conservatism, which places the existentially isolated, uncombined individuals of the working class under the social protection of the state. Fascism
also stands in conscious opposition to collectivism, particularly of German kind, which
leaves the structuring of social relations between the two classes which are party of the
basic contradiction in society. All three systems have contributed in terms of history of
ideas in the evolution of fascism, but fascism itself is something new. It takes from libe264
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
privo di asprezze, in quegli anni si erano peraltro progressivamente diffuse
in molti strati della società tanto la percezione circa la sostanziale stabilizzazione del regime, quanto, in definitiva, la convinzione, a partire dai giuristi
più sensibili, che le scelte legislative, in parte allora in progress, fossero destinate a fare presa sull’intero ordinamento giuridico del paese, con indubbi
effetti sistemici di lunga durata5.
ralism the essentially negative attitude towards a state-run economy. It takes from social
conservatism the idea of state ‘welfare provision’ (Fürsorge) and the idea that the national
interest should be the dominant factor in the structuring the social relations. Simultaneously, it takes from social conservatism the rejection of social conflict. Finally it derives
from collectivism the idea of formation of associations and the idea of the associations
as the key social actors in the conflict between the two main classes». Del resto, il termine
stesso ‘corporativo’, nella diversità delle sue accezioni semantiche, rifletteva sia le tendenze
statuali dirette a ‘incorporare’ i gruppi sociali, sia lo sforzo dei medesimi gruppi sociali
per ‘accorparsi’ in aggregazioni stabilmente organizzate in modo da meglio difendersi
dalle spirali di uno Stato ‘totale’ (così L. ORNAGHI, La «nuova scienza» nell’età fascista, in «Il
Politico», 1982, p. 479 ss., in part. p. 482). In definitiva, la costruzione e l’attuazione dell’ordinamento corporativo intervennero in siffatto composito campo di diverse istanze
ideologiche. Sicché non deve sorprendere se, già nel 1928, quando era in progress l’adozione
delle leggi attuative dell’ordinamento corporativo delineato nella legge del 1926 e nella
Carta del lavoro, il dibattito conosceva già la distinzione tra gli ‘oltranzisti del corporativismo’, favorevoli alla ‘gestione di Stato dell’azienda economica nazionale’ e ‘i corporativisti del liberalismo economico’: al riguardo si v. D. GUIDI, L’oggi e il domani dell’ordinamento
corporativo, in «Diritto e pratica commerciale», 1928, p. 631. Per una più articolata distinzione all’interno degli economisti corporativi si rinvia a D. PARISI, voce Corporativismo, Il
Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012), http://www.treccani.it/enciclopedia/corporativismo_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Economia%29/. Non meno significativa la distanza di posizioni sul piano politico a proposito del ruolo del sindacato nella
prospettiva volta a disinnescare i conflitti tra capitale e lavoro: sul punto, anche per ampi
riferimenti bibliografici si v. il recente saggio di S. PRISCO, La rappresentanza politica e la rappresentanza degli interessi. I giuspubblicisti del fascismo e la ricerca della “terza via”, in «Rivista AIC»,
1/2018. Più in generale, quanto alle articolazione del corporativismo nell’area dei giuristi,
si v. i recenti contributi di m. PASETTI, L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le
due guerre mondiali, Bononia University Press, Bologna 2016; m. FIORAVANTI, Costituzione,
amministrazione e trasformazioni dello Stato, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, a cura di A. Schiavone, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 3 ss.
5
Pur se riferita alla percezione diffusa tra i comunisti italiani alla metà degli anni Trenta,
a nostro avviso, può essere preziosa, anche ai fini della analisi più realistica, in ordine all’approccio dei giuristi, riprendere l’osservazione avanzata da P.G. ZUNINO, Interpretazione
e memoria del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 97, secondo la quale «a noi stessi, se si
riuscisse, per un attimo, a cancellare ciò che bene abbiamo fisso in testa, e cioè la sequenza
cronologica che solo sette anni dopo la conquista dell’Impero ci mostra un fascismo in
ginocchio e un’Italia percorsa dagli eserciti stranieri, se per un momento potessimo riportarci al 1936 e sospenderci nel vuoto del domani sconosciuto, anche a noi quell’Italia fascista parrebbe ragionevolmente avere di fronte a sé non una manciata di anni di vita ma
i lustri e i decenni (come del resto un respiro trentennale avrebbero ancora avuto i due fascismi europei tenuti giudiziosamente al riparo della guerra). In quel tempo, vorremmo in
265
A. JANNARELLI
In particolare, per quanto riguarda, più da vicino, il diritto privato, già
alla fine degli anni Venti, le prime scelte adottate dal regime avevano toccato
le due principali aree disciplinari riflettenti i concreti interessi socio-economici delle classi che avevano favorito l’avvento del regime. Nella lucida
prospettiva nazionalistica autorevolmente rappresentata da Alfredo Rocco6,
effettivo architetto del regime7, il 21 aprile del 1927 era stata adottata la
Carta del lavoro. Intervenuta sulla scia della legge del 3 aprile 1926 n. 563
relativa ai rapporti collettivi di lavoro8, a sua volta seguita dall’istituzione
sostanza dire, non senza ragione dovette a più d’uno sembrare che la guerra contro il fascismo fosse davvero persa e che la sconfitta fosse definitiva, almeno per un ciclo storico
di indeterminata estensione. […] Da qui discende, pure, la tendenza a ritenere che ogni
soluzione al problema italiano debba essere ricercata all’interno della cornice fascista.
Ormai si fa strada l’opinione che l’alternativa non sia tra fascismo e antifascismo […] ma
tra ciò che si chiama il mussolinismo e un fascismo diverso, un fascismo dai contorni evanescenti, attenuato nella sua connotazione autoritaria e in qualche modo riformato».
6
Su Alfredo Rocco esiste una immensa letteratura: per una preziosa ampia ricognizione
si rinvia per tutti a G. CHIODI, Alfredo Rocco e il fascino dello Stato totale, in I giuristi e il fascino
del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi e L. Loschiavo, RomaTrE-Press, Roma 2015,
p. 103 ss.; sul corporativismo di Rocco e la sua sconfitta alla luce delle contraddizioni del
fascismo si v. S. BATTENTE, Alfredo Rocco. Dal nazionalismo al fascismo, 1907-1935, FrancoAngeli, milano 2005; G. SImONE, Il guardasigilli del regime: l’itinerario politico e culturale di
Alfredo Rocco, FrancoAngeli, milano 2012.
7
Diversa la definizione che prospettò T. ASCARELLI, La dottrina commercialistica italiana e
Francesco Carnelutti, in «Rivista delle Società», 1960, p. 1 ss., in part. p. 9, secondo il quale
«Ben più di qualunque altro, Alfredo Rocco, è stato il “filosofo“ del fascismo».
8
Questa legge, presentata subito dopo il patto di Palazzo Vidoni con cui la Confederazione
degli industriali, abbandonando il suo precedente atteggiamento, riconobbe quale sua
esclusiva controparte la Confederazione delle Corporazioni fasciste, aprì la strada alla costruzione dell’ordinamento corporativo completata negli anni successivi. Ne era lucidamente consapevole Alfredo Rocco, ispiratore ed elaboratore di quel primo intervento
legislativo, che, per la verità, da anni era al centro del programma politico dei nazionalisti
di cui lo stesso Rocco era autorevole esponente (e si v. a proposito della necessità di giuridicizzare le organizzazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, quale provvedimento «chiave della ricostruzione economico-sociale del dopo-guerra», la proposta
suggerita da F. CARLI, I compiti dello Stato ed il riconoscimento giuridico delle organizzazioni professionali, in ID., Dopo il nazionalismo, Cappelli, Bologna 1922, p. 172 ss., in part. p. 181). Nella
seduta del 18 novembre 1925 in cui presentava alla Camera il disegno di legge, Rocco rimarcò che «Il patto del 2 ottobre 1925 […] con cui le due organizzazioni stabiliscono di
riconoscersi reciprocamente come le sole legittime rappresentanti dei datori di lavoro e
dei lavoratori dell’industria, segna il trionfo del sindacalismo nazionale e prepara la via alla
trasformazione più profonda che lo Stato abbia mai subito dalla rivoluzione francese in
poi» (A. ROCCO, La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale allo Stato Fascista, La Voce,
Roma 1927, p. 335). Sul patto di Palazzo Vidoni che, in realtà, perfezionò, con indubbi
sacrifici per i sindacati dei lavoratori, l’accordo di Palazzo Chigi del 1923, si v. C. SCHWARZENBERG, Diritto e giustizia nell’Italia fascista, mursia, milano 1977, p. 23 ss. È bene ram266
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
del ministero delle corporazioni con il r.d. 2 luglio n. 1131 del medesimo
anno9, la Carta aveva esplicitato i principi programmatici ispiratori della
successiva legislazione fascista non solo per la disciplina dei rapporti di lavoro ma, in una prospettiva ben più ampia, per quella relativa all’intera attività economica.
A tale riguardo, da un lato si puntava sul primato dell’iniziativa economica privata e sull’intervento soltanto sussidiario dello Stato nella produzione economica, dall’altro si sosteneva pur sempre la rilevanza funzionale
della stessa organizzazione privata della produzione a fronte dell’interesse
nazionale in ordine alla produzione10, in modo da segnare11, nella prospetmentare che la legge del 1926 si limitò a preannunciare le corporazioni, per la verità senza
citarle. Infatti, l’art. 3 prevedeva soltanto la riunione delle associazioni dei datori di lavoro
e dei lavoratori «mediante organi centrali di collegamento con una superiore gerarchia comune». Spettò all’art. 42 del r.d. 1° luglio 1926 n. 1130, recante norme attuative della legge
n. 206 dello stesso anno, chiamare esplicitamente corporazioni le organizzazioni citate
nell’art. 3 della legge, risultanti dal collegamento delle «organizzazioni sindacali nazionali
di tutti i fattori della produzione, datori di lavoro, lavoratori intellettuali e manuali, per un
determinato ramo della produzione, o per una o più determinate categorie di imprese». È
indubbio, come rilevò lo stesso A. ASQUINI, L’opera giuridica di Alfredo Rocco, in «Foro italiano», 1935, IV, c. 122, che «In essa – e nelle sue norme di attuazione – sono contenuti i
principi di tutti i successivi sviluppi, al fine di rendere idonea l’organizzazione sindacale e
corporativa alla disciplina degli stessi rapporti commerciali nei limiti richiesti dalle circostanze». In effetti, a prescindere dalla specifica congiuntura dovuta ai conflitti sociali emersi
nel primo dopoguerra, il tema del lavoro è stato indubbiamente centrale nell’elaborazione
dell’ideologia e della stessa azione politica del fascismo, in quanto rappresentava il nodo
storico del conflitto emerso nel Novecento e che aveva alimentato anche la rivoluzione
bolscevica: nodo che andava risolto, negandone la stessa esistenza, mediante la costruzione
di un modello culturale ed istituzionale, fondato appunto sul sistema corporativo, chiamato
gerarchicamente a neutralizzare le diversità in funzione del perseguimento di interessi generali concentrati nello Stato in nome anche di una etica solidaristica: sul punto si v. il recente contributo di L. CERASI, Corporazione e lavoro. Un campo di tensione nel fascismo degli anni
trenta, in «Studi storici», 2018, p. 941 ss.
9
Entrambi i provvedimenti furono pubblicati sulla G.U. del Regno del 7 luglio 1926 n.
155. Nel provvedimento istitutivo del ministero delle corporazioni, l’art. 4 disponeva,
anche, la costituzione, presso il ministero, del Consiglio nazionale delle corporazioni, da
un lato dettandone la composizione, dall’altro specificando, nel comma 3°, che sua esclusiva funzione era quella di «dar parere sulle questioni che interessino corporazioni diverse
o associazioni appartenenti a diverse corporazioni e su ogni altra questione che gli venga
sottoposta dal ministro per le corporazioni». Nettamente diverse, come si vedrà in prosieguo, le funzioni assegnate al Consiglio con la riforma intervenuta con la legge 20 marzo
1930 n. 203, che tra l’altro dispose l’abrogazione della norma sopra richiamata contenuta
nel r.d. n. 1131 del 1926.
10
«La supremazia della legge della produzione su quella della distribuzione», sostenuta da
Rocco, costituiva uno dei principi fondamentali del nazionalismo, come ricorda R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. I, il
267
A. JANNARELLI
mulino, Bologna 1991, p. 296. Quanto bastava, come rimarcò la dottrina (si v. m. CASANOVA, Sistema e fonti nel diritto del lavoro, in «Rivista del diritto commerciale», 1929, I, p. 565)
per segnalare che mentre nella esperienza tedesca il diritto del lavoro faceva «perno sui lavoratori avendone la protezione per fine primario», confortata in questo dall’art. 157 della
Costituzione di Weimar, «il fascismo imprime invece al diritto italiano del lavoro una tipica
fisionomia organica che lo innalza sui concetti di mera protezione professionale. In una
sfera di attenta e duttile regolamentazione giuridica, interessi dei lavoratori e interessi delle
imprese, sono, ugualmente, protetti, ma, sopra gli uni e gli altri, il diritto tutela gli interessi
della produzione, unitaria, dal punto di vista nazionale». La continuità tra la legge del 1926
sui contratti collettivi di lavoro e la Carta del lavoro del 1927 è formalmente presente nel
r.d. 6 maggio 1928 n. 1251 che, nel dettare norme per il deposito e la pubblicazione dei
contratti collettivi, ha subordinato (art. 8) la pubblicazione del contratto alla sua conformità ad alcuni dei principi, specificamente elencati, contenuti nella Carta del lavoro.
11
A ben vedere, le indicazioni provenienti rispettivamente dalle dichiarazioni VII e IX e
da quelle I e II della Carta del lavoro fornirono materiale per l’emersione di contrapposte
linee interpretative, tra quella più moderata, definitivamente affermatasi come dominante
nella scena politica ed economica del regime, e quella più ideologicamente radicale, che
ebbe modo di manifestarsi in occasione di quell’«inquieto dialogo sul corporativismo»
(così il titolo omonimo del saggio di N. IRTI, Un inquieto dialogo sul corporativismo, in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», 1987, p. 344 ss.) intervenuto nel II Convegno di
studi sindacali e corporativi del 1932: per una lettura del convegno quale manifestazione
emblematica della doppiezza originaria del fascismo si v. D. SETTEmBRINI, Fascismo controrivoluzione imperfetta, Sansoni, Firenze 1978, p. 281 ss. Ciò accadde soprattutto a causa della
relazione di Ugo Spirito, favorevole ad un coinvolgimento anche degli operai nella proprietà delle imprese, sul presupposto, sia della terza via rappresentata dal corporativismo
rispetto al liberismo e al comunismo, sia della coincidenza tra società e Stato su cui, a sua
volta, insistette nella sua relazione Volpicelli che incontrò le forti riserve critiche di Santi
Romano, Carnelutti, Cesarini Sforza e Paolo Greco, il quale non esitò a considerare Volpicelli come fautore di «interpretazioni piuttosto liriche del corporativismo»: a tali critiche
volle rispondere A. VOLPICELLI, Risposte alle obiezioni, in ID., Corporativismo e scienza del diritto,
Sansoni, Firenze 1934, pp. 55-156. Al tempo stesso rappresentò anche una singolare occasione per le polemiche che coinvolgevano la lettura del fascismo avanzata da Giovanni
Gentile (sul punto si v. G. TURI, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, il mulino, Bologna
1980, p. 84 ss.), nonché la cultura idealistica di quest’ultimo a cui si ispiravano Volpicelli
e Spirito (si v. al riguardo le critiche avanzate da F. OLGIATI, Una ‘Nuova’ concezione storicistica
del diritto, in «Rivista internazionale di scienze sociali», 1931, p. 22 ss.). La tesi di Spirito,
riassunta nella formula della “corporazione proprietaria”, e che secondo diverse testimonianze sarebbe stata letta ed approvata dallo stesso mussolini alcuni giorni prima della sua
pubblica presentazione (si v. G. VOLPE, Storia costituzionale degli italiani, II. Il popolo delle scimmie (1915-1945), Giappichelli, Torino 2015, p. 312), apparve nel corso dei lavori eversiva,
incontrando la forte opposizione dei partecipanti [per una analisi puntuale di alcuni degli
interventi si v. S. CAROTENUTO, Le reazioni alla tesi della “Corporazione proprietaria” avanzata al II convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara 5-8 maggio 1932), https://www.academia.edu/36831721/La_tesi_della_Corporazione_Proprietaria_al_secondo_convegno_di_studi_sindac
ali_e_corporativi_-Ferrara_5-8_maggio_1932], a partire dallo stesso Bottai che aveva promosso
il convegno. Sulla polemica che seguì alla relazione di U. SPIRITO, Individuo e Stato nell’economia corporativa, si v. la stessa introduzione elaborata da Spirito alla raccolta dei suoi saggi,
Capitalismo e corporativismo, cit. nt. 3, che ospita anche il testo di tale relazione. Sul convegno
268
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
tiva di un regime che voleva essere totalitario12, l’abbandono del liberismo
e una drastica frattura dal mondo conflittuale intervenuto nelle rapporti di
lavoro in seno alle industrie e nei rapporti contrattuali nelle campagne13 a
partire dall’immediato primo dopoguerra e che aveva trovato lo Stato liberale inerme ed incapace di intervenire con efficacia, sì da favorire l’avvento
del fascismo, sulla spinta favorevole, sia della piccola borghesia moderata14
e conservatrice, sia dei grandi proprietari agrari, sia dei grandi industriali15.
ferrarese si v. per tutti m. mARTONE, Un antico dibattito: Ferrara 1932: il secondo convegno di
studi sindacali e corporativi, in Diritto del lavoro: i nuovi problemi: l’omaggio dell’Accademia a Mattia
Persiani, Cedam, Padova 2006, pp. 493-518, ivi ampi riferimenti bibliografici, nonché G.
SANTOmASSImO, La terza via fascista, Carocci, Roma 2006, p. 141 ss. e mARONGIU, La crisi
del 1929 e le ripercussioni sull’Europa e sull’Italia degli anni trenta, cit. nt. 4; nonché D. SETTEmBRINI, Fascismo controrivoluzione imperfetta, cit. in questa stessa nt., p. 280 ss. Su Ugo Spirito
si rinvia a F. D’URSO, Tra Scienza e Vita: Economia e diritto nel pensiero di Ugo Spirito,
https://www.unisob.na.it/ateneo/annali/2011-2012_vol2_tomo1_9_DUrso.pdf. Per altri riferimenti bibliografici sulla corporazione proprietaria si v. I. STOLZI, Il fascismo totalitario: il contributo della riflessione idealistica, in «Historia et Jus», 2/2012, paper 14, nt. 45,
http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/stolzi.pdf. A seguito di tale convegno,
Bottai venne allontanato dal ministero delle Corporazioni, la cui gestione venne assunta
dallo stesso mussolini coadiuvato come sottosegretari da Bruno Biagi e Alberto Asquini.
12
Sui diversi significati che il termine “totalitario” ha ricevuto all’interno della stessa esperienza fascista resta sempre preziosa l’analisi di P. COSTA, Lo ‘Stato totalitario’: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in «Quaderni fiorentini», 1999, p. 61 ss.
13
Non a caso, il modello della cooperazione e collaborazione tra capitale e lavoro, alla
base della disciplina relativa al contratto di mezzadria del 13 giugno 1933 (la c.d. Carta
della mezzadria), doveva rappresentare, per uno dei più autorevoli esponenti dell’ideologia
fascista, un autentico «caposaldo del sistema economico e sociale» del fascismo, da applicarsi anche al mondo delle relazioni industriali: in questi termini si v. S. PANUNZIO, La rivoluzione domani, del 15 febbraio 1933, riprodotta nel volume Autobiografia del fascismo.
Antologia di testi fascisti (1919-1945), a cura di R. De Felice, Einaudi, Torino 2001, p. 316 ss.
14
Sul rilievo dei moderati nell’avvento e nelle alterne fortune del regime si v. L. mUSELLA,
Il fascismo dei moderati, in «Ventunesimo Secolo», vol. 12, n. 30 (I moderatismi nella storia d’Italia), 2013, p. 31 ss. La percezione estremistica delle lotte operaie, tale da portare all’adesione
al fascismo anche di esponenti autorevoli della cultura liberale, può cogliersi nella lettura
di quelle tensioni sociali evidenti nel titolo stesso del contributo di analisi adottato da m.
PANTALEONI a proposito del suo saggio, Il bolscevismo italiano, Laterza, Bari 1922, frutto
anche della diffusa ossessione nei confronti della rivoluzione russa (al riguardo si v. S.
LUPO, Il fascismo: la politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005, p. 59 ss.).
15
Sul punto, a prescindere dal vasto materiale storiografico accumulato, si veda la considerazione a caldo svolta nel 1938 da un protagonista di quella stagione: F.S. NITTI, La disgregazione dell’Europa, nel brano che si legge in ID., Scritti politici di Francesco Saverio Nitti, a
cura di R. Nieri e R.P. Coppini, Feltrinelli, milano 1980, p. 297 ss. Altro discorso è la presenza originaria nel movimento fascista di pulsioni antiborghesi (sul punto si v. R. DE FELICE, Mussolini il duce, II. Lo Stato totalitario (1936-1940), Einaudi, Torino 1996, p. 95 ss.):
pulsioni che continueranno a persistere nella pubblicistica del regime e che sarebbero state
269
A. JANNARELLI
L’impatto cumulativo tanto della legislazione materiale, progressivamente adottata dal regime (solo in parte in linea di continuità con quella
accumulatasi nel corso della prima guerra mondiale16 e, comunque, più incisiva nel segno di uno Stato interventista in economia17 e che da autoritario
si andava trasformando in totalitario), quanto dell’impianto ‘corporativo’
verso il quale si indirizzava il processo legislativo suscitò l’attenzione principalmente della cultura giuridica dei commercialisti, ossia dei giuristi di
area privatistica più sensibili, per formazione e per competenza, ad occuparsi delle relazioni economiche e del loro complessivo sistema. In particolare, a fronte dell’emersione di una legislazione contenente norme di
contenuto privatistico e pubblicistico, collocate, peraltro, nella cornice macroeconomica delle relazioni categoriali, al centro dell’allora nascente diritto
corporativo, è stata la dottrina commercialistica a dover per prima individuare ed affrontare alcune problematiche di ordine generale che solo in
parte riprendevano tematiche già emerse in precedenza.
Innanzitutto, lo sviluppo della legislazione speciale legata all’intervento
dello Stato nell’economia18 prospettava, quale primo fondamentale impatto,
il problema relativo al ruolo da assegnare alla codificazione civile e a quella
commerciale alle quali, in definitiva, corrispondeva, sul piano della ricerca
giuridica, la presenza del diritto civile e del diritto commerciale. Infatti, la
complessità e specificità dei pacchetti disciplinari che andavano prendendo
corpo e che sempre di più si ispiravano a principi non in linea con quelli
alla base del diritto codificato, spingevano verso una loro lettura in termini
riprese nella proposta politica della Repubblica sociale.
16
Sull’incidenza della legislazione di guerra sul diritto privato oltre al saggio famoso di F.
VASSALLI, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato, in «Rivista del diritto
commerciale», 1919, I, p. 1 ss., si v., per una preziosa rassegna, m. ROTONDI, Una legislazione
di guerra (1915-1924), edita in tedesco nel 1926, ora in ID., Profili di giuristi e saggi critici di legislazione e di dottrina, Cedam, Padova 1964, p. 101 ss. Per una rilettura del tema si v. G.
FRANCISCI, La legislazione di guerra e i diritti della popolazione, in Parlamenti di guerra (19141945), a cura di m. meriggi, Clio Press, Napoli 2017, p. 183 ss., nonché L. mOSCATI, La
legislazione di guerra e il contributo della civilistica romana, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 2016, p. 349 ss.
17
Sul fenomeno accentuatosi in Europa a partire dal primo dopoguerra si v. SORDI, La resistibile ascesa del diritto pubblico dell’economia, cit. nt. 2, p. 1039 ss.
18
Sulla più recente attenzione della ricerca storiografica in ordine all’effettivo intervento
dello Stato in economia durante il fascismo, al di là delle mitizzazioni e la propaganda di
regime (su cui il recente contributo di SANTOmASSImO, La terza via. Il mito del corporativismo,
cit. nt. 11), si v. A. GAGLIARDI, L’economia, l’intervento dello Stato e «la terza via» fascista, in
«Studi storici», 2014, p. 67 ss. Sull’impostazione culturale del tema presente in Italia alla
metà degli anni Trenta si v. GANGEmI, Politica corporativa e dinamica economica, cit. nt. 4.
270
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
di diritti speciali, come tali diversi e distinti dalle discipline generali contenute nei codici19.
Ciò portava sia a ridimensionare il ruolo centripeto tradizionalmente
svolto da questi ultimi, sia a mettere in discussione lo stesso ambito dell’indagine affidata al diritto commerciale e al diritto civile, a fronte, ad es.,
del progressivo strutturarsi di nuove discipline, quali il diritto del lavoro,
il diritto agrario, il diritto della navigazione. Ancora più delicati, al riguardo,
si presentavano i problemi relativi tanto alla configurazione del nascente
‘diritto corporativo’, nonché delle sue possibili declinazioni, in ragione proprio del peculiare intreccio nello stesso di regole privatistiche e pubblicistiche, quanto dell’impatto che le norme prodotte da siffatto ordinamento
singolare avrebbe avuto sull’intero di diritto privato, allora ruotante pur
sempre sulla codificazione civile e su quella commerciale.
In secondo luogo, a fronte della ‘frantumazione’ del diritto privato derivante dall’emersione di diritti speciali, in una con la tendenziale compresenza nel nuovo tessuto disciplinare anche di norme pubblicistiche, si
riproponeva, per una nuova lettura, il tema relativo all’unificazione del diritto delle obbligazioni e dei contratti accesosi soprattutto tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento20: tema che in parte era sopravvissuto
nella riflessione della dottrina dinanzi al definitivo fallimento nel 1925 dei
progetti diretti alla rivisitazione della codificazione commerciale, emersi
alla fine della prima guerra mondiale, nonché all’abbandono del progetto
italo-francese in ordine alla riforma delle obbligazioni e dei contratti del
192721. In tale tematica, a ben vedere, si rifletteva la diffusa convinzione
Sui primi passi del dibattito sull’autonomia dei nuovi rami del diritto, si v. il saggio, apparso nel novembre del 1928, di A. CANDIAN, Della nuova legislazione di diritto privato in Italia,
in ID., Saggi di diritto, Cedam, Padova 1931, p. 7 ss., in part. pp. 76-77.
20
Si v. al riguardo, per una felice sintesi, m. CARAVALE, «Perché mai il diritto privato è ancora
diviso in due campi, il civile e il commerciale?». La polemica sul Codice di Commercio nell’Italia liberale,
in C. ANGELICI et alii, Negozianti e imprenditori. 200 anni dal Code de commerce, mondadori,
milano 2008, p. 81 ss. Per una compiuta bibliografia sugli interventi emersi nel dibattito
nel corso della Novecento sino all’entrata in vigore della codificazione civile del 1942 –
tema pur sempre intrecciato con quello relativo alla conservazione della codificazione
commerciale accanto a quella civile – è tuttora prezioso il saggio di uno dei protagonisti
di tale dibattito, m. ROTONDI, Evoluzione ed involuzione dell’autonomia del diritto commerciale in
Italia, in ID., Scritti Giuridici, vol. II, pp. 24-26, nt. 14-24. Va, però, segnalato che la distinzione offerta da Rotondi nel suo saggio in ordine alle posizioni assunte dalla letteratura
giuridica sul tema prende in considerazione unitariamente l’intero periodo storico sopra
indicato, senza le necessarie ed opportune articolazioni dialettiche intervenute nel tempo
da parte dei protagonisti del dibattito. Sul punto si v. infra.
21
Sul progetto italo-francese relativo al codice delle obbligazioni e dei contratti del 1927
si v. per tutti gli approfonditi saggi di G. CHIODI, «Innovare senza distruggere»: il progetto italo19
271
A. JANNARELLI
in ordine sia alla crescente inadeguatezza delle soluzioni disciplinari in materia di contratti ed obbligazioni contenute nel codice civile del 1865 e in
quello commerciale del 1882, alla luce delle nuove istanze emerse nel corso
dello sviluppo socio-economico del paese, sia all’inaccettabilità, sul piano
sociale e morale, della ‘commercializzazione’ del diritto privato che si era
affermata nei trascorsi decenni, a causa della scelta accolta nel codice di
commercio del 1882: scelta per la quale la legge commerciale da applicare
nei rapporti economici tra commercianti era destinata ad operare anche
per gli atti unilaterali di commercio, ossia per i contratti intervenienti tra
operatori commerciali e consumatori22.
francese di codice delle obbligazioni e dei contratti (1927), in G. ALPA e G. CHIODI, Il progetto italofrancese di codice delle obbligazioni e dei contratti (1927). Un modello di armonizzazione nell’epoca delle
codificazioni, Giuffrè, milano 2007, p. 43 ss. e ID., Il progetto italo-francese delle obbligazioni commerciali (1930-1935) in alcune fonti inedite dell’archivio Filippo Vassalli, in ‘Non più satellite’. Itinerari
giuscommercialistici tra Otto e Novecento, a cura di I. Birocchi, ETS, Pisa 2019, p. 287 ss., nonché
ID., Un esperimento di diritto privato sociale. Il progetto italo-francese e la sua parabola dall’età liberale
al fascismo, di prossima pubblicazione. Su tale progetto, ripreso invano un decennio dopo
da D’Amelio in vista della nuova codificazione civile promossa dal regime fascista, si accumularono molti giudizi critici che ne favorirono l’abbandono. Su tali giudizi, in larga
parte ospitati nei voll. IV e V dell’Annuario di diritto comparato e di studi legislativi fondato da
Salvatore Galgano, si v., per un’analisi a sua volta critica, R. DE RUGGIERO, Il progetto del
codice delle obbligazioni e dei contratti dinanzi alla critica, in Studi in onore di A. Ascoli, Principato,
messina 1931, p. 773 ss. Tra gli oppositori del progetto, spiccò in particolare E. BETTI, Il
progetto di un codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, in «Rivista del diritto commerciale», 1929, I, p. 665 ss., al cui intervento seguì una postilla di risposta da parte di D’Amelio a cui, a sua volta, rispose sempre E. BETTI, Postilla alla replica del sen. D’Amelio, ivi, 1930,
I, p. 184 ss., con l’ulteriore finale replica dello stesso Scialoja, che era stato uno dei più autorevoli propugnatori dell’iniziativa (su questa polemica si v. m. BRUTTI, Vittorio Scialoja,
Emilio Betti. Due visioni del diritto civile, Giappichelli, Torino 2013, p. 124 ss.). Sul dibattito si
v. la sintesi offerta da L. SALIS, Sul progetto di un codice italo francese delle obbligazioni e contratti,
in Studi urbinati, 1933, p. 77 ss. A distanza di un decennio, il tentativo di D’Amelio di riprendere il progetto, incontrò, ancora una volta, la ferma critica di E. BETTI, Il quarto libro
nel progetto del codice civile italiano, in «Rivista del diritto commerciale», 1938, I, p. 537 ss. Sul
rapporto tra Betti ed il regime fascista si rinvia a m. BRUTTI, Emilio Betti e l’incontro con il fascismo, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), cit. nt. 6, p. 63 ss.
22
Era quest’ultima la fondamentale motivazione addotta da Cesare Vivante nella prolusione del 1888, Per un codice unico delle obbligazioni, in «Archivio giuridico», 1888, p. 497 ss.,
in cui il grande commercialista denunciò il carattere di classe della disciplina delle obbligazioni contenuta nel codice di commercio e applicabile anche ai rapporti con i consumatori, auspicando la costruzione di una nuova disciplina delle obbligazioni non più
appiattita sulla tutela dei soli operatori economici. È, a ben vedere, nel quadro di tale ampia
operazione culturale e politica volta al rinnovamento di quell’area vitale del diritto privato
che si colloca la nascita nei primi anni del nuovo secolo della Rivista del diritto commerciale e
del diritto generale delle obbligazioni promossa dallo stesso Vivante e da Angelo Sraffa. Sul dibattito seguito alla prolusione di Vivante pubblicata e annotata da V. Yseux si v. C. VIVANTE, Un Code unique des obligations, in «Annales de droit commercial français, étranger et
272
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
In definitiva, la questione dell’unificazione del diritto dei contratti e
delle obbligazioni implicava il superamento del dualismo disciplinare allora
vigente al fine di ridimensionare, nel nuovo impianto da adottare in materia
di obbligazioni e contratti, il primato applicativo che di fatto avevano conseguito i paradigmi alla base del codice di commercio.
In realtà, il nuovo contesto socio-politico, rappresentato dall’avvento
del regime fascista e dall’egemonia del nazionalismo, non mancò di incidere
sui termini della questione. Infatti, da una parte il tema dell’unificazione
del diritto dei contratti e delle obbligazioni finiva con il sovrapporsi a quello
della revisione generale del diritto privato, da attuarsi, questa volta, alla luce
del programma politico del regime fascista, dall’altra, proprio la concreta
possibilità di attuazione di questa prospettiva aveva indotto la stessa più
autorevole dottrina23 che in passato aveva promosso l’iniziativa a favore
dell’unificazione a mutare avviso, in quanto preoccupata che la deriva nazionalistica su cui fondare la riforma legislativa potesse mortificare il carattere universalistico della legislazione commerciale contenuta
nell’autonomo codice di commercio, frutto storico di processi sovranaziointernational», 1893, p. 143 ss.
23
Il riferimento è al mutato orientamento adottato dallo stesso Vivante, ossia il promotore
originario del movimento a favore della unificazione del diritto delle obbligazioni, prospettato nel saggio L’autonomia del diritto commerciale e i progetti di riforma, in «Rivista del diritto
commerciale», 1925, I, p. 527 ss. Con tale intervento, il padre della commercialistica italiana
rivedeva la sua impostazione al fine di assicurare continuità al cosmopolitismo proprio
del diritto commerciale favorito dalla presenza di specifiche discipline aperte agli influssi
sovranazionali sulla base, peraltro, della convinta diversità tra la forma mentis dell’operatore
commerciale e quella dell’agricoltore che, a ben vedere, sarebbe stata recepita dallo stesso
Rocco e da Asquini, su cui v. infra. Nel chiudere il suo saggio del 1925, Cesare Vivante osservò, infatti, che «l’autonomia del diritto commerciale che si formò storicamente per ragioni di classe, trova adunque oggidì una ragione più profonda e più vasta per essere
conservata, nella funzione cosmopolita del commercio, e specialmente del grande commercio, e nel diverso spirito che anima lo speculatore e l’uomo dell’economia rurale e domestica conservatore delle sue tradizioni». Le mutate conclusioni di Vivante furono
oggetto tra l’altro di un commento critico da parte di m. ROTONDI, L’autonomia del Codice
di Commercio nei lavori della Commissione Reale per la riforma dei codici, in Studi dedicati alla memoria
di Zanzucchi, Vita e Pensiero, milano 1927, p. 173 ss., in part. p. 212 ss. A difesa della nuova
tesi di Vivante e in senso a sua volta critico verso la posizione di Rotondi intervenne altresì
lo stesso A. ASQUINI, Codice di commercio, codice dei commercianti o codice unico di diritto privato?,
in «Rivista del diritto commerciale», 1927, I, p. 507 ss., sia pure con argomenti ben diversi
tra cui, in particolare, le riserve in ordine a seguire le «chimere di unificazione internazionale» anche alla luce del diverso scenario politico intervenuto, per cui, a suo dire (ivi, p.
522), l’Italia «deve dare alla riforma dei suoi codici quell’impronta che soprattutto le esigenze
nazionali [il corsivo è nell’originale] impongono sotto l’impero dei principi fondamentali
che il regime ha posto a base della nostra economia. In ciò sta forse la ragione attuale
della riforma».
273
A. JANNARELLI
nali legati ai liberi traffici.
In terzo luogo, la principale novità con la quale in quel contesto storico
tutti i giusprivatisti – non solo italiani – erano chiamati a confrontarsi era
rappresentata dal superamento della tradizionale prospettiva individualistica
ed atomistica alla base della disciplina relativa ai rapporti tra i privati ereditata dall’Ottocento e contenuta nelle codificazioni borghesi24 e al tempo
stesso dalla difficoltà di affrontare con la cultura giuridica ricevuta e lo strumentario a disposizione il tema nuovo rappresentato dal ‘collettivo’25. In
particolare, a voler qui sintetizzare al massimo, lo sviluppo del mondo delle
imprese, dei rapporti di massa e dell’associazionismo economico, l’apparire
sulla scena di nuovi soggetti collettivi e, soprattutto, dei contratti collettivi
rappresentavano, in definitiva, il più importante e fondamentale campo di
verifica in ordine da un lato all’idoneità del diritto privato allora codificato
a disciplinare questi nuovi fenomeni alla luce dei suoi paradigmi, dall’altro
La convinzione del mutamento avviatosi agli inizi del Novecento era diffuso nella cultura
giuridica europea e nella stessa civilistica italiana: si v. per tutti l’affermazione di F. VASSALLI
contenuta nella prolusione romana del 1930, Arte e vita nel diritto civile, in ID., Studi giuridici,
II, Società editrice del “Foro italiano”, Roma 1939, p. 457, secondo la quale «Il contratto
concepito pel singolo caso, com’è nella previsione del codice, è ormai un’astrazione o comunque un caso non frequente, quando il traffico quotidiano è retto da contratti imposti
con formulari». In realtà, la consapevolezza circa l’insufficienza della prospettiva individualistica a rappresentare il modello esclusivo e prevalente di governo delle relazioni sociali, lungi dal portare la cultura privatistica a partire dal primo Novecento a confrontarsi
in concreto sul tema, ha indotto, in ragione della forza di inerzia dell’approccio pandettistico egemone nella formazione culturale dell’epoca, a favorire un approccio difensivistico
della cittadella fondata sui soli diritti individuali, nel senso di guardare con ampio favore
alle tesi inclini a collocare i nuovi fenomeni di rilevanza collettiva sul solo versante del diritto pubblico. Sotto questo profilo, a nostro avviso, l’emersione dell’ordinamento corporativo ha contribuito soltanto a rafforzare un indirizzo della cultura privatistica già di per
sé oltremodo restio a prendere in considerazione i fenomeni collettivi. Indirizzo, a ben
vedere, che ha resistito a lungo anche nella seconda parte del secolo nell’esperienza giuridica del nostro paese, come emerge dalle difficoltà che la prospettiva degli interessi collettivi ha incontrato e tuttora incontra a fronte della persistente distinzione tradizionale
tra diritto pubblico e diritto privato: sul tema si v. le lucide pagine di A. GAmBARO, Interessi
diffusi, interessi collettivi e gli incerti confini tra diritto pubblico e diritto privato, in «Rivista trimestrale
di diritto e procedura civile», 2019, p. 779 ss.; sul tema si v. da ultimo I. POPULIZIO, Pubblico
e privato. Teoria e storia di una grande dicotomia, Giappichelli, Torino 2019.
25
Con specifico riferimento ai rapporti di lavoro, si v. P. mARCHETTI, L’essere collettivo:
l’emersione della nozione di collettivo nella scienza giuridica italiana tra contratto di lavoro e Stato sindacale, Giuffrè, milano 2006; e G. CAZZETTA, Scienza giuridica e trasformazioni sociali. Diritto
e lavoro in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, milano 2007. Sulla problematica giuridica del
contratto collettivo prima e durante il fascismo si v. L. GAETA, «La terza dimensione del diritto»: legge e contratto collettivo nel Novecento italiano, in «Giornale di diritto del lavoro e delle
relazioni industriali», 2016, p. 573 ss.
24
274
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
ad analizzare l’impatto che sul tema derivava dalle progressive scelte legislative adottate nel nostro paese dal regime fascista nella prospettiva del
diritto corporativo. Questo, a partire dalla legge n. 563 del 1926, si era fondato sul rilievo istituzionale riconosciuto alle strutture associative rappresentative delle categorie sociali che venivano collocate in un sistema formale
improntato alla negazione sia del pluralismo sindacale, sia della piena autonomia collettiva26. Come si legge nella relazione di Rocco che accompagnava nel 1926 il disegno di legge, erano quattro i punti fondamentali del
nuovo ordinamento del lavoro: «riconoscimento giuridico dei sindacati
sotto il più rigoroso controllo dello Stato; efficacia dei contratti collettivi;
magistratura del lavoro esercitante la giurisdizione nei conflitti collettivi;
divieto dell’autodifesa e sanzioni penali in caso di violazione»27.
Lo sviluppo della società in via di industrializzazione, avviatosi già alla
fine dell’Ottocento, aveva già fatto emergere nella prassi economica lo sviluppo di relazioni contrattuali di massa mediante il ricorso a contratti standardizzati, svariate forme di associazionismo economico tra le imprese,
con il conseguente sorgere, a partire dai rapporti di lavoro, di conflitti collettivi nonché della contrattazione collettiva: contrattazione, questa ultima,
di cui erano protagonisti ‘corpi sociali’ aggreganti interessi omogenei, e che
implicava la conclusione di contratti normativi ovvero l’elaborazione di
contratti tipo.
A ben vedere, è stato questo specifico versante dell’esperienza, del resto
Sulle fasi che precedettero l’adozione della legge, con il superamento delle resistenze
avverso la monopolizzazione, peraltro in chiave fascista, delle organizzazioni padronali e
dei lavoratori, si v. ancora la felice sintesi offerta da A. AQUARONE, L’organizzazione dello
stato totalitario, Einaudi, Torino 2003. Quanto alla legge n. 563 del 1926, se da una parte
l’art. 6 comma 3° disponeva che «non può essere riconosciuta legalmente, per ciascuna
categoria da datori di lavoro, lavoratori artisti o professionisti, che una sola associazione»,
con la conseguenza che quelle non riconosciute potevano continuare a sussistere soltanto
come associazioni di fatto (così l’art.12 della medesima legge), dall’altra, l’art.47 comma
2° del r.d. 1° luglio 1926 n. 1130, contenente norme di attuazione di tale legge, disponeva
la nullità dei contratti collettivi posti in essere da associazioni sindacali non legalmente riconosciute: sul punto, tra i primi commenti, si v. per tutti F. ROVELLI, La legge sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, in Studi dedicati alla memoria di Zanzucchi, cit. nt. 23, p.
263 ss., in part. p. 288; nonché G. DE SEmO, Contratti collettivi di lavoro non depositati né pubblicati in relazione alla teoria della invalidità dei negozi giuridici, in «Annali del Seminario giuridico-economico Univ. di Bari», 1927, parte I, , p. 39 ss. D’altra parte, che il meccanismo
legislativo fosse finalizzato a privilegiare esclusivamente associazioni sindacali legate al regime era oltremodo evidente in quanto da una parte bastava, ai fini del riconoscimento,
una rappresentatività anche solo del 10 per cento degli appartenenti alla categoria, dall’altra
il riconoscimento era atto discrezionale politico.
27
In Atti Parlamentari, Legisl. XXVII, sessione 1924-25, Disegni di legge e relaz., n. 624.
26
275
A. JANNARELLI
al centro dei drammatici conflitti di lavoro emersi nel biennio cosiddetto
rosso che aveva preceduto l’avvento del fascismo, ad ispirare fondamentalmente le scelte di fondo del regime28. Tali scelte erano costituite, appunto,
dalla contestuale eliminazione sia del pluralismo politico rappresentato dai
partiti politici, a vantaggio del partito unico, sia del pluralismo sindacale,
sostituito appunto da sindacati unici per categorie economiche e dal loro
futuro inserimento nel sistema basato sulle corporazioni29.
Ebbene, agli inizi degli anni Trenta, sul piano giuridico privatistico questa specifica problematica ruotava intorno a due questioni distinte, ma pur
sempre tra loro raffrontate: quella relativa alla speciale vincolatività del contratto collettivo di lavoro per tutti gli appartenenti alle categorie, su cui era intervenuta la legge n. 563 del 1926, e quella relativa all’ambito applicativo
degli accordi collettivi conclusi tra le varie categorie della produzione rappresentate da associazioni sindacali legalmente riconosciute, a partire dalla
prima previsione contenuta nell’art. 12 della legge 20 marzo 1930 n. 206
in riforma del Consiglio nazionale delle corporazioni.
2. Il contributo di Ascarelli: considerazioni generali
L’obiettivo della presente indagine non è quello di ripercorrere analiticamente il dibattito emerso nel nostro paese negli anni Trenta del Novecento su ciascuna delle tematiche individuate nel paragrafo precedente,
bensì quello, più specifico, di circoscrivere, in questa sede, la ricerca sulla
riflessione di Tullio Ascarelli30.
Si v. in particolare l’intervento precorritore di A. ROCCO, Crisi dello Stato e sindacati, in
Crisi dello Stato e sindacati [Discorso inaugurale dell’Anno Accademico 1920-1921 – Università di Padova, 15 novembre 1920], in Scritti e discorsi politici di Alfredo Rocco, vol. II. La
lotta contro la reazione antinazionale (1919-1924), Giuffrè, milano 1938, pp. 631-645. Sulla
medesima linea interpretativa, si sarebbe collocato G. DEL VECCHIO, Sulla statualità del diritto, in Scritti della Facoltà giuridica di Roma in onore di Antonio Salandra, Vallardi, milano 1928,
p. 300 ss., nel delineare la parabola per la quale i fenomeni associativi e corporativi, mortificati dalla rivoluzione francese a vantaggio dello Stato e destinati a sovrapporsi allo Stato
nella rivoluzione russa, sarebbero stati assorbiti dallo Stato nel fascismo italiano.
29
Diversa, come è noto, la soluzione hitleriana fondata sull’eliminazione dei sindacati operai, in ragione, a suo dire, della loro inevitabile funzione politica, e sulla loro sostituzione
con strumenti di tutela dei lavoratori a livello delle singole aziende: sulla lettura di questa
scelta adottata in Germania nella letteratura italiana degli anni Trenta si v. m. mAFFEI, Il
fronte del lavoro, morcelliana, Brescia 1938.
30
È bene chiarire che la nostra ricerca non mira ad entrare nel merito delle scelte politiche
ed esistenziali di Ascarelli, che sono al centro di una ricchissima letteratura alla quale si
28
276
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
A prescindere dal giuramento richiesto ai professori universitari31, Ascarelli, nato nel 1903, non ha mai rivestito ruoli pubblici32. Dopo la laurea
con Vivante nel 1923, si era dedicato alla sola ricerca giuridica, salendo in
cattedra a Catania nel 1930 avendo alle spalle densi e proficui anni di studio,
di pubblicazioni e di incarichi di insegnamento in molti atenei del Regno.
Per via della sua formazione storicistica e in quanto permeato di cultura
crociana33, era portato ad analizzare l’esperienza legislativa e giuridica di
quegli anni dall’“esterno”34, più precisamente col distacco dello scienziato
sociale interessato a coglierne i possibili esiti in termini di sistema, a prerinvia (per una preziosissima rassegna si v. il contributo di C. mONTAGNANI, In «difesa» di
Tullio Ascarelli, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 2013, I, p. 621 ss. e il
più recente ampio saggio di S. mAZZAmUTO, Tullio Ascarelli e Piero Calamandrei. Contrappunto
novecentesco, in «Europa e diritto privato», 2020, p. 29 ss., che ho avuto il privilegio di leggere
in anteprima. La presente ricerca mira, viceversa, a ripercorrere i contributi scientifici di
Ascarelli con particolare attenzione agli anni Trenta, al fine di cogliere le linee interpretative
adottate da Ascarelli per leggere in quella fase storica il complessivo ordito del diritto privato e l’individuazione delle sue linee evolutive in presenza dell’ordinamento corporativo.
31
Come è noto, esso venne imposto nel 1931 a pochi anni di distanza dai due manifesti
che videro contrapposti il filosofo del regime Gentile e Benedetto Croce. Sulle vicende di
quel giuramento che nella ricerca storica è stato fondamentalmente analizzato dal punto
di vista dei 12 ordinari che si rifiutarono di farlo, esiste una ampia letteratura: sul punto
tra gli altri si vedano H. GOETZ, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista,
La Nuova Italia, Firenze 1993 e G. BOATTI, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si
opposero a Mussolini, Einaudi, Torino 2001.
32
Se si eccettua, come si legge nell’annuario 1936-1936 dell’Università di Bologna, l’esser
stato, tra l’altro, membro delle commissioni di riforma della legislazione su titoli di credito
e la cambiale, privative industriali e marchi, codice unico italo-francese delle obbligazioni
e dei contratti.
33
In questi termini B. LIBONATI, L. FARENGA, U. mORERA, G.L. BRANCADORO, La rivista
di diritto commerciale (1903-1922), in «Quaderni fiorentini», 1987, p. 345. La formazione crociana era già evidente in uno dei suoi primi scritti (Il problema delle lacune e l’art. 3 Disp. Prel.
nel diritto privato. (Appunto critico), in «Archivio giuridico», 1927, p. 235 ss. su cui v. P. GROSSI,
Scienza giuridica italiana. Un profilo storico (1860-1950), Giuffrè, milano 2000, p. 147.
34
Su questa impostazione, si v. le considerazioni di A. SERmONTI, Fascismo e diritto, in «Lo
Stato», 1931, p. 512 ss., in part. p. 516, il quale, nel delineare tre possibili approcci interpretativi da parte dei giuristi, individuava come terzo, quello, a suo dire oggettivo, che
«parte dalle norme quali sono, senza preconcetti e senza esclusioni, ed è l’unico che non
racchiuda, o non dissimuli tra le sue pieghe, apprezzamenti politici. Considera, sì quei presupposti politici della norma che, per essere ad essa essenziali e in essa trasfusi, più, connaturali, non sono dunque da essa separabili: ma li considera, per così dire, dall’esterno
[…]. Li considera perché essi sono elementi della norma, perché essi la coloriscono e la
definiscono a traverso la volontà dello Stato legislatore, perché essi la collocano nella posizione che le spetta nel sistema».
277
A. JANNARELLI
scindere dalle sue opinioni politiche nei confronti del regime35.
Questo semplice dato è sufficiente per comprendere che Ascarelli, nella
cornice dello sviluppo del suo pensiero, sempre più consapevole, sul piano
metodologico, della storicità dell’esperienza giuridica – autentica cifra della
sua statura di giurista36 – , a partire dagli inizi degli anni Trenta sino al suo
Nella sua giovinezza aveva avuto contatti con personaggi che più tardi avrebbero dato
vita a Giustizia e Libertà, pubblicando alcuni saggi su due riviste di ispirazione gobettiana:
sul punto v. per tutti N. BOBBIO, Tullio Ascarelli, in «Belfagor», 1964, p. 411 ss.
36
La sensibilità storica del giovane Ascarelli aveva colpito Asquini sin da loro primo incontro: si v. A. ASQUINI, Ascarelli, in ID., Scritti giuridici, vol. III, Cedam, Padova, 1961, p.
48. Che questa fosse la cifra fondamentale della personalità scientifica di Ascarelli, cui si
accompagnava, sin dai primi anni di attività di ricerca, una vasta cultura e curiosità intellettuale, è significativamente attestata da altro grande commercialista, quasi coetaneo di
Ascarelli, Walter Bigiavi, che nel secondo dopoguerra diventerà uno dei suoi più agguerriti
avversari polemici. A ben vedere, Bigiavi, sul piano scientifico, rivelò molto presto una
‘attrazione fatale’ per il giovane collega, il più brillante degli allievi di Vivante, adottandolo
come suo autorevolissimo concorrente nell’agone scientifico. Ne è testimonianza il fatto
che, già nei primi anni Trenta, Bigiavi seguì molto da vicino la produzione scientifica del
suo collega, sia con molte recensioni per le pubblicazioni di Ascarelli relative ai corsi universitari in materia di diritto commerciale [si v. innanzitutto la recensione alla prima edizione degli Appunti di diritto commerciale del 1931 apparsa sulla «Rivista del diritto
commerciale», 1931, I, p. 679 ss., cui seguirono quella sulla seconda edizione degli Appunti,
ivi, 1933, I, pp. 440-441; sia con un saggio (si v. W. BIGIAVI, In tema di cartelli e di consorzi. A
proposito di una recente pubblicazione, ivi, 1937, I, p. 318 ss.) che traeva spunto dal volume di
T. ASCARELLI, Consorzi volontari tra imprenditori, Giuffrè, milano 1937, in cui tra i meriti intrinseci il recensore segnalò anche quello «di costituire un capitolo (e non dei meno importanti) relativo ai nessi tra diritto commerciale e diritto corporativo»]. Ebbene, tanto
nelle recensioni quanto nel suo contributo sul tema dei consorzi, Bigiavi, pur avanzando
riserve su alcune delle soluzioni prospettate dal collega (alle quali Ascarelli replicò molti
anni dopo nel saggio Contrasto di soluzioni e divario di metodologie, in «Banca e Borsa e Titoli
di credito», 1953, I, p. 478 ss., ed ora anche in T. ASCARELLI, Saggi di diritto commerciale,
Giuffrè, milano 1955, p. 527 ss.) segnalò, con sincera ammirazione ed altrettanta acutezza,
la particolare sensibilità storico-giuridica e la cultura di Ascarelli. Al tempo stesso, proprio
alla luce della forte impressione suscitata su di lui dalla statura di Ascarelli, non esitò, nella
ottica di un confronto personale, a contrapporre la sua tempra di studioso, decisamente
orientata a privilegiare l’analisi del diritto scritto con rigore tecnico e sistematico, alle suggestive quanto profonde sintesi del collega («Bigiavi scavando con il martello perforatore,
Ascarelli volando sull’ippogrifo» avrebbe detto efficacemente G. COTTINO, Intervento nel
volume celebrativo di Paolo Greco, Giuffrè, milano 1991, p. 51). Con quelle sue considerazioni, Bigiavi finì con l’enucleare, efficacemente e precocemente, le ragioni di quella differenza di personalità che nel dopoguerra, al ritorno di Ascarelli in Italia dopo il suo
forzato esilio dovuto alle leggi razziali, avrebbe portato al sorgere tra loro di un insanabile
conflitto: conflitto, alimentato, per la verità, pur sempre dai toni provocatori e maliziosi
con cui Bigiavi era solito, per la verità compiacendosene, condire i sui rilievi sulla produzione scientifica dei colleghi.
35
278
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
abbandono dell’Italia nel 193837, guardò all’evoluzione del quadro giuridico
che cadeva sotto i suoi occhi da una prospettiva distaccata e per certi versi
“laica”, con una maggiore attenzione alla concreta realtà effettuale38. Sotto
questo profilo, nel corso degli anni Trenta, la rilevanza sistemica che l’ordinamento corporativo assume nella riflessione di Ascarelli sulle tre tematiche sopra richiamate si struttura progressivamente, in linea, del resto, da
un lato con l’accumularsi delle riforme incrementali di tale ordinamento,
dall’altro, per via della progressiva stabilizzazione nel tempo del nuovo quadro legislativo, alla luce proprio del consolidarsi del consenso che il regime
andava registrando nella realtà sociale, quale premessa per un concreto inveramento del progetto alla base dell’ordinamento corporativo.
3. Un primo rodaggio: i contratti collettivi di lavoro tra legge e contratto nell’approccio
originale del giovane Ascarelli
Il primo approccio alle tematiche legate all’avvio della esperienza corporativa da parte di Ascarelli riguardò la legge del 1926 sui rapporti collettivi di lavoro. Tuttavia, sin da quella prima riflessione, è possibile cogliere
È bene ricordare che, oltre ad essere colpito dalle leggi razziali, che lo costrinsero a lasciare il nostro paese, nel 1939, Ascarelli, venne inserito nella lista dei 912 autori (tra cui
anche Cesare Vivante) le cui opere dovevano essere sottratte alla circolazione, sulla base
di un “ordine totale” diramato da Bottai, allora ministro dell’educazione nazionale, alla
luce dell’istruttoria curata da una Commissione sulla bonifica libraria (!) (si v. al riguardo
A. PEDIO, I volti del consenso. Mass media e cultura nell’Italia fascista (1922-1943), Nuova iniziativa
editoriale, Roma 2004, p. 10).
38
In quel preciso frangente, il primato della realtà venne espressamente affermato e rispettato da Ascarelli come si può ben ricavare dalle pagine introduttive delle sue Istituzioni
di diritto commerciale del 1937 – elaborate al culmine della sua riflessione in patria prima dell’avvento delle leggi razziali e del suo abbandono del paese –: pagine in cui, differenziandosi dalla precedente pubblicazione sul tema – Appunti di diritto commerciale –, l’illustrazione
della materia in un corso istituzionale venne fatta ruotare intorno al “diritto vivente”,
quale espresso dalla giurisprudenza della suprema Corte di cassazione. Al riguardo, Ascarelli dichiarò di aver intenzionalmente omesso di richiamare le prospettazioni e le opinioni
dei giuristi – ivi comprese le sue – affidate ad indagini e contributi monografici di rilievo
teorico che non fossero stati in linea con gli indirizzi ermeneutici accolti dall’esperienza
giurisprudenziale. Si trattò di una scelta per certi versi eterodossa. Infatti, la scelta di Ascarelli di attenersi nella pubblicazione delle Istituzioni soltanto al diritto vivente, in particolare
ai soli principi accolti dalla giurisprudenza della Corte Suprema, sì da esporre esclusivamente quelli accettati dalla Cassazione, comprese le soluzioni sulle quali peraltro lui stesso
aveva dubbi, apparve singolare e controcorrente, tanto da suscitare meraviglia e critiche,
come si legge nella recensione al volume, non firmata, pubblicata in «Rivista del diritto
commerciale», 1937, I, p. 651.
37
279
A. JANNARELLI
immediatamente la diversità della prospettiva da lui adottata rispetto a
quella prospettata della più autorevole letteratura commercialistica incline
a leggere la tematica del contratto collettivo, quale delineata nella legge del
1926, pur sempre come una vicenda negoziale esclusivamente privatistica,
per quanto calata in una cornice pubblicistica, salvo poi, ovviamente, a collocarne le risultanti determinazioni negoziali nel sistema delle fonti in posizione subordinata rispetto a quelle legislative primarie39.
L’approccio di Ascarelli al tema fu ben diverso: a dispetto dello stesso
titolo del contributo Sul contratto collettivo di lavoro. Appunto critico40, la riflessione su alcune delle disposizioni contenute nella legge del 1926 si rinviene
soltanto nella seconda parte del suo saggio e tali disposizioni risultano prese
in esame quale campo di verifica della tesi, di più ampio respiro teorico,
avanzata nella prima parte. Tale tesi aveva ad oggetto le articolazioni plurali
dell’ordinamento giuridico assunto quale istituzione secondo la nozione
suggerita da Santi Romano41. Come dire, dunque, che nell’indagine di Ascarelli la prospettiva da cui guardare alla legge del 1926 non era circoscritta a
priori all’ambito del diritto privato, in quanto investiva la questione di più
ampio respiro relativa alle fonti del diritto e, dunque, alla collocazione, all’interno di queste, della singolare situazione riguardante la produzione normativa in via negoziale alla luce del rapporto tra diversi ordinamenti
giuridici.
Nel saggio dedicato al contratto collettivo, l’orizzonte analitico in cui
Ascarelli collocò l’indagine sulla legge del 1926 partiva infatti da tematiche
di teoria generale destinate a toccare anche il rapporto tra l’ordinamento
giuridico statuale e quello corporativo. Non a caso, del resto, i poli fondamentali della sua riflessione furono rappresentati in quel saggio da un lato
In tale prospettiva si era mosso Asquini il quale, non solo seguì il processo formativo
della legge, ma, già in quella fase, si era preoccupato di indirizzarne l’esito, nonché di orientare la lettura del provvedimento adottato, al fine di prevenire una rottura del quadro sistematico del diritto privato. In particolare, nel rivolgere la sua attenzione direttamente
alla legge del 1926, Asquini era partito da un preciso e definito punto di vista rappresentato
dall’avvertita esigenza di evitare che tale legge potesse vulnerare il sistema giuridico privatistico vigente: di qui, tra l’altro, l’indubbia propensione a valorizzare il profilo contrattualistico a proposito della vincolatività del contratto collettivo per tutti gli appartenenti
alla categoria, grazie al ricorso all’ambiguo meccanismo della rappresentanza ex lege e, al
tempo stesso, a configurare in termini analoghi anche l’intervento normativo da parte del
Consiglio delle corporazioni, sia pure in chiave arbitrale, senza peraltro negare che si era
pur sempre in presenza nella specie di un contratto di diritto pubblico.
40
Lo si legge in «Archivio giuridico», 1929, vol. XVII, p. 184 ss.
41
Sul punto si v. m. FOTIA, L’istituzionalismo in Santi Romano tra diritto e politica, in «Democrazia e diritto», 2011, p. 135 ss.
39
280
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
dalle posizioni teoriche di Kelsen in ordine al sistema delle fonti, in cui poteva collocarsi anche la stessa autonomia privata individuale e collettiva,
dall’altro, e soprattutto, dalle originali suggestioni legate alle elaborazioni
di Santi Romano in ordine alla pluralità degli ordinamenti giuridici. Ed, infatti, in quel saggio la riflessione di Ascarelli prendeva il via proprio dagli
«studi geniali»42 di Santi Romano sull’ordinamento giuridico con particolare
riguardo al § 35 di tale studio in cui Romano aveva affrontato il tema circa
la rilevanza dei rapporti tra diversi ordinamenti giuridici sulla base di un titolo giuridico. Al riguardo, Santi Romano aveva fatto riferimento a ipotesi
diverse, relative: alla presenza di un semplice stato di subordinazione di
uno rispetto ad un altro, al caso in cui un ordinamento sia il presupposto
di un altro, di ben più complessa struttura, ovvero al caso in cui due ordinamenti per quanto tra loro indipendenti nei loro diretti rapporti dipendano
da un terzo ordinamento superiore43. A proposito del rapporto di subordinazione tra ordinamenti, Ascarelli, sempre sulla scia della riflessione di
Santi Romano, richiamò l’attenzione sul fatto che, a fronte di ipotesi in cui
l’ordinamento superiore lasci a quello inferiore un determinato ambito di
autonomia, ben possono esservi ipotesi in cui l’ordinamento inferiore riceva il suo contenuto interamente determinato da quello superiore. Ebbene,
alla luce della dialettica tra legge e negozio, che in quella riflessione costituì
il secondo fondamentale passaggio dell’argomentazione presente in tale indagine, Ascarelli mise subito in evidenza la presenza di situazioni analoghe
anche nello stesso ambito del negozio giuridico, con specifico riferimento
proprio ai contratti normativi, ai concordati di tariffa e alla pratica dei contratti collettivi di lavoro anteriore alla legge del 3 aprile del 192644.
Una volta individuati i paradigmi intorno ai quali procedere nell’analisi,
Ascarelli pose in connessione la prospettiva privatistica, propria di una società atomistica di soggetti eguali ed indipendenti in cui la norma giuridica
abbia fonte nei negozi privati, sì da risultare vincolante esclusivamente per
i soggetti coinvolti, con la coesistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici. Ciò bastava per inferirne che «in quanto tuttavia un ordinamento
giuridico determini immediatamente il contenuto di un altro ordinamento
giuridico, la norma che pel primo può essere negozio, è invece legge nei riguardi del secondo»45 e, dunque, che è possibile «trovarsi di fronte ad una
norma che può essere insieme legge e negozio; ma diverso è l’ordinamento
Così ASCARELLI, Sul contratto collettivo di lavoro. Appunto critico, cit. nt. 40, p. 185.
Si v., infatti, S. ROmANO, L’ordinamento giuridico, Quodlibet, macerata 2018, p. 127 ss.
44
ASCARELLI, Sul contratto collettivo di lavoro. Appunto critico, cit. nt. 40, p. 186.
45
Ibidem, p. 191.
42
43
281
A. JANNARELLI
giuridico dove essa è chiamata ad operare nell’uno o nell’altro modo, diversi
pertanto i soggetti che si devono prendere in considerazione nei due casi»46.
L’esplicito riferimento alla ipotesi di soggetti collettivi chiamati come i sindacati a raggruppare in gruppi omogenei soggetti sulla base di loro caratteristiche concrete e, però, al tempo stesso, non autonomamente
organizzatisi, permetteva ad Ascarelli di evocare innanzitutto la specifica
esperienza offerta dall’ordinamento corporativo in cui i sindacati, nella
veste di persone giuridiche di diritto pubblico, fruivano certo «di una sfera
di autonomia ma in quanto forniti al tempo stesso di una determinata capacità giuridica di diritto privato e, quel che più importa, di diritto pubblico»47. Al tempo stesso, siffatto ordinamento veniva configurato come
un ordinamento giuridico subordinato, in quanto compreso nella più ampia
sfera di quello statuale. In particolare, i sindacati, soggetti dell’ordinamento
corporativo, «saranno naturalmente chiamati a porre le proprie norme, da
valere nel proprio ordinamento, da valere tuttavia anche fuori del proprio
ordinamento direttamente per tutti i cittadini, per tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico statuale, se ed in quanto questi stipuleranno tra loro quei
rapporti il cui contenuto risulta appunto determinato attraverso le norme
dell’ordinamento corporativo»48.
L’impostazione adottata da Ascarelli, a ben vedere, mirava a recuperare,
nel segno della complessità, quella pluralità di piani legata alla compresenza
di due ordinamenti, quello statuale e quello corporativo, sostanzialmente
ignorata nell’alternativa ricostruttiva sino ad allora adottata dalla dottrina
che, a proposito dei contratti collettivi di cui alla legge del 1926, vedeva la
semplice contrapposizione tra una lettura della legge in chiave esclusivamente contrattualistica e quella in chiave puramente normativa. In altre parole, la proposta ricostruttiva di Ascarelli, che guardava al contratto
collettivo come contratto e al tempo stesso come legge, sulla base, in definitiva, di un decentramento legislativo49, permetteva di dare immediato rilievo dialettico alla presenza di due fondamentali protagonisti: da un lato
Ivi.
Ibidem, p. 193.
48
Ivi.
49
Il riferimento circa la ricorrenza nella specie di un decentramento legislativo ricorre più
volte nello scritto di Ascarelli anche se non viene approfondito: si v. in particolare, p. 196
nt. 4 e p. 208. mette conto ricordare che tale soluzione venne criticata da Santi Romano,
il quale osservò che nel sistema della legge n. 163 del 1926 le determinazioni contenute
nel contratto collettivo acquistavano forza di legge solo dopo l’approvazione del Consiglio,
per cui non si era di fronte ad una piena attribuzione di potere legislativo delegato alle organizzazioni sindacali.
46
47
282
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
le strutture associative sindacali coinvolte nella negoziazione, dall’altro lo
Stato per il tramite del proprio ordinamento giuridico. Al tempo stesso,
l’impostazione accolta da Ascarelli era finalizzata anche a cogliere e spiegare
la duplicità di effetti del contratto collettivo proprio in ragione della persistente presenza pur sempre di quei due distinti piani per quanto intrecciati
tra loro50. Infatti, con indubbia originalità rispetto alle molteplici riflessioni
e proposte analitiche sino ad allora emerse a proposito delle legge del 1926
e che avevano trascurato il tema, la prospettiva ricostruttiva offerta da Ascarelli dava anche opportuno rilievo alla distinzione, all’interno del contratto
collettivo, tra la parte obbligatoria, vincolante per le organizzazioni stipulanti e come tale destinata a rilevare solo sul piano del contratto, e la parte
normativa, diretta a disciplinare i singoli rapporti individuali di lavoro. Infatti, la delega legislativa affidata alle organizzazioni avrebbe riguardato
sempre e solo la parte normativa del contratto, laddove la parte obbligatoria
sarebbe ricaduta esclusivamente nell’ambito del rapporto negoziale privatistico tra le sole parti contraenti.
A differenza delle altre indagini prospettate dalla dottrina sino ad allora
e che avevano concentrato l’attenzione soltanto sul profilo qualificatorio
del contratto collettivo, l’analisi di Ascarelli andava nel merito della disciplina dettata dalla legge del 1926, con particolare riferimento, tra l’altro,
alle questioni relative all’interpretazione delle clausole del contratto, suggerendo la necessità di un differente trattamento secondo che esse riguardassero la parte obbligatoria (da considerarsi contrattuale in senso proprio)
ovvero quella normativa, ovvero ancora i vizi del consenso nella formazione del contratto collettivo. Già in quel primo intervento, l’approccio di
Ascarelli fu puramente rivolto alla comprensione, pur sempre sul piano
giuridico, del fenomeno da collocare nelle specifiche dinamiche socio-politiche che la sua formazione storicistica gli permetteva di cogliere con lucidità. È significativo, al riguardo, che Ascarelli, nelle pagine finali del suo
contributo, ribadendo la sua lettura della legge del 1926, quale espressione
di un decentramento legislativo, non mancò di rimarcare che si era in presenza di un fenomeno «pienamente in armonia con una concezione gerarchica della società e dello stato, quale oggi domina nel diritto pubblico
italiano, in antitesi alla concezione precedente»51. Al tempo stesso, a proposito del contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali ricoSi v. ASCARELLI, Sul contratto collettivo di lavoro. Appunto critico, cit. nt. 40, p. 194, nt. 2.
L’attenzione puntuale alla realtà rispecchia in maniera evidente l’approccio conoscitivo
che Ascarelli assumeva nello svolgimento delle sue analisi giuridiche, a prescindere dalla
loro condivisione.
50
51
283
A. JANNARELLI
nosciute, continuò a sostenere trattarsi di un contratto e non di un accordo,
come si era pur prospettato in dottrina, in quanto, a suo dire, i sindacati
restavano pur sempre «portatori di interessi contrapposti». Al tempo stesso,
cogliendo, lucidamente, dal punto di vista pur sempre giuridico, il significato
del passaggio dal “sindacato” alla “corporazione”, tenne a chiarire che
«[l]’interesse comune superiore a quello delle categorie, trova la sua espressione non nei sindacati, ma nella corporazione e nello Stato innanzi tutto,
cui è deferito il controllo sui contratti collettivi»52, al punto da aggiungere
(con molta lungimiranza, ove si consideri la dialettica che sul punto sarebbe
continuata in tutto il corso del regime fascista): «Distinguerei pertanto (ed
enuncio qui la contrapposizione senza annettere ai termini un significato
rigoroso) ordinamento sindacale e ordinamento corporativo»53.
4. I rapporti di massa e la contrattazione di categoria nella prima analisi di Ascarelli
Se nel saggio del 1929 Ascarelli aveva preso in considerazione i rapporti
tra ordinamenti giuridici diversi, analizzando in particolare quello tra l’ordinamento statuale e l’ordinamento corporativo con riferimento ai contratti
collettivi di lavoro, nel più corposo studio del 1932, Note preliminari sulle
intese industriali (cartelli e consorzi),54 considerato, al suo apparire, da un recensore molto acuto come Bigiavi, «uno dei primi studi italiani» dedicati all’«importante e delicato problema dei consorzi volontari tra imprenditori» e in
quella occasione «sottoposto, da un giurista, ad un esame attentissimo»55,
Ascarelli toccò l’altro tema, quello degli accordi economici collettivi. ma,
anche questa volta, l’indagine venne ad inserirsi in una ricerca ben più
ampia, di ordine più generale, che aveva ad oggetto gli accordi e le strutture
Così ASCARELLI, Sul contratto collettivo di lavoro. Appunto critico, cit. nt. 40, p. 198, nt. 2.
Ivi.
54
Nato come comunicazione al congresso svoltosi nel 1932 e tenuto dalla Società per il
progresso delle Scienze, lo studio venne edito nella «Rivista italiana per le scienze giuridiche»
nel 1933, I, p. 3 ss. e in «Diritto e pratica commerciale» 1933, p. 65 ss.; p. 153 ss.; p. 333 ss.,
con il titolo indicato nel testo. Successivamente venne poi ripubblicato da Ascarelli in forma
monografica, articolata in tre capitoli, con il titolo Consorzi volontari tra imprenditori, Giuffrè,
milano 1937, avendo tenuto conto «della legislazione, giurisprudenza e dottrina sopravvenute dopo la prima sua pubblicazione, nonché degli sviluppi della pratica contrattuale» (così
lo stesso autore nell’avvertenza che apre il volume e predisposta nel luglio del 1936). È a
questa ultima, più ricca stesura, che si riferisce la recensione di W. BIGIAVI, In tema di cartelli
e di consorzi. A proposito di una recente pubblicazione, cit. nt. 36, su cui v. infra nel testo.
55
Così BIGIAVI, In tema di cartelli e di consorzi, cit. nt. 36, p. 318.
52
53
284
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
consortili coinvolgenti operatori economici. Argomento, questo, che, come
lucidamente avvertì quel medesimo recensore, proprio in quanto risultava
oltremodo rilevante «non solo in un sistema di economia liberale, ma anche
in un sistema di economia controllata», faceva sì che la trattazione svolta
da Ascarelli presentasse, «oltre ai suoi meriti intrinseci», anche quello «di
costituire un capitolo (e non dei meno importanti) relativo ai nessi tra diritto
commerciale e diritto corporativo»56. È da aggiungere, in premessa che,
l’ampio studio di Ascarelli, il primo di ordine giuridico su una tematica sino
ad allora affrontata esclusivamente dagli economisti57, intervenne a ridosso
dell’adozione della legge 16 giugno 1932 n. 834 sui consorzi obbligatori:
legge che tra l’altro aveva avuto Asquini come relatore alla Camera58.
Ivi (il corsivo è nostro) Bigiavi, pur avanzando, nel corso della recensione, alcune critiche
di natura tecnica e dogmatica al lavoro di Ascarelli (il quale, a sua volta, non mancò di replicare: si v. infatti T. ASCARELLI, Manifestazione ai terzi e contratto di società commerciale- società
e associazione), Nota a Cass., 23 giungo 1937, n. 2061, in «Foro italiano», 1938, I, c. 103 ss.,
in part. c. 116, nt. 29), riconobbe trattarsi di un «apprezzato strumento di lavoro» che
aveva «largamente e fortemente ispirato tutti gli scrittori nostri che successivamente si
sono occupati del medesimo tema». È il caso di aggiungere che il rilievo di Bigiavi in
ordine alla presenza nel saggio di Ascarelli del tema relativo ai nessi tra diritto commerciale
e diritto corporativo nonché della sua importanza è oltremodo significativo, posto che,
nonostante la consapevolezza circa il “peso” della questione, nel corso del ventennio fascista, Bigiavi, nella sua ampia produzione scientifica non destinò alcuna attenzione a siffatta questione e si occupò esclusivamente di tematiche di puro diritto commerciale avulse
dal concreto contesto politico in cui si collocavano.
57
Al riguardo, Ascarelli richiamò in nota il celebre studio di m. PANTALEONI, Alcune osservazioni sui sindacati e sulle leghe a proposito di una memoria del prof. Menzel, del 1903, che si legge
tra l’altro in m. PANTALEONI, Scritti varii di economia, Sandron, milano-Palermo-Napoli 1909,
p. 145 ss., in cui l’autore aveva ben presente anche i profili giuridici del tema. A questo
proposito va segnalato che nella prima versione pubblicata a puntate sul «Giornale degli
economisti», 1903 (pp. 236-265; pp. 346-378; pp. 560-581), l’indice prospettato in apertura
conteneva anche un § 6 finale dal titolo «Del compito della legge»: paragrafo che, però,
non venne pubblicato e di cui non vi è più traccia nelle successive riproduzioni editoriali
del saggio medesimo.
58
In occasione della discussione intervenuta in sede di approvazione della legge sui consorzi obbligatori, ossia di un provvedimento di indubbio rilevanza in termini di politica
economica, più che di politica in senso stretto, Asquini, nella veste di relatore parlamentare
del disegno di legge governativo, prospettò una lettura del provvedimento, per certi versi
cauta. Infatti, alla luce della sua impostazione culturale, ispirata al liberismo economico,
Asquini non mancò di segnalare la sua preoccupazione: a) che, attraverso i consorzi obbligatori, si potesse creare una situazione monopolistica in alcuni settori, nella consapevolezza dei limiti che ne potevano discendere, quanto all’incitamento alla ricerca di
progressi tecnici e di diminuzione dei costi di produzione; b) che siffatto strumento potesse favorire comportamenti opportunistici finalizzati a socializzare le perdite dovute ad
iniziative economiche improvvide (le posizioni liberistiche di Asquini emerse in tale occasione furono condivise da un economista di matrice liberale, A. GIOVANNINI, Corso di
56
285
A. JANNARELLI
politica economica finanziaria, Cedam, Padova 1939, passim, il quale, peraltro, tra i pochi giuristi
citati, prese in considerazione Ascarelli con riferimento tanto al suo lavoro sui consorzi
già citato, quanto ai diversi volumi degli Appunti di diritto commerciale del 1936). Sotto questo
profilo, come rilevò nel suo intervento parlamentare il deputato Ferracini nel corso della
discussione generale sul disegno di legge relativo ai consorzi tenutasi il 30 aprile 1932, vi
era un’indubbia dissonanza tra le valutazione presenti nella relazione di accompagnamento
del progetto ministeriale e quella redatta da Asquini per la Commissione parlamentare.
Infatti, la prima illustrava la primaria rilevanza da riconoscere alla formazione di consorzi
obbligatori (sino ad allora già oggetto di specifici singoli provvedimenti legislativi) rispetto
a quella dei consorzi volontari, i quali erano ammessi nella prassi, ma, sino ad allora, erano
privi di uno specifico quadro normativo. Viceversa, nella relazione Asquini, la lettura del
problema risultava capovolta: a suo dire, «[…] dal punto di vista sia logico, sia politico,
sarebbe stato opportuno che le disposizioni riguardanti la disciplina dei Consorzi volontari
avessero preceduto nel testo del disegno di legge quelle riguardanti la costituzione di Consorzi obbligatori perché, mentre la disciplina dei Consorzi volontari ha un’importanza organica e permanente, nell’assetto dello Stato fascista, la creazione dei Consorzi obbligatori
deve essere riguardata solo come un provvedimento contingente». Al tempo stesso,
Asquini manifestò le sue perplessità in ordine ad un possibile esteso ricorso ai consorzi
obbligatori per affrontare i problemi strategici dell’economia italiana. A suo dire, «[s]e si
vuole guardare alla necessità di un coordinamento nazionale dell’economia, l’ordinamento
corporativo dello Stato Fascista offre già istituti originali e pienamente idonei allo scopo,
sulla base dell’organizzazione sindacale delle categorie aperte, rivolta ad unità e alle direttive
nel Consiglio nazionale delle corporazioni. mentre, immaginando in ipotesi la generalizzazione di un sistema economico fondato sui Consorzi obbligatori, l’ordinamento sindacale corporativo si troverebbe ad essere vuotato di contenuto e tutta la struttura economica
e sociale della Nazione potrebbe essere profondamente modificata». È il caso di aggiungere che la legge del 1932 rimase lettera morta, in quanto non venne emanato il regolamento di attuazione, per cui continuò la prassi di istituire consorzi obbligatori con
provvedimenti isolati. Infatti, essa incontrò la resistenza da parte della Confindustria (sul
punto si v. la testimonianza di F. GUARNERI, Battaglie economiche tra le due guerre, vol. I, Garzanti, milano 1953, p. 281; nonché, più di recente, m. PERUGINI, Il farsi di una grande impresa.
La Montecatini tra le due grandi guerre mondiali, FrancoAngeli, milano 2014, p. 192). Peraltro
anche in occasione dell’adozione della legge 22 aprile 1937 n. 961, destinata a disciplinare
e controllare i consorzi volontari, furono molte le resistenze in ordine alla sua introduzione
ed approvazione e, al tempo stesso, le opposte pretese di coinvolgimento e controllo da
parte delle corporazioni. La prova delle tensioni emerse intorno a questa tematica possono
ben rinvenirsi da un lato per via della significativa distanza temporale di quasi un anno tra
l’adozione del r.d.l. del 16 aprile 1936 n. 1296 e la conversione intervenuta con la legge
sopra citata del 1937, ma anche dal fatto che, mentre il testo del decreto disponeva che la
legge doveva applicarsi soltanto ai consorzi volontari rappresentanti oltre il 75% della produzione nazionale di un determinato ramo dell’attività produttiva, in sede di conversione
si modificò sensibilmente siffatta soluzione: se ne generalizzò l’applicazione, salvo per
l’attività posta in essere dai consorzi che, a giudizio del ministro delle corporazioni, non
influisse «sulla situazione della produzione o del mercato nazionale». In realtà, questa disposizione rimase del tutto inapplicata (lo rammenta E. ROSSI, Padroni del vapore e fascismo,
Laterza, Bari 1966, p. 202, nel riprendere l’osservazione di GUARNERI, Battaglie economiche
tra le due grandi guerre, cit. nt. 58, p. 286). D’altro canto, caddero nel nulla le richieste di riorganizzazione dell’intera disciplina emerse nel 1939 e punto di partenza della riflessione di
286
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
Non è necessario, ai fini della nostra ricerca, ripercorrere analiticamente
tutto il contenuto del saggio di Ascarelli che, a ben vedere, contiene in nuce
spunti fondamentali in ordine alle riflessioni sul contratto plurilaterale, sulle
associazioni e sulle società che quel grande giurista sviluppò e approfondì
nel corso dei suoi studi successivi apparsi nel secondo dopoguerra59. È sufficiente qui segnalare che, con quella ricerca, elaborata nel 1932, Ascarelli
mise a punto, nell’ambito della più ampia cornice delle ‘intese industriali’,
la distinzione tra gli accordi contrattuali tra imprenditori diretti esclusivamente a disciplinare la concorrenza tra le loro attività, ai quali Ascarelli
volle riservare la definizione in termini di “cartelli”, ed i consorzi, in senso
stretto, riservando l’utilizzo di questo secondo termine alla presenza di una
organizzazione comune con ‘accentramento delle vendite’, ossia al caso in
cui era demandata alla struttura comune il compito di svolgere una specifica
attività in luogo dei suoi partecipanti60. Ebbene, nell’approfondire la tematica dei cartelli, era inevitabile che all’attenzione verso i rapporti interni tra
i partecipanti al cartello si affiancasse anche quella relativa ai rapporti esterni
con appartenenti ad altre opposte categorie, magari a loro volta legati da
una convenzione di cartello. Nel momento in cui si svolgeva la riflessione
di Ascarelli, vigeva solo l’art. 12 del Consiglio delle corporazioni, per cui
in difetto dell’applicazione della obbligatorietà prevista per i contratti collettivi di lavoro e della automatica sostituzione delle clausole difformi adottate nel contratto individuale, anche Ascarelli condivideva sul punto le
conclusioni di Asquini per cui «i rapporti nascenti da contratti individuali
sarebbero stati sempre regolati dai soli contratti individuali, anche se difformi dai contratti di categoria, salva la responsabilità di ogni imprenditore
per il risarcimento dei danni»61.
F. VITO, Riforma della disciplina corporativa dei consorzi, in «Il Commercio», 1939, p. 1 ss.
59
Come si è già rammentato (v. supra nt. 54), l’ampio saggio sulle Intese industriali, venne
ripubblicato da Ascarelli sotto forma di volume nel 1937 con il titolo Consorzi volontari tra
imprenditori con alcuni aggiornamenti di legislazione dottrina e giurisprudenza, ivi compresi
quelli relativi alla stessa pratica contrattuale che – come ricordò Bigiavi nella sua recensione
– erano dovuti direttamente alla sua esperienza professionale.
60
Il rilievo della riflessione di Ascarelli su tale tematica ben si coglie nella lucida disamina
dell’argomento offerta dal giovane G. AULETTA, Il contratto di consorzio ed il suo regolamento
giuridico. Fallimento di un consorziato e suoi effetti, in «Foro italiano», 1936, I, c. 1086 ss.
61
Cosi ASCARELLI, Note preliminari sulle intese industriali, cit. nt. 54, p. 29. Questa linea interpretativa venne confermata più volte dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte, pur
nel dissenso di parte della dottrina: si v. Cass., 20 gennaio 1939, numero 220 in «massimario Giurisprudenza del Lavoro», 1939, p. 498, con nota di G. mAZZONI. Nel contempo,
sempre la stessa Cassazione (si v. la decisione 23 maggio 1939 numero 1732, in «Foro italiano», 1939, I, c. 1394) sostenne che le norme degli accordi fossero norme obiettive, ge287
A. JANNARELLI
Tuttavia, l’analisi di Ascarelli, pur condividendo, in quel preciso contesto, la soluzione tecnica di diritto comune in ordine al rapporto tra l’accordo
economico collettivo e il singolo contratto posto in essere da imprenditori
appartenenti alle distinte categorie, si spinse ben oltre quella sola conclusione tecnico-giuridica che, viceversa, era stata considerata conclusiva ed
appagante per Asquini in quanto sufficiente a confermare la ‘tenuta’ dell’impianto fondato sulla disciplina generale in materia contrattuale contenuta nel codice di commercio.
Nell’allargare lo spettro analitico anche ad altri diversi ‘segnali’ che, sia
pure in ordine sparso, stavano emergendo nelle esperienze di settore, Ascarelli sottolineò innanzitutto che si era in presenza di un nuovo fenomeno
sociale costituito dallo sviluppo del diritto delle categorie accanto al diritto
degli individui: sviluppo sul quale bisognava richiamare l’attenzione della
dottrina62. Infatti, a suo dire, sia pure con efficacia meramente obbligatoria,
siffatto fenomeno registrava la subordinazione e la ricomprensione dei singoli contratti individuali «in quell’ordinamento che viene creato attraverso
i contratti collettivi di categoria»63 con la conseguente limitazione, per
quanto relativa, dell’autonomia privata. Quanto bastava, nella visione prospettica della esperienza propria della riflessione ascarelliana, per inferirne
che siffatto fenomeno, in quanto profondamente innovativo, «se pur lascia
integra la struttura privatistica del contratto individuale, tuttavia dà ai contratti di categorie una importanza politica tale da richiedere il controllo
dello Stato e ciò nell’interesse della categoria più debole, nell’interesse di
coloro che non fanno parte delle categorie tra le quali viene concluso il
contratto e più generalmente ed esattamente nell’interesse dell’economia
nazionale»64. Sulla base di siffatta considerazione, di ordine generale, era
dunque agevole constatare che «anche nelle sue forme più semplici, il problema dei cartelli rivela i suoi rapporti con il diritto corporativo; nell’uno e
nell’altro caso ci troviamo in quel campo che direi nel diritto delle categorie
e non più quello del diritto degli individui singolarmente e isolatamente
considerati»65. Nell’individuare questo nuovo campo di indagine e nel sollecitare la dottrina ad occuparsene – invito, questo, su cui si dovrà tornare
– Ascarelli aggiunse, in termini sintetici, anche due considerazioni che,
nerali e astratte la cui interpretazione era soggetta al sindacato della Corte.
62
Si v. ASCARELLI, Note preliminari sulle intese industriali, cit. nt. 54, p. 31.
63
Ivi.
64
Ibidem, p. 33.
65
Ivi.
288
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
come si evidenzierà nel corso della nostra indagine, segneranno da quel
momento due punti fermi nello sviluppo della sua riflessione volta a delineare, sempre più compiutamente, l’impatto dell’ordinamento corporativo
sull’evoluzione del diritto privato, a partire dal diritto commerciale.
Innanzitutto, a proposito dei contratti di categoria, frutto degli accordi
collettivi, Ascarelli mise acutamente in evidenza che la loro caratteristica
fondamentale consisteva nel fatto che la distinzione tra i contratti non si
sarebbe più basata sulla causa tipica astratta (vendita, locazione ecc.), propria
dei contratti disciplinati dai codici allora vigenti (commerciale e civile), bensì
sul diverso ramo di produzione di riferimento (lana, cotone, carbone). In
altre parole, a titolo esemplificativo, il centro della disciplina di un contratto
di vendita si sarebbe in concreto progressivamente spostato dalle disposizioni generali contenute nel codice di commercio e nel codice civile a quelle
adottate nei singoli accordi collettivi in ciascun ramo produttivo ed in relazione a singoli specifici beni o categorie di beni coinvolti. Ebbene, sullo
specifico punto è oltremodo significativa la differenza di approccio di Ascarelli rispetto a quello di Asquini. Infatti, mentre Ascarelli si limitò ad individuare, in prospettiva, l’incidenza che lo sviluppo degli accordi collettivi
avrebbe avuto in ordine al mutamento di rilievo nel sistema delle fonti tra
la disciplina generale codicistica e quella specifica, categoria per categoria,
o bene per bene, introdotta dalla prassi degli accordi collettivi – prendendo
atto del fenomeno avviatosi e destinato a proiettarsi nel futuro –, Asquini,
a suo tempo, già sul piano teorico, aveva rifiutato a priori di prendere in considerazione siffatto orizzonte, nella convinzione – indubbiamente corretta,
ma da lui culturalmente ostracizzata – che ciò avrebbe portato al tendenziale
depotenziamento del ruolo del codice di commercio.
In secondo luogo, all’osservazione secondo la quale con i contratti
di categoria si sarebbero progressivamente forgiate «discipline diverse secondo i vari prodotti e le varie categorie relative in relazione alle quali saranno adottati contratti, propri ciascuno di speciali categorie, o speciali
clausole contrattuali, diverse per le varie categorie»66, Ascarelli, sempre
nel saggio del 1933, collegò, sia pure in nota, anche l’altra tematica sulla
quale aveva iniziato a riflettere, ossia quella relativa all’emersione di nuove
discipline che «rivendicano una loro autonomia basata non più su criteri
di ordine formale, ma su elementi distintivi d’indole tecnica, come ha
luogo pel diritto agrario, pel diritto marittimo […], pel diritto aereonautico, per quello industriale ed in Germania, per il così detto diritto eco66
ASCARELLI, Note preliminari sulle intese industriali, cit. nt. 54, p. 32.
289
A. JANNARELLI
nomico o delle imprese»67.
In definitiva, con quell’ampio saggio del 1932, ma pubblicato nel 1933,
Ascarelli mise a fuoco, per la prima volta, la convergenza tra le trasformazioni dell’economia che dalla prospettiva individualistica dell’Ottocento era
passata a quella collettiva, con lo sviluppo delle diverse forme di associazionismo economico e delle nuove tecniche giuridiche di cui quello si serviva, e la risposta che già ‘sul campo del diritto pubblico’ proveniva
dall’organizzazione corporativa dello Stato. In tale prospettiva, era possibile
cogliere una linea di continuità tra lo sviluppo dei consorzi, in una con la
loro trasformazione da privati a pubblici, da volontari in obbligatori, e
l’emersione di organizzazioni di categoria a carattere privato e la loro successiva trasformazione in organi a carattere pubblico con il conseguente
emergere degli accordi economici collettivi.
5. Intervento dello Stato nell’economia e discipline speciali: la crisi del modello ottocentesco e i compiti della dottrina
È, dunque, a partire dal saggio del 1933 che Ascarelli iniziò a mettere
a fuoco il rapporto che si stava profilando tra l’ordinamento corporativo,
quale morfologia attuativa del governo giuridico di rapporti giuridici di
massa in luogo di quelli individuali della tradizione ottocentesca, e l’allora
vigente sistema giuridico privatistico, soprattutto nella sua componente
commercialistica, ormai inadeguato alla luce del superamento dell’esclusiva
prospettiva individualistica che era alla sua base. Al tempo stesso, e in ragione delle sue prime valutazioni, si preoccupò anche di segnalare che tale
tematica, da approfondire in tutti i suoi aspetti, era ineludibile per cui
avrebbe dovuto attirare l’attenzione dell’intera dottrina privatistica.
In realtà, nella riflessione di Ascarelli del 1933, questo passaggio, ossia
la necessità di collocare la disciplina corporativa nell’orizzonte analitico del
commercialista, al fine di coglierne le conseguenze di ordine sistematico,
non fu per lui una scelta facile, ma l’esito di un processo di ricerca che maturò nella consapevolezza, non esplicitata, circa il rischio di una possibile
lettura ‘politica’ di quel suo approccio e del suo accostarsi all’analisi dell’esperienza corporativa, a fronte dei quali si ergeva, pur sempre, l’avvertita
non eludibile sua responsabilità, come scienziato del diritto, di non rinunciare a leggere e ad cogliere i segni dei tempi.
Una significativa spia circa il progressivo maturare di quel più ampio
67
Ivi, nt. 1.
290
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
progetto di riflessione avviatosi nel saggio sulle Intese industriali elaborato
nel 1932 e pubblicato nel 1933 può, a nostro avviso, rinvenirsi in due singolari interventi che lo stesso Ascarelli volle destinare alla «Rivista del diritto
commerciale» e che si situano a cavallo dell’elaborazione e pubblicazione
del saggio sopra analizzato.
Ci si riferisce a due brevi interventi ospitati nella sezione “Varietà” di
tale rivista, rispettivamente pubblicati nel 1932 e nel 1933. Tali interventi
da un lato anticipano e riflettono le due considerazioni sopra richiamate e
sinteticamente illustrate da Ascarelli nell’ampio saggio edito nel 1933, dall’altro, e in maniera più incisiva rispetto al saggio sulle Intese industriali, pongono il problema relativo al compito cui, in quel preciso frangente storico,
si sarebbe dovuta impegnare la dottrina privatistica italiana, quasi che il loro
stesso autore avesse così voluto, implicitamente, procurarsi una preventiva
legittimazione, di ordine culturale, a proseguire la riflessione in tale direzione, senza che ciò potesse interpretarsi come una condivisione della politica del diritto adottata dal regime fascista.
Il primo saggio, Dei contratti nella pratica commerciale68, riprende il titolo di
un corso tenuto da Redenti e pubblicato nel 1931: corso che era stato citato
da Ascarelli nel lavoro sulle Intese industriali poi pubblicato nel 1933. Con
tale piccolo scritto, Ascarelli non intendeva certo fare una recensione al
corso di lezioni di Redenti, bensì partire da tale pubblicazione per prospettare una riflessione sullo stato dell’arte della ricerca privatistica. Infatti, nel
suo corso Redenti aveva compiuto una panoramica sulle figure contrattuali
emerse nella prassi più recente e l’aveva posta all’attenzione degli studenti
degli istituti superiori di commercio, come tali destinatari di corsi di insegnamento attenti più agli aspetti pratici delle questioni che alle complesse
problematiche giuridiche di carattere dogmatico di «grande interesse per la
formazione dei giovani giuristi»69. Nell’avvio del suo intervento, Ascarelli
segnalò innanzitutto che il merito del corso di Redenti era stato quello di
prospettare per la prima volta una trattazione della parte generale riferita
esclusivamente ai contratti e di presentare pagine «singolarmente felici sui
nuovi problemi della pratica contrattuale»70 tra cui il contratto normativo,
il contratto collettivo, l’obbligo a contrarre, sì da affrontare problemi della
pratica contrattuale sui quali le trattazioni precedenti non offrivano un’adeguata analisi. Questi rilievi bastarono ad Ascarelli sia per segnalare la novità
rappresentata dall’elaborazione del Redenti rispetto alla trattatistica tradiLo si legge in «Rivista del diritto commerciale», 1933, I, p. 77 ss.
ASCARELLI, Dei contratti nella pratica commerciale, cit. nt. 68, p. 77.
70
Ivi.
68
69
291
A. JANNARELLI
zionale ancora dominante, sia per avanzare alcune considerazioni di ordine
generale sul ritardo della dottrina italiana nell’analisi di tutto il nuovo materiale creato dall’evoluzione economica intervenuta negli ultimi anni e non
sufficientemente elaborato nella tradizione pandettistica. In particolare, con
sintetici riferimenti all’evoluzione del diritto vivente in materia di società e
di contratti di assicurazione, di borsa e di vendita, Ascarelli innanzitutto
evidenziò i gravi limiti dovuti all’applicazione di concetti tradizionali, a
fronte di una mutata costituzione economica e, dunque, il progressivo allargarsi del vallo tra il diritto scritto presente nei codici e la concreta disciplina emergente nella pratica contrattuale. A suo dire, questo scarto tra la
teoria giuridica e la pratica economica implicava una crescente delegittimazione dei giuristi e degli avvocati dovuta fondamentalmente all’inadeguatezza delle categorie giuridiche, prevalentemente di origine romanistica
ereditate dalla pandettistica, «a far fronte alla nuova costituzione economica
delle nazioni civili»71. Di qui, «da un lato, dunque, la necessità di un maggior
realismo nei confronti degli aspetti della pratica, una più profonda indagine
delle premesse economiche dei concetti giuridici, dall’altro però un affinamento dell’indagine dogmatica»72. Il riferimento ad entrambi questi profili
non contraddiceva, secondo Ascarelli, la necessità del richiamo alla tendenza dottrinale e giurisprudenziale della c.d. Interessenjurisprudenz contrapposta alla Begriffsjurisprudenz. A suo dire, infatti, la sostanziale
contrapposizione tra le due tendenze, più che essere di natura metodologica, rifletteva, viceversa, l’attenzione della prima verso «la nuova costituzione economico sociale», a fronte, viceversa, della tendenza della seconda
a restare fedele alla tradizione e, dunque, ad assumere una posizione conservatrice. In altre parole, gli interpreti ispirantisi all’una o all’altra tendenza
non andavano distinti sulla base dell’osservanza o non del metodo dogmatico, ma solo in quanto esponenti di diverse esigenze e diverse valutazioni:
«gli uni e gli altri mirano necessariamente a costruire delle teorie generali,
ma partono da diverse valutazioni, da giudizi diversi sull’importanza dei
vari interessi che le norme giuridiche mirano a conciliare». Sicché, la constatata inadeguatezza della Begriffsjurisprudenz, persistente nella dottrina italiana e tale da rallentare il rinnovamento della scienza giuridica nel nostro
paese, secondo Ascarelli «non [è] una conseguenza dell’impiego del metodo
dogmatico; [è] conseguenza della costruzione dei principi giuridici in base
a valutazioni non più condivise dalla coscienza sociale»73 .
Ibidem, p. 80.
Ibidem, p. 79.
73
Le espressioni si leggono ibidem, p. 80.
71
72
292
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
Con questo sintetico intervento, Ascarelli si limitò ad avanzare in apicibus una prima considerazione di ordine generale in ordine alla necessità
che, al fine di svolgere un ruolo attivo sul piano sociale, il giurista avrebbe
dovuto sintonizzarsi con la realtà effettuale e con le esigenze emergenti
nella realtà sociale, pena il rischio di collocarsi in una posizione conservatrice, sì da «trovare la giustificazione delle proprie soluzioni solamente
in un elemento logico formale, spesso con delle acrobazie intellettuali che
lasciano il profano forse ammirato, ma un po’ scettico sulla funzione e
sull’utilità del diritto»74.
A fronte di questa dichiarata ‘scelta di campo’ a favore di un indirizzo
di ricerca e di studio chiamata a confrontarsi con la concreta esperienza, in
cui si collocavano, tra l’altro, quelle profonde trasformazioni dell’economia
con le quali, sia pure a suo modo, l’ordinamento corporativo si stava confrontando al fine pur sempre di fornire risposte, il secondo sintetico intervento di Ascarelli, pubblicato l’anno successivo, ossia nel 1933, nella stessa
«Rivista del diritto commerciale», quasi in parallelo con l’apparire dell’ampio
saggio sulle Intese industriali, riguardò questa volta il tema, politicamente
‘caldo’, relativo ai contratti collettivi commerciali di cui all’art. 12 della legge
sul Consiglio delle Corporazioni75.
Lo spunto per occuparsi di siffatti contratti nasceva da una constatazione che si era rafforzata proprio per via dell’introduzione dell’art. 12 della
legge sul Consiglio nazionale delle Corporazioni nonché dell’intervenuto
riconoscimento della Federazione della proprietà edilizia: constatazione secondo la quale era sempre più evidente la forza espansiva dello strumento
costituito dal contratto collettivo. Nato sul terreno della regolamentazione
dei rapporti di lavoro, esso veniva sempre di più largamente utilizzato anche
nei rapporti tra varie categorie di imprenditori. Con questa premessa introduttiva, Ascarelli intese da un lato ribadire il superamento dell’individualismo atomistico, espressione di un modello di organizzazione
economico sociale anch’esso ormai tramontato e dall’altro rimarcare che,
proprio lo sviluppo dell’organizzazione di categoria portava, a sua volta,
alla moltiplicazione dei rapporti tra le categorie. Di qui, la subordinazione
progressiva dei contratti individuali, sino alla loro ricomprensione in quell’ordinamento che viene creato sempre in via contrattuale con la conseguente limitazione dell’autonomia dei privati, sia pure con efficacia
obbligatoria, ottenuta per via dei contratti normativi di categoria. Di qui,
Ivi.
Il riferimento è al breve saggio di T. ASCARELLI, I contratti collettivi commerciali e il criterio
distintivo dei vari contratti, in «Rivista del diritto commerciale», 1933, I, p. 98 ss.
74
75
293
A. JANNARELLI
sempre secondo Ascarelli, il dispiegarsi dell’ordinamento giuridico come
una serie di cerchi concentrici (quello statale, quello del contratto di categoria, e quello del contratto individuale), in aderenza ad una immagine già
presente nella letteratura giuridica. È interessante sottolineare che in questa
illustrazione, Ascarelli intese fare riferimento ad una realtà fenomenica generale, per certi versi decontestualizzata rispetto alla stessa applicazione
della disciplina corporativa in itinere, quasi volesse costituire una prima tappa
di un percorso destinato solo successivamente a prendere in considerazione
l’esperienza corporativa in quanto tale. È in questa prospettiva che, con
estrema finezza, ma, al tempo stesso, con indubbia cripticità, Ascarelli si
preoccupò di chiarire espressamente che nella considerazione allora svolta
bisognava ‘naturalmente’ intendere «il termine “ordinamento giuridico”
nel suo significato tradizionale e non in quello proprio del Romano»76. Invero, senza fare alcun richiamo alla ben diversa disciplina di cui alla legge
del 1926 sui contratti collettivi di lavoro da lui già analizzata, Ascarelli non
ebbe difficoltà a segnalare, richiamando esplicitamente proprio il saggio di
Asquini pubblicato nel 1931 negli ‘Studi per Vivante’77, che allo stato i contratti collettivi commerciali andavano qualificati come semplici contratti
normativi di diritto privato con efficacia obbligatoria. Infatti, per gli stessi
non operava «la rappresentanza necessaria del Sindacato per tutti gli appartenenti alla categoria – comunque la s’intenda e comunque la si costruisca, sul terreno del diritto privato o su quello del diritto pubblico»78.
Ebbene è a questo punto della sua analisi che Ascarelli intese andare
oltre il semplice rilievo formale costituito dalla collocazione dei contratti
collettivi commerciali nell’ambito dei contratti normativi, ossia quel rilievo
che era risultato appagante per Asquini, interessato solo a che non fosse
alterato il quadro sistematico del diritto privato.
a) Infatti, nel riprendere la considerazione già presente nel saggio sulle
Intese industriali, Ascarelli tenne a precisare che lo sviluppo dei contratti di
categoria e, dunque, l’emergere progressivo di una loro distinzione non più
in ragione della loro causa tipica, bensì in relazione al ramo produttivo di
riferimento, avrebbero portato, per ogni singolo ramo della produzione, «a
svilupparsi una disciplina giuridica speciale, spesso internazionalmente uniIbidem, p. 98.
Si v. A. ASQUINI, L’unità del diritto commerciale ed i moderni orientamenti corporativi, in Studi di
diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, Società Editrice del “Foro italiano”, Roma 1931,
vol. II, p. 521 ss.
78
ASCARELLI, I contratti collettivi commerciali e il criterio distintivo dei vari contratti, cit. nt. 75, p.
98.
76
77
294
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
forme, il cui criterio distintivo rispetto alle altre non è più costituito da un
elemento giuridico formale, ma da un elemento tecnico, dal ramo di produzione cui si riferisce»79.
La sensibilità comparatistica e sociologica propria della sua personalità
di studioso, forniva ad Ascarelli una chiave di lettura del fenomeno in atto.
Egli non colse soltanto l’importanza politica del fenomeno e, dunque, la
stessa emersione del problema circa la necessità di un controllo statale, «sia
nell’interesse della categoria più debole, sia in quello di coloro che non
fanno parte delle categorie tra le quali viene concluso il contratto collettivo
e più generalmente della economia nazionale»80. Comprese anche che la
stessa soluzione legislativa allora vigente per la quale i contratti di categoria
commerciali di cui all’art. 12 della legge del 1930 avevano conservato integra la loro struttura privata, a differenza di quanto avvenuto per i contratti
collettivi di lavoro sulla base della legge del 1926, avrebbe potuto essere a
sua volta superata, più precisamente allineata con quella già adottata per i
contratti collettivi di lavoro: cosa che in effetti sarebbe avvenuta nel 1934
con la legge istitutiva delle corporazioni.
In realtà, la visione prospettica di Ascarelli andava ben oltre. Infatti, la
tendenza allo sviluppo di contratti di categoria secondo quel modello
avrebbe agito «in senso profondamente innovatore sull’ordinamento sistematico tradizionale in tema di contratti. […] I vari contratti nominati del
codice si frantumano in una serie di sottotipi; nuovi contratti misti ed innominati sorgono […] Si tratta di contratti e di clausole che si connettono
in via normale a ciascun ramo della produzione, sicché ciascun ramo della
produzione viene ad essere contrassegnato da propri contratti, ignoti ad
altri rami, o da clausole particolari di un determinato contratto, clausole a
loro volta alle quali non si fa ricorso fuori di quel campo»81.
Ibidem, p. 99 (il corsivo è nostro). Anche in questa osservazione, Ascarelli volle sottolineare che si era in presenza di un movimento non certo isolato alla realtà nazionale, ma
diffuso in altre esperienze e già all’attenzione di raffinata dottrina: di qui il richiamo esplicito alla lezione comparatistica di Edouard Lambert.
80
Ivi.
81
Ivi. Le osservazioni di Ascarelli trassero l’attenzione di G. mAZZONI, Precisazioni a proposito della cosiddetta «penetrazione» dell’ordinamento corporativo nel diritto commerciale, in «Il diritto
del lavoro», 1933, p. 427 ss., il quale riprese i contenuti dello studio di Ascarelli, da lui apprezzato come «breve ma denso». Non a caso sette anni dopo, nell’incipit del suo saggio
G. mAZZONI, Aspetti e tendenze del nuovo diritto della produzione, ibidem, 1940, p. 3 ss., richiamò
lo stesso articolo di Ascarelli nel sostenere la tesi secondo la quale «il principio corporativo,
inteso come principio di organizzazione e di azione della categorie economiche», oltre a
penetrare nel diritto amministrativo e costituzionale, «assume – di fronte al diritto privato
– una rilevanza anche maggiore perché è proprio in virtù del principio corporativo che si
79
295
A. JANNARELLI
Nella considerazione dianzi analizzata si è fatto esplicito richiamo ad
alcuni brani della riflessione di Ascarelli e si è consapevolmente voluto segnalare, con la sottolineatura, la ricorrenza negli stessi di due espressioni
verbali: da un lato il richiamo in ordine allo sviluppo di discipline giuridiche
speciali per ogni singolo ramo produttivo, in ragione dello sviluppo dei contratti commerciali di categoria, dall’altro il contributo che, in tale differenziazione, avrebbero fornito i cosiddetti elementi tecnici.
Ebbene nell’altra considerazione che si rinviene nel breve saggio del
1933 e che sviluppa quanto osservato dallo stesso Ascarelli in una nota
del suo più ampio saggio sulle intese industriali, egli intese sottolineare il
parallelismo tra il processo di differenziazione delle discipline contrattuali
nei diversi rami della produzione, sulla base anche di elementi tecnico-economici, e quello relativo all’emersione di nuove discipline, quali, secondo
l’esemplificazione utilizzata dallo stesso Ascarelli, il diritto marittimo, aereonautico, industriale, agrario ecc. Parallelismo, a ben vedere, che in definitiva sullo sfondo avrebbe poi suggerito, sempre più chiaramente, la
presenza di due forme distinte di interventismo normativo sulla complessa
e variegata realtà economica, affidate ora all’autogoverno (pur nella formula
di un interclassismo coattivo ed antidemocratico) per via della contrattazione di categoria sotto il controllo governativo82, ora all’introduzione di
specifici pacchetti legislativi da parte dello Stato, comprensivi di norme di
diritto pubblico e di diritto privato, che meritavano una autonoma attenzione, suggerendo l’individuazione di nuove discipline di ricerca e di insegnamento.
Ed, in effetti, nel richiamare l’attenzione su queste discipline aspiranti
ad una loro autonomia scientifica Ascarelli, in linea con quanto già sosteva sempre di più accentuando la prevalenza sui rapporti individuali dei rapporti tra categorie o gruppi […]». Sul rilievo del contributo di Ascarelli, quanto alle rilevazioni delle
interferenze tra diritto privato e diritto pubblico ed i loro effetti, si v. altresì R. FRANCESCHELLI, Diritto pubblico e diritto commerciale, in «Annali della Facoltà di Giurisprudenza di
Perugia», 1940, p. 131, nt. 9.
82
Infatti, i meccanismi previsti dalla legislazione sacrificavano in concreto l’autonomia dei
produttori in quanto risultava prevaricante il ruolo che nel funzionamento delle corporazioni era affidato al partito fascista e al governo. Sotto questo profilo, è peraltro significativo che le principali iniziative relative all’intervento dello Stato fascista nell’economia,
dalla legge bancaria alla istituzione dell’IRI ecc., sia avvenuta fuori dal circuito istituzionale
delle corporazioni, con un indubbio ruolo marginale svolto dall’ordinamento corporativo:
sul punto si rinvia per tutti a D. FAUSTO, L’economia del fascismo tra Stato e mercato, in Intervento
pubblico e politica economica fascista, cit. nt. 4, p. 1 ss. Per una valutazione a caldo degli interventi
sul sistema creditizio si v. G. DI NARDI, Il sistema bancario nell’ordine corporativo, Tip. Cressati,
Bari 1938.
296
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
nuto da Antonio Scialoja a proposito del diritto marittimo, rimarcò che
esse sembravano trovare la loro unità sul terreno tecnico-economico quasi
a voler segnalare una maggiore importanza del fattore tecnico-economico
su quello giuridico-formale83.
Sul punto, a ben vedere, la riflessione di Ascarelli era soltanto agli
esordi: si limitava a registrare il fenomeno, aprendo semplicemente le porte
con «prudente cautela» ad una ricerca in cui il giurista non poteva sottrarsi
«sentendone il valore ed il significato»84. In questo caso, infatti, era fondamentale la concreta possibilità di individuare nuovi principi giuridici in presenza solo dei quali sostenere l’autonomia scientifica di nuove discipline
speciali da affiancare a quelle la cui autonomia si basava su criteri d’ordine
giuridico formale o su criteri d’ordine storico come, a suo dire, valeva innanzitutto per il diritto commerciale.
In altre parole, se da un lato Ascarelli registrava l’impulso che il fattore
tecnico-economico svolgeva a favore della autonomia di nuove discipline
speciali, dall’altro il rispetto per l’autonomia del giuridico lo induceva alla
cautela, in attesa della corretta individuazione di nuovi autonomi principi85.
Nel riprendere, al riguardo, la tesi già evocata nel precedente saggio sui
contratti nelle pratiche commerciali, secondo la quale la contrapposizione
tra tendenze dogmatiche e tendenze antidogmatiche (rispondenti alla Begriffsjurisprudenz e alla Interessenjurisprudenz) in realtà rispecchiava due ben diverse dogmatiche, Ascarelli era consapevole dell’importanza della questione
dal punto di vista rigorosamente giuridico. Infatti, lo sforzo verso l’elaborazione di nuovi principi, con il conseguente superamento delle distinzioni
sistematiche ricevute, tra cui innanzitutto anche quella tra diritto privato e
diritto pubblico, sì da dare valore generale a principi giuridici che altrimenti
Il riferimento al criterio tecnico segnalato da Scialoja, a proposito del diritto marittimo,
e che Ascarelli, a sua volta, ritenne utile richiamare anche a proposito del diritto agrario,
non intendeva, peraltro, mettere in discussione la tesi già in precedenza autorevolmente
avanzata da Rocco e da Arcangeli, opportunamente richiamati da Ascarelli, secondo la
quale, ai fini dell’autonomia di una disciplina giuridica, sarebbe stato comunque necessaria
l’esistenza di distinti principi giuridici generali.
84
Così ASCARELLI, I contratti collettivi commerciali e il criterio distintivo dei vari contratti, cit. nt.
75, p. 101.
85
Le iniziali riserve e cautele in ordine alla possibilità che il criterio tecnico, di sicuro rilievo
nelle legislazione specialistica, potesse, in quanto tale, dare fondamento all’autonomia
scientifica dei diritti speciali, si tradussero in una motivata valutazione negativa nell’approfondita relazione, successivamente elaborata da Ascarelli, Importanza dei criteri tecnici nella
sistemazione delle discipline, pronunciata nel corso del primo congresso nazionale di diritto
agrario tenutosi a Firenze, nei giorni 21-23 ottobre 1935, e che si legge negli Atti del medesimo congresso, Tip. m. Ricci, Firenze 1936, p. 102 ss.
83
297
A. JANNARELLI
avrebbero rivestito solo carattere eccezionale, imponeva al giurista un atteggiamento di ‘prudente cautela’ ma, al tempo stesso, gli richiedeva di
non sottrarsi a siffatta indagine.
Ancora una volta, in definitiva, la rilevata necessità di indirizzare la ricerca alla concreta realtà socio-economica in movimento, anche con il possibile esito di abbandonare paradigmi dogmatici ricevuti dalla tradizione,
veniva invocata per giustificare il dovuto impegno del giurista in tale direzione.
Del resto, è in questa specifica congiuntura temporale, ossia quella in
cui si accentua l’attenzione di Ascarelli per l’ordinamento corporativo, in
particolare per gli effetti sistemici che lo stesso stava determinando sull’ordinamento privatistico, che si collocano, altresì, tanto la collaborazione con
Ageo Arcangeli86, intervenuta in occasione della relazione curata insieme
per il Congresso di diritto comparato dell’Aja del 193287, quanto, come si
vedrà meglio in prosieguo, l’attenzione per le opinioni di quell’autorevole
studioso, di totale fede fascista, sul tema della codificazione: opinioni che,
a differenza di quelle conservatrici professate da Asquini, erano decisamente in linea con l’ideologia corporativa e coerenti con la realtà economica
allora in trasformazione.
Sul piano scientifico, Arcangeli, insigne commercialista e, a quel tempo, deputato, nonché
convinto fascista ancor prima della marcia su Roma del 1922, presentava una spiccata sensibilità per l’analisi storica dell’esperienza giuridica, affine a quella del più giovane Ascarelli.
Su Ageo Arcangeli, che morì precocemente nel 1935, si v. la scheda biografica curata da
A. GENOVESE, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, dir. da I. Birocchi, E. Cortese, A.
mattone e m. miletti, I, il mulino, Bologna 2013, p. 94 ss. Sul contributo fondamentale di
Arcangeli nella costruzione del diritto agrario si rinvia a m. GOLDONI, Ageo Arcangeli giusagrarista, in Ageo Arcangeli l´uomo, la vita, l´impegno scientifico, Atti della giornata di studio organizzata con la collaborazione dell’Accademia georgica (Treia, 10 giugno 1995), in fasc.
speciale boll. AICDA, Pisa 1996, p. 29 ss. É il caso di rammentare, a conforto dell’apprezzamento per le originali e innovative elaborazioni scientifiche agraristiche di Arcangeli,
che Ascarelli, da un lato nei suoi Appunti di diritto commerciale aderì pienamente al noto criterio della “normalità” suggerito da Arcangeli a proposito della qualifica agricola delle attività cosiddette connesse, dall’altro destinò agli studi in memoria dello stesso Arcangeli
proprio la riflessione sui profili tecnici nel diritto agrario da lui svolta nel primo congresso
nazionale di diritto agrario del 1935: si v. T. ASCARELLI, L’importanza dei criteri tecnici nella sistemazione delle discipline giuridiche e il diritto agrario, in Scritti in memoria di A. Arcangeli, vol. I,
Cedam, Padova 1939, I p. 17 ss.
87
Ci si riferisce alla relazione di A. ARCANGELI e T. ASCARELLI, Moderne Gestaltungen und
Lösungen im italienischen Aktienrecht (insbesondere der Minderheitenschutz) presentata a tale convegno e pubblicata in Italia con il titolo Il regime delle società per azioni con particolare riguardo
al voto plurimo e alla protezione delle minoranze, in «Rivista del diritto commerciale», 1932, I,
p. 159 ss.
86
298
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
6. La prima lettura sistematica dell’ordinamento corporativo alla luce della crisi del
capitalismo
L’articolata riflessione avviata da Ascarelli nei primi anni Trenta aveva
riguardato i complessi mutamenti che andavano registrandosi nella esperienza giuridica, in particolare a proposito sia del rapporto tra il sistema
giuridico privatistico e l’ordinamento corporativo, sia del significato stesso
del proliferare di nuove discipline, aspiranti all’autonomia, alla base delle
quali vi era soprattutto la messa in discussione del paradigma fondativo
della stessa articolazione tradizionalmente rispettata dalla riflessione giuridica e fondata sulla rigorosa distinzione tra diritto privato e diritto pubblico.
Ebbene, i semi ‘messi a dimora’ da quel finissimo giurista in quella stagione di consolidamento dell’esperienza corporativa avrebbero prodotto
preziosi frutti negli anni successivi, sino alle soglie del suo forzato esilio
dovuto all’adozione da parte del regime delle leggi razziali: frutti prospettati,
come si vedrà, senza più alcuna reticenza, proprio in quanto riflettenti, alla
luce dell’analisi storico-comparatistica cara a quel grande giurista, la convinta percezione circa la ‘stabile novità’ del quadro normativo che il giurista
aveva di fronte, tale da permettergli di guardare lontano con la consueta
acutezza.
Le due tematiche sopra richiamate, come aveva lucidamente colto Ascarelli, erano accomunate, quali facce di una medesima medaglia, dal fatto
di costituire manifestazioni diverse di un unico nuovo fenomeno costituito
dal definitivo superamento del sistema di economia liberale, proprio dell’Ottocento. In quest’ultimo, infatti, l’intervento diretto dello Stato nell’economia era minimo o comunque eccezionale e il governo delle relazioni
economiche restava pur sempre affidato alle sole regole privatistiche forgiate, sulla base di una tradizione secolare, per i singoli individuali rapporti
contrattuali. I mutamenti radicali nelle relazioni sociali e politiche, intervenute a partire dalla fine dell’Ottocento ed estremizzatisi, peraltro, dopo la
fine della prima guerra mondiale e la crisi economica che ne era seguita,
avevano infatti portato ad una nuova e ben diversa stagione. Il processo
di industrializzazione di un paese caratterizzato peraltro da grandi aree di
arretratezza, l’affermarsi inevitabile di rapporti di massa, la diversificazione
di potere delle stesse strutture produttive, esigevano risposte ordinamentali
nuove. Risposte che solo in parte potevano ripercorrere, sia pure questa
volta nel segno della continuità e non più della congiunturale eccezionalità,
esclusivamente la via che a suo tempo aveva tracciata la legislazione di
guerra. In occasione di quest’ultima, infatti, l’intero sistema economico del
paese e, dunque, tutte le principali relazioni di mercato erano state sotto299
A. JANNARELLI
poste a vincoli e controlli pubblici in ragione della mobilitazione dovuta
allo stato di belligeranza. Nelle specifiche condizioni emerse nel primo dopoguerra, la necessaria prosecuzione di un’esperienza di economia ‘controllata’ non poteva basarsi soltanto sui meccanismi propri di una economia
di guerra, ma aveva bisogno anche del costante coinvolgimento delle stesse
forze sociali produttive in quanto tali. Sotto questo profilo, nella complessiva crisi politica del sistema liberale dei primi decenni del secolo, il regime
fascista aveva mirato a rinvenire nell’ordinamento corporativo i meccanismi
autoritari ed illiberali volti in primo luogo a disinnescare direttamente i conflitti tra capitale e lavoro ed, inoltre, a promuovere la regolamentazione di
massa dei rapporti economici all’interno delle filiere produttive, mediante,
prima, la contrattazione delle organizzazioni di categoria e, successivamente, le determinazioni normative delle corporazioni, entrambe configurate come strutture istituzionali sottoposte al controllo del Governo e del
partito unico88.
Lo sviluppo della riflessione di Ascarelli dopo gli interventi sopra analizzati si collocò a metà degli anni Trenta in due fondamentali contributi di
ampio respiro metodologico e di politica del diritto che si affiancarono, peraltro, all’indagine decisamente più tecnico-dogmatica relativa pur sempre
al tema delle unioni di imprese89. In questi, i mutamenti in atto nella realtà
socio-politica del tempo furono analizzati, pur sempre dal punto di osservazione dello studioso del diritto commerciale, con una lucida sequenza:
in un primo momento, al fine di cogliere la novità rappresentata dal rapporto tra il diritto commerciale e le nuove discipline speciali, chiamate ad
occuparsi delle normative emerse su specifiche aree della realtà economica;
in un secondo momento, al fine di riprendere in termini diretti e più sistematici il tema di fondo relativo al rapporto tra il diritto commerciale e l’ordinamento corporativo. Il tutto, in una prospettiva in cui, come Ascarelli
volle rimarcare nel necrologio di Alfredo Rocco del 1935, l’approccio del
giurista avrebbe dovuto emanciparsi dall’indirizzo ricevuto dalla tradizione,
incline a decontestualizzare l’analisi del fenomeno giuridico, dovendo, viceversa, ogni problema giuridico essere «inquadrato in un ambito più
vasto», ossia
In realtà, sebbene presentato come uno Stato nello Stato (così dall’esilio l’analisi di S.
TRENTIN, Les Transformations récentes du Droit Public Italien. De la Charte de Charles-Albert à la
Création de l’État Fasciste, Girard, Paris 1929, p. 13 ss.), il partito fascista fu sempre dipendente e subordinato alle decisioni di mussolini.
89
E si v., infatti, l’ampio saggio su Le Unioni di imprese, in «Rivista del diritto commerciale»,
1935, I, p. 152 ss. elaborato a proposito della monografia di V. SALANDRA, Il diritto delle
unioni di imprese, Cedam, Padova 1934.
88
300
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
inteso in tutti i suoi presupposti sociali e in tutta la sua portata politica»,
soprattutto «in periodi di trasformazione politica ed economica, quando
vengono discussi e rinnovati i presupposti politici accettati come evidenti
in un periodo precedente, nel quale la scienza giuridica era perciò spesso
più incline all’isolamento del fenomeno giuridico […] 90.
Il primo dei contributi cui si è fatto or ora riferimento è il saggio del
1934 su La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto commerciale91.
Sebbene sia in coerenza con l’evoluzione del pensiero dell’autore nonché
con gli ulteriori sviluppi che sarebbero seguiti alla sua stessa elaborazione,
questo saggio presenta alcuni elementi decisamente originali.
Da una parte esso è in linea con l’ampiezza dello spettro culturale che
ha sempre contraddistinto la riflessione di Ascarelli: anche in tale saggio vi
è spazio per richiamare, in ordine ai rapporti tra diritto e politica e le funzioni degli istituti giuridici, le riflessioni tra gli altri di Radbruch92 e di Renner93. D’altra parte, però, è del tutto singolare la diretta attenzione che
l’autore intese assegnare anche alla cornice valutativa, di matrice fascista,
più ideologico-politica che giuridica in senso stretto, in cui andavano collocate le trasformazioni sociali, già evidenziate in precedenza: ossia l’avvenuto superamento dell’individualismo economico ottocentesco ed il venir
meno della neutralità dello Stato rispetto alle vicende dell’economia già attestato dalla progressiva emersione di una legislazione che registrava la crescente concorrente presenza di norme privatistiche e norme pubblicistiche.
Le espressioni richiamate nel testo si leggono in T. ASCARELLI, Alfredo Rocco, in «Rivista
del diritto civile», 1935, I, p. 378 ss., in part. pp. 380-81, a commento adesivo alla tesi sostenuta in uno dei suoi ultimi contributi da A. ROCCO, Politica e diritto nelle vecchie e nelle nuove
concezioni dello Stato, in «Nuova Antologia», 1931, p. 346 ss. e ID., Studi di diritto commerciale
ed altri scritti giuridici, vol. II, Società Editrice del “Foro italiano”, Roma 1933, p. 455 ss., testualmente richiamata nel necrologio, per la quale il grande commercialista così aveva ammonito: «Non dunque confusione tra diritto e sociologia, tra diritto e politica, ma
necessaria distinzione. Neppure, però, isolamento che faccia al giurista ignorare l’aspetto
sociale e politico dei problemi, ma opportuno coordinamento […] Spezzare dunque l’artificiale diaframma che separa la concezione giuridica da quella sociale e politica bisogna,
se si vuole dare una idea compiuta ed integrale dello Stato e ciò dallo stesso punto di vista
giuridico».
91
Lo si legge in «Rivista del diritto commerciale», 1934, I, p. 1 ss.
92
Il riferimento è all’opera fondamentale di G. RADBRUCH, Einführung in die Rechtswissenschaft, nell’ed. del 1929 (Quelle & meyer, Leipzig), in ordine ai rapporti tra diritto e politica.
93
Il richiamo è al famoso volume di K. RENNER, Die Rechtsinstitute des Privatrechts und ihre
soziale Funktion. Ein Beitrag zur Kritik des bürgerlichen Rechts, mohr, Tübingen 1919, a proposito del possibile mutamento di funzioni degli istituti nel corso della storia.
90
301
A. JANNARELLI
Infatti, è all’interno di tale attenzione che si possono comprendere, più precisamente, le citazioni che Ascarelli collocò nel suo saggio relative a contributi di Bottai94, dello stesso Rocco95, politico del diritto, di Volpicelli96, e
di Biagi97.
Anche sul piano strutturale-formale, riflesso nello stesso suo editing, il
saggio presenta elementi di novità in quanto la sequenza delle argomentazioni prospettate dall’autore si manifesta mediante una pluralità di quadri
tematici ben distinti tra loro, come si cercherà di evidenziare.
La cifra fondamentale dell’approccio adottato in tale occasione da Ascarelli è peraltro di ordine storico, come l’autore con molta lucidità e consapevolezza provvide ad evidenziare nell’apertura del suo saggio. Nelle sue
precedenti riflessioni, la tematica del diritto speciale era stata direttamente
affrontata soltanto in termini strettamente giuridico-formali, in quanto si
mirava ad individuare i fondamenti su cui basare il riconoscimento circa
l’autonomia di nuove discipline destinate ad affiancarsi a quelle di diritto
generale preesistenti. Nel saggio del 1934, è la stessa distinzione tra diritto
generale e diritto speciale ad essere oggetto di indagine storica, sia pure dal
punto di osservazione del diritto commerciale, con la finalità di annodare
ad una lettura retrospettiva delle vicende proprie del diritto commerciale,
una migliore comprensione del suo presente, in particolare delle trasformazioni che andavano profilandosi in maniera sempre più netta nella concreta esperienza giuridica nazionale del tempo.
Nell’incipit della sua riflessione, Ascarelli intese rimarcare che ogni ordinamento è in perenne evoluzione e continue sono le trasformazioni che
si svolgono sotto gli occhi dell’interprete, per via dell’intervento, sia della
«legislazione speciale», sia «della forza sempre operosa della prassi» (così
che «vecchi istituti muoiono o adempiono a nuove funzioni»98 o nuovi ne
sorgono). Sicché, in un momento di feconda elaborazione legislativa, l’adeguazione del sistema giuridico alla realtà deve tener conto non solo del
94
In particolare, G. BOTTAI, Individuo, Sindacati, Corporazione e Stato nell’ordinamento corporativo,
in «Diritto del lavoro», 1933, I, p. 1 ss.
95
Il saggio di A. ROCCO, La disciplina del lavoro e lo Stato corporativo, richiamato da Ascarelli
con riferimento alla raccolta di ROCCO, Studi di diritto commerciale ed altri scritti giuridici, cit.
nt. 90, p. 405 ss., era già stato pubblicato ab origine in «Gerarchia»,1926, p. 409 ss. e riprodotto in ID., La trasformazione dello Stato, cit. nt. 8, p. 399 ss.
96
Il richiamo è a A. VOLPICELLI, La teoria dell’identità di individuo e Stato, in «Nuovi studi»,
1933, I, p. 11 ss.
97
Il riferimento è a B. BIAGI, Politica del lavoro: discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella
tornata del 10 marzo 1932, Tip. della Camera dei deputati, Roma 1933.
98
Così ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 2.
302
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
nuovo materiale normativo emerso, ma anche dei nuovi principi generali
destinati ad improntare anche l’interpretazione delle norme preesistenti, sì
da coordinare correttamente le norme della legislazione speciale con quelle
dei codici. In definitiva, l’opera dell’interprete da un lato si rivela «veramente
creativa e collabora nello sviluppo del diritto», dall’altro esige che si tenga
presente «il significato storico dei vari istituti e delle singole norme, la loro
posizione, la loro tendenza, le funzioni praticamente assolte nella [nostra]
vita giuridica»99.
Sulla base di questa premessa, il saggio, partendo dal tratteggiare, in
termini sintetici, la vicenda storica, sia del diritto commerciale, sia del diritto
marittimo, intese sottolineare che il particolarismo alla loro base non era
dovuta ad una peculiarità della materia disciplinata, anch’essa continuamente diversa nel corso della storia e nell’ambito delle varie esperienze giuridiche. Secondo Ascarelli, è certamente possibile distinguere la materia al
centro del diritto commerciale o del diritto marittimo, come diverse tra loro
e diverse da quella al centro, a sua volta, del diritto civile. In ogni caso, però,
non è la materia come tale, ossia per le sue peculiarità tecniche, a costituire
il criterio distintivo e, dunque, ad individuare la ragione dell’emersione di
tali discipline in alcuni soltanto e non in tutti gli ordinamenti giuridici.
Nell’affinare la sua riflessione in ordine al ruolo soltanto secondario
dei criteri tecnici al fine della corretta comprensione dei diritti speciali e,
viceversa, nel cogliere il proprium della loro specificità nella presenza di nuovi
principi giuridici, per via del combinarsi di norme privatistiche e di norme
pubblicistiche, Ascarelli non mancò di sottolineare, proprio in ragione della
storicità della loro emersione ed evoluzione, il processo osmotico per effetto del quale, principi ed istituti nati sul terreno del diritto speciale ben
erano stati adottati anche fuori dalla area della originaria singolare materia
per diventare patrimonio giuridico del diritto comune. In questa prospettiva, secondo Ascarelli, da un lato la specialità di un diritto si rivela nelle
sue norme privatistiche e pubblicistiche alla base dei suoi principi fondativi,
dall’altro i diritti speciali costituiscono categorie storiche, come tali comprensive di norme di diversa natura, e non certo categorie dogmatiche100.
Ivi.
Queste considerazioni relative alla distinzione tra diritto civile e diritto commerciale e,
al tempo stesso, alla possibile osmosi di principi dall’uno all’altro in ragione dei mutamenti
delle esigenze nella realtà storica vennero riprese da Ascarelli nell’immediato secondo dopoguerra nell’illustrare le ragioni per le quali nell’esperienza brasiliana era stato il codice
civile elaborato in un secondo momento a farsi interprete delle mutate esigenze dei traffici
rispetto al più risalente codice di commercio sì da adottare soluzioni meno formalistiche.
Nel saggio, Osservazioni di diritto privato comparato italo-brasiliano, in «Foro italiano», 1947, IV,
99
100
303
A. JANNARELLI
Quanto bastava, per rimarcare che, proprio in quanto storica, la categoria del diritto speciale «non ha ragione di essere eterna, ma relativa all’importanza dei principi generali che lo animano, importanza che deve di
volta in volta venire valutata». Di qui la possibilità che «un “diritto speciale”
[possa] morire, proprio nel momento del suo maggiore trionfo: quando i
principi giuridici da esso elaborati entrano nell’ambito del diritto comune»,
posto che «è in questa funzione di pioniere la ragione e l’orgoglio della sua
esistenza»101.
A conclusione di questa parte introduttiva sul diritto speciale e, in funzione preparatoria degli sviluppi della sua riflessione, Ascarelli concentrò
la sua attenzione sul diritto commerciale. In particolare, una volta rimarcato
che esso era «il frutto di quello spirito che si suol dire capitalistico»102, Ascarelli volle espressamente segnalare, a conferma della storicità della sua emersione103, la stessa inesattezza acquisita dal nome utilizzato per definire
siffatto diritto speciale. A suo dire, proprio la riflessione storica sulle vicende del diritto commerciale portava ad evidenziare: a) la progressiva riduzione del suo particolarismo dovuta al fatto che i suoi originari principi
generali si erano diffusi in tutto l’ambito del diritto comune in quanto tutta
l’economia «prima quella mobiliare, poi quella immobiliare, prima quella
commerciale in senso stretto e poi quella industriale, per ultimo quella agraria in alcune della sue forme più evolute» avevano finito con l’improntarsi
ai principi che ab origine avevano dato vita al diritto commerciale e al diritto
marittimo»104; b) la presenza nel diritto commerciale di istituti il cui particolarismo si era affermato prima ovvero si era più a lungo conservato.
In questo primo quadro, l’affresco storico che Ascarelli volle dedicare
al diritto speciale, con particolare attenzione all’esperienza del diritto commerciale, terminava con la segnalazione della parabola discendente circa il
c. 97 ss., in part. c. 101, Ascarelli, a commento di quanto aveva constatato nell’esperienza
brasiliana, sottolineò che «[l]’esempio merita forse di essere meditato e può realmente
concorrere a dimostrare come la distinzione tra diritto civile e commerciale non riposa
alla fine su di un contrasto della “materia” regolata, ma su un contrasto tra principi tradizionali e nuovi principi corrispondenti a nuove esigenze, le quali, sebbene affermatesi inizialmente in un campo limitato, hanno tuttavia una portata generale».
101
ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 6.
102
Ibidem, p. 7.
103
La lettura del diritto commerciale come categoria storica, prospettata da Ascarelli in
quel saggio, sarebbe apparsa a G. VALERI, Autonomia e limiti del nuovo diritto commerciale, in
«Rivista del diritto commerciale», 1943, I, p. 22, «frutto di una felice intuizione»; l’autore,
però, dissentiva in ordine al richiamo peculiare al capitalismo.
104
ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 8.
304
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
particolarismo proprio di tale diritto, intervenuta in ragione della diffusione
dei suoi principi al diritto comune. Non a caso, a conclusione del suo dire,
Ascarelli richiamò espressamente la posizione che alla fine dell’Ottocento
aveva preso il suo maestro Vivante a favore dell’unificazione della disciplina
delle obbligazioni, in ragione, dunque, della perdita di autonomia del diritto
commerciale.
7. La trasformazione del diritto commerciale nel nuovo ordine
Prima di proseguire nella rilettura di questo saggio, è opportuno osservare che il primo quadro ora illustrato è sufficiente ad evidenziare la significativa distanza dell’analisi della realtà prospettata da Ascarelli da quella
accolta e difesa strenuamente da Asquini in quella medesima stagione. Infatti, la lettura in chiave storica dell’evoluzione sino a quel momento registratasi tanto nel diritto commerciale, quale diritto speciale, quanto nel
rapporto di quest’ultimo con il diritto comune, portava Ascarelli ad assumere una posizione ‘laica’, aperta, rispetto alla futura persistenza del diritto
commerciale e della sua autonomia, a fronte della nuova stagione storicopolitica che si era aperta con il Novecento105. Viceversa, la posizione co105
Sullo specifico punto, la posizione di Ascarelli era pur sempre diversa da quella prospettata in quella medesima stagione da Greco in un contributo pubblicato in quel medesimo anno, sempre sulla «Rivista del diritto commerciale». Infatti, a differenza di Ascarelli,
P. GRECO, Aspetti e tendenze del diritto commerciale, in «Rivista del diritto commerciale», 1934,
I, p. 334 ss., pur accogliendo un criterio di relatività in ordine al tema dell’autonomia del
diritto commerciale, ne riconosceva la indubbia persistenza già sulla base della disciplina
allora vigente, manifestando la sua contrarietà in ordine ad una commercializzazione del
diritto privato. Al tempo stesso, peraltro, sostenne che siffatta autonomia aveva trovato
nuova linfa nell’ordinamento corporativo. Sia pure in termini sintetici rispetto all’analisi
prospettata da Ascarelli, nel suo saggio Greco rimarcò l’influenza decisiva che il sistema
corporativo avrebbe esercitata sul diritto commerciale, «influenza non meramente politica,
ma strettamente giuridica». Al riguardo richiamò, tra i fenomeni più significativi – alla
stessa stregua di Ascarelli – le tendenze in senso pubblicistico emerse a proposito della
disciplina delle imprese, la riduzione dell’autonomia privata nell’ambito di un ordinamento
giuridico, quello corporativo, tipico dell’economia vincolata, i regolamenti collettivi, peraltro svincolati da una lettura privatistica ecc. Come è facile osservare, a prescindere dall’uso di formule inutilmente adulatorie nei confronti del duce, l’interpretazione della
situazione specifica presente in quel momento storico offerta da Greco convergeva in
larga parte con l’analisi di Ascarelli, sebbene, secondo m. LIBERTINI, Diritto civile e diritto
commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia, in «Orizzonti del diritto commerciale»,
3/2015, p. 16, nt. 33, in Greco fosse più esplicita la teorizzazione di un programma politico-culturale a favore di una economia programmata dello Stato. Il solo punto di significativa distanza tra i due insigni commercialisti è che, mentre Ascarelli si limitò a prendere
atto del processo in corso, per cui la disciplina corporativa avrebbe portato ad una fram-
305
A. JANNARELLI
stante di Asquini era indirizzata, in chiave conservativa, a preservare l’acquisita autonomia di tale disciplina, confortata dalla presenza di un autonomo codice di commercio, e, in definitiva, a guardare con aprioristica
resistenza all’emersione di principi giuridici che fossero in contrasto con
quelli costituenti i paradigmi fondativi del diritto commerciale codificato.
Orbene, siffatta distanza di prospettive emerge ancor più nettamente
nel secondo quadro che Ascarelli delineò nel suo saggio, a partire dal suo
stesso perentorio incipit.
Infatti, nella piena consapevolezza delle originarie radici del diritto commerciale codificato nell’Ottocento, Ascarelli proseguì la sua riflessione, partendo dalla perentoria affermazione secondo la quale «[i]l superamento del
liberalismo e dell’individualismo economico è oggi nella realtà delle cose»106.
L’osservazione avanzata da Ascarelli, a ben vedere, rispecchiava una valutazione diffusa nella cultura dell’epoca che, peraltro, coincideva in parte
anche con una delle premesse costanti presenti nella letteratura socio-politica corporativa alla ricerca di una terza via tra liberismo e comunismo e,
al tempo stesso, però ispirata anche da ideali ‘non capitalistici’107. La consapevolezza circa questa convergenza non sfuggiva certo ad Ascarelli, il
quale, significativamente nella nota che accompagnò quell’affermazione di
apertura sopra riprodotta, non esitò a richiamare una sola pubblicazione,
in particolare il volume La crisi del capitalismo edito nel 1933 nella collana
pisana diretta da Bottai108.
mentazione delle normative contrattuali in relazione alla categorie di volta in volta coinvolte, sì da favorire l’unificazione della disciplina generale delle obbligazioni, Greco auspicò, proprio al fine di contrastare siffatto sbocco, che la regolamentazione affidata alle
Corporazioni si limitasse al solo «contenuto economico» dei rapporti contrattuali, senza
intervenire sul «contenuto minimo contrattuale di carattere prevalentemente giuridico».
Sul punto si v. infra.
106
ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 8.
107
Era quello, del resto, il terreno di incontro con il corporativismo di matrice cattolica:
si v. per tutti la riflessione che in quel medesimo tempo avanzò A. FANFANI, Declino del capitalismo e significato del corporativismo, in «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica»,
1934, p. 381 ss. (sulle cui posizioni negli anni Trenta si v. ora L. ORNAGHI, La concezione
corporativa di Amintore Fanfani e il corporativismo dell’età fascista, in Bollettino dell’archivio per la
storia del movimento sociale cattolico in Italia, 2011, p. 000?), nonché il padre gesuita A. BRUCCULERI, Dal corporativismo dei cristiano-sociali al corporativismo integrale fascista, in «Civiltà cattolica», 8 febbraio 1934. Sul rapporto tra corporativismo cattolico e quello fascista si v. le
recenti considerazioni di L. FERRARA, Censure e continuità nelle vicende dello Stato italiano. In
particolare, il corporativismo fascista e quello cattolico (a proposito del libro di S. Cassese, Lo Stato fascista), in «Istituzioni del Federalismo», 2011, p. 935 ss.
108
Si tratta del volume inaugurale della serie delle pubblicazioni edite a cura della Scuola
di Scienze corporative diretta da Bottai nell’Università di Pisa. Quella pubblicazione con306
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
In effetti, nell’immediato prosieguo della sua riflessione, il tema relativo
al superamento dell’individualismo economico, esemplarmente rappresentato, a suo dire, dalla dimensione collettiva dei problemi giuridici legati al
governo dei rapporti di lavoro, venne direttamente collegato alla adozione
della legge del 3 aprile 1926 «radicalmente innovatrice dei rapporti di lavoro»109: legge che aveva fatto da battistrada per una trasformazione da
considerarsi destinata a tutto il diritto privato, a partire innanzitutto dal diritto commerciale, e da tenere necessariamente presente «per cogliere tutto
il valore del principio corporativo»110. In estrema sintesi, ma con indubbia
efficacia espressiva, Ascarelli, nell’illustrare la realtà sotto i suoi occhi di
acuto osservatore, volle segnalare la linea conseguenziale tra «la crisi del sistema capitalistico e la trasformazione del sistema economico e la trasformazione della posizione dello Stato di fronte all’economia»111. Al
superamento dei rapporti contrattuali isolati, a vantaggio di rapporti di
massa, al sorgere delle grandi imprese e delle coalizioni tra le stesse, tali da
rendere inadeguate le autotutele-individuali, Ascarelli collegò l’emersione
di uno Stato «non più agnostico», ma che «afferma vigorosamente e rigorosamente la propria sovranità in ogni campo»112. A tale riguardo, senza citarla esplicitamente, l’illustrazione sintetica dell’intervento dello Stato
riprese i paradigmi più significativi contenuti nella Carta del lavoro relativi
da un lato al rilievo primario da riconoscere all’iniziativa privata, dall’altro
al ruolo dello Stato chiamato a dettarne pur sempre la disciplina in vista
del raggiungimento di fini superiori trascendenti quelli individuali.
A conclusione della sintetica rappresentazione della trasformazione allora in corso e, in particolare, della sua incidenza sistemica, Ascarelli tenne
teneva alcuni saggi di autori stranieri relativi a specifiche esperienze nazionali (PIROU, DURBIN e PATTERSON) cui si affiancavano i contributi di W. SOmBART e di U. SPIRITO. Al di là
del titolo prescelto, le conclusioni presenti in tali saggi, pur partendo dalla comune constatazione circa la crisi che stava attraversando il capitalismo, divergevano in ordine agli
esiti finali delle medesima. Su tale pubblicazione si v. le recensioni di P. BAFFI, in «Giornale
degli Economisti», 1934, pp. 944-945, che analizzò tale volume unitamente al secondo
della serie, dedicato alla Economia programmatica, e di A. FANFANI, in «Rivista Internazionale
di Scienze Sociali», 1933, pp. 841-842. Del resto, la scuola di Pisa non mancò di prestare
attenzione al New Deal, quale risposta a tale crisi e modalità specifica di intervento dello
Stato nell’economia: sul punto si v. m. SEDDA, Il New Deal nella pubblicistica italiana dal 1933
al 1938, in «Il politico», 1999, p. 241 ss.
109
Così ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 9.
110
Ivi.
111
Ivi.
112
Ivi.
307
A. JANNARELLI
a precisare che «non si tratta di una distinzione di carattere formale tra varie
norme, ma di una successione storica […] a norme e sistemi ispirati ai principi del liberalismo e dell’individualismo succedono norme e sistemi ispirati
a principi diversi; il principio corporativo rappresenta un nuovo principio
ordinatore della disciplina giuridica dei rapporti economici».
Questo secondo quadro, destinato a segnalare i nuovi paradigmi del sistema al giurista rispettoso del principio di realtà, si chiudeva appunto
con una considerazione metodologica: «Così il diritto commerciale presenta una trasformazione sempre più profonda della quale conviene sia cosciente il giurista che dalla valutazione e coordinazione delle singole norme
voglia salire alla costruzione del sistema»113.
8. L’ordinamento corporativo ed il ruolo del Consiglio delle corporazioni nella lettura
ascarelliana
Nei primi due quadri, illustrati in precedenza, Ascarelli intese scandire
in maniera inequivoca il passaggio dal sistema giuridico rispecchiante l’individualismo ed il liberalismo ottocentesco, alla nuova epoca, in cui il primato spettava ai rapporti di massa, filtrati per il tramite delle categorie, e lo
Stato scendeva in campo per il controllo dell’economia. All’interno di questa cornice, Ascarelli concentrò innanzitutto la sua attenzione sulle tecniche
giuridiche e le soluzioni normative legate all’emersione dei fenomeni di rilevanza collettiva costituenti il nuovo rilevante oggetto del diritto commerciale. In particolare, accanto ad una sintetico richiamo ai vari fenomeni
organizzativi di categoria, dai sindacati ai consorzi, alle strutture associative,
alle cooperative, miranti in definitiva a perseguire «uno scopo che possiamo
dire di categoria» e tali dunque dal fare emergere «il problema della loro
interferenza sull’organizzazione sindacale e corporativa dello Stato»114, il
saggio di Ascarelli prese in particolare considerazione, tra l’altro, i contratti
normativi che singole categorie avevano iniziato a stipulare anche fuori del
campo del lavoro e che in assenza di interventi legislativi erano disciplinati
dal diritto comune115.
Le due citazioni ibidem, p. 10.
Ibidem, p. 11.
115
Sulla rilevanza dell’azione delle categorie anche fuori dal sistema corporativo, quale manifestazione del nuovo diritto commerciale, Ascarelli insistette anche in altre riflessioni: si
v. ID., La disciplina delle operazioni di assicurazione, di capitalizzazione e di gestione fiduciaria, in
«Assicurazioni», 1934, p. 153 ss.
113
114
308
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
Al fine, però, di delineare in termini oltremodo sintetici, se non volutamente sfumati anche a scapito della precisione116, l’emersione del nuovo
quadro disciplinare racchiuso nell’ordinamento corporativo, Ascarelli si limitò, nel testo, ad osservare che, in ragione delle restrizioni della concorrenza legate ai fenomeni di categoria, nonché della ben maggiore loro
rilevanza rispetto a quella dei fenomeni individuali, più viva si era evidenziata
l’esigenza di un controllo statale anche di merito, come ha luogo con la
costituzione di enti che sono insieme enti di diritto pubblico, inquadrati
nel sistema statale, ed espressione dell’autonomia dei gruppi produttivi e
delle categorie, mediazione appunto tra l’individuo e lo Stato117.
Sulla base di questa molto generica descrizione dell’ordinamento corporativo, il saggio di Ascarelli si soffermò analiticamente sul potere regolamentare del Consiglio delle Corporazioni di cui alla legge del 1930, in
particolare a proposito delle determinazioni adottate dal Consiglio in difetto
di accordo da parte delle associazioni rappresentanti le categorie interessate.
A differenza di Asquini che aveva assimilato l’intervento del Consiglio di
cui all’art. 12 della legge del 1930 al contratto collettivo posto in essere
dalle organizzazioni professionali, sì da limitarne la portata sul sistema delle
fonti del diritto commerciale, Ascarelli ritenne di condividere l’opinione
Su questa valutazione si v. in particolare la nota successiva. A ben vedere, in tutti i suoi
saggi, Ascarelli non si è mai soffermato sul contenuto istituzionale della legislazione avente
ad oggetto le organizzazioni di categoria e le corporazioni.
117
Così ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 13. L’illustrazione contenuta
nel testo relativa ai soggetti collettivi protagonisti della relazioni di categorie risulta ribadita
nella nota di accompagnamento con specifico riferimento sia alle corporazioni sia ai sindacati: è singolare, però, che a dispetto della legislazione adottata dal regime, Ascarelli insista nel parlare, a loro proposito, di ‘autonomia’, pur riconoscendo trattarsi
rispettivamente di organi dello Stato e di persone giuridiche di diritto pubblico. A nostro
avviso, questo rilievo segnala che in quella stagione, al di là della corretta osservazione di
ordine fattuale circa l’interventismo pubblico nell’economia, l’approccio di Ascarelli alla
lettura della esperienza giuridica di matrice fascista, con particolare riferimento alla legislazione implementatrice dell’ordinamento corporativo, non appare preciso, in quanto attento soprattutto alle ricadute sistemiche dei suoi possibili esiti operativi sulla normativa
privatistica, a prescindere dalla stessa valutazione circa l’effettività dell’intero progetto. Al
riguardo, è sufficiente prendere in considerazione la lettura critica in ordine alla stessa sola
c.d. autonomia decisionale delle categorie e delle organizzazioni sindacali nell’ordinamento
corporativo prospettata da Carlo Rosselli nel 1934, nell’articolo La realtà dello Stato corporativo, in Quaderno n. 10 di Giustizia e Libertà, febbraio 1934, e che qui si cita da F. LIVORSI,
Il pensiero politico italiano (1893-1943), Loescher, Torino 1976, pp. 287-293.
116
309
A. JANNARELLI
espressa anche da parte di altri giuristi, per cui sostenne trattarsi di norme
di legge in senso sostanziale: nel caso in cui si fosse stato in presenza dell’elaborazione da parte del Consiglio di un contratto tipo, in termini di un
contratto collettivo commerciale, lo stesso avrebbe dovuto assimilarsi al
contratto collettivo di lavoro. Di qui la conclusione secondo la quale il contratto collettivo commerciale introdotto dal Consiglio delle corporazioni
andava inserito nel sistema delle fonti del diritto commerciale oggettivo,
unitamente alle altre forme di regolamento corporativo. Sicché, fermo restando il primato delle ‘norme coattive di legge’, la disciplina contenuta in
siffatti contratti collettivi commerciali si sarebbe riversata, a pena di nullità
delle clausole difformi, nei contratti individuali118. È bene ricordare che
nel momento in cui Ascarelli elaborava il suo saggio non era stata ancora
emanata la legge istitutiva delle corporazioni. Nondimeno, Ascarelli volle
rimarcare che, con la loro costituzione, si sarebbe oltremodo sviluppato il
processo produttivo di discipline differenziate per le relazioni giuridiche
tra le diverse categorie: pur non mutando la loro natura, i contratti individuali sarebbero stati sottoposti, sia all’ordinamento generale della legge, sia
all’ordinamento giuridico della categoria.
A conclusione del discorso, e tralasciando qui alcuni passaggi della sua
indagine, Ascarelli si preoccupò di sottolineare che il rilievo assegnato al
concetto di categoria nel diritto privato era destinato ad influire su tutto il
sistema. A questo riguardo, il grande commercialista si limitò a segnalare
tre distinti campi meritevoli di autonoma riflessione: il primo, relativo alla
pluralità delle qualifiche soggettive destinate ad integrare il concetto di commerciante adottato dall’allora vigente Codice di Commercio; il secondo, relativo alla moltiplicazione e frantumazione delle discipline contrattuali alla
luce dei diversi rapporti categoriali di volta in volta coinvolti, su cui si era
già soffermato nei saggi del 1933; il terzo, riguardante il rilievo che il punto
di vista della categoria poteva avere nello studio di singoli istituti di diritto
commerciale. A quest’ultimo riguardo, l’autore volle richiamare sia alcuni
problemi legati ai fenomeni allora al centro di un acceso dibattito riguardanti la tutela delle minoranze nelle società anonime, nonché il tema delle
azioni a voto plurimo119 etc., sia questioni che, nella prospettiva diversa da
quella del singolo isolato contratto, erano emerse in materia di depositi
bancari e di titoli di credito.
La panoramica sulle diverse forme assunte dall’intervento dello Stato
Così ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 14.
Sullo specifico tema, come lo stesso Ascarelli rammentò in nota, egli stesso era intervenuto con una relazione elaborata insieme ad Arcangeli.
118
119
310
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
nell’economia, avviatosi con il richiamo alla disciplina relativa ai compiti
del Consiglio delle Corporazioni e di queste ultime in ordine alla disciplina
dei rapporti di categoria, venne completata da Ascarelli con una analisi, sia
pure sintetica, delle diverse leggi e provvedimenti con cui lo Stato, fuori
dall’ordinamento corporativo, si era occupato direttamente o indirettamente di rilevanti e strategiche questioni economiche del paese.
Non è necessario, ai nostri fini, ripercorrere la rappresentazione offerta
da Ascarelli. Essa si riferì ad una varietà di fenomeni relativi sia alle partecipazioni pubbliche a società per l’esercizio di specifiche attività, ovvero
alla creazione di istituti specifici (si pensi all’ImI o all’IRI), sia ai sistemi di
autorizzazione all’esercizio, cui si legava la conseguente vigilanza, di specifiche attività produttive o di semplice commercializzazione. Fenomeni
che riflettevano la compresenza di norme privatistiche e pubblicistiche nonché il coinvolgimento delle due giurisdizioni, quella ordinaria e quella amministrativa, e che abbracciavano molteplici settori economici, da quelli
industriali, a quelli del credito, delle assicurazioni, e della distribuzione.
È interessante segnalare che, proprio in quanto il problema era fuori
dalla portata normativa del sistema corporativo il quale si riferiva alle sole
relazioni coinvolgenti i produttori in senso ampio, nella parte finale della
sua ricognizione, Ascarelli non mancò di richiamare anche il tema relativo
ai rapporti tra le grandi imprese e la «massa anonima dei consumatori» attuati mediante contratti di adesione. Anche a questo riguardo, e con specifico riferimento ai trasporti, alle assicurazioni120, ai depositi, al risparmio,
Ascarelli richiamò la legislazione speciale che era intervenuta con meccanismi di concessione, di autorizzazione ed approvazione delle condizioni
dei contratti121, con la conseguente sensibile contrazione dell’autonomia
privata e, in alcuni casi, con la sostituzione di una tutela pubblicistica a
quella privatistica.
Nel porre fine a questa analisi della nuova stagione legislativa legata all’intervento, ormai fisiologico, dello Stato nell’economia, Ascarelli sostenne
che anche tale legislazione speciale, in definitiva, utilizzava il «fecondo concetto di categoria», per cui «anche nei riguardi di queste norme si può qualche volta parlare di una differenziazione di disciplina giuridica secondo le
Quanto all’illustrazione della disciplina in materia di assicurazioni presentata in tale articolo, Ascarelli apportò alcune correzioni e precisazioni nel successivo saggio La disciplina
delle operazioni di assicurazione, di capitalizzazione e di gestione fiduciaria, cit. nt. 115.
121
Come ebbe a precisare ivi, p. 184, nt. 4, Ascarelli rimarcò che «[l]’elaborazione di norme
in via corporativa presenta anche in questo campo quella maggiore elasticità ed aderenza
alla realtà che la rende superiore ad una minuta disciplina casistica attraverso norme di
legge in senso formale, come ha luogo in alcune legislazioni estere».
120
311
A. JANNARELLI
varie categorie, le quali attraverso l’ordinamento corporativo dello Stato collaborano e
sempre più collaboreranno alla loro formazione e applicazione»122.
9. I rapporti tra diritto e politica ed i compiti degli interpreti
In coerenza con la dichiarata necessità del giurista di considerare compiutamente la realtà effettuale ricadente sotto i suoi occhi e di analizzarla
in prospettiva storica, proprio ai fini della sua corretta comprensione,
un’ampia parte del saggio elaborato da Ascarelli nel 1934 fu dedicata, come
si è cercato di evidenziare, alla ricognizione dei materiali legislativi adottati
sino ad allora dal regime fascista e destinati ad incidere nelle relazioni giuridiche privatistiche. materiali che attestavano, quale risposta alla crisi del
capitalismo, da un lato, l’abbandono del ruolo neutrale e agnostico dello
Stato rispetto alla vita economica del paese e, dall’altro, il superamento della
prospettiva individualistica nell’approccio alla soluzione dei problemi giuridici: il tutto, in linea con gli avviati processi di evoluzione del sistema capitalistico, l’emersione di rapporti di massa e lo sviluppo di diverse forme
di associazionismo economico e, in definitiva, con l’evidente presa d’atto
della cornice corporativa in cui il regime fascista aveva affrontato siffatte
problematiche.
Orbene, nella parte finale del saggio, o se si vuole nell’ultimo quadro
conclusivo della sua indagine, Ascarelli tirò le fila del suo discorso in coerenza con l’obiettivo di fondo, dichiarato in premessa alla sua ricerca, volto
ad individuare gli effetti sull’intero sistema privatistico dovuti alle trasformazioni intervenute nel diritto commerciale e destinate ad incidere anche
sul diritto civile.
Al riguardo l’interesse di Ascarelli si concentrò essenzialmente sull’approccio che alla luce di tali trasformazioni giuridiche avrebbe dovuto assumere il giurista nei suoi processi ermeneutici, posto che, a suo dire, «l’opera
e la metodologia dell’interprete risentono del compito che l’interprete è
chiamato a svolgere in un singolo momento storico in relazione all’evoluzione del sistema giuridico»123. Infatti, in tutta la sua attività, l’interprete
non può prescindere da continue valutazioni «che hanno luogo in base a
tutti i dati logici, storici, politici, risultanti del sistema, in base alla generale
concezione dell’interprete, del sistema giuridico e del fenomeno sociale,
Le citazioni si rinvengono in ASCARELLI, La funzione del diritto speciale, cit. nt. 91, p. 29
(il corsivo è nostro).
123
Ivi.
122
312
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
del suo sviluppo storico, del senso della sua evoluzione»124.
Sul punto, senza negare in alcun modo l’esigenza di un approccio giuridicamente pur sempre rigoroso e, però, ribadendo, sulla scia di Rocco e
di Radbruch i rapporti tra diritto e politica, Ascarelli volle innanzitutto
contrapporre, in termini astratti, l’interpretazione più formalista e quella
più libera, al fine di inferirne che, oggettivamente, la prima, operando sulla
base del criterio fondato su regola ed eccezione, pone in essere una interpretazione conservatrice e statica, laddove la seconda, dando minore accentuazione all’elemento logico-formale e maggiore libertà all’interprete,
permette, in un’ottica evolutiva, di muovere verso l’elaborazione di nuovi
principi dogmatici che andranno a sostituire gli antichi. In realtà, sempre a
suo dire, questa contrapposizione – particolarmente evidente laddove interviene una legislazione speciale e, dunque, si pone il problema relativo
alla valutazione della stessa in termini di eccezionalità rispetto al sistema
già dato, ovvero di elaborazione di un nuovo principio – sarebbe immanente al processo, sia legislativo sia ermeneutico, posto che «sono sempre
vive le esigenze della certezza e quelle dell’equità, della sicurezza giuridica
e della tradizione da un lato, della maggiore adeguazione a nuove situazioni
e dell’elaborazione di nuovi principi dall’altro […]»125.
Su questa premessa metodologica, Ascarelli poteva dunque legittimamente concludere che, «[i]n un periodo di trasformazione del diritto, l’interprete
non può rimanere estraneo al rinnovamento del sistema giuridico al quale, nei limiti
della sue funzioni, può cooperare, riconducendo a sistema le varie norme speciali, elaborando i nuovi principi generali […]»126. Al tempo stesso, però, mettendo in guardia dagli «atteggiamenti troppo audaci degli uni e dal misoneismo degli
altri»127, Ascarelli ribadì pur sempre l’esigenza di operare con prudente cautela, in quanto «la reazione alla dogmatica tradizionale non deve esaurirsi
in una serie di soluzioni di specie contrapposte ai principi giuridici ricevuti,
ma deve metter capo a una nuova dogmatica»128.
Nella parte conclusiva del suo contributo, vennero riprese e arricchite
le considerazioni già prospettate nel corso dell’illustrazione del variegato
quadro legislativo ‘speciale’ effettuata in precedenza. Una volta rimarcato,
qui sulle orme di Renner, che le trasformazioni si manifestano anche attraIbidem, p. 30.
Ivi (il corsivo è nostro).
126
Ibidem, p. 31.
127
Ivi.
128
Ivi.
124
125
313
A. JANNARELLI
verso il solo mutamento di funzione di vecchi istituti oltre che mediante
norme della legislazione speciale che richiedono esplicitamente nuovi concetti e nuove categorie, l’attenzione di Ascarelli si concentrò sui fenomeni
di maggiore importanza e ricaduta sistemica.
Il primo, più rilevante per le sue implicazioni, riguardava appunto l’intrecciarsi di norme di diritto pubblico e di norme di diritto privato, con la
conseguente necessità di considerare alcuni istituti unitariamente nel loro
aspetto pubblicistico e privatistico, sulla scia, a ben vedere, del modello rappresentato dal diritto marittimo.
Nella medesima prospettiva, legata alla concorrenza di norme privatistiche e pubblicistiche, Ascarelli richiamò altresì l’attenzione sulla tendenza
a dare maggiore considerazione all’aspetto concreto e allo scopo delle
norme, sulla scia del diritto pubblico, nonché all’accentuata discrezionalità
del giudice. Tendenze queste, peraltro evidenti nelle stesse proposte normative contenute nel progetto italo-francese, a proposito, ad esempio, dell’abuso del diritto, che, secondo Ascarelli, non solo rispondevano ad una
esigenza di maggiore elasticità, ma ad un più significativo mutato orientamento che «non considera più astrattamente i singoli individui e i loro atti,
ma vuole coglierli nella loro concretezza, che non si affida più ciecamente
all’iniziativa individuale, ma vuole disciplinarla per fini superiori, che non
si disinteressa dello scopo concretamente perseguito nel singolo caso, ma
vuole considerarlo alla stregua del fine perseguito con l’istituto»129.
Accanto a queste considerazioni di ordine più generale, Ascarelli fece
seguire il richiamo ai problemi giuridici legati appunto al rilievo assunto
dalle categorie, dall’articolarsi dei modelli contrattuali e delle rispettive loro
funzioni, dall’intrecciarsi della tutela pubblicistica a quella privatistica, nonché, in definitiva, ai mutamenti registrati dallo stesso ordinamento giuridico
caratterizzato al suo interno da complessi di norme a generalità decrescente
per categorie, quali ordinamenti giuridici minori e subordinati, con incidenza anche sulle diverse posizioni che il soggetto poteva assumere nell’ambito di ciascuno di questi.
Nelle battute finali del saggio, Ascarelli volle segnalare, riprendendo la
questione dei diritti speciali, che le trasformazioni in corso da un lato non
risparmiavano l’intero diritto privato, ossia andavano ben oltre l’area delle
relazioni economiche disciplinate dal diritto commerciale, dall’altro alimentavano proprio lo sviluppo di nuovi diritti speciali, aspiranti all’autonomia,
che costituivano veri e propri laboratori per l’elaborazione e l’individuazione di nuovi principi generali per via della compenetrazione di «norme
129
Ibidem, p. 34.
314
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
formalmente diverse, pubbliche e private, in relazione anche alle peculiarità
tecniche delle varie materie»130.
Sulla base di questo ultima considerazione, nel saggio del 1934, Ascarelli volle aggiungere in nota un richiamo ad un problema, già in precedenza
sfiorato e però destinato ad una specifica più matura riflessione, relativa all’incidenza delle trasformazioni analizzate nel testo sul tema riguardante la
codificazione cui si legava anche il dibattito sull’unificazione della disciplina
delle obbligazioni. Ai nostri fini, è interessante limitarsi qui a segnalare che,
sullo specifico punto, in quel momento la riflessione di Ascarelli era ancora
in progress. Infatti, nella nota l’autore si limitò innanzitutto a constatare che
da un lato molte norme del diritto commerciale, a carattere oggettivo, ben
potevano essere ‘ricevute’ nel diritto generale delle obbligazioni, dall’altro
si andava moltiplicando la presenza di nuove norme «che possono dirsi di
diritto commerciale corporativo le quali costituiscono il nuovo fondamento
dell’autonomia del diritto commerciale»131. A questa affermazione, Ascarelli, senza prendere esplicito partito e, però, ritenendola sagace, fece seguire il richiamo alla proposta di Arcangeli, contenuta nel suo discorso
parlamentare del 22 febbraio 1933, secondo la quale si sarebbe potuto far
rifluire in un codice della produzione e del lavoro, previa loro fusione, molte
delle disposizioni contenute nei diritti speciali132. Al tempo stesso, Ascarelli
ritenne altresì meritevole di richiamo la tendenza della dottrina tedesca favorevole all’individuazione di un autonomo diritto dell’economia.
10. L’intervento dello Stato e la frantumazione delle discipline: il definitivo tramonto
del modello ottocentesco
Al saggio ora analizzato, pubblicato nel 1934, seguì, l’anno successivo,
un contributo dovuto ad una lezione tenuta a Vienna il 12 aprile 1935. In
questo caso, con la relazione su Alcuni aspetti del diritto commerciale nello Stato
Ibidem, p. 39.
Ivi, nt. 1 (il corsivo è nostro).
132
Nel 1937 Ascarelli volle dare un’interpretazione ‘autentica’ del richiamo ad Arcangeli
presente nella nota al suo saggio ora citata nel testo. Infatti, nel suo lavoro pubblicato due
anni dopo, Problemi preliminari nella riforma delle società anonime, in «Foro italiano», 1936, IV,
c. 19 ss., ove, a c. 21, nt. 1, Ascarelli ripresentò quella tesi di Arcangeli, ma per rimarcare
non più l’idea di quell’autorevole collega circa l’elaborazione di un codice della produzione
e del lavoro, quanto piuttosto il riferimento «al tema meritevole di riesame» relativo all’unificazione del diritto delle obbligazioni. Sul punto v. infra nel testo.
130
131
315
A. JANNARELLI
corporativo133, Ascarelli volle fornire all’uditorio straniero un quadro sintetico,
quanto particolarmente lucido, relativo a taluni dei più significativi profili
assunti dal diritto commerciale nell’ambito dell’esperienza corporativa. In
questo saggio, a differenza dell’altro, l’attenzione non venne rivolta all’analisi, quanto alla prospettazione ordinata dei risultati già in larga parte presenti nell’elaborazione precedente. Tale prospettazione, a ben vedere,
permette di evidenziare il continuo progressivo affinamento della riflessione di Ascarelli sull’incidenza sistemica dell’ordinamento corporativo sulle
trasformazioni sino ad allora intervenute nel diritto privato e, in particolare,
nel diritto commerciale.
A partire dal 1936, come si cercherà di evidenziare, siffatta incidenza
sistemica avrebbe più da vicino coinvolto anche la questione della nuova
codificazione civile e commerciale, ritornata in auge proprio quell’anno e
postasi al centro di una significativa polemica di politica del diritto: polemica, quest’ultima, che non solo coinvolse giuristi ed esponenti della cultura
fascista, ma si rivelò di non poco rilievo, se si considerano le successive vicende della codificazione alle quali, però, Ascarelli non potette partecipare
in quanto esule dal paese dal 1938.
Nei primi paragrafi della sua lezione, Ascarelli ripercorse sinteticamente
le tappe legislative mediante le quali era emerso nell’esperienza giuridica
italiana l’ordinamento corporativo, quale «nuova disciplina dell’economia».
In particolare, dopo aver richiamato la legge del 1926 sui rapporti collettivi
di lavoro e la legge 12 marzo 1930, la sua attenzione si concentrò sulla legge
del 1934 istitutiva delle corporazioni. Sullo sfondo non mancò innanzitutto
di segnalare che l’ordinamento corporativo aveva promosso e attuato il passaggio da una disciplina generale, quale quella presente nel codice di commercio, direttamente destinata alle varie operazioni negoziali tra individui,
a discipline differenziate ‘negoziate’ dalle categorie sociali degli operatori
economici sulla base di procedure fissate dalla normativa corporativa. Siffatta modalità di determinazione di differenziate discipline dell’attività economica offriva significativi vantaggi in termini, sia di maggiore elasticità
nella fissazione delle regole, sia di migliore aderenza alle concrete esigenze
economiche alla base dei rapporti disciplinati, nonché di opportuno rispetto
degli interessi generali per via del controllo spettante allo Stato.
In definitiva, secondo Ascarelli l’ordinamento corporativo aveva innovato il sistema alla base del diritto commerciale in quanto al tradizionale
diritto degli individui si era sovrapposto il diritto delle categorie. D’altro
Il saggio venne pubblicato sia in «Diritto e pratica commerciale», 1935, I, p. 269 ss., sia
in «Diritto del lavoro», 1935, I, p. 318 ss.
133
316
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
canto, sempre a suo dire, l’emersione di una disciplina giuridica di categoria
rifletteva la stessa spontanea evoluzione della pratica commerciale che aveva
portato alla creazione di cartelli e di consorzi sui quali il legislatore era intervenuto, sia pure in maniera assai cauta, prevedendo la possibilità della
costituzione di consorzi obbligatori, ovvero istituendo specifici enti aventi
scopi consortili.
Quanto, poi, specificatamente, alla legge 5 febbraio 1934 istitutiva delle
corporazioni e sulla quale si pronunciava per la prima volta, Ascarelli volle
rimarcarne la distanza dall’assetto disciplinare della legge precedente. mentre la legge del 1930 affidava la creazione della disciplina solo alle categorie
interessate, per cui si richiedeva sempre la presenza di un accordo economico collettivo tra le organizzazioni di categoria interessate ovvero, in
difetto, un’unanime richiesta da parte loro perché intervenisse il Consiglio,
la nuova legge permetteva alle corporazioni di operare in seguito alla proposta dei ministeri competenti oppure su richiesta anche di una sola delle
associazioni collegate, fermo restando pur sempre il consenso del Capo
del Governo. Inoltre, secondo tale legge, le corporazioni erano chiamate
ad elaborare norme non solo per il regolamento collettivo dei rapporti economici, bensì anche «per la disciplina unitaria della produzione», e, in relazione al singolo specifico ramo di competenza, potevano stabilire anche
tariffe per prestazioni e servizi nonché prezzi dei beni di consumo offerti
al pubblico in condizione di privilegio. Di qui la conclusione secondo la
quale con la legge del 1934 si era in presenza della compiuta attuazione del
nuovo ordinamento dell’economia, per cui, richiamando le parole del duce,
poteva ritenersi che «il corporativismo è l’economia disciplinata e quindi
controllata, perché non si può pensare ad una disciplina che non abbia un
controllo».
Una volta completata la descrizione dell’esperienza in atto nel nostro
paese, con il richiamo sintetico anche ad altre diverse manifestazioni dell’intervento più diretto dello Stato nell’economia, quali, ad esempio, il meccanismo delle autorizzazioni all’esercizio di talune attività, Ascarelli volle
ripercorrere in maniera più analitica ed ordinata le differenze emerse «tra
il diritto commerciale tradizionale cui appartiene il codice di commercio e
il diritto commerciale corporativo» che, in verità, già erano presenti nei suoi
precedenti scritti.
Ai nostri fini è importante segnalare che Ascarelli si soffermò fondamentalmente: a) sulla distanza tra il criterio oggettivo alla base del codice
di commercio del 1882 per il tramite del richiamo agli atti di commercio e
quello soggettivo alla base delle norme corporative; b) sul fatto che, a fronte
della unicità della disciplina dettata dal codice di commercio per gli atti di
317
A. JANNARELLI
commercio, il diritto commerciale corporativo implicava la formazione progressiva di una disciplina differenziata secondo le varie categorie economiche, per cui, ad es., mentre il codice di commercio prevedeva la distinzione
tra la disciplina della vendita e quella della locazione, nel diritto commerciale
corporativo si determinava la presenza di discipline differenziate delle stesse
varie specie di vendita in relazione alla categorie coinvolte; c) sul fatto che
la differenziazione disciplinare delle relazioni contrattuali rispondeva alle
esigenze di controllo da parte dello Stato sulla stessa attività economica
coinvolta. Siffatta disciplina, lungi dall’essere posta in essere direttamente
dallo Stato mediante leggi, era così affidata all’autoregolamentazione delle
categorie produttive, secondo un sistema decisamente più elastico, fermo
restando il controllo dello Stato. A proposito di quest’ultimo, Ascarelli volle
altresì rammentare che «una disciplina sostanziale dell’attività economica»
implicava la necessità di uno stretto coordinamento tra norme di diritto
pubblico e norme di diritto privato, senza, ovviamente, l’abolizione della
loro distinzione. A suo dire, «alla contrapposizione [tra tali norme] senza
alcuna mediazione, come nel liberalismo si contrappongono l’individuo e
lo Stato», si era sostituita la mediazione, che «viene appunto raggiunta attraverso l’organizzazione giuridica della categoria, così come sul terreno
della disciplina giuridica di categoria si concilia il rispetto dell’iniziativa individuale e il suo effettivo controllo».
A questa illustrazione circa i paradigmi fondativi del diritto commerciale
corporativo, Ascarelli fece seguire altre due articolate considerazioni: la
prima relativa all’impatto della disciplina economica corporativa sull’intero
sistema del diritto commerciale, in cui persisteva pur sempre la disciplina
contenuta nel codice di commercio, per quanto già fosse «radicalmente mutato il suo significato»; la seconda relativa alle conseguenti prospettive di
riforma dello stesso diritto commerciale.
In ordine al primo tema, la relazione si limitò a segnalare alcuni esempi
relativi all’integrazione tra la disciplina contenuta nel codice di commercio
e quella prevista dall’ordinamento corporativo. Innanzitutto, a fronte del
codice di commercio che considerava atomisticamente i singoli imprenditori e che non aveva fornito risposte specifiche ai fenomeni costituiti dalla
concentrazione delle imprese e dalla formazione dei gruppi, peraltro aspiranti anche a posizioni di monopolio, le norme corporative avevano potuto
integrare siffatto regime atomistico e di libera concorrenza con una disciplina di categoria per contratti sempre più numerosi: disciplina dettata certo
dalla stesse categorie, ma sempre sotto il controllo dello Stato a tutela degli
interessi generali. In secondo luogo, per via dell’art. 10 della legge sulle corporazioni, diventava possibile un intervento a tutela dei consumatori, lad318
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
dove il codice di commercio non assicurava loro alcuna difesa di fronte agli
imprenditori. Peraltro, grazie alla legislazione speciale, l’intervento corporativo aveva assicurato un’originale tutela ai consumatori, spostando il problema dal campo del diritto privato a quello del diritto pubblico come era
avvenuto esemplarmente nel campo delle assicurazioni. Infine, la valenza
espansiva di una disciplina incentrata sulle categorie e non solo sui rapporti
interindividuali si poteva cogliere sia a proposito della disciplina della concorrenza, in particolare grazie alla introduzione dei marchi collettivi, sia a
proposito delle tutela degli obbligazionisti in materia di società commerciali,
peraltro già emersa nella pratica di altri paesi, che era stata avviata, a seguito
della costituzione dell’IRI e dell’ImI, secondo un modello che ricordava
quello del credito fondiario134.
Nell’ultima considerazione che Ascarelli sviluppò nella sua lezione viennese si rinviene il passaggio più innovativo dell’illustrazione circa la situazione del diritto commerciale presente in Italia alla metà degli anni Trenta.
Essa ebbe ad oggetto i problemi di riforma del diritto commerciale che ovviamente implicavano quelli relativi alla riforma della codificazione civile
e commerciale cui si legava anche il dibattito riguardante l’unificazione del
diritto delle obbligazioni.
Nel nuovo quadro costituito più in generale dall’intervento dello Stato
nell’economia nonché dal superamento del solo tradizionale approccio individualistico quanto alla disciplina delle operazioni contrattuali e, più in
particolare, nel sistema corporativo, dal ricorso all’autodisciplina delle categorie professionali, sia pure sotto il controllo dello Stato, Ascarelli evidenziò, con maturata piena consapevolezza, che siffatta problematica si
presentava ben diversa da come era stata tradizionalmente prospettata.
Anche a questo proposito, si limitò a illustrare «alcuni esempi».
Innanzitutto, una volta richiamate sinteticamente le vicende che avevano portato tradizionalmente a distinguere la codificazione commerciale
da quella civile e, dunque, rimarcato che la distinzione dei due sistemi
«trova[va] una spiegazione sul terreno storico e non in insuperabili ragioni
logiche», tant’è che molti principi generali nati sul terreno di quel diritto
speciale, in relazione all’attività mercantile, avevano poi trovato accoglimento in un ambito più vasto, Ascarelli segnalò lucidamente il radicale mutamento dei termini in cui si presentava ed andava affrontato il problema
circa il rapporto tra le due codificazioni.
Infatti, l’emissione di obbligazioni da parte di tali istituti, in corrispondenza ai mutui
concessi, prevedeva il coinvolgimento delle banche nella collocazione delle stesse presso
i risparmiatori.
134
319
A. JANNARELLI
Al riguardo, ritenne sufficiente avanzare una prima constatazione:
Ora una disciplina giuridica differenziata per le varie categorie riduce la
disciplina unitaria dell’attività mercantile ai soli principi generali i quali,
appunto, perché tali, sono più facilmente suscettibili di essere fusi con i
principi del diritto delle obbligazioni senza dare luogo alla distinzione
tra un sistema civile e commerciale. D’altro canto una disciplina giuridica
differenziata secondo la varie categorie, così come è propria dell’attività
industriale e commerciale, è propria anche dell’attività agraria. Alla dicotomia tra attività comune e attività mercantile si sostituisce una più
ricca e concreta differenziazione di tutte le categorie della produzione135.
Come è facile osservare, nel 1935, Ascarelli, senza partigianeria politica
e, al tempo stesso, senza alcuna irriflessa fedeltà ad un decontestualizzato
modello dogmatico, grazie proprio alla sua fine capacità di lettura storicistica degli eventi, aveva già intuito che il futuro quadro sistemico del diritto
privato dell’economia avrebbe finito con il ruotare su due fondamentali
assi, l’uno costituito dalla codificazione di principi generali in materia di
contratti e obbligazioni e l’altro rappresentato dai molteplici complessi normativi provenienti dagli accordi collettivi e dalla normazione corporativa:
il tutto, in una prospettiva, peraltro, rovesciata rispetto a quella ereditata
dal recente passato. Infatti, ai fini della effettiva disciplina delle diverse attività economiche, il primato effettuale sarebbe passato dalle norme del codice a quelle prodotte dall’intervento dello Stato, a partire, innanzitutto, dal
sistema di autogoverno delle categorie assicurato dall’ordinamento corporativo. Sotto questo profilo, la considerazione circa il coinvolgimento anche
dell’attività agraria nel modello disciplinare proprio dell’ordinamento corporativo contribuiva a travolgere la logica binaria fondata sulla distinzione
tra codice civile e codice di commercio a cui si era da sempre appellato
Asquini per sottrarre l’attività agricola dall’applicazione del codice di commercio.
Peraltro – ed è questo l’altro esempio illustrato da Ascarelli – la complessità del quadro derivante dalla presenza di discipline differenziate non
poteva non incidere su tutto il sistema dei contratti. Infatti, bisognava tenere
conto da un lato dei rapporti di filiera tra produttori e commercianti, assoggettati alla disciplina corporativa in senso stretto, dall’altro dei rapporti
intervenienti tra singoli imprenditori e una massa indifferenziata di soggetti
135
Alcuni aspetti del diritto commerciale nello Stato corporativo in «Diritto e pratica commerciale»,
1935, I, p. 281.
320
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
appartenenti a categorie diverse: rapporti, questi ultimi, per i quali, in difetto
di una disciplina di categoria, le risposte normative potevano rinvenirsi o
nell’intervento delle Corporazioni mediante l’art.10 della legge del 1934
sulle corporazioni ovvero in legislazioni speciali dettanti una tutela di diritto
pubblico al fine di bilanciare, come nel caso delle assicurazioni, i limiti della
autotutela privatistica del singolo di fronte all’impresa. Senza, infine, dimenticare la presenza pur sempre di rapporti contrattuali individuali in cui
non rilevava l’appartenenza dei contraenti ad una categoria e dunque non
poteva operare la disciplina giuridica di categoria.
La necessità ormai fisiologica di risposte differenziate in presenza di
fenomeni non più solo individualistici, come emergeva proprio dalla disciplina corporativa attenta alla ‘sostanza economica’ dei fenomeni sociali,
venne ribadita da Ascarelli con riferimento sia al tema della concorrenza,
sia a quello dei titoli di credito, evidenziando l’esigenza di risposte disciplinari articolate in presenza ad esempio di veri e propri consorzi in luogo di
semplici accordi tra imprenditori, ovvero di titoli di massa emessi in serie
per i quali è necessario predisporre una tutela di massa.
In questa medesima linea si collocarono le ultime considerazioni di
Ascarelli dedicate ad una riforma delle società. Anche a tale proposito, la
diversa distribuzione di potere economico emergente in seno alle società
commerciali, la presenza di strutture societarie coinvolgenti una significativa
massa di risparmiatori, tale da richiedere una adeguata rilevanza giuridica
anche al profilo quantitativo e non solo a quello qualitativo, richiedevano
risposte differenziate su diversi livelli: dall’articolazione di possibili categorie
di azionisti, a meccanismi per la tutela delle minoranze sino a risposte disciplinari distinte in caso di crisi delle grandi imprese136.
A conclusione della sua ricognizione illustrativa del diritto commerciale
nello Stato corporativo, Ascarelli volle segnalare che anche l’esperienza italiana si collocava in un indirizzo comune quanto al mutamento dell’approccio giuridico alla realtà economica: «un più attivo intervento dello Stato
nell’economia è ormai ovunque in atto e questo intervento si risolve in
una disciplina giuridica differenziata per le varie categorie». Al tempo stesso,
evidenziò la singolarità della esperienza corporativa: «la caratteristica originale dell’ordinamento italiano in confronto di altri che pure attuano una
economia controllata, sta tuttavia nel principio della autodisciplina delle categorie, sì che sono gli stessi interessati quelli che, attraverso l’ordinamento
corporativo sono chiamati a dettare la propria legge».
Criterio, quello quantitativo, già in precedenza evocato da E. FINZI, Verso un nuovo diritto
del commercio, in «Archivio di studi corporativi», 1933, p. 203 ss., in part. 225.
136
321
A. JANNARELLI
11. La nuova politica del diritto nel quadro dell’ordinamento corporativo: la riforma
delle società
A metà degli anni Trenta e, dunque, a ridosso dell’adozione della legge
sulle Corporazioni, la complessiva architettura dell’ordinamento corporativo, inteso come strumento per la concreta attuazione dell’economia controllata affidata all’autoregolamentazione delle categorie, appariva dunque
compiuta e, di conseguenza, pronta per operare. Nella parabola della riflessione di Ascarelli circa l’impatto dell’ordinamento corporativo sul sistema privatistico, il 1936 rappresentò l’occasione per una significativa
prospettazione ordinata dei risultati analitici che erano andati maturando
in precedenza.
Ciò emerge con particolare evidenza nella lucida quanto sintetica trama
argomentativa con la quale, nella terza edizione del 1936 degli Appunti di
diritto commerciale. Introduzione, tutta la questione venne ripresa nei termini
prospettati nei saggi sopra illustrati. Anzi, Ascarelli non esitò in quella occasione a rimarcare il superamento del diritto commerciale e del codice di
commercio a favore di una nuova originale soluzione, quale frutto dell’«elaborazione corporativa di un nuovo diritto che assolverà esso quella funzione di pioniere oggi assolta dal diritto commerciale e che costituirà
appunto la peculiare espressione giuridica di quella coscienza e di quella
nuova economia che va sempre più profondamente caratterizzando il nostro tempo»137.
Per di più, l’acquisita consapevolezza degli effetti sistemici, in parte già
evidenziati ed in parte in itinere, che l’ordinamento corporativo stava determinando sul corpo del diritto privato e diritto commerciale, indusse lo
stesso Ascarelli, negli ultimi suoi contributi prima del forzato allontanamento dal paese, ad orientare apertamente la sua riflessione sul punto in
termini di politica del diritto. Ciò è evidente, in particolare in due significativi suoi saggi: il primo, edito nei primi mesi del 1936 avente ad oggetto
la riforma della disciplina societaria138, a seguito del progetto elaborato da
Vivante in quello stesso torno di tempo, ed il secondo, nel 1937, riguardante
la riforma stessa del diritto commerciale.
Così T. ASCARELLI, Appunti di diritto commerciale. Introduzione, 3a ed., Società Editrice del
“Foro Italiano”, Roma 1936, p. 28. Il brano riportato nel testo venne significativamente
richiamato e riprodotto l’anno successivo da E. SOPRANO, Problemi di riforma legislativa. Codice di commercio o codice dell’economia corporativa?, in «Foro italiano», 1937, IV, c. 132 ss., intervenuto nel dibattito sulla codificazione che si era avviato proprio nel 1936: sul punto v.
infra.
138
Ci si riferisce al saggio Problemi preliminari nella riforma delle società anonime, cit. nt. 132.
137
322
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
Per quanto riguarda il primo saggio, già in sede di avvio, Ascarelli, nell’intervenire su un argomento al centro di vaste discussioni a seguito del
progetto Vivante, volle subito chiarire, in premessa, che intendeva soffermarsi sul profilo politico della riforma piuttosto che sull’altro, pur sempre
ovviamente presente, rappresentato da quello tecnico. A tale scelta era indotto dalla fondamentale contezza circa la complessiva situazione effettuale in cui la riforma stessa era destinata a collocarsi. A suo dire:
«Nell’esaminare il problema della riforma non bisogna dimenticare che
sono radicalmente cambiate le premesse economiche di fatto, che è radicalmente mutata quella struttura economica che deve essere oggetto di disciplina e che a sua volta è radicalmente mutato l’orientamento politico
generale e sono profondamente mutati quei principi generali politici dei
quali ogni particolare regolamentazione giuridica costituisce un’applicazione». Su questa premessa, Ascarelli tenne innanzitutto a precisare che la
portata complessiva dei mutamenti, proprio in quanto investivano l’intero
sistema giuridico, lo induceva ad escludere la creazione di una nuova disciplina da collocare accanto al «vecchio diritto commerciale», dovendosi, viceversa, procedere ad un «necessario rinnovamento di tutto l’ordinamento».
Per essere sul punto oltremodo chiaro, Ascarelli provvide subito ad evidenziare il nuovo quadro in cui la riforma cadeva e di cui lui aveva ormai
piena consapevolezza. Infatti, tenne a precisare tale circostanza, sia pure
in termini sintetici, sostenendo che
[i]n sostanza si tratta di passare da un diritto commerciale individualistico,
necessario riflesso del mondo capitalistico del secolo XIX, a un diritto
commerciale corporativo e cioè a quella disciplina giuridica che sembri la
più opportuna per la produzione e lo scambio in un regime corporativo
e in applicazione ai principi corporativi139.
Prima di ripercorrere sinteticamente le considerazioni di Ascarelli, tutte
orientate ad affrontare alcuni dei nodi della riforma alla luce dei nuovi paradigmi politici corporativi, è interessante segnalare che sul medesimo tema
Pur utilizzando una formula per certi versi tautologica, non vi è dubbio che Ascarelli
era convinto circa il passaggio dal vecchio diritto commerciale individualistico a quello, in
itinere, corporativo. Viceversa, Asquini tenne sempre ferme le sue riserve verso la stessa
formula verbale ‘diritto commerciale corporativo’. È significativo che nel Corso di diritto
commerciale parte generale, 1939-1940, edito nel 1940 sotto forma di lezioni raccolte e curate
da Oppo, Asquini, pur occupandosi dell’incidenza dell’ordinamento corporativo sul diritto
commerciale e pur rilevando che siffatto ordinamento rifletteva la presenza di una ‘economia controllata’, non fece alcuna menzione di tale espressione.
139
323
A. JANNARELLI
della riforma delle società, la stessa rivista ospitò, subito dopo l’uscita del
saggio di Ascarelli, un contributo di Giuseppe Ferri140. Ebbene, in apertura
della sua riflessione, Ferri diede atto in nota di aver conosciuto l’articolo di
Ascarelli, quando il suo contributo era già in bozze, per cui non aveva potuto tenerne conto che «sommariamente e incidentalmente». Nel farlo, non
mancò, però, di segnalare, quasi a volerne prendere le distanze141, la singolarità dell’approccio adottato da Ascarelli, laddove quest’ultimo aveva appunto messo «in luce soprattutto il problema politico della riforma» e
chiarito «come la riforma debba essere ispirata ai nuovi principi dell’economia corporativa». Infatti, dopo questa illustrazione circa la posizione di
Ascarelli, Ferri si indirizzò chiaramente a ridimensionare, quasi fosse ovvia,
la portata dell’approccio ascarelliano con questa affermazione per certi
versi tranciante: «Tutto ciò appare esatto, ma non toglie che il problema
politico, in sede di riforma, si risolva in un problema di tecnica legislativa.
Né può dirsi che il problema politico sia stato trascurato da VIVANTE». Non
può negarsi che le riserve avanzate da Ferri costituivano una eloquente manifestazione della lettura che parte della commercialistica prospettava in
ordine alla riflessione di un giurista, come Ascarelli, che era, ormai, ritenuto stella di prima grandezza nella letteratura giuridica commercialistica
di quel tempo.
In realtà, la riflessione di Ascarelli sulla riforma delle società si collocava
in precisa linea di continuità con le sua già maturate convinzioni circa: a)
«il superamento della distinzione tra diritto civile e diritto commerciale [in
materia di obbligazioni e contratti], unificando le norme del codice civile
al riguardo, appunto perché queste dovrebbero segnare (in via forse prevalentemente inderogabile) le direttive generali di una disciplina concretamente poi dettata dalle norme corporative per le varie categorie»; b) la
necessità che in una economia controllata la riforma in materia di società
anonime dovesse porsi «il problema di una disciplina giuridica che tenga
tra l’altro conto della funzioni cui oggi rispondono alcuni tipi di anonime
e dell’importanza che possono assumere i criteri quantitativi»; c) in definitiva, l’intreccio tra diritto privato e diritto pubblico che nel caso della società
Si v. G. FERRI, Osservazioni sulle proposte di Cesare Vivante per la riforma delle società anonime,
in «Foro italiano», 1936, IV, c. 66 ss.
141
Infatti, a prescindere dal richiamo nella nota 2 al saggio di Ascarelli, il contributo di
Ferri più volte richiamò in nota tesi e conclusioni che Ascarelli aveva prospettato proprio
in quel saggio pubblicato sul «Foro italiano». Il che sembra rafforzare l’idea che in quella
sintetica presentazione del saggio di Ascarelli, Ferri, intenzionalmente, abbia voluto, in
concreto, evidenziare l’inutilità, a sua opinione, dell’impostazione in termini di ‘politica
del diritto’ avanzata da Ascarelli.
140
324
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
anonime di grandi dimensioni doveva registrare appunto lo «spostamento
di fatto dal piano privatistico a quello pubblicistico». Infatti, secondo Ascarelli, «[q]uesto spostamento pone in prima linea la tutela degli interessi generali, con ciò riferendosi non solo alla tutela del risparmio (sia investito
in azioni, sia in crediti alle anonime), ma insieme alla tutela delle esigenze
della potenza economica italiana e della massa di interessi morali e materiali
che, anche al di fuori degli azionisti e dei creditori, sono connessi alle anonime; tali quelli degli operai e impiegati».
Senza ripercorrere l’intera riflessione prospettata da Ascarelli in tale suo
saggio, basta qui segnalare che i punti di forza della sua analisi riguardavano
l’esigenza di una profonda revisione del sistema di garanzie e di controlli
in materia societaria presente nel codice di commercio da attuarsi alla luce
di due fondamentali circostanze: da un lato l’emergere di grandi strutture
societarie, accanto a quelle minori, la cui riforma andava strettamente collegata anche a quella dei mercati finanziari e del sistema delle borse e della
banche; dall’altro la presenza di una sempre più marcata differenziazione
delle funzioni economiche assolte dalle società.
Quanto alle grandi strutture societarie, era evidente la necessità di un
intervento pubblicistico in ragione, sia del pubblico interesse coinvolto, potendo l’andamento di siffatte società «pregiudicare vaste cerchie di lavoratori e risparmiatori», sia del carattere quasi illusorio del voler «affidarsi alla
auto-tutela individuale» dei singoli soci. Di qui l’esigenza tanto di «coraggiosamente affrontare la possibilità di spostare la tutela da un piano privatistico, ove può essere illusoria e qualche volta dannosa, a un piano
pubblicistico», quanto, tra l’altro, sempre a proposito della grandi anonime
«che sono in gran parte tutte o quasi già tenute presenti dalle pubbliche autorità in sede di politica economica», di prospettare anche una possibile
differenziazione della stessa disciplina fallimentare.
Alla precisa luce delle dimensioni assunte da alcune imprese e del carattere di serie o di massa con il quale si svolgono gli affari, Ascarelli non
esitò a ritenere meritevole di accoglimento «quella tendenza che si suol dire
della protezione della impresa in sé e che, altrimenti intesa, finisce per risolversi nella tutela di un gruppo particolare di interessi […] sicché la tutela
dell’impresa in sé non sembra possibile se non sotto il riflesso della sua
coincidenza con un interesse generale». Quanto alla necessità di una differenziazione disciplinare delle società anonime sotto il profilo delle funzioni
economiche assolte, l’attenzione di Ascarelli non si rivolse soltanto alle ipotesi della «società con un solo socio o delle società costituenti un consorzio
o l’ufficio vendita dello stesso», ma toccò anche quelle relative alle società
finanziarie e ai c.d. investment trust nonché la questione dei gruppi e delle
325
A. JANNARELLI
partecipazioni pubbliche a società.
12. La politicizzazione della riforma dei codici: la riforma del diritto commerciale nel
segno del primato della legislazione speciale sul codice
In realtà, nella specifica stagione in cui Ascarelli aveva maturato, come
si è visto, la sua riflessione circa l’impatto che l’ordinamento corporativo,
quale nuova fonte del diritto, avrebbe avuto sul sistema di diritto privato
e sulla codificazione civile e commerciale, la fine del 1936 segnò un decisivo punto di svolta su tale problematica: svolta che, a prescindere dai concreti risultati operativi conseguiti dall’ordinamento corporativo, in termini
di accordi collettivi o di ordinanze corporative, incise significativamente
sui processi riformatori che avrebbero portato alla codificazione del 1942
e che, però, Ascarelli non potette seguire compiutamente in quanto costretto, come si è già ricordato, a lasciare il paese nel 1938, a causa delle
leggi razziali.
Innanzitutto, la vittoriosa guerra di Etiopia avviatasi nell’autunno del
1935 e conclusasi nella primavera del 1936 segnò indubbiamente uno dei
momenti di maggiore presa del regime sulla società italiana, sì da alimentare,
in maniera incisiva, la spinta dei più tenaci fautori del corporativismo a che
si passasse alla sua compiuta attuazione, al fine di marcare con forza l’effettivo superamento del sistema dell’economia liberale preesistente. Al tempo
stesso, però, al di là del frenante contributo dovuto alla presenza in seno
stesso ai gerarchi ed agli esponenti del regime di posizioni culturali ben più
moderate, la svolta auspicata da quelli che Asquini non esitò a qualificare
come «spiriti inquieti»142, incontrò, al tempo stesso, obiettivamente, rilevanti
ostacoli. In particolare, l’autarchia economica, accentuatasi proprio in ragione
delle sanzioni che avevano colpito il paese in quella precisa stagione, a causa
della guerra di Etiopia, contribuì certamente a ridimensionare sensibilmente
le velleità operative dell’ordinamento corporativo, ben oltre gli stessi originari
limiti strutturali legati al suo prevalente e soffocante burocraticismo.
In siffatta singolare congiuntura, il processo codificatorio finì con il
rappresentare il principale, se non l’unico, terreno su cui si concentrò la
tensione tra le diverse anime del corporativismo nonché tra le diverse posizioni degli stessi giuristi, fossero questi esplicitamente legati o non al reL’espressione è di Asquini e si rinviene nella missiva a Grandi del 15 giugno 1940 con
la quale sottoponeva all’attenzione del ministro lo schema del progetto del codice di commercio.
142
326
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
gime. Infatti, è a partire dalla fine di quell’anno che il lavoro istruttorio,
sino ad allora posto in essere ed avente ad oggetto innanzitutto la revisione
del Codice civile, approdò all’attenzione della Commissione interparlamentare chiamata a redigere i testi finali. Ed è da quel momento che il dibattito
sulla nuova codificazione si ‘politicizzò’, accentuandosi lo scontro tra le
istanze sostanzialmente ‘continuiste’ quanto al processo di revisione dei
codici, quasi che l’ordinamento corporativo fosse sostanzialmente estraneo
alle dinamiche evolutive del diritto privato, e quelle che, viceversa, intendevano orientare la codificazione ai principi dell’ordinamento corporativo.
È, dunque, proprio in questo contesto che Ascarelli, proseguendo la
sua riflessione in chiave di politica del diritto e riassumendo e dando organica sistemazione alle osservazioni svolte nelle sue ultime precedenti riflessioni, pubblicò uno dei suoi ultimi saggi avente ad oggetto la riforma del
diritto commerciale143, prima della sua partenza dal paese.
Nell’impostazione stessa del problema circa la riforma della codificazione, Ascarelli tenne innanzitutto a precisare, in via preliminare, che una
riforma dei codici di diritto privato «deve costituire la traduzione nella disciplina del diritto privato dei nuovi principi posti a base dello Stato e deve
coordinarsi con il nuovo ordinamento costituzionale, con le nuove premesse della sua attività politica». Al riguardo, volle ribadire che «fuori di
questo quadro è possibile migliorare tecnicamente la redazione di questo
o quell’articolo, ma non è possibile arrivare a dei “nuovi codici”» [si chiude
qui la citazione?], perché la codificazione trae appunto il suo significato dal
«costituire la traduzione giuridica di un nuovo ordine politico e spirituale».
Sulla base di questa concezione alta della codificazione e al fine di chiarire
il ruolo della riforma nella concreta situazione storica in cui essa si sarebbe
collocata, Ascarelli provvide subito a segnalare il mutamento radicale che
doveva caratterizzarla, rispetto alla idea ottocentesca di codice alla base
della codificazione commerciale del 1882.
In coerenza con l’ideologia liberale e il primato individualistico che l’avevano ispirata, anche la codificazione commerciale del 1882 rifletteva un modello di codice inteso come «un corpo di leggi tendenzialmente invariabile
e completo» nelle sue determinazioni normative e destinato ad avere un
ruolo centrale rispetto alla legislazione speciale posta in una posizione subordinata nel sistema delle fonti del diritto privato. Con siffatti caratteri,
quel modello di codice si era rivelato funzionale alla difesa dell’individuo
contro lo Stato, sì da escludere la possibilità di ingerenze statali; come pure
Si v., infatti, T. ASCARELLI, Problemi preliminari nella riforma del diritto commerciale, in «Foro
italiano», 1937, IV, c. 25 ss.
143
327
A. JANNARELLI
funzionali a tali premesse politiche era emersa, nell’analisi giuridica delle
sue norme da parte della dottrina, la tendenza a privilegiare il loro carattere
formale e a sottovalutare spesso lo scopo perseguito dalle stesse.
A questa corretta rappresentazione della codificazione civile dell’Ottocento, Ascarelli contrappose innanzitutto il rovesciamento che era intervenuto nel nuovo ordine costituzionale. Infatti, la possibilità di una concreta
disciplina dei rapporti economici, destinata a porsi attraverso la norma corporativa come una norma di categoria tra quella della legge in senso formale
e quella del contratto individuale, aveva introdotto nel sistema la presenza
di discipline flessibili, variabili e molteplici in evidente contrasto con la completezza e fissità delle regole proprie del codice secondo il modello ricevuto
dalla tradizione. Al tempo stesso, accanto alle norme corporative di categoria,
la stessa legislazione speciale si era andata collocando sul medesimo versante
funzionale diretto alla disciplina dei rapporti economici anche mediante la
previsione di controlli dell’iniziativa privata, in contrasto con la tutela dell’assoluta libertà alla base del vigente codice commerciale.
Come prima conclusione di questa osservazione di ordine preliminare,
Ascarelli poteva lucidamente affermare che il problema fondamentale della
riforma derivava proprio dallo «sfasamento del codice rispetto al nuovo
ordinamento costituzionale e al nuovo indirizzo della legislazione speciale».
Ciò implicava, a suo dire, che non era più possibile proseguire l’opera
di riforma secondo le disposizioni originarie della legge delega intervenuta
in epoca lontana. Nel riprendere le osservazioni già da lui stesso avanzate
nel 1933 e nel 1935 e nel rispondere, implicitamente, alle riserve avanzate
da Ferri, Ascarelli volle, sul piano metodologico, rimarcare che la presenza
indubbia nella riforma di problemi di tecnica giuridica non poteva oscurare
il tema più importante rappresentato dalle premesse politiche della riforma,
sì da denunciare apertamente nell’opposto orientamento volto a disconoscerlo la presenza, sia pure inconsciamente, di «una concezione antistoricistica del diritto nel quale si ravvisa semplicemente un frutto di logica
astratta, dimenticando che ogni soluzione giuridica è invece storicamente
determinata ed ha un senso e un significato solamente in relazione ad un
determinato momento storico». Di qui, la forte suggestione per cui «taluni
principi vengono enunciati quasi fossero il frutto di una logica esterna ed
inviolabile» e la considerazione dei cosiddetti dogmi giuridici come «verità
logiche assolute»144.
144
Alle riserve critiche contro il formalismo incline a estrapolare i principi dogmatici dal
loro specifico ambito avanzate nel testo, Ascarelli fece seguire, in nota, una dura presa di
posizione contro il pandettismo dilagante nella letteratura giuridica dell’epoca particolarmente evidente nella produzione legata ai concorsi universitari: «In tale produzione a
328
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
Nel progressivo avvicinarsi alla messa a fuoco dei problemi relativi alla
riforma del diritto commerciale, Ascarelli proseguì nelle sue considerazioni
di ordine metodologico rilevando che, sia pure in parte, il «rinnovamento
del diritto attuale» poteva certo ben discendere dalla stessa interpretazione
delle norme vigenti, a partire tra l’altro dal tema relativo alla determinazione
di volta in volta della regola e dell’eccezione. Anche a proposito di questa
specifica problematica, appariva evidente ad Ascarelli la necessità per l’interprete di «ispirarsi, nella collocazione gerarchica delle varie norme, ai criteri fondamentali dell’ordinamento politico dello Stato». Sotto questo
profilo, il rapporto tra norma codificata e norma presente in una legge non
avrebbe potuto più essere risolto dando il primato a quella codificata, solo
per via della sua collocazione formale. In tale stagione, in definitiva, il massimo compito dell’interprete era appunto proprio quello di procedere alla
«revisione di tutti gli istituti giuridici che discende dai nuovi principi dello
Stato e dalla stessa necessità di coordinazione delle leggi speciali e del codice»145. Compito, questo, certamente prezioso ma che, secondo Ascarelli,
non avrebbe potuto da solo superare il dualismo tra le premesse del codice
e quello del nuovo Stato, ossia quel dualismo la cui persistenza costituiva il
problema che la riforma del codice avrebbe dovuto affrontare.
Nel prosieguo del suo saggio, Ascarelli richiamò esplicitamente quanto
aveva già prospettato nel saggio del 1935, sia pure con una maggiore sistematicità nella presentazione delle sue ormai mature conclusioni.
Il primo problema su cui si soffermò l’attenzione di Ascarelli riguardò
proprio «l’unità del diritto privato» in cui si collocava fondamentalmente la
questione circa la stessa conservazione di due distinte codificazioni. Sul
punto Ascarelli, se da un lato condivideva la soluzione favorevole alla unificazione – la stessa che a suo tempo aveva espresso Arcangeli, il giurista
con il quale molte furono le convergenze circa l’analisi della esperienza giuridica dell’epoca146 – dall’altro, realisticamente, non poteva non prendere
atto del fatto che l’attuazione in concreto della riforma continuasse a prevedere la presenza di due codici. Il che, però, non gli impediva di sostenere
scopo di concorso i tornei dialettici fanno spesso dimenticare il vero senso dei problemi
e si pecca spesso di astrattismo giuridico. La produzione più recente mostra piuttosto una
accentuazione che una diminuzione di questi caratteri, i quali concorrono qualche volta a
differenziare, e non nel senso migliore, la produzione giuridica italiana» [c. 27, nt. 4].
145
[c. 29].
146
Va aggiunto, peraltro, che Arcangeli ben conosceva il giovane Ascarelli avendo fatto
parte della Commissione concorsuale per professore non stabile presso l’Università di
Ferrara nel 1926: sul punto si v. mONTAGNANI, In «difesa» di Tullio Ascarelli, cit. nt. 30, in
part. p. 632, nt. 45.
329
A. JANNARELLI
che, in sede di revisione del codice civile, si potesse procedere verso l’unificazione delle discipline quanto meno in materia di obbligazioni e di contratti, sicché riteneva fosse ancora legittimo porsi il problema circa la
opportunità ed i limiti della distinzione tra diritto civile e diritto commerciale.
Su questa premessa, Ascarelli prese in esame una serie di ipotesi, dalla
disciplina dei titoli di credito, a quella delle società, nonché alle norme in
materia di assicurazioni, trasporti e operazioni di banca, per sostenere che,
in definitiva, se per i titoli di credito era del tutto indifferente la loro collocazione, per le società la distinzione più importante da evidenziare era
quella tra le società che si sono manifestate ai terzi e quelle meramente interne, più che quella tra società civili e società commerciali. Quanto poi alla
disciplina dei rapporti sopra richiamati, a suo dire, trattandosi in prevalenza
di operazioni compiute da imprese organizzate e, però, al tempo stesso
soggette ad una medesima regolamentazione che prescindeva dallo scopo
civile o commerciale perseguito in concreto, si sarebbe dovuto parlare di
istituti generali del diritto privato, «disciplinati costantemente secondo le
stesse norme».
In ordine, infine, ai contratti, a partire dalla vendita, che allora erano
soggetti a discipline diverse secondo il codice civile e quello di commercio,
Ascarelli riprese la sua precedente osservazione secondo la quale, in presenza di concrete differenziazioni all’interno del singolo tipo contrattuale
dovute alle discipline di categoria proprie dell’ordinamento corporativo,
venivano meno le distinzioni regolative tradizionali, per cui il codice
avrebbe potuto ospitare solo direttive generali unitarie.
Nei successivi paragrafi del suo saggio, Ascarelli volle precisare il suo
pensiero con riferimento ai temi relativi alla disciplina dei contratti, ai titoli
di credito, alle società e al fallimento: temi, questi ultimi due, che già aveva
affrontato l’anno prima nell’altra sua riflessione sulla riforma societaria.
Ai nostri fini, interessa qui segnalare che, a proposito della disciplina
dei contratti, Ascarelli riprese, lucidamente, da un lato alcune considerazioni
già maturate nei suoi precedenti contributi, dall’altro i rilievi che in apertura
di quel saggio aveva avanzato circa il significativo mutamento di rapporto
tra il codice e le altre fonti normative nonché, in definitiva, circa il diverso
ruolo che nel nuovo ordine sarebbe spettato al codice.
La specifica visione di Ascarelli intorno al problema dell’unificazione
del diritto delle obbligazioni e, in particolare, dei contratti assume contorni
definitivi che il grande giurista non esitò a riassumere efficacemente in
poche righe:
330
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
[L]a regolazione dei contratti deve, in sede di codice, essere limitata a poche norme
generali per ciascun contratto, le quali integrino quelle generali delle obbligazioni,
norme perciò stesso prevalentemente di ordine pubblico, mentre la concreta disciplina dei vari contratti può e deve ormai essere compiuta in via corporativa e
in via di legislazione speciale.
E aggiungeva:
È specialmente (ma non solamente) in questo campo che si rileva il diverso carattere che deve ormai essere proprio alle norme del codice rispetto
alle altre norme di diritto oggettivo, in confronto alla tendenza, propria
dei codici del sec. XIX, di dettare una completa disciplina giuridica della
materia nei codici147.
Una volta richiamate le fonti degli interventi spettanti all’ordinamento
corporativo, in particolare gli artt. 12, 8 e 10 della legge sulle corporazioni,
Ascarelli sottolineò che alla disciplina elastica e mutevole dettata in via corporativa o in via di legislazione speciale sarebbe spettato il compito di dettare in concreto disposizioni conformative dell’autonomia privata al fine
di colpire «quello che si è detto l’abuso del diritto o [di] proteggere il contraente più debole con particolare riguardo ai contratti di adesione con le
grandi imprese». Siffatti problemi, a suo dire, sarebbero stati politicamente
superati in presenza di una disciplina del codice che «non si pone più come
completa, ma deve essere integrata dalle norme corporative e di legislazione
speciale». Spetta infatti a queste ultime, assai meglio delle norme generiche
del codice, «risolvere questi problemi, dettando concretamente una disciplina del contratto che valga a contemperare equamente i vari interessi in
conflitto, subordinatamente al superiore interesse nazionale».
Con questo intervento, la riflessione di Ascarelli circa l’impatto dell’ordinamento corporativo sul sistema di diritto privato si fermò, senza che lui
potesse continuare a seguire gli sviluppi del processo codificatorio che tre
anni dopo avrebbero portato alla pubblicazione di tutti i libri del nuovo
codice civile che andò a sostituire i due codici di diritto privato del secolo
precedente.
Anche questo ultimo suo contributo non mancò di incidere, al suo apparire, sul dibattito giuridico, allora in corso, sulla riforma della codificazione che tutti i suoi interventi avevano alimentato autorevolmente a partire
ASCARELLI, Problemi preliminari, cit. nt. 143, c. 33 per le due citazioni (il corsivo è nostro).
147
331
A. JANNARELLI
dal 1935. Ed infatti, nella stessa annata 1937, il «Foro italiano» ospitò un
altro interessante contributo sulla codificazione commerciale a firma di Soprano148 il quale, come si evidenzia dalla nota introduttiva dell’autore, traeva
spunto proprio dalle suggestioni offerte dagli interventi sul tema sia di Arcangeli149, prematuramente scomparso nel 1935, sia dello stesso Ascarelli.
A ben vedere, l’approccio storicistico accolto anche da Soprano portava
il commercialista napoletano, che successivamente avrebbe fatto parte del
ristretto numero degli studiosi coinvolti nella gestazione del libro V del futuro codice del 1942150, ad una analisi della problematica ed a conclusioni
molto vicine a quelle prospettate da Ascarelli. Entrambe, mette conto ribadirlo, erano dissonanti dalla prospettiva ‘continuista’ circa il processo
codificatorio che trovava in Asquini uno dei suoi padri nobili, il quale, peraltro, nel medesimo periodo non intervenne direttamente nel dibattito, limitandosi, in occasione del convegno italo-tedesco dell’anno successivo a
ribadire la necessità di conservare i due codici sia pure con una parziale
unificazione della disciplina delle obbligazioni e dei contratti.
Ebbene, anche nella riflessione di Soprano era forte la convinzione secondo la quale, a proposito del codice di commercio, ci si dovesse allontanare da «una riforma contenuta sul terreno tradizionalistico» e ciò per
quattro ragioni fondamentali (per spirito, per le fonti, per il contenuto e
per il carattere) che, in definitiva, coincidevano in larga parte con le stesse
a suo tempo individuate da Ascarelli: a) il superamento della prospettiva
individualistica e liberistica del codice del 1882; b) il rilievo nel sistema delle
fonti da riconoscere ai principi della Carta del lavoro e il ruolo normativo
Si tratta del saggio di E. SOPRANO, Problemi della riforma legislativa. Codice di commercio o
codice dell’economia corporativa?, in «Foro italiano», 1937, IV, c. 132 ss.
149
L’affinità, legata alla comune sensibilità storicistica, tra Arcangeli e Ascarelli non sfuggì
all’attenzione di chi, subito dopo la sua scomparsa, ripercorse l’itinerario scientifico di Arcangeli: si v. infatti, F.m. DOmINEDò, L’opera scientifica di A. Arcangeli, in «Foro italiano»,
1935, IV, c. 289 ss.
150
membro della commissione di riforma dei codici, nel corso dell’elaborazione del libro
V del codice del 1942, fu Soprano ad avanzare la proposta di sostituire la definizione oggettiva di impresa, adottata nelle prime formulazione del progetto, con quella soggettiva
di imprenditore, in coerenza con una riflessione peraltro da lui anticipata nel saggio del
1937 e che, a ben vedere, rispecchiava altresì precedenti intuizioni di Arcangeli formulate
nella vigenza del codice di commercio del 1882: sul contributo di Soprano si rinvia al nostro La “commercialità” dell’impresa nell’elaborazione del libro V del codice civile, in «Rivista del diritto commerciale», 2004, I, p. 257 ss., in part. p. 278. A lui si deve, peraltro, uno dei primi
contributi monografici sul libro V del codice: si v. infatti E. SOPRANO, Il libro del lavoro del
nuovo codice civile (Lineamenti e motivi), Utet, Torino 1942, nella cui introduzione l’autore significativamente riprese testualmente molte delle considerazioni avanzate nel suo saggio
edito sul «Foro italiano» nel 1937.
148
332
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
delle corporazioni; c) l’importanza nuova del contenuto di tutte le attività
economiche in funzione della salvaguardia degli interessi nazionali, comprensive anche dell’attività agricola oltre a quella industriale, per cui dal
tronco unitario del diritto economico «partiranno le ramificazione dei diritti
speciali (diritto agrario, diritto industriale, minerario, mercantile, bancario,
marittimo, aereo e assicurativo); d) l’intervento nel nuovo Diritto economico, che avrebbe dovuto prendere il posto del diritto commerciale, dell’elemento pubblicistico con la conseguente «promiscuità delle norme di
diritto privato con quelle di diritto pubblico». Siffatto nuovo diritto, secondo Soprano, avrebbe potuto rivendicare una propria più forte autonomia, strutturandosi in maniera sistematica in quanto in grado di abbracciare
in «un sol quadro tutto il regolamento giuridico della vita economica», sì
da superare «il carattere di dipendenza e di frammentarietà che di fronte al
diritto civile [aveva] il diritto commerciale tradizionale». Senza richiamare
altre significative considerazioni offerte da Soprano, con particolare riguardo al ruolo da riconoscere nella elaborazione del nuovo Diritto dell’economia corporativa sia al concetto di ‘impresa’, sia a quello di
‘professionalità’, è indubbio che anche Soprano aveva la piena consapevolezza che si era definitivamente chiuso un ciclo storico e che se ne era
aperto un altro «con la conquista di principi e metodi propri». Al tempo
stesso, però, a differenza di Ascarelli, la cui lettura degli eventi era di più
lungo ed ampio respiro storico, Soprano non si nascondeva le difficoltà
che tale processo riformatore avrebbe incontrato: «[C]onsiderando che se
fra gli economisti si è dovuto deplorare la divisione fra corporativisti a tendenza liberale e corporativisti a tendenza sociale, tale divisione diverrebbe
anche più deplorevole fra i giuristi. Aspro e faticoso cammino dunque…».
Non meno significativa, rispetto alla presa di posizione di Soprano,
ospitata dalla stessa rivista giuridica in cui era apparsa la riflessione di Ascarelli sulla riforma del codice di commercio, la lettura del tema che un altro,
sia pur meno autorevole, gius-commercialista pubblicò nello stesso 1937:
questa volta, però, su una rivista di regime, Lo Stato, diretta da Costamagna.
Infatti, anche la riflessione avanzata da mazzone151, sebbene priva di citazioni, rispecchiava, a ben vedere, le considerazioni fondamentali avanzate
da Ascarelli in ordine ai mutamenti intervenuti nel sistema del diritto privato per via dell’ordinamento corporativo, a conferma dell’indubbia convergenza tra la lettura che sul versante strettamente politico si prospettava
in ordine alla riforma fascista del diritto privato e quella che veniva lucidaSi v. R. mAZZONE, Il diritto commerciale nel sistema del diritto fascista, in «Lo Stato», 1937, p.
449 ss.
151
333
A. JANNARELLI
mente fornita, sul versante giuridico, da chi, come Ascarelli, si avvaleva
della sua forte sensibilità storicistica.
Anche per mazzone, infatti, sulla scia di Ascarelli e dello stesso Finzi,
la nuova fase della disciplina commercialistica caratterizzata dalla profonda
ingerenza dello Stato nell’economia
deve sboccare nella formazione di un diritto privato corporativo, in cui la
norma non riguarda più l’atto obiettivamente ed astrattamente considerato, ma deve regolare gli atti con riguardo all’attività produttiva ed in funzione delle categorie che li compiono, cosicché la legge, anziché regolare
gli atti nella loro singola individualità astratta, deve considerarli raggruppati organicamente nell’unità attribuita a ciascun gruppo dalla particolare
funzione economica che essi hanno nel più vasto ambito della unitaria attività produttiva dell’economia nazionale152.
Di qui, secondo l’autore, il venir meno della distinzione tra materia
civile e materia commerciale nel senso che il nuovo codice dovrà contenere
«norme generali comuni di diritto privato nelle sue linee generali, mentre
norme particolari saranno dettate con criteri corporativi e di categoria, e
pertanto non vi sarà più posto per una speciale autonomia delle leggi relative ad una materia di commercio, ma esse, come quelle relative all’attuale
materia civile, resteranno frazionate fra le norme particolari di categoria e
quelle generali del diritto privato». Con il venir meno della distinzione tra
materia civile e materia commerciale, secondo mazzone, si sarebbe dovuto
unificare il metodo da applicare nella nuova codificazione utilizzando i risultati raggiunti dalla dottrina. A proposito di questa, nel condividere le riserve critiche avanzate da Ascarelli circa l’approccio rigorosamente
dommatico adottato, anche mazzone sentì il bisogno di auspicare che «
i giuristi comprendano ed indaghino l’intima natura politica ed economica
degli istituti da regolare, non potendosi oggi costruire una codificazione
sui vecchi schemi, ma dovendosi necessariamente trarre le nuove norme
dalla diretta applicazione dei principi generali dello Stato fascista agli elementi politici ed economici degli istituti cui la legge si dovrà riferire153.
In definitiva, secondo mazzone, pur venendo meno il vecchio diritto
commerciale, il nuovo sistema avrebbe pur sempre assicurato la conserva152
153
Ibidem, p. 450.
Ibidem, p. 452.
334
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
zione di quella missione storica di avanguardia che lo stesso aveva assicurato. Infatti, a suo dire,
lo snellimento corporativo fascista a mezzo delle ordinanze corporative,
dei contratti tipo e dei contratti collettivi, [avrebbe dato] modo di aderire
con maggiore prontezza, e con precisione e certezza di norma, alle necessità di nuove e più diffuse regolamentazioni che si manifesteranno non
solo nell’ambito dell’attuale materia di commercio, ma anche in ogni altra
zona di attività economica compresa nelle materia regolate dal diritto civile, e finora ritenute quasi del tutto inerti dal punto di vista delle riforme
legislative154.
Dopo l’illustrazione delle «linee generali di una riforma del diritto privato», nella direzione indicata dai principi della Carta del lavoro, nella parte
conclusiva del suo contributo, il saggio di mazzone si affidò fedelmente
allo schema adottato da Ascarelli nel suo saggio del 1937, prendendo in
esame le possibili innovazioni da introdurre in materia di società, di aziende
di credito e di fallimento.
13. Le vicende finali del processo codificatorio: le intuizioni vincenti di Ascarelli
Esula dalla nostra ricerca ripercorrere le successive tappe attraverso le
quali a partire dal 1938, sino alla primavera del 1941, si provvide all’elaborazione e pubblicazione dei sei libri del nuovo codice civile: vicenda, questa,
su cui, negli anni più recenti, si è concentrata l’attenzione da parte di un’ampia letteratura storico-giuridica155.
Ai nostri fini, prima di trarre alcune considerazioni conclusive appare
opportuno rammentare che, nonostante la consapevole, anche se non assoluta, damnatio memoriae nei confronti di Ascarelli, sino alla caduta del fascismo156, le sue conclusioni operative in ordine ad una possibile riforma
Ibidem, p. 453.
Accanto al lavoro pionieristico di R. TETI, Codice civile e regime fascista. Sull’unificazione del
diritto privato, Giuffrè, milano 1990, si v. N. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile,
milano, Giuffrè 2003 e i nostri saggi L’imprenditore agricolo e le origini del libro V del codice
civile, in Scritti in onore di Giovanni Galloni, vol. I, Tellus, Roma 2002, p. 130 ss.; La “commercialità” dell’impresa nella elaborazione del libro V del codice civile cit. nt. 150.
156
Invero, se alcuni giuristi continuarono nelle loro ricerche a citare Ascarelli anche dopo
l’avvento delle leggi razziali, nella bibliografia ufficiale il suo nome venne del tutto censurato. In particolare, nella bibliografia relativa al diritto civile e a quello commerciale curata
154
155
335
A. JANNARELLI
del sistema di diritto privato alla luce dell’ordinamento corporativo conservarono, tra il 1938 ed il 1942, integre la loro forza nel precorrere gli
eventi. E ciò perché, a ben vedere, l’analisi che ne era alla base rispecchiava,
lucidamente e concretamente, quanto di effettivamente ‘innovativo’ vi era,
a proposito del diritto privato, nell’esperienza dell’ordinamento corporativo
rispetto al passato e quanto questo dovesse, in ogni caso, incidere sul processo di ricodificazione del sistema privatistico nazionale.
Senza alcuna pretesa di offrire una compiuta analisi, basta qui segnalare
che, a prescindere dagli interventi emersi nelle riviste strettamente giuridiche, è nelle pubblicazioni più politicamente orientate e di ‘regime’ che è
possibile cogliere la continuità tra i fermenti apparsi alla metà degli anni
Trenta e i contributi polemici che continuarono ad emergere negli anni che
precedettero la conclusione del percorso riformatore dei codici. Tali contributi, in particolare, accentuarono la spinta a che la codificazione da un
lato si ispirasse ai principi del corporativismo, a partire dal recupero effettivo dei paradigmi contenuti nella Carta del lavoro157, dall’altro superasse
la dicotomia tra società civile e società ‘economica’ identificata peraltro sul
solo ceto commerciale ed industriale – alla base della distinzione tra codice
civile e codice commerciale.
A questo riguardo, fermo restando che la ricerca storica ed archivistica
è tuttora oltremodo incompiuta, è sufficiente, a titolo esemplificativo, segnalare la costante attenzione che le riviste di regime continuarono a rivolda Azara, che si rinviene il II pensiero giuridico italiano, vol. I, della collana riguardante “Le
bibliografie del ventennio”, Roma 1941, non vi è traccia delle opere di Ascarelli e del suo
maestro Vivante.
157
A ben vedere, la soluzione volta a formalizzare per legge il ruolo della Carta del lavoro,
fortemente voluta da chi aveva da tempo denunciato la scarsa attenzione che nel corso
del tempo le era stata riservata, intervenne nel gennaio del 1941 dopo che la tematica relativa alla fissazione dei principi generali da porre in testa al nuovo codice si era arenata,
a seguito degli esiti del convegno pisano del 1940 (su questo ultimo si v. per tutti, S. BARTOLE, I principi generali fra due Convegni (1940-1991), dall’ordinamento statutario-fascista all’ordinamento repubblicano ed alle sue aperture sovranazionali, in «Rivista italiana per le scienze
giuridiche», 2014, p. 3 ss. e A. SCIUmÈ, I principi generali del diritto nell’ordine giuridico contemporaneo (1837-1942), Giappichelli, Torino 2013). È bene ricordare che l’art.1 della legge 30
gennaio 1941 n.14 così disponeva: «1. Le Dichiarazioni della Carta del Lavoro costituiscono principi generali dell’Ordinamento giuridico dello Stato e danno il criterio direttivo
per l’interpretazione e per l’applicazione della legge». Pochi mesi dopo l’introduzione della
legge, il Consiglio di Stato, con la decisione 23 giugno 1941 (est. Costamagna), sostenne
altresì che la Carta aveva «valore preminente di fronte alle fonti corporative (contratti collettivi, accordi economici collettivi e altre norme corporative equiparate)»: la pronuncia si
legge in «massimario di giurisprudenza corporativa», 1941, p. 394 ss., con nota di A. SERmONTI; già prima di tale pronuncia, si v. anche Cass. Sez. II, 17 dicembre 1940, in «Stato
e diritto», 1941, p. 232 ss., con nota di V. CRISAFULLI.
336
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
gere alla codificazione in particolare con indirizzi decisamente critici nei
confronti del ceto giuridico, restio, al di là di un ‘fiammante fascismo retorico’, all’attuazione dei principi corporativi. In questa linea, come si è già
sottolineato, primeggiò la rivista Lo Stato, anche perché il suo direttore, Costamagna, era coinvolto in prima persona nella Commissione legislativa e
da tempo era entrato in particolare polemica con il camerata Asquini, il
quale, anche per la sua autorevolezza accademica, veniva individuato come
l’esponente di punta dell’indirizzo contrario alla effettiva corporativizzazione del diritto privato. Ed infatti, le polemiche continuarono in tutto il
periodo che precedette la conclusione del processo codificatorio.
Al di là delle varie, quanto ambigue ed incerte, narrazioni che alcuni dei
protagonisti fornirono in ordine alla decisione adottata alla fine del 1940 e
formalizzata da Consiglio dei ministri nel gennaio del 1941, circa l’unificazione dei codici con la soppressione del codice di commercio e l’introduzione di un libro V nel codice civile, è da ritenersi indubbio che siffatta
soluzione, come del resto ebbe a riconoscere lo stesso Asquini nella verosimilmente più veritiera delle versioni che prospettò circa la vicenda della
codificazione158, costituiva lo sbocco più logico e coerente circa l’impatto
158
Nella conferenza di milano del 25 aprile 1942, Dal codice di commercio al libro del lavoro, in
Linee fondamentali della nuova legislazione civile italiana sulla famiglia, la proprietà privata, il lavoro
e l’impresa, milano 1943, pp. 73 ss., Asquini così rappresentava il processo codificatorio:
«Sul piano dell’ordinamento corporativo i progetti del codice civile e del codice di commercio del 1940, pur procedendo da lavori separatamente condotti, vennero così, non per
un premeditato disegno, ma per la logica delle cose reciprocamente ad incontrarsi. La parete che li separava risultava superata dalla Carta del lavoro – che è anche la carta dell’impresa – posta a base del codice civile. Perciò la decisione del Consiglio dei ministri del 4
gennaio 1941 che, su relazione del ministro Grandi deliberò l’integrazione del codice civile
e del codice di commercio in un codice unico non fu atto improvviso di arbitrio legislativo, determinato da ragioni contingenti, come qualcuno forse può aver pensato, ma fu l’atto conclusivo di un procedimento di pensiero che era nella logica dell’ordinamento corporativo” (il corsivo è nostro). Eppure,
negli ultimi mesi del 1940, nel replicare ad una lettera che Costamagna aveva inviato a
Grandi, oltremodo critica sull’impianto del progetto Asquini e favorevole all’unificazione
dei due codici, Asquini, nella lettera a sua volta inviata al ministro, non mancò di sottolineare, anche con toni sprezzanti nei confronti del suo contraddittore, che «l’assorbimento
del codice di commercio nel codice civile» rappresentava una «tesi che ha la barba di cinquant’anni, e quindi c’entra molto poco con l’ordinamento corporativo. […] La sistemazione della materia legislativa nei codici dipende da ragioni storiche, politiche, pratiche
che devono passare avanti alle ragioni astratte. Per noi il codice di commercio è il simbolo
della funzione commerciale e manufatturiera che l’Italia ha oggi e più avrà domani nel
mondo del mediterraneo […]» (il corsivo è nostro). A conclusione della sua missiva, così
Asquini riassumeva le tesi di Costamagna: «Nel complesso non mi pare che le osservazioni
di Costamagna siano da prendere nel tragico. Costamagna però dovrebbe smettere una
volta per sempre di tirare in ballo il Fascismo, ogni qualvolta trova qualche cosa che non
coincide con le sue idee, più o meno peregrine». La disinvoltura con la quale Asquini mo-
337
A. JANNARELLI
che l’ordinamento corporativo avrebbe avuto sul sistema del diritto privato
lungo una linea che, a ben vedere, Ascarelli aveva lucidamente messa a
fuoco a suo tempo.
In definitiva, a voler analizzare retrospettivamente quanto avvenuto con
la pubblicazione del codice civile unificato del 1942, a prescindere dalle
successive vicende drammatiche che avrebbero condotto alla caduta del regime e agli anni finali della guerra, non può negarsi che la nuova codificazione aveva risposto in misura adeguata, a partire innanzitutto dal suo
impianto, alle istanze egemoni di politica del diritto ispirate all’ordinamento
corporativo, sia pure con l’adozione di soluzioni che in parte non coincidevano con le aspettative delle frange più radicali del corporativismo. In
primo luogo, sebbene fosse stata respinta la proposta di introdurre nel codice espliciti principi generali di ispirazione corporativa, il rilievo che tutta
la letteratura di regime aveva riconosciuto alla Carta del lavoro era stato ufficialmente premiato. Non bisogna, infatti, dimenticare tanto il contenuto
della legge del 1941 ed il ruolo che veniva assegnato ai principi della Carta
in funzione dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto scritto, quanto
il sistema delle fonti introdotto dal codice, e in particolare il ruolo assegnato
alle norme corporative159.
In secondo luogo, la nuova codificazione civile, proprio in ragione del
coinvolgimento dell’intera società negli indirizzi politici del regime, con il
riconosciuto primato degli interessi superiori della produzione nazionale e
dificava la lettura dei medesimi avvenimenti, secondo le circostanze, ben può essere documentata sol che si ripercorra la narrazione dei medesimi eventi sopra riportati che
Asquini affidò alle sue Lezioni sui titoli di credito, edite in piena stagione repubblicana nel
1951 e la si confronti con quella presente nella conferenza dell’aprile 1942. Infatti, nelle
Lezioni del 1951 si legge che «[i]l progetto di codice di commercio del 1940 (progetto commissione Asquini) doveva però avere un singolare destino. Approvato dalla commissione
parlamentare, confortato dai pareri favorevoli dei diversi corpi consultivi interrogati, pareva maturo per la traduzione in progetto definitivo. Invece il progetto all’ultimo momento
fu bloccato da improvvisate censure di ordine politico, che denunciavano il codice di commercio
come espressione di spirito conservatore e chiedevano in suo luogo un codice nuovo del
lavoro in senso corporativo. Queste censure si incontrarono con i voti ricorrenti a favore
di un codice unico delle obbligazioni […] Questo incontro di divergenti istanze ebbe un
insperato successo nel clima politico del momento favorevole specialmente alle novità di
carattere formale. Così si maturò improvvisamente, senza una procedura verbalizzata, ma
non senza interpellanza dei giuristi più qualificati da parte del Guardasigilli, la metamorfosi
che portò all’economia di un codice».
159
Per una prima dettagliata analisi del tema all’indomani della codificazione si v. V. CRISAFULLI, Prime osservazioni sul sistema delle fonti normative nella nuova codificazione, in «Stato e
diritto», 1942, p. 109 ss.
338
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
del diverso rapporto tra interessi privati e interessi pubblici160, aveva di fatto
proceduto all’unificazione dei codici con la conseguente scomparsa del codice di commercio.
In terzo luogo, anche come ulteriore ragione logica dell’unificazione
della disciplina delle obbligazioni e dei contratti, la riforma aveva di fatto
modificato profondamente il ruolo del codice del diritto privato. Il costante
rinvio all’interno del tessuto normativo del codice alle integrazioni legate
all’intervento delle fonti corporative, in termini di ordinanze, accordi collettivi ecc.161, consacrava il superamento del modello di codice ricevuto
dalla tradizione, con il conseguente progressivo rovesciamento del rapporto, nella concreta disciplina delle relazioni economiche, tra norme del
codice e norme speciali.
Al riguardo, meriterebbe un’analisi ad ampio spettro la lettura della codificazione civile accolta dalla dottrina italiana degli anni Quaranta, in particolare tra il 1942 e la caduta del fascismo, che va ben oltre la sola vicenda
della cosiddetta defascistizzazione162.
Con specifico riferimento all’ultima considerazione dianzi avanzata,
può dirsi, però, che furono molti i privatisti (civilisti e commercialisti) a
cogliere la nuova peculiare posizione che nel sistema veniva assunta dalla
codificazione, a riprova – e qui mette conto segnalarlo – che era ancora
fortemente diffuso il credito che si riconosceva alle fonti giuridiche corporative, sebbene l’esperienza sino ad allora emersa non fosse stata certamente esaltante ed ancora si agitavano al riguardo proposte di riforma163.
160
Questo specifico tema venne analizzato in maniera approfondita subito dopo la codificazione da S. PUGLIATTI, Interesse pubblico e interesse privato nel libro delle obbligazioni, in «Stato
e diritto», 1942, p. 26 ss., il quale a conclusione della sua analisi del nuovo diritto delle obbligazioni riteneva che «il fondamentale e più appariscente carattere che se ne ricava è la
intensa ed estesa tutela dell’interesse pubblico».
161
Per una prima analisi delle fonti corporative nel libro del lavoro all’indomani della emanazione del codice si v. G. mAZZONI, Le fonti dell’ordine corporativo secondo il libro del lavoro del
codice civile, in ID., Questioni di diritto corporativo, Noccioli, Empoli 1942, p. 23 ss.
162
Sul punto si v. P. CAPPELLINI, La forma-codice: metamorfosi e polemiche novecentesche, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012), http://www.treccani.it/enciclopedia/la-formacodice-metamorfosi-e-polemiche-novecentesche_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto
%29/; G.B. FERRI, Filippo Vassalli e la defascistizzazione del codice civile, in «Diritto Privato»,
II, 1996 (ma 1997), p. 593 ss.
163
Accanto alle denunce già risalenti nel tempo avanzate da Bottai, è in pieno periodo bellico che, dopo la codificazione, si accentuò il dibattito sulle corporazioni inaugurato da
un saggio di C. COSTAmAGNA, Perché le Corporazioni non funzionano, in «Lo Stato», 1942, p.
241 ss., il quale non aveva difficoltà a segnalare che «[l]e corporazioni sono del tutto inesistenti dal punto di vista funzionale specifico, che è quello della disciplina giuridica degli
scambi di beni e di prestazioni fra le categorie professionali in via di effettuare un piano
339
A. JANNARELLI
A titolo esemplificativo, un civilista come Domenico Barbero, che peraltro
si era cimentato anche sul tema del contratto-tipo, subito dopo la pubblicazione dei libri del codice sottolineò che «il codice non fa che tracciare il
sistema, mentre questo si riempie di contenuto normativo fuori del codice,
attingendo al complesso delle “norme corporative, degli “accordi economici”, e dei “contratti collettivi di lavoro”»164. A sua volta, Brunelli, in uno
dei primi commentari sul libro V, sottolineò che «[i]l codice detta i principi
direttivi, immutabili, mentre le fonti secondarie provvedono alle norme
che le mutevoli condizioni reclamano di volta in volta»; ed aggiungeva:
«Superata l’epoca del codicismo, il diritto codificato fissa i principi fondamentali e permanenti, intorno ai quali si sviluppano con elasticità e plasticità le norme speciali corporative, destinate a mantenere vivo e vivente il
diritto»165.
Ebbene, se si ripercorrono le lucide progressive messe a punto che
Ascarelli nelle sue riflessioni aveva effettuato sino al 1937 sul tema generale
riguardante l’impatto che l’ordinamento corporativo aveva già prodotto sul
diritto privato e avrebbe continuato a farlo, non è chi non veda che il processo codificatorio conclusosi nel 1942, sia pure attraverso singolari oscillazioni, abbia portato proprio ai risultati che il grande commercialista aveva
lucidamente previsto166.
Ed infatti, la prospettiva di fondo su cui si era collocata tutta l’analisi di
Ascarelli era di lungo periodo, ossia dinamica, per quanto, ovviamente, rispecchiante la concreta situazione storica che, prima dell’avvio della guerra,
lasciava immaginare la prosecuzione dell’esperienza corporativa, per quanto
deludente essa fosse stato in concreto sino ad allora.
nazionale di produzione». A questo contributo seguì un ampio intervento di S. PANUNZIO,
Le Corporazioni e la Camera, ivi, 1943, p. 79 ss.; dopo la delibera del Direttorio del partito
che aveva criticato l’«astrusa accademia» sul corporativismo, sul tema ritornò C. COSTAmAGNA, Equivoci corporativi, ivi, 1943, p. 129 ss.
164
Così D. BARBERO, Aspetti sociali del “lavoro” nel nuovo codice civile, in «Rivista internazionale
di scienze sociali», 1941, p. 644 ss.
165
Si v. G. BRUNELLI, Il libro del lavoro, Società Editrice Libraria, milano 1943, pp. 3-4, nel
citare in nota il saggio di S. PANUNZIO, Metodi e limiti della codificazione (1941), in ID., Motivi
e metodo della codificazione fascista, Giuffrè, milano 1943.
166
Sotto questo profilo, sorprende la rilettura che lo stesso Ascarelli prospettò di quanto
avvenuto, se si considera la sua esplicita, convinta e motivata posizione a favore della unificazione del diritto delle obbligazioni, espressa più volte nei suoi contributi prima della
partenza dall’Italia. Infatti, nel saggio La dottrina commercialistica italiana e Francesco Carnelutti,
cit. nt. 7, p. 11, Ascarelli così scriveva: «L’unificazione del diritto delle obbligazioni realizzata nella codificazione del 1942 (in seguito a motivi autoritari e in contrasto col pensiero dei
membri delle Commissioni preparatorie) segnerà […]» (la sottolineatura è nostra).
340
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
Nella sua riflessione, la specifica modalità con la quale si sarebbe svolta
la contrattazione collettiva in sede corporativa assumeva un rilievo dinamico destinato a modificare profondamente gli equilibri nel sistema. Il particolarismo disciplinare delle relazioni economiche legato al concreto
funzionamento dell’ordinamento corporativo, in grado di articolarsi minutamente nel corso dell’evoluzione economica, prospettava l’apertura di un
nuovo ben diverso orizzonte sistematico: orizzonte, già annunciatosi ai suoi
occhi, grazie proprio alla particolare riflessione da lui dedicata al fine di individuare le ragioni concrete alla base dell’emersione sul piano della ricerca
giuridica di discipline speciali. Nel nuovo orizzonte che Ascarelli intravedeva, la codificazione, più precisamente la fissazione di discipline generali,
sarebbe stata chiamata sempre ad un ruolo semmai di chiusura, a fronte
della formazione di normative settoriali che sarebbe avvenuta lungo le molteplici e variegate filiere dell’economia in cui norme privatistiche e norme
pubblicistiche si sarebbero intrecciate. Nella visione dinamica del sistema
intuita da Ascarelli, quale proiezione di ciò che emergeva nella realtà italiana
alla fine degli anni Trenta, era indubbia la percezione circa la perdita della
centralità da parte della codificazione nell’effettivo governo giuridico della
realtà economica. Di qui la lucida deduzione che, in concreto, da un lato
si svuotava di senso la distinzione tra codice civile e codice di commercio,
dall’altro che il tema relativo all’unificazione della disciplina generale delle
obbligazione e dei contratti diveniva il nodo centrale di una riforma del sistema, ma sulla base di un’impostazione ben differente da quella alla base
del dibattito sulla unificazione emerso in precedenza.
Ascarelli aveva la piena consapevolezza, nella concreta realtà presente
alla fine degli anni Trenta, più precisamente, alla luce di un’economia fondata strutturalmente e non più episodicamente sulla presenza dell’intervento pubblico167, a partire innanzitutto dal coinvolgimento in chiave
corporativa dei diversi portatori degli interessi nella formazione delle scelte
normative, che si andava verso la costruzione di un sistema fondato sulla
diversificazione delle fonti del diritto e, dunque, sulla stessa emersione di
discipline speciali sia pure in un contesto autoritario. A fronte di queste, la
167
A ben vedere, nel dibattito interno al corporativismo che si sviluppò nei primi anni
Trenta era altresì sempre più nitida la distanza tra il corporativismo messianico, che puntava fumosamente sul ribaltamento integrale dei paradigmi dell’economia di mercato, e
l’area più moderata che, partendo proprio dai fallimenti del mercato, leggeva l’ordine corporativo come una specifica forma strutturale di intervento dello Stato nell’economia: si
v. al riguardo il problematico intervento di A. LANZILLO, Per una teoria dell’intervento dello
Stato, in «Critica fascista», 1932, p. 332 ss., già sindacalista rivoluzionario, che, nel tempo,
mutò radicalmente la sua posizione sino ad abbandonare dal 1936 il fascismo.
341
A. JANNARELLI
codificazione generale si sarebbe collocata sullo sfondo, come disciplina
svolgente un ruolo soltanto per default. In tal modo, nella dialettica di un
sistema che aveva collocato la vita economica nelle maglie della contrattazione collettiva affidata alle corporazioni e, in alternativa, o in appoggio
sulla legislazione speciale, Ascarelli seppe cogliere, con grande anticipo,
l’avvio di quel processo di decodificazione che la legislazione interventista
post-costituzionale avrebbe prodotto nella seconda metà del Novecento
in linea con l’accentuarsi dell’intervento pubblico nell’economia.
L’atteggiamento partecipe di Ascarelli era quello dello scienziato sociale
interessato a capire le ragioni di fondo dei mutamenti che stavano emergendo nel Novecento: attento certamente al dato economico e sociologico,
ma pur sempre orientato a leggere gli avvenimenti nella prospettiva del giurista. Sotto questo profilo, le trasformazioni che il suo sguardo metteva a
fuoco andavano ben oltre la stessa modalità singolare con la quale esse si
manifestavano nella congiuntura rappresentata dall’ordinamento corporativo, posto che rispecchiavano, sia pure con una soluzione contingente, il
nuovo diverso stadio di sviluppo politico ed economico di una società capitalistica di massa.
La percezione circa l’impatto dell’ordinamento corporativo sul sistema
privatistico da parte di Ascarelli si chiuse agli inizi del 1938, allorché fu costretto a «fare fagotto»168 e contemporaneamente era già in gestazione, tra
l’altro, la legge sull’istituzione della Camera dei Fasci e delle corporazioni.
Non vi è dubbio che l’interpretazione circa l’incidenza dell’ordinamento
corporativo sul sistema privatistico fu, in parte, anche frutto di una valutazione per certi versi astrattamente ottimistica di tale ordinamento, proprio
di uno studioso estraneo alla concreta dialettica politico-sindacale allora
presente nel regime. ma, a prescindere dal chiedersi cosa ne sarebbe stato
dell’ordinamento corporativo, in cui si collocava lo stesso codice del 1942,
se gli avvenimenti storici fossero stati diversi da quelli intervenuti a poca
distanza dalla sua pubblicazione, resta indubbia la corretta intuizione alla
base dell’analisi di Ascarelli: ossia la collocazione al centro dei problemi
non già del tema relativo alle possibili articolazioni della codificazione,
quanto del rapporto tra disciplina generale e discipline speciali. Rapporto,
a ben vedere, che era presente nel sistema in cui era destinato a collocarsi
il codice del 1942 e che lo stesso codice unificato aveva consacrato nel sistema delle fonti: rapporto, peraltro, presente, anche nei suoi profili proL’espressione è presa da V. FOA, Lettere della giovinezza. Dal Carcere (1935-1943), Einaudi,
Torino 1998, p. 477, il quale lucidamente e con immediatezza percepì le conseguenze delle
leggi razziali fasciste.
168
342
ASCARELLI E L’ORDINAmENTO CORPORATIVO
blematici, alla più sensibile letteratura giuridica emersa all’indomani dell’entrata in vigore del codice sino all’avvio della sua defascistizzazione e
che però venne presto ‘fatto cadere’ dopo la caduta del fascismo169.
A questo riguardo, è ancora una volta spettato ad Ascarelli nel dopoguerra segnalare, alla soglia degli anni Sessanta del Novecento, che, alla luce
del complessivo sistema in cui si inseriva, il codice civile del 1942 era stato
ed era pur sempre un codice di un Stato interventista in economia, come
tale «ispirato ad un determinato indirizzo dell’economia e del suo controllo
pubblico». Sicché, molto opportunamente, e sempre con anticipo rispetto
ad una dottrina giuridica privatistica permeata di concettualismo e carente
di cultura storica, poteva così concludere: «È a questo riguardo che si dovrà
tener conto dell’abrogazione (d.l.lg. 26 luglio 1944 n. 162 e poi d.l.lg. 23
novembre 1944 n. 369) dell’ordinamento corporativo e che, accanto alle
norme del codice, dovranno considerarsi quelle della Costituzione»170 .
Sul punto si v. per tutti P. CAPPELLINI, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, in «Quaderni fiorentini», 1999, p. 175 ss.; e I.
BIROCCHI, Il giurista intellettuale e il regime, in I giuristi e il fascino del regime, cit. nt. 6, p. 9 ss.,
nonché A. SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista
e nazionalsocialista, Vittorio Klostermann, Frankfurt am main 2005. In ordine ai diversi approcci dei giuristi durante e dopo il ventennio si v. anche E. DE CRISTOFARO, Giuristi e cultura giuridica dal fascismo alla Repubblica (1940-1948), in «Laboratoire italien», 2012, p. 63 ss.
170
Così T. ASCARELLI, Introduzione al corso di diritto commerciale, riprodotto in T. ASCARELLI e
A. mIGNOLI, Letture per un corso di diritto commerciale comparato, Giuffrè, milano 2007, p. 165.
169
343
Alessandro Tira
Il diritto ecclesiastico negli anni Trenta:
sistematica concordataria e percorsi dottrinali
SOmmARIO: 1. Il diritto ecclesiastico prima e dopo la Conciliazione: un doppio cambio di passo – 2. I caratteri del diritto ecclesiastico fascista – 3. La
rielaborazione dottrinale del diritto ecclesiastico: spunti per un’indagine –
4. In luogo di una conclusione
1. Il diritto ecclesiastico e la Conciliazione: un doppio cambio di passo
Il decennio 1930, durante il quale il regime fascista toccò l’apice del
consenso e giunse a progettare una riforma integrale della società e dell’ordinamento giuridico, si aprì per il diritto ecclesiastico con un anno di anticipo. La stipulazione dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio 1929, aveva infatti
chiuso, insieme alla Questione romana, la stagione risorgimentale dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa e stava ridando impulso agli studi della disciplina1. Il nuovo assetto, sul piano diplomatico e della politica del diritto,
scaturiva da un intreccio di continuità e discontinuità rispetto al recente
passato liberale che ancora oggi non è stato completamente esplorato2, ma
sul piano del diritto vigente l’intero sistema venne riformato fin dalle fonSi veda, per la contestualizzazione della vicenda nel percorso dottrinale del diritto canonico ed ecclesiastico del Novecento, C. FANTAPPIÈ, Diritto canonico e diritto ecclesiastico, in
«Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere ed Arti», Appendice VIII, Il Contributo italiano
alla storia del pensiero - Diritto, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 717-724.
2
Per i principali riferimenti sul tema: A.C. JEmOLO, Chiesa e Stato in Italia dalla Unificazione
ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1989, pp. 161-282; F. mARGIOTTA BROGLIO, Italia e Santa
Sede dalla Grande Guerra alla Conciliazione, Laterza, Bari 1966; R. PERTICI, Chiesa e Stato in
Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Il mulino, Bologna 2009, pp.
41-240; G.B. VARNIER, Gli ultimi governi liberali e la questione romana (1918-1922), Giuffrè,
milano 1976. Sul rapporto tra linee di continuità e momenti di rottura nella vicenda concordataria si vedano le annotazioni di L. mUSSELLI, Concordati: vicende dei rapporti tra Stato e
Chiesa nei centocinquant’anni di unità nazionale, in «Il Politico», 2011, 3, pp. 144-161.
1
345
A. TIRA
damenta, conferendo al diritto ecclesiastico una compattezza funzionale
che fin lì gli era mancata3. Non sembra azzardato accostare quest’azione di
riforma ai piani architettonici del razionalismo piacentiniano, che negli
stessi anni il regime promuoveva nel campo dell’urbanistica: erano analoghi
l’idea di fondo della preminenza della dimensione sociale su quella individuale e l’intento di celebrare la centralità di un potere che organizza e indirizza le vite degli individui secondo una superiore volontà, fin sul piano
dello spazio fisico ed etico. La sensazione che siano le persone funzionali
agli spazi, e non viceversa, la può ancora provare chiunque si trovi a percorrere le strutture dell’EUR a Roma o gli atri del Palazzo di Giustizia di
milano, ma si può provare una suggestione simile rileggendo le norme di
diritto ecclesiastico emanate tra il 1929 e il 1930, le quali delineano sistemi
i cui protagonisti non sono tanto i cittadini/fedeli, quanto le istituzioni a
cui essi appartengono, ed entro i cui perimetri doveva svolgersi la loro vita.
Il nuovo diritto ecclesiastico – non solo in campo cattolico – tendeva
infatti a irreggimentare la vita religiosa entro spazi dominati dalla dimensione pubblica dello Stato e della Chiesa (divenuti interlocutori e non più
rivali, o almeno non apertamente) e, in misura minore, delle altre confessioni organizzate4. Come è noto, quanto il sistema acquisiva in coerenza e
robustezza d’impianto da tale operazione, lo scontava con la compressione
delle libertà individuali, ricondotte ovunque fosse possibile al rango di «diritti riflessi» o comunque sottoposte alla preminente autorità del potere
pubblico5. Non è questo, però, il profilo su cui vorremmo condurre l’atÈ l’aspetto che colse fin da subito Vincenzo DEL GIUDICE, che già nel 1929 pubblicò
una monografia intitolata proprio Le nuove basi del diritto ecclesiastico italiano (Vita & Pensiero,
milano).
4
Circa le premesse filosofiche e giuridiche (da parte statuale) della Conciliazione e della
legislazione che ne derivò si vedano le pagine di G. mOLTENI mASTAI FERRETTI, Stato etico
e Dio laico, Giuffrè, milano 1983.
5
Ciò vale anche per le disposizioni in astratto garantistiche, quale fu per eccellenza l’art.
5 della legge 24 giugno 1929, n. 1159 sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato. Riprendendo
quasi alla lettera l’art. 2, c. 4° della legge delle Guarentigie, l’articolo affermava che «la discussione in materia religiosa è pienamente libera». Il ministro Rocco affermò che questa
norma doveva considerarsi una diretta conseguenza del principio di libertà di coscienza,
«che fu consacrata esplicitamente dalla legge delle guarentigie, e che, abrogata tale legge,
occorre mantenere nel sistema del nostro diritto» (A. ROCCO, Relazione del Ministro della
Giustizia e degli affari di culto, presentata alla Camera dei Deputati (30 aprile 1929) e al Senato del
Regno (24 maggio 1929) sul Disegno di legge contenente le «Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi
nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi, in Codice della legislazione
ecclesiastica, a cura di C. merolli e A. Alibrandi, Stamperia Nazionale, Roma 1965, p. 947).
Tuttavia già nella Relazione della Commissione speciale della Camera dei Deputati del 15 maggio
1929, il relatore Ernesto Vassallo diede della norma un’interpretazione che ne riduceva di
3
346
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
tenzione del lettore6. Scopo dello scritto è invece di riassumere le linee di
tendenza che si affermarono nella disciplina a seguito del Concordato e,
soprattutto, prendere in considerazione come la dottrina del diritto ecclesiastico reagì, nel suo ambito di pertinenza, alle istanze politiche della costruzione di un diritto «fascista».
In questo quadro un primo ‘cambio di passo’ rispetto al passato recente
fu dunque l’«evento concordatario», come talora è stato chiamato l’intervento legislativo del 1929 per enfatizzarne la forza di rottura rispetto al regime precedente. Sul piano del diritto oggettivo, e al netto delle valutazioni
che si possono fare sulla fase di preparazione politica e giuridica della Conciliazione, la cesura rispetto al passato non ha bisogno di essere commentata. L’eterogeneo corpus del diritto ecclesiastico ereditato dall’epoca liberale
venne abrogato d’un colpo e sostituito da un insieme di norme che non
solo cambiavano la fisionomia del settore (come si dirà nel prossimo paragrafo)7, ma ne spostavano il baricentro verso materie – a cominciare dal
molto l’ampiezza, sostenendo che tale facoltà dovesse sottostare alle «generali norme di
polizia», ma anche «svolgersi nei limiti di serena ed elevata discussione». In altre parole, la
libertà di discussione in materia religiosa veniva ridotta a una libertà di dibattito teologico
o accademico, o quasi, e che dunque trovava – a sua volta – il suo naturale campo di esplicazione entro contesti ben definiti. Proprio questo sembra essere l’intento del legislatore
a maggior ragione perché veniva escluso in ogni caso dall’ombrello di tale libertà il proselitismo, ossia la proiezione del discorso religioso verso l’esterno, alla cerchia dei profani:
«Si è prospettato il sospetto che il settarismo, il quale sta in agguato contro il fascismo e
il cattolicesimo, tragga pretesto, dopo quanto è avvenuto, dalla riaffermata libertà in materia religiosa, per intensificare coi mezzi di cui dispone una subdola, camuffata attività
per propaganda antifascista» (anche questa Relazione si trova nel Codice a cura di C. merolli
e A. Alibrandi; cit. dalle pp. 953-954). La tesi restrittiva, avversata da Jemolo (cfr.A.C. JEmOLO, Lezioni di diritto ecclesiastico italiano. Il diritto ecclesiastico dello Stato italiano, Leonardo Da
Vinci, Città di Castello 1933, p. 35) e da pochi altri autori, prevalse fin da subito in giurisprudenza e presso la dottrina più ligia alle direttive del regime; si veda O. GIACCHI, La legislazione italiana sui culti ammessi, Vita & Pensiero, milano 1934, pp. 89-104. Sulla libertà di
propaganda religiosa si veda in generale e nella sua evoluzione nell’ordinamento italiano
J. PASQUALI CERIOLI, Propaganda religiosa: la libertà silente, Giappichelli, Torino 2018.
6
Il tema del rapporto tra «persona e istituzione nello studio del diritto ecclesiastico» e dei
mutevoli rapporti tra i due fuochi dell’ellisse concettuale che è da sempre l’anima della
materia è stato affrontato, in termini che risultano sempre attuali, da S. FERRARI, Ideologia
e dogmatica nel diritto ecclesiastico italiano. Manuali e riviste (1929-1979), Giuffrè, milano 1979,
pp. 75-103. Per alcuni essenziali riferimenti bibliografici apparsi negli anni in cui l’impostazione ereditata dal Ventennio veniva progressivamente messa in discussione, si vedano
G. CATALANO, La problematica del diritto ecclesiastico ai tempi di Francesco Scaduto e ai nostri giorni,
in «Il Diritto ecclesiastico», 1965, pp. 21-57 e L. DE LUCA, Diritto ecclesiastico ed esperienza
giuridica, Giuffrè, milano 1970.
7
Cfr. A. BERTOLA, A.C. JEmOLO, Introduzione, in Codice ecclesiastico, a cura di A. Bertola, A.C.
Jemolo, CEDAm, Padova 1937, pp. IX-XIX.
347
A. TIRA
matrimonio – prima secondarie o assenti. La riforma ebbe una ricaduta
anche sui tratti caratterizzanti della disciplina e sulla sua collocazione tra le
scienze giuridiche. Ridefinendone i contenuti e la struttura, infatti, il diritto
ecclesiastico acquisì una più spiccata connotazione di specialità rispetto al
diritto costituzionale, con il quale aveva a lungo condiviso il tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa (che da un lato davano luogo a problematiche
settoriali, prettamente ecclesiasticistiche, ma dall’altro contribuivano a definire i caratteri generali della forma di Stato). Una volta assorbito quel profilo nella soluzione concordataria e nella conseguente articolazione di un
sottosistema dai chiari contorni, veniva meno la necessità di inserire i profili
istituzionalistici del diritto ecclesiastico nel novero di quelli trattati nel diritto
costituzionale8. La rafforzata «specialità», su cui insistettero molto gli studiosi dell’epoca, e in particolare Vincenzo Del Giudice9, allontanò altresì
la materia dagli sviluppi che interessarono il diritto pubblico generale. Considerandolo quale campo limitrofo ma a sé stante, si metteva al riparo il diritto ecclesiastico dall’assorbente organicismo del diritto corporativo,
disciplina a sua volta di impronta istituzionalistica10 e su cui si riversarono
gli sforzi dei giuristi di regime per affermare la preminenza del pubblico
sul privato11.
Si veda, per es., il testo introduttivo di V. FEROCI, Istituzioni di diritto pubblico secondo la
vigente legislazione fascista, Hoepli, milano 1934, che dedica alla questione delle relazioni tra
lo Stato e la Chiesa solo poche pagine (pp. 137-149), imperniate sui Patti Lateranensi e
sulla loro funzione nell’ordinamento italiano.
9
La specialità funzionale e l’autonomia sistematica del diritto ecclesiastico sono temi che
Vincenzo Del Giudice affrontò spesso nei suoi scritti; cfr. V. DEL GIUDICE, Manuale di diritto ecclesiastico, Giuffrè, milano 1959, pp. 1-16 (l’opera è successiva rispetto al periodo
preso in esame, ma è anche la versione del Manuale più approfondita e il pensiero del giurista pugliese sul punto, qui esposto più compiutamente che altrove, su questo tema non
conobbe variazioni significative nell’intervallo di tempo considerato).
10
G. ZANOBINI, Diritto corporativo, in «Enciclopedia Italiana», Appendice I, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 1938, p. 983.
11
Si rimanda sul tema a I. STOLZI, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del
potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffrè, milano 2007; sull’affermazione della
preminenza della dimensione pubblicistica in tutti gli ambiti del diritto cfr. G. CARAPEZZA
FIGLIA, Le culture giuridiche nel fascismo, in «Rassegna di diritto civile», 2017, 3, pp. 11051126; sui profili generali I. STOLZI, Fascismo e cultura giuridica, in «Studi storici», 2014, 1, pp.
139-154. Non che mancasse, da parte di taluni autori, l’ambizione di assorbire pienamente
anche la Chiesa tra le istituzioni che cooperano al perseguimento degli scopi superiori
dello Stato (cfr. per es. G. BORTOLOTTO, Lo Stato e la dottrina corporativa. Saggio d’una teoria
generale, Zanichelli, Bologna 1931, vol. I, pp. 32-40), ma in concreto l’elaborazione delle
dottrine corporative era orientata principalmente verso il campo politico ed economico;
cfr. W. CESARINI SFORZA, Corso di diritto corporativo, CEDAm, Padova 1935; C. COSTAmAGNA, Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, Bemporad, Firenze 1929.
8
348
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
Tali vicende coincisero con un secondo ‘cambio di passo’, questa volta
del tutto interno alla dottrina ecclesiasticistica. Negli anni ’30, infatti, andavano spegnendosi per varie ragioni le voci dei primi capiscuola del «diritto
ecclesiastico in senso moderno». Erano gli studiosi che, a partire dall’ultimo
decennio dell’Ottocento, avevano rifondato su nuove basi la materia e che
sostenevano una concezione laica e liberale (ma non necessariamente separatista12, come invece si aggiunge spesso in questi casi) dei rapporti tra
Stato e Chiesa. L’uscita di scena di quei maestri riflette una varietà di percorsi, oltre che di casualità13. Carlo Calisse, passato dall’insegnamento universitario al laticlavio e al Consiglio di Stato, già da tempo non aveva più
parte attiva negli sviluppi della materia. Francesco Scaduto, divenuto anch’egli senatore14, era passato dalle posizioni giurisdizionaliste al sostegno
alla politica concordataria del fascismo, pur senza rinnegare il suo anticlericalismo15. Andrea Galante (primo allievo di Ruffini) e i civilisti Nicola Coviello16 e Vincenzo Simoncelli17 (i quali, sullo scorcio del secolo, avevano
Si può infatti operare una distinzione, nel pensiero liberale, tra la separazione giuridica, intesa come risultato da conseguire nelle relazioni tra Stato e Chiesa, e il separatismo, inteso
come metodo per raggiungere quello scopo e contrapposto al giurisdizionalismo liberale.
Anche i giurisdizionalisti – alle cui tesi aderivano perlopiù i primi cultori del diritto ecclesiastico moderno – miravano alla laicizzazione dell’ordinamento, ma ritenevano che essa
andasse perseguita con il controllo attivo dello Stato sulla Chiesa attraverso appositi istituti
giuridici e non applicando il «laissez-faire» e l’incompetentismo in materia ecclesiastica propugnati dai separatisti.
13
Fu il caso di Nino Tamassia, storico del diritto che per molti anni aveva tenuto a Padova
anche l’insegnamento di diritto ecclesiastico e che morì nel 1931, poco dopo aver concluso
un corso aggiornato alla riforma concordataria: N. TAmASSIA, Appunti di diritto ecclesiastico
con speciale riguardo ai Patti lateranensi, CEDAm, Padova 1930. malgrado l’attenzione prioritaria dedicata ai Patti, in quelle lezioni Tamassia ne propone una lettura esegetica, inserita
in una cornice di taglio storico-giuridico come era d’uso negli anni precedenti.
14
«Nella Camera vitalizia [Scaduto] non si occupò di politica ecclesiastica, ma si ricordano
il suo interesse per i problemi dell’agricoltura e la partecipazione alla commissione incaricata di formulare pareri sul nuovo codice civile. Il 25 maggio 1929 votò in favore della
ratifica dei Patti lateranensi, ciò che appare un cedimento, indotto da ragioni di opportunità
politica, sul fronte degli ideali scientifici lungamente professati, nonché il segno di una
progressiva adesione al programma politico del fascismo»; così O. CONDORELLI, Scaduto,
Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, XCI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma
2018, consultabile al sito www.treccani.it.
15
F. SCADUTO, La conciliazione dello Stato italiano con la S. Sede, in «Rivista di Diritto pubblico»,
1929, I, pp. 69-80; C. FANTAPPIÈ, Francesco Scaduto e il Concordato lateranense. Dalla polemica di
“Ignotus” sul monopolio nella formazione dei giovani alle lezioni universitarie inedite del 1930-31, in
«Quaderni di Diritto e Politica ecclesiastica», 1995, 1, pp. 307-341.
16
m. TEDESCHI, Nicola Coviello cultore di diritto ecclesiastico, in ID., La tradizione dottrinale del diritto ecclesiastico, Pellegrini, Cosenza 2007, pp. 33-44.
12
349
A. TIRA
avuto un ruolo importante negli sviluppi della materia) erano defunti da
tempo. mattia moresco, anch’egli allievo tra i primi di Ruffini, si dedicava
ormai alle funzioni di senatore e di rettore dell’Università di Genova e conservava nel consesso degli ecclesiasticisti una posizione eminente più per
la sua personalità e le funzioni ricoperte, che per un fattivo apporto al dibattito scientifico18.
Le ultime due voci dell’epoca che si era chiusa all’improvviso, quando
alla segretezza delle trattative era seguito l’annuncio della Conciliazione,
erano quelle di Domenico Schiappoli e di Francesco Ruffini. Entrambi, a
partire da posizioni molto diverse benché accomunate dalla matrice liberale,
espressero critiche al sistema che si andava delineando. Schiappoli, con un
tentativo tanto ammirevole per coerenza intellettuale, quanto antistorico
sul piano concreto, cercò di ricondurre la nuova realtà sotto categorie interpretative ormai superate, per esempio negando la natura di atto interordinamentale del Concordato19 e sottolineando i tratti di continuità tra la
vecchia e la nuova legislazione20. Le sue tesi, però, oltre a risultare sgradite
agli ambienti cattolici (ma non era una novità)21, non trovavano seguito
presso le nuove generazioni22, che infatti accantonarono presto l’insegnaSi vedano S. BORDONALI, Il diritto ecclesiastico in rapporto all’elaborazione civilistica, in Dottrine
generali del diritto e diritto ecclesiastico, Istituto italiano per gli Studi filosofici, Napoli 1988, pp.
323-329 e L. mUSSELLI, Il civilista Vincenzo Simoncelli docente di diritto ecclesiastico a Pavia (18931900), in «Bollettino della Società pavese di Storia patria», 1988, pp. 321-324.
18
Cfr. m. mORESCO, Presentazione, in «Archivio di Diritto ecclesiastico», 1939, I, pp. 3-5.
Sulla figura di moresco: G.B. VARNIER, Mattia Moresco (1877-1946). Ecclesiasticista dimenticato
e rettore dell’Università di Genova tra sapere e potere accademico, in Sapere accademico e pratica legale
fra Antico Regime ed unificazione nazionale, a cura di V. Piergiovanni, Accademia Ligure di
Scienze e Lettere, Genova 2009, pp. 53-84.
19
Si veda al riguardo D. SCHIAPPOLI, Sulla natura giuridica del concordato, in «Stato, Chiese e
pluralismo confessionale», 2018, 8, pp. 1-40 e, per la contestualizzazione dello scritto nel
panorama dell’epoca, si consenta di rinviare ad A. TIRA, Domenico Schiappoli e la questione
della natura giuridica dei concordati. Premessa a un saggio ritrovato, in «Stato, Chiese e pluralismo
confessionale», 2018, 8, pp. 1-25.
20
Cfr., per la sintesi di questioni ampiamente affrontate in vari altri scritti, D. SCHIAPPOLI,
Corso di diritto ecclesiastico. Anno scolastico 1940-1941, Stabilimento Tipografico Editoriale,
Napoli 1940, pp. 1-5.
21
Tra le possibili conferme, si legga l’accusa (che tale, tuttavia, non doveva apparire all’accusato) di appartenere alla scuola «massonico-liberale», che la «Civiltà Cattolica» rivolgeva
a Schiappoli già agli inizi del secolo, recensendo un suo manuale: Un nuovo manuale di diritto
ecclesiastico, in «La Civiltà Cattolica», 1903, 10, pp. 69-75.
22
L’influenza di Schiappoli sulla dottrina post-concordataria fu assai contenuta, come si
può constatare scorrendo la bibliografia dei testi apparsi in quegli anni. Con riferimento
al saggio citato, si veda la breve recensione, radicalmente critica, che ne fece – con ogni
17
350
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
mento dell’ecclesiasticista forse più sistematico della sua generazione23.
Di Ruffini, invece, è nota l’opposizione al fascismo24, portata fino al
gesto nobile – suo e del figlio Edoardo, anch’egli docente universitario25 –
di rifiutare il giuramento di fedeltà al regime26. Se sul piano civile il pronunciamento di Ruffini fu netto e prese la forma del volume sui Diritti di
libertà del 192627, sul piano scientifico la sua opposizione passò attraverso
il silenzio. Nel racconto di un testimone autorevole come Alessandro Galante Garrone, che ne frequentava le lezioni nei giorni della Conciliazione,
fu proprio il silenzio la prima reazione del docente: all’indomani dell’annuncio dei Patti egli «non disse nulla: continuò imperturbabile il suo corso
sulla libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo»28. In seguito – sempre nel ricordo di Galante Garrone – Ruffini soddisfò la curiosità dei suoi
studenti con una lezione in cui, esaltando con accenti commossi la politica
di Cavour, implicitamente contestava quella del fascismo. ma queste posizioni non si tradussero mai in una compiuta disamina critica del nuovo diritto ecclesiastico. Infatti il commento dello studioso canavesano al diritto
concordatario fu consegnato essenzialmente a una raccolta di lezioni – le
ultime – intitolata Il nuovo diritto ecclesiastico italiano29. Di quelle pagine colpisce
soprattutto il distacco e una certa aridità dell’esposizione, che, nel magistero
di un autore solitamente appassionato e appassionante come fu Ruffini,
denunciano con forza pari a una critica aperta quale distanza separasse
ormai lo studioso dall’oggetto del suo studio.
probabilità – Ermanno Graziani, studioso vicino a posizioni curiali: E.G., Prof. Domenico
Schiappoli, Sulla natura giuridica del concordato, in «Il Diritto ecclesiastico», 1940, pp. 455-456.
23
Cfr. G.B. VARNIER, Un giurista nell’ombra. Domenico Schiappoli (1870 1945): tra separatismo e
sistema concordatario, in Rileggere i maestri, II, Pellegrini, Cosenza 2012, pp. 149-174.
24
Si vedano, inter alios, m. DOGLIANI, Postfazione, in F. RUFFINI, Diritti di libertà, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma 2012, pp. 231-248; A. FRANGIONI, Francesco Ruffini. Una biografia
intellettuale, Il mulino, Bologna 2017, pp. 287-351 e 427-459; G. SPADOLINI, Francesco Ruffini
e il Concordato, in «Nuova Antologia», 1974, 2082, pp. 153-160.
25
F. TREGGIARI, Ruffini Avondo, Edoardo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXIX, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2017, consultabile al sito www.treccani.it.
26
G. BOATTI, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi,
Torino 2017, pp. 177-216.
27
F. RUFFINI, Diritti di libertà, Gobetti, Torino 1926. Su questo e sul precedente saggio
sulla libertà religiosa si veda S. FERRARI, Introduzione, in F. RUFFINI, La libertà religiosa come
diritto pubblico subiettivo, Il mulino, Bologna 1992, pp. 11-59.
28
A. GALANTE GARRONE, Un affare di coscienza. Per una libertà religiosa in Italia, Baldini &
Castoldi, milano 1995, p. 58.
29
F. RUFFINI, Il nuovo diritto ecclesiastico italiano. Lezioni, Giappichelli, Torino 1931.
351
A. TIRA
Più in generale, e per concludere questi cenni sulla critica di parte liberale alla Conciliazione, si può dire che gli studiosi contrari al nuovo diritto
ecclesiastico fascista ricorsero a due linee argomentative, entrambe oblique.
Da un lato, la rivalutazione in chiave polemica della legge delle Guarentigie30, come attesta anche il celebre discorso anticoncordatario che Benedetto Croce tenne in Senato il 24 maggio 1929 e alla cui stesura collaborò,
con ogni probabilità, lo stesso Ruffini (il quale, in privato, definiva i Patti
del Laterano «pattume giuridico»)31. Dall’altro lato, un’interpretazione del
Concordato che ne sminuiva quell’aura di radicale novità su cui il fascismo,
per ragioni d’immagine, insisteva con forza. Appartiene a questa seconda
linea la posizione già ricordata di Schiappoli, ma l’espressione più celebre,
in tal senso, è rimasta quella di Vittorio Emanuele Orlando, il quale mise i
Patti Lateranensi in coda alla legge delle Guarentigie, affermando che i
primi stavano alla seconda «come un’accettazione sta a una proposta»32.
Queste voci, tuttavia, rimasero senza seguito, nel clima commisto di
consenso e di intimidazione che il regime aveva indotto anche negli studi
giuridici. Per seguire gli sviluppi dottrinali del diritto ecclesiastico negli anni
Trenta, occorre rileggere altri studiosi, ma prima è opportuno vedere quali
caratteri aveva assunto in concreto la materia in esito al cambiamento del
1929.
2. I caratteri del diritto ecclesiastico fascista
Allora come oggi, il diritto ecclesiastico non riguardava solo la Chiesa
cattolica, ma anche le normative sui culti acattolici33 e non si coglierebbe
30
Cfr. A. TIRA, I rapporti fra Stato e Chiesa nella dottrina ecclesiasticistica del primo Novecento. Il
contributo ‘controcorrente’ di Domenico Schiappoli, in «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 2018,
1, pp. 41-63.
31
FRANGIONI, Francesco Ruffini, cit. nt. 24, p. 434.
32
V.E. ORLANDO, Nessi storici e giuridici fra gli accordi lateranensi e l’ordinamento anteriore, in Studi
in onore di Francesco Scaduto, Cya, Firenze 1936, II, p. 213.
33
Ciò resta vero anche se si prendono in esame le posizioni degli studiosi che attribuivano
il nome di «diritto ecclesiastico» solo alle norme riferite alla Chiesa cattolica. Si tratta infatti
di una disputa sostanzialmente nominalistica, poiché in concreto la disciplina dei culti
acattolici è sempre ricaduta – se non altro per analogia – nel perimetro del diritto ecclesiastico, quando non inteso come sinonimo di diritto canonico. Si può notare, en passant,
che proprio la necessità di confrontarsi con un varietà di confessioni, che scaturì dall’esperienza coloniale, costrinse gli ecclesiasticisti a mettere per la prima volta alla prova di un
vero pluralismo religioso gli schemi della disciplina (cfr. C. JANNACCONE, Il concetto del diritto
ecclesiastico coloniale italiano, in Studi economico-giuridici della R. Università di Cagliari, 1938
352
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
appieno la portata degli interventi del 1929-30, se si dedicasse attenzione
solo ai Patti Lateranensi. Dal punto di vista delle fonti, la ricostruzione in
chiave fascista del diritto ecclesiastico fu infatti l’esito di un’azione sostanzialmente unitaria e coerente, che si compì in tre tappe: i Patti lateranensi,
a cui diede esecuzione la l. 27 maggio 1929, n. 810; la legge 24 giugno 1929,
n. 1159, sui culti ammessi nel Regno; e infine la cd. «legge Falco», r.d. 30
ottobre 1930, n. 1731 sulle Comunità israelitiche. In più, naturalmente, vi
fu la normativa primaria e secondaria emanata in dipendenza da tali atti
principali34. Tutt’e tre i nuclei normativi seguivano la medesima logica, sia
pure con gradi diversi di specialità. Essi istituivano forme di raccordo tra
l’ordinamento dello Stato e le confessioni, organizzate secondo le loro normative interne; primo tra queste, naturalmente, figurava il diritto canonico,
che negli stessi anni veniva reintrodotto come materia d’insegnamento nelle
Università pubbliche35. Rispetto al passato si ampliavano le possibilità di
veder riconosciuti effetti civili agli atti delle autorità religiose, prestando attenzione prioritaria alle istanze collettive e istituzionali delle confessioni
[estratto]; F. mARGIOTTA BROGLIO, Carlo Azeglio Ciampi tra guerra e studi giuridici, in C.A.
CIAmPI, La libertà delle minoranze religiose, a cura di F.P. Casavola, G. Long, F. margiotta Broglio, Il mulino, Bologna 2009, pp. 33-45). Da questo punto di vista, in ogni caso, il confondersi sotto lo stesso nome delle norme emanate dalla Chiesa, delle norme emanate
dallo Stato rispetto alla sola Chiesa cattolica o, con maggiore ampiezza, delle norme emanate dallo Stato rispetto al fattore religioso in generale era una questione già superata,
negli anni ’30 del Novecento. Anche in quegli Autori che – come mario Falco – sotto il
titolo di Diritto ecclesiastico radunavano ancora nozioni o vere e proprie trattazioni preliminari di diritto canonico (cfr. m. FALCO, Corso di diritto ecclesiastico, CEDAm, Padova 1935,
l’intero vol. I), la distinzione concettuale tra le due discipline era ormai chiara e radicata.
Il piano della questione si spostò, invece, sulla possibilità di identificare o meno il diritto
ecclesiastico con il solo diritto concordatario e le normative da esso derivate. Di fatto fu
spesso così, anche se forse più per comodità di esposizione che per la volontà di far coincidere l’estensione dei due ambiti della materia. Ancora Falco, per esempio, nella seconda
parte del suo Corso appena citato tratta solo del diritto concordatario ed oltre al suo gli
esempi potrebbero essere molti; tuttavia quello di Falco è il caso più significativo perché
egli stesso, in altra sede, si occupò con pari impegno del diritto ecclesiastico sui culti acattolici. In definitiva, l’idea della coincidenza tra diritto ecclesiastico e diritto concordatario
venne esclusa anche da parte della dottrina più attenta ad interpretare la linea ufficiale del
regime: cfr. A. PIOLA, Diritto ecclesiastico, diritto canonico e diritto concordatario, in «Studi sassaresi», 1937 (estratto).
34
Per la normativa riferita alla Chiesa cattolica, il quadro più completo della materia all’indomani della Conciliazione è quello offerto da R. JACUZIO, Commento della nuova legislazione in materia ecclesiastica, UTET, Torino 1932.
35
Si vedano V. DEL GIUDICE, Per lo studio del diritto canonico nelle Università italiane, in Studi
in onore di Francesco Scaduto, cit. nt. 32 (estratto); m. VISmARA mISSIROLI, Diritto canonico e insegnamento delle scienze giuridiche, CEDAm, Padova 1998, passim.
353
A. TIRA
stesse, come già si è detto, e quanto fosse forte il cambiamento di prospettiva rispetto al passato, lo si evince con chiarezza dal confronto con la situazione antecedente.
In massima sintesi, le direttrici lungo cui si muoveva il diritto ecclesiastico liberale erano tre: il fondamento individualistico del diritto di libertà
religiosa; l’irrilevanza per l’ordinamento giuridico del fattore religioso in
quanto tale; la limitazione dell’intervento statuale alle situazioni che toccavano gli interessi pubblici, con l’inevitabile frammentarietà normativa che
ne derivava. L’ideale a cui tendeva l’ordinamento liberale era la separazione
tra sfera religiosa e sfera civile, nella convinzione che la piena libertà di coscienza sarebbe scaturita dalla non interferenza delle religioni nella sfera
delle libertà garantite dallo Stato. Tuttavia, nell’impossibilità di realizzare
appieno questo obiettivo nel contesto politico risorgimentale (e, in fondo,
anche perché già da parte degli autori coevi vi era la percezione della debolezza strutturale delle dottrine separatiste36), lo Stato aveva conservato
nei fatti ampi strumenti di controllo giurisdizionale37. Tali strumenti riguardavano soprattutto – e per ovvie ragioni – la Chiesa cattolica, benché peraltro quest’ultima non godesse di un formale riconoscimento come
istituzione unitaria. Gli strumenti in questione erano il placet e l’exequatur,
come è noto, ma in un’accezione più ampia concorrevano alla medesima
funzione di controllo anche la legislazione sulle decime e sulle tasse ecclesiastiche, oltre a quella eversiva dell’asse. L’ambito patrimoniale, fino al
1929, rappresentò infatti il settore più rilevante del diritto ecclesiastico dello
Stato, come attestano tutte le trattazioni dell’epoca preconcordataria.
Il diritto ecclesiastico liberale, in altre parole, aveva il suo baricentro
non solo nel diritto di libertà religiosa individuale, ma anche negli istituti
giuridici che servivano a contenere e controllare, dal punto di vista economico, la presa sociale della Chiesa. Anche la dottrina più sensibile al tema
della libertà religiosa (Ruffini, Schiappoli) riconosceva in ciò una funzione
coessenziale del diritto ecclesiastico, il quale era inteso, in ultima analisi,
come strumento di tutela della sovranità dello Stato38. La stessa legge delle
Guarentigie, che aveva abrogato i maggiori istituti del giurisdizionalismo
Si consenta di rinviare in argomento alla panoramica proposta in A. TIRA, Alle origini del
diritto ecclesiastico italiano. Prolusioni e manuali tra istanze politiche e tecnica giuridica (1870-1915),
Giuffrè, milano 2018, pp. 13-149.
37
Per una visione complessiva del tema si veda A. GOmEZ DE AYALA, Il neo-giurisdizionalismo
liberale, in La legislazione ecclesiastica, a cura di P.A. d’Avack, Neri Pozza, Vicenza 1967, pp.
93-143.
38
D. SCHIAPPOLI, Manuale di diritto ecclesiastico, Alvano, Napoli 1924, pp. 9-10.
36
354
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
confessionista (come l’appello per abuso, la legazia apostolica in Sicilia e il
giuramento dei vescovi al Re), lasciò quasi inalterato lo status quo per quanto
riguardava il controllo sulle attività economiche della Chiesa. Il principio seguito dal legislatore era che si dovesse poter regolare tali materie secondo
le esigenze politiche che si affacciavano di tempo in tempo. È questo il senso
della riserva di legge di cui agli artt. 16 e 18 delle Guarentigie, in forza dei
quali si sarebbe dovuto provvedere, in un futuro che non giunse mai, alla
ridefinizione delle norme sulla proprietà ecclesiastica e sui superstiti diritti
di regalia, se e quando la Chiesa avesse riconosciuto la piena sovranità dello
Stato. Alla luce di questa situazione, non si può dar torto ad Alfredo Rocco
quando, intervenendo in Parlamento sulla legge di esecuzione del Trattato
e del Concordato, affermò che «da questo intreccio di tradizioni, di ideologie, di esigenze pratiche, deriva il diritto ecclesiastico italiano, il quale, del
resto, fu sempre considerato come un regime provvisorio destinato, secondo
la stessa legge delle Guarentigie, ad una organica e completa riforma»39.
Nel 1929 il Concordato recepì i frutti di una elaborazione dottrinale
intensa e complessa – sulla quale non è possibile soffermarsi in questa
sede – e capovolse, punto per punto, la prospettiva liberale. Fu abbandonato, almeno nei riguardi della Chiesa cattolica, l’unilateralismo della normativa post-risorgimentale e, pur non scomparendo, il diritto individuale
di libertà religiosa passò in secondo piano rispetto alla dimensione sociale
e collettiva della religione. Quest’ultima venne enfatizzata perché le norme
del Concordato non soltanto presuppongono una Chiesa intesa come società gerarchica, ma la coinvolgono nella produzione del diritto. Il fattore
religioso acquisì spessore agli occhi dell’ordinamento attraverso disposizioni specifiche come quelle sul matrimonio, l’insegnamento (non solo
della religione, già in precedenza definita «fondamento e coronamento
dell’istruzione elementare»40), la condizione degli ecclesiastici, le festività
e altro ancora; e, più in generale, attraverso la rivalutazione dell’art. 1 dello
Statuto del Regno41.
Soprattutto, cambiò la prospettiva sulla funzione stessa del diritto ecclesiastico, che venne concepito non più in chiave di frammentarietà, bensì
A. ROCCO, Discorso, in Italia, Roma e Papato nelle discussioni parlamentari dell’anno 1929-VII,
a cura di B. mussolini, Libreria del Littorio, Roma 1929, vol. II, p. 167.
40
Regio decreto 1° ottobre 1923, n. 1285, art. 3.
41
Si può facilmente fare un confronto tra lo status quo descritto da A.C. JEmOLO, La natura
e la portata dell’art. 1 dello Statuto, in «Rivista di Diritto Pubblico», 1913, 1 (estratto) e il recupero della portata originaria della norma che ne propugnò ROCCO, Discorso, cit. nt. 39,
pp. 174-175.
39
355
A. TIRA
come un sistema organico. La nuova disciplina non doveva più affermare
i diritti della res publica in singoli ambiti critici, ma mirava a predisporre un
sistema in grado di prevenire gli attriti tra le due sfere, armonizzandone
l’azione. Lo scopo era di recuperare la religione al novero dei fattori d’ordine sociale che cooperano ai fini dello Stato, secondo un’ottica di «confessionismo ideologico»42 in cui i diritti individuali di libertà possono restare
sacrificati in nome di superiori interessi collettivi. Si passa così dall’empirismo, che connotava il sistema liberale, a un impianto sorretto da robuste
ambizioni teoretiche (al di là dei giudizi che si possono dare nel merito dei
contenuti del nuovo sistema normativo).
L’ideale dell’organicità emerge con particolare evidenza nella disciplina
dei culti ammessi. La legge 1159/1929 rappresenta infatti una vera novità,
perché l’idea stessa di una normativa d’insieme in questo campo era sconosciuta alla concezione ottocentesca del diritto ecclesiastico. Fino al ‘29,
per ciascun gruppo religioso di minoranza vigevano norme differenti,
spesso ereditate dagli ordinamenti preunitari (quando ve n’erano di specifiche e non si lasciava la materia, semplicemente, alle soluzioni privatistiche43). Questo perché – come osservava Jemolo nel 1916 – «nel nostro
diritto ecclesiastico manca un istituto rispondente a quello che nelle altre
legislazioni è l’ammissione di una confessione»44. Anche qui, il diritto ecclesiastico ottocentesco rifuggiva dalle astrazioni e dalle normative organiche, preferendo disporre soluzioni ad hoc per i casi concreti. Si trova traccia
di questa impostazione persino nell’art. 1 dello Statuto, dove non per nulla
si affermava che i culti diversi dal cattolico erano «tollerati conformemente
alle leggi». Si parlava appunto di «leggi», al plurale: una o più per ciascuna
confessione, secondo uno schema che ricordava da vicino gli antichi moLa definizione, contrapposta a quella di «confessionismo storico» applicabile all’epoca
precedente e ai retaggi ottocenteschi, è di PASQUALI CERIOLI, Propaganda religiosa, cit. nt. 5,
p. 56.
43
Circa le confessioni religiose diverse da quella ebraica, valdese e greco-ortodosse, «è da
distinguere: a) o queste sono state erette in ente morale dal potere civile ed allora lo statuto
approvato regola la vita dell’ente; b) o vivono come semplici associazioni ed in tal caso la
loro condizione giuridica non è diversa da quella delle altre associazioni» (D. SCHIAPPOLI,
Manuale del diritto ecclesiastico, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1902, II, p. 350).
44
A.C. JEmOLO, L’amministrazione ecclesiastica, in Primo trattato completo di diritto amministrativo
italiano, a cura di V.E. Orlando, vol. X, part. II, Società Editrice Libraria, milano 1916, p.
380. Evidenzia ed amplia l’osservazione F. RUFFINI nella Prefazione al medesimo volume,
quando segnala come, prima dell’opera dell’allievo, mancasse nel diritto ecclesiastico postrisorgimentale anche l’attitudine a considerare in modo unitario «i rapporti dello Stato
con le varie società ecclesiastiche esistenti nel suo territorio dal punto di vista dell’attività
amministrativa dello Stato medesimo» (p. 5).
42
356
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
delli privilegiari. Lo Stato fascista rovesciò la prospettiva e, con una legge
in cui gli spunti di garantismo non mancavano, ma erano compressi dall’autoritarismo dei sistemi di controllo politico, estese alla platea indeterminata dei culti uno schema che ricalcava in tono minore (e soprattutto
unilaterale) la normativa concordataria. Pur sotto l’occhiuta vigilanza del
Governo, i culti ammessi potevano ora essere legalmente riconosciuti in
via generale45, accedere a un regime di agevolazioni per i propri enti religiosi
e accreditare ministri, i quali a loro volta potevano celebrare validamente
matrimoni con effetti civili.
Anche in questo campo lo scopo del regime era di invertire la rotta
della separazione liberale tra diritto e società, per irreggimentare e coinvolgere quanto più possibile le «corporazioni» o formazioni sociali nel suo
progetto autoritario perché, come scriveva Arrigo Solmi, «la religione cattolica» – e non solo la cattolica, si può aggiungere – «con la sua potente
organizzazione, ma soprattutto con la sua alta spiritualità, è elemento di
forza e di coesione»46. Pertanto, la collaborazione di queste forze, secondo
l’insegnamento di Giovanni Gentile, era indispensabile per perseguire il superiore bene dello Stato47. Era una linea coerente con la più ampia polemica
antiliberale e anti-individualistica che il fascismo portava avanti su ogni
fronte48 e, a sua volta, l’antiliberalismo era uno dei principali punti di contatto tra la Chiesa cattolica e il regime. Entrambi vedevano nel nuovo diritto
concordatario uno strumento per rafforzare lo spirito di appartenenza delle
rispettive societates iuridice perfectae.
3. La rielaborazione dottrinale del diritto ecclesiastico: spunti per un’indagine
L’impatto che il rinnovamento delle fonti ebbe sulla scienza del diritto
ecclesiastico fu, come è naturale, profondo e, di riflesso alle tendenze delineate nel paragrafo precedente, fu soprattutto l’aspetto della sistematicità
ad attrarre l’attenzione della dottrina dell’epoca, in particolare quella senDi fatto, solo ai pentecostali fu inibito l’esercizio della libertà di culto, con la circolare
Buffarini Guidi del 9 aprile 1935: P. ZANINI, Il culmine della collaborazione antiprotestante tra
Stato fascista e Chiesa cattolica: genesi e applicazione della circolare Buffarini Guidi, in «Società e
Storia», 2017, 155, pp. 139-165.
46
A. SOLmI, Stato e Chiesa nella dottrina e nelle leggi fasciste, mondadori, milano 1940.
47
Si veda la sintesi di A. PAGLIARO, Religione, in Dizionario di Politica, a cura del Partito Nazionale Fascista, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1940, IV, in part. pp. 39-40.
48
Cfr. ex plurimis, E. CROSA, Libertà (Libertà nelle dichiarazioni dei diritti), in Dizionario di
Politica, cit. nt. 47, II, pp. 771-773.
45
357
A. TIRA
sibile o comunque non ostile alle istanze del regime.
Sul piano politico, peraltro, non si ebbero casi notevoli di schieramento
aperto dall’una o dall’altra parte, fatto salvo il caso di Ruffini. Dal punto di
vista dell’appartenenza politica, solo alcuni tra i (non moltissimi) ecclesiasticisti dell’epoca aderirono convintamente al fascismo. Come si è già detto,
Francesco Scaduto e Carlo Calisse49, tra i fondatori della disciplina, condivisero l’azione del regime, ma erano già nella fase conclusiva del loro percorso scientifico e non diedero apporti sostanziali al rinnovamento della
materia. Lo stesso si può dire di mattia moresco, che fu fascista forse più
per ruolo istituzionale che per precisa convinzione ideologica. Per restare
in quel campo, i nomi di riferimento per la dottrina di quegli anni furono
Aldo Checchini, Giuseppe Forchielli, Costantino Jannaccone e Andrea
Piola. Furono questi ultimi, come si dirà, a dedicare le maggiori attenzioni
ai temi del diritto ecclesiastico più sensibili sotto il profilo politico.
merita una menzione a parte la vicenda di Arturo Carlo Jemolo, il cui
complesso rapporto col regime è stato messo in luce dagli studi di Carlo
Fantappiè50. Egli, pur avendo aderito al manifesto antifascista di Benedetto
Croce (1° maggio 1925), non ebbe rapporti ostili con il regime, tanto che,
sul finire degli anni Trenta, fu anche incaricato di redigere varie voci concernenti la sua materia per una vera e propria summa del pensiero fascista,
quale fu il Dizionario di Politica curato dallo stesso PNF. Pur in quella sede
tutt’altro che neutra, Jemolo si mantenne cauto, evitando di esporsi più
dello stretto necessario su posizioni politiche. Del resto – tornando al quadro generale – non sembra neppure che l’adesione di alcuni ecclesiasticisti
al manifesto di Croce consenta, di per sé, di accomunare le loro vedute
scientifiche. Oltre a Jemolo vi furono Ruffini, Falco, Del Giudice e Schiappoli, ma ben poco avevano in comune il cattolico Del Giudice, il liberalconservatore Ruffini e l’anticlericale Schiappoli. A conti fatti, quella delle
collocazioni politiche non sembra essere la chiave di lettura migliore per
ricostruire il quadro della dottrina dell’epoca. Non si rinvengono – e sarebbe forse semplicistico pretenderlo – criteri univoci o modus operandi apEgli prese la parola sul tema un’ultima volta per elogiare, da cattolico prima che da fascista, la Conciliazione conseguita dal regime: C. CALISSE, La politica ecclesiastica del Governo
nazionale fascista, in REALE ACCADEmIA NAZIONALE DEI LINCEI, Dal Regno all’Impero. 17
marzo 1861 – 9 maggio 1936-XIV, R. Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1937, pp.
657-681.
50
C. FANTAPPIÈ, Arturo Carlo Jemolo. Riforma religiosa e laicità dello Stato, morcelliana, Brescia
2011, in part. pp. 59-89 e ID., Il conflitto delle fedeltà. Arturo Carlo Jemolo e il fascismo, in I giuristi
e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi e L. Loschiavo, RomaTre Press, Roma
2015, pp. 159-190.
49
358
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
pannaggio ‘dei fascisti’ o ‘degli antifascisti’. Si possono solo cogliere delle
linee di tendenza, in cui si mescolano attitudini scientifiche e inclinazioni
ideologiche in proporzioni che variano da studioso a studioso e da contesto
a contesto.
Anzi, se si passa ora a considerare, sia pur sommariamente, alcuni scritti
rappresentativi del clima di quel decennio, ciò che colpisce l’attenzione è
che, nel complesso, la dottrina non si trattenne più dello stretto necessario
sulle implicazioni politiche della materia. Sollevata per intervento del legislatore dall’incombenza di ricostruire ex post l’impalcatura sistematica del
diritto ecclesiastico (un’operazione che, come dimostra tutta l’opera degli
ecclesiasticisti dell’età liberale, rendeva ineludibile il confronto con la dimensione politica), la dottrina accettò il fatto compiuto e si concentrò sugli
aspetti tecnici e dogmatici, portando a compimento una tendenza che già
si era affermata nel decennio precedente, soprattutto (in questo specifico
settore, beninteso) per opera di Vincenzo Del Giudice51 e che trova la massima espressione, oltre che nelle opere del giurista pugliese, in quelle di
mario Falco52. Seguendo percorsi che riecheggiavano quelli del «tecnicismo
giuridico» che dominava la scena del diritto penale, ma che condivideva
con gli altri rami del diritto il richiamo del concettualismo53, molti ecclesiasticisti evitarono così di assumere posizioni nette nei confronti delle scelte
politiche del regime.
La ricezione dottrinale della riforma del diritto ecclesiastico potrebbe
dunque essere osservata più utilmente attraverso i filoni di studio che caratterizzarono l’identità della disciplina in quegli anni e i cui esempi principali sono noti. In primo luogo, vi fu la ricostruzione sistematica dei singoli
istituti giuridici e in particolare del matrimonio, che divenne subito il vero
cuore della materia (in questo campo furono centrali le riflessioni di Pietro
Agostino d’Avack e Arturo Carlo Jemolo); lo stesso può dirsi rispetto al
V. DEL GIUDICE, Il diritto ecclesiastico in senso moderno. Definizione e sistema, Tipografia Editrice Nazionale, Roma 1915.
52
Cfr. F. mARGIOTTA BROGLIO, Mario Falco e la cultura italiana del suo tempo, in «Quaderni di
Diritto e Politica ecclesiastica», 1995, 1, pp. 215-233; con riferimento agli studi canonistici
di Falco (che però riflettono un’analoga vocazione al tecnicismo) cfr. G. FELICIANI, Mario
Falco e la codificazione del diritto canonico, in m. FALCO, Introduzione allo studio del Codex Juris Canonici, Il mulino, Bologna 1992, pp. 13-35.
53
Sul tecnicismo come corrente del pensiero giuridico e le sue applicazioni nel campo
della penalistica si vedano L. GARLATI e m.N. mILETTI, Rocco, Arturo, in Dizionario biografico
dei giuristi italiani, dir. da I. Birocchi, E. Cortese, A. mattone e m.N. miletti, Il mulino, Bologna 2013, II, pp. 1704-1708 e S. SEmINARA, Sul metodo tecnico-giuridico e sull’evoluzione della
penalistica italiana nella prima metà del XX secolo, in Studi in onore di Mario Romano, Jovene, Napoli 2011, I, pp. 575-616.
51
359
A. TIRA
tema dell’inquadramento dogmatico dei concordati54. Vi era anche l’ambizione di costruire una teoria generale del diritto concordatario (come attestano gli scritti di Andrea Piola55, Giuseppe Forchielli56 e Aldo Checchini57),
talvolta in chiave di esaltazione dell’opera politica del fascismo, talaltra con
intenti più neutri.
Tre tendenze generali, però, sembrano meritevoli di particolare attenzione.
Anzitutto va considerato l’ampliamento oggettivo degli ambiti di indagine. Dalla fine degli anni Venti nacquero infatti gli studi di diritto ecclesiastico internazionale (Costantino Jannaccone58 e, in una prospettiva
differente, Giorgio Balladore Pallieri59), di diritto comparato (Andrea
Piola60) e, sia pure per ragioni contingenti, di diritto ecclesiastico coloniale
(Arnaldo Bertola61 e ancora Jannaccone62). Altri studi, sulla scia del Trattato
lateranense, ebbero ad oggetto la personalità giuridica internazionale della
Santa Sede, argomento in verità già dibattuto in epoca precedente, ma che
ora si accompagnava alle prime riflessioni sul diritto vaticano63. L’apertura
54
Cfr. m. FALCO, Concordato ecclesiastico, in Nuovo Digesto Italiano, III, Unione Tipografico
Editrice, Torino 1938, pp. 650-660.
55
A. PIOLA, Introduzione al diritto concordatario comparato, Giuffrè, milano 1937.
56
G. FORCHIELLI, Teoria del diritto ecclesiastico concordatario, in Scritti in onore di Francesco Scaduto,
cit. nt. 32, pp. 391-418.
57
A. CHECCHINI, Introduzione dommatica al diritto ecclesiastico italiano, CEDAm, Padova 1937.
58
C. JANNACCONE, I fondamenti del diritto ecclesiastico internazionale, Giuffrè, milano 1936.
59
G. BALLADORE PALLIERI, Diritto internazionale ecclesiastico, in Trattato di diritto internazionale,
a cura di P. Fedozzi, S. Romano, XII, CEDAm, Padova, 19402.
60
PIOLA, Introduzione, cit. nt. 55.
61
Bertola, in realtà, si occupò di diritto coloniale tout court, anche in ragione della sua esperienza come magistrato nel Dodecaneso, aggiungendovi la sua sensibilità di ecclesiasticista:
cfr. L. mUSSELLI, L’insegnamento del diritto canonico ed ecclesiastico dall’Unità d’Italia nelle università
delle metropoli del Nord (Genova, Torino, Pavia, Milano, Padova e Trieste), in Gli insegnamenti del diritto canonico e del diritto ecclesiastico dopo l’Unità d’Italia, a cura di m. miele, Il mulino, Bologna
2015, p. 35. Sul punto, amplius, G. ANELLO, La vocazione fenomenologica di Arnaldo Bertola.
Cognizione della religione e diritto ecclesiastico coloniale, in Archeologia del pluralismo religioso italiano.
Le confessioni religiose nel diritto coloniale, a cura di G. Anello e D. Ferrari, Libellula, Tricase
2018, pp. 53-99.
62
C. JANNACCONE, Corso di diritto ecclesiastico coloniale italiano. Parte generale, Giuffrè, milano
1939 (non seguì alcuna «parte speciale»). Sull’opera dello studioso in questo campo si veda
D. FERRARI, L’esperienza coloniale e i suoi riflessi nello sviluppo del diritto ecclesiastico italiano: il contributo di Costantino Jannaccone, in Archeologia del pluralismo religioso, cit. nt. 61, pp. 11-51.
63
Cfr. m. CARNì, Scienza giuridica italiana e Status Civitatis Vaticanae (1929-2019). Riflessioni
sull’autonomia scientifica e didattica del diritto vaticano, in «Stato, Chiese e pluralismo confessio-
360
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
al diritto comparato, per quanto limitata, fu resa possibile proprio dall’adozione di un modello universalmente noto e applicato – il concordato, appunto – che implicava il superamento del diritto ecclesiastico liberale. Il
quale, come si è detto, era troppo frammentario e legato alle specifiche vicende nazionali per poter essere utilmente confrontato con altre realtà, se
non sotto il profilo, in ultima analisi più politico che giuridico, dei modelli
di relazione tra lo Stato e la Chiesa64.
In secondo luogo – e in senso omissivo – la dottrina manifestò ben
poco interesse per il diritto ecclesiastico acattolico. La legge sulle comunità
ebraiche, anche prima che il regime assumesse connotazioni antisemite, fu
oggetto di trattazione da parte del solo mario Falco, che peraltro ne era
stato uno degli artefici65. Lo stesso dicasi quanto alla legge sui culti ammessi,
su cui scrisse in chiave garantistica soprattutto mario Piacentini. In questo
caso la questione fu più complessa, perché vi fu un diretto interessamento
della Chiesa cattolica, che premeva affinché si depotenziasse la portata della
legge per gli acattolici; prova ne resta il volume che Orio Giacchi dedicò
all’argomento, propugnando tesi restrittive66. Il sostanziale silenzio della
nale», 2019, 31, pp. 1-70.
64
Fece eccezione Andrea Galante, che nel suo Manuale dedicò l’ampia Parte quarta alla dimensione comparatistica: A. GALANTE, Manuale di diritto ecclesiastico, a cura di A.C. Jemolo,
Società Editrice Libraria, milano 19232, pp. 617-717. Per inciso si può aggiungere che la
scelta di Galante, oltre a restare isolata nel panorama di quegli anni, suscitò le aspre critiche
di Vincenzo Del Giudice, che giudicò tale approccio asistematico e scarsamente scientifico:
V. DEL GIUDICE, Recensione a A. GALANTE, Manuale di diritto ecclesiastico, in «Archivio Giuridico», 1923 (estratto).
65
Cfr., tra le varie pubblicazioni dell’A. in argomento, m. FALCO, La nuova legge sulle comunità
israelitiche italiane, in «Rivista di Diritto pubblico e Giustizia amministrativa», 1931 (estratto);
cfr. altresì F. mARGIOTTA BROGLIO, Premessa, in A.C. JEmOLO, Lettere a Mario Falco. Tomo I
(1910-1927), Giuffrè, milano 2005, pp. VI-VII.
66
Si è detto in una nota precedente dell’art. 5 della legge 1159/1929 sui culti ammessi,
ma tale legge interessa anche sotto il profilo della sua genesi e del valore simbolico che
essa, complessivamente intesa, assunse. Pur essendo legge unilaterale dello Stato, ebbero
un ruolo importante nella sua redazione due giuristi che, in certa misura, erano portatori
di istanze direttamente toccate dall’emananda normativa: i già citati mario Falco, ecclesiasticista di religione ebraica, e mario Piacentini, giurista di estrazione evangelica. La natura
ambivalente della legge, il cui testo suona per la sensibilità odierna certamente connotato
da autoritarismo, suscitò all’epoca ben altre valutazioni: da parte ecclesiastica vi furono
rimostranze per un testo ritenuto eccessivamente liberale nei confronti dei «culti tollerati»,
in un momento storico nel quale andava acuendosi l’identificazione tra appartenenza cattolica e appartenenza nazionale (cfr. su questo tema P. ZANINI, Il «pericolo protestante». Chiesa
e cattolici italiani di fronte alla questione della libertà religiosa (1922-1955), Le monnier, Firenze
2019). La vicenda assunse anche i connotati di una battaglia politico-scientifica. Poco dopo
che la legge fu promulgata, infatti, apparve il testo di m. PIACENTINI, La legge 24 giugno
361
A. TIRA
dottrina in questo campo è un esempio emblematico della cautela usata
dagli studiosi dell’epoca. Così come, in seguito, gli ecclesiasticisti evitarono
– salve rarissime e limitate eccezioni67 – di addentrarsi nel terribile campo
delle «leggi razziali», di cui si sostenne l’estraneità rispetto al tema religioso.
Come scrisse Domenico Schiappoli: «Le recenti disposizioni legislative che
stabiliscono una disuguaglianza giuridica tra i cittadini italiani e quelli di
razza ebraica trovano il loro fondamento nella difesa della razza e non in
motivi di ordine religioso, giacché la libertà religiosa e il libero esercizio del
loro culto sono per gli ebrei italiani riaffermati. I provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, di cui al decreto-legge 7 settembre 1938, n. 1381
si giustificano anche per le norme stabilite dalle leggi di pubblica sicurezza»68.
Come terzo punto occorre citare la rinnovata attenzione per il diritto
canonico, a cui il concordato restituiva il rango, da tempo offuscato, di
scienza giuridica a pieno titolo. È controintuitivo che la separazione definitiva del diritto ecclesiastico dal canonico sopraggiungesse proprio per effetto di una soluzione concordataria. ma ora che lo Stato si era impegnato
a riconoscere a determinati effetti il diritto della Chiesa (in ambito matrimoniale, con tanto di riserva di giurisdizione ecclesiastica, ma anche in altri
campi), occorreva trovargli altresì un’adeguata collocazione dogmatica: un
problema sul quale la dottrina liberale non aveva mai raggiunto una posi1929 n. 1159, contenente disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato, e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi (Bilychnis, Roma 1929), che, visto il ruolo dell’autore
nella vicenda legislativa, in qualche modo sembrava accreditarne un’interpretazione ufficiosa, orientata in senso, se non liberale, almeno garantistico. Da parte ecclesiastica vi si
volle contrapporre un’interpretazione restrittiva, volta a contenere, anche in punto di principio, la funzione simbolica di contrappeso al Concordato che, in questo senso, la legge
sui culti ammessi indubbiamente aveva. Si pensò in un primo momento di incaricare Vincenzo Del Giudice di redigere un commento così orientato, ma l’allora ordinario di diritto
canonico presso l’Università Cattolica di milano si sottrasse alle pressioni che, attraverso
padre Gemelli, gli giungevano in tal senso (cfr. F. mARGIOTTA BROGLIO, Del Giudice, Vincenzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma
1988, consultabile al sito www.treccani.it). L’operazione fu invece portata a compimento
dall’allievo di Del Giudice, Orio Giacchi (O. GIACCHI, La legislazione italiana sui culti ammessi,
cit.), acuendo il già avviato deterioramento dei rapporti che portò, di lì a pochi anni, alla
rottura definitiva di Del Giudice con l’ambiente della Cattolica e al suo trasferimento a
Napoli (si veda F. mARGIOTTA BROGLIO, Jemolo e Del Giudici all’Università cattolica del Sacro
Cuore, in ID., Religione, diritto e cultura politica nell’Italia del Novecento, Il mulino, Bologna 2011,
pp. 119-134).
67
Cfr. A. TIRA, L’impatto delle leggi razziali del 1938 sul diritto e l’amministrazione. Appunti bibliografici, in «Il Diritto ecclesiastico», 2018, 1-2, pp. 98-101.
68
SCHIAPPOLI, Corso di diritto ecclesiastico, cit. nt. 20, pp. 4-5.
362
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
zione definitiva69. Una volta riconosciuto il ruolo del diritto della Chiesa,
si poteva finalmente superare la commistione tra i due diritti che l’epoca
liberale aveva perpetuato, malgrado le pregiudiziali laiciste e separatiste o
forse proprio per l’impossibilità da esse indotta di riconoscere al diritto canonico un’autonoma collocazione tra le scienze giuridiche70. Si ebbe allora
la fioritura di una «canonistica laica» che, perlopiù, intendeva applicare allo
studio del diritto della Chiesa la dogmatica giuridica del diritto secolare71.
Neppure in questo campo mancarono approcci in cui si possono intravedere venature politiche. È interessante, per esempio, il tentativo condotto
da Forchielli di applicare al diritto canonico una chiave di lettura cara al fascismo, ossia la definizione dei rapporti tra pubblico e privato (ovviamente
a tutto favore del pubblico, dimensione del resto preminente nel diritto canonico)72. Nel complesso, però, la canonistica fu certamente un buon approdo per quanti non desideravano esporsi troppo sul fronte del diritto
ecclesiastico civile (e sembra essere questo il caso di Del Giudice, di Pio
Fedele e, in parte, anche di d’Avack)73.
Infine, a prescindere dalle convinzioni politiche degli studiosi e dai temi
da loro prediletti, occorre tornare ancora una volta all’imperante tecnicismo
e all’attenzione per i princìpi della dogmatica giuridica. Se c’è un tratto identificativo del diritto ecclesiastico degli anni Trenta nel complesso, infatti, è
proprio l’impermeabilità della materia all’osmosi con gli elementi storici,
politici e sociali che, fino a quel punto, ne avevano costituito l’anima. Una
tendenza che ancora sopravvisse, fino alla metà del decennio, nel magistero
Si veda, per un’approfondita panoramica della questione apparsa alla vigilia della fine di
quell’esperienza storico-giuridica: A.C. JEmOLO, Il valore del diritto della Chiesa nell’ordinamento
giuridico italiano, in «Archivio Giuridico», 1923, 1 (estratto).
70
Il monismo giuridico del diritto ecclesiastico liberale, infatti, malgrado l’impronta laica
aveva contribuito a perpetuare forme di commistione tra il diritto dello Stato e quello
della Chiesa che ne costituiva il necessario presupposto (cfr. L. DE LUCA, ll concetto del diritto
ecclesiastico nel suo sviluppo storico, CEDAm, Padova 1946). Si veda, in questo senso, la premessa di G. ZANOBINI al suo Corso di diritto ecclesiastico (Vallerini, Pisa 1936, p. 7), dove si
fa cenno al «metodo di trattazione informato all’esame parallelo dei due ordinamenti»,
metodo «oggi generalmente abbandonato».
71
Per una sintesi del dibattito sul metodo cfr. m. NACCI, Storia del diritto e cultura giuridica.
La scienza canonistica del Novecento, Aracne, Roma 2017.
72
G. FORCHIELLI, Il concetto di ‘pubblico’ e ‘privato’ nel diritto canonico. Appunti di storia e di critica
della sistematica, in Studi in onore di Carlo Calisse, Giuffrè, milano 1939, II, pp. 486-555.
73
P. GROSSI, Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana (1859-1950), Giuffrè, milano
1986, pp. 204-209 e C. FANTAPPIÈ, Pietro Agostino d’Avack: dal confronto con la canonistica curiale
all'autonomia scientifica del diritto canonico, in Metodo, fonti e soggetti del diritto canonico, a cura di
J.I. Arrieta, G.P. milano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 139-170.
69
363
A. TIRA
di Francesco Ruffini e che fu poi recuperata da Jemolo e da altri, ma solo
in anni successivi alla caduta del regime. In un contesto come quello accademico degli anni Trenta non c’era spazio per forme di analisi critica e men
che meno di dissenso verso le decisioni del Governo e gli obiettivi che esso
perseguiva; in questa zona di ‘inquestionabilità’ ricadevano anche i risvolti
politici e sociali della Conciliazione e le linee portanti del diritto che ne derivò, quindi il dibattito interno alla materia si limitò a maggior ragione alle
questioni interpretative fondate sul diritto vigente. Non si trattava solo di
un problema di libertà di espressione (o di adesione), ma anche degli effetti
dell’incrocio tra la nuova situazione e le tendenze dottrinali già in essere da
tempo. Ben prima dell’avvento del fascismo, infatti, la validità dell’approccio
storico-politico alla materia era stato messo in discussione con solidi argomenti da studiosi come mario Falco e Vincenzo Del Giudice, i quali contestarono alla generazione dei loro maestri il ricorso a categorie
interpretative «politiche», come quelle di giurisdizionalismo e separatismo,
e lo scarso rigore (se non filosofico, almeno) dogmatico di tali categorie74.
In un certo senso, affinandone i profili tecnici a discapito dell’originaria caratura politica, quel dibattito aveva già predisposto il diritto ecclesiastico a
recepire ciò che sarebbe successo negli anni Trenta. La Conciliazione e il
regime, da questo punto di vista, avevano solo catalizzato e incanalato un
processo già in essere.
Alla luce di questi sviluppi di medio periodo, non sembra essere stata
solo l’esito di un’imposizione, quella della ‘sterilizzazione’ politica del diritto
ecclesiastico. Semplicemente, non si sentiva più il bisogno di indagini condotte da quella molteplicità di angoli prospettici che per esempio erano ancora evidenti, un decennio prima, nel Manuale di Andrea Galante75, perché
i fattori, per così dire, extra-giuridici della materia erano stati assorbiti e superati d’imperio dallo stesso diritto positivo. Paradossalmente, negli equilibri interni della disciplina, la tradizionale dialettica tra i due nuclei del
diritto ecclesiastico e della politica ecclesiastica era stata risolta, a tutto vantaggio del primo, proprio per l’intervento del più politico dei regimi, e per
molti anni a venire i rapporti di forza tra le due facce della stessa materia
rimasero cristallizzati nell’ordine concordatario. Questo determinò l’esauSi vedano in particolare DEL GIUDICE, Il diritto ecclesiastico in senso moderno, cit. nt. 51, e
m. FALCO, Il concetto giuridico di separazione della Chiesa dallo Stato. Prolusione al corso di diritto ecclesiastico tenuta nella Università di Parma il dì 17 gennaio 1913, Fratelli Bocca, Torino 1913. La
loro lezione fu recepita anche da Jemolo, che al principio degli anni ’30 aprì la raccolta
delle sue Lezioni con una forte critica dell’utilità dei «consueti ‘tipi’ di relazioni giuridiche
fra Stato e Chiesa»; cfr. JEmOLO, Lezioni, cit. nt. 5, pp. 3-17.
75
GALANTE, Manuale di diritto ecclesiastico, cit. nt. 64.
74
364
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
rirsi del ricco filone di studi che, fin dalla metà dell’Ottocento, aveva dato
vita alle celebri riflessioni sulla separazione tra Stato e Chiesa, sui modelli
di relazione, alle diatribe sull’irrilevanza o meno del diritto canonico. Un
dibattito costante, favorito anche dalla ‘confusione creativa’ in cui era vissuto il diritto ecclesiastico liberale. Ora, invece, non aveva più senso (e poteva anzi essere pericoloso) interrogarsi de jure condendo sulla varietà delle
opzioni nei rapporti giuridici tra lo Stato e la Chiesa. L’unica ottica in cui il
tema poteva essere recuperato era quella puramente astratta, non tanto sul
piano storico (e quindi relativizzante) ma dogmatico, come infatti fecero
Jemolo e Checchini in una celebre polemica a distanza dalle colonne della
Rivista di Diritto pubblico76.
Non sorprende, allora, che tra i non molti contributi scientifici sulla
politica ecclesiastica dell’epoca risaltino i saggi di autori apertamente fascisti, come Amedeo Giannini77 e i già citati Checchini78 e Piola79. Né stupisce che si tratti perlopiù di testi encomiastici, che descrivono le
benemerenze del regime nei confronti dello spirito religioso della nazione,
ma che quasi mai aggiungono motivi di reale interesse a quanto già detto
dagli stessi artefici e ideologhi della legislazione concordataria. In particolare, il riferimento è agli interventi ministeriali di Alfredo Rocco e all’interpretazione del Concordato che Arrigo Solmi consegnò nel decennale
della Conciliazione a un piccolo volume intitolato Stato e Chiesa nella dottrina
e nelle leggi fasciste80.
Tutte queste opere, malgrado l’enfasi che le animava, dovevano necessariamente fare i conti con dei contrasti che la Conciliazione aveva risolto
solo superficialmente. Infatti, per quanto la dottrina si guardasse dal sotto76
Si vedano le pagine che furono scritte nel corso del decennio dai due studiosi: A. CHECCHINI, La qualificazione giuridica delle relazioni fra lo Stato italiano e la Chiesa, in «Rivista di diritto
pubblico», 1930 (estratto); A. C. JEmOLO, Sulla qualificazione giuridica dello Stato italiano in ordine alle sue relazioni con la Chiesa, in «Rivista di Diritto pubblico», 1931 (estratto); A.C. JEmOLO, La qualificazione giuridica dello Stato italiano in ordine alle sue relazioni con la Chiesa, in
«Archivio giuridico», 1938, pp. 3 ss. e di nuovo A. CHECCHINI, Sulla qualificazione giuridica
delle relazioni fra lo Stato italiano e la Chiesa. Critica di una critica, in «Rivista di Diritto pubblico»,
1938, pp. 484-451.
77
A. GIANNINI, La legislazione ecclesiastica fascista preconcordataria, in Chiesa e Stato. Studi storici
e giuridici per il decennale della Conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia, Vita & Pensiero, milano
1939, I, pp. 495-510.
78
A. CHECCHINI, La politica religiosa del Fascismo, CEDAm, Padova 1937.
79
A. PIOLA, La legislazione ecclesiastica del Governo fascista (nel primo decennale della Conciliazione),
in Studi in onore di Carlo Calisse, cit. nt. 72, II, pp. 229-257.
80
SOLmI, Stato e Chiesa, cit. nt. 46.
365
A. TIRA
linearle, nella politica ecclesiastica del fascismo non mancavano le incongruenze. Ad esempio, per un regime che sul piano culturale si atteggiava a
figlio legittimo del Risorgimento, era scomodo portare un’eredità che, nel
campo delle relazioni con la Chiesa, risultava incompatibile con le tendenze
correnti, perché il laicismo e la separazione giuridica erano coessenziali alla
politica risorgimentale. Occorreva quindi rivisitare il passato, enfatizzando
l’apporto di filoni minoritari (come il mazzinianesimo, con la sua mistica
laica e statocentrica, o viceversa le posizioni di Gioberti e Rosmini)81, oppure bisognava prenderne le distanze. È quanto fece, per esempio, Alfredo
Rocco, che non per caso aprì il suo intervento parlamentare sui Patti Lateranensi rivendicando per il fascismo la natura di «continuazione del Risorgimento, ma di un Risorgimento liberato da ogni infiltrazione estranea»82.
Era un riferimento polemico che, in questo campo, non poteva che essere
rivolto al diritto ecclesiastico liberale, al suo agnosticismo e alla pregiudiziale
filoprotestante che spesso ne animò i protagonisti.
Ancora più insidioso era il problema della qualificazione formale dello
Stato rispetto alla religione. Da un lato, la nuova connotazione dell’ordinamento era oggettivamente confessionale e cattolica e questo era il fondamento che permetteva agli studiosi vicini al regime di sostenere che grazie
alle «profonde innovazioni apportate dai nuovi indirizzi del Fascismo diretti
alla elevazione spirituale della nazione anche in materia religiosa, il diritto
ecclesiastico è stato messo su nuove basi più aderenti alla realtà e più adatte
all’importanza e all’influenza del fattore religioso nei rapporti sociali»83.
Dall’altro lato, però, un’affermazione troppo esplicita della natura cattolica
dello Stato avrebbe ridato linfa alle tradizionali tesi canonistiche dello jus
publicum ecclesiasticum sulla superiorità dei fini spirituali e sulla preminenza
della Chiesa rispetto allo Stato. Il fascismo non era affatto disposto ad accondiscendere a questo corollario, ragion per cui gli autori di regime insistettero molto sul concetto espresso dalla farraginosa formula di mussolini,
che già all’orecchio suona per quella che fu, ossia un’emulazione mal riuscita
del motto di Cavour: «Stato sovrano nel Regno d’Italia; Chiesa cattolica,
con certe preminenze lealmente e volontariamente riconosciute»84. Da parte
Cfr. CHECCHINI, La politica religiosa, cit. nt. 77, pp. 7-16.
ROCCO, Discorso, cit. nt. 39, p. 161.
83
C. JANNACCONE, Gli studi di diritto ecclesiastico in Italia nel ventennio fascista, in Il pensiero
giuridico italiano, Istituto Nazionale per le Relazioni culturali con l’Estero, Roma 1941, III,
pp. 16-17.
84
L’espressione fu adottata da mussolini nel discorso alla Camera sui Patti Lateranensi
del 13 maggio 1929; quanto alla negazione di un carattere propriamente confessionista
81
82
366
IL DIRITTO ECCLESIASTICO
fascista si parlava di «leale collaborazione» e si utilizzavano complesse circonlocuzioni per dimostrare che l’azione della Chiesa era armonizzata nel
disegno dello Stato, e non viceversa85. Nello stesso senso andava – di fatto
– chi, come Jemolo, concedeva che lo Stato italiano potesse dirsi confessionale, ma aggiungeva che «l’esistenza di una religione dello Stato non è
tanto un omaggio reso alla ‘verità’ della religione, quanto all’attività etica
dell’organizzazione che la impersona, ed anche a quella che può essere la
cooperazione di questa organizzazione con lo Stato per il raggiungimento
di finalità di ordine politico»86. Da parte degli autori di stretta osservanza
cattolica, per ragioni speculari e opposte, si parlava più volentieri di «coordinazione», oltre ad insistere sul palese confessionismo dello Stato concordatario e quindi sull’adesione ai princìpi della Chiesa di Roma (si espressero
in questo senso voci autorevoli come quella di Vincenzo Del Giudice87, ma
anche di Santi Romano88).
4. In luogo di una conclusione
In ogni caso, queste a cui si è fatto cenno da ultimo erano di dispute
dal sapore scolastico perché, nella concretezza del diritto, erano altri i temi
di rilievo sostanziale. Il matrimonio, rispetto al quale la Chiesa aveva ottenuto piena soddisfazione; la libertà delle associazioni cattoliche, che invece
sarebbe divenuta presto motivo di tensioni tra il regime e la Santa Sede per
il caso dell’Azione Cattolica; la scuola e, ancora una volta, la disciplina degli
enti ecclesiastici. In questi come in altri campi, il fascismo aveva chiuso
vecchie questioni e ne aveva aperte di nuove. Si trattava ora di lasciare al
vaglio del tempo le soluzioni che il regime aveva trovato, e la dottrina assecondò questo corso delle cose. molte di tali soluzioni, tuttavia, dovevano
essere in sintonia con le aspirazioni diffuse o almeno con la sensibilità
media della società dell’epoca, oltre a rispecchiare gli interessi politici e organizzativi del regime e della Chiesa cattolica; infatti non si potrebbe spiedello Stato italiano anche dopo la Conciliazione, cfr. A. PIOLA, Stato e Chiesa dopo il Concordato, Le Caravelle, Santa margherita Ligure 1933, pp. 24-30.
85
Cfr. ad es. SOLmI, Stato e Chiesa, cit. nt. 46, p. 65 e gli autori (tra cui Giovanni Gentile)
citati da FEROCI, Istituzioni di diritto pubblico, cit. nt. 8, p. 149 nota.
86
JEmOLO, Lezioni, cit. nt. 5, p. 27.
87
Il quale, infatti, critica le tesi di Solmi: DEL GIUDICE, Le nuove basi, cit. nt. 3, pp. 71-77.
88
Articolo sul «Giornale d’Italia» del 15 febbraio 1929, citato nella rassegna Intorno ai Patti
Lateranensi, in «La Civiltà Cattolica», 1932, p. 248.
367
A. TIRA
gare con la sola forza coercitiva della dittatura, prima, e con la sola reticenza
del legislatore democratico (e democristiano), poi, il fatto che l’impianto
normativo così impostato poté resistere, quasi intatto, per molto tempo
dopo la caduta del fascismo. Di sicuro, anche quando si iniziò a percepire
che la società italiana incontrava crescenti difficoltà a rispecchiarsi in quel
sistema, il Concordato offrì ai suoi difensori il riparo sicuro di una struttura
ancora solida, oltre che rodata, e dunque difficile da espugnare.
Non è opportuno trarre ora conclusioni su una materia così ampia, perché le considerazioni esposte in queste pagine non sono altro che le linee
di una ricerca in gran parte ancora da condurre. Tuttavia, se nel campo del
diritto ecclesiastico il passaggio dal regime liberale a quello fascista fu la
storia di una discontinuità, il passaggio dalla dittatura alla democrazia è
stato, per molti versi, una storia di continuità. Per questo motivo una conoscenza più approfondita degli sviluppi dottrinali di quel decennio formativo appare come un presupposto essenziale per comprendere le radici
e il significato profondo di un sistema che è stato in grado di sopravvivere,
sul piano culturale, fino agli ultimi anni Sessanta e, giuridicamente, fino agli
Accordi di Villa madama del 1984.
368
mauro Grondona
Il diritto comparato e la comparazione giuridica tra internazionalismo
e nazionalismo: premesse per una discussione
S OmmARIO : 1. Prospettiva dell’analisi: la comparazione tra aperture e
chiusure – 2. Il diritto comparato quale cultura ‘di avanguardia’ – 3. Diritto comparato e internazionalizzazione: luci e ombre – 4. La politica
del diritto comparato in mariano D’Amelio – 5. Tra diritto comparato
e comparazione giuridica – 6. La politica del diritto comparato in Salvatore Galgano – 7. La resa dei conti tra internazionalismo e nazionalismo giuridico
1. Prospettiva dell’analisi: la comparazione tra aperture e chiusure
L’obiettivo, piuttosto limitato, di queste pagine può essere descritto nei
termini seguenti: mettendo sperabilmente, e almeno in parte, a frutto una
serie di materiali (tra cui, lo segnalo subito in apertura, anche alcuni articoli
tratti dalla stampa quotidiana, significativi tanto nella prospettiva della generale strategia politico-culturale del fascismo quanto in ragione di chi li
ha firmati), mi prefiggo di far emergere, tentando di minimamente problematizzarli, alcuni utilizzi del diritto comparato e, in senso più ampio, della
comparazione giuridica. In classici termini tarelliani, si tratta di evidenziare
alcune operazioni culturali incentrate sul diritto comparato (e, più in generale, sulla dimensione politica della giuridicità) promosse dal regime nel periodo temporale oggetto del nostro convegno ma non compiutamente
realizzate.
Queste operazioni culturali – che è vivamente auspicabile possano essere meglio studiate dagli specialisti, anche nella chiave della complessiva
politica culturale fascista nel corso degli anni Trenta1 – sono particolarmente interessanti se osservate alla luce della progressiva costruzione di
In tema va senza dubbio fatto subito rinvio alle incisive pagine di I. BIROCCHI, L’integrazione dell’Università nello Stato totalitario: la politica e il diritto nelle Facoltà di Giurisprudenza, in
questo volume, p. 23 ss.
1
369
m. GRONDONA
una ‘legalità di regime’ (nel senso precisato nella ‘Presentazione’ di questo
volume), che va di necessità a intrecciarsi (e al limite a coincidere, almeno
negli anni più avanzati del fascismo: diciamo grosso modo a partire dalla metà
degli anni Trenta) con, appunto, la funzione politica attribuita dal fascismo
alla dimensione giuridica2. Ciò, non solo rispetto al complessivo disegno
di riforma ordinamentale in chiave corporativa3, ma anche (e in certa misura
soprattutto) rispetto al ruolo politico internazionale dell’Italia. Un ruolo
che, per poter essere esercitato nel modo più efficace, necessita di un fondamento tecnico-giuridico che si biforca e che va a coprire tanto il settore
costituzionalistico quanto il settore politologico, perché si tratta di incidere
sulla geopolitica europea. Da questo punto di vista, politica internazionale
italiana e assetti istituzionali e costituzionali europei sono ambiti strettamente interconnessi.
Con particolare riferimento al diritto comparato, ci troviamo di fronte
a una operazione notevolmente complessa, assai delicata e molto ambiziosa, ma, appunto, solo in parte realizzata, e soprattutto progressivamente
allontanatasi, per ragioni strettamente politiche (sulle quali si verrà in particolare al § 7), dallo scopo originario, che era invece pienamente e integralmente scientifico. Nel momento in cui la comparazione giuridica, da
strumento di conoscenza4 del – per impiegare un po’ forzatamente una faCfr. A. SOmmA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista e
nazionalsocialista, Vittorio Klostermann, Frankfurt am main 2005, passim, e in particolare
pp. 323-329.
3
Il punto non può naturalmente essere qui approfondito; v. ora le brillanti pagine di G.
CHIODI, Costruire una nuova legalità: il diritto delle obbligazioni nel dibattito degli anni Trenta, spec.
il § 5 («Il diritto delle obbligazioni nell’orbita del corporativismo: Parigi, luglio 1937»),
nonché l’approfondito studio di A. JANNARELLI, Ascarelli e l’ordinamento corporativo, entrambi
in questo volume, rispettivamente p. 201 ss. e p. 261 ss.; nella letteratura dell’epoca, cfr.
ad esempio G. DEL VECCHIO, Individu, Etat et Corporation, in Annales de l’Institut de Droit
comparé de l’Université de Paris, III, LGDJ, Paris 1938, p. 23 ss.; S. GOLAB, Le droit civil antilibéral, in Introduction à l’étude du droit comparé. Recueil d’Etudes en l’honneur d’Edouard Lambert, t.
III (‘Cinquième Partie: Le droit comparé comme science sociale’), LGDJ, Paris 1938, p.
106 ss. (sull’Italia, p. 111): ma tutti e tre i tomi di quest’opera sono di capitale importanza
per il periodo considerato e rappresentano un formidabile e indispensabile strumento di
lavoro.
4
Da richiamare il rilievo di A. SOmmA, Comparare ai tempi del fascismo, in «materiali per una
storia della cultura giuridica», 2006, p. 417 ss., a p. 417: «L’Istituto [scil. l’Unidroit, fondato
nel 1926] si deve ad un accordo fortemente voluto dal fascismo che vi colloca al vertice
un proprio politico di spicco: Pietro De Francisci […]». Ora, qualificare de Francisci solo
come ‘politico di spicco’ del regime è naturalmente riduttivo; come mi pare almeno parzialmente riduttiva, per le ragioni che spero potranno risultare più chiare nel corso del lavoro, la seguente affermazione relativa al «programma politico normativo del ventennio:
affermare l’incompatibilità con le soluzioni estere, se si tratta di costruzioni ispirate dal li2
370
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
mosa espressione – ‘totalmente altro da sé’5, diviene (o, forse più propriamente, vorrebbe diventare – e così effettivamente accadde nella seconda
metà degli anni Trenta: ma la vicenda richiede senza dubbio ulteriori approfondimenti) strumento di promozione del ‘sé nazionalistico’, essa (e
proprio rispetto alle complessive e anche in certa misura contraddittorie
peculiarità dell’operazione culturale considerata nel suo insieme)6 diviene
al contempo strumento di imperialismo politico-giuridico. Di talchè la comparazione, facendosi dominatrice di culture diverse e necessariamente assunte quali inferiori – e dunque da far progredire, con un intento che ha
più del paternalistico che dell’umanitario; più dell’imposizione nazionalistica
che della mediazione universalistica –, si ritrova a snaturare sé stessa7. In
beralismo politico e coltivare il contatto con la scena internazionale, se ciò contribuisce
alla riforma delle istituzioni del liberalismo economico» (p. 41). Direi allora che Somma
guarda al diritto comparato negli anni del regime nella sola prospettiva, senz’altro esistente
e sulla quale anche io mi soffermerò, del progressivo autoritarismo; e tuttavia non mi pare
dubbio che, almeno fino a circa la metà degli anni Trenta, la comparazione in Italia non
possa essere considerata mera espressione di un progetto autoritario e imperialista. Di
qui, appunto, l’interesse specifico di approfondire le vicende italiane del diritto comparato,
negli anni Venti e (almeno) nei primi anni Trenta.
5
Cfr. m. HORKHEImER, La nostalgia del totalmente altro, 7a ed., Queriniana, Brescia 2019. La
formula del ‘totalmente altro da sé’ non mi pare in effetti del tutto impropria, perché si
spiega a partire della profonda esigenza di rinnovamento culturale molto ben presente
all’interno della giuscomparatistica italiana, con particolare riferimento al decennio
1926/1936. T. ASCARELLI, recensendo i volumi II e III dell’«Annuario di diritto comparato e
di studi legislativi», fondato da Salvatore Galgano, in «Rivista del diritto commerciale», 1929, I,
p. 703 ss., a p. 703 osservava del resto: «Perfino rispetto alla Francia e alla Germania la
nostra coltura comparativistica è straordinariamente lacunosa; la guerra e l’immediato
dopo-guerra hanno necessariamente fatto sì che, almeno rispetto alla Germania, le nostre
informazioni siano arretrate di vent’anni, sì che c[i] è in gran parte ignota l’opera veramente
imponente compiuta dalla giurisprudenza pratica germanica. Vi sono poi paesi rispetto ai
quali la nostra cultura comparativistica è pressoché nulla. Penso particolarmente al mondo
anglo-sassone, che è per noi un mondo giuridico sconosciuto, non ostante qualche sforzo
lodevole, ma isolato. Eppure allo storico che ricordi come il sistema anglo-sassone sia
l’unico grande sistema vigente che non ha base romanistica, non può sfuggire l’importanza
essenziale di questi studi: il pratico che sa quale sia il peso delle nazioni anglo-sassoni nel
mondo economico moderno non può non sentire tutta l’assurdità e tutto il danno della
nostra ignoranza».
6
In generale sarei indotto a richiamare il famoso e molto discusso scritto di G. TARELLO,
Quattro buoni giuristi per una cattiva azione (1977), che, se anche dovesse condividersi l’opinione di Paolo Grossi [ad avviso del quale il saggio di Tarello «di felice serba soltanto il
titolo […]»: P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico (1860-1950), Giuffrè, milano
2000, p. 64, nt. 106], è comunque utile perché sottolinea alcune innegabili connessioni tra
politica del diritto e tecnica giuridica, che è aspetto centrale anche ai nostri fini.
7
Cfr. ancora SOmmA, I giuristi, cit. nt. 2, p. 326: «[I]l mito dell’incomparabilità diviene l’orizzonte inevitabile di una riflessione scientifica asservita a sistemi politici imperialisti e to371
m. GRONDONA
altre parole, la comparazione, se intesa in senso colonizzatore, rinuncia per
forza di cose a quel primario sforzo di comprensione delle diversità e delle
discontinuità (per poi lavorare su quest’ultime in vista del recupero, o della
costruzione, di convergenze e di continuità), che sta necessariamente alla
base del grandioso edificio del diritto comparato, per come si è storicamente e progressivamente realizzato, pur all’interno di una polifonia funzionale e metodologica che va senza dubbio conservata8, perché rende il
diritto comparato oltremodo duttile e adattabile ai contesti e alle esigenze
del momento storico. (Il che significa, naturalmente, che il diritto comparato, in ragione dei contesti e delle contingenti esigenze, può anche essere
utilizzato, o anzi piegato, in vista del perseguimento di scopi opinabili o
senz’altro aberranti: ma questo è il rischio tipico di ogni idea, concetto, istituto, dentro e fuori il campo giuridico. La cultura e soprattutto la coscienza
culturale sono gli unici rimedî alle mutazioni improvvide, e in questo senso
l’osservazione retrospettiva è salutare, se non salvifica).
Va altresì precisato (per sottolineare un ulteriore elemento di centrale
importanza, e che dovrà perciò essere messo meglio a fuoco in successive
indagini) che l’obiettivo politico della comparazione, nel momento in cui
essa assuma connotati imperialistici, travolge alla radice quell’operazione
(che costituiva invece la premessa programmatica del lavoro di rafforzamento del diritto comparato e della conquista di una sua piena scientificità,
svolto a partire dagli anni Venti e sfociato poi, in particolare, nella costituzione dell’Istituto di studi legislativi e dell’Annuario di diritto comparato,
da un lato, nonché dell’Unidroit, dall’altro: v. infra, pp. 376-377, testo e ntt.
13-14, per ulteriori indicazioni) finalizzata invece a rafforzare il diritto comtalitari».
8
Cfr. S. GALGANO, Funzioni giuridiche del diritto comparato, in Atti del primo Convegno nazionale
di studi giuridico-comparativi, Istituto di Studi Legislativi, Roma 1953, p. 3 ss., che richiama la
necessità di non confondere il diritto comparato con la «politica giuridica» (p. 6), nonché
ID., L’unificazione del diritto, in Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, vol. I, Utet, Torino
1960, p. 815 ss., che insiste sulla «concezione universale degli ordinamenti giuridici (p.
815). E oggi cfr. allora il rilievo molto indicativo di S. CASSESE, I benefici effetti del diritto comparato, in «Il Sole 24 Ore», Domenica, 9 febbraio 2020, p. VI: «[I]l diritto straniero serve
a regolare casi che non sono espressamente regolati in un altro ordinamento, come ausilio
per valutare i fatti, per accertare se alcune regole sono di applicazione universale, per superare il diritto nazionale, oppure per svilupparlo, per applicare norme sopranazionali,
europee o internazionali. Insomma, dalla comparazione giuridica si passa al diritto comparato. Il comparatista non ha più soltanto una funzione conoscitiva, può incidere sulla
funzione normativa. Questo straordinario progresso è dovuto all’ampliamento dei confini
statali, alla loro porosità, ai trapianti, alle connessioni e alle forme cooperative sempre più
necessarie nel mondo, che producono l’apertura di finestre e porte tra ordini giuridici
prima ermeticamente chiusi l’uno all’altro».
372
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
parato quale autentica occasione di apertura ordinamentale9.
Occorre però allora subito anche precisare che, all’interno del nostro
decennio, tale sforzo di comprensione dell’‘altro da sé’, autentico fondamento della comparazione, è stato pregiudicato non solo da istituzioni politiche sempre più autoritarie, ma anche, in parte, da un diffuso positivismo
ideologico e da uno statualismo giuridico che hanno guardato con sospetto
le categorie concettuali ‘straniere’, in quanto incompatibili con l’ordinamento nazionale10 (precisamente contro questa tendenza si è infatti svolta
la battaglia culturale condotta in primo da Salvatore Galgano e dall’Annuario, ma vinta solo in parte, a cagione di molteplici fattori, sui quali ci si soffermerà nel prosieguo).
Il punto che va pertanto richiamato in apertura è che una comparazione
intesa quale sintesi di un autoritarismo tanto politico quanto dogmatico, o
Cfr. infatti l’ampia panoramica che emerge da m. UDINA, Rassegna del movimento internazionale per l’unificazione del diritto e per gli studi legislativi di comparazione giuridica, in «Annuario
di diritto comparato e di studi legislativi» (d’ora in poi cit. come «Annuario»), 1931, vol.
VI, p. 229 ss. Altresì significativa, mi pare, l’attenzione (pur critica, giudicando egli insanabile il dissidio tra il sistema anglosassone e quello latinoamericano) prestata da G. PERTICONE al «movimento pan-americano nel diritto», in «Rivista internazionale di filosofia
del diritto», 1929, pp. 493-495 (nella rubrica ‘Sunti di riviste’).
10
Cfr. infatti T. ASCARELLI, in sede di recensione al celebre «Traité» di René David, del
1950, e al primo tomo del «Traité» di Pierre Arminjon, Baron Boris Nolde e martin Wolff,
anch’esso del 1950, in «Annuario», 1950, vol. XXVI, p. 396 ss. (lo scritto è stato poi raccolto in T. ASCARELLI, Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Giuffrè, milano
1950, p. 313 ss.: ivi, per una svista, il vol. XXVI dell’Annuario cit. è indicato come vol.
XXXVI), ove si legge che il volume del David è «forse la più completa e ricca tra le introduzioni a quest’ordine di studi» (p. 396) e che il diritto comparato, «[n]aturale riflesso da
un lato di una diffusa insoddisfazione con la metodologia positivista e dall’altro della aspirazione verso quel carattere internazionale che sembra essenziale a qualunque scienza e
di quella per una revisione del dogma dell’assoluta sovranità dello Stato (che a sua volta
si collega al positivismo giuridico), […] viene ormai prendendo il suo posto, sebbene la
sua storia rimonti assai lontano nei secoli, nell’insegnamento e nelle università […]. Il disdegno col quale il diritto comparato viene spesso considerato tra noi è forse appunto il
riflesso dell’accentuato positivismo della nostra dottrina giuridica»; e più avanti, p. 397:
«L’indirizzo metodologico al quale fa capo il DAVID, che parla perciò di metodo comparativistico anziché [di] diritto comparato, sembra […] un indirizzo storicistico, che mira a
concepire lo studio del diritto comparato come un allargamento nello spazio della nostra
esperienza giuridica, così come la storia ne costituisce un allargamento nel tempo e che
perciò sostanzialmente importa il collocare il diritto comparato accanto alla storia del diritto, ravvisando il suo oggetto nell’accertamento e nella comparazione dei diritti quali effettivamente vigono. Ciò spiega appunto gli acuti riferimenti del DAVID alla pratica dei
vari paesi, alle diverse correnti interpretative e via di seguito»; infine, p. 398: «Il diritto
comparato può comunque essere prezioso nel riesame metodologico così come nel superamento di un positivismo nazionalistico che poi finisce con lo stare in contrasto con
le stesse esigenze scientifiche del diritto».
9
373
m. GRONDONA
uccide se stessa, o sopravvive, ma scade a estemporaneo raffronto esegetico-legislativo, o, peggio ancora, a mero strumento di propaganda politica.
In sintesi, direi che il cambio di rotta del diritto comparato, principalmente
determinato dalle pressioni politiche che quest’ultimo ha subito a partire
dalla seconda metà degli anni Trenta, ha condotto non alla morte della
comparazione, ma a un sonno da cui poi ha potuto risvegliarsi, e con fatica,
solo nel dopoguerra.
Tenuto allora conto di queste variegate tensioni e pulsioni (le quali andrebbero invero partitamente individuate e analizzate, perché tra di esse si
riscontrano anche sovrapposizioni e contraddizioni, e dunque il saper distinguere diviene fondamentale)11, sarebbe senza dubbio interessante riperSi può ad esempio osservare che un tema di indubbia rilevanza e delicatezza è il rapporto
tra comparazione e diritto romano, ovvero l’impiego della comparazione in difesa del diritto
romano e contro il diritto germanico: cfr. S. GALGANO [ma in realtà si tratta di una sintesi
redazionale a cura del comitato editoriale imposta dal cattivo stato di salute del medesimo
Galgano, che gli impedì di inviare un testo: cfr. ivi nt. 1], L’Institut d’Etudes Législatives de
Rome (Istituto di studi legislativi), in Introduction à l’étude du droit comparé, cit. nt. 3, t. I (‘Première
Partie: Les aspects, les fonctions et les sources du droit comparé; Deuxième Partie: Instruments d’Études du droit comparé’), p. 723 ss., a p. 727: «mais l’Italie nouvelle est venue
donner bien d’autres motifs à un développement de la science comparative: volonté des
romanistes d’Italie d’échapper désormais aux théories germaniques qui ont obscurci et
contesté la primauté traditionnelle de la législation romaine, reconstruction politique, sociale
et économique, aboutissant à un renouvellement de la législation, à des codifications d’une
puissante originalité, souci de faire connaître ces institutions nouvelles et de les comparer
avec les efforts analogues qui se poursuivent dans le monde presque tout entier». Cfr. allora
anche P. DE FRANCISCI, Il diritto romano e la Germania, nel «Corriere della Sera», 18 maggio
1935, p. 5: «[F]a meraviglia […] che taluni uomini responsabili della Germania abbiano ripetutamente dichiarato di volersi ad ogni costo liberare da ogni infiltrazione del diritto romano, dalle sue idee, dal suo sistema, dalla mentalità da esso introdotta nella giurisprudenza
tedesca, che avrebbero per secoli aduggiato e compresso quello che sarebbe stato il rigoglioso sviluppo del diritto nazionale; e questo, per ricostruire il loro nuovo sistema su puri
principii e sulle concezioni genuine del diritto germanico. Posta la questione su questo terreno vien fatto anzitutto di domandarsi se sia veramente possibile che la Germania voglia
buttare a mare tutto il suo passato scientifico e la gloriosa storia della sua dottrina giuridica:
domanda che si ricollega al problema più generale dei rapporti fra tradizione e rivoluzione.
ma, anche ammessa la attuabilità di un simile programma iconoclasta, conviene chiedersi
quale sia la fase storica alla quale i professori tedeschi vorranno risalire per ritrovare un
complesso di principii giuridici, un sistema comunque rudimentale, un testo o un documento, di cui possano affermare con sicurezza che esso è immune da influssi romani. Anzi,
come faranno questi studiosi a mondare il loro cervello dalle tracce di una educazione secolare e a liberarsi dai procedimenti logici e dai metodi interpretativi e costruttivi che i Romani o i giuristi formatisi nelle fonti romane hanno diffuso in tutto il mondo civile?». ma
v. allora il famoso saggio di F. DE mARTINO, Individualismo e diritto privato romano, in «Annuario», 1941, vol. XVI, p. 1 ss., che difende bensì il diritto romano, ma in quanto naturaliter
anti-individualistico, e dunque tale da non poter essere «nei tempi moderni asservito ai fini
delle istituzioni plutocratiche» (p. 1). Cfr. sul punto SOmmA, I giuristi, cit. nt. 2, pp. 263-310
11
374
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
correre nuovamente e analiticamente la storia del diritto comparato italiano,
a partire dal seguente rilievo retrospettivo di Tullio Ascarelli:
Chi osservi la dottrina italiana, specialmente dopo la prima guerra europea, può forse notare, ad esempio, un progressivo accentuarsi dell’indirizzo positivista (nel senso nel quale questo termine viene usato nel diritto
privato, chè diverso e anzi a volte opposto è il suo significato nelle dispute
metodologiche nel diritto penale) e della giurisprudenza concettuale, a
volte degenerante in virtuosismo o bizantinismo. Una certa indifferenza
metodologica della nostra dottrina giuridica, rimasta sostanzialmente
estranea alle dispute metodologiche così vive in Francia, Germania o negli
Stati Uniti, si è tradotta in una acce[n]tuazione della metodologia positivistica, seppure a volte abbandonata nel campo del diritto commerciale.
(E potrebbe domandarsi se l’unica istanza antipositivistica (e certo anticoncettualistica) nel nostro diritto privato non sia stata proprio quella del
VIVANTE assai più vicino sotto questo aspetto alle correnti internazionalmente prevalenti). Il carattere rigido e autoritario del nuovo Codice civile
finirà per porre probabilmente alla dottrina italiana il problema metodologico e quello stesso della natura della codificazione e dei limiti nei quali
può ravvisarsi opportuna una disciplina legislativa e competente la legge.
Può forse ricorrere una qualche analogia con la situazione tedesca dopo
il Codice civile, quando la rigidità del codice, in contrapposizione al sistema del diritto romano comune, pose appunto alla dottrina tedesca il
problema dell’interpretazione che venne allora risolto col ricorso a quella
che si disse la giurisprudenza degli interessi forse complementare, anziché
contrapposta [,] al purismo logico della scuola di Vienna12.
Sono parole significative, che ci danno un buon quadro di sfondo, rilevante anche per le vicende del diritto comparato, e in particolare rispetto
alla sua funzione, se vogliamo dire così, di coscienza critica della dogmatica
giuridica; una dogmatica che allora si incontra e si scontra con la politica:
(ivi, alle pp. 303-304, è pubblicata una lettera di de Francisci a Costamagna, «a difesa del
diritto romano», che va nello stesso senso dello scritto di De martino: «Chi, come me, ha
avuto la costanza di portare la sua indagine non solo nel campo del diritto privato, ma
anche in quello del diritto pubblico romano, ed è riuscito così a costruire il quadro di tutto
il sistema, sa troppo bene come in esso il momento statuale sia ben più forte dei momenti
individualistici: e come proprio le concezioni fondamentali dello stato, della sovranità, dell’autorità, della gerarchia, abbiano avuto la loro prima espressione concreta nel diritto pubblico romano») (p. 303).
12
ASCARELLI, Recensione, cit. nt. 10, pp. 397-398.
375
m. GRONDONA
nei casi migliori con la politica del diritto; nei casi peggiori con una politique
politicienne.
Orbene, grazie ad alcune intraprese sistematiche e allora pionieristiche
in Italia (e qui naturalmente penso, soprattutto, all’«Istituto di studi legislativi» e alla sua Rivista, l’«Annuario di diritto comparato e di studi legislativi»,
fondati da Salvatore Galgano nel 1925/192613, nonché all’«Unidroit», fondato nel 1926 e ufficialmente inaugurato il 30 maggio 192814)15, fin verso
Si v. S. GALGANO, Per un Istituto di studi legislativi, in «Rivista internazionale di filosofia del
diritto», 1926, p. 10 ss. e ID., Per un Istituto di studi legislativi, in «Annuario», 1927, vol. I, p.
3 ss. (sono molto grato a Giovanni Chiodi, che mi ha amabilmente trasmesso queste ultime
pagine, oltre alla breve Prefazione, in realtà senza titolo, che apre il vol. I dell’«Annuario»,
pp. VII-IX: v. infra, § 6). I due testi qui appena richiamati, del 1926 e del 1927, tranne che
nel primo capoverso, sono identici e hanno il loro capostipite, in base a quanto afferma
lo stesso Galgano nella nota contrassegnata con un asterisco che accompagna lo scritto
uscito nel 1926, in una comunicazione letta nel dicembre del 1923 e poi pubblicata nel
1924 nel volume degli Atti della «Società italiana per il progresso delle scienze»: ciò si dice
non per pedanteria ma unicamente per attestare il lungo lavoro preparatorio svolto con
tenacia da Galgano. Cfr. allora A. PROCIDA mIRABELLI DI LAURO, voce «Galgano, Salvatore», nel Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E.
Cortese, A. mattone, m.N. miletti, vol. I (A-Les), il mulino, Bologna 2013, p. 932 s., nonché L. CARIOTA-FERRARA, Salvatore Galgano (necrologio), in «Annuario», 1965, vol. XXXIX,
p. V s., e la voce, non firmata, «Galgano Salvatore», in «Novissimo Digesto Italiano», vol.
VII, Utet, Torino 1961, p. 735.
14
Cfr. m. PILOTTI, L’activité de l’Institut international pour l’unification du droit privé (19261946)/Activity of the International Institute for the unification of private law (1926-1946), in L’unification du droit/Unification of Law, Éditions “Unidroit”, Rome 1948, p. 14 ss., a p. 17:
«The Institute was founded in 1926 and officially inaugurated on may 30, 1928. The Italian
Government placed the Aldobrandini Palace in Rome, owned by the State, at the disposal
of the Institute and there its offices were established. The Italian Government undertook
also at its own expenses the construction and installation of a library, with space for
200,000 volumes», nonché m. mATTEUCCI, voce «Unificazione internazionale del diritto
privato», in «Novissimo Digesto Italiano», vol. XX, Utet, Torino 1975, p. 8 ss. Si v. allora
SOmmA, I giuristi, cit. nt. 2, pp. 363-365, ove il testo del «R.D.-L. 3 settembre 1926, n. 2220
– Approvazione della fondazione in Roma di un Istituto internazionale per l’unificazione
del diritto privato, in Gazz. uff., 8 gennaio 1927, n. 5». Nel «Corriere della Sera» del 31
maggio 1928, p. 3, si dà ampia e dettagliata notizia dell’evento inaugurale ed è ivi trascritto
il discorso pronunciato nell’occasione da mussolini, il quale, tra l’altro, ebbe ad affermare:
«Voi, o signori, siete venuti a iniziare qui un’opera ardua e delicata, ma importantissima,
perché grande sarà l’influenza benefica che essa potrà esercitare sulle pacifiche relazioni
fra i popoli. Ho detto opera ardua e delicata. Noi ben sappiamo quanto talune materie di
diritto privato siano legate alle tradizioni, agli usi e ai costumi, talvolta alle necessità stesse
dei diversi Paesi, per non vedere la difficoltà e la complessità dei problemi che siete chiamati a risolvere. ma voi siete tutti, o signori, dei maestri del giure, e cioè della scienza che
insegna a contemperare i principi ideali e le necessità concrete. E voi saprete quindi trovare
quel giusto mezzo che vi permetterà di raggiungere i maggiori risultati positivi. Oggi si
presenta a voi un problema delicato e complesso, che comporterà un lavoro di unifica13
376
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
la metà degli anni Trenta (e potremmo forse allora dire fino al 1936/1937,
se guardiamo al diritto comparato dal punto di vista della politica estera
del regime, sulla base di quanto osserverò in chiusura, al § 7), il diritto comparato e la comparazione (e quindi le loro funzioni, nonché i mezzi per
perseguirle) non subirono particolari pressioni snaturanti, a cavallo tra l’autoritarismo politico e l’esacerbato e assai retorico nazionalismo di stampo
imperialistico16, come è poi invece rapidamente e piuttosto convulsamente
zione, di assimilazione, di coordinamento; opera, cioè, più o meno radicale a seconda delle
possibilità, ma opera sempre preziosa ai fini che l’Istituto si propone, che sono quelli di
facilitare l’armonica coesistenza delle diverse leggi nazionali nel campo del diritto privato».
15
A. TRIPICCIONE, La comparazione giuridica, Cedam, Padova 1961, p. 54, identifica erroneamente i due Istituti.
16
Cfr. in questo senso i rilievi di G. ALPA, Salvatore Galgano, in Diritto civile del Novecento:
Scuole, luoghi, giuristi, a cura di G. Alpa, F. macario, Giuffrè Francis Lefebvre, milano 2019,
p. 283 ss., spec. pp. 291-292 (rilievi ancor più significativi perché riferiti agli anni Quaranta):
«Nel 1940 prevalgono gli scritti di giuristi tedeschi, sì da far pensare all’Annuario [di diritto
comparato e di studi legislativi] come ad uno strumento dell’Asse dei giuristi italiani e tedeschi […]. E tuttavia l’annata riporta studi di legislazione straniera relativi a Paesi non
coinvolti nel conflitto, e saggi di autori italiani di chiara ascendenza ebraica. Nel 1941 si
pubblicano ancora studi di giuristi tedeschi e francesi, ma anche contributi riguardanti il
Canada, l’Iran, l’Argentina e altre esperienze ancora. Rare, e lievi, sono le tracce lasciate
dalla dittatura sugli indirizzi culturali e sui saggi pubblicati dalla rivista. E lo stesso Pietro
De Francisci, che certo non era lontano dal Regime, in un bel saggio dal titolo Idee per un
rinnovamento della scienza del diritto (1942), unisce la storia alla comparazione, e pur lodando
l’ideologia imperante, delinea una nozione di diritto che si segnala per la sua modernità:
“contro i puristi della dogmatica” egli sostiene che “il diritto è una di quelle realtà della
vita sociale che, per essere compresa, deve essere studiata nella sua esistenzialità, nella sua
empiricità, nella sua storicità, e in relazione con tutti gli altri elementi costituenti la forma
e il contenuto di una civiltà, in una determinata fase di sviluppo di un popolo”» (corsivo
orig.). Vanno altresì visti: E. CALZOLAIO, Interessi e scopi della comparazione in Italia tra il primo
e secondo dopoguerra: l’esperienza dell’«Annuario di diritto comparato», in «Rivista trimestrale di
diritto e procedura civile», 1999, p. 207 ss., il quale, a p. 218, rileva che «l’Annuario costituisce una testimonianza evidente del fatto che, in un periodo travagliato quale è stato
quello del fascismo, caratterizzato per molteplici e noti aspetti da una profonda chiusura
politica, in cui davvero sembrerebbe essersi consumata in modo definitivo la rottura dello
ius commune, il giurista, proprio in questo periodo, si mostra aperto alla comunicazione con
altri ordinamenti, attento a non considerarsi avulso dalla realtà esterna, sensibile alla progressiva internazionalizzazione degli scambi e quindi dei rapporti giuridici: in una parola,
cosciente di sé e del proprio compito»; e A. PROCIDA mIRABELLI DI LAURO, L’Annuario di
diritto comparato nel pensiero giuridico del primo Novecento, in «Annuario», 2010, p. 39 ss., il quale,
a p. 41, sottolinea, della rivista, la «sorprendente concezione anti-positivistica ed anti-dogmatica [, che] riposa su una chiara idea della comparazione, nella sua valenza storica, quale
indispensabile strumento di comprensione culturale del diritto». Peraltro, che sia più che
opportuno ripercorrere la storia italiana del diritto comparato negli anni del fascismo mi
pare significativamente testimoniato dalla circostanza che G. GORLA e L. mOCCIA, Profili
di una storia del «diritto comparato» in Italia e nel «mondo comunicante», in «Rivista di diritto civile»,
377
m. GRONDONA
accaduto (certo, tra luci e ombre), con la perniciosa conseguenza di incidere
sulla vocazione autenticamente scientifica del diritto comparato, così sterilizzandone la forza propulsiva e propositiva, anche in funzione anti-dogmatica, ovvero, e meglio, anti-concettualistica, per riprendere qui la
prospettiva di Ascarelli poco sopra riferita (egli scriveva nel 1950, ma si
tratta di una linea di ragionamento assai prossima a, se non coincidente
con, come vedremo, quella di Salvatore Galgano e di mariano D’Amelio).
Si dovranno pertanto attendere gli anni Cinquanta, ai fini di una rinascita della comparazione, trovandosi però allora essa a dover fare innanzitutto i conti con l’afflato neo-sistematico dei civilisti italiani dell’epoca:
comparazione e dogmatica vivono dunque costantemente un rapporto non
facile, o comunque non lineare.
ma, al di là delle interconnessioni tra comparazione e dogmatica, al di
là del contesto di sfondo, l’aspetto più notevole della questione oggetto di
queste mie pagine mi pare il seguente: a partire dalla metà degli anni Venti,
il diritto comparato è utilizzato, e il ricorso alla comparazione è favorito,
dal fascismo (altrimenti neppure si comprenderebbe il senso degli ingenti
finanziamenti elargiti alle due imprese politico-culturali sopra richiamate),
al fine di perseguire l’ideale di un progressivo avvicinamento degli ordinamenti di quelle che allora usava definirsi ‘nazioni civili’ o ‘nazioni evolute’,
in vista di un diritto universale o assai prossimo all’universalità, dunque andando ben oltre le esigenze di armonizzazione17.
Ecco che, allora, la riflessione (qui solo tracciata nelle sue linee essenziali)
dovrà soffermarsi anche sulla seguente tematica: se, in che misura, e con
quali esiti, l’elemento transnazionale intrinseco al diritto comparato, e cioè
l’idea di un diritto comparato strumento quasi ovvio di migliore compren1987, I, p. 237 ss., non si soffermano sulla comparazione negli anni Trenta e Quaranta
(ma in realtà è del tutto ignorata la prima metà del Novecento, se non per un cenno alla
figura di Giorgio Del Vecchio e alla sua opera di taglio comparatistico, p. 256, peraltro ivi
negativamente qualificandolo «tardo assertore» di una «scienza universale del diritto comparato» – queste ultime sono parole dello stesso Del Vecchio –, al celeberrimo congresso
di Parigi del 1900, p. 258, nonché alla nascita dell’Unidroit, p. 260), passando infatti dal
diritto comparato nella seconda metà del secolo XIX (come suona la parte finale del titolo
del § 7), pur con le precisazioni che ho appena fatto, al periodo che va dalla seconda guerra
mondale in avanti (§ 8). Naturalmente va precisato che l’Annuario di Galgano non esaurisce le vicende (anche rispetto ai problemi di cui si parla nel testo) della comparazione in
Italia negli anni Trenta.
17
molti e condivisibili rilievi in H.C. GUTTERIDGE, L’atteggiamento dei paesi anglosassoni verso
il diritto comparato, in «Rivista di diritto privato», 1932, I, p. 89 ss.; cfr. anche m. ROTONDI,
Per lo studio delle riforme legislative e del diritto comparato, in «Rivista di diritto civile», 1926, p.
169 ss. Più in generale cfr. S. FERRERI, voce «Unificazione, uniformazione», in «Digesto
delle discipline privatistiche, sezione civile», vol. XIX, Torino, Utet 1999, p. 504 ss.
378
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
sione reciproca, sia stato usato dal regime, almeno nelle intenzioni, bensì
quale mezzo di propaganda politico-culturale, ma tuttavia non in senso imperialistico, onde attribuire al diritto italiano, e in senso più ampio alla cultura
politico-giuridica italiana (o, come allora volentieri si diceva, e in senso più
ampio, alla ‘civiltà italiana’), una funzione sì di guida rispetto agli altri ordinamenti, quantomeno dell’Europa continentale, ma pur sempre nel segno
di una internazionalizzazione non prevaricatrice del ‘modello italiano’ (potremmo forse parlare di una internazionalizzazione competitiva e non autoritaria, che dunque non smarrisce l’elemento della transnazionalità nel
senso appena richiamato: e v. quanto ancora dirò infra, al § 2, rispetto al rapporto tra internazionalizzazione giuridica e internazionalizzazione culturale).
Che l’orgoglio culturale possa tradursi in desiderio di predominio, è
cosa nota. ma proprio perciò si tratta allora di capire se il diritto comparato
non abbia invece svolto altresì (o, in certi momenti, soprattutto) la funzione
di stemperare quelle tendenze imperialistiche presenti nella politica italiana
del regime già a partire dai primi anni Trenta.
Lungo questa linea, ciò che ha rilevato Ascarelli in riferimento al positivismo giuridico statualista, e come tale chiuso alla comparazione, va pertanto inteso e compreso, a mio avviso, in due direzioni, e forse anche
postdatato, o meglio esteso temporalmente onde coprire anche gli anni del
secondo dopoguerra: da un lato, c’è il nazionalismo fascista sfociato nel
colonialismo politico-giuridico di stampo imperialista, ma dall’altro – e qui
il riferimento è all’immediato secondo dopoguerra – c’è anche una metodologia giuridica che in certa misura si è ripiegata su se stessa, così rinunciando a quell’afflato universalistico indubbiamente alla base di quegli
ambiziosissimi e ammirevoli progetti giuridico-culturali degli anni Venti e
della prima metà degli anni Trenta (una cultura, beninteso, non solo di
stampo e di impianto accademico, ma rivolta a un vasto tessuto, tanto economico quanto politico-amministrativo, e soprattutto improntata a promuovere le relazioni economiche italiane in chiave appunto transnazionale,
come più avanti espressamente si vedrà). In altre parole, la comparazione
italiana, indebolita, prima, dall’imperialismo fascista18 (peraltro largamente
velleitario, e tendenzialmente retorico), è stata, poi, ulteriormente pregiudicata da un approccio neo-sistematico dal quale, per fare il nome probabilmente più illustre, è stata salvata dall’avvento del Gino Gorla
comparatista, che è riuscito a trarla dalle secche statual-concettualistiche19.
18
Per alcune indicazioni di contesto e alcune periodizzazioni v. il classico lavoro di A. DE
GENNARO, Crocianesimo e cultura giuridica italiana, Giuffrè, milano 1974, spec. pp. 354-366.
19
Cfr. G. GORLA, Interessi e problemi della comparazione fra il diritto nostro e la «common law»
379
m. GRONDONA
2. Il diritto comparato quale cultura ‘di avanguardia’
Fatta allora questa circoscritta premessa per chiarire almeno l’impostazione generale e gli obiettivi del presente lavoro, vorrei ora soffermarmi su
di una questione apparentemente lontana dal tema di queste pagine e del
nostro convegno, ma che invece può, a mio avviso, essere richiamata proprio in relazione a quella prospettiva culturale cui necessariamente va ricondotta anche la vicenda del diritto comparato, negli anni del regime e in
particolare negli anni Trenta. Ciò si fa, è evidente, a partire dalla constatazione che il diritto, in quanto scienza umana e sociale20, non solo è influenzato dagli altri ambiti sociali, a sua volta influenzandoli, ma assume una
rilevanza culturale (e in questo senso anche politica), che può comprendersi
solo all’interno di ciò che complessivamente accade all’interno della struttura sociale.
È questa la ragione per cui vorrei brevemente richiamare l’attenzione
del lettore non già su di un documento storico, e lontano nel tempo, ma su
di una recensione scritta da uno studioso ben noto e pubblicata su di un
quotidiano pochi mesi fa21. L’intervento di Giorgio Fabre, al quale mi sto
riferendo, mi pare assai significativo proprio perché, soffermandosi sul
tema delle traduzioni di autori stranieri durante gli anni del regime fascista,
fa emergere come il fascismo fosse assai favorevole alle traduzioni: ed è il
concetto stesso di traduzione (tema su cui molto insiste Salvatore Galgano
nel suo Annuario), appunto quale strumento di conoscenza dell’altro da
sé, che va contro un’idea nazionalistica di cultura22.
(1961), negli Studi in memoria di Tullio Ascarelli, vol. II, Giuffrè, milano 1969, p. 937 ss.
20
mutuo l’espressione riferita da marc Bloch alla storia: cfr. m. mASTROGREGORI, Introduzione a Marc Bloch, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 159. Del resto è ben nota la vocazione
comparatistica di Bloch e la sua preoccupazione rivolta all’uso delle esperienze comparate
(ibidem, p. 77), al fine della «trasformazione della storia in scienza comparativa dei fenomeni
sociali […]» (ibidem, p. 152). Cfr. ora A. SOmmA, Imparare dalla storia: riflessioni sul metodo del
diritto comparato e sul ruolo dei suoi cultori, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche»,
10/2019, <https://www.rivistaitalianaperlescienzegiuridiche.it/articoli-di/Somma%20Alessandro>
(ultimo accesso 30 luglio 2020), p. 129 ss.
21
G. FABRE, Da Kipling a Nietzsche, il caso delle traduzioni, in Alias, Domenica 10 novembre
2019, p. 7, <https://ilmanifesto.it/da-kipking-a-nietzsche-il-caso-delle-traduzioni-nelleditoria-italiana/> (ultimo accesso 25 marzo 2020). I volumi recensiti sono: CH. RUNDLE, Il vizio dell’esterofilia. Editoria e traduzioni nell’Italia fascista, Carocci, Roma 2019; A. FERRANDO, Cacciatori
di libri. Gli agenti letterari durante il fascismo, FrancoAngeli, milano, 2019; Stranieri all’ombra del
duce. Le traduzioni durante il fascismo, a cura di A. Ferrando, FrancoAngeli, milano 2019.
22
Cfr. infatti i seguenti passaggi che si leggono in FABRE, Da Kipling a Nietzsche, cit. nt. 21:
i) «[L]a nostra vera cultura, appunto “popolare”, del Novecento, non proviene da una strut380
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
tura dotta e letteraria – oltre che solo italiana. In realtà è esistita anche, ed è stata rilevante,
la tendenza a leggere e conoscere “in traduzione” la cultura degli altri paesi, i prodotti provenienti dall’estero. Si tratta di un fenomeno nato a partire dalla Prima guerra mondiale,
quando il rapporto con gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ma anche la Francia, la Germania, la
Russia sovietica e perfino la Cina e il Giappone, divenne improvvisamente intenso, curioso,
interessato: in una parola, cosmopolita. Arrivavano i gialli, i romanzi d’avventura, i racconti
di viaggio in tutto il mondo, Agatha Christie, Kipling… ma anche il comunismo russo e
Lenin, Remarque e la guerra, i primi incubi di Kafka, Simenon, i primi Freud e Jung. E gli
autori stranieri incominciarono a vendere anche tra le venti e le cinquantamila copie,
quando il record per quelli italiani (e oggi, dopo settanta-ottanta anni, non è molto diverso)
poteva essere tra le tre e le cinquemila: sono cifre che la dicono lunga»; ii) «Il regime fascista,
per esempio – è un pregio del libro di Rundle averlo studiato con grande cura, ricchezza
e precisione –, l’aveva capito, e fu in buona sostanza favorevole e abile nell’accettare le traduzioni in grande stile, che pure andavano contro un’idea nazionalista della cultura. Ci fu
qualche grosso problema con la guerra d’Etiopia prima, e con la persecuzione degli ebrei
poi. Ne seguirono l’“autarchia” e la persecuzione degli autori ebrei, a partire da quelli stranieri; così marinetti e la sua cricca tentarono di vincere in campo letterario e culturale una
battaglia che finalmente conduceva, dall’alto, a una esaltazione degli autori italiani. ma
anche in quel caso il regime fu prudente: diminuirono le traduzioni, soprattutto di autori
divenuti da un punto in poi “nemici” –, per esempio gli americani in quanto c’era la guerra.
ma sotto questo profilo non era un regime ottuso: occorreva ridurre, ma non si doveva
eliminare. Il caso di Americana, la celebre antologia Bompiani di autori Usa curata da Elio
Vittorini nel 1941 e poi nel 1943, ne è un esempio lampante: Rundle le dedica un capitolo
del suo libro, ricchissimo di documenti e testi. Americana un po’ misteriosamente rimase
in piedi, e ancora oggi non tutto è chiaro su quel che accadde, salvo il fatto che esistono
copie delle edizioni che avrebbero dovuto essere eliminate»; iii) «Belle storie, insomma,
che forse incominciano a spiegarci quel che è successo davvero nella cultura italiana. C’è
un episodio cruciale che colpisce, fra tanti altri. Lo ricorda sempre Anna Ferrando, e ha
per protagonista Luciano Foà, figlio di Augusto: entrato all’Einaudi circondato da grande
prestigio, fu lui a tentare di far pubblicare Nietzsche dalla casa torinese. ma venne respinto
con durezza da Delio Cantimori, per evitare di offendere gli autori della casa, Salvemini e
Gramsci: era la “vera cultura” italiana ad avere la corsia preferenziale. Dunque anche Nietzsche “in italiano” può dirsi figlio delle agenzie di inizio secolo, anche se si dovette aspettare
la Adelphi, fondata quindici anni dopo proprio da Foà, per farlo arrivare in Italia nel secondo dopoguerra. Salvemini e Gramsci meritavano tutto, non però l’eliminazione di
Nietzsche». Nella stessa linea, e in una sede pienamente scientifica, vanno allora richiamate
le osservazioni di una studiosa come monica Cioli, che anche nel testo verrà ripresa proprio
nella prospettiva dell’internazionalismo culturale fascista in campo artistico-letterario, ma
rilevante anche con riferimento al diritto, e soprattutto al diritto comparato: m. CIOLI, Il
fascismo e la ‘sua’ arte. Dottrina e istituzioni tra futurismo e Novecento, Olschki, Firenze 2011, p.
326: «[I]l 13 luglio 1943 il direttore [della rivista “Pattuglia”] comunicava ai redattori che,
in accordo con il segretario federale, la redazione era sciolta e soppressa la pubblicazione
della rivista fino a nuovo ordine. Cosa era successo? mussolini era irritato con “Pattuglia”
per i contenuti non in linea con il partito, dove si esaltava “un decadente cinema francese,
la letteratura americana, autori e artisti stranieri ed ebrei”: giovani che non servivano la
causa del fascismo e andavano messi da parte. Pochi giorni dopo la rivista era sequestrata
e chiusa. Del resto, il controllo sulla stampa anche universitaria sia era fatto più stringente,
varie testate erano state già chiuse e anche a “Pattuglia” era giunta una lettera da parte della
381
m. GRONDONA
Questo riferimento a un internazionalismo culturale fascista, poi ripiegatosi su di un nazionalismo volto alla sterile difesa di una italianità ormai
largamente corrotta da una ragione politica sfociata in tragedia, ha trovato
una compiuta riflessione teorica in un notevole studio di monica Cioli23,
sul quale è utile brevemente soffermarsi.
mi pare si possa almeno tentare di tracciare (proponendolo appunto in
questa sede) un parallelismo tra avanguardie artistiche, e in particolare futurismo, e diritto comparato: se il futurismo è una significativa avanguardia
artistica le cui vicende possono e anzi debbono essere lette anche alla luce
della complessiva politica culturale del regime24, il diritto comparato può
essere inteso quale diritto di avanguardia, appunto nella prospettiva di un
internazionalismo tanto giuridico quanto politico-culturale che sarebbe un
errore cancellare, anticipando, e in particolare retrodatandola, l’involuzione
nazionalistica politico-giuridica che ha invece senza dubbio contrassegnato
la fase ormai avanzata del regime, ripercuotendosi essa, in particolare, proprio sull’ambito comparatistico, nonché politologico (v. infatti quanto si
dirà infra, al § 7).
Vi è allora di più, richiamandomi al discorso fatto al paragrafo precedente.
Valutare il ruolo del diritto comparato negli anni del fascismo (e in riSegreteria nazionale del Guf (Ufficio stampa e propaganda) per chiedere precisazioni circa
i criteri, giudicati discutibili, nel numero sulla pittura: l’abuso di traduttori, l’uso di Eluard
per spiegare De Chirico, lo spazio riservato all’ebreo modigliani, lo scarso rilievo dato ad
artisti come Soffici e, invece, il privilegio offerto a un gruppo di artisti che sarebbe da dimenticare».
23
mi riferisco appunto a CIOLI, Il fascismo e la ‘sua’ arte, cit. nt. 22, nonché a EAD., Anche
noi macchine! Avanguardie artistiche e politiche europee (1900-1930), Carocci, Roma 2018 [il volume è stato presentato all’‘Istituto della Enciclopedia Italiana’ il 24 maggio 2019, con la
partecipazione, oltre all’Autrice, di: Daniela Fonti, Guido melis, Pierangelo Schiera, Irene
Stolzi, Giuseppe Vacca: <http://www.treccani.it/magazine/webtv/videos/Conv_libro_Cioli.html>
(ultimo accesso 25 marzo 2020)]. Cfr. allora quanto ha osservato I. STOLZI, Un’irriducibile
complessità? Il fascismo fra immagini e realtà (A proposito di alcuni recenti volumi), in «Quaderni
fiorentini», 2019, vol. 48, p. 767 ss.
24
Cfr. in particolare CIOLI, Il fascismo e la ‘sua’ arte, cit. nt. 22, Introduzione, p. XI: «[È] stato
il futurismo a rivelare elementi particolarmente originali e interessanti che aiutano a capire
meglio il fascismo e la sua stessa avanguardia. E ancora, la nascita del futurismo nel 1909
e la sua metamorfosi – nel segno della continuità – durante il fascismo ha reso possibile
seguire in un quadro di relativa lunga durata l’evoluzione (e l’involuzione) dei ‘movimenti’
futurista e fascista. Perché di questo si tratta: di capire il sistema ‘costituzionale’ fascista
partendo da lontano, dall’ambiente culturale complessivo (politico, sociale e culturale insieme) precedente e successivo alla Grande guerra e di individuarne e isolarne gli elementi
di novità e di modernità, come pure in particolare quelli degenerativi, destinati ad arricchire
il quadro già a tinte fosche della dittatura italiana».
382
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
ferimento alla periodizzazione già più volte indicata), valorizzandolo alla
stregua di un approccio, se non rivoluzionario, quantomeno radicalmente
innovatore, può giustificarsi appunto all’interno della complessiva vicenda
culturale fascista25, caratterizzata (in una misura che senza dubbio andrà
meglio precisata, e ciò segnatamente nella prospettiva del diritto comparato)
da una tensione espansionista, ma non connotata in termini imperialistici:
se infatti rivolgiamo la nostra attenzione al diritto comparato, direi che ci
troviamo di fronte all’ambizioso (e culturalmente non velleitario) tentativo
di rinnovare la scienza giuridica italiana, che, potenziata grazie appunto all’apertura comparatistica, avrebbe potuto fornire un compiuto modello culturale, idoneo a assumere una proiezione internazionale. Il diritto
comparato, alla luce di queste considerazioni, non può quindi essere ridotto
a mezzo di difesa di particolarismi giuridici, ma è altrettanto vero che tali
spinte particolaristiche sono state nefastamente riprese dal regime fascista,
anche in chiave di una deleteria autarchia culturale e di uno sciovinismo
nazionalistico destinati ad assumere connotati non solo tragici, ma anche
grotteschi (e ritorna così l’inframezzarsi di luci e ombre).
Da questo punto di vista, aggiungerei allora – riprendendo un cenno
fatto poco sopra – che la vicenda del diritto comparato negli anni Trenta,
a ben vedere, non sfocia nemmeno in una fascistizzazione, intesa in senso
proprio, della comparazione, ma piuttosto in un abbandono di essa (il tentativo di snaturarla ne ha prodotto l’annientamento), per poi riprendere vigore, come appunto già notato, a partire dagli anni Cinquanta, e non senza
Ibidem, p. XIII: «Prima del fascismo è stata l’avanguardia futurista a irrompere sulla scena
immobile e ‘passatista’ dell’Italia, rivoluzionando il mondo borghese con una proposta
tanto geniale quanto eversiva: catturare il movimento – il flusso del tempo – nelle arti figurative per poi estenderlo in una utopica ‘ricostruzione futurista dell’universo’. La provocazione del futurismo non era tanto lo ‘schiaffo ed il pugno’ delle serate, dei manifesti,
dell’inno alla guerra ‘sola igiene del mondo’, ma l’idea di fondo che era dietro tutto questo:
l’idea cioè del tempo, della rivoluzione, della spinta in avanti. È qui che si compie il nesso
– supremo, perfetto, di nuovo geniale – tra il concetto di movimento temporale e il concetto di movimento sociale, oramai principio politico fondamentale e realtà incancellabile
sulla scena politica. Per il futurismo non si trattava soltanto di catturare il movimento nell’arte […] ma, nella convinzione di essere il movimento rivoluzionario per eccellenza, appunto nell’avan-guardia, questa esigenza coincideva con la necessità di ‘performare’
attraverso le opere d’arte, evidentemente dirette a chi era in grado di accoglierle e di recepirle, una nuova ‘aristocrazia’, una elite di tecnici, ‘la’ classe dirigente. È in questo senso
che si deve parlare di politicità futurista e su questo punto fondamentale si sono incontrati
futurismo e fascismo: il filo rosso che ha tenuto in vita il loro legame è stato infatti quello
di una tensione rivoluzionaria, modernizzatrice, che è sempre rimasta tale durante il loro
lunghissimo rapporto. Al centro dell’ambiziosissimo progetto della formazione della ‘tecnica’ il futurismo e il fascismo hanno fatto riferimento a due elementi altrettanto ambiziosi
e rivoluzionari come la scienza e l’arte».
25
383
m. GRONDONA
difficoltà: come se la grande esperienza acquisita sul campo negli anni Venti
e Trenta, nonché la cooperazione tra forze intellettuali italiane, europee e
extra-europee di cui l’Annuario di diritto comparato è davvero mirabile testimonianza, si fossero isterilite, perdendo così ogni forza anche sul piano
organizzativo. L’impulso alla comparazione non è stato dunque travolto
dalla caduta del regime; piuttosto, è rimasto silente e sottotraccia per una
serie di fattori facilmente immaginabili, a partire dalle vicende belliche, sì
che, da questo punto di vista, l’accento va posto più sul versante della continuità che non su quello della discontinuità26, con l’obiettivo di recuperare
storiograficamente il primo.
La sconfitta del regime, e soprattutto la sconfitta del fascismo quale rivoluzione, al contrario di quanto accaduto con riguardo alla vicenda delle
avanguardie artistiche e in particolare del futurismo27, non ha quindi prodotto, almeno in linea tendenziale, i suoi effetti negativi sul diritto comparato e sulla comparazione giuridica, che non solo, in un tempo abbastanza
breve, hanno ripreso vigore, ma si sono imposti quale imprescindibile necessità metodologica – certo con difficoltà, a causa di atteggiamenti di incomprensione e di cautela, quando non di vera e propria ostilità28.
26
In questa prospettiva è invece diverso, anzi opposto, l’esito del futurismo, letto appunto
nella chiave della politica culturale del regime fascista.
27
Cfr. ancora CIOLI, Il fascismo e la ‘sua’ arte, cit. nt. 22, passim, e EAD., Anche noi macchine!,
cit. nt. 23, passim.
28
Anche questo aspetto andrebbe scrupolosamente approfondito, ma, ad esempio, il pur
illustre e non certo conservatore, politicamente, Francesco messineo, nonché, come
espressamente scrive di sé stesso, «assai lontano da atteggiamenti nazionalistici», nei confronti della comparazione nutre un sentimento, se non ambivalente, quantomeno cauto;
una cautela che sfocia però poi nello scetticismo e nella contrarietà a essa, in chiave metodologica, quando si voglia immaginare che il diritto comparato e il metodo comparativo,
da strumenti di conoscenza di un diritto straniero, possano diventare, se non fonte di diritto interno, almeno argomento persuasivo, rilevando egli, in particolare, quanto segue:
«I rimedi ai mali sopra cennati [scil. «la soverchia indulgenza al principio sillogistico […]»:
ivi] sono stati cercati e trovati, senza pretendere di sostituire una nuova mentalità a quella
che è radicata nei giudici e nei giuristi dei Paesi in questione [scil. dell’Europa continentale]
e che corrisponde a una tradizione secolare e all’indole stessa e al tipo delle normative in
vigore: le mentalità difficilmente si importano, come difficilmente si esportano» [F. mESSINEO, Il contratto in generale, t. I, nel Tratt. dir. civ. comm., diretto da A. Cicu e F. messineo,
Giuffrè, milano 1968, spec. p. 22, nota 30, sub A), in fine; corsivo orig.]. La frase di messineo
citata in apertura di nota si legge ibidem, p. 22, nota 30, sub B). Da questo punto di vista, è
evidente la lontananza di messineo dalla sensibilità comparatistica non già meramente
teorica, ma operativa, appunto per superare determinate acquisizioni, non più appaganti,
della dogmatica, di un Tullio Ascarelli; e non è un caso che proprio un’analoga prospettiva
metodologica, fondata anch’essa su forti basi comparatistiche, sia stata adottata da marc
Bloch, onde opporsi a una determinata concezione della storia, appunto quella che «[…]
384
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
Quanto rapidamente osservato con riguardo all’internazionalismo del
diritto comparato italiano degli anni Venti e Trenta anche nella prospettiva
delle ‘avanguardie artistiche’ consente forse di spostare la riflessione (anche
qui condensata in un cenno) sull’annoso problema (o almeno tale fino a
un recente passato) della dimensione internazionale della cultura italiana
negli anni del regime: faccio di proposito questo richiamo perché negli anni
a noi più vicini va incontrando sempre più consensi la tesi che ribalta la
vulgata (di solito espressa avendo in mente, in particolare, il ruolo, in questo
senso convergente, di Croce e di Gentile) di una cultura italiana isolata perché provinciale, e, al contempo, provinciale perché isolata.
In questa direzione, e con particolare riferimento a Croce, sono senza
dubbio significative, anche per la loro inequivocabile nettezza, le parole
pronunciate da un illustre studioso di letteratura francese (e comparatista)
quale Francesco Orlando:
Credo che durante la grande stagione della critica positivistica l’Italia sia
ancora al passo. Non credo che nessuno dei grandi eruditi italiani, con
tutti i limiti del positivismo, fosse poi così inferiore, per fama forse sì ma
come valore penso di no, ai colleghi francesi o tedeschi. Dopo questo periodo sopravviene il fenomeno Croce che ha un’eco europea, come è noto,
in ambito di lingua inglese e tedesca ma assolutamente nessuno in ambito
francese; già questo fatto crea una sfasatura, un inizio di arretratezza. Nel
1919 succede qualcosa che Benedetto Croce disapprovava e contro cui
seppe prendere posizione in modo anche forte, rischiava la vita, poteva
essere assassinato dai fascisti; lungi da me far ricadere le colpe del fascismo
su Croce, egli ne fu una vittima e fu a modo suo persistente [rectius resistente] proprio rimanendo in patria. ma di fatto, senza alcuna colpa personale di Croce, la chiusura provinciale, xenofoba, nazionalista voluta dal
per Bloch non era una scienza: la “storia ufficiale” positivista e specialistica, limitata alla
critica di ristrette tradizioni di documenti, noncurante dei problemi storici generali e delle
questioni vive nella cultura del presente»: così mASTROGREGORI, Introduzione a Bloch, cit.
nt. 20, p. 6. Ora, questa cautela, in messineo, frammista a sincera ammirazione, verso il
diritto comparato non può che colpire, se appunto si considera il fervore comparatistico
degli anni Venti e Trenta (e colpisce ancora di più che egli qualifichi nel complesso velleitari
gli approcci comparatistici anteriori a Gorla). messineo esprime infatti il proprio apprezzamento per Gino Gorla [in particolare, afferma che a Gorla va anche il merito, tra «le
alte benemerenze di questo nostro valoroso Scrittore […]», di aver «dato, presso di noi,
vivo impulso a quel comparatismo giuridico, che sinora era relegato in meri enunciati programmatici, per molta parte velleitari»: ibidem, p. 24, nt. 30, sub F)], ma poi, garbatamente,
polemizza con lui: «[C]hi scrive non si abbandonerebbe agli entusiasmi del Gorla per l'empirisimo inglese [...]»: ibidem, p. 22, nt. 30, sub B).
385
m. GRONDONA
fascismo venne a coincidere con una dittatura crociana totale e senza margini, senza spazi di libertà se non minimali29.
Ho richiamato le parole di Orlando perché esse esprimono benissimo
la tesi, per così dire ‘bipartita’, della doppia dittatura: politica e culturale, sì
che un oppositore del regime (Croce) diventava un alleato del regime nella
prospettiva culturale, e così addirittura ricomponendosi la frattura tra Croce
e Gentile nel segno di un’autarchia culturale quale fondamento del regime
fascista.
Studi recenti e pregevoli si muovono però lungo una linea assai diversa30, che appunto ripensa e contrasta il supposto isolamento italiano
negli anni Venti e Trenta, sottolineando, al di là dei punti di contatto tra
cultura italiana e cultura europea (ma anche extraeuropea), la collocazione
e le prospettive tutt’altro che anguste, in ambito principalmente filosofico,
dell’Italia.
Questo, allora, può essere il contesto, in senso lato culturale, dal quale
Le parole citate si leggono nella Conversazione con Francesco Orlando, a cura di A. Diazzi e
F. Pianzola, Pisa, 26 giugno 2009, in Entymema, 1/2009, p. 187 ss., a p. 191. La rivista è liberamente consultabile al seguente indirizzo: <https://riviste.unimi.it/index.php/enthymema/
article/view/421> (ultimo accesso 25 marzo 2020): nella stessa pagina sono disponibili i
video dell’intervista.
30
Penso, in particolare, allo splendido (e destinato a imprimere una significativa svolta
nella ricerca) volume collettano Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, direzione scientifica e prefazione di m. Ciliberto, Istituto della Enciclopedia Italiana, Torino 2016. Qui
mi limito a richiamare i seguenti passaggi tratti dalla ‘Prefazione’, p. XXI: «Quest’opera
nasce da una duplice persuasione: Benedetto Croce e Giovanni Gentile sono due classici
della filosofia contemporanea; nell’ambito della filosofia, e della cultura, europea, la ‘tradizione’ italiana ha caratteri specifici, che vanno analizzati e giudicati in forme adeguate.
Non è una persuasione scontata, e infatti non è ancora condivisa in modi unanimi: a lungo
Croce e Gentile sono stati al centro di contrasti di carattere ideologico e politico che hanno
condizionato, specie nel caso di Gentile, la possibilità di un giudizio equanime sulla loro
opera»; p. XXV: «Questo volume nasce dalla volontà di valorizzare sia le differenze sia le
convergenze, come appare chiaro dalla scelta di mettere in relazione Croce e Gentile con
i più significativi esponenti della cultura europea della prima metà del secolo: Heidegger
e Husserl, per fare un esempio. La consapevolezza dell’esistenza della ‘nazionalità’ delle
filosofie deve essere infatti concepita quale luogo di apertura e di confronto con il ‘diverso’,
e non di chiusura in rigidi confini, sempre estranei alla discussione filosofica e, in modo
particolare, a quella novecentesca. ma l’individuazione delle differenze vale, come si è
detto, sia in generale sia in rapporto a Croce e Gentile. Un punto appare infatti chiaro e
si è tenuto presente nella progettazione di quest’opera: un neoidealismo italiano, al quale
apparterrebbero, senza distinzioni, Croce e Gentile, non esiste; e, d’altra parte, non esiste
una loro generica egemonia lungo tutta la prima metà del secolo. Sono entrambi miti da
sfatare, come appare evidente dall’analisi delle situazioni concrete, sia nel primo sia nel
secondo caso».
29
386
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
muovere per una riflessione incentrata sulla comparazione giuridica negli
anni del fascismo, e in particolare nel decennio 1930/1940.
3. Diritto comparato e internazionalizzazione: luci e ombre
Riprendo dunque quanto ho osservato all’inizio del discorso, cercando
di individuare alcuni elementi interni alla storia del diritto comparato italiano a partire dai quali fondare la tesi per cui, pur in un regime autoritario,
la funzione tanto culturale quanto politica del diritto comparato va intesa,
tendenzialmente (e almeno fino alla seconda metà degli anni Trenta), più
nel senso dell’internazionalizzazione della cultura giuridica31 che non di un
cieco (e senza dubbio, almeno nella fase finale del regime, anche fanatico)
nazionalismo, cioè più nel senso dell’apertura verso l’esterno dell’ordinamento italiano32, che non della sua chiusura: tale puntualizzazione, se ac31
Cfr. m. SARFATTI, Ciò che fa e ciò che può ancora fare un Istituto di diritto comparato, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», 1924, p. 70 ss., a p. 73: «È da sperare che ormai, colla
nuova riforma universitaria, la concessa autonomia permetta una vita florida a quegli Istituti
che, al pari dei francesi, venissero a svilupparsi attorno a cattedre di diritto comparato in
qualche nostra università; facendo tesoro della semenza gettata in questi ultimi anni coll’affidare incarichi di diritto comparato attinenti a diversi diritti stranieri, potremo giungere
a tripartire come in Francia questi studi e, conforme ai suggerimenti delle passate designazioni, a specializzare p. es. la facoltà di Pavia nelle legislazioni di lingua francese e lingua
spagnuola, tenendola in corrispondenza con Tolosa, quella di Padova nelle legislazioni germaniche, in relazione con Strasburgo, e lasciando a Torino le indagini di diritto inglese,
nella prosecuzione degli amichevoli rapporti ben iniziati e attivamente mantenuti con l’Istituto di Lione. Lo sviluppo di questi nuclei di studio non esclude tentativi analoghi in altre
università, e possono anzi valere a preparazione per un [I]stituto completo ed autonomo in
qualche grande centro commerciale, o addirittura per un Ufficio centrale governativo, magari
incorporato nell’Ufficio di legislazione presso il ministero della Giustizia, ove nessuno dei
diritti stranieri venga trascurato, e vi sia la possibilità di addivenire a periodiche discussioni
in relazione alle riforme legislative che avvengono all’estero ed a quelle via via prospettate
in Italia, esplicando così pure l’attività delle due fiorenti società scientifiche francesi: quella
di Législation comparée e quella d’Études l[é]gislatives; e lasciando prevalentemente ai vari Istituti
universitari la funzione di documentazione in riguardo ai singoli diritti da essi rispettivamente coltivati, a prezioso ausilio alle trattazioni degli affari, come alla soluzione di aspre
controversie giudiziarie ed alla elaborazione delle nostre leggi» (corsivo orig.).
32
Cfr. ID., Spontaneo avvicinamento di diritti tra loro, in «Rivista internazionale di filosofia del
diritto», 1929, p. 305 ss., a p. 305: «All’attuale sviluppo delle indagini giuridiche comparative
col conseguente reciproco riavvicinamento dei due sistemi fondamentali di diritto, il romano e l’inglese, nel campo degli studi, corrisponde, negli stessi sistemi giuridici, una reciproca, continua penetrazione. Non che i principî dell’uno siano presi di sana pianta e
trasportati nell’altro, senza che nemmeno in uno stadio preparatorio se ne regoli l’adattamento; sono le circostanze sociali, le quali sempre più si vanno assomigliando in tutto il
387
m. GRONDONA
colta, diviene rilevante proprio perché il diritto comparato opera quale elemento contrastivo, all’interno dello stesso ordinamento giuridico-politico
italiano, rispetto a quegli elementi intorno ai quali si è svolto e si connota
propriamente il fascismo, quale specie del genere totalitarismo: il razzismo,
il nazionalismo, l’irrazionalismo e l’antiliberalismo33.
In questa prospettiva, emerge subito come necessaria, anzi indispensabile, la dimensione internazionale, sovranazionale e transnazionale dello
stesso diritto comparato (come tale dunque sensibile all’assetto costituzionale, anche in chiave di riforma), strumento da mettere a frutto in chiave
di una politica del diritto che agisca nella direzione di un ordine giuridico
che può essere (e in certa misura deve essere) transnazionale34 proprio perché questa è la risposta comune degli ordinamenti (europei e extraeuropei)
a fronte di sottostanti comuni esigenze di carattere economico-sociale35, in
mondo civile, che inducono i vari ambienti ad eguali tendenze nei rispetti regolamenti giuridici; ma la conoscenza delle norme di diritto straniero, in parallelo con quelle di diritto
interno, soltanto, vale a facilitare ovunque la redazione di tali nuove disposizioni, che, pur
venendo in tempi attuali a corrispondere ad altrettante necessità locali, hanno radice in
altre legislazioni, e che dallo studio di queste, nella loro evoluzione giurisprudenziale, assumono il particolare adattamento all’ambiente di nuova formazione» (corsivo orig.), e a
p. 310: «Questi brevi accenni sono sufficienti a provare la sempre crescente necessità di
studi comparativi nel campo del diritto e la utilità grandissima che questi potranno trarre
dall’opera sistematica di appositi istituti; i resultati delle indagini compiute da singoli studiosi, ivi troveranno spontanea accoglienza, con l’appoggio di una bene organizzata collaborazione».
33
Così, alla lettera, A. RYAN, Storia del pensiero politico. Prefazione all’ed.it. di G. Borgognone,
Utet Università, Torino 2017, p. 648.
34
V. ora Il contratto ‘apolide’. La contrattazione transnazionale nel mercato globale, a cura di m. Foglia, ETS, Pisa 2019, e ivi in particolare le ampie considerazioni introduttive di A. GENTILI,
Autonomia privata e diritto applicabile nei contratti transnazionali, p. 9 ss., il quale ferma l’attenzione, tra l’altro, sul modello del contratto ‘apolide’ e del contratto ‘autarchico’, onde sfuggire «ai luoghi normativi in cui va a situarsi» (p. 10; ma si v. la discussione di cui alle pp.
10-12).
35
Da questo punto è significativa l’ottica di un autore sicuramente vicino al regime (il volume reca la dedica a stampa ‘a Benito mussolini’) quale Amedeo Giannini (cfr. G. mELIS,
voce «Giannini, Amedeo», nel Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit. nt. 13, p. 981 ss.: e
v. quanto se ne dirà ancora infra, § 7), che molto si adoperò, anche nel dopoguerra, quale
promotore di iniziative nella direzione di un diritto uniforme. ma qui faccio in particolare
riferimento a A. GIANNINI, Tendenze costituzionali, Zanichelli, Bologna 1933, che è una raccolta di saggi, tra i quali, nella prospettiva del testo, sono soprattutto utili il primo (uscito
nel 1928), intitolato Il rinnovamento del diritto pubblico, e il secondo, intitolato Il travaglio costituzionale del mondo contemporaneo (uscito in due parti nel 1931/1932). Nel primo saggio si
legge: «Se già prima del conflitto mondiale la natura internazionale di taluni servizi aveva
portato alla creazione di accordi destinati a dare un regolamento internazionale a taluni
servizi (poste, telegrafi, ferrovie, ecc.), il crescente internazionalismo ed i ravvivati traffici
388
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
mancanza delle quali l’afflato internazionalistico, o neppure potrebbe emergere, o, se esistente, non potrebbe che essere piegato e impiegato in direzione appunto imperialistica, dunque fondato sulla superiorità culturale di
talune esperienze storiche36 rispetto ad altre37.
del dopo-guerra hanno accentuato tali tendenze, portando al regolamento internazionale
di numerosi problemi di carattere sociale (sanità, assistenza) o del lavoro, con una rinnovata
spinta ad adottare norme uniformi per i traffici e le comunicazioni, o a creare addirittura
un diritto comune per il traffico marittimo e fluviale, per la T. S. F. [scil. telegrafia senza
fili], e, più fortemente, per il traffico aereo. Assistiamo così ad un rinnovamento profondo
e radicale del diritto amministrativo, del diritto marittimo, del diritto fluviale, del diritto
aeronautico, del diritto aereo, del diritto del lavoro, ecc.» (p. 5); «Profondissimo è infine il
rivolgimento del diritto internazionale pubblico. Se tutti gli Stati finiscono, in sostanza,
per lasciar da parte, quasi volendolo ignorare, il regolamento del cosiddetto diritto bellico,
limitandosi a condannare la guerra sottomarina, chimica (accordi [di] Washington), batteriologica (accordo di Ginevra) e invano si tenta a Washington ed all’Aia di dettar norme
per la guerra aerea e per la T. S. F. in tempo di guerra, d’altra parte, la creazione della
Società delle Nazioni, l’intensificarsi delle intese fra gli Stati americani, il vertiginoso aumento delle convenzioni internazionali, innovano profondamente il diritto internazionale,
fino al punto che già da taluni si vede imminente la creazione di un nuovo diritto internazionale, il quale, battendo in breccia il dogma della sovranità, la vecchia posizione dell’individuo nell’ordinamento internazionale, instaurando la giustizia obbligatoria, rivedendo
la posizione giuridica degli Stati, pone su nuove basi le relazioni internazionali, rinnova le
fondamenta del diritto internazionale e ne avvia una larga codificazione. In sostanza è
tutta la base del diritto internazionale che si tende a rinnovare con un orientamento radicalmente diverso» (pp. 6-7). Nel secondo si legge, in particolare riprendendo il concetto
da ultimo espresso dall’Autore, che «[u]na delle caratteristiche del movimento costituzionale del dopo-guerra è la crescente pressione internazionale. mentre parte della dottrina
costituzionale ed internazionale batte in breccia il dogma della sovranità dello Stato, arrivando fino alla negazione di esso in una forma quasi assoluta, numerosi impegni internazionali vengono a porre limiti, di intensità diversa, alla libera determinazione degli
ordinamenti costituzionali» (p. 16).
36
L’espressione ‘esperienza storica’, tanto più letta in connessione con l’altra, ‘struttura
sociale’, sono al centro del lavoro di storico di marc Bloch: cfr. di nuovo mASTROGREGORI,
Introduzione a Bloch, cit. nt. 20, p. 159.
37
Tuttora assai significativo è J. BRYCE, Imperialismo romano e britannico. Saggi. Traduzione e
prefazione di G. Pacchioni, Bocca, Torino 1907, p. 2: «Così si è venuto formando una
specie di nuova unità del genere umano, la quale si manifesta nei più stretti rapporti politici
e commerciali delle diverse parti del mondo; si palesa nell’affermarsi di alcune lingue come
lingue mondiali, destinate a servire quale mezzo di comunicazione fra popoli diversi, cui
apportano i tesori della letteratura e delle scienze accumulati dalle quattro o cinque nazioni
che sono alla testa del movimento civile; e si compendia nella diffusione di un tipo di
civiltà che è ovunque lo stesso nei suoi aspetti esteriori, e che è anche abbastanza uniforme
nel suo contenuto intellettuale, in quanto insegna a ragionare sui medesimi schemi e ad
applicare i medesimi metodi nella ricerca scientifica. Questa trasformazione si sta operando
da secoli, ma negli ultimi tempi si è svolta così rapidamente da lasciar quasi prevedere il
momento in cui sarà completa. Essa costituisce uno dei più grandi avvenimenti nella storia
del mondo».
389
m. GRONDONA
Beninteso, l’affascinante storia del diritto comparato italiano ha conosciuto anche questi lati (oscuri certamente, se considerati oggi, ma da storicizzare e contestualizzare, a pena di clamorose incomprensioni o vere e
proprie falsificazioni storiche, anche rispetto alle vicende personali degli
attori che di quelle vicende sono stati protagonisti o comunque a esse
hanno partecipato), ma si tratta di lati che, a mio avviso, vanno qualificati
come patologie in riferimento a una vicenda che, nel suo momento genetico, era invece orientata in tutt’altra direzione (donde la distinzione, sulla
quale però non mi soffermo ex professo, tra una politica ‘del’ diritto, e in particolare del diritto comparato, e una politica che ‘si fa’ diritto, così travolgendo, o largamente comprimendo, la dimensione autenticamente
scientifica di quest’ultimo, che invece non subisce snaturamenti nella prospettiva della politica del diritto)38.
Aggiungerei la seguente considerazione, di taglio più generale: è perfettamente possibile, come infatti è accaduto, che gli accennati aspetti dell’apertura e della chiusura dell’ordinamento italiano, in riferimento al diritto
comparato, coesistano, prevalendo a volte gli uni e a volte gli altri, e altre
volte confliggano, nell’arco temporale qui considerato. ma tutto ciò, allora,
non solo consente di affermare che il panorama offerto dal diritto comparato come materia e come metodo è senza alcun dubbio variegato, perché
si tratta quindi anche di impostare una nuova ricerca storiografica volta a
evitare ogni meccanica assimilazione tra il diritto comparato e gli strumenti
della propaganda di regime, separando appunto gli obiettivi comparatistici
contrassegnati da una pulsione universalista da quelli contrassegnati da una
pulsione imperialista (ma poi anche differenziando le specificità delle varie
pulsioni imperialistiche – v. i cenni che farò al § 7 richiamando la prospettiva
di Giovanni Pacchioni –, anche in riferimento alla questione, assai delicata
e quindi meritevole di una nuova riflessione critica, tanto più oggi, della
«tolleranza delle istituzioni e delle tradizioni indigene […]»39), onde appunto
Almeno in parte in questo senso è quanto rilevato da BIROCCHI, L’integrazione dell’Università nello Stato totalitario, cit. nt. 1, p. 38: «[B]isognava operare per far corrispondere il diritto ai valori della politica sotto l’imperio dello Stato. Non c’era separazione, ma solo
distinzione tra politica, diritto, economia».
39
Parole che si leggono in un illuminante scritto di un illustre islamista e bizantinista quale
A. D’EmILIA, Correlazioni fra sistemi giuridici e coscienza sociale (Note di diritto comparato), in «Annuario», 1938, vol. XIII, p. 185 ss., a p. 196. La citazione di cui al testo va ricondotta alla
sempre attuale questione dello «sfasamento fra coscienza sociale e sistema giuridico» (ibidem, p. 195), e l’Autore osserva: «Qualora una determinata società venga considerata non
già separatamente dalle altre […], bensì in connessione, in relazione ad un’altra società,
sorge un rapporto fra le due coscienze sociali e i due rispettivi sistemi giuridici, che ha la
maggiore importanza pratica nel fenomeno della colonizzazione, riflettentesi, dal punto
38
390
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
evitare di considerare il diritto comparato degli anni Trenta solo come l’altra
faccia di una politica estera aggressiva, o, forse ancora peggio, uno strumento intellettuale la cui inadeguatezza sarebbe in sostanza il frutto della
inconsapevolezza culturale degli stessi giuristi ‘comparatisti’ dell’epoca. Il
quadro è fortunatamente più ricco, come dovrebbe facilmente emergere
anche da un’indagine elementare come questa, che vuole solo indicare una
serie di aspetti nodali non solo per la storia interna del diritto comparato
italiano (che invero non è stata ancora scritta), ma anche (e in certa misura
soprattutto) per la storia politico-istituzionale dell’Italia. Il diritto comparato
è indubbiamente un capitolo di questa storia.
Che, dunque, le luci e le ombre, ma soprattutto le sfumature, abbondino, non potrà sorprendere l’osservatore40: e, da questo punto di vista,
soggiungerei che proprio la figura di Emilio Betti può assumere una significativa rilevanza in termini di strumento conoscitivo, e può allora essere
opportuno farne cenno.
Betti, nel secondo dopoguerra, svolse, in Egitto e in alcuni Paesi dell’America Latina, insegnamenti di diritto comparato e di metodologia della
comparazione, adottando una prospettiva che certo non può definirsi nazionalistica, sottolineando egli piuttosto gli spazi di collaborazione e di cooperazione tra ordinamenti diversi, a partire dalle esigenze, in senso ampio
sociali, a essi sottostanti41. Con una formula di sintesi, possiamo dire che,
se Betti non condivide, come valore in sé, l’idea della costruzione di un diritto uniforme, proprio perché ciò potrebbe rivelarsi un atto di imperio legislativo (nazionale o sovranazionale) a danno del sostrato socio-politico,
egli è poi invece favorevole a una progressiva armonizzazione giuridica,
perseguita soprattutto in chiave di diritto applicato, dunque mercé il diritto
vivente: un’armonizzazione rimessa pertanto più all’opera costantemente
integratrice del sistema giuridico svolta dalla giurisprudenza che non all’attività del legislatore, appunto nella prospettiva di un ordinamento giuridico
vivo e vitale perché impregnato di socialità.
ma lo scenario è invece assai diverso (e in non piccola misura opposto),
se si leggono alcune pagine del famoso (e per tanti aspetti tuttora ammirevole) corso bettiano di diritto processuale civile (uscito in seconda edizione
di vista giuridico, nel campo del diritto coloniale» (ibidem, p. 196).
40
Tengo presente qui in particolare ancora BIROCCHI, L’integrazione dell’Università nello Stato
totalitario, cit. nt. 1, p. 37.
41
mi riferisco a: E. BETTI, Cours de droit civil comparé des obligations (1957-1958), Giuffrè, milano 1958 e ID., Cours de droit civil comparé, II. Étude d’un système du code civil allemand (19621963), Giuffrè, milano 1965.
391
m. GRONDONA
nel 1936): tanto la voce del Betti comparatista degli anni Cinquanta e Sessanta è soave, rispettosa, aperta non solo alla comprensione dell’altro da
sé, ma alla diversità come tale (una diversità che ben potrà essere poi variamente giustificata, e al limite anche difesa, rispetto al contesto politico e
geografico – e tuttavia si tratta di una diversità che, in questo Betti, mai impedisce il dialogo e l’emersione dell’esigenza di ricercare un’intesa universalizzante, sempre possibile), quanto la voce del Betti processualista
(dunque giurista italiano ed esponente della dogmatica italiana) è dura,
sprezzante, intollerante di una diversità (una diversità rispetto alla cultura
e soprattutto alla ‘spiritualità’ germanica e italo-germanica) che qui, invece,
appare ai suoi occhi come inferiorità, prima di tutto culturale; una diversità
che non solo impedisce un progressivo e reciproco avvicinamento, tra determinate culture e quindi tra determinati ordinamenti, ma che soprattutto
esclude alla radice qualunque possibilità di reciproca comprensione. La ‘diversità spirituale’ quasi impone la distanza tra esseri umani, istituzioni, società, economie.
Orbene, in queste pagine, apparse a stampa nel 1936 ma licenziate a
fine dicembre del 1935, esemplari nella loro singolare negatività e asprezza,
Betti ha parole, direi, di scherno, sia per i processualisti francesi, i quali apparterrebbero a un ambiente culturale arretrato e non ancora giunto alla
maturità scientifica42, sia per i giuristi anglosassoni, accusati di infantilismo
giuridico nonché di sterile logicismo giuridico43, attenti, in sostanza, solo
ma per una valutazione opposta, apparsa nello stesso torno di anni, e pur riferita al
diritto civile, cfr. ad esempio G. TEDESCHI, Su lo Studio dell’applicazione del Diritto civile, in
«Annuario», 1932, vol. VII, p. 89 ss., a p. 98: «La giurisprudenza […] dovrebbe studiarsi
non soltanto discutendone le massime in rapporto alle norme ma, come già fanno i francesi, facendone la storia e ricostruendone il sistema, quand’esso è, più o meno accentuatamente, contra legem». È evidente che è la prospettiva metodologica come tale di Tedeschi
(improntata a un «programma di studio induttivo della vita giuridica […]», ibidem, p. 99,
sensibile dunque a «ricerche per le quali il giurista […] dovrà chieder l’ausilio dell’economista, dello statistico, del sociologo […]», ivi: e su Tedeschi v. ora B. GARDELLA TEDESCHI,
Cosa lascia chi fugge? Il pensiero di Guido Tedeschi in Italia dopo l’alià, in «Annuario», 2019, p.
845 ss.) a essere, almeno in questa fase temporale, inconciliabile con quella di Betti, volta
a costruire un sistema concettuale del diritto. ma del resto (e anche da questo punto di
vista la posizione di Betti assume il fascino non dell’ambiguità ma della varietà prospettica)
sarebbe ingiusto e errato qualificare anche ‘questo’ Betti alla stregua di un teorico esangue
volto a costruire una scienza pura: sono parole dello stesso Autore, citate quasi alla lettera,
che si leggono in E. BETTI, Diritto processuale civile italiano. Introduzione di S. Boccagna,
ESI, Napoli 2018 (è la rist. anast. della 2a ed., 1936), Prefazione, p. IX; né si può negare che
anche in questa sede, e fin dalla prima pagina della Prefazione cit., cioè p. VII, è ben presente
il riferimento al «costante riguardo alla interpretazione che di tali principî [di diritto processale] segue la giurisprudenza recente (massime dal 1930 ad oggi) […]».
43
ma anche qui, per una valutazione opposta, cfr. T. ASCARELLI, Il diritto comparato e lo studio
42
392
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
alle miserie della fattispecie concreta e non allo splendore dogmatico dei
concetti. Abbiamo così un orizzonte tanto politico-giuridico quanto culturale radicalmente contrapposto: da un lato, la scienza giuridica italo-germanica; dall’altro la non-scienza (cioè la pratica: una cattiva pratica,
beninteso, che va ben oltre la fedeltà al precedente e le tecniche, invero raffinatissime, di collocazione sistematica e di analisi dei precedenti) giuridica
inglese e statunitense, dispregiata tanto per il suo formalismo logicistico
quanto per il suo empirismo44.
L’impostazione di Betti è ovviamente ispirata a una lettura politica radicata su quella distinzione ‘amico/nemico’ che trascorre dal campo strettamente politico (con particolare riferimento alla politica estera dell’Italia
in quegli anni: e qui siamo appunto nel 1936)45 al campo tecnico-giuridico,
del diritto anglo-americano – a proposito dell’«Annual Survey of English Law 1928», London, 1929,
in «Annuario», 1930, vol. VI, p. 493 ss.
44
Queste, infatti, le esatte parole di BETTI, Diritto processuale civile italiano, cit. nt. 42, che si
leggono nella Prefazione (pp. VII-XX). Va detto che queste pagine, in chiave storiografica,
sono di estrema importanza, e dunque qui di seguito riporto alcuni passaggi direttamente
rilevanti non solo rispetto al discorso di cui al testo e relativo alla posizione di Betti (prima
e dopo la caduta del regime), ma anche alla complessiva traiettoria di questo mio scritto:
«La storia dei rapporti fra la scienza italiana del diritto e la scienza tedesca, specie per quanto
concerne il processo civile, offre un esempio bellissimo di siffatta trasmissione intellettuale,
assai feconda d’incitamenti e di progressi per la moderna nostra scuola, che alla scienza
tedesca ha attinto largamente gli strumenti per la costruzione dogmatica dei principî e degli
istituti processuali e per una valutazione critica delle norme vigenti. Di codesta benefica
influenza anche la presenta opera rende onestamente testimonianza – com’è giusto – ogni
volta che si trova ad affrontare problemi costruttivi di carattere generale, che i processualisti
tedeschi (qui richiamati nelle opere più rappresentative, in sobrie note bibliografiche) si
erano proposti bene spesso prima di noi. Quale progresso sia valsa per la scienza italiana
del diritto processuale codesta comunicazione d’idee con la scienza tedesca, può agevolmente mostrare un raffronto con le opere giuridiche di altri paesi, che da contatti con questa hanno invece preferito tenersi immuni. Chi si prendesse il gusto di raffrontare le
trattazioni del Garsonnet, del Japiot o del Crémieu con quelle del Wach, dello Hellwig o
del Chiovenda, del Pollak, dello Schmidt o del Carnelutti, del Plank, del Weismann o del
Redenti, del Kisch, del Goldschmidt o dello Zanzucchi, dello Stein, del Rosenberg o del
Calamandrei, non potrebbe sottrarsi alla netta impressione che i processualisti francesi appartengano (com’è stato autorevolmente detto) ad un ambiente culturale arretrato e non
ancora giunto alla maturità scientifica. Non parliamo degli anglosassoni: i quali, a prescindere da qualche sporadica eccezione (es. maitland), in genere parlano e scrivono [di] diritto
in una maniera addirittura infantile, piuttosto che da giuristi, da legulei e da trattatisti di logica formale (tipo H. Stephen) e, di fronte a fenomeni che a un giurista italiano o tedesco
solleverebbero problemi costruttivi del più alto interesse, non escono dalla contemplazione
meramente estrinseca e descrittiva» (pp. X-XI; corsivo orig.).
45
Cfr. E. BETTI, Scritti di storia e politica internazionale, a cura di L. Fanizza, Le Lettere, Firenze
2008, spec. p. 13 ss.
393
m. GRONDONA
e si traduce, in particolare, nell’imputazione, rivolta specialmente contro la
mentalità anglosassone, di rozzezza di ragionamento sfociante nella confusione categoriale e dogmatica.
Da questo punto di vista, quella flessibilità dogmatica e quel relativismo
dogmatico che lo stesso Betti volentieri riconosce come fisiologici solo
poche pagine prima46 (ed è infatti questo l’approccio che, nel dopoguerra,
verrà recuperato e messo bene a frutto appunto, soprattutto, direi, nei suoi
corsi e nelle sue lezioni di diritto comparato – sui quali ho poco sopra richiamato l’attenzione –, nei quali si trova del resto anche abbozzata, e non
sarà un caso, una teoria generale della comparazione nella prospettiva della
teoria generale dell’interpretazione, così attribuendo alla comparazione un
alto valore conoscitivo, e in senso proprio ermeneutico, appunto al di là
delle differenze tra i singoli diritti nazionali) qui sono presenti solo come
petizione di principio (del resto, tutta la prefazione, datata 27 dicembre
1935, e che si chiude richiamando parole di mussolini, incitanti alla lotta e
all’impegno di tutti, e quindi anche degli intellettuali, è in sostanza una dichiarazione di guerra rivolta alla Società delle Nazioni47, da cui peraltro
l’Italia uscì pressoché due anni esatti dopo, l’11 dicembre 193748), e lo
sguardo a taluni diritti ‘stranieri’ è rivolto con l’unico scopo di affermarne
la lontananza dal diritto romano-germanico – una lontananza che evidenBETTI, Diritto processuale, cit. nt. 42, spec. pp. X-XI: «Certamente, parlando di dogmatica,
non intendiamo già un sistema chiuso di concetti rigidi e di principî sempre identici, buoni
a render ragione del fenomeno giuridico in ogni tempo e in ogni luogo. Se la dogmatica
è rappresentazione concettuale di un diritto positivo storicamente determinato, è chiaro
che alla differenza della disciplina positiva deve anche corrispondere, dove occorra, una
differenziazione dogmatica. ma la differente disciplina positiva non esclude, anzi presuppone, l’applicabilità di certi concetti e principî generali comuni e quindi – almeno fra diritti
positivi contemporanei appartenenti ad ambienti culturali affini – la comunicabilità di siffatti
concetti e princip[î] dall’un diritto all’altro, quando la loro scoperta ed elaborazione abbiano avuto inizio sul terreno del primo» (corsivo orig.).
47
Ibidem, p. XVIII, Betti parla di «quel sottile veleno morale che ha operato nell’orbita
della league of nations, costringendo persino i rappresentanti di grandi nazioni europee
amiche, quali la Francia e la Spagna, a mettersi contro l’Italia, cioè contro la solidarietà
europea». V. allora infra, testo e nt. 154.
48
Cfr. PILOTTI, Activity, cit. nt. 14, p. 17: «According to its Statute of 1926, the Institute
was closely connected with the League of Nations; but such connection was no longer
possible when the Italian Government decided to quit the League. In 1937, the Italian
Government therefore gave a two-years’ notice, as required by Article 11 of the Statute,
for the termination of the agreement made in 1926, on which the Institute had been
founded. The Italian Government, however, declared that the Institute would continue
to exist as an autonomous organisation, and the League of Nations acknowledged that
the Library remained the property of the Institute».
46
394
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
temente è tale a partire da ragioni strettamente politiche49, che sfociano in
quelle culturali, poi anzi con queste ultime fondendosi. Non può dunque
stupire che questa svilente descrizione, guardando all’Europa continentale,
del diritto processuale francese sfoci nella reiterazione della critica rivolta
al famoso progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti
del 1927, ovviamente a partire dall’incompatibilità culturale, e in particolare
spirituale, tra Francia e Italia:
L’argomento ci ha condotto a parlare della riforma dei codici. Ebbene, ci
sia lecito cogliere l’occasione per dire ancora una parola contro la progettata unificazione legislativa con la Francia, poiché quanto scrivemmo a suo
tempo sopra un tema di così grave importanza non trovò negli illustri
contraddittori quello spirito di comprensione larga e serena che avevamo
ragione di attenderci. Non sarà mai ripetuto abbastanza che il diritto, e
particolarmente il diritto privato, non è una sovrastruttura artificiale che
si possa foggiare come meglio piaccia: esso penetra nelle fibre più intime
della struttura sociale, dà la soluzione dei problemi più delicati della convivenza civile, e nel riflettere le concezioni dominanti in un dato ambiente
storico, esprime in modo genuino e tipico il genio nazionale di un popolo.
Dove, pertanto, ad onta di tutte le affinità, il genio nazionale, o la struttura
della società, o il clima di cultura è diverso, ivi anche il diritto, come il costume, come la letteratura e le altre forme di vita spirituale, deve necessariamente essere diverso, non ostante tutte le somiglianze e le reciproche
influenze. Cercare, allora, di renderlo uniforme, imponendo ai due paesi
49
Del resto, l’uso politico della scienza, e in particolare delle scienze umane, è un tema
ben noto e ormai ampiamente studiato: nella letteratura italiana recente va visto in particolare S. RAPISARDA, La Filologia al servizio delle Nazioni. Storia, crisi e prospettive della Filologia
romanza, Bruno mondadori, milano 2018, passim, ma soprattutto il fondamentale e corposo
Cap. 3 («Paradigmi della filologia romanza»), pp. 58-186: alle pp. 102-126, bellissime pagine
sul ‘paradigma Curtius’, che nella nostra prospettiva di giuristi richiama alla memoria non
solo quei costanti approcci internazionalistici (e come tali aperti al diritto comparato di
Tullio Ascarelli), ma anche quella ‘fedeltà romano-germanica’ (rendendo così naturalmente
il giudizio in sede storiografica più arduo) di Betti. E infatti, se Ernst Robert Curtius «si
muove all’interno dell’utopia di un’Europa cosmopolita e il vantaggio del suo paradigma
consiste nel fatto che esso si attaglia perfettamente al nuovo “europeismo” politico. All’Europa che si va costruendo dopo il trattato di Roma, il “paradigma Curtius” fornisce
la base di un europeismo culturale speranzosamente basato sulla continuità sovranazionale
delle lingue e delle letterature nate dal latino» (pp. 115-116), tuttavia per lui «[l]o spirito
tedesco autentico […] è quello che guarda insieme e contemporaneamente al mondo germanico e al mondo universale latino e romano. La ricerca di una totalità romano-germanica
è il modo per salvare dalla barbarie il Deutscher Geist in Gefahr» (p. 107; corsivo orig.), donde
l’accusa di filofascismo (che però l’Autore, ibidem, p. 104, ritiene assai poco fondata).
395
m. GRONDONA
di civiltà affine la cappa di piombo d’una legislazione unitaria, o è impresa
vana o, se realizzabile, dannosa ne’ suoi risultati. Perché ciascuna civiltà
nazionale ha una propria ragione di essere, e le differenze fra diverse
forme di civiltà superiore hanno una funzione utile nella storia del mondo,
in quanto ne conservano e ne rinnovano perennemente l’armonia: “standardizzare”, al contrario, significa superficializzare, inaridire, banalizzare
(un ideale, codesto, che bisogna lasciare ai nordamericani). Non sarà, poi,
mai tenuto soverchio conto, nella questione specifica dell’unificazione con
la Francia, del fatto che anche la scienza del diritto privato in Italia ha seguito e segue un indirizzo e ha raggiunto un grado di sviluppo, dal quale
in Francia si è lontani ed estranei. Dove colà, salvo poche notevoli eccezioni (Saleilles e qualche altro), la dottrina è rimasta strettamente aderente
al sistema e allo spirito del codice Napoleone, affinandosi, ma anche irrigidendosi, nella minuta analisi interpretativa delle sue norme, in Italia essa
è andata ben oltre. La legislazione del 1865 non fu né poteva essere un
punto d’arrivo: fu il punto di partenza di una nuova legislazione e di una
feconda elaborazione dottrinale e pratica, la quale ha fatto nascere e crescere rigogliosa una tradizione giuridica che può veramente chiamarsi nazionale. Gli elementi formativi di tale tradizione sono complessi e
molteplici; e sarebbe grave errore credere che essa si sia formata fra muraglie cinesi. Ad affinare la preparazione dogmatica dei nostri maggiori
privatisti contribuì, accanto ad altri fattori, anche lo studio dei pandettisti
tedeschi, dai quali, senza perdere nulla della propria originalità, essi seppero trarre vitale nutrimento; vi contribuì pure, con l’aprire nuove visuali,
lo studio del diritto romano, ripreso con fervore d’indagini nell’ultimo
quarantacinquennio. Oggi, la scienza italiana del diritto privato si presenta
con una fisionomia sistematica e costruttiva che la differenzia nettamente
da quella francese e che per la elevatezza del tono scientifico non trova
riscontro se non in quella europea di cultura tedesca. ma, se è differente
l’indirizzo scientifico e il grado di svolgimento della scienza giuridica,
dev’essere per conseguenza differente – secondo quanto testé si avvertiva
– anche la maturazione dei problemi tecnici e pratici di una riforma legislativa. In verità quel diverso indirizzo e grado di sviluppo sono indici rivelatori d’una differenza di temperatura, di fecondità e di maturità in quel
terreno culturale, in quell’humus, da cui la scienza giuridica germoglia e
trae il suo nutrimento. La mentalità dei giuristi, per quanto mentalità d’eccezione, è tuttavia rappresentativa della mentalità della massa: e se il tono
della scienza giuridica è assai più elevato in Italia, ciò significa che anche
la maturazione pratica e sociale, oltre che tecnica, dei problemi giuridici è
quivi proporzionalmente più avanzata che in Francia. In queste condizioni
396
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
diventa più che mai problematica l’opportunità di riconsacrare e perpetuare nel futuro codice civile o in quello di “procedura” norme che risalgono in gran parte al Pothier […] e che sono ben lungi dal costituire
l’espressione genuina, caratteristica e veramente rappresentativa della
odierna mentalità e della tradizione giuridica nostra. Al nostro legislatore
incombe ora un còmpito di emancipazione da un’influenza straniera che
ha oggi perduto la sua contingente ragione d’essere: còmpito, che non è
senza precedenti nella storia millenaria della nostra cultura. Alludiamo, in
particolare, a quell’opera di emancipazione dalla dominante cultura francese, che il rinascimento italiano condusse vittoriosamente a termine all’uscire dal medioevo. E vorremmo che a questo e ad analoghi precedenti
riflettessero quei giuristi nostri, i quali seguitano tuttora a parlare della
possibilità di una comunione di diritto italo-francese e forse prendono
troppo sul serio il mito, per lo meno equivoco e meritevole di accurata
revisione, di una “civiltà latina”: mito che in pratica si vede funzionare
solo a servizio della Francia e a detrimento di una più vasta solidarietà europea50.
Questo approccio così critico rivolto in particolare alla Francia non stupisce, e credo che quanto ebbe modo di scrivere Arturo Carlo Jemolo nella
sua splendida autobiografia spieghi assai bene ciò che, della Francia, a Betti
repugnava (ed è assai significativo che Jemolo accostasse, a quello di Betti,
nel disprezzo per ciò che fosse francese, il nome illustre di Giorgio Pasquali51): una repugnanza culturale52 che si riverbera sul piano politico, diBETTI, Diritto processuale, cit. nt. 42, pp. XIII-XV (corsivo orig.). Su molti degli aspetti
cui si è riferito Betti nel passo citato nel testo v. ora l’analisi di CHIODI, Costruire una nuova
legalità, cit. nt. 3, spec. il § 4 («La solidarietà senza democrazia: Emilio Betti verso la costruzione di una nuova legalità») e il § 5 («Il diritto delle obbligazioni nell’orbita del corporativismo: Parigi, luglio 1937»).
51
Del quale sarà utile vedere, nella prospettiva del mio discorso, Storia dello spirito tedesco
nelle memorie d’un contemporaneo, Adelphi, milano 2013 (1a ed. Firenze 1953), ove Pasquali
dialoga con un altro grande Curtius: Ludwig – e il volumetto di Pasquali nacque proprio
come recensione alle ‘Lebenserinnerungen’ di Curtius, uscite nel 1950.
52
Cfr. infatti A.C. JEmOLO, Anni di prova, Neri Pozza, Vicenza 1969, pp. 216-217: «Lui [scil.
Pasquali] e Betti erano tipici esemplari dell’universitario appassionato per lo studio uscito
dalle nostre Università intorno al 1910: con il rispetto, il culto per la Germania, per la
scienza tedesca, per la serietà germanica. malgrado ogni evento, la Germania, le Università
tedesche, Tubinga, Bonn, Heidelberg, erano sempre rimaste la loro patria ideale; cui faceva
riscontro un disinteresse sdegnoso per quanto era francese (non so se neppure avessero
mai visitato Parigi). ma non erano che due esemplari di una ben più vasta cerchia. C’erano
pure israeliti, le cui famiglie avevano non poco sofferto della persecuzione razziale, che
nel ’45 continuavano, volgendosi indietro, alla loro giovinezza, a parlare di “civiltà prus50
397
m. GRONDONA
ventato così la base di giudizio in termini appunto di amico/nemico, per
sfociare poi sul terreno strettamente tecnico, ma dando allora vita a una
contraddizione proprio in riferimento a quel relativismo della dogmatica
giuridica che quasi inconsapevolmente si tramuta in assolutismo dogmatico,
rendendo pertanto impossibile anche il solo raffronto tra esperienze giuridiche diverse, sotto il tragico nome dell’incompatibilità culturale53. Siamo
qui, in effetti, di fronte all’esito peggiore cui può condurre un approccio al
diritto che guardi a quest’ultimo pressoché solo come linguaggio tecnico di
un sostrato etico-politico, e che, a ben vedere, non ha rimedio, se non nel
mutamento di quello stesso ordinamento etico-politico sul quale l’ordinamento giuridico si fonda54. Il che fa appunto emergere, anche in tutta la sua
drammatica portata, il rapporto, cui si è alluso qui sopra, tra diritto come
scienza, diritto come politica del diritto, diritto come politica tout court.
Orbene, nella prospettiva di un uso strettamente politico del diritto
comparato (un diritto comparato inteso dunque come meramente strumentale alla politica) a cavallo tra nazionalismo e internazionalismo, mi
sembra che la posizione di Betti esprima bene entrambi i volti che la comparazione può assumere: sono volti che, più che genericamente politici – e
quindi suscettibili di una valutazione che tenga conto dell’ideologia professata dall’Autore –, risultano essere radicalmente e nettamente politicizzati.
Direi, in particolare, che la posizione di Betti manifesta, più che un intimo
disagio a ben vedere mai risolto55, soprattutto una contraddizione comune
siana”». Illuminanti, allora, alcune pagine di Arnaldo momigliano su Ulrich von Wilamowitz-moellendorff: A. mOmIGLIANO, Premesse per una discussione su Wilamowitz (1973), poi
in ID., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, tomo I, Edizioni di Storia
e Letteratura, Roma 1980, p. 337 ss.
53
ma in tema si v. ora la ristampa del saggio di J. SERVIER, L’uomo e l’invisibile, a cura di G.
malgieri, Iduna, Sesto San Giovanni (mI) 2020.
54
Istruttiva, approfondita e coraggiosa, visto l’anno, la seguente recensione di G. CALOGERO, La «teoria politica del diritto» e la metodologia giuridica, in «Rivista del diritto commerciale»,
1939, I, p. 277 ss., ancora oggi utilissima (detto tra parentesi) per contrastare quei tentativi
(non così rari) di analizzare le tecniche giuridiche ignorando del tutto i contesti di riferimento, e rendendo così indebitamente indipendenti tecniche e contesti, o, peggio ancora,
facendo assorbire il contesto dalla tecnica giuridica. Che è un errore capitale.
55
Anche su questo aspetto le già richiamate pagine di momigliano su Wilamowitz sono
assai utili, e anzi ben potrebbero essere altrove riprese per proseguire l’opera di ‘introspezione’ di Betti, a cavallo tra ideologia politica, sensibilità filosofica, sapienza tecnica, vicende personali, che il nostro «Istituto» va svolgendo con successo ormai è qualche anno.
Si v. allora di nuovo mOmIGLIANO, Premesse per una discussione su Wilamowitz, cit. nt. 52, in
particolare p. 347: «Chi vuole semplicemente dedurre l’opera di Wilamowitz dalla sua posizione ideologica perde il suo tempo», e p. 349: «Per quanto invise ci siano talune sue
ideologie, non si dovrebbe mai fare a Wilamowitz l’ingiustizia di ritenere a priori che la im398
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
a molti giuristi (e, s’intende, non solo giuristi) dell’epoca56, i quali si sono
trovati a vivere in presenza di un regime che, progressivamente (e questo
è, come ovvio, un ulteriore aspetto che andrebbe adeguatamente approfondito), ha, per così dire, ‘nazionalizzato’ il diritto comparato (ma in parallelo andrebbe allora considerata la vicenda del diritto internazionale),
facendolo diventare sia strumento di propaganda politico-culturale, sia strumento di difesa non solo contro le novità legislative provenienti da Paesi
che non avevano in sostanza ripudiato la tradizione liberale57, ma anche (e
probabilmente soprattutto) contro le possibili influenze di tradizioni giuridiche considerate, senza mezzi termini, inferiori (un’inferiorità tecnica che
deriva da una inferiorità culturale – o comunque da inadeguatezza e da incompatibilità culturali, da cui l’elaborazione, in termini tanto politici quanto
culturali, del paradigma autoritario dell’incomunicabilità).
Una visione opposta, questa, a quella (archetipicamente riconducibile,
negli stessi anni Trenta, a Tullio Ascarelli) che invece guardava al diritto
comparato quale occasione di migliore conoscenza degli altri ordinamenti
e quindi anche del proprio, di rinnovamento dogmatico, di riforma legislaposizione da parte sua di una valutazione politica o morale o religiosa sia inevitabilmente,
in ogni caso, una causa di deformazione, una riduzione del valore dell’interpretazione. Il
processo critico va tenuto aperto, per le nostre ideologie, come per le sue ideologie – per
la nostra interpretazione come per la sua interpretazione». Ora vanno visti i corposi e robusti studî di I. BIROCCHI, Emilio Betti: il percorso intellettuale e il tema dell’interpretazione e di
m. BRUTTI, La “dissoluzione dell’Europa”: ideologia e ricerca teorica in Betti (1943-1955), entrambi
in Dall’esegesi giuridica alla teoria dell’interpretazione: Emilio Betti (1890-1968), a cura di A. Banfi,
m. Brutti, E. Stolfi, RomaTrE-Press, Roma 2020, rispettivamente p. 11 ss. e p. 45 ss.
56
ma più in generale cfr. ora Antichistica italiana e leggi razziali, a cura di A. Pagliara, Athenaeum, Roma 2020: è un volume interessantissimo sotto varî profili, anche per il giurista.
Si v. senz’altro l’ampia recensione di C. FRANCO, in «Alias», Domenica 28 giugno 2020, p.
6, ove appunto viene richiamato il rilievo, che si legge a p. 123 del volume (nel saggio di
A. GALLO, P. BUONGIORNO, Edoardo Volterra, il fascismo e le leggi razziali, p. 93 ss.), sulle
«grandi contraddizioni che animarono le microstorie dell’Italia fascista, soprattutto al
tempo del suo collasso».
57
In questo senso è molto significativo (e contiene giudizi assai equilibrati, validi mi pare
tutt’ora) il saggio di GOLAB, Le droit civil antilibéral, cit. nt. 3. ma è anche meritevole di attenzione un breve (e poco noto, se non sbaglio) intervento di E. BETTI, Comunidad mediterránea, in Nuestro tiempo, Octubre 1961, p. 1227 ss., nel quale la missione culturale comune
di Paesi come Spagna, Portogallo e Italia è fondata sulla critica alla ideologia democratica
(p. 1230), e quindi sulla difesa dei regimi autoritari allora al governo in Spagna e in Portogallo, in aperta critica a «los órganos responsables de la política italiana», vittime di «prejuicios doctrinarios teñidos de una particular ideología política que lleva a desconocer el
fundamento de legitimidad de los regímenes en los que se basan los ordenamientos estatales de España y Portugal como natural consecuencia de las vividas y sufridas vicisitudes
históricas recientes en ambos países» (ivi).
399
m. GRONDONA
tiva, di più forte consapevolezza storica58 – che certo non deve significare
supina o rassegnata accettazione di ciò che accade, ma anzi reazione agli
eventi corroborata dalla considerazione della «[s]toria come storia morale»59
–, di disponibilità all’umana reciproca comprensione, tanto politica quanto
Veramente possono ripetersi per Ascarelli le parole che momigliano scrisse a proposito
di Eduard meyer: «Si direbbe che per meyer la coscienza di vivere nella storia universale
sia la condizione di pensare» [A. mOmIGLIANO, Premesse per una discussione su Eduard Meyer
(1981), poi in ID., Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Edizioni di
Storia e di Letteratura, Roma 1984, p. 215 ss., a p. 224]. In questa prospettiva mi pare che
alcune pagine di Ascarelli (in quanto radicalmente opposte a quelle di Betti) possano assumere valore paradigmatico: cfr. infatti ASCARELLI, Il diritto comparato e lo studio del diritto
anglo-americano, cit. nt. 43. Richiamerei in particolare l’attenzione sui due seguenti passaggi:
«Lo studio del diritto anglo-americano costituisce il problema più difficile e più interessante
per tutti gli studiosi continentali di diritto comparato. […] Credo che per tutti noi, i libri
giuridici inglesi, così spregiudicati dal punto di vista dogmatico, così simpaticamente innamorati del loro diritto, così ricchi di una esperienza che non è l’esperienza “livresque”
dello studioso, ma quella viva dell’uomo di legge, d’affari, politico, siano tra quelli che
fanno di gran lunga una maggiore impressione. Un po’ di casistica inglese è sempre un
magnifico correttivo della Begriffsjurisprudenz; la famigliarità con il sistema inglese è la migliore educazione per saper valutare convenientemente i vari dogmi giuridici; la lettura dei
libri inglesi è forse la più istruttiva per acquistare il senso, diciam pure, politico, dei rapporti
tra diritto e vita sociale, della funzione pratica del diritto. Il potere legislativo del giudice
inglese, la sua stessa elevatissima posizione sociale, concorrono a dare ai libri giuridici inglesi un senso di responsabilità politica, una ricchezza di esperienza, una ampiezza di visione, che fa singolare contrasto con il fardello pigramente scolastico che ingombra i nostri
libri giuridici» (p. 493); «Io sono straordinariamente scettico sulla possibilità dell’unificazione legislativa tra sistema anglo-sassone e sistemi continentali, eccezion fatta per qualche
argomento, specie di diritto industriale, marittimo e aereo. La impossibilità, anche recentemente constatata, di giungere ad una unificazione della legislazione cambiaria mi conferma nel mio scetticismo. ma l’attuale impossibilità di una unificazione legislativa anche
su singoli argomenti, non significa affatto l’impossibilità di un avvicinamento» (p. 494). E
cfr. allora anche quanto lo stesso T. ASCARELLI, in «Annuario», 1930, vol. VI, p. 503 (si
tratta di una breve segnalazione della «Baltische Rechtsangleichung – 10 Jahre Gesetzgebung Estsands und Lettlands [: Referate der 1. Baltischen Juristenkonferenz zu Dorpat
(1928), Wassermann], Reval, 1929»), aveva modo di osservare: «Noi cittadini dell’occidente
europeo consideriamo le recenti tendenze verso una unificazione giuridica internazionale
come un portato della sempre più intima connessione economica tra le varie nazioni.
Nell’oriente europeo, e particolarmente tra gli Stati baltici, la necessità di una unificazione
è più urgente: si tratta di impedire che le nuove unità politiche sorte dopo la guerra europea
seguano legislativamente vie diverse e quindi diano luogo a un particolarismo legislativo
prima inesistente, e che non potrebbe che riuscire dannosissimo alla coltura e alla civiltà
di quegli Stati. […] Quanti vedono nell’unificazione legislativa uno dei potenti mezzi di
avvicinamento tra i popoli ed uno strumento fecondo di civiltà e di progresso non possono
che augurare il più lusinghiero dei successi all’impresa dei colleghi baltici, che potrà riuscire
preziosa non solamente per quegli Stati, ma per tutta la civiltà europea».
59
T. ASCARELLI, Pensieri e lettere familiari, a cura di P. Femia, I. martone e I. Sasso, ESI, Napoli 2017, p. 76.
58
400
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
antropologica, a partire dall’ideale democratico60. ma nella visione dell’Ascarelli dei primissimi anni Trenta il diritto comparato è principalmente
e primariamente un portentoso mezzo di supporto all’espansione mercantile (del resto in perfetta consonanza con le esigenze, le prospettive e le
ambizioni manifestate da Salvatore Galgano e da mariano D’Amelio, e anzi
fatte oggetto di un compiuto programma di politica del diritto comparato
nettamente rivolto alla massima valorizzazione della dimensione internazionale: v. infra, §§ 4 e 6), nell’evidente assunzione tanto logica quanto ontologica di uno sviluppo economico inseparabile dall’idea di progresso
sociale e che, al di là delle circostanze contingenti potenzialmente avverse,
la comparazione deve favorire in ogni modo, soprattutto per intercettare
la traiettoria dei Paesi anglosassoni:
Il grande commercio internazionale non può svolgersi che in un mondo
legislativamente unificato. […] Il compito degli studiosi di fronte a questo
movimento ogni giorno più intenso e che attinge la sua forza dalle più
profonde esigenze economiche è quello della reciproca conoscenza. La
reciproca conoscenza è il primo passo, verso la collaborazione; non è possibile collaborare senza conoscenza.
Forse non è stata sufficientemente richiamata l’attenzione sull’importanza
della conoscenza del diritto comparato come arma nella lotta economica
internazionale. Dell’importanza della storia e del diritto comparato nella
formazione del giurista siamo tutti convinti. Lo studio del diritto comparato è un allargamento dell’esperienza del giurista nello spazio, così come
la storia è un allargamento di questa esperienza nel tempo. Naturalmente
il diritto comparato va studiato con metodo storico e non statistico; intendendo i vari istituti nella loro struttura e nelle loro funzioni, non immagazzinando notizie grezze che, come tali, sono prive di senso! ma,
condotto con metodo storico, lo studio del diritto comparato è di una utilità evidente, che nessuno può seriamente contestare. Non che, grazie ad
esso, si possano scoprire leggi generali di evoluzione giuridica, come si
vuole da qualcuno. In questa speranza vedo rinascere nella filosofia degli
ultimi anni, le illusioni del secolo scorso, illusioni che credo ben vane dopo
la critica che ne è stata fatta, proprio in Italia, per tacer d’altri, da Benedetto Croce.
[L]a maturità del giurista è essenzialmente esperienza, esperienza giuridica
Ibidem, pp. 71-72: «La premessa della democrazia è costituita dalla possibilità di una discussione razionale dei problemi; la stessa discussione di un problema presuppone la sua
razionalità (onde la comunicabilità delle idee). Perciò la democrazia riposa sulla credenza
in valori universali vuoi etici, vuoi economici».
60
401
m. GRONDONA
e per ciò anche storica e politica, ed è su questo terreno l’utilità del diritto
comparato. Così pure siamo tutti convinti dell’importanza dello studio
del diritto comparato in sede legislativa. Basta tener presente i lavori preparatori di qualunque nostra legge per accorgersene. Chi non sa che nel
momento attuale la simiglianza delle esigenze economiche suscita spesso
leggi uniformi? Chi non comprende il valore che in sede legislativa acquistano le esperienze di altri paesi? Anche qui bisogna che dette esperienze
siano veramente intese e non semplicemente citate; non credo di trovare
contradittori su questo punto. Quello che invece si dimentica è l’importanza del diritto comparato nella lotta economica internazionale. Bisogna
convincersi che la conoscenza del diritto comparato è essenziale proprio
in questo campo. Come è possibile ad es. tutelare e indirizzare efficacemente la nostra esportazione senza conoscere il diritto dei paesi ove si
esporta? Come è possibile valutare e tutelare la nostra importazione ove
non si conosca il diritto dei paesi esportatori, il quale è spesso internazionalmente competente nella decisione delle relative controversie? Come è
possibile stipulare dei contratti internazionali, ad es. di prestito, nei quali
le nostre esigenze non siano tutelate, senza la conoscenza del diritto del
paese della banca finanziatrice? Spesso in un contratto, ad es. in tutti quelli
per prestiti americani, si fa ricorso ad una terminologia e ad istituti propri
di altro diritto, ad es. l’americano: non è chiaro il nostro interesse di conoscere quegli istituti e di intendere quella terminologia? Non credo necessario soggiungere come sotto questo aspetto lo studio del diritto
anglo-americano abbia un’importanza predominante, appunto perché nei
rapporti economici Inghilterra e America si trovano in primo piano61.
La circostanza che il Betti comparatista degli anni Cinquanta si muova
in direzione opposta alla linea di esaltazione della cultura nazionale del Betti
processualista (ma anche, e forse soprattutto, del Betti, per così dire, scienziato della politica) degli anni Trenta non può essere spiegata soltanto in
riferimento al diverso momento temporale e storico in cui Betti scriveva e
agiva62, perché essa si interseca necessariamente con il tema (che qui mi limito a evocare) dei rapporti tra diritto comparato, nazionalismo giuridico
e nazionalismo politico-culturale, nella prospettiva non tanto della adesione
formale al fascismo – dettata da ragioni di convinzione, di necessità, di opportunità –, ma della adesione sostanziale alla politica estera del regime, di
ASCARELLI, Il diritto comparato, cit. nt. 43, pp. 494-495, 497, 498.
Cfr. infatti BETTI, Scritti di storia e politica internazionale, cit. nt. 45, spec. p. 219 ss., ove
vengono ripubblicati contributi apparsi nel dopoguerra.
61
62
402
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
taglio espansionistico, in chiave soprattutto anti-inglese63; e però, nello
stesso tempo, questa visione, per così dire, filo-espansionista dell’Italia, che
avrebbe potuto condurre immediatamente a utilizzare il diritto comparato
onde imporre all’estero – e comunque propagandare – il ‘modello italiano’
di cultura giuridica e di civiltà tout court, non può dirsi si sia affermata o comunque sia stata effettivamente percorsa almeno fino agli anni 1936/1937,
quando la propensione internazionale dell’Italia accentuò il proprio carattere autoritario64. Laddove non c’è dubbio che l’idea di comparazione proDa questo punto di vista (v. infatti quanto ne dirò infra, § 7) è significativo il rilievo di
G. PACCHIONI, L’impero britannico e l’Europa continentale, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, milano 1937, pp. 159-160: «Intanto l’Italia di mussolini ha dimostrato, per
parte sua, di saper fare da sé. Essa aveva un vecchio conto da saldare coll’Abissinia, conto
non dimenticato, ed ora gloriosamente saldato. Per aver tardato a lungo a regolare questo
conto, sempre presente al suo pensiero, essa ebbe a tollerare scherni e critiche odiose. In
certi libri inglesi, specialmente, affiora qua e là, il ritornello: che l’Italia restando soccombente in una guerra con gli Abissini aveva incoraggiato ovunque le vane resistenze di genti
inferiori… e resa più difficile l’azione imperiale dell[e] nazioni più civili d’Europa. Chi
avrebbe quindi potuto pensare che proprio gli inglesi si sarebbero poi in seguito assunta
la difesa dell’Abissinia contro l’Italia risorta a dignità di grande nazione imperiale? Vero è
che il principale autore di questa disgraziata politica britannica, poteva, fino ad un certo
segno, invocare a sua discolpa quel summum ius che i romani chiamavano summa iniuria, e
che gli inglesi stessi hanno sempre e continuano tuttora nella loro pratica giudiziaria a posporre all’equità. ma dietro lo schermo trasparente del summum ius facile era ad ognuno
scorgere i lineamenti di una mal velata gelosia, e di un mal dissimulato timore di vedersi
contestato o diminuito nel continente africano quell’assoluto predominio ad essi ormai
riconosciuto dalla stessa grande loro rivale del passato, in odio all’Italia e alla temuta Germania di Guglielmo II. Vero è pure anche che essi non cessarono mai di proclamare che
la loro condotta non era già in odium Italiae, ma in favorem della Lega delle Nazioni; che si
volle provare la forza di questa come strumento di pace nel mondo, etc. etc. ma questa è
tutta erba trastulla. Il popolo italiano non potrà mai dimenticare e perdonare il tentativo
di un tale esperimento, che, d’altra parte, ove fosse riescito, avrebbe potuto realizzare di
fronte ad un’Europa intimidita, il vecchio programma africano di Cecil Rhodes, programma che il trionfo italiano in Abissinia ha invece stroncato per sempre. Il punto di
vista del popolo italiano prima ancora come dopo la fondazione del suo impero, fu ed è
che in Africa vi è posto per tutti: tanto per l’Inghilterra come per l’Europa Continentale».
E cfr. allora infra, nt. 154.
64
Può essere significativo in questo senso richiamare quanto ad esempio si legge nel volume del I° Convegno Nazionale di Politica Estera, milano - Ottobre XIV - Mediterraneo Orientale
- I Protocolli di Roma - Italia e America Latina - Le materie prime - Società delle Nazioni, Istituto
per gli Studi di Politica Internazionale, milano 1937, p. 174: «[S]arebbe essenziale una intimità sempre maggiore di rapporti con la Germania nazista, appunto per far sì che il processo culturale del Terzo Reich venga sempre più avvicinandosi al processo culturale e
filosofico della Rivoluzione delle Camicie Nere». Cfr. allora SOmmA, I giuristi, cit. nt. 2,
spec. p. 403 ss. E ora si v. CHIODI, Costruire una nuova legalità, cit. nt. 3, § 6 («Il «pendolo
della storia». Dal codice unico italo-francese al codice unico italo-germanico: le larghe intese di Roma (1938) e di Vienna (1939)»). Significativo quanto avrebbe affermato musso63
403
m. GRONDONA
gressivamente affermatasi lungo la prima metà degli anni Trenta guardasse
al diritto comparato non solo con una notevole fiducia riposta in una cooperazione internazionale sempre più intensa e strutturata – tanto accademica e scientifica quanto politica e economica –, ma soprattutto nella
diffusa convinzione che il metodo comparatistico è e deve essere fattore
di avvicinamento, spontaneo e non già autoritario, tra ordinamenti, e quindi,
soprattutto, tra culture. Da ciò origina la convinzione di poter pervenire,
per ragioni autenticamente e intrinsecamente culturali, senza traumi e senza
salti, a una unità giuridica fondata su di una unità culturale, o quantomeno
a una armonizzazione giuridico-economica. Abbiamo allora sì un diritto
comparato in progressiva espansione (alludo a un diritto comparato nazionale), ma si tratta di un’espansione che va compresa all’interno della funzione universalistica della giuridicità, e non già a difesa di quei particolarismi
nazionali che però poi, soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta,
avrebbero assunto un notevole peso politico.
Vediamo dunque di approfondire almeno qualche aspetto della questione.
4. La politica del diritto comparato in Mariano D’Amelio
Come si è già anticipato, gli assi cardinali del mio discorso sono rappresentati, da un lato, dall’Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, appunto fondato da Salvatore Galgano e il cui volume I esce nel 1927,
e, dall’altro, dall’Istituto per l’unificazione del diritto privato (Unidroit),
inaugurato nel 1928.
Entrambe le intraprese (primariamente scientifiche e culturali, ma di
certo non meno rilevante è l’aspetto finanziario, e quindi il sostegno dello
Stato che esse hanno richiesto e ottenuto, in una misura verosimilmente
diversa, nel corso degli anni Trenta, e che sarebbe interessante ricostruire
nel dettaglio) sono qui lette unitariamente nel senso di un poderoso impulso
alla comparazione come primario strumento di conoscenza giuridica, e
dunque di avvicinamento delle legislazioni e più in generale degli ordinamenti dei Paesi maggiormente sensibili a questa prospettiva, nonché in vista
della riforma del diritto italiano, al di là di solo apparenti incompatibilità
dogmatiche, spesso recuperabili attraverso un’analisi dei contesti politicolini in un colloquio avuto con il vescovo di Trieste Antonio Santin il 19 settembre 1938:
«[È] con il prestigio che si governano le popolazioni coloniali». La frase è riferita (e adeguatamente circostanziata) da m. SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione
delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 2017 (nuova ed. ampl.; 1a ed. 1994), p. 59.
404
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
ordinamentali. E questo è senza alcun dubbio un aspetto estremamente
positivo delle attività svolte da queste due benemerite istituzioni.
Va però subito sottolineata altresì la diversità di prospettiva adottata
dalle due istituzioni: laddove, infatti, l’Unidroit è sorto con lo specifico
obiettivo di pervenire a elaborare una normativa uniforme in materie decisive dal punto di vista economico, l’Istituto per gli studi legislativi e la
connessa Rivista si muovono all’interno di un raggio di azione più ampio
e direi primariamente culturale65, volto appunto alla conoscenza non solo
delle legislazioni straniere, ma anche della giurisprudenza, così come della
letteratura scientifica del più alto numero possibile di Paesi. Ciò, al fine,
anche ma non esclusivamente, di dar vita a una legislazione mondiale66 (o
quantomeno europea) uniforme, almeno in determinati settori, perché ciò
che più conta è far sorgere e mantenere vivo un costante confronto culturale tra i vari studiosi (italiani e non italiani), i quali, grazie appunto a una
crescente sensibilità comparatistica, possano meglio intendere innanzitutto
il proprio diritto, migliorandolo o affinandolo anche in via di interpretazione, dunque operando bensì come giuristi nazionali, ma arricchiti di
quella cultura comparatistica che impedisce loro di scadere in ‘giuristi nazionalisti’. Non è pertanto dubbio che questo obiettivo sia quello più ambizioso e quello culturalmente più nobile, come vedremo appunto più
avanti concentrandoci sul programma di lavoro messo a punto da Salvatore
Galgano (e ciò fa anche sì che, in questa sede, lo sguardo di chi scrive sia
rivolto primariamente appunto all’Istituto di studi legislativi e alla sua Rivista, più che all’Unidroit).
Questo aspetto, appunto in riferimento all’Annuario di diritto comparato è ben rilevato
ancora da ASCARELLI, Il diritto comparato, cit. nt. 43, p. 497 (lamentando qui egli la scarsa
conoscenza scientifica, appunto in chiave comparatistica, del diritto anglo-americano):
«Eccezion fatta per questo Annuario, non conosco altra iniziativa vitale nel campo del diritto comparato. Gli Istituti di diritto comparato, istituiti in alcune nostre Università, non
hanno ancora dato luogo ad alcuna attività scientifica comparativistica degna di nota». E
mi pare altresì assai interessante quanto Ascarelli scrive ivi subito a seguire, aprendo appunto lo sguardo al diritto comparato e alla comparazione come disciplina e come metodo:
«È così che, anche nei confronti del diritto francese e di quello tedesco, la nostra conoscenza è molto relativa. Per limitarsi al tedesco è ad es. evidente l’ignoranza quasi assoluta
nella quale ci troviamo nei confronti della giurisprudenza tedesca, la quale ha invece oggi
in Germania una importanza superiore a quella della dottrina. La nostra conoscenza della
letteratura tedesca è ancora oggi in gran parte ferma alle opere anteriori alla guerra; delle
opere tedesche non conosciamo che le opere dogmatiche, specialmente quelle ispirate ad
una giurisprudenza concettuale ormai sorpassata in Germania e in base alla quale corre
tra noi un concetto spesso completamente errato della scienza giuridica tedesca».
66
Cfr. anche K. TANAKA, Une esquisse d’une théorie du droit mondial, in Annales de l’Institut de
Droit comparé de l’Université de Paris, III, cit. nt. 3, p. 303 ss.
65
405
m. GRONDONA
Giunti a questo stadio del discorso, vorrei però richiamare non già un
contributo accademico, ma un editoriale apparso nel «Corriere della Sera»
del 30 dicembre 1930, scritto da mariano D’Amelio e molto significativamente intitolato «La politica del diritto»67: l’intervento di D’Amelio, notevole sia per la vicinanza di quest’ultimo al regime68, sia per la sede in cui è
apparso – quasi appunto a voler far conoscere, al di là della cerchia dei giuristi, la linea della politica del diritto percorsa dal fascismo almeno nei primi
anni Trenta in tema di comparazione –, è pressoché interamente rivolto a
riflettere sul senso, sull’utilità e sulle funzioni del diritto comparato (e si
muove in linea di perfetta continuità con alcune pagine di Salvatore Galgano, pubblicate nel suo Annuario sempre del 1930 – ma in realtà apparse
già nel 1924, e dunque naturalmente note a D’Amelio: v. supra, nt. 13 –, su
cui verremo più avanti), nonché sul ruolo della comparazione giuridica, appunto a cavallo tra la dimensione nazionale e quella internazionale. In sintesi, il diritto nazionale, a certe condizioni e con l’aiuto della comparazione
giuridica, può assumere un peso internazionale: un peso non solo giuridico,
ma spiccatamente politico e economico.
Se, dunque, il diritto comparato è lo strumento indispensabile di un
progresso giuridico inteso anche come possibilità di successo economico,
in conseguenza della conquista di nuovi mercati da parte delle imprese italiane (e qui l’esempio e il modello che D’Amelio richiama è quello della Division of Commercial Law del Bureau of Foreign and Domestic Commerce
statunitense, appunto operante quale ‘centro di servizi’ per giuristi, ma
prima ancora per ‘uomini d’affari’: non, quindi, un centro di consulenza
gratuita – l’attività di consulenza in senso proprio spetta ai pratici, come
osserva D’Amelio –, ma un centro di informazione, anche rispetto alla sempre delicatissima questione fiscale, con particolare riferimento alle novità
legislative che intervengono progressivamente all’estero in materia di diritto
commerciale), il diritto italiano può assumere allora un peso maggiore a
patto che, grazie alla comparazione, possa essere più estesamente conosciuto all’estero. Questa più ampia e migliore conoscenza del diritto italiano,
s’intende, rileva anche in vista dell’esigenza di elaborare una legislazione
uniforme, o comunque in vista di un avvicinamento tra le discipline nazionali, almeno in determinati settori nevralgici dell’economia, e dunque, prim. D’AmELIO, La politica del diritto, in «Corriere della Sera», 30 dicembre 1930, p. 1 s.
F. AULETTA, voce «D’Amelio, mariano», nel Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit. nt.
13, p. 635 ss., a p. 637 osserva: «[…] D’A., cattolico […] e conservatore pur di matrice
estranea all’ideologia del regime, finirà col rendersi tra i massimi promotori dell’evoluzione
dell’istituzione giudiziaria in senso sostanzialmente consonante al fascismo» (corsivo orig.).
67
68
406
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
mariamente, del diritto commerciale.
L’obiettivo di D’Amelio, infatti, non è solo teorico (e del resto non si
capirebbe, altrimenti, la ragione di aver preso la parola su di un quotidiano
quale il «Corriere»): egli si prefigge soprattutto di mostrare a un pubblico
più largo (e in primo luogo agli imprenditori italiani, ma ovviamente anche
ai settori maggiormente interessati e sensibili della pubblica amministrazione) la fondamentale e irrinunciabile importanza del diritto comparato,
anche nell’interesse nazionale, così suggerendo altresì al governo l’opportunità e la convenienza di finanziare quei progetti che si muovevano lungo
la strada della comparazione – come appunto l’Unidroit e l’Istituto per l’unificazione legislativa, ivi infatti espressamente richiamati con parole di elogio);
e ciò, sia al fine di una migliore conoscenza, o conoscenza tout court, quando
si tratti di ordinamenti geo-politicamente assai remoti, dei diritti stranieri,
sia al fine di una conoscenza più profonda e criticamente consapevole (e
dunque anche rispetto alle esigenze di riforma) del diritto nazionale.
Ecco allora perché D’Amelio si sofferma, in particolare (e il titolo è significativo proprio in questo senso), sulla indispensabilità del diritto comparato in chiave politica. Una politica del diritto che viene a assumere diversi
connotati: da un lato, il diritto comparato serve appunto per sostenere l’imprenditore che, sempre, per poter dar vita a un’attività commerciale all’estero, ha bisogno di sapere nel dettaglio come funzioni quel diritto: e
infatti D’Amelio osserva, al proposito, che un’autentica conoscenza del diritto (qui in particolare del diritto straniero) non può essere limitata né al
diritto scritto, né alle opere di dottrina, perché il cuore del diritto è rappresentato dal diritto applicato, donde l’indispensabilità di conoscere gli orientamenti giurisprudenziali e le prassi amministrative, e, in senso più generale,
ogni prassi applicativa di un determinato diritto positivo. Da un altro lato,
il diritto comparato svolge una funzione sociale – e qui D’Amelio riferisce
alcune affermazioni programmatiche statunitensi69 –, che, come tale, è, al
contempo, scientifica e politica, appunto perché la conoscenza giuridica è
strumento di successo economico: non c’è dunque alcun dubbio che queste
parole di D’Amelio siano in perfetta consonanza con l’ambizioso programma di studi e di azione tanto dell’Istituto di studi legislativi quanto
dell’Annuario di studi legislativi, che infatti D’Amelio espressamente ri69
D’AmELIO, La politica del diritto, cit. nt. 67, p. 1, ove vengono letteralmente riportate alcune
parole pronunciate in occasione di una comunicazione al «Congresso annuale delle Associazioni legali americane del 1920 […]: “L’orizzonte del giurista americano si deve estendere al di là del suo Paese, come si estendono gli affari del suo cliente. La prima essenziale
sua preoccupazione è quella di iniziarsi alla legge romana e, cioè, allo studio del diritto civile”».
407
m. GRONDONA
chiama con parole di plauso70. Anzi, il fatto che espressamente D’Amelio
passi in veloce rassegna taluni Istituti esteri di diritto comparato esprime
esattamente la necessità di non frapporre alcuna cesura tra il versante scientifico e quello pratico, appunto perché un diritto comparato inappuntabile
dal punto di vista scientifico (tema infatti assai caro a Salvatore Galgano:
v. infra) si rivela essere il miglior strumento rispetto agli scopi pratici che la
‘politica del diritto comparato’ del regime intende perseguire nei primi anni
Trenta. Davvero in questo articolo vediamo in moto quell’operazione culturale avente a oggetto il diritto comparato e il metodo comparatistico e
favorita espressamente dal regime, manifestando in ciò una vocazione autenticamente transnazionale, attuata in primo luogo in termini di ragguardevole finanziamento dell’Istituto di studi legislativi e della sua Rivista,
nonché dell’Unidroit; il termine progresso non è allora usato casualmente
da D’Amelio, e risulta senz’altro calzante: un progresso che, sostenuto e
supportato politicamente, arreca vantaggi tanto alla «scienza giuridica […]
[quanto alla] nostra attività commerciale internazionale»71.
ma questa presa di posizione di D’Amelio è altresì significativa dal
punto di vista metodologico, perché il nostro autore affronta contestualmente il problema della conoscenza del diritto straniero (e non è dubbio
che queste considerazioni siano destinate a assumere una portata più ampia:
mi riferisco – così ritornando su di un aspetto poco sopra accennato – all’idea, espressa con forza da D’Amelio, per cui conoscere il diritto – il diritto
straniero, il diritto italiano, ogni diritto – significa andare al di là del testo
legislativo, impadronendosi di quelle prassi applicative che fanno sì che il
diritto vigente sia letto nella prospettiva del diritto vivente72). Ne emerge
Ivi: «Presso di noi, fino a qualche anno fa, non esisteva nulla di simile. Soltanto nel 1926
un gruppo di giuristi prese l’iniziativa della fondazione, in Roma, dell’“Istituto di studi legislativi”, la cui principale attività è l’Annuario di diritto comparato, ch’è, oramai, al V volume.
Sono bastati pochi anni e, grazie agli sforzi di quei volonterosi, l’Italia non soltanto ha
guadagnato il tempo perduto, ma ha conquistato un posto eminente anche nel campo
degli studi comparati. A giudizio di illustri stranieri, il primo posto». Del resto D’Amelio
fu prima vice-presidente e poi, dopo la morte di Scialoja, presidente dell’Istituto, di cui
Galgano, come noto, era segretario generale.
71
Ibidem, p. 2.
72
Ivi: «[I]l commercio internazionale non può accontentarsi di una semplice notizia delle
leggi, sotto l’impero delle quali deve compiersi. Esso deve prestare la sua vigile attenzione
anche alle modificazioni di quelle leggi, appena siano annunziate o progettate. Si pensi,
per esempio, a una riforma del regime doganale di un Paese ove il nostro commercio si
diriga. Né basta. Il testo della legge, il testo del progetto di riforma non sono tutto: occorre
sapere quali effetti l’uno e l’altro avranno nella pratica. […] Né il testo della legge, né i sapienti commentari informeranno il commerciante del modo con cui la legge si attua pra70
408
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
una riflessione che esprime anche una netta esigenza di rinnovamento metodologico, favorevole a un approccio empirico, e non solo concettuale, al
diritto, ovvero a un rinnovamento del concettualismo giuridico, che si apra
alla dimensione pratica non già – riprendendo qui la critica di messineo a
Gorla più sopra riferita alla nt. 28 – nel senso di un deteriore empirismo,
sfociante in una casistica esasperata (la cosiddetta ‘superstizione del caso’,
che può facilmente degenerare in ‘schiavitù casistica’), sottratta al filtro del
controllo concettuale necessario in chiave di stabilità ordinamentale, ma –
come appunto hanno suggerito, ad esempio, Ascarelli e Tedeschi73, e proprio in questi anni – nel senso di una concettualizzazione funzionale alla
pratica e cioè alla dimensione operativa del diritto (potremmo dire, invero
senza alcuna originalità, una dogmatica ‘operativamente orientata’); un diritto fisiologicamente aperto alle trasformazioni, a partire dalle esigenze
storicamente affermatesi, e rispetto alle quali, dunque, la dimensione concettuale opera in evidente funzione ordinante, non già quale barriera contro
le trasformazioni per una malintesa fedeltà ai concetti ricevuti74.
ticamente. La lettera della legge è altra cosa d[a]lla realtà del diritto. meglio la giurisprudenza soccorre a tali esigenze. È essa soltanto che indica ai pratici come le autorità intendono ed applicano la norma giuridica». Perfetta consonanza anche su questo punto con
Salvatore Galgano: v. infatti S. GALGANO, L’organisation et l’activité de l’Institut italien d’études
législatives, in Annales de l’Institut de Droit comparé de l’Université de Paris, II, Sirey, Paris 1936,
p. 61 ss., a p. 67, a proposito dell’importanza del diritto vivente per comprendere il concreto funzionamento degli istituti giuridici. La consapevolezza, nella prospettiva dell’unificazione, era del resto diffusa: nella letteratura dell’epoca, cfr. in particolare il minuzioso
lavoro di ricerca di A.C. ANGELESCO, La technique législative en matière de codification civile.
Étude de droit comparé. Préface de R. Demogue, E. De Boccard, Paris 1930, p. 191: «L’unification du droit et surtout celle des Codes nécessite encore d’autres études informatives:
un Code n’est pas seulement le résultat des travaux doctrinaires présents, il a tout un passé
historique; il consacre le travail de la jurisprudence».
73
Cfr. supra, ntt. 43 e 42.
74
Da questo punto di vista mi appaiono particolarmente significative le seguenti considerazioni ancora di TEDESCHI, Su lo Studio, cit. nt. 42, pp. 99-100, ove si mette in luce come
i giuspubblicisti «si s[ia]no orientati verso un dualismo metodologico, mediante il quale
essi, parallelamente alla costruzione giuridica degli istituti, espongono la esperienza politica
relativa»; ciò è rilevato appunto nel senso che la costruzione giuridica è influenzata, e anzi
dipende, dalle circostanze politiche che, nel momento in cui accadono, non possono essere
poi rimosse in virtù di una fedeltà dogmatica in realtà solo apparente, perché allora è proprio la dogmatica (o meglio un suo uso distorto e comunque improprio) a realizzare il
tradimento di quella politicità delle istituzioni che invece, dall’apparato concettuale, richiederebbe bensì di essere filtrata e ordinata, ma solo dopo essere stata compiutamente analizzata, e non già aprioristicamente respinta in quanto incompatibile con i concetti e con
le categorie di cui si disponga. Questo contatto con, potremmo dire, la fattualità si riscontra
– prosegue Tedeschi – nel diritto penale e nel diritto commerciale, mentre è pressoché
assente nel diritto civile. E si può allora soggiungere che, in particolare a partire dal se409
m. GRONDONA
Se, allora, ai fini della conoscenza della ‘macchina del diritto’, le regole
contenute nella legislazione vigente sono solo una parte del tutto, il diritto
comparato è chiamato a svolgere il fondamentale e prezioso ruolo di fattore
aggregante e armonizzante i differenti apparati normativi e concettuali, in
relazione ai contesti nei quali essi vengono impiegati; in tal modo, il diritto
comparato diviene naturaliter (e sempreché, ovviamente, non venga declassato, come già criticamente osservato da Ascarelli, a mero e asettico raccoglitore di dati legislativi) il principale veicolo per la diffusione di una
conoscenza giuridica tanto empirica quanto teorica, anche nella direzione
di un sempre auspicato (e forse effettivamente auspicabile), ma poi pressoché impossibile a realizzarsi, vocabolario giuridico universale75.
Ecco allora perché, nella prospettiva di D’Amelio, comparazione e economia internazionale sono due aspetti strettamente interconnessi. Si può
anzi precisare che il diritto comparato, rispetto alla funzione di assistenza
all’attività economica verso l’estero, è uno dei linguaggi (se non il linguaggio
principale) dell’economia internazionale. Emerge così parallelamente il lato
universalistico del diritto comparato, che in questo senso diviene, direi spontaneamente, strumento di armonizzazione progressiva, se non di tutto il diritto, di larghe branche di esso, e ovviamente appunto il diritto commerciale
è la prima area a cui subito si pensa quando si parla di armonizzazione.
La pulsione universalistica e la fiducia per un internazionalismo giuridico
non erano certamente episodiche, come ad esempio mostra un secondo intervento di D’Amelio, ancora nel «Corriere della sera»76, ove egli si sofferma
sul «Congresso internazionale di diritto penale» tenutosi a Palermo il 2 aprile
1933, enfatizzando la circostanza che proprio dalla penalistica italiana siano
stati dati contributi significativi a favore di una giurisdizione universale per
la repressione di determinati delitti, obiettivo che il congresso dovrebbe
porre tra quelli principali da perseguire nell’immediato futuro.
ma poi c’è un ulteriore aspetto, più delicato (e che segna l’interconnessione tra nazionalismo, internazionalismo e imperialismo), che tocca bensì,
condo dopoguerra, proprio Ascarelli insistette sulla rilevanza della dimensione empirica
e quindi storica del diritto, trovando senza dubbio in Gorla un alleato in questa battaglia
culturale. Cfr. GORLA, Interessi e problemi, cit. nt. 19. In questa chiave non c’è dubbio che il
ruolo del diritto comparato sia effettivamente fondamentale rispetto all’espressa esigenza
di comprensione del reale funzionamento delle regole giuridiche.
75
L’«Académie internationale de droit comparé» si propose infatti l’obiettivo ambizioso
di realizzare un vocabolario giuridico in modo da determinare i termini reciprocamente
equivalenti in francese, tedesco, inglese, spagnolo e italiano: cfr. ANGELESCO, La technique
législative en matière de codification civile, cit. nt. 72, p. 190, testo e nt. 6.
76
m. D’AmELIO, Il Congresso di Palermo, nel «Corriere della Sera», 2 aprile 1933, p. 6.
410
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
ancora, il problema del diritto comparato quale mezzo di armonizzazione,
ma un’armonizzazione, per così dire, culturalmente orientata; un’armonizzazione, cioè, che ha la sua forza nel prestigio culturale del modello giuridico principale alla base dell’armonizzazione medesima: un modello (o,
naturalmente, più modelli, anche in competizione tra loro) che si diffonde
internazionalmente perché è riuscito a imporsi sugli altri, per forza culturale
ma anche per forza economica e politica a esso sottostanti. Qui, allora, ritorna in primo piano il rapporto anche problematico tra diritto comparato
e nazionalismo, uniti nel senso che entrambi possono altresì operare quali
strumenti di dominazione culturale, quando non di vera e propria colonizzazione politico-economica.
E in effetti D’Amelio si sofferma al contempo sul rapporto tra diritto
nazionale, nel senso di diritto degli Stati coloniali – e qui, in particolare,
dell’Italia – e diritti delle colonie, diritti dei quali – egli scrive –, fino ad
oggi, non si era creduto interessante lo studio77. ma il diritto coloniale deve
essere invece studiato78 (e infatti anche da questo punto di vista D’Amelio
rivolge un plauso all’Annuario di Galgano), e ciò proprio per consentire
una maggiore e migliore penetrazione, in esso, del diritto del Paese colonizzatore79: anche da questo punto di vista, quindi, l’obiettivo è quello di
favorire l’espansione delle intraprese, e in senso più generale del commercio, nelle colonie, al fine, ovviamente, del potenziamento nazionale. E tuttavia si tratta di un potenziamento che risulta comunque fondato sull’idea
che l’espansione geografica di un determinato diritto nazionale, fino al
punto di divenire diritto uniforme di una determinata area di influenza,
porta con sé la conseguenza che lo stesso diritto nazionale – e ciò proprio
nella prospettiva dell’uniformità (ma anche in quella dell’armonizzazione)
– sarà chiamato a rinunciare a qualcosa di sé. Siamo qui senza dubbio di
fronte a un’espressione di nazionalismo giuridico, ma un nazionalismo ancora immerso in quell’afflato internazionalistico che non assume alcun
tratto più o meno marcatamente isolazionistico80.
La politica del diritto, cit. nt. 67, p. 1.
Cfr. allora l’interessante lavoro di G. BASCHERINI, Ancora in tema di cultura giuridica e colonizzazione. Prime note sul Corso di diritto coloniale di Santi Romano, in «Giornale di Storia
costituzionale/Journal of Constitutional History», n. 25, I/2013, p. 117 ss., <http://
www.storiacostituzionale.it/GSC25.html> (ultimo accesso 28 giugno 2020), sul quale ha richiamato l’attenzione BIROCCHI, L’integrazione, cit. nt. 1, nt. 55. In prospettiva più generale
v. ad esempio G. CALCHI NOVATI, Studi e politica ai convegni coloniali del primo e del secondo dopoguerra, in «Il Politico», 1990, p. 487 ss.
79
Sulla delicata questione cfr. ancora D’EmILIA, Correlazioni, cit. nt. 39, spec. p. 196.
80
D’AmELIO, La politica del diritto, cit. nt. 67.
77
D’AmELIO,
78
411
m. GRONDONA
5. Tra diritto comparato e comparazione giuridica
A questo punto del discorso ci si deve forse anche chiedere (e i comparatisti lo fanno in effetti spesso, se non ciclicamente), per usare la formula
un po’ retorica ormai abbastanza diffusa, a che cosa esattamente intendessero riferirsi i giuristi del tempo impiegando l’espressione ‘diritto comparato’ e ‘comparazione giuridica’.
La prima questione sfocia nella consueta distinzione tra comparazione
intesa in senso metodologicamente proprio – e cioè raffronto critico e ricerca delle ragioni storico-politiche, ma, in prospettiva più ampia, culturali,
ovvero pienamente antropologiche, sottostanti al dato tecnico81 – e comparazione riduttivamente intesa come raccolta e analisi del più alto numero
possibile di diritti positivi vigenti, emergendo così la nota distinzione tra
diritto comparato e legislazione comparata (agevole notare incidentalmente
come nell’Annuario di Galgano le due esigenze convivessero in armonia),
per poi ancora distinguersi tra diritto comparato e diritto straniero.
La seconda questione, altrettanto consueta, ma ormai stantia82, sfocia
nella distinzione tra un diritto comparato inteso come scienza e un diritto
comparato inteso come metodo.
ma qui il mio interesse è rivolto in particolare al rapporto tra (usi della)
comparazione e internazionalismo e nazionalismo giuridico. mi pare che
siano sul punto significative le seguenti considerazioni di mario Rotondi –
In questa chiave mi pare tutt’oggi esemplare T. ASCARELLI, “Il contratto„ di Gino Gorla, in
«Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1956, p. 924 ss., ad esempio p. 927, nt.
4: «In sostanza le teorie giuridiche possono – a mio avviso – essere intese solo come “vettori” ai fini di uno sviluppo di una normativa data; esse sempre importano, insieme al riferimento al diritto vigente, valutazioni che ovviamente sono espressione di una “filosofia”
dell’interprete e dell’ambiente e non di un’obbiettiva ricostruzione della normativa, ma
che proprio perciò sono storicamente operanti».
82
V. già m. ROTONDI, voce «Diritto comparato», in «Nuovo Digesto Italiano», vol. IV,
Utet, Torino 1938, p. 964 ss., a p. 966: «[N]on ci sembra né utile né feconda di risultati
una discussione che mirasse ad accertare se una tale disciplina abbia carattere di una scienza
autonoma, o non corrisponda solo ad una particolare metodologia con cui il fenomeno
giuridico possa essere studiato. Una discussione siffatta, che è il più delle volte fondata su
di una inesatta o quantomeno antiquata concezione di quello che, dal punto di vista filosofico generale, è l’autonomia di una scienza, ha anche troppo occupato l’attività degli
studiosi. Il vero è che quello che caratterizza ogni singola scienza è proprio, e particolarmente, l’adozione di un metodo particolare, corrispondente alla peculiare finalità o al peculiare punto di vista da cui appaia utile collocarsi per considerare talune categorie di
fenomeni». Significativo, almeno prima facie, che Rotondi richiami, tra gli «organismi a carattere ufficiale» (p. 969), l’Unidroit ma non l’Istituto di studi legislativi, del quale però è
ricordata la Rivista.
81
412
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
peraltro dallo stesso Autore qualificate come «ovvio rilievo»:
[Q]uando alla comparazione si comincia a fare ricorso come strumento
atto alla conoscenza o alla illustrazione di un singolo diritto positivo, essa
appare piuttosto un correttivo metodologico della dogmatica o della esegesi del singolo diritto positivo. Quando poi l’indagine comparativa ha
ormai acquistato più largo sviluppo, domina più vasto campo di osservazione, dispone di maggior copia di dati e si profila di conseguenza la possibilità di porre e di risolvere nuovi problemi che trascendono il singolo
diritto positivo per abbracciare diversi ordinamenti giuridici ed assurgere
alla visione dei loro reciproci rapporti e delle leggi che governano il loro
sviluppo, allora essa assume, nella comune valutazione, carattere e dignità
di una autonoma disciplina scientifica. […] Comparazione giuridica verso
la quale è sempre più universale l’interessamento, e senza della quale non
appare ormai più possibile uno studio del diritto a carattere scientifico e
con larga impostazione. mentre, dopo le durature conquiste della scuola
pandettistica nella formazione dogmatica del sistema di diritto positivo,
gli eccessi dell’analisi astratta hanno portato alle intemperanze di una
ormai screditata giurisprudenza concettualistica – cui dopo gli spregiudicati eccessi della così detta libera ricerca del diritto, reagì la ragionata
valutazione degli interessi concreti ai quali il diritto vuole portare tutela o
dei quali vuole prevenire i contrasti (giurisprudenza degli interessi) – il diritto comparato, che parte da una indagine rigorosamente positiva, che
addimostra il valore contingente delle costruzioni dogmatiche, che inquadra lo studio dell’ordinamento singolo entro un più ampio orizzonte, raccoglie ormai un consenso universale. Sia che con l’indagine comparatistica
si corroborino le trattazioni dei singoli diritti positivi, l’indagine dei quali
non appare più possibile possa venir approfondita, se non dalla comparazione […], sia che l’indagine comparatistica venga esercitata come strumento di riforme legislative, sia che la guidino intendimenti puramente
teoretici, come avente fine a se stessa, la comparazione del diritto ha determinato presso studiosi di ogni paese un vivissimo interessamento83.
Una tale impostazione, com’è evidente, non solo non ha nulla di nazionalistico84, ma, anzi, guarda al diritto comparato in funzione demitizROTONDI, voce «Diritto comparato», cit. nt. 82, pp. 966 e 969.
ma occorre far conto dell’osservazione di BIROCCHI, L’integrazione dell’Università nello
Stato totalitario, cit. nt. 1, a proposito dell’internazionalismo, tenuto fuori dal «Nuovo Digesto Italiano» quale espressione dell’«ideario degli oppositori» del regime (p. 30).
83
84
413
m. GRONDONA
zante rispetto a quegli assunti dogmatici nazionali85 che sono poi, ieri come
oggi, i principali ostacoli alla possibilità di dar vita, ad esempio, e per richiamare un tema di discussione ancora ben aperto, a un diritto privato autenticamente europeo.
Naturalmente, sullo sfondo – ma forse non troppo – di questo dibattito
(che tuttora invero prosegue, rispondendo esso a evidenti esigenze dell’attualità politico-giuridica) c’è senza dubbio anche la tensione tra un diritto
nazionale che, se pure non è fatto oggetto di un uso politico in senso nazionalistico, risultando così tendenzialmente chiuso rispetto alle altre esperienze giuridiche, tuttavia reagisce (o dovrebbe reagire)86 contro quei
tentativi di colonizzazione culturale fondati sul prestigio del ‘modello giuridico’ esportato; tentativi che possono indubbiamente anche passare per
la via di una comparazione giuridica che si prefigga di fondare scientificamente le ragioni dell’uniformazione/unificazione giuridica, come mostra
ad esempio l’istruttiva vicenda degli ordinamenti giuridici dell’America Latina, muovendosi essi tra influenza europea e statunitense87.
Anche a questo riguardo, tuttavia, il ricorso stesso alla comparazione
giuridica può giocare in senso opposto sia alla colonizzazione culturale, sia
alle sterili rivendicazioni di un nazionalismo egoistico88: ciò ben può accadere se la comparazione, muovendosi tra storia e sociologia89, contribuisca
a portare alla luce le specifiche esigenze di un diritto nazionale che, in
quanto tale, deve essere primariamente orientato nella direzione di adeguare
le regole giuridiche a quel determinato contesto socio-economico. Qui,
Si può aggiungere che questa stessa impostazione è stata fatta propria da Tullio Ascarelli,
che certo non potrà essere definito un giurista nazionalista, o, se si preferisce, un ‘giusnazionalista’.
86
Cfr. T. ASCARELLI, Diritti dell’America latina e dottrina italiana, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1949, p. 906 ss., e ora, riprendendone la prospettiva, L. LEóN
HILARIO, Derecho privado. Parte general – Negocios, actos y hechos jurídicos, Fondo Editorial, Pontificia Universidad Católica del Perú 2019, spec. il Cap. 3.
87
Cfr. ASCARELLI, Pensieri, cit. nt. 59, p. 43: «I sudamericani si compensano del loro inferiority
complex verso gli Stati Uniti affermando la loro cultura europea. In realtà l’America latina
è nei suoi dati fondamenti [ma si dovrà leggere ‘fondamentali’] più vicina agli Stati Uniti
che all’Europa […]. E sarebbe più saggio e utile affermare questo legame che insistere
sul parallelismo con l’Europa che tocca solo la cultura delle classi colte (del resto più un
tempo che adesso: i quarantenni parlano francese, ma i ventenni inglese) e non i dati fondamentali della struttura dei paesi e i loro problemi».
88
L’espressione è in G. PACCHIONI, L’impero britannico e l’Europa continentale, cit. nt. 63, p.
15.
89
Cfr. ora V. BARSOTTI, Conversando con Paolo Grossi, in «Annuario», 2019, p. 587 ss., spec.
p. 602.
85
414
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
dunque, la comparazione opera nel senso della distinzione tra diritto nazionale e modelli giuridici stranieri, rivendicando l’autonomia culturale e
concettale del primo rispetto ai secondi; il che naturalmente non esclude
l’armonizzazione di più diritti (come appunto quelli dell’America Latina),
ma si tratta di una armonizzazione che non è il frutto di quei complessi di
inferiorità o di superiorità cui si riferisce Ascarelli; piuttosto, si tratta di una
armonizzazione spontanea, e cioè filtrata dal, e ricettiva in riferimento al,
contesto sociale all’interno del quale le regole legislative saranno chiamate
a operare, anche nella prospettiva di una costruzione ad hoc di quegli apparati concettual-argomentativi che risultino essere davvero efficaci, affinché
si possa ragionare, teoricamente e praticamente, nei termini di una ‘law in
context’.
6. La politica del diritto comparato in Salvatore Galgano
Veniamo adesso, all’interno di questa mia panoramica un po’ frammentaria, alla figura di Salvatore Galgano, e, in particolare, a quanto egli ebbe
modo di scrivere, nel 1930, nel suo Annuario, a mo’ di secondo manifesto
culturale e di elaborato e compiuto programma di lavoro (‘secondo’, perché
Galgano, nel 1927, pubblicando il primo volume dell’Annuario, aveva premesso al volume una breve pagina introduttiva – assai ampliata, poi, appunto nel 1930, in occasione della pubblicazione dei volumi IV e V –,
seguita dallo scritto, già richiamato supra, intitolato «Per un Istituto di studi
legislativi», peraltro apparso in diverse sedi editoriali).
Vediamo qui allora in rapida successione cronologica le principali linee
programmatiche fissate da Galgano.
Partiamo dalle pagine che aprono il I volume dell’Annuario: qui Galgano evidenzia i tre principali obiettivi in vista dei quali l’Istituto e la Rivista
sono stati pensati.
Il primo obiettivo ha una funzione di raccolta e di conoscenza, onde
«comporre un quadro sistematico di tutti i provvedimenti di carattere legislativo, anche di diritto pubblico, via via […] emanati [dagli Stati]»90.
S. GALGANO, [Prefazione,] in «Annuario», 1927, vol. I, p. VII (sono nuovamente assai
grato a Giovanni Chiodi, che mi ha amichevolmente procurato anche queste pagine programmatiche della Rivista). Ivi Galgano osserva altresì che Istituto e Rivista si prefiggono
di promuovere e divulgare vari ordini di studi: diritto straniero e diritto comparato; statistica e economia applicate ai fenomeni giuridici (e va allora assai apprezzata l’attenzione
posta da Galgano sulla statistica, mostrando egli così una spiccata sensibilità non solo per
il diritto applicato, ma per la conoscenza degli effetti dell’applicazione, o della non-appli-
90
415
m. GRONDONA
Il secondo obiettivo attiene alla necessità di conseguire una conoscenza
effettiva del diritto straniero, andando dunque al di là dei testi legislativi
(come anche mariano D’Amelio aveva infatti sottolineato, senz’altro riprendendo questi spunti di Galgano, notigli perché appunto pubblicati originariamente nel 1924): «Integrare […] la mera conoscenza dei testi
legislativi con il maggior numero dei mezzi disponibili a dare la nozione
esatta di ciò che, nei vari paesi, il diritto è nella sua realtà attuale e nelle sue
tendenze evolutive»91; di qui l’esigenza di formare progressivamente una
«crestomazia di giurisprudenza comparata ed al tempo stesso un quadro
delle fasi della elaborazione dottrinale dei vari istituti e dei tentativi del loro
rinnovamento»92; di talché la comparazione consentirà allo studioso «di
scoprire la direzione secondo cui si muove nel suo cammino il pensiero
giuridico, la tendenza delle aspirazioni e l’insieme dei bisogni della vita del
diritto in un complesso di organizzazioni statali, e permettergli infine di
accertare la possibilità e gli orientamenti di una graduale assimilazione ed
unificazione dei rispettivi ordinamenti»93.
Il terzo obiettivo attiene alla scientificità del diritto comparato, che ovviamente è il fondamento dell’intera intrapresa di Galgano: «Contribuire
[…] alla graduale conquista di un metodo veramente scientifico nello studio
cazione, delle regole giuridiche e in particolare delle regole legislative esistenti, anche rispetto all’esigenza di riformare il diritto positivo vigente: in questa prospettiva cfr. infatti
quanto rilevato da Galgano, Per un Istituto di studi legislativi, cit. nt. 13, p. 13: «[I]nsieme con
gli studi di diritto comparato, [l’Istituto] dovrebbe tentare di dare impulso a quelli di statistica applicata ai fenomeni giuridici ed alle indagini di storia del diritto concepite in funzione del progressivo miglioramento degli istituti vigenti. […] E non si parli delle raccolte
ufficiali delle statistiche giudiziarie. A che cosa esse servono mai? Comunque, oltre agli
istituti del diritto processuale vi sono quelli di diritto sostanziale, verso i quali l’indagine
statistica dovrebbe finalmente cominciare a rivolgersi. Qui è tutto un ramo della pubblica
amministrazione da riformare ed un magnifico campo di attività scientifica da esplorare»);
indagini di storia del diritto preordinate soprattutto alla preparazione delle riforme legislative. Cfr. infatti l’art. 2 dello Statuto, con riguardo alle finalità: «1) promuovere gli studi
di diritto comparato, nonché di storia, di statistica e di economia applicate al diritto in
quanto possano giovare alla preparazione delle riforme legislative; 2) studiare nella loro
pratica applicazione le riforme legislative e le leggi in generale, anche straniere, prendendo,
ove ne sia il caso, l’iniziativa di apposite inchieste e agevolando la conoscenza delle leggi
all’interno con una assidua opera di volgarizzazione; 3) dare impulso all’accertamento, alla
raccolta e divulgazione delle consuetudini e, ove del caso, alla loro traduzione in norme
legislative; 4) coordinare e valorizzare l’opera di quanti in Italia intendono [ma si legga
‘attendono’] specialmente allo studio di problemi di legislazione, e favorirla con l’apprestamento dei mezzi d’indagine necessari».
91
GALGANO, [Prefazione,] in «Annuario», 1927, cit. nt. 90, p. VIII.
92
Ivi.
93
Ivi.
416
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
degli ordinamenti stranieri. Tale studio, per chi l’abbia sperimentato nelle
sue estreme difficoltà e nei suoi risultati maravigliosi, è sicuramente uno
dei più luminosi stromenti di scoperta del diritto interno ed un incomparabile mezzo di educazione giuridica. Il dilettantismo, tuttora dilagante,
degli inesperti e dei superficiali ne ha fatto una fonte piuttosto copiosa di
incomprensioni, di equivoci e di errori, ed uno dei maggiori pericoli per il
legislatore e per l’interprete. L’Annuario scenderà in lotta contro questo
modo piuttosto diffuso, e non mai abbastanza deplorato, di far del “diritto
comparato”»94.
Queste idee, qui sintetizzate, trovano un supporto nelle riflessioni di
Galgano del 1924, riprodotte appunto nel volume I dell’Annuario (apparso
nel 1927) su cui ci si sta qui soffermando.
Noterei, in primo luogo, come l’irrobustimento di una cultura autenticamente comparatistica debba servire anche (e in certi momenti soprattutto) in vista della riforma del diritto italiano, e non soltanto di quello
privato (si può infatti osservare di passaggio che in molte annate dell’Annuario vengono pubblicati studi dedicati al diritto processuale, tanto civile
quanto penale, così come al diritto penale sostanziale); dunque, il diritto
comparato opera quale strumento di comprensione che non resta però
confinato sul piano teorico, dovendo esso appunto servire onde procedere
alle necessarie riforme legislative, a partire dall’esperienza giuridica (quindi
non solo strettamente legislativa) altrui.
Da questo punto di vista non è dubbio che anche Galgano (pur senza
impiegarne la formula) ragioni nella stessa ottica di D’Amelio, e dunque in
chiave di politica del diritto: il diritto comparato ha una funzione politica
ma non è uno strumento della politica, cioè non deve essere piegato a usi
politici. Il diritto comparato, potremmo dire, è naturaliter uno strumento riformatore, perché il conoscere ciò che altrove accade, e come e perché ciò
accada, consente poi meglio, al giurista nazionale, di procedere lungo la via
del cambiamento.
La politica del diritto comparato è allora, e in primo luogo, scienza giuridica, e come tale strumento di conoscenza giuridica, che assume di per
sé una portata intrinsecamente riformatrice, portando così l’attenzione del
giurista anche sul ius condendum e non solo sul ius conditum. Galgano si duole
infatti della scarsa attenzione rivolta dal giurista italiano ai problemi legislativi: «I problemi di legislazione non costituiscono in genere la predilezione più spiccata della nostra dottrina»95. ma vi è di più, osserva l’Autore:
94
95
Ivi.
GALGANO, Per un Istituto, cit. nt. 12, p. 9.
417
m. GRONDONA
«Essi sono circondati di minor favore e tenuti quasi a disdegno. L’esame
della norma precostituita: ecco l’occupazione ideale del nostro giurista; e
nessun maggiore diletto per esso che quello del dissezionarla nelle sue più
ascose latebre e poi del ricomporla nei suoi elementi o insieme con altre
costituirne un sistema. Il giurista-legislatore, diciamo così per brevità, è
considerato un po’ come un uomo di fantasia accesa, meno ossequente ai
suoi doveri di studioso, che si lascia deviare dalla sua strada da miraggi ingannatori»96.
Il discorso che Galgano sta qui svolgendo è di primaria importanza
non solo nella prospettiva delle funzioni del diritto comparato (da un lato
funzioni riformatrici e da un altro lato funzioni di revisione critica delle acquisizioni dogmatiche), ma anche in quella della teoria generale del diritto,
nonché (e su questo punto arriviamo a breve) in quella del rapporto tra
giurista e legislatore nella costruzione dell’ordinamento giuridico.
Orbene, con riferimento alla teoria generale del diritto, Galgano nota
la «strana conseguenza del permanere tuttodì di tanta parte di concezioni
alquanto primitive e solo in apparenza superate: la norma è opera esclusiva
dell’autorità; quando sarà stata emanata, i cittadini la subiranno; e i giuristi,
grande privilegio, cominceranno a tesservi intorno il loro mirabile ricamo»97. La questione, all’evidenza, è proprio quella del rapporto tra giuristi
e legislazione, ma in questo senso: per ottenere una legislazione adeguata
al contesto che essa dovrà regolare, si richiede quella competenza tecnica
che è propria del giurista. Si tratta di una competenza tecnica che appunto
il diritto comparato potrà e dovrà irrobustire, nell’idea che diritto e legislazione non coincidono – altrimenti non si comprenderebbe l’insistenza di
Galgano sulla necessità di conoscere il diritto (italiano o straniero che sia)
per come effettivamente applicato; di qui l’indispensabilità, dunque, di quei
dati statistici (il tema, come noto, venne ripreso con forza nel dopoguerra
soprattutto da Ascarelli) che servono appunto a accertare le conseguenze
di una determinata regola legislativa.
È allora chiaro che qui Galgano sta criticando l’aspetto più deteriore
del dogmatismo e del formalismo giuridico: ragionare costruttivamente sul
testo, e basta, non occupandosi sufficientemente del contesto con il quale
quel testo sarà poi chiamato a interagire. Con la conseguenza paradossale
che il giurista formalista, pur interessato esclusivamente ai testi, rinuncia a
partecipare al momento della loro formazione, perché la sua abilità tecnica
può esercitarsi solo su di un testo prestabilito, non certo sul contesto a par96
97
Ivi.
Ivi.
418
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
tire dal quale elaborare regole giuridiche: «In un cotale ambiente gli studi
legislativi non possono fiorire. […] Orbene questa così deficiente partecipazione degli ambienti della scienza, della magistratura, della pratica alla
preparazione delle leggi e soprattutto la loro indifferenza per questa forma
di attività del pensiero, indifferenza che non cessa di essere tale, anche
quando il contrario possa apparire dalle censure, che abitualmente, per un
vezzo non di rado di cattivo gusto, affiorano sulle labbra di ognuno contro
la legislazione vigente, sono a mio avviso fra le cause più rilevanti dello
scarso progresso legislativo realizzatosi in quest’ultimo sessantennio in Italia. Quando il lavoro di preparazione e redazione delle norme ricade tutto
su organismi, per la loro stessa struttura meno adatti, e per la loro stessa
natura portati ad interessarsi prevalentemente di problemi di altra indole
(di quelli politici), esposti quasi sempre, in quei casi in cui prendano delle
iniziative, a vederle frustrate da vicende estranee, è fatale che esso proceda
tardo, scarsamente produttivo e talora con risultati meno soddisfacenti»98.
Qui si entra allora nel vivo della distinzione tra politica del diritto e diritto come politica, perché Galgano (per autentica convinzione o forse per
prudenza) distingue nettamente il compito della politica da quello della
scienza giuridica: alla prima la scelta dei fini, alla seconda l’approntamento
dei mezzi onde perseguirli. E tuttavia è chiaro che siffatta distinzione può
valere solo come punto di partenza, perché è indubbio (e lo mostra non
solo l’esperienza del diritto comparato ma anche la stessa funzione che
Galgano assegna a esso) che, nel momento in cui si guardi alla regola di diritto quale risposta a una determinata esigenza sociale, la regola giuridica
assume una intrinseca politicità, che, se venisse esclusa in radice, vulnererebbe l’efficacia della regola stessa, risultando così inadeguata proprio rispetto ai fini che avrebbe inteso perseguire.
Questa riflessione ci porterebbe però oltremodo lontano, e dunque veniamo al rilievo conclusivo di Galgano su questo specifico punto: «Ora, in
un tale stato di cose, nulla sembra più adatto a portarvi efficace rimedio
quanto appunto la costituzione di una larga associazione fra cultori e pratici
del diritto, con la specifica funzione di attendere, con opera incessante,
entro i limiti naturalmente derivanti a ciascun ordine di servitori del diritto
dalla sfera normale della propria attività, senza alcuna menomatrice ingerenza nel campo degli organi costituzionalmente preposti alla produzione
delle norme legislative, senza la pretesa o la illusione di creare accanto a
questi degli stromenti di revisione e di controllo, e tanto meno di erigersi
[…] en Parl[e]ment au petit pied, con sentimento anzi di umiltà, come si addice
98
Ibidem, p. 10.
419
m. GRONDONA
alla piena consapevolezza della difficoltà del compito – nulla sembra più
adatto, si diceva, che la costituzione di una associazione avente la funzione
di attendere al miglioramento costante della nostra legislazione ed alla rinascita del gusto dei problemi legislativi»99. Il compito del diritto comparato,
anche in questa prospettiva (che nel dopoguerra sarà ripresa soprattutto da
mauro Cappelletti), è notevole.
Tali idee sono ulteriormente approfondite nel 1930, anno in cui, in effetti, Galgano, usciti i primi cinque volumi dell’Annuario, compone una
vera e propria ‘Prefazione’100.
Schematizzando, metterei in evidenza i seguenti aspetti, che vado a brevemente elencare.
In primo luogo, direi, spicca la particolare attenzione riservata alla legislazione degli Stati Uniti d’America e del Giappone, contestualmente e
orgogliosamente rilevandosi «l’assoluta novità di un tale tentativo, non essendovi in Europa ed in America alcuna pubblicazione rivolta a seguire il
movimento legislativo giapponese sia nel suo complesso sia in qualche
aspetto particolare – eccezion fatta per la legislazione agraria –, e non esistendo nulla di simile nello stesso Giappone. Questi rilievi si possono, in
tanta parte, ripetere per la legislazione degli Stati Uniti d’America»101.
In secondo luogo Galgano torna a insistere, con pressoché le stesse parole impiegate nel 1924/1927, sulla necessità di fare dell’autentica comparazione, contestualmente indicando il programma di lavoro, in corso di
progressiva, costante e tenace realizzazione: «La fase delle mere discettazioni sull’oggetto e sulla funzione del diritto comparato, sulla sua natura
ed autonomia e simili altre, è superata per l’Annuario: o forse ad essa si potrà
ritornare, con la prospettiva di risultati più sicuri fra qualche tempo, profittando degli insegnamenti conquistati attraverso un congruo periodo di
Ivi.
S. GALGANO, Prefazione, in «Annuario», 1930, voll. IV e V, p. V ss.
101
Ibidem, p. VII. E ivi Galgano prosegue: «È da aggiungere che le esposizioni in parola
non sono che l’inizio di una esplorazione sistematica e continuativa di quei due ordinamenti. Si tratta adunque di un primo tentativo di un avvicinamento veramente serio alla
cultura europea di due mondi giuridici, pressoché affatto ignorati – ed ancora da “scoprire”
– e fra i più caratteristici: il nord-americano, con le sue peculiarità attuali, che lo diversificano profondamente dalla generalità degli ordinamenti del nostro vecchio continente; il
giapponese, con le peculiarità della sua evoluzione storica, interrotta nel suo spontaneo
corso dalla recezione del diritto straniero operatosi nella seconda metà del secolo scorso,
ma a cui, per segni sicuri, esso tende a ricollegarsi nuovamente, e che, in ogni caso, occorrerebbe cercare di meglio conoscere, essendo essa, dal punto di vista giuridico-comparativo, probabilmente di gran lunga [la] più importante delle manifestazioni recenti della
vita giuridica di quel paese».
99
100
420
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
comparazione effettivamente praticata. Comparare, ed applicare alle indagini istituite il rigore di un metodo scientifico inflessibile: altra fase superata
dall’Annuario quella della vana e pericolosa curiosità dei dilettanti; e se qualche residuo ancora ne permanga, l’Annuario non mancherà di porre tutte
le sue forze per disperderne definitivamente ogni traccia»102.
Non si tratta, a ben vedere, di una comparazione che in realtà si esaurisce nella mera e formalistica conoscenza delle legislazioni straniere; perché
l’obiettivo di Galgano è molto più ambizioso: raggiungere la conoscenza
degli ordinamenti (e non solo delle legislazioni) stranieri, nel numero maggiore possibile. Ecco perché notevole attenzione Galgano dedica alle rassegne di giurisprudenza straniera, accanto, naturalmente, alle rassegne
legislative. Questa attenzione riservata alla «illustrazione critico-comparativa» delle decisioni esalta il ruolo più autentico della comparazione: pervenire al sostrato profondo dell’ordinamento studiato, sì da portare alla
luce le ragioni che hanno condotto a un determinato sviluppo del diritto e
all’imporsi di determinate soluzioni. È degna di nota l’idea di affidare l’analisi della giurisprudenza non solo ai giuristi dello stesso ordinamento ma a
giuristi stranieri (italiani e non), e in particolare di fare commentare la giurisprudenza italiana anche a giuristi stranieri103, sì da meglio metterne in risalto gli aspetti davvero decisivi. metodo considerato ormai ovvio, per tutti
noi, dopo la lezione di Gorla e dopo la famosa esperienza dei ‘Cornell Seminars’, ma che già il nostro Galgano aveva inteso valorizzare, considerandolo assai istruttivo anche per lo stesso giurista nazionale, il quale può avere
maggiore difficoltà a collocare la pronuncia all’interno di una catena più o
meno lunga di precedenti, perché avvezzo a un determinato stile argomentativo e di ragionamento; laddove il giurista straniero, da questo punto di
vista, può rivelarsi più sensibile e recettivo, cogliendo meglio quegli elementi
affinché «sia così resa più agevole a lettori stranieri la individuazione del
posto che ciascuna [decisione] occupa nell’attività giurisprudenziale del
paese d’origine, e quindi una valutazione esatta del suo contenuto effettivo
e del suo vero significato […]»104. Questo lavoro, potremmo anche dire, di
Ibidem, p. X.
Novità introdotta appunto nel 1930. Cfr. infatti GALGANO, Prefazione, cit. nt. 100, p.
IX: «Notevole […] l’esperimento compiuto per la prima volta nei presenti volumi, ma destinato ad esser rinnovato in più larga scala, non ostante le particolari difficoltà, nei volumi
successivi, e diretto ad attrarre sulla nostra giurisprudenza l’attenzione e l’elaborazione
critica dei giuristi stranieri».
104
Ivi. ma il vantaggio, naturalmente, gioverà anche allo stesso giurista italiano che, se autentico comparatista, sarà in grado di «proiettarsi fuori di se stesso, e guardarsi oggettivamente nello specchio come un esemplare dei giuristi del suo ambiente, di cui deve tracciare
102
103
421
m. GRONDONA
decostruzione giurisprudenziale serve naturalmente anche nella prospettiva
riformatrice, necessariamente attenta al diritto effettivamente applicato,
onde, ad esempio, evitare di recepire soluzioni normative che si sono mostrate fallimentari nell’‘ordinamento capostipite’105.
Come appare molto chiaramente, dunque, nei primi anni Trenta, la principale iniziativa rivolta alla comparazione giuridica (quindi con uno sguardo
sicuramente più ampio rispetto al pur benemerito Unidroit) non è affetta
da vizi nazionalistici connessi a una funzione costitutivamente imperialistica
del diritto italiano. È vero il contrario: il diritto comparato è un indispensabile ausilio per ogni giurista che voglia definirsi davvero tale: se gli usi del
diritto comparato possono essere (e in effetti sono) i più diversi, come
aveva già osservato giustamente mario Rotondi, è certo che una forte (e
scientificamente fondata) coscienza comparatistica servirà in primo luogo
a sprovincializzare l’ordinamento e la ‘mentalità’ del giurista-interprete, a
partire dalla costante esigenza di una progressiva messa a punto tanto delle
categorie dogmatiche quanto delle soluzioni legislative adottate.
Da questo punto di vista, allora, il diritto comparato è un pungolo critico, che agisce anche sul fattore tempo, oggi, del resto, ancora più decisivo
di ieri, spingendo a modificare ciò che, nella prospettiva transnazionale, risulta essere ormai inadeguato o comunque inefficiente.
ma sotto il profilo spiccatamente metodologico va richiamato un
aspetto già più sopra emerso: il diritto comparato e la scienza giuscomparatistica hanno la caratteristica intrinseca non solo di progressivamente intensificare la sensibilità dei giuristi italiani per i diritti stranieri, così
formando un gruppo di giuristi esperti di diritto straniero, ma, soprattutto,
di educare un intero ceto di giuristi che, formatosi per ragioni generazionali
in un humus favorevole alla comparazione106, da un lato considererà come
perfettamente ovvia l’analisi di esperienze giuridiche non italiane, e dall’altro
sarà un migliore conoscitore del proprio diritto, appunto perché educato a
un certo relativismo dogmatico, che è forse il frutto più duraturo della lezione comparatistica. Anche qui troviamo più di un punto di contatto con
quanto rilevato – e riferito più sopra – da Rotondi.
Certo è vero che, in Galgano, l’esaltazione del diritto comparato si tracomparativisticamente la storia. Da questo punto di vista, perfino i vizi, gli eccessi, gli errori di questi giuristi rappresentano fatti storici che si devono spiegare da una posizione
esterna e non criticare dall’interno»: GORLA, Interessi e problemi, cit. nt. 19, pp. 940-941.
105
Su questi aspetti v. GALGANO, Per un Istituto, cit. nt. 13, p. 15.
106
Singolare che Gorla – pur scrivendo nel 1961! – ragioni come se occorresse partire da
zero: GORLA, Interessi e problemi, cit. nt. 18, spec. pp. 941 e 954-955.
422
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
sforma in quasi automatica esaltazione della cultura italiana e dell’Italia107.
Fa naturalmente parte di questo programma di lavoro, ma non direi in
modo deteriore, l’idea che il diritto comparato è anche una fonte di conoscenza, e quindi di diffusione (possiamo anche dire di ‘propaganda’), del
diritto italiano nel mondo: e infatti Galgano richiama un ambiziosissimo
programma di traduzioni, in italiano, di materiali giuridici stranieri, ma
anche, nelle principali lingue straniere, di legislazione, dottrina e giurisprudenza italiane.
E tuttavia, per usare di nuovo la categoria di Pacchioni, qui non siamo
di fronte a un nazionalismo egoistico; semmai, si tratta di un nazionalismo
altruistico che gareggia con gli altri nazionalismi al fine di una «armonia
superiore»108, che poi altro non è se non il progetto di un diritto universale.
Questo è senza dubbio un Galgano visionario (v. anche infra, § 7, in rapporto alla diversa prospettiva e alla diversa sensibilità, su questo aspetto, di
Amedeo Giannini), ma la sua genuina fiducia nella possibilità di un costante
progresso conseguito grazie al sempre più stretto avvicinamento tra ordinamenti diversi merita quantomeno la nostra ammirazione.
Il diritto comparato non ha – ed è già emerso questo profilo – una
esclusiva rilevanza teorica, tanto è vero che il programma dell’Istituto non
si rivolge soltanto all’accademia ma anche ai pratici, alle pubbliche amministrazioni, ai ceti commerciali e industriali, «in quanto possano avere an-
GALGANO, Prefazione, cit. nt. 100, p. XII: «Oltre a tutto il resto, noi vogliamo servire la
nostra scienza del diritto, intensificando la diffusione ed il gusto della conoscenza degli ordinamenti stranieri. Questa conoscenza, portata presso di noi, per alcune letterature straniere specialmente, ad un’altezza e profondità forse uniche, ma che in questi ultimi anni
presenta qualche segno di affievolimento se non di decadenza, fu già, attraverso la mirabile
rielaborazione del materiale straniero da parte dei nostri maggiori maestri di quest’ultimo
cinquantennio e la ri-creazione spirituale di esso secondo le caratteristiche del temperamento nazionale, una delle maggiori cause di propulsione della nostra scienza. Si verificò
nel campo degli studi giuridici quanto già prima, nel corso della nostra storia, si era prodotto in altri campi della cultura: il progresso della nostra scienza ed una più chiara definizione della sua superiore fisionomia, pel tramite della cultura straniera. In tale particolare
atteggiamento qualche eminente studioso straniero credè di ravvisare come una missione
nazionale per essa, di fusione delle correnti scientifiche d’oltre Alpi, anzi una missione
mondiale, per il profitto che ne avrebbe potuto trarre la scienza giuridica universale. Checchè sia di ciò, occorre sospingere i nostri studi verso la luce di orizzonti sempre più vasti,
se vogliamo mantenere – e portare più innanzi – le posizioni, per la stessa via recentemente
conquistate. E la nostra scienza, e l’attività del pensiero giuridico nazionale in tutte le sue
manifestazioni, noi vogliamo servire ulteriormente, diffondendone pel mondo, nella nostra
lingua, i documenti, insieme con quelli del pensiero giuridico straniero» (corsivo orig.).
108
Ivi.
107
423
m. GRONDONA
ch’essi interesse alla conoscenza degli ordinamenti di altri paesi»109 (e anche
qui è piena la consonanza con D’Amelio): scrive infatti Galgano che l’Annuario vuole porsi «a servigio dei ceti commerciali ed industriali e di quella
“politica” di graduale penetrazione dei mercati stranieri e di più illuminata
tutela dei nostri interessi nei rapporti coll’estero, della quale si parla piuttosto di frequente, trascurandosi costantemente però di tenere presente
che uno dei presupposti essenziali della sua attuazione è la conoscenza degli
ordinamenti giuridici dei paesi, con i quali si è o si vuole entrare in rapporti»110. Ritorna così uno specifico volto di quella politica del diritto comparato cui molto rilievo attribuì appunto D’Amelio nel suo articolo nel
«Corriere della Sera».
Non è dubbio che il più ambizioso obiettivo di Galgano sia «la progressiva unificazione internazionale degli ordinamenti giuridici», da perseguire «attraverso la comparazione e l’uso degli speciali metodi adottati»111,
e cioè – come pur brevemente sottolineato più sopra – attraverso il multiforme strumento delle ‘Rassegne’.
Galgano ragiona in un’ottica di intensi e plurimi sforzi unitari, e infatti
richiama espressamente (e adesivamente), oltre al progetto italo-francese
in materia di obbligazioni e contratti, «la iniziativa, anch’essa italiana, della
costituzione presso la Società delle Nazioni dell’Istituto per l’unificazione del
diritto privato»112, nel presupposto, diciamo pure ideologico, che l’unificazione del diritto esprime «quella legge costante ben nota nella vita dei popoli e dei loro ordinamenti giuridici, per cui gli uni e gli altri tendono verso
forme di unione e fusione sempre più vaste»113, precisando altresì che «alla
sua progressiva attuazione è da augurare che ciascuno cooperi nel limite
delle proprie possibilità, essendo evidentemente la uniformità del diritto
fra gli Stati, oltre che un mezzo di avvicinamento fra i popoli, una delle
condizioni precipue di un adeguato svolgimento dei rapporti giuridici internazionali»114.
Come raggiungere, allora, questo ambizioso obiettivo? Escluso che si
possa percorrere, «nelle presenti condizioni internazionali […]», la via –
«“semplificazione sommaria“ del problema» – della «imposizione autoriIvi.
Ibidem, p. XIII.
111
Ivi.
112
Ivi.
113
Ivi.
114
Ibidem, pp. XII-XIV.
109
110
424
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
tativa di leggi uniformi ad un gruppo più o meno vasto di Stati, il massimo
di quei presupposti [dell’uniformità giuridica] sembra esser costituito dalla
graduale formazione, nell’ámbito di ciascuno di questi, di forze spirituali
favorevoli, di una concezione universale degli ordinamenti giuridici, della
convinzione sempre più diffusa della utilità e possibilità della loro unificazione, di una opinio necessitatis analoga a quella operante come elemento di
formazione spontanea delle consuetudini di diritto interno, della coscienza
internazionale insomma della uniformità del diritto»115.
Ecco che allora, in sintesi, per giungere a un diritto uniforme, occorre
avvalersi, primariamente, di uno strumento culturale, cioè, appunto, il diritto comparato e la comparazione giuridica, sì che, grazie a essi e attraverso
di essi, si possa progressivamente costruire una comune coscienza comparatistica (e nel programma dell’Annuario è reso esplicito il «lavorare proficuamente per la buona causa, cooperando direttamente alla formazione di
quella coscienza»116), che guardi con favore all’universalità del diritto quale
fenomeno spontaneo in quanto rispondente a bisogni umani. In altre parole: «[S]tudiare comparativamente e sempre più intensamente un determinato gruppo di ordinamenti, attirando a tale studio una sempre più vasta
collaborazione internazionale»117.
In mancanza di una tale coscienza, che confida nella comparazione
quale mezzo necessario di avvicinamento tra popoli e nazioni – dunque tra
civiltà –, e quindi di una comprensione reciproca, «l’opera della unificazione, quale che possa essere il prestigio degli organi internazionali appositamente costituiti e l’autorità di statisti o di privati studiosi che ne abbiano
preso l’iniziativa, o il grado di perfezione tecnica delle fonti unificatrici progettate e la loro corrispondenza allo stadio dell’evoluzione scientifica e praIbidem, p. XIV. Del resto aveva osservato T. ASCARELLI, Premesse allo studio del diritto comparato (1945), in ID., Studi di diritto comparato, cit. nt. 9, p. 3 ss., a p. 39: «Proprio lo studio
dei vari diritti, e anche più l’esame della vita giuridica dei vari paesi dimostrano l’unità fondamentale del diritto, e le stesse differenze presuppongono questa unità fondamentale».
E ivi, nt. 62, si legge l’ulteriore rilievo: «Del resto ben evidente [scil. l’unità fondamentale
del diritto] nelle caratteristiche della mentalità del giurista, identiche in tutti i paesi [,] e
nell’unità del metodo giuridico. Tutti i giuristi parlano lo stesso linguaggio». Cfr. allora
GALGANO, Prefazione, cit. nt. 100, p. XV: «E speciale sollecitudine esso [scil. l’Annuario]
porrà nel tentare, per gli ordinamenti fra loro più lontani a causa di più profonde diversità
di concezione struttura e tradizioni, non solo di porre in evidenza gli elementi di affinità
pur sempre presenti, ma soprattutto di cogliere il palesarsi di tendenze dottrinali o giurisprudenziali di avvicinamento agli ordinamenti opposti, non di rado antesignane del prodursi di orientamenti analoghi nel campo dell’attività legislativa».
116
GALGANO, Prefazione, cit. nt. 100, p. XV.
117
Ivi.
115
425
m. GRONDONA
tica degli ordinamenti da unificare, è destinata ad urtare contro resistenze
più o meno invincibili, o, peggio, contro la indifferenza dei vari Stati. Senza
di essa la diversità delle leggi fra i popoli, se non continuerà ad apparire,
come già altra volta alle menti smarrite, un oscuro fato o l’effetto dell’influsso degli astri (coelorum influctiones), permarrà uno stato di fatto più o
meno ineliminabile»118.
Da questo punto di vista, l’esempio principale a cui ispirarsi è quello
del diritto creato spontaneamente dalle prassi commerciali, che in questo
modo riescono a fare breccia contro le inerzie e le resistenze dei singoli
Stati, dunque contro «le resistenze del particolarismo giuridico locale, non
meno tenace nelle diverse parti di una stessa comunità nazionale o statale
che nei singoli elementi della comunità internazionale»119.
Per concludere questa rapida panoramica del ‘manifesto’ dell’Annuario
del 1930 (a cinque anni dai primi passi dell’attività organizzativa e scientifica), possiamo dire che, se sono due le principali direzioni di marcia dell’Istituto e della Rivista, esse sono poi ricondotte a unità nel nome della
comparazione. Una comparazione, che può definirsi davvero tale solo se
scientifica e programmatica: non si tratta, infatti, solo di studiare una pluralità di ordinamenti giuridici per comprenderne le peculiarità, ma si tratta
di mettere a frutto la comparazione in senso trasformativo, con una fortissima tensione verso l’uniformazione del diritto. Il che porta evidentemente
in primo piano il versante della politica di un diritto comparato che si fa
veicolo intrinsecamente politico, cioè realizzatore di obiettivi rilevanti tanto
sul piano accademico quanto sul piano economico, appunto nel segno di
quanto D’Amelio aveva recepito, condiviso e promosso dalle colonne del
«Corriere della Sera».
Ed è allora degna di nota l’insistenza di Galgano sulla circostanza che
la comparazione scientificamente realizzata porterà ‘naturalmente’ al supeIbidem, pp. XIV-XV.
Ibidem, p. XVI. E cfr. altresì p. XIV: «Là dove essa [scil. la coscienza internazionale della
uniformità del diritto] esista del resto e sia più intensamente operosa, la sua efficacia è
tale da superare l’inerzia o le resistenze degli organi ufficiali di produzione delle norme
nei singoli Stati: esempio caratteristico, il diritto uniforme che si viene formando nel
grande commercio internazionale attraverso le frequenti stipulazioni di arbitrati ed altri
noti procedimenti, e che rinnova nel mondo moderno il fenomeno della formazione spontanea di un diritto comune alla pratica mercantile al di sopra delle frontiere dei singoli
paesi. Ed, inversamente, alla mancanza di essa va probabilmente ricollegato il permanere
in alcuni Stati, nonostante una vera e propria politica unificatrice svolta dalle autorità costituite, di un particolarismo giuridico locale, ostacolante in maniera insuperabile la unificazione dei vari diritti territoriali, qual è dato osservare anche oggidì, per vaste zone della
legislazione, negli Stati Uniti d’America e in Isvizzera».
118
119
426
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
ramento dei particolarismi giuridici e aprirà, altrettanto ‘naturalmente’, lo
sguardo alla dimensione transnazionale del diritto (che è quella maggiormente a esso propria), facendo così emergere ciò che di comune vi è all’interno dei vari ordinamenti, appunto rispetto all’intrinseca unitarietà
fenomenologica del diritto medesimo.
Siffatte considerazioni conducono a considerare il sostrato del diritto,
perché è ovvio che potrà parlarsi di vicinanza degli ordinamenti, al di là
delle varie dogmatiche e tradizioni giuridiche nazionali, e tale vicinanza,
poi, potrà risultare effettivamente sussistente (quale esito di una progressiva
convergenza, spesso, però, tutt’altro che naturale e spontanea, ma perseguita in termini di politica del diritto, nei casi migliori, o di una politica che
piega il diritto ai suoi scopi, nei casi peggiori), solo a condizione che il contesto, innanzitutto sociale e economico, presenti analogie, o sia comunque
raffrontabile nel segno della relazionabilità. Da questo punto di vista, allora,
la comparazione opera non solo e non tanto in chiave descrittiva, ma soprattutto valutativa e prescrittiva, onde conseguire un effettivo avvicinamento tra ordinamenti diversi che necessariamente agisce sul versante
economico-sociale sottostante a questi ultimi, incide su di essi e sfocia poi
nella realistica possibilità di dar vita a prassi interpretative comuni, da cui
comuni regole legislative, quale approdo terminale. Qui, è evidente, lo
sguardo del comparatista si allarga per forza di cose al piano sociologico,
perché non vi sono solo le tradizioni giuridiche e le primarie esigenze economiche, a spingere nel senso della uniformazione o, all’opposto, del particolarismo (in ragione, principalmente, del peculiare momento
storico-politico), ma anche «cause del tutto diverse, quali il conservatorismo
dei ceti forensi e l’inerzia degli organi legislativi o il diverso progresso di
una medesima evoluzione, onde non si tratti, nei paesi in cui questa sia più
arretrata, che di sospingerla a conquistare con ritmo più celere le mete già
da altri toccate»120. La scienza comparatistica può allora anche assurgere
(attraverso le necessarie mediazioni culturali) al ruolo di coscienza storica
delle comunità nazionali. Una coscienza orientata verso il progresso (recte:
verso una determinata concezione di esso, necessariamente filtrata da un
giudizio che non può non avere fondamento ideologico): un ‘progresso’,
dunque, che, come tale, ben potrà entrare in frizione con, o frontalmente
scontrarsi contro, le resistenze ovvero le radicali opposizioni a una uniformazione che è, a valle, giuridica perché, a monte, è politico-sociale, quindi
culturale. Si tratta, com’è del tutto evidente, di questioni tuttora aperte e
che, appunto osservate in chiave storica, non possono conoscere una de120
Ibidem, p. XVI.
427
m. GRONDONA
finitiva soluzione, ma solo parziali convergenze e divergenze, frutto di molti
fattori, spesso contingenti. ma non c’è dubbio che l’esigenza di fraternità
e solidarietà giuridico-politica esprime, allora come oggi, un ideale intramontabile, tanto più nella traiettoria dell’universalità del diritto121. La voce
dell’Annuario parlava indubitabilmente un linguaggio universale, a tutti udibile e da tutti comprensibile.
Si può allora anche precisare, per concludere su questo aspetto dell’analisi, che il diritto comparato, rigorosamente e scientificamente inteso,
se, forse, non può essere qualificato quale fonte di diritto in senso proprio
(ma anche questo tema richiederebbe un approfondimento specifico, se
non altro in ragione dell’indiscutibile successo teorico-pratico della comparazione in tutti gli ordinamenti liberal-democratici e non costitutivamente isolazionisti), si avvicina però poi molto a esserlo, proprio perché
la scientificità dell’analisi comparatistica consente di acclarare le ragioni
tanto delle vere, o apparenti, o presunte simiglianze, quanto delle vere, o
apparenti, o presunte differenze sistemologiche, operando essa, in chiave
di politica del diritto, affinché le differenze possano essere progressivamente attenuate, nella costante ricerca di una intesa comune, mettendo in
luce ciò che ‘non si vede’, a occhio nudo, ma che sta al di sotto dello strato
giuridico, e che appunto giustifica ogni sforzo nella prospettiva della relazionalità sistemologica.
Una comparazione così concepita è certamente prossima alla sociologia
e all’antropologia, nonché alla filosofia politica, perché non consiste in una
analisi formalistica di uno specifico diritto legislativo, ma è, in sé, un atteggiamento culturale, che richiede, in chi la pratichi, una intima sensibilità e
una disponibilità alla comprensione della realtà sociale circostante, nella
sua più ampia estensione122. È allora il diritto in quanto fenomeno sociale
che può assurgere a portentoso strumento di comprensione, di sé e dell’altro da sé; quanto al diritto comparato, esso è chiamato a svolgere una
funzione innanzitutto educativa: quella di favorire il formarsi di una compatta comunità di studio123, mettendo così utilmente a raffronto diverse atE ora v. P. COSTA, In bilico tra storia e universalismo morale. Intervista a Hans Joas,
<http://www.leparoleelecose.it/?p=38502> (ultimo accesso 12 luglio 2020).
122
Forte consapevolezza circa il ruolo formativo del diritto comparato, unitamente alla
filosofia del diritto e alla storia del diritto, materie che appunto «constituent une discipline
unique pour la formation de l’esprit juridique […]» è, ad esempio, nella letteratura
dell’epoca, in R. VALEUR, L’enseignement du droit en France et aux Etats-Unis et E. LAmBERT,
L’enseignement du droit comme science sociale et comme science internationale, marcel Giard, Paris
1929, p. 281.
123
GALGANO, Prefazione, cit. nt. 100, p. XVIII.
121
428
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
titudini individuali e prospettive metodologiche diverse; ma una diversità
che non può essere di ostacolo al desiderio di pervenire a intendersi reciprocamente, nella certezza che tale intesa è possibile, dato che si tratta di
una intesa tra esseri umani. Soprattutto, nella certezza che diversità non significa impossibilità di perseguire obiettivi comuni.
Ecco allora perché, lungo questa linea programmatica, il diritto comparato ha una primaria funzione in chiave di politica del diritto: reagire contro ogni particolarismo giuridico, considerato da Galgano quale forma di
non collaborazione, di resistenza delle comunità nazionali124, in opposizione
alla quale il diritto comparato ha davanti a sé un territorio molto ampio da
battere: qui però, e proprio nella prospettiva chiarita da Galgano, sorge un
problema. Se, infatti, non ci può essere un autentico diritto comparato
senza collaborazione internazionale, tale collaborazione, in primo luogo
metodologica, ad avviso del nostro Autore deve servire a eliminare quelle
diversità che dipendono dalla pluralità di metodi e di giudizi di valore: il
che, però, pone appunto la delicatissima questione del rapporto tra universalismo e pluralismo125, aprendo così potenzialmente le porte a un diritto
comparato tanto nazionalista quanto imperialista, ovvero imperialista in
quanto nazionalista.
7. La resa dei conti tra internazionalismo e nazionalismo giuridico
Giunti a questo punto dell’analisi, disponiamo di una serie – certo, ribadisco, frammentaria, ma non credo incoerente – di elementi, i quali permettono, da un lato, di concludere (ma si tratta di una conclusione
largamente provvisoria) il discorso svolto in particolare nel paragrafo precedente e relativo all’afflato internazionalistico, e anzi universalistico, del
diritto comparato, e, dall’altro, di individuare (anche qui, provvisoriamente)
alcuni fatti e elementi da leggersi, invece, in una prospettiva radicalmente
In senso contrario cfr. ad esempio A. ASCOLI, L’évolution du droit privé en Italie de 1869 à
1919, in Les transformations du droit dans les principaux pays depuis cinquante ans (1869-1919),
Livre du cinquantenaire de la Société de Législation comparée, t. II, LGDJ, Paris 1923, p.
197 ss., a p. 217: «Nos Codes latins ne peuvent et ne doivent pas subir la superposition
des droits étrangers». ma v. allora A. ALVAREZ [discorso tenuto in occasione del ‘Banquet’],
ivi, t. I, 1922, p. 109 s., a p. 110, sulla necessità, mettendo a confronto i varî sistemi giuridici,
di dar vita a un nuovo diritto, e cioè a un diritto sociale fondato sulla cooperazione e sulla
solidarietà.
125
Cfr. infatti di nuovo l’interessante scritto di D’EmILIA, Correlazioni fra sistemi giuridici e
coscienza sociale, cit. nt. 39.
124
429
m. GRONDONA
opposta: quella di un diritto comparato che, per un verso, si indebolisce e
che, per altro verso, assume un ruolo angustamente politico e contrario a
quello messo al centro del programma di lavoro di Salvatore Galgano, e
non in piccola parte realizzato, grazie all’indiscusso carattere scientifico
dell’Annuario. Alludo, è ovvio, a una propensione imperialista del diritto
comparato che è il frutto, innanzitutto, di un mutamento di clima culturale.
Di tale mutamento possiamo prendere a simbolo il «Primo Convegno
Nazionale per gli Studi di Politica Estera», organizzato su iniziativa dell’Ispi,
tenutosi a milano nell’ottobre del 1936 e i cui ‘atti’ apparvero nel giugno
del 1937126. L’Ispi, che nel 1936127 aveva conosciuto un rinnovamento strutturale e un irrobustimento politico-strategico (dovendosi così allora però
conciliare, con non poco disagio, le esigenze della scienza con quella della
Una succinta ma completa scheda informativa circa il contenuto del Convegno (svoltosi
a milano nei giorni 15, 16 e 17 ottobre 1936), intitolata Il primo convegno nazionale per gli studi
di politica estera e siglata ‘C. B.’ [ma si tratta di Claudio Baldoni, che fu relatore al Convegno],
si legge in «Annuario», 1937, vol. XII, p. 371 s. Gli ‘atti’ apparvero appunto nel 1937, ma
in realtà non si tratta di atti in senso proprio. Cfr. infatti I° Convegno Nazionale di Politica
Estera, cit. nt. 64, p. 5: «Non si è inteso preparare un volume di Atti vero e proprio, ma
scegliere dalle singole relazioni quanto era appena sufficiente a far sentire al lettore le diverse tendenze manifestatesi e ad impostare nei loro diversi aspetti, su base organica e
storica, i singoli problemi».
127
V. infatti A. mONTENEGRO, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per
gli studi di politica internazionale. 1933-1943, in «Studi Storici», 1978, p. 777 ss., a p. 799: «Il
1936 fu per l’Ispi l’anno dell’effettivo decollo, l’anno in cui la sua notorietà comincerà a
imporsi in tutta Italia», e a p. 791: «Fu così che nell’arco di qualche mese l’Ispi fu messo
nelle condizioni di intensificare l’attività di conferenze, di attrezzare un’ampia biblioteca
specializzata con emeroteca nella quale cominciarono ad essere raccolti giornali e riviste
specializzate di tutto il mondo, e di passare dalle due modeste stanze di piazza Duomo 21
alle ben sedici stanze di via Silvio Pellico 8». ma nel 1937 l’Ispi cambierà ancora sede, ulteriormente espandendosi: cfr. l’articolo, non firmato, intitolato Gli Studi internazionali e
apparso nel «Corriere della Sera» del 4 dicembre 1937, p. 4, di cui si riporta qui di seguito
il primo capoverso: «Il ministro per l’Educazione nazionale, on. Bottai, inaugurerà domani,
alle 17, nell’aula magna della Regia Università, il nuovo anno accademico dell’Istituto per
gli studi di politica internazionale. Aprendo il ciclo delle conferenze che saranno tenute
poi, durante l’anno, all’Ateneo e nella sala dell’Alessi a palazzo marino, da ambasciatori,
da ministri plenipotenziari, da studiosi e specialisti di politica estera e da personalità diplomatiche straniere, il ministro – come è stato annunciato – svolgerà la sua attesa prolusione su un tema di diritto comparato, di viva attualità e di alto interesse politico e sociale:
“Nuovi orizzonti costituzionali degli Stati” [al momento in cui scrivo, non sono stato purtroppo in grado di reperire il testo della prolusione, che non si trova depositato presso
l’archivio storico dell’Ispi]. Prima egli si recherà a visitare la nuova sede dell’Istituto, in via
Borghetto, 2, dove l’importante centro di studi si è trasferito, occupando tre piani di un’ala
del palazzo Bocconi». All’Ispi dedica altresì giusta attenzione (ma il discorso non può qui
essere approfondito come si dovrebbe) CIOLI, Il fascismo e la ‘sua’ arte, cit. nt. 22, pp. 315316.
126
430
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
propaganda: v. infra), diviene, verosimilmente, il centro italiano più importante, non solo per studiare, ma anche per orientare la politica estera del
Paese, nonché (operazione culturale ancora più delicata) per trasmettere
alla popolazione una interpretazione della politica estera favorevole al regime128. All’interno di questo quadro generale, da un lato il diritto pubblico
invade il diritto privato all’insegna del corporativismo129 – e il diritto processuale, come perfettamente noto, viene ad assumere connotati pubblicistici, pur senza fanatismi130; dall’altro lato la comparazione di stampo
Cfr. infatti le seguenti parole del presidente dell’Ispi Alberto Pirelli, pronunciate in occasione dell’inaugurazione del convegno: «L’azione di istituti come il nostro che mirano a
portare il loro contributo a quest’opera di studio e di informazione potrà essere diversa a
seconda che si rivolga a minoranze dirigenti o a larghe masse della Nazione. L’informazione tecnica particolareggiata farà al primo caso, la divulgazione a larghe linee, non senza
i caratteri, all’occorrenza, di una seria ed oculata propaganda, sarà quella opportuna per il
secondo. […] D’altra parte è da distinguere la tendenza a diffondere fra le classi più elevate
un maggior interessamento per gli studi di politica estera, e a creare altresì una pubblica
opinione obiettivamente informata e nazionalmente cosciente anche nelle questioni di ordine internazionale, dalla tendenza che è maturata in molte democrazie parlamentari a lasciar dominare la politica estera – portata nella pubblica arena – dalle passioni e dagli
interessi di parte o dagli impulsi mutevoli delle folle. Dove il senso della disciplina e della
responsabilità è mancato e l’intervento popolare in fatto di politica estera è diventato una
delle manifestazioni della degenerazione parlamentare e della diretta pressione di folle
sempliciste, ignoranti e passionali, su Governi deboli e passeggeri, ivi si sono avute conseguenze veramente nefaste e le esperienze non sembrano chiuse. Un caposaldo dovrà
sempre essere ben presente al nostro studio: la conoscenza dei bisogni della Nazione come
un tutto. Bisogni di sicurezza e di difesa, bisogni di vita economica, di espansione materiale
e spirituale» (I° Convegno Nazionale di Politica Estera, cit. nt. 64, pp. 13-14).
129
Cfr. ancora CHIODI, Costruire una nuova legalità, cit. nt. 3, p. 233: «Il corporativismo è il
tocco di mida che serve a incanalare in nuove direzioni un dibattito che rischiava lo stallo,
ad educare verso la trasformazione di concetti e delle categorie della tradizione, adattate
ad una visione autoritaria destinata a superare le presunte ingiustizie dell’individualismo.
È precisamente questo il salto di qualità politico che si nota in questo filone della produzione
scientifica, destinato ad assumere proporzioni più vaste nel corso degli anni Trenta […]»
(corsivo orig.). Da vedere, nella letteratura dell’epoca, R. HOEHN, Le droit subjectif public et
le IIIme Reich, in Introduction à l’étude du droit comparé. Recueil d’Etudes en l’honneur d’Edouard
Lambert, t. III, cit. nt. 3, p. 240 ss.
130
Cfr. A. TORRENTE, Le linee generali della riforma dei codici nel discorso di S. E. Grandi alla
Commissione delle Camere legislative, in «Annuario», 1940, vol. XIV, p. 745 s.: «I nuovi codici
s’ispireranno, anzitutto, alla nostra tradizione giuridica. Le solenni parole del ministro al
riguardo non possono non rimanere impresse nel cuore e nella mente di ogni giurista italiano: “le frontiere del Diritto, del nostro Diritto romano e italiano, debbono essere difese
da noi con la stessa tenacia con cui difendiamo le nostre frontiere storiche e geografiche”.
ma, nel solco scavato dal diritto di Roma, che è vanto eterno della nostra Stirpe, le leggi
in elaborazione dovranno essere pervase dal nuovo spirito, prevalentemente pubblicistico,
il quale, dopo la Carta del lavoro e l’ordinamento corporativo, influenza anche i rapporti
fra privati, pur serbando un saggio equilibrio che esclude ogni eccesso e garantisce i diritti
128
431
m. GRONDONA
privatistico subisce un rallentamento131, soprattutto rispetto agli ambiziosi
obiettivi dell’armonizzazione o, addirittura, dell’uniformazione, tanto più
in prospettiva universalistica. Del resto, se il contesto politico-filosofico è
impregnato di organicismo132, non può sorprendere che siano le discipline
giuridico-politiche a sopravanzare quelle privatistiche, e dunque è logico
che la scienza politica, quella politologica, nonché quella costituzionalistica133 – come appunto ben mostra la centralità assunta dall’Ispi nel corso
degli anni Trenta – siano particolarmente apprezzate dal regime (mi limito
qui a questo accenno che richiederebbe ben altri approfondimenti), tanto
più se ‘indirizzate’, nei limiti del possibile, alla costruzione, appunto, di una
‘legalità fascista’134.
degl’individui, delle categorie e quelli intangibili dello Stato. […] Il ministro si sofferma,
quindi, sulla riforma che appare più urgente e più delicata, quella della procedura civile.
Essa dovrà ridare al popolo italiano la fiducia nell’amministrazione della giustizia civile,
assai scossa in questi ultimi tempi per la lentezza e il formalismo del codice attuale, tutto
pervaso da concezioni prettamente individualistiche e liberali. […] [L]a riforma procedurale che si sostanzia in una maggiore e più profonda penetrazione dell’elemento pubblicistico, corrispondente ai postulati che la scienza è venuta preparando e formulando in
quest’ultimo cinquantennio, è ben lontana, nel sano e consapevole realismo romano, italiano e fascista che la anima, dalle aberrazioni cui si giunge in altri paesi [il riferimento è
naturalmente alla Germania], ove si propone addirittura l’abolizione del processo civile e
la sua trasformazione in giurisdizione volontaria».
131
ma v. allora l’importante precisazione di F. LANCHESTER, Per una cattedra di diritto pubblico
comparato. Vincenzo Zangara tra due SSD, in «Nomos», 2-2019, p. 1 ss., <http://www.nomosleattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2019/06/LANCHESTER-saggio-formattato-4.pdf>
(ultimo accesso 5 luglio 2020), a p. 14, nt. 76: «L’attivazione della materia con ordinario è
situabile nel 1936». Il che ci riporta al tema delle contraddizioni interne alla politica del
diritto del regime, tanto è vero che G. mELIS, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello
Stato fascista, il mulino, Bologna 2018, p. 299, si chiede, tutt’altro che retoricamente: «[m]a,
in definitiva, ebbe poi il fascismo una sua idea univoca, coerente della politica del diritto?».
In senso più ampio e rispetto a quanto accennato nel testo v. ibidem il Cap. III («Le istituzioni»), e in particolare le pp. 253-299.
132
Sul punto si sofferma I. BIROCCHI, Il giurista intellettuale e il regime, in I giuristi e il fascino
del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi e L. Loschiavo, RomaTrE-Press, Roma 2015,
p. 9 ss., a p. 50 (ma si v.no le pp. 48-54), il quale tratteggia da par suo la fase iniziale della
costruzione del regime (p. 49), mettendone in luce i punti salienti dell’intelaiatura (ivi), tra
cui appunto lo spirito organico che legava i soggetti secondo un ordine (p. 50), il concetto
di funzione (ivi), la visione organicistica con al centro la sovranità dello Stato, «motore e
centro direttivo del sistema giuridico» (p. 51).
133
Cfr. infatti quanto si dice alla nota 127, in fine.
134
Cfr. di nuovo CHIODI, Costruire una nuova legalità, cit. nt. 3, pp. 243-244, a proposito del
progetto di un codice unico delle obbligazioni sulla base della nuova alleanza italo-germanica: i principî della proprietà privata, della libertà contrattuale, della libera concorrenza
e dell’associazione privata vanno bensì conservati, ma devono essere sottoposti a una di432
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
Si può poi aggiungere, permanendo nell’orbita Ispi, che il 1937 è un
anno altrettanto significativo, nella prospettiva di queste pagine, perché
esce, nella Collana «manuali di Politica Internazionale», edita appunto dall’Ispi, il volume di Giovanni Pacchioni già più volte citato e sul quale sarà
opportuno fare ancora un cenno nelle battute finali di questo scritto.
Può allora dirsi, in sintesi, e rispetto al contesto generale, che il diritto
è ormai assorbito interamente dalla politica, ma siamo, beninteso, non già
di fronte a una politica del diritto, ma a un diritto che si è fatto politica in
ragione delle ambizioni, nazionali e internazionali, del regime. Di talché la
politica estera italiana, e in particolare le strategie politiche del regime nei
confronti dei soggetti istituzionali direttamente interessati a queste tematiche, rappresentano un punto di osservazione significativo anche rispetto
alla specifica vicenda del diritto comparato, che si isterilisce nel momento
in cui divenga, come più volte notato, strumento di imperialismo politico
e culturale, perché allora viene meno, pressoché automaticamente, il senso
e il fondamento stesso della comparazione, e quasi il suo motto, che potrebbe suonare come ‘conoscere per rispettare’. Il diritto comparato alleato
con l’autoritarismo politico è sempre destinato a una breve vita.
Procediamo però per gradi, in queste considerazioni conclusive.
Che l’appartenenza al fascismo, fino alla fine135, non sia di per sé un elemento intrinsecamente ostile a una idea di armonizzazione giuridica di ispirazione internazionalistica è ben testimoniato da Amedeo Giannini. La
figura di questo giurista è caratterizzata, appunto negli anni Trenta, da una
genuina e tenace volontà di pervenire al maggior grado possibile di uniformazione giuridica, e ciò proprio per contrastare i varî nazionalismi giuridici
espressi attraverso la fedeltà alle diverse tradizioni dogmatiche.
Questa spinta armonizzatrice passa principalmente – e non potrebbe
essere altrimenti, come già riscontrato – per il diritto commerciale, ma si
fonda su una prospettiva politica e su una esigenza metodologica più ampie,
versa interpretazione, alla luce del diritto costituzionale di Italia e Germania e alla luce del
diritto corporativo. Il punto è che il diritto privato ha rilevanza costituzionale. E cfr. allora,
nella letteratura dell’epoca, i notevoli contributi dedicati all’approfondimento di diversi
aspetti del «phénomène universel de la “publicisation” du droit privé», in Introduction à
l’étude du droit comparé. Recueil d’Etudes en l’honneur d’Edouard Lambert, t. III, cit. nt. 3, p. 117
ss.
135
E infatti Giannini (che prese la tessera del partito nel 1923: cfr. BIROCCHI, Il giurista intellettuale e il regime, cit. nt. 132, p. 44) non solo fu epurato, ma non propose ricorso, in base
al principio ‘se abbiamo sbagliato, paghiamo’: traggo l’informazione da G. PERA, Virgilio
Andrioli, in «Il Foro italiano», 2020, V, c. 258 ss., a c. 258, il quale riferisce quanto già scritto
da Arturo Carlo Jemolo, così glossando, in base a quanto gli venne raccontato: «[…] Giannini, scanzonato, prese sul ridere la cosa […]».
433
m. GRONDONA
che appunto mi paiono ben intersecarsi con la concezione del diritto comparato quale strumento promozionale del progressivo avvicinamento,
anche settoriale, tra ordinamenti distinti. E infatti la sensibilità di Giannini
è rivolta (quale aspirazione ideale) all’unificazione del diritto privato europeo136, poi dovendo però accettare, realisticamente, la riduzione del programma al solo diritto commerciale. ma nello scritto programmatico del
1933, l’Autore, riflettendo sul rapporto tra armonizzazione e uniformazione del diritto privato, ovvero di alcuni settori di esso – che saranno naturalmente quelli del diritto privato patrimoniale –, pone due questioni
preliminari: «Non dovrebbe il movimento [per l’unificazione] avere carattere mondiale anziché europeo? È possibile un’intesa europea?»137. Giannini, giustamente, non considera percorribile una risposta formulata in
termini assoluti, distinguendo poi egli anche tra ordinamenti dell’Europa
continentale, con l’eccezione dell’URSS, e Gran Bretagna138, poiché «[l]e
intese giuridiche coi popoli anglosassoni, nel campo del diritto privato, sono
estremamente difficili. La Gran Bretagna ha potuto accedere ad accordi
per diritto marittimo aeronautico e fluviale, perché [,] specialmente in quelli
del diritto marittimo, la sua preponderanza marittima ha fatto accettare
principii suoi, ma difficilmente può accedere ad altri accordi di diritto privato, pei quali accedere al suo diritto è impossibile»139. Ecco che allora, proCfr. infatti A. GIANNINI, Il movimento per l’unificazione del diritto privato in Europa, in «Rivista
di diritto privato», 1933, I, p. 3 ss.
137
Ibidem, p. 8.
138
Ibidem, p. 9: «Con queste limitazioni un’intesa continentale non è impossibile, ancorché
per taluni argomenti presenti innegabili difficoltà. Bisogna però tener presente che, agli
effetti di una più intensa cooperazione europea, non occorre sempre un diritto comune
per tutti gli istituti giuridici. Nella discriminazione degli istituti giova tener conto dei vari
metodi finora seguiti per codificare il diritto per utilizzarli convenientemente. Talune materie meritano una disciplina uniforme: ogni altro sistema sarebbe inadeguato. Rientrano
in tale categoria gli istituti propri del commercio e dei traffici e il diritto delle obbligazioni.
Altre materie andrebbero regolate con accordi diretti a disciplinare esclusivamente i rapporti internazionali. Rientrano in tale categoria i problemi inerenti al diritto processuale.
Tutte le altre materie (diritto di famiglia, successioni, diritti reali ecc.) devono essere lasciate
alle leggi interne, addivenendo ad accordi internazionali per disciplinare i conflitti di legge,
salvo l’adozione eventuale di leggi straniere fra popoli affini per tradizioni, cultura e uniformità di ordinamenti sociali».
139
Ivi. Cfr. allora il rilievo di GUTTERIDGE, L’atteggiamento, cit. nt. 17, spec. pp. 94-95: «Un
ordinamento giuridico come ramo del sapere, non può stare isolato dagli altri ordinamenti.
[…] Sinceramente io sono imbarazzato di questo atteggiamento dei giuristi inglesi. […]
Perché i giuristi inglesi dovrebbero chiudere risolutamente gli occhi a tutto ciò che succede
nel mondo giuridico che non porti il certificato di nazionalità inglese? Non si pretende
che i nostri giudici debbano applicare il diritto straniero, ma nei casi in cui una controversia
136
434
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
prio rispetto a un siffatto problema, che attiene ai profili tecnici e non già
politici del diritto anglosassone, un diritto comparato inteso nella prospettiva di Salvatore Galgano, ben potrebbe servire per conseguire una progressiva convergenza, a partire dalle comuni esigenze in primo luogo
economiche. È però del resto evidente che è proprio intorno a questi snodi
che possono insorgere frizioni a cavallo tra le strategie politiche degli Stati
e le diverse tecniche giuridiche e le diverse tradizioni dogmatiche nazionali,
così utilizzando l’elemento della ‘diversità giuridica’, sostanziale o formale
che sia, per difendere e anzi irrobustire una determinata politica commerciale, o, più in generale, la politica estera tout court: ritorna dunque la centralità della politica del diritto comparato come strumento strategico anche
in riferimento alle relazioni internazionali, e le sfaccettature che possono
manifestarsi sono naturalmente le più varie.
ma quando si discorra di armonizzazione all’interno di esperienze giuridiche comuni anche a prima vista, per ragioni storiche, come appunto accade rispetto agli ordinamenti dell’Europa continentale, e in un momento
storico favorevole all’afflato internazionalistico140, il problema risulta essere
allora «più politico che tecnico e una politica di realizzazioni deve saper accettare i compromessi e limitarsi alle possibilità»141. È peraltro indubbio
che la prospettiva di Giannini sia con forza orientata contro quel ‘nazionalismo egoistico’ già ormai più volte evocato; ma è altrettanto vero che la
non si possa decidere in base a precedenti, il sussidio fornito alla Corte dalla legislazione
estera può essere di grandissimo valore».
140
GIANNINI, Il movimento, cit. nt. 136, p. 10. E cfr. di nuovo GUTTERIDGE, L’atteggiamento,
cit. nt. 17, p. 98: «Il diritto comparato in relazione al nostro interesse nazionale può, io
credo, essere determinato in questo modo. Lo sviluppo industriale e tecnico del XIX° e
XX° secolo hanno indubbiamente portato le nazioni ad essere molto più unite tra loro. Il
mondo sembra tendere a svilupparsi in una unità economica, e non è più possibile per la
Gran Bretagna di starsene più a lungo lontano e in atteggiamento di isolamento dal pensiero giuridico del Continente. Noi siamo indotti bene o male, a una politica di cooperazione internazionale in più campi, per la quale in seguito a trattati, noi dobbiamo assumere
obblighi che implicano molte volte la necessità di sviluppare o di emendare le nostre leggi.
Se noi non siamo in grado di comprendere la struttura del diritto straniero, il significato
della terminologia giuridica straniera e la mentalità dei giuristi stranieri, noi possiamo facilmente trovarci di fronte a difficili e imbarazzanti problemi. I pericoli che conseguono
ad una politica di isolamento giuridico, sono illustrati in modo evidente dalla disillusione
dei giuristi tedeschi quando si avvidero che il Trattato di Versailles non doveva essere interpretato, come essi avevano un po’ ingenuamente supposto, in accordo colle concezioni
ed i metodi tedeschi». Cfr. allora anche PACCHIONI, L’impero britannico, cit. nt. 63, passim
ma spec. i Capp. XI («L’Impero britannico e la Società delle Nazioni»), pp. 163-169, e XII
(«L’impero britannico e la riunificazione dell’Europa continentale»), pp. 171-182.
141
GIANNINI, Il movimento, cit. nt. 136, p. 10.
435
m. GRONDONA
prospettiva di Giannini, rispetto a quella di Galgano, non ha nulla di visionario142, perché netto è il rilievo che «non è possibile ideare un sistema generale assoluto di codificazione; occorre prudentemente esaminare ciascun
problema nella sua particolare situazione»143.
Ci veniamo così a trovare di fronte al vero ostacolo all’armonizzazione,
e a maggior ragione alla unificazione: «[G]li orgogli nazionali e [il] conservatorismo dei giuristi. Ogni giurista finisce per vedere nel proprio sistema
giuridico nazionale un patrimonio nazionale da difendere. Ci si chiude dentro come in una torre d’avorio e diventa diffidente e misoneista, anche
quando non può non constatare che un altro regolamento giuridico è migliore. Finiscono per prevalere gli idola baconiani»144; ma, sottolinea con
forza Giannini,
[t]ale visione è […] evidentemente falsa e storta. Quando si codifica internazionalmente è interesse di tutti aver buone norme. Non vi sono successi politici che possono fuorviare. Ogni Stato può difendersi contro una
Convenzione mal fatta, denunziandola e chiedendone la revisione. Onde
è interesse di tutti trovare la norma che meglio risponde alle comuni esigenze. Comuni, perché se non v’è un interesse comune, non si fanno convenzioni del genere. Perché tali convenzioni possano essere stipulate,
occorre che interesse internazionale e interesse nazionale coincidano, cioè
che sia di interesse nazionale arrivare ad un’intesa internazionale. E se,
per raggiungerla, occorrono delle transazioni, non bisogna guardare l’accordo concluso soltanto nelle transazioni che sono state necessarie e nei
difetti che può presentare, ma valutarlo nel suo complesso, cioè esaminare
se il vantaggio dell’intesa è tale che superi gli svantaggi e conviene quindi
accettarlo, anche e malgrado le sue deficienze. Senza questa visione serena
degli interessi nazionali – che manca spesso negli stessi negoziatori – non
è possibile fare una politica legislativa seria. Chi è disposto a percorrere
142
Che Galgano assuma toni visionari e di cieca fiducia nel diritto comparato emerge assai
bene dal seguente passaggio che in legge in GALGANO, L’organisation et l’activité, cit. nt. 72,
p. 69: «Des diverses manières par lesquelles on peut servir la grande cause de l’unification
législative entre les peuples, notre Institut a choisi la manière peut-être la plus difficile et
la plus lente, mais infaillible, qui consiste à coopérer à la naissance et au développement
des forces spirituelles qui lui sont propices, à la formation d’une conception universelle
des législations et de la conviction toujours plus répandue de l’utilité et possibilité de leur
unification, de la conscience internationale enfin de l’uniformité du droit».
143
A. GIANNINI, Il movimento internazionale per l’unificazione del diritto commerciale, Vita e Pensiero, milano 1931, p. 61.
144
Ivi.
436
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
la sua strada, non deve arrestarsi dinanzi all’innocuo e tumultuoso gracidio
dei ranocchi rimpiattati nei fossati melmosi. E d’altra parte siamo ai primi
passi. Quando la coscienza di far opera comunemente utile, avrà creato
un’atmosfera di fiducia, sorretta dai risultati delle prime esperienze, sarà
anche possibile e più facile elaborare accordi migliori e più rispondenti
alle esigenze che si intendono soddisfare, così come la legge interna si è
svincolata dalla visione di tutela di interessi unilaterali per divenire tutela
di interessi nazionali145.
A questo proposito emerge una divergenza di approccio, se non una
vera e propria opposizione, tra mondo dell’economia e mondo politico,
con particolare riferimento alla legislazione: nel senso che l’esigenza economica è naturaliter transfrontaliera, ma, nella prospettiva dell’armonizzazione/uniformazione, è chiaro che tale esigenza si incontra e si scontra con
un nazionalismo politico spesso miope. Prospettiva, questa, senza dubbio
disallineata tanto rispetto al contesto nel quale il diritto comparato è sorto,
quanto rispetto alle finalità da quest’ultimo perseguite. Nell’orizzonte economico, infatti, abbiamo una fiducia (che è anche un’esigenza) rivolta agli
scambi e quindi al mercato; un mercato inteso quale strumento di trasformazione spontanea, e piuttosto celere, del tessuto regolativo, a fronte delle
rigidità insite negli ordinamenti giuridici. Giannini comprende le difficoltà
e le lentezze del legislatore, fermo restando che un interesse nazionale
(dell’Italia e degli altri Paesi) rettamente inteso dovrebbe tendere alla massima armonizzazione possibile, e anzi all’uniformazione: «Gli uomini d’affari hanno minori preoccupazioni. Un sano politico ed un legislatore non
possono mettersi su questa via. Devono soltanto calcolare il vantaggio nazionale. Se per arrivare ad un’intesa sono necessarie transazioni sul sistema
giuridico nazionale e su alcune esigenze nazionali, occorre valutare se il
vantaggio dell’intesa supera gli svantaggi e consiglia quindi le transazioni.
In tal caso è saggezza arrivare all’intesa. È la valutazione complessiva del
problema che gioca nella decisione. Quando è veramente urgente che un
argomento sia disciplinato, tutte le difficoltà si vincono. Anche gli Stati più
riluttanti alle intese diventano transigenti»146.
Possiamo quindi dire che, in Giannini, il tema della comparazione è
coltivato nella prospettiva di una progressiva ma necessaria unificazione, a
partire dal diritto commerciale, proprio per la sua intrinseca transnazionalità, ma senza fermarsi al diritto commerciale, e dunque aprendo il processo
145
146
GIANNINI, Il movimento, cit. nt. 136, pp. 10-11.
GIANNINI, Il movimento internazionale, cit. nt. 143, pp. 61-62.
437
m. GRONDONA
all’intero diritto privato, nella consapevolezza che un diritto privato comune
è la risposta giuridica all’internazionalismo politico, il quale, da un lato, funziona quale strumento di avvicinamento dei vari ordinamenti giuridici e,
dall’altro, è a sua volta rafforzato dai progressi che l’armonizzazione via via
consegue. Siamo quindi di fronte a un internazionalismo tanto politico
quanto giuridico che si alimentano reciprocamente.
L’unificazione del diritto commerciale è quindi la via più lineare per un
successivo avvicinamento dei vari ordinamenti; ma, affinché, prima, l’armonizzazione e, poi, l’unificazione possano realizzarsi, è necessaria la costante presenza del diritto comparato, se non quale vocabolario universale,
quale strumento di traduzione concettuale in funzione operativa, sì che le
peculiarità tecniche di ogni ordinamento siano ricondotte a unità, quando
ciò sia tecnicamente possibile, ovvero siano sostituite da altri criterî, quando
la distanza tecnica risulti essere effettivamente incolmabile: qui, infatti, entra
in gioco la compatibilità non tra tecniche o tra testi legislativi, ma tra contesti, che consentirà così il superamento di quelle diversità tecniche altrimenti insormontabili. Del resto, nella sfera della politica del diritto, e quindi
del giudizio di valore, sono maggiori i benefici arrecati (quantomeno) dall’armonizzazione, rispetto ai costi insiti in ogni particolarismo giuridico, a
partire da un’incomprensione reciproca di fondo, che assume rapidamente
le fattezze della resistenza culturale e che porta a considerare ogni ordinamento in chiave di eccezione da preservare di fronte al rischio di possibili
contaminazioni.
In questa prospettiva, espressa da un Giannini non solo giurista, ma
soprattutto organizzatore, negoziatore e costruttore di rapporti internazionali147 (una prospettiva certo non incompatibile con quella perseguita
da Galgano), il diritto comparato è chiamato a svolgere anche la funzione
di sprovincializzare il diritto nazionale, che però trova lo spazio e la forza
per reagire: «Il nostro vecchio continente diventa sempre più piccolo per
la nostra inesausta febbre di moto e di traffici e pei nostri bisogni mai soddisfatti. Più cresce l’internazionalismo, più profondo e senza antitesi si sviluppa il nazionalismo. Ecco la realtà di oggi, per la quale dobbiamo trovare
l’espressione giuridica adatta. Fermare il movimento giuridico nella cerchia
puramente nazionale è impossibile. Esso è più forte di noi e ci trascina.
Conviene quindi allargare il nostro respiro; il giurista non deve e non può
isolarsi dalla vita e deve saper esprimere quella che è l’essenza stessa del diritto, cioè la vita nel suo moto e nel suo flusso contino e mobile. Codificare
Cfr. G. VEDOVATO, Amedeo Giannini, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 1961,
p. 477 ss.
147
438
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
per situazioni storiche superate non è opera di prudenti, ma di archeologi
del diritto. Il giurista non deve arrivare sempre al tramonto, come la civetta
che teme il sole che l’accieca, ma del movimento storico che si sviluppa
deve saper cogliere le esigenze profonde. L’esigenza di una più profonda
collaborazione giuridica è innegabile. Quali sono i suoi limiti, le sue possibilità mediate ed immediate, come può meglio e progressivamente realizzarsi, deve essere oggetto di studi, non di soli giuristi e non di soli uomini
politici, ma della collaborazione di giuristi e politici, in modo che netta e
serena sia la valutazione dei problemi»148.
Orbene, all’interno di questa strategia complessiva e connotata ancora
una volta in chiari termini di politica del diritto, Giannini, criticando aspramente, come visto, il conformismo e il tradizionalismo dei giuristi, non
solo propone una serie di tappe in vista dell’unificazione149, ma chiarisce
che il movimento di armonizzazione e di unificazione del diritto deve procedere per reciproca assimilazione progressiva dei sistemi giuridici150, pervenendosi così a individuare un criterio di uniformazione giuridica (certo
qui riferito al solo diritto commerciale, ma la sensibilità di Giannini andava
appunto ben al di là di questa materia, coprendo larga parte del diritto privato) lontanissimo da ogni nazionalismo, e quindi molto interessante, sul
piano metodologico, nella prospettiva di queste pagine: «[I]l vantaggio di
norme certe e sicure è sempre superiore agli svantaggi delle transazioni che
occorre fare sul proprio diritto nazionale per arrivare a norme di carattere
internazionale, ancorché la transazione importi abbandono di norme nazionali tecnicamente e giuridicamente migliori»151.
Un’affermazione, questa, che può risultare problematica già solo nella
prospettiva del diritto commerciale, ma che assume una portata ancora più
dirompente se pensata rispetto all’intera area del diritto privato, o addirittura
del diritto in genere: siamo dunque di nuovo di fronte a quell’universalismo
giuridico che, da un lato, ha la sua ragione intima in una comparazione
scientificamente intesa152 e, dall’altro, si prefigge di coniugare forza di conGIANNINI, Il movimento, cit. nt. 136, p. 12.
In termini sintetici, v. infatti GIANNINI, Il movimento internazionale, cit. nt. 143, p. 63.
150
Ivi.
151
Ivi.
152
Su questo aspetto, che abbiamo visto assai enfatizzato da Galgano, nello stesso torno
di anni si sofferma ad esempio anche GUTTERIDGE, L’atteggiamento, cit. nt. 17, spec. p. 96:
«Sono disposto ad ammettere anche che molte delle analitiche investigazioni di diritto
straniero che sono state realizzate in passato, sono state una pura perdita di tempo. Così
come sono anche pronto ad accettare – ciò che è in accordo anche colle mie esperienze
148
149
439
m. GRONDONA
cezione teorica e forza di realizzazione pratica, muovendosi infatti esso
lungo la privilegiata strada del commercio internazionale, che è la principale
strada della libertà.
ma ritorniamo, a questo punto, su quel giusto rilievo di Giannini per
cui lo sviluppo dell’internazionalismo produce anche il parallelo effetto di
sviluppare reazioni nazionalistiche: che è ciò che di lì a pochi anni, anche
per una serie di ben note condizioni geopolitiche, accadrà.
Abbiamo infatti più sopra richiamato il 1936, anno della celebrazione
del primo congresso nazionale di politica estera: la data è significativa perché testimonia l’accento nazionalistico che ormai ha invaso le scienze giuridiche e quelle politiche – volendo naturalmente restringere il discorso ai
limitati fini di queste pagine. A tale riguardo, la vicenda dell’Ispi è oltremodo
interessante e assurge al ruolo, vorrei dire, di ‘case study’, proprio nella prospettiva del diritto comparato, perché qui vediamo come l’influenza direttamente politica sull’attività scientifica abbia creato una progressiva frattura
(esattamente come abbiamo visto in apertura di lavoro, e molto sommariamente, essere accaduto rispetto alle avanguardie artistiche) tra politica e
scienza; una frattura che poi, pensando sempre alla prospettiva del diritto
comparato, verrà rimarginata solo nel secondo dopoguerra, recuperando
un sostrato assai fertile alimentatosi alla Scuola dell’Annuario di Salvatore
Galgano.
Al congresso dell’Ispi partecipò, quale relatore, Emilio Betti, che si soffermò, nel suo intervento e nella sua relazione, sui rapporti italo-britannici
nel mediterraneo e sulle esigenze di riforma della Società delle Nazioni,
sottolineando, a quest’ultimo riguardo, tra l’altro, e sulla base della sintesi
pubblicata nel volume degli ‘atti’, la necessità di far operare uno spirito di
solidarietà e di collaborazione tra le grandi potenze dell’Occidente153. Non
personali – che era in parte giustificabile l’attitudine che conduceva i giuristi inglesi della
passata generazione a considerare le persone che si qualificavano da sé “giuristi comparatisti” come ciarlatani o altrimenti come insopportabili pedanti. ma critiche di questa natura
sono sempre rivolte ad ogni nuova scienza, e particolarmente ad ogni ramo di studio che,
come il diritto comparato, si è introdotto solo nella presente generazione, ed è esposto
quindi ad essere maltrattato da tutte le specie di giuristi “empirici” e considerato come
una comoda piattaforma da cui lanciare le proprie fantasie e ubbie sopra un mondo riluttante. ma io penserei che tutto questo appartenga ormai al passato e che noi siamo ora in
grado di prendere il diritto comparato seriamente e di tentare di definirne la natura e il
contenuto. Come lo intendo io, il diritto comparato è un ramo della scienza del diritto in
generale».
153
I° Convegno Nazionale di Politica Estera, cit. nt. 64, p. 382: «Il prof. BETTI sostenne che il
problema della riforma della S. d. N. dovrebbe mirare non tanto alla modifica del testo
del Patto quanto dello spirito che deve presiedere all’applicazione del Patto stesso. “Lo
440
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
disponiamo, per le ragioni già indicate, dei testi delle relazioni svolte al congresso, ma è ragionevole ritenere che quanto Betti ivi affermò non sia stato
troppo diverso (se non nel tono, nella sostanza) da ciò che egli ebbe a scrivere proprio nel 1936154.
Indipendentemente dalla presenza di Betti al convegno, è significativo
che, a chiusura dei lavori, Alberto Pirelli, come già ricordato, presidente
dell’Ispi, abbia sottolineato il «fatto che la nota dominante di tutto il Convegno è stato un alto senso del nuovo posto che occupa l’Italia nel mondo
e delle responsabilità che ne scaturiscono; fierezza, non vanità, fervore non
retorica; senso del dovere verso noi stessi e verso il Paese con l’affermazione dei nuovi diritti»155. ma, al di là delle parole di Pirelli, è interessante
quella parte della nota informativa di Baldoni in cui si legge: «L’utilità di
questa eletta adunata, che ha permesso a studiosi di ogni parte d’Italia di
spirito che deve presiedere alla applicazione del Patto non deve essere uno spirito meramente conservatore; deve essere uno spirito di solidarietà e di collaborazione, uno spirito
ispirato al criterio di non tener fermo ad ogni costo lo stato di cose esistente unicamente
perché esistente”. Condizione preliminare per creare tale spirito è una intesa di collaborazione fra le grandi Potenze dell’occidente». Toni, questi, apparentemente e insolitamente
morbidi, ma cfr. la nt. 154.
154
Qui alludo in particolare a BETTI, Diritto processuale, cit. nt. 42, spec. pp. XVII-XX, e le
parole riferite supra, nt. 47; v. allora anche BETTI, Scritti di storia e politica internazionale, cit.
nt. 45, spec. alle pp. 77-81 (si tratta di un intervento sulla «League of Nations» pubblicato
nel 1936 nella «Rassegna di politica internazionale», rivista dell’Ispi). Differente, nello spirito e nei toni, la posizione di G. PACCHIONI, L’impero britannico, cit. nt. 63, il quale, nonostante diverse critiche rivolte all’imperialismo britannico, in una prospettiva senza dubbio
– ma anche inevitabilmente – assai prossima alla, se non del tutto coincidente con la, posizione ufficiale del regime (cfr. ad esempio p. 146; ma v. anche pp. 160-161: «Il punto di
vista del popolo italiano prima ancora come dopo la fondazione del suo impero, fu ed è
che in Africa vi è posto per tutti: tanto per l’Inghilterra come per l’Europa Continentale.
[…] Si abbassino dunque le frontiere, si diminuiscano corrispondentemente le spese militari affinché possa degnamente venire armato di utili macchine e ordigni di pace l’esercito
internazionale europeo destinato a dissodare e a rinvalutare l’Africa»; nonché p. 126: «Difendere la libertà dei popoli d’Europa ha sempre significato per l’Inghilterra fomentare le
loro discordie per impedire la loro unificazione: divide et impera. Solo una politica genuinamente europea potrà dunque bilanciare, nell’avvenire, l’attuale preponderanza britann[i]ca,
e lo sconfinato egocentrismo delle classi dirigenti di quel grande popolo. Solo un’Europa
unita potrà accordarsi lealmente coll’impero britannico su tutte le questioni di portata
mondiale, senza che si ripetano gli errori del passato o che si addivenga a nuove disastrose
guerre»), esprime, nella dedica a stampa, gratitudine al padre, «che seppe inspirare in me,
ancora fanciullo, il culto per i grandi poeti inglesi, da Shakespeare a Shelley e una sincera
simpatia per la nazione inglese».
155
I° Convegno Nazionale di Politica Estera, cit. nt. 64, p. 391. Cfr. anche, per una sintesi non
letterale, C.[laudio] B.[aldoni], Il primo convegno nazionale per gli studi di politica estera, cit. nt.
126, p. 372.
441
m. GRONDONA
scambiarsi i risultati delle proprie indagini e di integrare il loro pensiero,
talora diverso, ma dominato da uno stesso spirito costruttivo e rivolto sempre allo stesso fine: la potenza della Patria è rispecchiata nel limpido ordine
del giorno presentato da S. E. DE FRANCISCI [che partecipava al Convegno
anche in qualità di rappresentante del Partito Nazionale Fascista, ivi] ed approvato all’unanimità […]»156:
“Il Primo Convegno nazionale per gli studi di politica estera, constatando
come l’opera del Governo fascista abbia sollevato l’Italia nel campo internazionale ad una posizione di potenza e di prestigio che riempie di fierezza l’animo degli Italiani tutti, dentro e fuori i confini della Patria;
“afferma l’efficacia di una politica che non conosce incertezze, quando
sono in gioco la dignità e gli interessi vitali della Nazione, ma che è aperta
a ogni forma di collaborazione ai fini dell’equilibrio, della giustizia e della
pace in Europa;
“esprime il voto che lo studio e la conoscenza dei problemi internazionali,
scopo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, si diffondano
tra la nostra gioventù colta, per la formazione di quella potenza politica
che deve presiedere alla vita imperiale dell’Italia”157.
Il passaggio da un internazionalismo universalistico a un internazionalismo imperialistico emerge con nettezza dalle parole appena riferite. E
questo è il nuovo contesto nel quale, soprattutto a partire dal 1936, si è trovato a operare il diritto comparato, consumandosi per inedia.
Vale però forse la pena di svolgere una rapida osservazione ulteriore,
rilevante sempre rispetto al contesto politico-culturale di questo specifico
momento storico. Orbene, si diceva poco sopra del valore di ‘case study’
della vicenda dell’Ispi: tale valore deriva, come già accennato, dalla evidente
tensione tra le iniziative scientifiche perseguite dall’Istituto, da un lato, e la
politica estera perseguita dal regime, dall’altro: una politica estera che abbisognava non tanto di riflessione scientifica ma di verbosa propaganda: e
il regime confidava nel contributo fornito dall’Ispi158.
Ivi. Su de Francisci si veda almeno C. LANZA, La «realtà» di Pietro de Francisci, in I giuristi
e il fascino del regime (1918-1925), cit. nt. 132, p. 215 ss.
157
I° Convegno Nazionale di Politica Estera, cit. nt. 64, p. 392.
158
Cfr. infatti quanto affermato dal ministro degli affari esteri Galezzo Ciano nel discorso
inaugurale del congresso dell’Ispi: «Sorto nel più grande e glorioso momento dell’Italia
moderna, nell’ora in cui Duce e Popolo audacemente gettavano le basi dell’Impero italiano,
l’Istituto per gli studi di politica internazionale si è già posto al primo piano tra le istituzioni
culturali del Regime, quelle che meglio rispondono ai bisogni e allo spirito dell’Italia im156
442
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
Questo esempio si presta, in prospettiva più ampia, per essere declinato
nel segno delle operazioni culturali del regime, e consente allora anche di
tracciare un analogo parallelismo tra uso scientifico e uso politico del diritto
comparato, e più in generale della comparazione, pure in chiave politologica, appunto perché qui siamo di fronte al compiuto passaggio dalla politica del diritto alla politica come diritto.
Il clima è sempre meno propizio alla scienza e al lavoro intellettuale disinteressato; sorgono dunque problemi, tensioni e incomprensioni, destinati a indebolire sia le istituzioni culturali sia la cultura come tale:
Un tale proliferare di iniziative [dell’Ispi] tese allo studio della politica internazionale, se si può comprendere in relazione alla maggior intraprendenza e aggressività della politica estera mussoliniana degli anni ’30 e al
clima creato dai roboanti discorsi del duce sull’impero e dalla martellante
propaganda fascista sui noti temi della romanità e dell’Italia come potenza
mondiale, non mancò di impensierire il governo fascista per le difficoltà
create all’esercizio di un attento e severo controllo159.
E infatti il controllo politico sulle iniziative scientifiche dell’Ispi si fa
più stringente, volendosi piegare quest’ultimo a docile strumento della strategia politica del regime:
È evidente il legame stabilito tra necessità di una analisi più attenta dei
rapporti di forza sul piano internazionale, sulla base di una rigorosa documentazione delle capacita militari, politiche ed economiche degli Stati
europei ed extra-europei, e la individuazione degli spazi in cui avrebbe
potuto inserirsi l’imperialismo italiano. La prospettiva dichiaratamente
espansionistica in cui tale opera di documentazione doveva essere condotta, introduceva un’insanabile contraddizione nelle attività del[l]’Istituto.
Infatti, essendo il riconoscimento dell’Italia come grande potenza ribadito
aprioristicamente, come presupposto fondamentale dell’attività “scientifica” dell’Istituto, non potendo tale riconoscimento che basarsi sulla miperiale. Né è senza un profondo significato che esso sia sorto per iniziativa di giovani, i
quali hanno compiutamente inteso come l’Italia sia ormai Potenza mondiale interessata
direttamente a tutti i problemi internazionali, e come lo studio di questi problemi sia parte
essenziale della nostra cultura, che noi non concepiamo come una massa inerte di nozioni
accademiche, ma come una base di azione, come una preparazione spirituale alla realizzazione dei nostri scopi e al compimento dei nostri doveri» (I° Convegno Nazionale di Politica
Estera, cit. nt. 64, p. 16).
159
A. mONTENEGRO, Politica estera e organizzazione del consenso, cit. nt. 127, p. 784.
443
m. GRONDONA
tologia e [su]gli slogans di regime, tutt’altro che “scientificamente” documentati e documentabili, si veniva implicitamente a compromettere l’asserito programma di documentazione rigorosa che l’Istituto intendeva
perseguire. In altre parole, il mancato riconoscimento delle effettive possibilità dell’imperialismo italiano, in relazione al quadro dei rapporti di
forza esistenti in campo internazionale, contraddiceva l’asserita volontà
di esercitare una moderna Realpolitik sulla base di una scientifica e spregiudicata documentazione su tutti gli Stati e le potenze mondiali, che doveva essere lo scopo principale dell’Ispi. Di qui il frequente oscillare tra
propaganda e documentazione integrale160.
Il biennio 1936/1937 è quindi centrale, nella prospettiva di queste paIbidem, p. 786. E cfr. l’importante rilievo che si legge alle pp. 786-787, a proposito della
contraddizione appena riferita nel testo: «Una contraddizione che si cercherà di risolvere
strutturando, per esempio, la “Rassegna di politica internazionale”, a partire dal ’35, con
una prima parte intitolata significativamente “Orientamenti” nella quale venivano espresse
le linee direttrici della politica estera mussoliniana; con una seconda parte composta prevalentemente da “studi” su particolari problemi storici e politici; e con un’ultima sezione
in cui erano riprodotti i documenti di politica internazionale. In tal modo ci si illudeva di
poter adempiere al duplice scopo, che rifletteva in ultima istanza la duplice esigenza manifestata dal regime sin dai suoi esordi: “orientare“ gli strati più larghi possibile di masse,
inducendole ad acconsentire con gli indirizzi di politica estera del regime e informare con
documenti integralmente riprodotti e con metodi moderni il personale del ministero degli
Esteri e tutti quegli studiosi che coltivavano gli studi di politica internazionale. ma quanto
più velleitaria ed aggressiva diventava la politica estera mussoliniana, tanto più profonda
diventava la contraddizione tra i due aspetti delle attività dell’Istituto, contraddizione che
si venne manifestando particolarmente nel sempre crescente contrasto che si poteva riscontrare sulle sue maggiori riviste tra ciò che una attenta lettura della parte documentaria
avrebbe potuto rivelare circa il reale stato dei rapporti internazionali e quanto invece emergeva dalla parte diretta ad “orientare” le masse. E tanto contrastanti divennero questi due
aspetti che nel ’41, in seguito alla pubblicazione integrale di un discorso del primo ministro
greco metaxas diretto contro la guerra di aggressione fascista, vi fu un severo richiamo
da parte del Pnf al direttore dell’Istituto e al vice direttore Bruno Pagani, ai quali fu ritirata
la tessera del partito». Cfr. allora anche quanto rilevato da ENRICO DECLEVA, in uno studio
(Politica estera, storia, propaganda: l’ISPI di Milano e la Francia (1934-1943), in «Storia contemporanea», 1982, pp. 697-757, qui p. 747) che, nel momento in cui scrivo, non ho potuto
consultare direttamente e che leggo per come riferito nella tesi di laurea di F. GIONA, Per
una storia dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (1934-1943), discussa presso l’Università di Padova con il prof. C. Fumian nell’anno accademico 2009/2010,
<http://tesi.cab.unipd.it/26269/1/federico_giona.pdf> (ultimo accesso 5 luglio 2020), p. 82:
«[I] richiami della censura all’Ispi cominciarono con l’agosto 1937 quando “dietro segnalazione di Ciano, l’allora ministro della Cultura popolare Dino Alfieri era intervenuto per
un articolo sulla situazione irakena, cui s’imputava di aver accolto le interpretazioni della
stampa britannica [mentre] nel novembre 1939, in seguito ad un passo presso il ministero
della Cultura popolare dell’addetto stampa dell’ambasciata di Germania a Roma […] fu
bloccata la pubblicazione su ‘Relazioni Internazionali’ del libro bianco inglese sui campi
di concentramento tedeschi”».
160
444
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
gine, perché il mutato contesto politico italiano non poteva che intensificare
gli sforzi propagandistici a detrimento di quelli autenticamente scientifici,
e il diritto comparato quale prodotto culturale è una delle vittime di questa
involuzione imperialistica.
ma che la situazione fosse più complessa, e caratterizzata da luci e da
ombre (donde la necessità, come già si è avvertito, di un accurato lavoro
analitico, in gran parte da svolgere anche rispetto allo studio, di taglio comparatistico, di taluni istituti giuridici), mi pare testimoniato – ed è l’ultimo
aspetto sul quale mi soffermo, all’interno di questa carrellata di problemi,
sui quali sarebbe interessante ritornare, ma con ben altro bagaglio culturale,
da parte dei competenti – dal già citato manuale di Giovanni Pacchioni.
Anche questo volume si presta a essere osservato nella prospettiva microstorica del ‘case study’: e a partire da esso è altresì possibile tracciare, pur
se brevemente, alcune linee di sfondo destinate a intrecciarsi con almeno
alcune delle vicende del diritto comparato italiano a cavallo degli anni
Trenta – e qui siamo ormai nella seconda metà avanzata del decennio.
Le pagine del libro di Pacchioni filtrano molte di quelle tensioni cui si
è fatto riferimento diffusamente nel corso di questo lavoro, e che hanno il
loro cardine in quell’imperialismo coloniale che come tale pone anche ovvî
problemi geopolitici agli Stati europei.
Schematizzando e semplificando il discorso del nostro Autore, egli, soffermandosi sul rapporto tra nazionalismo e imperialismo, dedica alcune
pagine, molto interessanti, al nazionalismo cosmopolita di Giuseppe mazzini, sottolineando – e credo che fosse una osservazione a suo modo coraggiosa, tenuto soprattutto conto della sede in cui veniva fatta – come si
trattasse di un nazionalismo che ben poco aveva in comune «col razzismo
nel quale, presso qualche popolo, degenerò in seguito»161.
Era appunto un nazionalismo cosmopolita, e ciò «spiega come la sua
“Giovane Italia” potè avere seguaci in tutti gli stati d’Europa: in Francia non
meno che in Germania e in Inghilterra, operando ovunque beneficamente»162.
Il riferimento a mazzini e al nazionalismo cosmopolita è significativo,
perché esprime molto chiaramente una visione geopolitica di Pacchioni a
cavallo tra l’internazionalismo, l’umanitarismo e il solidarismo internazionale, fermo restando che – ed è peraltro lo stesso rilievo fatto anche da
Amedeo Giannini, e sopra riferito – anche un nazionalismo aperto all’internazionalizzazione, in quanto nazionalismo, può degenerare in partico161
162
PACCHIONI, L’impero britannico, cit. nt. 63, pp. 12-13.
Ibidem, p. 13.
445
m. GRONDONA
larismo nazionalistico, così danneggiando la causa internazionalistica163,
donde l’effetto per cui, «in nome delle libertà nazionali, si scalzava profondamente quell’umanitarismo dal quale soltanto le nazioni europee potevano
e possono sperare salvezza e pace duratura»164 – e si tratta di un germe mai
interamente debellato, possiamo agevolmente soggiungere noi oggi.
Accade così che il nazionalismo prevaricatore si trasformi in imperialismo; ma se l’imperialismo è una species del genus nazionalismo, non vi è
un’unica specie di imperialismo. C’è anche un ‘imperialismo altruistico’ (e
diremmo oggi umanitario) che non si prefigge di colonizzare, e quindi di
depredare, ma di contribuire al progresso dell’umanità:
L’imperialismo non è che una forma, l’ultima e più elevata forma, che
ogni nazionalismo assume di fronte ai problemi della migliore messa in
valore di quelle parti del globo, e sono ancora ben grandi, che o non sono
popolate, o sono popolate da genti inadatte, più o meno, a trarre dai territori da esse abitati il maggior profitto possibile a beneficio loro proprio
e dell’umanità intera. La concorrenza fra i nazionalismi è concorrenza di
egoismi esclusivisti: la concorrenza fra gli imperialismi è concorrenza fra
altruismi del pari esclusivisti. Nazionalismo e imperialismo non sono dunque che due forme successive di affermazione egoistica di ogni popolo
forte. ma l’imperialismo, per il fatto stesso che pretende di essere e, in
parte, è veramente alimentato da sentimenti altruistici, segna sicuramente
un progresso di fronte al puro nazionalismo. Il puro nazionalismo è essenzialmente egoistico: l’imperialismo, più che egoistico, è egocentrico,
in quanto mira al monopolio della cosiddetta beneficenza imperiale. Da
ciò noi vorremmo trarre argomento a sperare che la lotta fra i più giustificati imperialismi europei, possa gradatamente dar luogo ad una collaborazione imperialista fra di essi. Sebbene infatti le nazioni d’Europa siano
ancora ben lontane da questo auspicato e auspicabile punto d’arrivo, non
mancano tuttavia segni precursori di una simile grandiosa trasformazione.
Poiché è da tutti ormai riconosciuto che i principali popoli d’Europa posseggono tutti, in egual grado, le alte qualità che si richiedono per svolgere
un’azione imperialista in quelle parti del mondo che la richiedono, sarà
pegno di progresso umano che questi popoli vengano tutti ammessi ad
esercitare questa nobilissima e utilissima funzione165.
Affermazioni che certamente vanno lette anche in senso anti-inglese, e
Ivi.
Ibidem, p. 14.
165
Ibidem, pp. 15-16.
163
164
446
IL DIRITTO COmPARATO E LA COmPARAZIONE GIURIDICA
in particolare anti-impero britannico, «perché questo impero pretendeva
allora [all’epoca della prima guerra mondiale], come sembra pretendere tuttora […] di dominare e dirigere l’Europa col suo capitalismo, con suo monopolio delle materie prime, e colla sua ancora formidabile flotta»166, ma
toccano aspetti decisivi ancora oggi e rispetto ai quali un’attenzione riservata alla storia del diritto comparato italiano potrebbe offrire un tassello
ricostruttivo non secondario.
Ibidem, p. 122. Cfr. allora anche il raffronto tra lo spirito dell’imperialismo romano e lo
spirito dell’imperialismo britannico, prevalentemente mercantile (p. 146), nonché le pagine
critiche su Cecil Rhodes (di cui le cronache si sono tornate a occupare in questi ultimi
mesi), «immaginoso imperialista di grande stile, che si era creato, coll’intraprendenza meravigliosa del suo temperamento, una posizione politica e finanziaria decisamente predominante nel Sud Africa, [e che] si proponeva di rendere britannico l’intero continente
africano mediante una politica di espansione […]» (p. 154).
166
447
Luis Rosenfield, Alberto Vespaziani
‘Fascismo tropicale’, ovvero la recezione della dottrina fascista italiana
nel Brasile dell’Estado Novo di Vargas1
S OmmARIO : 1. L’Estado Novo fu uno Stato fascista? – 2. I rapporti tra il
fascismo italiano e l’Estado Novo brasiliano – 3. L’azione integralista brasiliana (AIB) e il fascismo italiano – 4. Lo Stato nuovo e il diritto fascista – 5. L’Estado Novo come una democrazia autoritaria
1. L’ Estado Novo fu uno Stato fascista?
È corretto qualificare l’Estado Novo di Vargas come uno Stato fascista?
Quali furono i rapporti di comunicazione e ricezione tra le istituzioni dell’Italia fascista e l’assetto dei poteri del Brasile tra il 1930 e il 1945? Quali
scambi avvennero tra gli intellettuali organici brasiliani vicini a Vargas ed i
pensatori che in Italia avevano elaborato le dottrine e le legislazioni corporative?
In questo scritto ci proponiamo di investigare con ottica comparativa
le realtà istituzionali e le dottrine giuridiche di due stati autoritari coevi, impiegando le categorie di “costituzionalismo autoritario” e “democrazia autoritaria”. Il concetto di costituzionalismo autoritario2 ha il pregio di
evidenziare le differenze quantitative esistenti tra diversi regimi autoritari,
impedendo che la categoria di “Stato autoritario” diventi una notte antiliberale in cui tutte le costituzioni sono grigie. Soltanto una lettura in negativo, eseguita cioè a partire dalla mancanza dei requisiti dello Stato
liberal-democratico, consente di accomunare in un’unica categoria le diverse
esperienze dello Stato fascista italiano, dello Stato nazista tedesco, delle dittature franchiste in Spagna, dei colonnelli in Grecia o del salazarismo portoghese.
Alberto Vespaziani è autore dei paragrafi 1 e 5, Luis Rosenfield dei paragrafi 2, 3 e 4.
Cfr. m. TUSHNET, Authoritarian constitutionalism: some conceptual issues, in Constitutions in authoritarian regimes, ed. T. Ginsburg, A. Simpser, Cambridge University Press, Cambridge
2014, pp. 36-51.
1
2
449
L. ROSENFIELD, A. VESPAZIANI
Intermedio tra il paradigma classico del costituzionalismo liberale e
quello del governo autoritario o dispotico, il concetto di costituzionalismo
autoritario si propone di illustrare le peculiarità di regimi misti, che accanto
a libere elezioni e una qualche forma di separazione dei poteri, prevedono
restrizioni alle libertà civili e politiche. Da questo punto di vista lo Stato
nuovo di Vargas appare più il prototipo delle contemporanee democrazie
illiberali che non l’imitazione dei regimi fascisti o nazisti degli anni ’30 del
secolo scorso.
Riteniamo che sia importante adottare un approccio più completo all’idea del costituzionalismo – allargando il campo della tipologia delle Costituzioni – al fine di comprendere i processi politico-giuridici che hanno
portato alla creazione e al funzionamento di costituzioni. L’analisi dei diversi modelli comparati di costituzionalismo autoritario mostra che ogni
modello costituzionale ha una propria dinamica di imposizione dell’ordine
politico e giuridico, che riflette tanto la tradizione di un popolo specifico
quanto la strategia di conquista istituzionale utilizzata da un’élite per salire
al potere. In altre parole, quando si lavora con il concetto di costituzionalismo autoritario, si cerca soprattutto di capire come viene stabilita e consolidata una tradizione costituzionale autoritaria in termini di storia delle
idee. Ciò dipende in larga misura dalla comprensione dell’efficacia della sua
logica interna, in particolare per quanto riguarda la separazione dei poteri,
le forme di manifestazione dell’autorità e il modo di istituzione dell’egemonia e del controllo sociale attraverso gli strumenti del diritto costituzionale. Da questo punto di vista la storia costituzionale brasiliana ci appare
permeata da una tradizione autoritaria, seppur incerta ed intervallata da fasi
di democratizzazione.
Assumiamo che la storia costituzionale sia presente ovunque vi sia una
costruzione di potere, un’articolazione di un ordine. Per questo motivo, il
contributo assume un punto di vista controverso nella storia costituzionale,
in quanto riteniamo che lo studio delle costituzioni autoritarie e totalitarie
sia qualcosa di essenziale per comprendere il costituzionalismo nella sua
complessità. molti storici del costituzionalismo partono dal presupposto
dell’identificazione del costituzionalismo con il suo filone liberal-democratico (o liberal-sociale); questa sarebbe l’unica tradizione in grado di essere
chiamata costituzionalismo, poiché rappresenterebbe un tipo di spina dorsale nella storia del diritto costituzionale. In breve, questo aspetto storiografico comprende il costituzionalismo come la combinazione di concetti
relativi all’evoluzione della democrazia, dei diritti fondamentali, della separazione dei poteri, ecc.
Tuttavia, riteniamo che la storia delle dottrine costituzionali non si fermi
450
‘FASCISmO TROPICALE’
durante i regimi autoritari. Comprendere il costituzionalismo come un semplice passo avanti di garanzie individuali, libertà e una presunta evoluzione
dei sistemi politici democratici implica l’adozione di una prospettiva ingenua della storia. Nel campo delle scienze politiche, la resistenza allo studio
dei regimi autoritari è stata tradizionalmente osservata, come si può chiaramente vedere nella critica di questa posizione in Juan Linz.3
È bene ricordare che la c.d. “era Vargas” comprende sia la presa di potere con il putsch del 1930, che pone fine alla Prima Repubblica, sia l’approvazione della costituzione del 1934, che quella “polacca” del 1937, mai
entrata in vigore, la deposizione del 1945, la rielezione nel 1950 sino al suicidio del 1954. È anche opportuno sottolineare il contesto internazionale
in cui Vargas guidò l’Estado Novo: uno Stato autoritario schierato a fianco
dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, in guerra contro l’asse con l’invio di
truppe militari in Italia.
2. I rapporti tra il fascismo italiano e l’ Estado Novo brasiliano
Il punto di partenza di questo studio è la relazione di scambio intellettuale tra il Brasile di Vargas e l’Italia di mussolini. Trattasi di una questione
complessa da analizzare, di come si sono effettivamente svolte le relazioni
tra i due paesi: tra l’esperienza del totalitarismo fascista e l’autoritarismo
brasiliano vi sono molte somiglianze, ma emergono anche differenze sorprendenti.
Come è noto, la costruzione della legalità fascista negli anni ’30 ha avuto
come vettore il tentativo di dominio statale su tutti gli aspetti della società.
In sintesi, la rivoluzione fascista riuscì a consolidare un sistema egemonico
basato su (i) il rafforzamento di un partito unico, il Partito Nazionale Fascista, che fu centralizzato dal Duce; (ii) la graduale affermazione di un ordine corporativo globale, che si estendeva a diversi campi del diritto; (iii) la
creazione di tribunali speciali e di una polizia politica come strumenti di
persecuzione dei nemici del regime e (iv) l’indebolimento di molte garanzie
individuali, che persero rilevanza rispetto agli interessi del bene comune e
dello Stato. Il risultato fu la costruzione di un sistema politico di taglio totalitario4.
J. J. LINZ, Democrazia e autoritarismo. Problemi e sfide tra XX e XXI secolo, Il mulino, Bologna
2006.
4
E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma
2008; ID., Total and Totalitarian Ideologies, in The Oxford Handbook of Political Ideologies, ed. m.
3
451
L. ROSENFIELD, A. VESPAZIANI
In Brasile, l’importazione dell’ideologia fascista ha come data simbolica
l’anno 1922, in cui fu fondata la Legione del Cruzeiro do Sul (LCS), che
probabilmente emula gli sviluppi del fascismo italiano del biennio 19191921. Questa esperienza è stata embrionale, ed è solo negli anni ’30 che
l’ideologia fascista si è effettivamente diffusa e in Brasile proliferano piccoli
movimenti e partiti politici, come la Legione Cearense del Lavoro (LCT) e
il Partido Nacional Sindicalista (PNS). L’Azione Sociale Brasiliana (ASB),
creata nel Rio Grande do Sul nei primi anni ’30, cercò senza successo di
fondare il Partito Nazionale Fascista (PNF) in Brasile5.
Nel 1931 fu creata la Legione Liberale dello Stato del minas Gerais
(LBL), un movimento protofascista che univa componenti del fascismo e
del corporativismo italiano ed elementi tipici del pensiero reazionario brasiliano. La Legione mineira cercò di rovesciare le basi del tradizionale Partido Repubblicano mineiro (PRm) attraverso i nuovi metodi di
radicalizzazione politica dei dissidenti dell’élite di minas Gerais. Francisco
Campos – in seguito ministro della Giustizia nello Stato Nuovo e redattore
della Costituzione del 1937 – era uno dei suoi artefici6. La Legione liberale
di minas Gerais, tuttavia, non ebbe una maggiore penetrazione e rappresentò solo una spaccatura all’interno delle élite di minas, il cui obiettivo
principale era quello di indebolire l’egemonia del PRm.
Il grande segno della maturazione dell’ideologia fascista in Brasile è la
Rivoluzione del ’30, un movimento armato che distrugge il vecchio ordine
liberale della Prima Repubblica (1889-1930). Questo processo rivoluzionario fu guidato da élite dissidenti provenienti principalmente dal minas Gerais e dal Rio Grande do Sul, e catapultò Getúlio Vargas al centro del
potere. La rottura con la tradizione del discorso liberale della Prima Repubblica aprì il vaso di Pandora delle più diverse forme di riorganizzazione
costituzionale.
Tuttavia, mentre l’Italia fascista era un faro del rinnovamento nazionale,
l’ideologia fascista competeva con altre correnti di pensiero, come il positivismo comtiano (molto popolare sin dall’ultima fase dell’Impero), la dottrina sociale della Chiesa cattolica, il socialismo e l’antica tradizione liberale
che fino ad allora era stata il discorso ufficiale del pensiero politico della
Repubblica.
Freeden, L. T. Sargent, m. Stear, Orxford University Press, Oxford 2013, pp. 56-72.
5
H. TRINDADE, Ação Social Brasileira (ASB), in: Dicionário Histórico-Biográfico Brasileiro Pós30, coord. A. Alves Abreu (et al.), FGV, Rio de Janeiro 2010.
6
CALICCHIO, Legião Liberal Mineira, in Dicionário Histórico-Biográfico Brasileiro Pós-30, cit. nt.
5.
452
‘FASCISmO TROPICALE’
Durante il governo di Getulio Vargas – che durò 15 anni – furono importati e trapiantati concetti giuridici e istituzioni giudiziarie del fascismo
italiano, mantenendo al tempo stesso distanze e alcune riserve. L’asse culturale tra Roma e Rio de Janeiro negli anni ’30 e ’40 rappresentò un importante punto di riferimento per l’ideologia fascista italiana, degno di
essere analizzato. L’influenza del diritto fascista si manifestò nella creazione
di un ordine corporativo in Brasile, con la sottomissione dei sindacati alla
struttura statale, la creazione di una magistratura del lavoro legata al potere
esecutivo e il consolidamento delle leggi sul lavoro (Consolidação das Leis do
Trabalho). Dalla prospettiva brasiliana la Carta del lavoro del 1927 rappresentava il grande esempio di modernizzazione amministrata dall’alto, come
forma di addomesticamento delle masse lavoratrici.
Il ricorso alle opere di intellettuali italiani per dare fondamento e sostegno all’ordinamento giuridico dello Stato Nuovo di Vargas non è stato
trascurabile. molti intellettuali fascisti – Widar Cesarini-Sforza, Alfredo
Rocco, Ugo Spirito, Sergio Panunzio, Arnaldo Volpicelli, Giovanni Gentile
e Giuseppe Bottai – furono ampiamente studiati dai teorici dello Stato
Nuovo. Questo progetto fu realizzato da uomini come Francisco Campos,
il più importante giurista nella strutturazione dell’Estado Novo, Oliveira
Vianna, noto intellettuale e professore di diritto, meglio conosciuto per il
suo lavoro di saggistica sociologica, e miguel Reale, all’epoca giovane giurista dello Stato di San Paolo e uno dei teorici dell’integralismo.
Tuttavia, occorre sottolineare le importanti differenze tra i due sistemi
politici. In primo luogo, Getúlio Vargas non ha mai cercato di strutturare
un partito politico egemonico o maggioritario tra il 1930 e il 1945. Ha anche
rinunciato a qualsiasi affiliazione di partito, esercitando il potere personale
per molti anni senza preoccuparsi di avere un movimento o un partito di
massa alle spalle. In secondo luogo, la tendenza al totalitarismo era incipiente in Brasile, e pochi intellettuali, più o meno legati al regime, erano
simpatizzanti di un ideale di “Stato Totale”. In terzo luogo, il Brasile ha
avuto un movimento fascista, l’integralismo, guidato da Plínio Salgado, e
l’integralismo ha aiutato Vargas a consolidarsi al potere, ma non è mai stato
parte della macchina statale.
In sintesi, il diritto costituzionale varguista non raggiunse il livello di
radicalizzazione del diritto nazista, con la sua totale sottomissione del diritto
al dominio ideologico nazionalsocialista7, o dell’Italia, con il suo complesso
intreccio corporativo alimentato da Rocco, Bottai, Volpicelli, CesariniB. RüTHERS, Entartetes Recht. Rechtslehren und Kronjuristen im Dritten Reich, Beck, münchen
1988, pp. 55-65.
7
453
L. ROSENFIELD, A. VESPAZIANI
Sforza e Panunzio8. Tuttavia, ci sono state molte peculiarità del costituzionalismo brasiliano tra le due guerre, ed è quindi essenziale far emergere i
dibattiti su questo processo di costituzionalizzazione antiliberale.
3. L’azione integralista brasiliana (AIB) e il fascismo italiano
Intorno al 1930 nasce l’integralismo, un movimento di massa conservatore e cattolico legato all’idea di rinnovamento nazionale. Guidato da Plínio Salgado, l’integralismo divenne uno dei movimenti di massa più
influenti del Brasile, in competizione diretta con i comunisti. Con tratti autoritari e antisemitici, l’Azione Integralista brasiliana (AIB) cercava di affermarsi come il principale movimento di destra in Brasile; esso difendeva
la creazione di un ordine corporativo che mescolava influenze fasciste con
il pensiero sociale cattolico, capace di eliminare le tensioni sociali emerse
in Brasile. Il fascismo non era l’unica delle fonti intellettuali dell’integralismo, che utilizzava anche il pensiero conservatore-reazionario portoghese
e francese.
L’integralismo si consolida con la crisi della Prima Repubblica (nel
1930) e la conseguente ascesa di nuove correnti intellettuali in Brasile. Di
fronte a questo scenario di crescente frammentazione ideologica e programmatica del pensiero costituzionale brasiliano, sono emerse proposte
ancor più radicali. In un saggio pubblicato nel 1930, prima della creazione
dell’Azione Integralista Brasileira, Olbiano de mello, di minas Gerais, ha
proposto le «basi per l’organizzazione dello Stato Sindacale Corporativo
Brasiliano». Il punto di partenza del programma di mello, che avrebbe presto fatto ristampare il suo libro nella seconda edizione del 1931, era quello
di dare «la direzione degli affari pubblici nazionali alle vere élites dei vari
ordini professionali, e non ad uno solo, come è sempre accaduto»9.
In virtù dei suoi testi radicali e innovativi, Olbiano de mello attirò ben
presto l’attenzione del leader integralista Plínio Salgado e divenne il portavoce dell’integralismo nel minas Gerais. Con la creazione nel 1932 della
Società di Studi Politici (SEP), il nucleo intellettuale dell’integralismo, si
formò un centro dedicato alle dottrine esplicitamente antiliberali del paese,
che, oltre ad Olbiano de mello, includeva nomi legati al mondo giuridico
I. STOLZI, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica
dell’Italia fascista, Giuffrè, milano 2007, pp. 134-166.
9
O. DE mELLO, Republica Syndicalista dos Estados Unidos do Brazil, Typ. Terra e Sol, Rio de
Janeiro 1931, p. 23.
8
454
‘FASCISmO TROPICALE’
come miguel Reale10, Segretario Nazionale di Dottrina e Studi dell’integralismo, e Gustavo Barroso, legato alla linea antisemita e ultranazionalista del
movimento.
Il giurista del movimento integralista che assunse la posizione di maggior rilievo fu miguel Reale, il principale teorico dell’integralismo nel campo
della Teoria del diritto. molti anni più tardi egli fu rettore dell’Università di
San Paolo ed è considerato uno dei più grandi filosofi del diritto brasiliano
del XX secolo. Discendente di italiani della Lucania, Reale ha mantenuto
forti legami con l’Italia per tutta la vita. Dopo il fallito putsch integralista
del 1938, andò in esilio proprio a Roma per evitare la persecuzione da parte
dello Stato Nuovo; in quel periodo intraprese contatti diretti con vari intellettuali fascisti11.
Le sue critiche alla democrazia parlamentare in Brasile e nel mondo lo
portarono a difendere un «concetto organico di Stato», che si presenta
come un’opposizione «allo Stato minimo, una mera astrazione giuridica
dell’ideologia liberale». Seguendo i principi del fascismo italiano, Reale
portò in Brasile gli insegnamenti del principale ideologo fascista, Alfredo
Rocco, per affermare che «l’individuo non può [...], secondo la concezione
fascista, essere considerato come il fine della società; egli è solo il mezzo».
Per Reale, «tutta la vita della Società consiste nel fare dell’individuo lo strumento dei suoi fini sociali»12.
Nel contesto brasiliano di frammentazione delle istituzioni, guerra civile
e assenza di una Costituzione, miguel Reale difenderà lo ‘Stato Integrale’,
molto simile allo Stato fascista nel senso di «uno Stato assorbente, meccanicamente unitario, che traspone il mito roussoiano dell’anima collettiva
dal piano giuridico a quello sociologico». La sua Teoria dello Stato, con
chiare tinte hobbesiane, sosteneva che «una delle caratteristiche dell’unità
organica è proprio quella di integrarsi attraverso la discriminazione». Questo significava per Reale che «l’insieme non doveva assorbire le parti (totam. REALE, A crise da liberdade, in ID., Obras políticas (1ª fase, 1931-1937), III, Editora Universidade de Brasília, Brasília 1983 [1931]. pp. 5-11; ID., Formação da política burguesa, in ID.,
Obras políticas (1ª fase, 1931-1937), I, Editora Universidade de Brasília, Brasília 1983 [1934].
pp. 129-246.
11
J.F. BERTONHA, O pensamento corporativo em Miguel Reale: leituras do fascismo italiano no integralismo brasileiro, in «Revista Brasileira de História», 33 (2013), n. 66, pp. 269-286. Da una
visita alla biblioteca personale di Reale a Canela (Porto Alegre) risulta in effetti che il giurista brasiliano mantenne successivamente rapporti almeno con Spirito e con Cesarini
Sforza.
12
m. REALE, O Estado moderno (Liberalismo - Fascismo - Integralismo), in ID., Obras políticas (1ª
fase – 1931-1937), II, Editora Universidade de Brasília, Brasília 1983 [1934]. pp. 129-132.
10
455
L. ROSENFIELD, A. VESPAZIANI
litarismo), ma integrare i valori comuni rispettando i valori specifici ed
esclusivi (integralismo)». Egli si riferiva alla necessità di «penetrare il significato di unità organica». La nascita di un interventismo statale era insita
nel pensiero di Reale, come risultato evidente delle proposte di riorganizzazione «delle forze sociali nella vita dello Stato»13. A questo punto, i pensatori della teoria costituzionale brasiliana, diversi tra loro come miguel
Reale e Pontes de miranda, convergono fortemente.
Come dice miguel Reale:
Pontes de miranda ha ragione (nonostante il suo insignificante sociodemoralismo, semplice contrapposizione con l’apparenza di una soluzione)
quando dice – tracciando magistralmente l’evoluzione verso lo Stato Integrale – che «la perfetta integrazione Stato-società è l’infinito di una legge
sociale». La sola demofilia non basta. È necessario che la partecipazione
diretta delle forze sociali alla vita dello Stato sia sempre più estesa. Né si
deve pensare che l’allargamento della zona di interferenza del potere centrale comporti una diminuzione della libertà14.
Non appena ci fu la cristallizzazione del potere con l’Estado Novo (1937),
Vargas cercò subito di isolare il movimento integralista. Di fronte alla persecuzione dell’Azione Integralista Brasiliana (AIB), ci fu un tentativo fallito
di putsch nel 1938, quando nel Palazzo Catete fu compiuto un attacco importante che portò quasi all’assassinio di Vargas. Dopo il fallito colpo di
Stato, l’integralismo fu sciolto e la maggior parte delle ‘camicie verdi’ fu inviata alla prigione di Ilha Grande, a seguito delle decisioni del Tribunale di
Sicurezza Nazionale, il tribunale di eccezione del regime varguista.
4. Lo Stato nuovo e il diritto fascista
La costruzione di istituzioni corporative in Brasile ha rappresentato un
progetto incompleto e accidentato, in cui si cercava di modernizzare e aggiornare l’organizzazione dello Stato. Seguendo in particolare le tendenze
europee di quegli anni, il discorso corporativo brasiliano è riuscito a presentare modelli alternativi alle vacillanti strutture tradizionali di potere. La
creazione della giustizia del lavoro secondo canoni corporativi – cioè in co13
14
Ivi.
Ibid., p. 134.
456
‘FASCISmO TROPICALE’
ordinamento con il ministero del lavoro15 – simboleggiava uno dei grandi
progetti della dittatura varguista: vincolare la magistratura del lavoro al potere esecutivo, qualificandola come organo amministrativo dotato di potere
normativo16.
Sebbene formalmente prevista dalla Costituzione del 1934, la giustizia
del lavoro è stata istituita solo nel 1941, con il decreto legge n. 1.237 del
1939, già sotto l’egida della Costituzione del 1937 (art. 139). La legge fondamentale dello Stato Nuovo ha fatto ben poco per descrivere con precisione la natura e la funzione della magistratura del lavoro, lasciando questo
compito alla legge infra-costituzionale che avrebbe regolato la nuova giustizia speciale17. Con l’istituzione della giustizia del lavoro come organo amministrativo del ramo esecutivo, lo Stato Nuovo ha cercato di abolire i
conflitti di classe e qualsiasi misura ‘antisociale’, come scioperi e serrate.
Come nella magistratura del lavoro dell’Italia fascista, c’era un ideale di pacificazione delle classi sociali, e l’interventismo statale si concentrava sulla
completa risoluzione di questi conflitti18. I contratti collettivi e il potere
normativo della giustizia del lavoro venivano considerati come strumenti
adeguati per l’esecuzione di questo progetto politico19.
Lo stesso percorso di ispirazione del corporativismo italiano è stato
seguito dal Consolidamento del diritto del lavoro (CLT), emanato nel
1943, al culmine dell’Estado Novo, poiché l’ispirazione della Carta del lavoro
del 1927 ha seguito da vicino – almeno in linea di principio – la dottrina
fascista, anche se il CLT aveva, naturalmente, una struttura formale ben
distinta dalla legislazione italiana, con numerosi articoli che sistematizzavano le poche leggi che si occupavano di diritto del lavoro. Le trenta dichiarazioni della Carta del Lavoro sono state gradualmente replicate
nell’ordinamento giuridico brasiliano nella Costituzione dello Stato Nuovo
(articoli 136-140, CF/1937), nel decreto che organizzava la Giustizia del
J. DE CASTRO NUNES, Da Justiça do Trabalho no mecanismo jurisdiccional do regime: ensaio de
uma systematização doutrinária, in «Revista Forense», 41 (jan./mar. 1937), suplemento, pp.
447-459.
16
W. m. FERREIRA, Princípios de legislação social e de direito judiciário do trabalho, I, São Paulo
Editora Limitada, São Paulo 1938, pp. 104-148.
17
A. CASTRO, Justiça do Trabalho. Freitas Bastos, Rio de Janeiro 1941, pp. 64-85.
18
F. TEIXEIRA DA SILVA, The Brazilian and Italian Labor Courts: comparative notes, in «International Review of Social History», 55 (2010), n. 3, pp. 381-412.
19
F.J. DE OLIVEIRA VIANNA, O conceito da convenção collectiva no direito positivo brasileiro: exegese
da al. ‘j’ do art. 121 da Constituiçao, in «Archivo Judiciario», 44 (out./dez. 1937), pp. 69-76.
15
457
L. ROSENFIELD, A. VESPAZIANI
lavoro (Decreto-Legge n. 1.237, 1939)20 e nel decreto che istituiva il Sindacato unico (Decreto-Legge n. 1.402, 1939). Il riferimento degli ideologi
del corporativismo brasiliano alle innovazioni giuridiche della Carta del
Lavoro e dei giuristi italiani legati al regime, come Alfredo Rocco e Sergio
Panunzio, mostra i rapporti di scambio e di appropriazione dei concetti
del totalitarismo italiano.
Tuttavia, questo processo di avvicinamento all’ideologia fascista è, allo
stesso tempo, un tentativo di distinguersi dal totalitarismo italiano: in Oliveira Vianna, ad esempio, c’è uno sforzo costante per dimostrare quanto il
Brasile si differenzia e si allontana dagli sviluppi italiani. Nel Brasile di Vargas, nessun sistema politico a partito unico è stato progettato per guidare
lo Stato totalitario, e gli ideologi del Varguismo hanno cercato di dissociare
l’importazione graduale dei principi della Carta del lavoro dal fascismo italiano21. L’accusa di Waldemar martins Ferreira secondo cui il potere normativo della giustizia del lavoro era un’importazione non filtrata
dell’esperienza fascista22 meritò una risposta rispettosa e dettagliata da parte
di Oliveira Vianna, che difendeva l’adattabilità di quella giustizia amministrativa alla realtà brasiliana23.
5. L’Estado Novo come una democrazia autoritaria
Per quanto paradossali possano sembrare, a prima vista, le disposizioni
della Costituzione del 1937, la legge fondamentale dell’Estado Novo, esse
avevano una logica interna e un ideale operativo. A causa della sua vita relativamente breve e di un certo pragmatismo di Vargas, molte delle disposizioni costituzionali non furono applicate, come si può vedere dall’esempio
eloquente del mancato plebiscito previsto dall’articolo 187, che non è mai
stato indetto. Cioè, nemmeno uno dei cardini della Costituzione del 1937,
il plebiscito che cercava di legittimare il regime, era stato rispettato, e fin
dai suoi primi anni il discorso ufficiale dell’Estado Novo dovette convivere
con questo vistoso inconveniente. Un tale paradossale processo di costruzione costituzionale fece sì che Karl Loewenstein, già nel 1942, si riferisse
F. GENTILE, O fascismo como modelo: incorporação da “Carta del lavoro” na via brasileira para o
corporativismo autoritário da década de 1930, in «mediações», 19 (jan./jun. 2014), n. 1, p. 94.
21
Ibidem, pp. 94-98.
22
W.m. FERREIRA, Justica do Trabalho. In «Revista do Trabalho», 5 (1937), pp. 233-236.
23
F.J. DE OLIVEIRA VIANNA, Problemas de direito corporativo, Câmara dos Deputados, Brasília
1983 [1938]. pp. 77-78.
20
458
‘FASCISmO TROPICALE’
espressamente al fenomeno della “non costituzione del 1937”24.
Durante i primi anni di governo di Getúlio Vargas furono riconosciuti
diritti sociali, del lavoro e della sicurezza sociale, in una sorta di modernizzazione conservatrice. L’architettura giuridica dell’era Vargas poggiava su
una nuova separazione dei poteri, frutto dell’organizzazione politico-legale
incentrata sul potere esecutivo, cui seguì la maturazione del costituzionalismo antiliberale e un’ideologia giuridica autoritaria, il cui Estado Novo rappresenta solo il culmine.
Da una prospettiva costituzionale l’autoritarismo varguista può essere
sintetizzato in alcuni vettori principali: la maggiore centralizzazione del potere centrale, l’assorbimento della tecnica legislativa da parte del potere esecutivo, il rafforzamento dell’autorità e dello Stato e l’espansione dei poteri
del presidente della Repubblica con la sospensione delle assemblee politiche, lo scioglimento dei partiti politici e la limitazione delle libertà individuali e dei diritti politici. Ognuno di questi vettori dell’ordine autoritario
comprende una serie di strumenti giuridici e politici che hanno fatto durare
l’impresa dittatoriale dal 1937 al 1945. Oltre alle linee guida corporative
che guidavano parte dell’amministrazione federale, c’erano poi, secondo
gli ideologi vicini a Vargas, le condizioni di possibilità della costruzione del
nuovo Stato nazionale, più efficiente, tecnico e progressivo.
L’instaurazione dell’Estado Novo fu accompagnata da un dibattito molto
acceso nella dottrina brasiliana tra quelli che possiamo chiamare gli idealisti
costituzionali da una parte ed i realisti autoritari dall’altra. Similmente alle
polemiche che in quello stesso periodo alimentavano il pensiero giuridico
statunitense con l’ascesa dei realisti, così nel brulicante contesto brasiliano,
pur all’interno di una molteplicità di vedute, si vennero a polarizzare due
posizioni fondamentali: chi difendeva la vecchia cultura liberale di ispirazione anglosassone, e chi auspicava la creazione di una nuova cultura giuridica in sintonia con la tradizione nazionale brasiliana e con le esigenze
reali della popolazione.
A poco a poco, questo scontro ideologico si realizzò negli anni ’30 e
trovò il suo apice nel colpo di Stato che istituì l’Estado Novo. Il declino di
una generazione di giuristi liberali, guidata da Rui Barbosa e Pedro Lessa,
coincise con la perdita di egemonia del modello del costituzionalismo e
con l’ascesa del realismo autoritario proposto da Francisco Campos e Oliveira Vianna. Abbiamo scelto di usare la dicotomia tra idealisti e realisti
come asse analitico per spiegare la transizione delle idee dalla pratica autoritaria della Prima Repubblica all’autoritarismo dottrinale del varguismo.
24
K. LOEWENSTEIN, Brazil Under Vargas,The macmillan Company, New York 1942.
459
L. ROSENFIELD, A. VESPAZIANI
Nella Prima Repubblica, il liberalismo proposto da Rui Barbosa e Pedro
Lessa si scontrò con il costante uso delle pratiche autoritarie, sebbene il
costituzionalismo liberale fosse la dottrina ufficiale della Prima Repubblica.
Con l’Estado Novo, lo scenario cambiò completamente e il Brasile iniziò a
sostenere definitivamente i principi anti-liberali tipici delle dittature tra le
due guerre. Tuttavia, il processo di consolidamento autoritario non inizia
nel 1937, ma permea diversi dibattiti precedenti. La chiave per leggere lo
shock generazionale, quindi, offre un piano interessante per l’analisi dei discorsi giuridico-politici dei giuristi, in quanto consente l’accesso ai dibattiti
dal 1920 al 1945 come asse narrativo. In questo modo, le discussioni pubbliche di diversi gruppi intellettuali fungono da motore per il dibattito sul
processo di costituzionalizzazione del Brasile nel periodo tra le due guerre,
mettendo in luce le peculiarità dell’esperienza brasiliana.
Campos e Vianna sostenevano fermamente che la soluzione appropriata alla realtà brasiliana fosse la democrazia autoritaria, essi erano impegnati a trovare una soluzione autenticamente brasiliana e l’affermazione
ricorrente era che i costituenti del 1891 avevano importato esperienze americane ed europee senza filtri.
Nel 1935, Francisco Campos aveva già insinuato che il Brasile stava affrontando «l’aspetto tragico dei cosiddetti periodi di transizione». molto prima
del colpo di Stato che istituì l’Estado Novo, la sua dottrina, che era volutamente
oscura, lasciava intendere la gravità di quegli anni dell’ascesa dell’autoritarismo
istituzionale brasiliano. Per Campos, il paese stava assistendo a un momento
di transizione in cui il «passato continua a interpretare il presente; in cui il
presente non ha ancora trovato le sue forme spirituali», e quindi «le forme
spirituali del passato, con le quali continuiamo a vestire l’immagine del
mondo, si dimostrano inadeguate, obsolete o non conformi»25.
Anche l’alternativa di Oliveira Vianna era francamente autoritaria e corporativa, con tratti eugenetici. Per lui, la conoscenza delle peculiarità della
realtà nazionale è stata fondamentale per il successo della democrazia autoritaria. Nella sua visione, che spesso si scontrava con quella di Rui Barbosa,
lo sviluppo politico brasiliano richiedeva «di considerare i problemi dello
Stato o, meglio, i problemi politici e costituzionali del Brasile, non solo come
semplici problemi di speculazione dottrinale o filosofica», per affrontare invece «problemi oggettivi, legati alla realtà culturale del popolo»26.
F. [Luiz da Silva] CAmPOS, A política e o nosso tempo (conferência no salão da Escola de BelasArtes, em 28 de setembro de 1935), in ID., O Estado Nacional: sua estrutura, seu conteúdo ideológico,
Senado Federal, Brasília 2001 [1940], pp. 13-14.
26
F.J. DE OLIVEIRA VIANNA, Instituições Politicas Brasileiras, II, Metodologia do Direito Público
25
460
‘FASCISmO TROPICALE’
Nel pensiero degli ideologi brasiliani dell’Estado Novo c’era dunque la
preoccupazione di presentare l’autoritarismo brasiliano come un’esperienza
adeguata alla realtà nazionale, quindi diversa dalle esperienze viste come
estreme quali il fascismo italiano, il nazionalsocialismo e, soprattutto, il bolscevismo. Nella dottrina brasiliana, in generale, era presente la convinzione
che il Brasile non dovesse ripercorrere i cammini estremi dei totalitarismi
europei, e gli strumenti della sua democrazia autoritaria sarebbero dovuti
servire come legittimazione di questo processo apparentemente moderato.
Il tentativo di distinguere tra autoritarismo e totalitarismo era spesso presente nella dottrina, come si può vedere nell’opera di Araújo Castro, uno
dei pochi commenti sistematici alla Costituzione del 193727.
La preoccupazione di mostrare l’autoritarismo brasiliano come sistema
politico non totalitario è stata centrale anche nella visita che Karl Loewenstein fece nel Brasile di Vargas. Loewenstein stesso spiega che parte della
sua ricerca era volta ad analizzare minuziosamente il sistema costituzionale
dell’Estado Novo nel contesto dell’approssimazione politica del Brasile con
gli Stati Uniti28.
Soprattutto durante le fasi più dure e repressive dell’era Vargas, fu sempre presente la percezione che si stava consolidando un autoritarismo
adatto alle esigenze del paese, il che significava un allontanamento dal totalitarismo europeo. Il distacco dall’ideologia totalitaria del fascismo in Oliveira Vianna, ad esempio, era ricorrente, e aveva l’obiettivo di presentare
un percorso proprio della ‘democrazia autoritaria’ brasiliana. La cosa curiosa è che anche nell’integralismo c’è stata cautela riguardo all’associazione
con il totalitarismo italiano, come si può vedere in diversi punti dell’opera
di miguel Reale, in cui ci sono affinità con il totalitarismo fascista, ma allo
stesso tempo una certa distanza e differenziazione in relazione all’estensione della proposta politica fascista e delle idee integraliste.
(Os problemas brasileiros da ciência política), José Olympio, Rio de Janeiro 1955 [1949], pp. 425427.
27
A. CASTRO, A Constituição de 1937, Prefácio de I. mártires Coelho. Senado Federal, Brasília
2003. pp. 39-44.
28
LOEWENSTEIN, Brazil Under Vargas, cit. nt. 24, pp. VII-XIII.
461
Indice dei nomi
Abbamonte O., 133
Acerbo G., 48
Adriani P.J.A., 169
Agosti G., 53
Aimo P., 15
Albertario E., 66
Alibrandi A., 346, 347
Alimena F., 93, 94
Allix E., 163
Aloisi U., 113
Alpa G., 50, 88, 210, 272, 377
Alvarez A., 429
Amatucci A.,143
Ambrosini G., 35, 119, 120, 121, 124
Ambrosoli L., 26, 44
Amendola G., 62
Amore Bianco F., 43, 60, 134
Amorth A., 262
Anello G., 360
Angelesco A.C., 409, 410
Angelici C., 271
Ansanelli V., 88
Anzilotti D., 36, 72, 112
Aquarone A., 183, 262, 275
Arangio Ruiz V., 36
Arcangeli A., 58, 71, 92, 297, 298, 310,
315, 329, 332
Arena C., 80
Arias G., 48, 58, 92, 97, 132, 264
Arminjon P., 373
Arrieta J.I., 363
Ascarelli T., 45, 64, 65, 94, 203, 240,
248, 249, 250, 261-343, 371, 373,
375, 378, 379, 384, 392, 395, 399,
400, 401, 402, 405, 409, 410, 412,
414, 415, 418, 425
Ascoli A., 36, 208, 209, 210, 220, 225,
429
Ascoli m., 41, 63, 65
Asquini A., 27, 35, 36, 42, 45, 60, 64,
68, 75, 79, 80, 81, 85, 92, 237, 242,
244, 245, 246, 247, 248, 249, 250,
462
253, 254, 256, 257, 258, 259, 267,
269, 273, 278, 280, 285, 286, 287,
288, 289, 294, 298, 305, 306, 309,
320, 323, 326, 332, 337, 338
Augello m., 264
Auletta F., 33, 214, 406
Auletta G., 287
Azara A., 16, 113, 336
Baffi P., 307
Baget Bozzo G., 105
Baldoni C., 430, 441
Balladore Pallieri G., 360
Balzarini R., 58, 59, 118, 124
Banfi A., 47, 217, 399
Barassi L., 75, 113
Barberio m., 221
Barbero D., 340
Bardi P. m., 101
Baris T., 262
Barone D., 183
Barsotti V., 414
Bartole S., 336
Bartoli G., 122
Bartolini G., 75
Bartolo da Sassoferrato, 111
Barucci P., 28, 134, 155, 232, 263
Bascherini G., 42, 411
Battaglini G., 57
Battente S., 266
Bazzani C., 20
Becker E., 163
Belardelli G., 35, 51, 91, 100
Belloni E., 14
Benini R., 160
Bernhard P., 231
Bertagnolio P., 20
Bertola A., 43, 347, 360
Bertonha J.F., 455
Betti E., 36, 38, 42, 46, 47, 51, 55, 66,
68, 71, 79, 80, 87, 92, 125, 175, 201,
202, 209, 211, 212, 213, 214, 217,
221, 222, 226, 227, 228, 229, 230,
231, 232, 245, 257, 258, 272, 391,
392, 393, 394, 395, 397, 398, 399,
400, 402, 440, 441
Biagi B., 269, 302
Bientinesi F., 148, 264
Bifulco R., 121
Biggini C. A., 32, 48, 53, 59, 60, 61, 64,
113
Bigiavi W., 278, 284, 285, 287
Bini P., 28, 134, 155, 232
Birocchi I., 29, 33, 34, 36, 61, 64, 70,
73, 86, 92, 96, 101, 119, 124, 169,
202, 214, 215, 217, 219, 220, 242,
250, 258, 266, 272, 298, 343, 358,
359, 369, 376, 390, 399, 391, 411,
413, 432, 433
Bloch m., 380, 384, 385, 389
Boatti G., 49, 277, 351
Bobbio N., 93, 278
Boggeri m., 163
Bolaffio L., 81
Boldi A., 142
Boncompagni Ludovisi F., 17
Bonfante P., 36, 71, 72, 81, 82
Bonfiglio S., 193
Boni m., 148
Bordonali S., 350
Borghese G.G., 17
Borsi F., 20
Borsi L., 72, 191
Borsi U., 43
Bortolotto G., 348
Botarelli S., 170
Bottai G., 10, 14, 17, 20, 32, 37, 45, 47,
51, 55, 58, 59, 60, 61, 65, 66, 76, 80,
92, 112, 113, 117, 124, 130, 157, 160,
170, 172, 173, 268, 269, 279, 302,
306, 339, 430, 453
Boyé m.A.J., 209
Bozzi A., 221
Bracci m., 86, 89
Braccini R., 167, 168, 175
Brancadoro G.L., 277
Brandileone F., 36
Breschi B., 59
Brigaglia m., 95
Broglio E., 191
Brucculeri A., 306
Brugi B., 36, 71
Brunelli G., 340
Brunetti G., 48
Bruschettini A., 48
Brutti m., 47, 202, 217, 221, 226, 227,
232, 272, 399
Bryce J., 389
Buffarini Guidi G., 357
Buonaiuti E., 49, 65
Buongiorno P., 399
Bushart B., 240
Cabiati A., 82, 97, 148, 149, 161
Caffiero m., 68
Calamandrei P., 36, 41, 46, 53, 54, 63,
68, 71, 74, 80, 83, 85, 86, 87, 88, 89,
90, 91, 93, 94, 96, 393
Calamandrei S., 88, 89
Calasso F., 53, 93
Calchi Novati G., 411
Calicchio V., 452
Calisse C., 52, 349, 358
Calogero G., 96, 398
Calzolaio E., 377
Cammarata A.E., 40, 41
Cammeo F., 71
Campos F., 452, 453, 459, 460
Camurani E., 65
Camurri R., 63, 65
Canali m., 262
Candian A., 271
Canella m., 103
Cannistraro Ph.V., 19
Canonica G., 18
Capitant H., 205, 206, 207, 210, 236
Capograssi G., 50
Cappellini P., 31, 77, 85. 89, 90, 97,
217, 218, 226, 241, 257, 339, 343
Caracciolo A., 13, 15
Carano Donvito G., 163
Carapezza Figlia G., 348
463
Caravale m., 101, 103, 105, 124, 128,
132, 181, 271
Carboni C., 241
Carcaterra G., 122
Cardelli L., 160
Cariello V., 82
Carini T., 133
Cariota-Ferrara L., 376
Carli F., 134, 266
Carlo Alberto, 181, 183
Carnelutti F., 36, 54, 71, 86, 88, 201,
202, 218, 222, 228, 248, 268, 393
Carnì m., 360
Carotenuto S., 268
Carratta A., 88
Carrino A., 192
Carucci P., 13, 14
Casanova m., 268
Casavola F.P., 353
Casoli V., 113
Cassata F., 44
Cassese S., 17, 100, 203, 372
Castro A., 457, 461
Catalano G., 347
Catellani E., 43
Cattini m., 55
Cavalieri D., 41, 263
Cavina m., 59, 120, 130
Cazzetta G., 29, 181, 274
Ceci P., 44
Cerasi L., 264
Cesarini Sforza W., 32, 41, 43, 45, 48,
59, 80, 92, 113, 120, 122, 123, 124,
134, 268, 348, 453, 455
Checchini A., 358, 360, 365, 366
Cheli E., 200
Chiarelli G., 45, 105, 197, 198, 200
Chiodi G., 202, 203, 210, 212, 215,
216, 220, 242, 245, 249, 250, 266,
271, 272, 370, 376, 397, 403, 415,
431, 432
Chiovenda G., 36, 54, 63, 64, 88, 96,
393
Chizzini A., 91
Ciampi C.A., 353
464
Cianferotti G., 86, 87, 88, 93, 130, 241
Ciano G., 108, 137, 442, 444
Cicu A., 92, 384
Ciliberto m., 386
Cioli m., 430
Cipollina S., 142, 174
Cipriani F., 63, 87
Ciuffoletti Z., 97
Cognetti de martiis S., 82
Colarizi S., 78
Colombo E., 15
Colonna P., 17
Colzi A., 100
Condorelli O., 202, 349
Conigliello L., 28, 134, 155, 232, 263
Conte G., 29, 215
Coppini R.P., 269
Cordova F., 262
Cortese E., 33, 119, 169, 214, 298, 359,
376
Cosciani C., 168, 169, 170
Costa P., 68, 69, 78, 105, 130, 178, 204,
214, 219, 230, 240, 248, 263, 269,
428
Costamagna C., 29, 32, 35, 43, 45, 57,
87, 101, 108, 124, 187, 188, 189, 194,
196, 199, 333, 337, 339, 340, 348,
375
Cottino G., 93, 278
Coviello N., 349, 223
Craia L., 241
Cremonesi F., 14, 17
Crisafulli V., 124, 190, 195, 336, 338
Criscuoli A., 120
Crispi F., 13, 74
Croce B., 24, 54, 62, 63, 64, 65, 71, 72,
73, 85, 88, 91, 96, 97, 178, 277, 358,
385, 386, 401
Crosa E., 195, 196, 357
Cugia S., 53
Curato G., 154
Curtius E.R., 395
Curtius L., 397
D’Albergo E., 165
D’Alessio F., 141, 173
D’Amelio m., 16, 29, 30, 31, 32, 33,
35, 56, 71, 81, 87, 88, 112, 113, 173,
175, 204, 205, 209, 210, 214, 215,
216, 240, 241, 245, 246, 258, 259,
272, 378, 401, 404-411, 416, 417,
424, 426
D’Amico m., 240
D’Antonio E., 263
D’Avack P.A., 354, 359, 363
D’Emilia A., 390, 411, 429
D’Urso F., 269
David R., 373
De Blasi J., 259
De Cesare N., 108
De Cocci D., 124
De Cristofaro E., 76, 343
De Felice R., 36, 51, 78, 126, 262, 269
De Francesco A., 240
De Francisci P., 27, 32, 37, 38, 39, 40,
44, 48, 53, 68, 79, 87, 92, 108, 130,
160, 213, 214, 370, 374, 375, 377,
442
De Gasperi A., 105
De Gennaro A., 38, 83, 91, 379
De Grazia V., 18, 108
De Gregorio A., 35, 36, 45
De Ianni N., 161
De Luca L., 347, 363
De maddalena A., 55
De marsico A., 27, 52, 57, 61, 92
De martino A., 262
De martino F., 374, 375
De Nicolò m., 13, 22
De Paolis S., 20
De Rosa F., 262
De Ruggiero G., 53, 96
De Ruggiero R., 36, 64, 85, 208, 209,
211, 213, 214, 216, 220, 221, 231232, 272
De Sarlo F., 97
De Semo G., 275
De Stefani A., 56, 73, 144, 146, 149,
150, 151, 152, 156, 157, 161, 171
De Vecchi di Val Cismon C.m., 55, 56,
116, 117
De Vergottini G., 59
De Vivo F., 26
Decleva E., 55, 444
Degni F., 75
Del Giudice V., 348, 353, 359, 361
Del Vecchio G., 26, 42, 43, 47, 48, 52,
65, 66, 92, 112, 276, 370, 378
Della Torre G., 159, 167, 168, 175
Demogue R., 209, 409
Deni A., 142, 143, 152, 157, 160
Deroussin D., 203, 206
Di Nardi G., 296
Di Nucci L., 120
Di Renzo Villata m.G., 123, 148
Di Scala S. m., 105
Di Simone m.R., 59
Diana A., 59, 71
Diazzi A., 386
Diurni G., 26
Dodaro G., 26, 28, 48, 57, 63
Dogliani m., 178, 351
Dölle H., 255, 256
Dominedò F.m., 332
Domingo R., 202
Donati D., 45, 71
Donati m., 221
Dossetti G., 105
Durbin E.F.m., 307
Einaudi L., 73, 82, 97, 142, 146, 149,
160, 164, 169, 174, 264
Einstein A., 49
Emge C.A., 65
Ercole F., 52, 112, 113
Errera G., 48
Esposito C., 29, 59, 77, 190
Fabre G., 380
Facta L., 51
Fadda C., 36, 208
Falchi A., 123
Falco m., 353, 358, 359, 360, 361, 364
Falconieri S., 100
Falsitta G., 142, 143, 170, 175
465
Fanfani A., 306, 307
Fanno m., 264
Fantappiè C., 65, 74, 93, 95, 345, 349,
358, 363
Farenga L., 277
Fattori m., 24
Faucci R., 58, 73, 168, 263, 264
Fausto D., 142, 144, 157, 263, 296
Fedele P., 48, 58, 363
Fedozzi P., 360
Feliciani G., 359
Feroci V., 348, 367
Ferrajoli L., 69
Ferracini S., 286
Ferrando A., 380
Ferrante R., 130
Ferrara F., 59, 75, 212, 216, 232
Ferrara L., 306
Ferrari D., 360
Ferrari S., 347, 351
Ferreira W.m., 457, 458
Ferreri S., 378
Ferri E., 36, 72
Ferri G., 122, 324, 328
Ferri G.B., 339
Filipponio A., 87
Fimiani E., 262
Finzi E., 36, 45, 53, 79, 80, 321, 334
Finzi m., 57
Fioravanti m., 130, 177, 178, 184, 190,
200, 265
Flora Federico, 151, 152, 160, 161
Flora Francesco, 23, 56, 95, 96
Florian E., 64
Foa V., 342
Foderaro S., 99, 102, 105, 106, 107,
124, 131
Foglia m., 388
Fonti D., 20, 382
Forchielli G., 358, 360, 363
Fotia m., 280
France A., 149
Franceschelli R., 296
Franchini F., 124
Francisci G., 270
466
Franco C., 399
Frangioni A., 49, 52, 351, 352
Franzinelli m., 186
Freeden T., 452
Frezza P., 59
Fumian C., 444
Funaioli G.B., 59, 71, 212, 213, 234
Fusco A.m., 263
Gagliardi A., 59, 203, 262, 270
Galante A., 349, 361, 364
Galante Garrone A., 89, 90, 93, 351
Galasso G., 25
Galgano S., 210, 211, 272, 369, 372,
373, 374, 376, 378, 380, 401, 404,
405, 406, 408, 409, 411, 412, 415,
416, 417, 418, 419, 420, 421, 422,
423, 424, 425, 426, 428, 429, 430,
435, 436, 438, 439, 440
Galizia m., 106, 130
Gallo A., 399
Gallo E., 93
Gambaro A., 274
Gangemi L., 160, 264, 270
Gardella Tedeschi B., 392
Garibaldi L., 64
Garin E., 74, 133
Garino Canina A., 156
Garlati L., 83, 359
Garofalo R., 35
Garofoli V., 87
Gatta E., 16
Genovese A., 298
Genovesi G., 26
Gentile E., 105, 108, 119, 124, 202,
230, 262, 451
Gentile F., 458
Gentile G., 35, 41, 43, 72, 86, 97, 181,
182, 268, 277, 357, 367, 385, 386,
453
Gentile S., 43, 93, 101, 107, 123, 243
Gentili A., 388
Ghessi G., 174
Giacchi O., 347, 361, 362
Giani N., 133
Giannetto m., 15
Giannini A., 18, 35, 52, 365, 388, 423,
433, 434, 435, 436, 437, 438, 439,
440, 445
Giannini A.D., 142, 173, 175
Giannini m.S., 175
Giglioli G.Q., 18
Gini C., 44
Ginsburg T., 449
Ginzburg L., 88, 89
Gioberti V., 366
Giocoli N., 264
Giolitti G., 51
Giona F., 444
Giordano D., 14
Giorgi C., 178
Giorgini E., 241
Giovannini A., 285
Giuntini S., 103
Gobetti P., 82
Goetz H., 277
Golab S., 370, 399
Goldoni m., 298
Gomez de Ayala A., 354
Gorla G., 377, 379, 385, 409, 410, 421,
422
Gramsci A., 67, 81
Grandi A., 133
Grandi D., 61, 64, 83, 85, 86, 88, 89,
90, 91, 126, 205, 216, 226, 258, 326,
337
Graziani E., 351
Grechi A., 234
Greco P., 45, 55, 93, 216, 305, 306,
268, 278
Gregorio m., 29, 45, 181, 187, 190,
191
Gregory T., 24
Grimm D., 188
Grippa D., 63
Griziotti B., 30, 142, 154, 157, 158,
160, 163, 167, 168, 171, 172, 173,
174, 175
Grondona m., 211, 227
Grossi P., 79, 83, 88, 91, 100, 101, 120,
130, 240, 249, 277, 363, 371
Gruchmann L., 237
Guarneri F., 286
Guasti A., 166
Gueli V., 124
Guercio m., 13
Guerri G.B., 17
Guerrieri S., 184
Guidi D., 265
Guidi m.E.L., 264
Gutteridge H.C., 378, 434, 435, 439
Guzzardi F., 160
Hakim N., 206
Hedemann J. W., 251, 253
Heller H., 192
Hoehn R., 431
Horkheimer m., 371
Ippolito D., 119
Irti N., 268
Isnenghi m., 103
Jacuzio R., 353
Jaeger N., 113
Jamin Ch., 206
Jannaccone C., 352, 358, 360, 366
Jannaccone P., 82
Jannarelli A., 370
Jarach D., 155, 163, 168
Jellinek G., 191
Jemolo A.C., 36, 50, 57, 66, 73, 74, 80,
93, 94, 95, 96, 97, 345, 347, 355, 356,
358, 359, 361, 363, 364, 365, 367,
397, 433
Jung G., 152, 161
Kelsen H., 41, 192, 281
Keynes J.m., 81
Kahn Freund O., 264
Klinkhammer L., 231
Koelreutter O., 192
La Francesca S., 263
La Pira G., 53
467
La Rovere L., 135
Lacagnina D., 21
Lacché L., 101, 214
Lalou H., 235
Lambert É., 295, 428
Lanchester F., 43, 51, 57, 77, 78, 92,
93, 106, 119, 124, 192, 202, 432
Lanza C., 79, 130, 442
Lanzillo A., 341
Larnaude F., 209
Laterza G., 24
Lavagna C., 106, 190, 192, 195
Lefebvre D’Ovidio A., 211
Legnani m., 100
Leibholz G., 192
Leicht P.S., 43, 48, 60, 122
León Hilario L., 414
Lessa P., 459, 460
Lessona C., 71
Levi della Vida G., 48
Libertini m., 305
Libonati B., 277
Linz J., 451
Livorsi F., 309
Löhnig m., 203
Loewenstein K., 459, 461
Logozzo m., 176
Long G., 353
Longhi S., 35
Loria A., 82
Loschiavo L., 34, 101, 202, 266, 358,
432
Lottieri C., 122
Lucchini L., 36, 72
Lupi R., 143
Lupo S., 269
Lussu E., 92, 95
Luzzatto F., 49
Luzzatto S., 18, 108
macario F., 84, 377
macedonio N., 124
maffei m., 276
maggiore G., 36, 43, 48, 87, 92
magni E., 143, 162, 166
468
magni G., 20
mangoni L., 76, 100
mansuino C., 100
manzini V., 68, 92
maraviglia m., 51, 193, 194
marchesini, D., 133
marchetti P., 274
marchionatti R., 82
marcovaldi F., 152
marghieri A., 214
margiotta Broglio F., 95, 345, 353, 359,
361, 362
mari P., 26
marino G.C., 42
maroi F., 92, 125
marongiu A., 112
marongiu G., 28, 144, 153, 155, 176,
232, 263, 269
martinetti P., 97
martone m., 269
marullo di Condojanni F., 88
massari E., 35
massetto G.P., 148
mastrogregori m., 380, 385, 389
mastroiacovo V., 168
matteotti G., 14, 73, 74, 147, 182, 262
matteucci m., 376
mattioli R., 82
mattone A., 33, 119, 169, 214, 298,
359, 376
mazzacane A., 68, 69, 78, 80, 101
mazzamuto S., 277
mazzarella F., 203
mazzei V., 124
mazzini G., 445
mazzone R., 333, 334, 335
mazzoni G., 263, 287, 295, 339
meda F., 144, 150
melis G., 27, 35, 36, 46, 88, 89, 103,
203, 382, 388, 432
melleray F., 206
mello O. de, 454
menichella D., 36
meniconi A., 41, 88, 89, 214
meriggi m., 270
merolli C., 346, 347
messina G., 27
messina S., 244
messineo F., 57, 211, 384, 385, 409
meyer E., 400
miceli V., 41
micheli G.A., 141
michels R., 56
miele G., 45, 59
miele m., 360
mignoli A., 343
milano G.P., 363
miletti m.N., 33, 84, 119, 169, 214,
298, 359, 376
minazzi F., 97
miranda P. de, 456
misiani S., 263
moccia L., 377
molteni mastai Ferretti G., 346
momigliano A., 398, 400
mondolfo R., 58
montagnani C., 43, 65, 94, 250, 277,
329
montefusco V., 101
montel A., 234, 236, 237
montemurri G., 160
montenegro A., 430, 443
monti A.m., 73
monticone I., 241
montroni G., 25, 52
morassut R., 19
morelli A., 54, 55
morera U., 277
moresco m., 48, 350, 358
moriani L., 84
morolli G., 20
mortara G., 148
mortara L., 36, 71, 81
mortati C., 29, 36, 51, 59, 77, 184, 190,
192, 193, 195, 200
mosca G., 73
mosca m., 263
moscati L., 270
mossa L., 32, 36, 45, 57, 59, 64, 66, 79,
80, 81, 90, 93, 232, 244, 248, 250
mozzarelli C., 128
mura E., 55, 71, 96, 216
murialdi P., 100
musella L., 269
musselli L., 345, 350, 360
mussolini B., 14, 17, 18, 19, 20, 22, 37,
44, 48, 60, 61, 63, 79, 81, 97, 107,
108, 110, 111, 118, 120, 124, 130,
132, 133, 134, 138, 158, 182, 183,
186, 187, 188, 199, 259, 268, 269,
300, 355, 366, 376, 388, 394, 451
muzzarini m., 119
Nacci m., 363
Nattini A., 216
Navarrini U., 48
Neppi modona G., 240
Nicolò R., 68
Nieri R., 269
Nigro m., 124
Nipperdey H.K., 243, 244, 245
Nitti F., 92
Nitti F.S., 51, 72, 269
Nocera G., 221
Nolde B.B., 373
Nunes de Castro J., 457
Nyboiet J.-P., 235, 236
Olgiati F., 268
Olivetti G., 113
Omodeo A., 53, 96
Origone A., 77
Orlando F., 385, 386
Orlando V.E., 36, 39, 50, 57, 63, 72,
73, 74, 77, 121, 191, 195, 198, 352,
356
Ornaghi L., 265, 306
Ostenc m., 116
Osti G., 239, 240
Ottonelli O., 58, 97, 264
Pacchioni G., 389, 390, 403, 414, 423,
433, 435, 441, 445
Paganelli A., 53
Pagliara A., 399
469
Pagliaro A., 357
Palla m., 262
Palumbo C., 41
Pancrazi P., 96
Pantaleoni m., 269, 285
Panunzio S., 108, 119, 120, 124, 127,
188, 189, 195, 199, 200
Paoli G., 62, 63
Paolucci V., 104
Paparella F., 142
Papuzzi A., 93
Parisella A., 13
Parisi D., 265
Parlato G., 17, 105
Parrella A., 215
Parri F., 178
Pasetti m., 265
Pasquali G., 397
Pasquali Cerioli J., 347, 356
Patterson E.m., 307
Pätzold E., 251, 252, 253
Pavan I., 43, 68, 93
Pavolini A., 24, 132
Pedio A., 108, 279
Peláez m.J., 43
Pelini F., 43, 93
Pera G., 433
Perassi T., 36
Pergolesi F., 113
Pertici R., 345
Perticone G., 373
Perugini m., 286
Petrocelli B., 52
Petrone B., 119, 124
Petrone C., 102-109, 113, 115-120,
123-138
Petrone m. A., 103
Piacentini m., 361
Piacentini P., 20
Piantier A., 163
Pianzola F., 386
Pierandrei F., 106, 192
Piergiovanni V., 350
Pilotti m., 376, 394
Pini P., 263
470
Piola A., 353, 358, 360, 365, 367
Pirelli A., 431, 441
Pirou G., 307
Pirro B., 102-103, 106-116, 118, 124,
130
Pisani m., 63
Pivano S., 48, 113
Podestà C., 161
Policreti S., 89
Pomante L., 37
Pombeni P., 187
Populizio I., 274
Prato G., 82
Presutti E., 62
Preti L., 89
Prisco S., 265
Procida mirabelli di Lauro A., 376, 377
Pugliatti S., 45, 46, 339
Pugliese m., 143, 163, 173, 174
Quaglioni D., 195
Quattrocchi L., 21
Radbruch G., 192, 301, 313
Ranelletti O., 141, 148
Rapisarda S., 395
Ravaglioli A., 20
Reale m., 453, 455, 456, 461
Redenti E., 68, 86, 88, 291, 393
Renner K., 84, 313
Rescigno P., 31, 213
Rhodes C., 403, 447
Ricci B., 133
Riccobono S., 36
Ridola P., 92, 119, 124
Riezler E., 212
Rimoli F., 178
Ripert G., 206, 209, 212, 231, 233, 235,
236, 239
Rivière P.-L., 212
Rocco Alfredo, 10, 28, 30, 36, 38, 44,
48, 58, 65, 68, 71, 72, 75, 81, 92, 112,
127, 130, 203, 218, 219, 246, 247,
249, 266, 267, 273, 275, 276, 297,
300, 301, 302, 313, 346, 355, 365,
366, 453, 455, 458
Rocco Arturo, 69, 82, 83, 359
Romani m.A., 55, 81
Romano S., 39, 41, 42, 52, 71, 72, 77,
92, 141, 198, 245, 268, 281, 282, 294,
360
Rondinone N., 36, 38, 50, 68, 76, 77,
104, 226, 235, 241, 242, 243, 247,
248, 258, 259, 335
Ronga G., 113
Roselli O., 100
Rosengarten F., 62
Rosselli (fratelli): v. Rosselli C., Rosselli
N.
Rosselli C., 65, 81, 82, 92, 97, 309
Rosselli N., 81
Rossi E., 286
Rossi F., 184
Rossi L., 51, 72, 92
Rossi P., 52
Rossi V., 56
Rotondi m., 50, 210, 270, 271, 273,
378, 412, 413, 422, 423
Rouast A., 209
Rovelli F., 50, 275
Rückert J., 243
Ruffini Avondo E., 49, 351
Ruffini F., 36, 49, 52, 72, 349, 350, 351,
352, 354, 356, 358, 364
Rugge F., 15
Rundle Ch., 380, 381
Russi L., 103
Rüthers B., 453
Ryan A., 388
Sacco R., 162
Salandra A., 36, 72
Salandra V., 300
Salatino P., 18
Salis L., 213, 272
Saltelli C., 35
Salvatori P., 14, 18
Salvemini G., 85, 381
Sandulli A., 123
Sangiorgio G., 55
Santarelli E., 116
Santomassimo G., 215, 259, 269, 270
Santoro A., 59
Santoro Passarelli F., 213, 214, 218
Sapori A., 82
Sarfatti margherita, 19
Sarfatti mario, 387
Sarfatti michele, 404
Satta S., 43, 52, 54, 81, 95, 96
Sau R., 123
Savigny F.C. von, 191
Sbriccoli m., 25, 38, 83, 94, 106
Scaduto F., 36, 349, 358
Scaduto G., 211, 234, 260
Scandale E., 160
Schefold D., 192
Schiappoli D., 350, 352, 354, 356, 362
Schiavone A., 68, 105, 265
Schiera P., 382
Schmitt C., 31, 188, 192, 194, 205, 241
Schumpeter J.A., 261
Schwarzenberg C., 266
Scialoja A., 211, 297
Scialoja V., 33, 36, 64, 69, 70, 72, 73,
84, 85, 88, 112, 204, 209, 214, 215,
217, 221, 259, 272, 408
Scibilia C., 104, 106
Sciumè A., 91, 336
Scotti I., 183
Scotto di Luzio A., 108
Scuccimarra L., 18, 20
Sebastiani O., 108, 118, 129, 134, 135
Sedda m., 307
Sedita G., 34, 107
Seminara S., 63, 359
Sensini G., 45
Serena A., 108
Sermonti A., 257, 258, 277, 336
Serra Caracciolo V., 15
Sertolis Salis R., 122, 123
Servier J., 398
Sesta m., 102
Settembrini D., 268
Shoup C., 163
Siccardi C., 240
Siciliani De Cumis N., 24
471
Signori E., 48
Silva F. T. da, 457
Simoncelli V., 226, 349
Smend R., 192
Socci m., 241
Solmi A., 47, 52, 57, 60, 61, 71, 86, 92,
205, 241, 242, 243, 357, 365, 367
Sombart W., 307
Somma A., 31, 32, 50, 68, 239, 243,
244, 246, 248, 251, 253, 255, 258,
259, 343, 370, 371, 374, 376, 380,
403
Soprano E., 322, 332, 333
Sordi B., 239, 262, 270
Spada Veralli Potenziani L., 17
Spadolini G., 351
Spampanato B., 104
Speciale G., 130
Spirito U., 32, 38, 53, 56, 80, 160, 268,
269, 453, 455
Sraffa A., 33, 36, 72, 73, 80, 81, 82, 91,
272
Sraffa P., 82, 97
Stammler R., 41
Starace A., 23, 25, 29, 51
Stella Richter m. jr, 65, 249, 250
Stolfi E., 47, 217, 399
Stolfi m., 225
Stolzi I., 42, 75, 79, 80, 83, 89, 100,
128, 186, 203, 219, 230, 231, 249,
250, 263, 269, 348, 382, 454
Storti C., 97, 240, 258
Sullivan B.R., 19
Tacchi F., 42
Tamassia N., 349
Tanaka K., 405
Tannenbaum E. R., 104
Tarello G., 371
Tarquini A., 202
Tavilla E., 57, 130
Tedeschi G., 208, 392, 409
Tedeschi m., 349
Testa V., 17, 18
Teti R., 64, 247, 249, 335
472
Thaon di Revel P., 160, 162, 163, 165,
167
Tira A., 350, 352, 354, 362
Toaff E., 43, 93
Tolasi V., 63
Toraldo di Francia m., 101
Torrente A., 431
Torrisi J.C.S., 186
Tosatti G., 15
Tranfaglia N., 100
Travi A., 50
Treggiari F., 26, 75, 93, 120, 351
Tremonti G., 155
Trentin S., 62, 300
Triepel H., 192
Trindade H., 452
Tripiccione A., 377
Tripodina C., 185
Tronti m., 67
Turati A., 51, 92
Turi G., 36, 268, 100
Tushnet m., 449
Uckmar A., 148, 153, 154, 156, 158,
159, 160, 161, 170, 171, 172, 175,
176
Udina m., 48, 113, 373
Vacca G., 68, 76, 382
Vaccari P., 48
Vaccaro G., 20
Valeri G., 45, 64, 80, 81, 304
Valeur R., 428
Vanoni E., 144, 159, 163, 164, 166,
167, 168, 169, 173, 175
Varnier G.B., 345, 350, 351
Vassalli F., 26, 35, 36, 47, 57, 66, 68,
71, 80-85, 89, 91, 92, 208, 214, 215,
216-226, 270, 274
Vassalli G., 28, 52, 93, 252
Vassallo E., 346, 347
Vedovato G., 438
Veneruso D., 26
Venezian G., 62, 72, 240
Ventura A., 100
Venturi F., 135
Vianna O., 453, 457, 458, 459, 460,
461
Viforeanu P.C., 209
Vinciguerra S., 52
Visentini G., 241
Vismara missiroli m., 57, 80, 353
Vito F., 113, 287
Vivante C., 33, 36, 65, 72, 76, 80, 81,
82, 237, 248, 272, 273, 277, 278, 279,
305, 322, 323, 324, 336, 375
Vivarelli R., 267
Volkmar E., 237, 238, 239, 253, 255
Volpe G., 42, 268
Volpicelli A., 32, 38, 43, 68, 80, 92,
186, 268, 302, 453
Wagner S., 203
Wilamowitz-moellendorff U. von, 398
Wolff m., 373
Zamboni A., 24, 92
Zanardelli G., 185
Zangara V., 77, 190, 197, 198, 200, 432
Zangrandi R., 95, 111
Zanini P., 357, 361
Zanobini G., 36, 45, 122, 123, 124,
348, 363
Zerboglio A., 81
Zerboglio V., 81
Zoli A., 53
Zorli A., 163
473
In ideale collegamento con il volume pubblicato dall’Istituto Betti nel 2015 (I
giuristi e il fascino del regime [1918-1925]), questo libro focalizza l’attenzione
sul regime negli anni Trenta. È l’età del consolidamento del fascismo. Il disegno
generale fu quello di riorganizzare la società di massa sull’impronta della
cultura fascista e dell’idea corporativa, di modernizzare gli apparati e di
proporre una nuova legalità sotto l’egida dello Stato forte. Così, sistemati
con il Concordato i rapporti con la Chiesa, quella decade vide il fiorire di
proposte alla ricerca della ‘terza via’, ma naturalmente incanalate nell’alveo
della politica del regime e dunque tutt’altro che espressione di pluralismo.
I contributi si addentrano in diverse aree tematiche anche nell’intento di
aprire sentieri di ricerca nuovi attraverso indagini esplorative. Il discorso è
spesso trasversale, non solo per la pretesa integralità della cultura giuridica
fascista volta a costruire ‘l’uomo nuovo’, ma anche per lo scivolamento verso
la caratterizzazione pubblicistica di tutti i paradigmi del diritto che investì la
condizione giuridica dei singoli e degli organismi della società civile. Si può
parlare di processo di ‘giuridicizzazione’ della politica del regime che aspirò
addirittura a farsi modello da esportare.
I contributi raccolti nel volume sono di: Italo Birocchi (Università di Roma
Sapienza); Giovanni Chiodi (Università di Milano Bicocca); Saverio Gentile
(Università Cattolica di Milano); Massimiliano Gregorio (Università di Firenze);
Mauro Grondona (Università di Genova); Valeria Mastroiacovo (Università di
Foggia); Antonio Jannarelli (Università di Bari); Alessandro Tira (Università di
Bergamo); Luis Rosenfield (Unisonos Porto Alegre); Giovanna Tosatti (Università
della Tuscia); Alberto Vespaziani (Università del Molise).