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Matteo 7: Le opere di amore, la vera giustizia

2018, Liber Annuus

The present study delves into the page of Mt 7.1-29, which should be considered not only as a substantial part of the Sermon on the Mount (DM) but also as its conclusion. This is an important section of Jesus' first speech in Matthew, which summarizes the essential message of the Gospel and outlines its main ethical-theological characteristics. Attention is drawn first of all to the initial part of Mt 7, which culminates with the golden rule (Mt 7.12). It constitutes the final of the inclusion introduced by the antitheses and characterized by the key words "the law and the prophets". This is followed by the analysis of the next four short pericopes (or logia), in which there is constant reference to the works of believers and to the responsibility of practicing the justice of the Kingdom. The inlay of the elaborate images and the structural texture of the text make this Matthean page unique in its composition, allowing the profound sense of God's will and the dynamism of his justice for believers to shine through, which is manifested in the works.

Matteo 7: Le opere di amore, la vera giustizia Abstract Il presente studio approfondisce la pagina di Mt 7,1-29, che va considerata non solo come una parte consistente del discorso della montagna (DM) ma anche come la sua conclusione. Si tratta di una sezione importante del primo discorso di Gesù in Matteo, che riassume in nuce il messaggio essenziale del vangelo e ne delinea le principali caratteristiche etico-teologiche. Si pone l’attenzione anzitutto sulla parte iniziale di Mt 7, che culmina con la regola d’oro (Mt 7,12). Essa costituisce la finale dell’inclusione introdotta dalle antitesi e connotata dalle parole-chiave «la legge e i profeti». Segue l’analisi delle successive quattro brevi pericopi (o logia), nelle quali si trova il costante riferimento alle opere dei credenti e alla responsabilità di praticare la giustizia del Regno. L’intarsio delle immagini elaborate e la tessitura strutturale del testo rendono questa pagina matteana unica nella sua composizione, lasciando trasparire il senso profondo della volontà di Dio e il dinamismo della sua giustizia per i credenti, che si manifesta nelle opere. Abstract The present study about the page of Mt 7: 1-2-29 should be considered not only as a substantial part of the mountain's discourse (DM) but also as its conclusion. This is an important section of the first discourse of Jesus in Matthew, which summarizes the essential message of the Gospel and outlines its main ethical-theological characteristics. The attention is drawn firstly to the initial part of Mt 7, which culminates with the golden rule (Mt 7, 12), that constitutes the end of the inclusion introduced by the antitheses and connoted by the key words "the law and the prophets". Then comes the analysis of the following four brief pericopes (or logia), in which there is a constant reference to the works of believers and to the responsibility of practicing the justice of the Kingdom. The inlay of the elaborate images and the structural weaving of the text make this Matthean page unique in its composition, allowing to shine through the profound sense of God's will and the dynamism of his justice for believers, which manifests itself in the works. 1. L’inizio del capitolo e il rapporto con Mt 6 Mt 7,1-2 (cf. Lc 6,37-38) indica l’inizio di una nuova tematica all’interno del Discorso della montagna (DM). L’argomento centrale sembrerebbe inizialmente quello dell’amore del prossimo, a giudicare dal logion sulla pagliuzza e la trave e dalla conclusione che riporta la regola d’oro (7,12). Non si inquadrano invece tanto bene le parole sulle perle e le cose sante, che sembrano un richiamo alla prudenza (7,6); un po’ più armonico è l’invito a perseverare nell’orazione in Mt 7,7-11: si tratterebbe forse di pregare per il prossimo. Guardando però da vicino il contenuto dell’intero capitolo, si osserva che il discorso fa anche riferimento alla propria coscienza, al giudizio su noi stessi. Oltre ai detti sulla pagliuzza e la trave e sulla perseveranza nella preghiera, si trovano in Mt 7 altri detti: l’albero e i frutti, la questione dei falsi profeti, lo sterile formalismo dell’invocazione del Signore priva di opere, la parabola delle due case. Difatti, per Gnilka le tre sezioni della parte centrale del DM – vale a dire le antitesi, la retta intenzione e la fiducia nella provvidenza del cap. 6, e i diversi detti del cap. 7 – si potrebbero enunciare rispettivamente come «giustizia davanti al prossimo, davanti a Dio e 1 davanti a noi stessi».1 A giudizio di Davies, in questa terza parte della sezione centrale del DM Matteo passa da un argomento sociale (l’uso delle ricchezze) a una realtà personale: come ci si deve comportare davanti al prossimo. Sembra che l’autore abbia attinto alla fonte Q, meglio rappresentata nel discorso della pianura.2 In un articolo precedente 3 si era presentata la proposta di Giavini, 4 poi ripresa da Bornkamm nel 1977,5 che vedeva in Mt 6,19-7,6 un commento al Padre Nostro. Nell’ultimo versetto, appunto Mt 7,6: «non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi», Bornkamm parlava di una spiegazione della frase «liberaci dal male». Accanto a quest’interpretazione alquanto controversa, alcuni esegeti vedono un invito di Matteo a essere prudenti riguardo alla conversione dei pagani, evitando anche l’eccesso di zelo. Allison propone un altro parallelo fra Mt 6 e 7. Si tratterebbe di una composizione triadica in 6,19-34 + 7,1-6, e di un singolo parallelo in Mt 7,7-11 con la conclusione di tutto il brano. Mettendo a confronto i due passi (che insieme fanno parte della seconda grande sezione), si individua il seguente schema:6 Parte istruttiva Esortazione 6,19-21 (non accumulare tesori) 7,1-2 (non giudicare) Parabola (occhio) 6,22-23 (lucerna) 7,3-5 (pagliuzza e trave) Altra parabola 6,24 (servire due signori) 7,6 (custodire le cose sante) Parte parenetica Incoraggiamento 6,25-34 (provvidenza Padre) 7,7-11 (fiducia nel Padre) La regola d’oro Mt 7,12 Il testo di Mt 7,7-11 presenta i logia di Gesù riguardanti la fiducia e l’insistenza nella preghiera. Queste esortazioni coinvolgono gli ascoltatori in modo individuale, anche se le parole si indirizzano in seconda persona del plurale. In 7,7-8 si intensifica la petizione (chiedete, 1 Cf. Joachim GNILKA, Il Vangelo di Matteo, I, Paideia, Brescia 1990, 178-180. Da parte sua Fitzmyer è dell’avviso che le tre sezioni contengano la giustizia degli scribi, quella dei farisei e infine, quella dei discepoli: Joseph FITZMYER, The Gospel According to Luke, I-IX, Doubleday, Garden City, N.Y. 1981, 628-629. 2 Cf. William D. DAVIES, Dale C. ALLISON, The Gospel According to Saint Matthew, I, T&T Clark, Edinburgh, 668. 3 Cf. Bernardo ESTRADA, Le esigenze della giustizia in Mt 6, RivBib 65 (2017) 349-374. 4 Cf. Giovanni GIAVINI, Abbiamo forse in Mt 6,19-7,11 il primo commento al Pater Noster?, RivBib 13 (1965) 171-177. 5 Cf. Gunter BORNKAMM, Der Aufbau der Bergpredigt, NTS 24 (1978) 419-432(423-424). 6 Dale C. ALLISON, A New Approach to the Sermon on the Mount, EThL 64 (1988) 405-414(407). 2 cercate, bussate…) mentre in 7,9-11 le argomentazioni sono interrogative; alla fine dice il Signore: «quanto più!», πόσῳ μᾶλλον! (simile al πολλῷ μᾶλλον in Mt 6,30) darà il Padre quelle cose ai suoi figli: non solo il pane si annovera fra le cose buone. Il testo rispecchia anche la redazione lucana che segue il Padre Nostro (Lc 11,2-13). Alle esortazioni di Gesù a perseverare nella preghiera Luca aggiunge – rispetto a Matteo – la parabola dell’amico inopportuno sull’insistenza nell’orazione. Il paragone fra questi schemi paralleli dimostrerebbe che Matteo ha inserito il suo commento sui beni materiali, collocato tra il Padre Nostro e l’esortazione alla preghiera. Tutta la sezione culmina esortando all’amore del prossimo mediante la regola d’oro (Mt 7,12): fare agli altri il bene che noi vogliamo che loro facciano a noi. Nel giudaismo invece, si enunciava in modo negativo: «non fare…». La redazione matteana non ammette restrizioni: «tutto ciò» (Πάντα οὖν ὅσα), mentre quella lucana recita: «fate voi lo stesso» (Q). L’espressione finale del logion, «questa infatti è la Legge e i Profeti», racchiude in un certo senso il corpus degli insegnamenti di Gesù nel DM, che era cominciato con la promulgazione della nuova legge: «Non crediate che io sia venuto a abolire la Legge o i Profeti» (Mt 5,17), un testo di implicazione cristologica che peraltro non restringeva la tradizione giudaica. Siamo davanti a una delle più caratteristiche inclusione matteane, che inquadra e nel contempo definisce la dottrina di Gesù, portando al suo climax la parte centrale del DM. La menzione della Legge e i Profeti riappare più avanti nel vangelo, come compendio del primo comandamento, amare Dio, e del secondo, che è simile al primo: amare il prossimo (Mt 22,34-40). In modo analogo, a proposito di ciò che si richiede per raggiungere la vita eterna, Gesù enuncia prima i comandamenti della legge e alla fine aggiunge: «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,16-19). Non a caso le antitesi di Mt 5 culminano nel precetto dell’amore dei nemici. La regola d’oro rappresenta così la quintessenza della retta prassi giudaica e del DM, e, nello stesso tempo, costituisce il nucleo dell’insegnamento di Gesù ai discepoli. In definitiva, si pone l’amore come l’espressione più perfetta della maggiore giustizia.7 In conclusione, Mt 6,19-7,12 rivela una continuità tematica quando insiste sul Regno e la giustizia, quando parla di abbandono nelle mani di Dio e dell’impegno nel compiere la sua volontà, quando invita a avere fiducia in Dio e a crescere nell’amore per gli altri. 2. Il cammino che porta alla vita (Mt 7,13-27) Il DM in Matteo si conclude con quattro logia parenetici che rappresentano un invito a rispondere e corrispondere all’insegnamento enunciato precedentemente. L’ascolto della parola 7 GNILKA, Matteo I, 395; DAVIES-ALLISON, Matthew I, 686. 3 dovrebbe portare a metterla in pratica (7,24), a tradurla nella vita. Anche se per alcuni studiosi le sezioni letterarie che appaiono con chiarezza sarebbero soltanto la prima (le due vie) e l’ultima (la parabola delle due case),8 la maggior parte degli interpreti individua nell’intera pericope le seguenti quattro unità:9 - 7,13-14 (cf. Lc 13,23-24): le immagini della porta e del cammino: le due vie; - 7,15-20 (cf. Mt 12,33-37; Lc 6,43-44): gli pseudoprofeti, paragonati all’albero cattivo, in contrasto con l’albero buono; - 7,21-23 (cf. Lc 6,46; 13,25-27): quelli che durante la vita hanno invocato il nome del Signore e invece non hanno agito rettamente; - 7,24-27 (cf. Lc 6,47-49): la parabola delle due case. Tutti i versetti matteani – a eccezione di 7,15, che parla dei falsi profeti – trovano un parallelo in Lc. Per tale ragione sembrerebbe chiaro che i testi risalgano dalla fonte Q. Tuttavia, osservando i testi lucani da vicino si scopre che essi provengono da due contesti diversi: il discorso della pianura (Lc 6,20-49) e Lc 13. Le numerose e svariate differenze che ricorrono nei passi paralleli evidenziano l’attività redazionale dei due evangelisti.10 La pericope si presenta come una grande e articolata esortazione che contempla in prospettiva l’insegnamento etico del DM, avente come punto di appoggio la regola d’oro appena enunciata. Ci si trova anche in un grande punto di inflessione dell’intero discorso, perché a partire da questo momento non ci saranno più insegnamenti etici, ma soltanto parenesi e ammonimenti che culminano con la parabola finale.11 I due primi brani (7,13-14.15-20) vanno in parallelo in quanto introdotti da un imperativo: Εἰσέλθατε (entrate), προσέχετε (guardatevi). Essi trattano di ciò che accade in questa vita. Gli altri due brani (7,21-23.24-27) sono introdotti rispettivamente da οὐ πᾶς (v. 21) e πᾶς (v. 24) e si riferiscono alla fine dei tempi e al giudizio. Ma c’è un altro legame: le persone a cui l’autore si riferisce in 7,15-20 sembrano essere le stesse di 7,21-23: gli pseudoprofeti. Essere operai di iniquità in 7,23 equivale a produrre cattivi frutti in 7,17-19. Invece in 7,13-14 e 7,24-27 il discorso sembra riferirsi a tutti i discepoli o ascoltatori. Considerando lo sviluppo del testo a partire dai destinatari, si staglia una struttura di tipo chiastico: tutti - pseudoprofeti // pseudoprofeti - tutti. Ad ogni modo sembra che 8 DAVIES-ALLISON preferiscono parlare di tre avvertimenti che portano il DM alla sua conclusione: 7,13-14 (le due vie), 7,15-23 (i falsi profeti), and 7,24-27 (le due case): Matthew, I, 693-694. 9 Paul GAECHTER, Das Matthäusevangelium: ein Kommentar, Tyrolia, Innsbruck-Wien-München 1964, 246249; Julius SCHNIEWIND, Il Vangelo secondo Matteo, Paideia, Brescia 1977, 184-187; Jan LAMBRECHT, Eh bien! Moi je vous dis": le discours-programme de Jésus, Cerf, Paris 1986, 181-182. 10 Marcel DUMAIS, Il discorso della Montagna, Elledici, Leumann (TO) 1999, 369. 11 Donald A. HAGNER, Matthew 1-13, Word, Dallas 1993, 178. 4 l’argomento principale non metta a fuoco i falsi profeti ma piuttosto le buone opere. In queste quattro esortazioni spicca la serietà e l’impegno con cui il DM chiama a vivere la giustizia del Regno.12 Nella sezione il verbo ποιεῖν appare 9 volte (7,17,18: 2x; 19,21,22,24,26:1x) indicando il criterio che separa i veri dai falsi profeti, cioè il compiere buone azioni e fare volontà di Dio. Lo stesso si ripete nei vv. 15-20, dove il compimento della volontà divina non si riferisce a comportamenti specifici. Nei successivi vv. 24-27 viene esplicitata la differenza fra le parole e le opere, il sentire e il fare (vv. 24-27). 2.1. Le due vie In questo logion non si sottolinea soltanto il vivere una vita d’accordo con le esigenze del Regno di Dio, ma si evidenziano pedagogicamente le alternative antitetiche della risposta etica del credente: distruzione o vita, salvezza o perdita, cielo o inferno.13 Il parallelo viene introdotto dall’esortazione «entrate (εἰσέλθατε) per la porta stretta» in Mt 7,13a collegata antiteticamente alla via larga.14 Non è facile il collegamento fra porta e via; forse per questo motivo Matteo usa πύλη (= porta di una città o di un tempio), anziché θύρα, che indica la porta di casa, come avviene in Luca. Non si sa infatti se la porta dà accesso alla via, o se alla fine del percorso si trova la porta che permette di accedere alla vita. 15 Secondo altri commentatori, porta e via sarebbero sinonimi.16 Nel testo parallelo in Luca 13,23-24 non appare l’immagine della via e si parla soltanto della porta, forse come ingresso della dimora celeste, dove si celebrerebbe il banchetto escatologico con Abramo, Isacco e Giacobbe. Il detto appare come risposta a chi domandava: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Avendo forse i due evangelisti attinto al testo da Q, si dovrebbe vedere se Luca ha accorciato il logion o se invece Matteo ha aggiunto la figura della via a quella della porta. A mio avviso sembra più probabile la prima opzione, perché nel giudaismo è più frequente la rappresentazione di due vie contrapposte (Dt 30,15.19; Ger 21,8; Sal 1,6; 4Esd 7,6-14; 1QS 12 HAGNER, Matthew 1-13, 181. Richard T. FRANCE, The Gospel of Matthew, Eerdmans, Grand Rapids, MI 2007, 287. 14 Cf. Adalbert DENAUX, «Der Spruch von den zwei Wegen im Rahmen des Epilogs der Bergpredigt», Joel DELOBEL (ed.), Logia: leas paroles de Jésus–The Sayings of Jesus. FS J. Coppens, University Press, Leuven 1982, 305-335. 15 L’idea appare nel Opus imperfectum in Matthaeum 18 (PL 56, 735); Juan MALDONADO pensa che la porta è l’íngresso al regno di Dio; Commentarii in quatuor Evangelistas, J. Raich, Moguntiae-Kirchheim 1874, 161; di quell’opinione è anche Ulrich LUZ, Matteo I, Paideia, Brescia 2006, 582.586. 16 Cf. Eduard SCHWEIZER, Il Vangelo secondo Matteo, Paideia, Brescia 2001, 118de*; Robert H. GUNDRY, Matthew, Eerdmans, Grand Rapids 1982, 127; Daniel MARGUERAT, le jugement dans l’Évangile de Matthieu, Labor et Fides, Genève 1981, 177. 13 5 3,20-21; Enoc Eth. 91,18). D’altra parte, il parallelismus membrorum di stampo semitico è tipico di Matteo, che adotta tale strumento interpretativo e didattico, improntato su testi dell’Antico Testamento. Anche nel mondo classico è conosciuta la contrapposizione delle due vie, una facile che conduce alla vita dissoluta – κακία – e una difficile che porta verso la ἀρετή, virtù.17 Ad ogni modo non è del tutto assente nell’ebraismo l’immagine della porta da attraversare per entrare nella Gerusalemme celeste o nel luogo dell’ultimo giudizio (Test. Abramo Rec. B, 8; Pesiqta Rabbati 179b). Matteo ha preferito conservare il topos parenetico dei due sentieri, servendosi dall’imperativo iniziale e dal parallelismo antitetico. L’immagine della strada da percorrere si impiega altrove nel vangelo: il Battista che cammina nella via della giustizia (Mt 21,32), i farisei che si rivolgono a Gesù come colui che insegna la via di Dio in verità (Mt 22,16). La metafora spaziale della via larga implica l’agio e la facilità – il comfort – per coloro che la seguono. Non ci sono delle esigenze significative, né delle regole da seguire per poi scivolare nella perdizione o meglio, nella distruzione (= ἀπώλεια). Tale termine nel NT indica la rovina che segue il giudizio escatologico di condanna. In contrasto, la via stretta viene qualificata come τεθλιμμένη, battuta dalle persone che ci si accalcano. Il verbo θλἰβω (=stritolare) si rapporta con θλῖψις (= tribolazione), caratteristica del periodo che precede l’eschaton. Si pensa allora alla strettezza provata dal dolore, ai patimenti subiti a causa della fede che preparano l’ingresso nella vita definitiva, la ζωή in senso escatologico. In questo caso l’evangelista Matteo riflette sulle diverse occasioni in cui Gesù avrebbe predetto ai discepoli delle difficoltà e delle crisi nell’annuncio e predicazione del Regno, paragonate con la situazione vitale della sua comunità, in cui molte di queste predizioni si sarebbero avverate. La via faticosa che fra le difficoltà e sofferenze conduce alla porta stretta è in definitiva la via della giustizia segnalata nel DM.18 I molti che, secondo Matteo, camminano sulla via larga non sarebbero soltanto gli scribi assieme alla maggioranza di Israele e nemmeno i non battezzati: sarebbero anche i membri della comunità cristiana. Essi appaiono nella Didaché in cammino verso la porta della vita e sono continuamente interpellati riguardo alla scelta delle due vie (Did 1,2-5,2). La grazia del battesimo non garantisce affatto la salvezza ma invita a affrontare la sfida di scegliere fra la via larga e quella stretta che contiene gli insegnamenti del DM. A questa via sono chiamati tutti i cristiani e non solo i perfetti. Pur essendo la via stretta un cammino esigente, occorre ricordare che i credenti sono sostenuti dalla grazia del battesimo e dal sostegno dell’assistenza divina che è 17 18 Così SENOFONTE parla di Eracle al bivio: Memorabilia, 2.1,21-34. LUZ, Matteo I, 585. 6 necessario per andare avanti.19 Questa decisione cruciale di accettare o meno la «via stretta» presenta la comunità matteana come un corpus permixtum. Solo nel giudizio finale si rivelerà chi ha percorso la via della vita. Non si tratta però di pensare – come accade fra l’altro nel calvinismo – al numero di coloro che si salvano, e se saranno una minoranza rispetto agli altri.20 L’imperativo εἰσέλθατε – entrate – fa eco all’affermazione di Gesù nel momento di proclamare la nuova legge (Mt 5,20): «se la vostra giustizia (…), non entrerete – εἰσέλθητε – nel regno dei cieli». L’impiego dello stesso verbo εἰσέρχεσθαι al congiuntivo aoristo, mette in risalto lo scopo da raggiungere, il Regno. A confermarlo sarà la frase di Mt 7,21: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà (εἰσελεύσεται) nel regno dei cieli».21 2.2 Gli pseudoprofeti - Mt 7,15-20 (cf. Lc 6,43-44) ha un parallelo (doppione?) in Mt 12,33-37 che si trova nella parte finale della disputa su Beelzebul. Ciò permette di ricostruire il testo di Q, conservato meglio in Lc 6,44-45: «Non c’è albero buono (…); dai loro frutti li conoscerete (...); l’uomo buono tira fuori dal suo tesoro (...)». Mentre Luca usa la terza persona, Matteo impiega la seconda. L’immagine dell’albero che produce frutti buoni o cattivi sembra essere la stessa in entrambi i passi. Anche se in 12,33 Gesù parla dell’albero buono, τὸ δένδρον τὸ καλὸν, aggiungendo l’espressione «razza di vipere» in 12,34 – γεννήματα ἐχιδνῶν, vicina a Giovani Battista, essa può riferirsi indirettamente agli pseudoprofeti. L’immagine dell’albero tagliato e gettato nel fuoco di Mt 7,19 sembra accennare a quelli che bestemmiano, per i quali si riserva l’accusa di possessione diabolica. Nei versetti precedenti a Mt 12,31-32 Gesù ha menzionato infatti la bestemmia contro lo Spirito Santo, riferendosi a parole più che a opere e parlando dell’impossibilità di perdono in questo secolo e nel futuro: il discorso assume allora un orientamento escatologico. Le parole di Q sono state probabilmente rielaborate da Mt in occasione della controversia con Beelzebul. Il testo parallelo di Luca 6,43-44 è formulato in tono negativo: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono». Poi si parla dei fichi e dell’uva che non si raccoglie né dalle spine né dai rovi. In Matteo 7,16 si menzionano prima l’uva e poi i fichi – adattando la fonte ai propri scopi redazionali. Il contenuto della pericope si può tematizzare così: 1) avvertenza sui falsi profeti; 2) il modo di riconoscerli; 3) il principio secondo il quale il bene proviene dal bene e il male dal male; 4) la realtà del giudizio, e 5) ripetizione enfatica sul modo di riconoscere quei falsi profeti. 19 HAGNER, Matthew 1-13, 180. LUZ, Matteo I, 587. 21 John NOLLAND, The Gospel of Matthew, Eerdmans, Grand Rapids, MI 2005, 332. 20 7 La disposizione tematica con l’inclusione presente nel testo matteano fa emergere la seguente struttura chiastica: 7, 15: monizione introduttiva; 7,16a: a dai frutti li riconoscerete; 7,16b: b le piante cattive non danno frutti buoni; 7,17-18 c principio generale dell’albero, con la variante negativa; 7,19 b’ ogni albero cattivo sarà tagliato; 7,20 a’ dai frutti li riconoscerete La regola da dare alla comunità che permette di applicare le parole di Gesù e distinguere i veri profeti dai falsi è questa: riconoscerli dai loro frutti. L’impiego della metafora agricola (un problema attuale nel periodo del I-II secolo) è attestato nella Prima lettera di Giovanni (2,18-27; 4,1-6), nella lettera a Tito (1,10-16), in Atti (20,29-30), nella Seconda Pietro (2,1) e nell’Apocalisse (2,20). Inoltre il tema riecheggia nella Didaché (11,3) e nel Pastore di Erma (Mand. 11). Non si tiene conto delle difficoltà che comporta la coltivazione: malattie, insetti, condizioni climatiche, concentrando l’argomentazione fondamentalmente sulla bontà dell’albero, cioè sulla capacità di produrre buoni frutti. Non è facile identificare storicamente gli pseudoprofeti: potevano essere farisei, esseni, zeloti, giudeocristiani o paolinisti radicali. Secondo Nolland l’individuazione degli pseudoprofeti è collegata al loro atteggiamento: si tratterebbe non tanto di coloro che incitavano all’idolatria o formulavano predizioni fallite, ma a coloro che pretendevano di indicare agli altri una volontà di Dio che non andava d’accordo con l’interpretazione che fa Gesù della Legge e dei Profeti.22 C’era abbondanza di carismi, di esorcismi e di guarigioni, ma solo dai frutti era possibile interpretare autenticamente le buone intenzioni. Già nella missione apostolica si vede che i profeti itineranti dovevano essere accolti dalla comunità (Mt 10,40-42). Il contrasto pecore-lupi ricorda il Discorso di Mileto (At 20,29 dove Paolo preannuncia ai pastori l’arrivo di lupi rapaci. Dal fatto che alcuni profeti possano passare come ‘pecore’, si presume che la profezia era un fenomeno familiare e ben accetto nella chiesa.23 L’insegnamento si rinforza in 7,16 con la domanda retorica: «Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi?». La doppia immagine degli alberi, prima positiva e poi negativa, dà una maggior forza retorica al ragionamento. Il cambiamento degli aggettivi καλός/σαπρός per ἀγαθός/πονηρός induce gli uditori a dimenticare la qualità dei frutti in se stessi e pensare piuttosto all’aspetto etico del paragone. È dalla vita che si possono individuare i falsi profeti di 22 23 NOLLAND, Matthew, 336. FRANCE, Matthew, 290. 8 Dio. Non appare il termine giustizia, è vero, ma si tratta proprio di questo. Come si è detto, 7,18 è semplicemente una ripetizione in forma negativa della frase precedente per dare più forza retorica al ragionamento. In 7,19 la spiegazione sugli alberi che non portano buoni frutti e che saranno tagliati e bruciati ha un tono escatologico. Essa ricorda la predicazione del Battista (Mt 3,10) che accenna a una sorte definitiva, al fine di dissuadere gli uditori dal subire la stessa sorte dei falsi profeti. Ripetendo poi l’avvertenza iniziale, l’evangelista chiude questa breve unità letteraria in modo inclusivo. Ad ogni modo è importante che Matteo non riporta nel brano nessuna parola di condanna o esclusione per gli pseudoprofeti; ciò corrisponde alla sua concezione della comunità in cui non si anticipano i giudizi futuri né si fanno delle condanne in partenza. Si offre alla chiesa un principio per vagliare il grano e separarlo dalla paglia, e attraverso il discernimento, un mezzo per mantenersi sulla via della giustizia.24 2.3. Il giudizio sulle proprie azioni Il testo di 7,21 parla di buone opere, delle azioni personali in tono polemico: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli». Ciò che conterà nel giorno del giudizio è l’aver fatto la volontà di Dio e aver evitato l’ingiustizia. La prospettiva dei destinatari si allarga: non si fa riferimento soltanto ai falsi profeti. Nella ripetizione dell’invocazione κύριε, oltre a un atteggiamento di supplica, spicca il ruolo personale di Gesù stesso come giudice. Mentre in Mt 3,3 c’è solo un accenno a Gesù come κύριος nella profezia del Battista, in Mt 7-8 κύριος appare 9 volte sulle labbra delle persone che vogliono avvicinarsi a Gesù o seguirlo. Se è una dichiarazione di fede o una captatio benevolentiae per chiedere qualcosa, non si sa di preciso. D’altro canto, a partire da qui e per il resto del vangelo, Matteo userà di preferenza l’espressione ‘Padre del cielo’, che non implica soltanto la figliolanza nel riguardo di Dio ma anche la fiducia di ottenere la grazia e l’aiuto necessario per vivere una vita degna del nome di cristiano. «In quel giorno molti mi diranno: ‘Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?’». Si accenna in Mt 7,22 alla dimensione futura del regno dei cieli con la frase «in quel giorno», quando la gente vi entrerà o meno. Questo taglio escatologico è assente però nel parallelo di Lc 6,46, che si limita a dire: «perché mi chiamate Signore, Signore e non fate quello che dico»? Alcuni esegeti vedono la pericope matteana 7,21-23 in collegamento con quella precedente e persino parlano di Mt 7,15-23 come di una sola unità letteraria. Anche se 24 LUZ, Matteo I, 597. 9 l’accenno escatologico collega le due serie di logia, potendo parlare del giudizio finale dei falsi profeti, il legame risulta un po’ traballante, 25 perché l’interesse dell’evangelista nelle due pericopi si concentra di più sulle buone opere che sui falsi profeti. I soli punti di collegamento infatti, sono il verbo ποιεῖν in 7,17-19.21-22, menzionato in precedenza, e il lessema προφητευin 7,15.22. Non ci sono comunque delle ragioni di peso per poter parlare di un rapporto stretto e nemmeno di una dipendenza fra di loro. Molti – la parola richiama i πολλοί di Mt 7,13 – addurranno di aver profetizzato e di aver compiuto dei miracoli nel nome di Gesù, come accadrà poi nella predicazione del regno di Dio, nella chiesa primitiva. Anziché rimproverare i miracoli e le profezie Gesù si volge contro quei predicatori che non hanno realizzato le opere di giustizia e li mette da parte, impiegando le parole del salmo 6,9: «Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!» L’espressione è carica di solennità, con l’uso del verbo ὁμολογέιν (= dichiarare), che segna l’inconfutabilità di una testimonianza nel linguaggio forense e che si concentra sull’ἀνομία (= iniquità, illegalità), realtà decisiva nel giudizio. Quel giorno infatti, gli pseudoprofeti riempiranno il mondo di iniquità (ebr.: ‫)עון‬, che di fatto coincide con ἀδικία (= ingiustizia). In Matteo il compimento della legge s’identifica con l’accettazione della volontà di Dio così come appare nella prospettiva veterotestamentaria. Gesù ha rafforzato questa realtà con le sue parole e opere, facendo vedere che la legge comporta e si riassume nel comandamento dell’amore. Si comprende allora perché in Mt 24,12 si affermi: «per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti». Questa sarà la dura conseguenza del male che si estende. L’ingresso nel regno di cieli non è soltanto una questione di fede ma anche di una fede che opera nella carità, da cui trapelano le opere buone: Matteo, dice Luz, «si scaglia contro ogni forma di ‘pura fede’ senza le opere».26 Sorprende una tale affermazione da parte di uno studioso luterano, ma il testo del vangelo è chiaro. Per la Riforma una moderata ortoprassi improntata sul giudaismo permette di creare una certa unione col Signore Gesù, ma il vero legame con Lui procederebbe dall’invocazione personale ‘Signore, Signore’. Matteo fa vedere che nella prospettiva di Gesù una vita cristiana senza le opere non è accettabile.27 La soluzione va cercata allora nell’affermazione di Mt 5,20, che indica la necessità di un’abbondante giustizia per entrare nel Regno 28 e in Mt 6,10, dove l’ingresso implica il fare la volontà del Padre celeste. In quest’ultima espressione si richiama la grazia necessaria per la salvezza, perché la giustizia in 25 LUZ, Matteo I, 589. LUZ, Matteo I, 596. 27 Hans WEDER, Die ‘Rede der Reden’. Eine Auslegung der Bergpredigt heute, Theologischer Verlag, Zürich 1985, 241. 28 HAGNER, Matthew 1-13, 181. 26 10 Matteo comporta nel contempo esigenza e grazia.29 Così per i riformatori il ‘fare la sua volontà’ significa non soltanto sforzarsi a compiere i precetti ma anche qualcosa per cui si può pregare, l’aiuto divino che si può ottenere, senza però assicurare l’entrata nel regno dei cieli. In Lc 13,25-27 si ha la seguente sequenza tematica: 1) la porta che si chiude; 2) la richiesta di entrare; 3) la risposta del signore; 4) l’insistenza degli esclusi, che erano stati con lui e avevano ascoltato la sua dottrina; 5) la condanna finale. Le ammonizioni, a dire il vero, sono un po’ generiche e senza concrete accentuazioni; eppur esse esortano i fedeli a realizzare un apostolato che renda frutto. Leggendo Luca sembra che le due sentenze fossero indipendenti in Q e che Matteo le abbia compilate in un’unica unità letteraria. Matteo conserva solo i due primi punti, menzionando gli pseudoprofeti – tre volte si dice che hanno profetizzato – e il potere dei miracoli. Secondo Käsemann, Matteo si avvia alla conclusione delle direttive del DM con le parole contro i falsi profeti, avvertendo la comunità di un grave pericolo che, sorprendentemente, in questo caso non sembra provenire dal fariseismo, un tema solito nel primo vangelo, al quale si contrappone una giustizia migliore.30 Qui invece si rimprovera una specie di pietà esagerata che si ritiene portatrice di capacità superiori, come la guarigione miracolosa e gli esorcismi. Il riferimento sembrerebbe diretto a un gruppo della comunità postpasquale che – alla stregua della chiesa a Corinto – si sente specialmente dotato delle grazie del Risorto e dalla potenza dello Spirito, come se questo ipotetico gruppo di credenti rivendicasse l’esclusiva dei doni soprannaturali. Allo stesso modo come accade negli Atti, in questo caso sembra esserci un movimento entusiasta che comprende sia i giudeo-cristiani come quelli credenti provenienti dal paganesimo, in consonanza con i due tipi di destinatari del vangelo, scritto probabilmente nel confine tra la Palestina e la Siria. A questo punto, guardando indietro, l’evangelista mette a confronto tre parallelismi con cui si decide l’esito del destino umano: «spaziosa è la via che conduce alla perdizione», in 7,13-14; «sarà tagliato e gettato nel fuoco», in 7,15-20; «allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!», in 7,21-23. Spicca in questi versetti il linguaggio di Gesù, «io dichiarerò loro» (7,23a), che in realtà si dovrebbe tradurre come «confesserò loro solennemente». Il verbo impiegato è ὁμολογεῖν, usato – come si è visto – nel linguaggio giuridico, in rapporto a Gesù che è qui contemplato come giudice escatologico. Un tale ruolo sarà dichiarato esplicitamente più avanti in Mt 25,31-46: Nell’ultimo giudizio verrà salvato colui che sarà in unione con Gesù Cristo – e perciò riconosciuto da Lui – per mezzo delle opere buone. Gli altri invece ascolteranno le parole: «Non vi ho mai conosciuti». 29 30 Bernardo ESTRADA, La giustizia in Matteo: Presenza del Regno, RivBib 59 (2011) 373-403. Cf. Ernst KÄSEMANN, Gli inizi della teologia cristiana, «Saggi esegetici», Marietti, Torino 1985, 83-105 (84-85). 11 Si fa presente un linguaggio di (non) conoscenza, davanti al Padre celeste. Anche se ci sono delle implicazioni di quel tipo, la scena non è propriamente giudiziaria. Gesù appare piuttosto come intercessore e avvocato, che potenzialmente controlla le porte del Regno ed è in grado di decidere il destino ci coloro che appellano a Lui. Da parte sua l’evangelista fa eco all’insegnamento di Gesù sulla giustizia, sul fare la volontà del Padre celeste. Anziché segnalare un elenco di errori e azioni negative degli avversari, si proietta la scena nel futuro, dove il Giudice del mondo pronuncerà la sua sentenza: «Non vi ho mai conosciuti». Che significano poi quelle parole di Gesù, «non vi ho mai conosciuti» (Mt 7,23), simili al «non so di dove siete» di Luca 13,25b? In questo caso l’uso del linguaggio di origine riflette, oltre all’importanza dell’identità nel mondo antico, la negazione di ogni relazione. Lasciando il linguaggio di origine, Matteo indica che il rapporto con Gesù si stabilisce in base alla prontezza e disposizione di fare la volontà del Padre. L’espressione «voi che operate l’iniquità» è presa dal salmo 6,8, dove il salmista chiede al Signore l’umiliazione dei suoi nemici (6,10). Più che segnarli tutti come iniqui, sembra che la sentenza voglia smuovere il cuore degli ascoltatori mostrando le conseguenze per coloro che non prendono sul serio gli insegnamenti del DM. Considerando i sinottici, il termine ἀνομία (= iniquità) è attestato unicamente in Matteo. Le quattro ricorrenze del termine (oltre a questa, appare in 13,41: la zizzania; 23,28: discorso contro i farisei; 24,12: discorso escatologico) rappresentano la terza parte di tutte le citazioni del NT. Conoscendo la predilezione matteana per la giustizia e l’osservanza della legge, non stupisce che si impieghi questo vocabolo per designare chi non compie i precetti divini.31 Anche nel discorso escatologico Matteo parla degli pseudoprofeti. Forse l’evangelista sta applicando le parole di Gesù ai cristiani del suo tempo (come fa la Didaché). Troviamo conferma nell’approfondire il testo di Mt 23, che per diversi studiosi è considerato propriamente l’inizio del discorso escatologico. In esso si riportano queste parole di Gesù: «Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate ‘padre’ nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare ‘guide’ (capi) perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo» (23,8-10). Sembra che non si tratta soltanto della ricerca di titoli da parte dei discepoli: più a monte si potrebbe trovare un ordinamento della comunità improntato sulle basi dell’organizzazione giudaica. Infatti, i titoli di padre, maestro e capo o guida sono applicati proprio ai rabbi. Gesù ricorda che queste designazioni convengono soltanto a Dio e al Cristo e a coloro che lui avrà designato a continuare la sua missione sulla terra. La sovranità di Cristo e le manifestazioni dello Spirito arricchiscono 31 NOLLAND, Matthew, 341. 12 la comunità con i suoi doni, ponendo anche di rilievo la libertà fondamentale di ogni cristiano e la sua partecipazione al sacerdozio comune di Cristo. 2.4 La parabola delle due case I testi paralleli di Matteo e di Luca nel DM coincidono particolarmente all’inizio, nelle beatitudini, e alla fine, nella parabola delle due case, in una redazione che si potrebbe qualificare di parallelismo inclusivo fra i due evangelisti. I racconti di Mt 7,24-27 e di Lc 6,47-49 sono abbastanza simili, anche se l’immagine matteana sembra più originale, descrivendo piogge e venti della Palestina autunnale. La duplice parabola risale a Q, senza però poter stabilire quali sono state le modifiche redazionali di ogni evangelista, o se il doppio parallelismo semitico sia stato rafforzato da Matteo o variato da Luca. È probabile che quest’immagine così espressiva e potente sia stata rimaneggiata diverse volte. Matteo da parte sua l’ha utilizzata come conclusione di grande effetto, lasciando gli ascoltatori di Gesù di fronte a una scelta chiara e nel contempo impegnativa: ascoltare le parole e ignorarle, o ascoltarle e metterle in pratica. In realtà si tratta di una scelta esistenziale, qualcosa che coinvolge l’intera persona di fronte al suo destino definitivo. La spiegazione fa riferimento ai discepoli, a coloro che volevano essere con Gesù e seguire le sue orme, in contrasto con la parte iniziale di Mt 7,13-14 dove si distinguevano i discepoli dagli altri, quelli che camminavano per la via stretta in contrasto con quella larga. In definitiva, si parlava di un confronto fra insiders e outsiders.32 Il racconto matteano si collega al ragionamento precedente mediante la congiunzione οὖν, ‘dunque’, a cui segue la frase: πᾶς οὖν ὅστις ἀκούει μου τοὺς λόγους τούτους καὶ ποιεῖ αὐτούς, «chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica». Essendo il discorso di Luca meno sistematico, la particella illativa non si rende necessaria. Luca mostra l’aspetto dinamico dell’introduzione: Πᾶς ὁ ἐρχόμενος πρός με καὶ ἀκούων μου τῶν λόγων καὶ ποιῶν αὐτούς «chiunque viene da me e ascolta le parole e le mette in pratica». Va’ notato il tocco di eleganza nell’impiego lucano del genitivo tipico dei verbi di percezione, che Matteo ignora quando usa il complemento in accusativo. Come si è visto prima, è lo stesso Gesù che parla delle sue (“mie”) parole: non si fa, infatti, accenno alla parola di Dio. Metterle in pratica le “sue parole” invece equivale a fare la volontà del Padre. I due evangelisti impiegano i verbi al futuro perché il discorso punta sul giudizio che avverrà alla fine dei tempi. Nel caso di Matteo il genere letterario del racconto viene evidenziato dal primo momento mediante l’uso della forma medio-passiva, ὁμοιοθήσεται (= si rassomiglierà), che assieme all’espressione ὅμοιος(α) ἐστιν (= è simile), segnala il modo in cui il 32 FRANCE, Matthew, 296 13 primo evangelista avvia la presentazione della maggior parte delle sue parabole (Mt 13,24; 18,23; 22,2; 25,1; 13,31.33.44.45.47.52). In Luca il verbo impiegato è invece ὑποδεικνὐειν (= mostrare), che privilegia la dinamica delle immagini. I due racconti sono interessanti da analizzare dal punto di vista socio-culturale e locale. Le coordinate matteane sono i luoghi dove si costruisce e le condizioni del tempo. Matteo dice che un uomo edificò la casa sulla pietra ed essa resistette alle tempeste. Le fondamenta di sabbia dell’altra casa, invece, vengono spazzate via dai torrenti di pioggia che confluiscono nei wadi palestinesi, i quali assieme ai venti irrompono su quelle costruzioni fragili, fatte normalmente di argilla. Si deve tener conto altresì che in quei luoghi agricoli si edificavano le abitazioni direttamente sul terreno, senza scavare. Se si trovava la roccia si era fortunati, e lo si era di meno se il suolo risultava composto di sabbia friabile e poco saldo. Luca non parla di diversi terreni ma di modi di edificare e accenna al costruttore che trova nel profondo la roccia sulla quale fondare la casa: difatti, nelle zone urbane del mondo ellenistico-romano a cui fa riferimento il terzo evangelista, si scavava sempre per dare delle fondamenta consistenti alla costruzione. Essa resiste davanti all’inondazione (πλημμύρα, hapax legomenon nel NT), causata dal fiume straripante che invade quelle edificazioni. Si pensa allora a una casa che poggia sulla pietra e può resistere al rischio distruttivo prodotto dall’irrompere di acque impetuose, edificata forse in una città accanto a un fiume. A differenza di Matteo, non si parla di vento né di pioggia. L’immagine della costruzione di una casa risale alla tradizione sapienziale semitica. L’aggettivo φρόνιμος (= saggio) corrisponde all’ebraico hakam, e la sua solidità come giusto si riflette nel modo in cui edifica la sua abitazione. L’atteggiamento comporta anche una dimensione teologica, perché l’uomo saggio è colui che fa affidamento su Dio. Dei due aggettivi tipici matteani φρόνιμος e μωρός (= stolto), il primo appare 7 volte in Mt e 2 in Lc, mentre il secondo soltanto in Mt, 6 volte. In tutti e due i termini la metà delle frequenze neotestamentarie è attestata da Matteo, indicando così una sua caratteristica didattica (cf Mt 25,21.23): si descrivono infatti, fin dall’inizio, due comportamenti contrapposti con le loro conseguenze che non hanno come scopo lo studio della Torah e la sua interpretazione, ma l’ascolto della parola di Gesù che insegna nel nome di Dio. Difatti, alcuni autori la chiamano parabola dei costruttori saggi e di quelli stolti.33 Ad ogni modo il parallelismo di Matteo è quasi perfetto e simmetrico. Esso facilita la memorizzazione e la conseguente trasmissione orale della parabola nel modo come ogni casa fu costruita, la tempesta che si schiantò su ognuna delle due case e il doppio effetto finale. 33 Arland J. HULTGREN, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 2004, 137. 14 Luz mette in rapporto questa parabola con il logion di Gesù in Lc 11,8 (par. Mt 10,32), formulato tanto in negativo quanto in positivo: chi lo confesserà e riconoscerà davanti agli uomini (cioè, chi ascolterà le sue parole e le metterà in pratica), anche il Figlio dell’Uomo lo riconoscerà davanti a Dio. La qualità della costruzione si renderà evidente nel momento del giudizio, quando si metteranno definitivamente a confronto i due tipi di ascoltatori.34 Ciò che conta in definitiva non è l’essere cristiani o non esserlo, aver accolto e creduto al messaggio di Gesù o averlo rifiutato, ma aver ascoltato le sue parole e i suoi precetti e averli messi in pratica. Matteo conclude il suo discorso – lo fa anche Luca – con il duplice confronto che ricorda il codice di santità di Levitico 26 e di Deuteronomio 30,15-20, dove gli ascoltatori si pongono di fronte al Signore che offre loro la vita e il bene, la morte e il male. Un’eco di questa “grande alternativa” è attestata anche nella letteratura intertestamentaria. 35 Si trovano anche altre immagini giudiziali come quella della tempesta negli oracoli di Ezechiele (Ez 13,10-15) e altre simili nell’Antico Testamento.36 In questi richiami alla letteratura di Israele si coglie la valenza escatologica alla quale fa riferimento la parabola, di cui l’impiego del verbo al futuro ὁμοιοθήσεται è un indizio. Un simile motivo sarà ripreso in altri due discorsi matteani, quello ecclesiastico (Mt 18) e quello escatologico (Mt 24-25). La vera chiave di interpretazione non è soltanto l’ascolto delle parole di Gesù ma la sua messa in pratica. L’espressione ποιεῖν τοὺς λόγους τούτους, ‘(fare) compiere queste parole’, di Mt 7,24 si riferisce propriamente a tutto ciò che il Signore ha insegnato nel DM. L’evangelista ripete e intensifica gli ammonimenti precedenti, ponendo l’accento dell’intero discorso sull’importanza di seguire in definitiva l’insegnamento di Gesù.37 3. La conclusione del Discorso della montagna «Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi». Le parole di Mt 7,28-29 servono da chiusura inclusiva dell’intero DM. Difatti, all’inizio Gesù si dirige alle folle che lo seguivano e ai discepoli (Mt 5,1-2) invitandole ad accogliere il suo insegnamento e le sue esortazioni. Adesso sono le stesse folle che restano stupite dal suo insegnamento. E’ importante sottolineare come la formula conclusiva si ripeterà altre quattro volte, con delle leggere varianti 34 LUZ, Matteo I, 606. Enoc 108, Assunzione di Mosè 12,10-13; 1QH 11,13-20.27-41; 14,21-38; 2 Baruch 53,3-12. 36 Oltre a Ez 13,10-15 ci sono altri testi che fanno vedere la tempesta e le innodazioni come segno del giudizio divino: 2Sam 5,20; Gb 22,16; Sal 69,2.15; 88,7; 124,1-5;Is 8,7-8; 28,2.13-22; Ez 38,22; Na 1,7-8; Sap 5,22; Sir 40,13. 37 HAGNER, Matthew 1-13, 190. 35 15 (le sei prime parole greche però saranno identiche), per concludere gli altri grandi discorsi matteani. Gli altri logia di Gesù nel vangelo avranno invece un finale diverso. Nel contempo si osserva che questa conclusione – similmente alle altre quattro – assume un valore retrospettivo, poiché si riferisce alle parole appena pronunciate dal Maestro e ne sottolinea l’importanza. Soltanto dopo la ripetizione dea formula conclusiva, il primo evangelista riprenderà la narrazione, introducendo la sezione successiva che riporta la narrazione progressiva e continuata dei dieci miracoli di Gesù. Forse per questo si fa presente la parola ἐξουσία (= autorità), che accenna alla potestà con cui opera quei prodigi. Quel Gesù che si mette al posto di Dio per proclamare la “nuova legge” mostra con i dieci miracoli il suo potere taumaturgico. Il parallelo lucano è più semplice: «Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, Gesù entrò in Cafàrnao» (Lc 7,1). La prima parte della sentenza introduce l’episodio seguente senza riferimenti a ciò che precede. Ad ogni modo tale procedimento in Luca fa pensare che una simile conclusione del discorso si trovava nella fonte dei detti (Q). Matteo invece ha arricchito il finale con il testo di Mc 1,22, che segue alla lettera, per dare un tocco sapienziale al discorso appena presentato. Lc 4,32 riporterà anche questo testo di Marco, senza però far riferimento ad alcun insegnamento specifico. Forse l’espressione perifrastica ἦν γὰρ διδάσκων αὐτοὺς («insegnava loro»), indica che lo stupore delle folle davanti a Gesù non si applica soltanto a questo discorso ma a tutto il suo insegnamento in Galilea e Giudea. Mettersi sopra gli scribi, i maestri autorizzati di Israele, è una pretesa non piccola. Anche considerando che le loro sentenze poggiavano sulla tradizione dei maestri della legge, in Mt 5,17-48 Gesù mostra un’autorità superiore («ma io vi dico») nell’interpretare la tradizione, nel presentarsi come l’oggetto della loro fedeltà e arbitro del loro destino (Mt 5,11-12; 7,2123.24.26).38 Un riferimento veterotestamentario che collega il testo matteano alla figura di Mosè sembra esserci.39 Esistono alcuni indizi che spingono verso questa direzione: la salita sul monte e la promulgazione di una nuova legge in riferimento alla legge antica, la discesa dal monte e il proseguire della sua attività kerygmatica e taumaturgica. Non si dovrebbe arrivare però a dire che il DM sia una nuova legge mosaica. Da segnalare anche alcuni particolari della grande inclusione matteana. In Mt 4,25 si trova la perifrasi: καὶ ἠκολούθησαν αὐτῷ ὄχλοι πολλοὶ («lo seguivano molte folle»). Le stesse parole saranno ripetute in Mt 8,1 dopo il DM. L’unità narrativa è inoltre data dal movimento di Gesù. In Mt 5,1 egli sale sul monte: Ἰδὼν δὲ τοὺς ὄχλους ἀνέβη εἰς τὸ ὄρος («vedendo le folle, salì sul 38 FRANCE, Matthew, 298-299. «Quando Mosè ebbe finito di scrivere su un libro tutte le parole di questa legge…» Dt 31,24; cf. Num 16,31; Dt 31,1; 32,45. 39 16 monte»). In Mt 8,1 Gesù discende dal monte: kαταβάντος δὲ αὐτοῦ ἀπὸ τοῦ ὄρους («scendendo dal monte»), iniziando l’attività taumaturgica con una nuova sezione. 40 4. Conclusioni Benché il DM abbia una sua conclusione propria, come si è appena visto, si deve però dire che i quattro logia di Mt 7,13-27 analizzati in questo studio, costituiscono una specie di epilogo di tutto il discorso. L’evangelista ha voluto sottolineare l’importanza delle opere che devono seguire l’ascolto della parola e consolidare gli insegnamenti ricevuti. Si tratta di un processo interiore che si realizza solo facendo la volontà del Padre celeste. Esso comporta il desiderio di incarnare le beatitudini, portare a termine le antitesi, vivere la rettitudine d’intenzione e innanzitutto cercare il Regno e la sua giustizia. Non si tratta solo di conoscere la volontà divina ma anche di compierla: invito, ammonimento, esortazione che culminano nei frutti della giustizia. Pur dipendendo da una tradizione previa, Matteo si mostra indipendente e creativo. Nel contempo trapela dalla sua narrazione una fedeltà fondamentale alle parole di Gesù, tenendo conto delle circostanze della sua comunità, improntata sulla tradizione ebraica. Ci sono due livelli, quello di Gesù e del suo tempo da una parte, e quello della comunità matteana, che sembra essere in contrasto col giudaismo contemporaneo, dall’altra. Gesù stesso prende le distanze dal comportamento dei farisei. Poi c’è l’apparente contrasto con Paolo, le cui concezioni relative alla giustizia e alla legge sembrerebbero diverse (cf Gal 3,1-5). Gli insegnamenti morali paolini sono però simili a quelli di Matteo: in entrambi gli autori, i comandamenti si riassumono nel precetto dell’amore il prossimo. Le esigenze proclamate hanno a che vedere con l’etica del Regno, la cui venuta ha una tonalità soteriologica – Gesù ci ha salvato con la sua vita, morte e risurrezione – e anche escatologica: praticando l’etica della βασιλεία il cristiano potrà un giorno entrarvi. Si dice che nel DM Gesù non annuncia se stesso ma il regno di Dio. I suoi insegnamenti però hanno una grande portata cristologica. Diverse espressioni sono cariche di un contenuto messianico: la beatitudine di Mt 5,11: «per causa mia...»; la dichiarazione di 5,17: «io sono venuto...», e soprattutto 5,21-48: «avete udito... ma io vi dico...». A queste espressioni si aggiunge Mt 7,2123: «molti mi diranno nel giorno del giudizio...». Si tratta di un testo in cui annuncia che sarà proprio lui il giudice alla fine dei tempi. Si nota di nuovo la confluenza delle due dimensioni, soteriologica ed escatologica, nella persona di Gesù. Non si potrebbe parlare di una dissoluzione della cristologia nell’etica, perché è proprio Lui il primo a compiere i comandamenti di Dio. 40 HAGNER, Matthew 1-13, 192. 17 L’etica del Regno è anzitutto teologica: Dio è il Padre che perdona, che insegna a pregare e a invocarlo come Padre, che dona la vera giustizia a chi compie la sua volontà e i suoi precetti, e che sarà poi contemplato dagli uomini, glorificando il suo nome. La venuta del Regno e l’annuncio della Buona Novella implicano anche una nuova esperienza della grazia di Dio. I due punti fondamentali del DM evidenziati da Mt 7 sono l’amore del prossimo – compresi i nemici – e la preghiera che è invocazione a Dio. Mediante l’amore si compie la volontà di Dio e si vive la sua giustizia. Con la preghiera si riconosce la dipendenza da Dio e ci si abbandona nelle sue mani paterne e amorose. Sorprende la radicalità del DM e la validità vincolante dei comandamenti. Essi sono validi tanto per il tempo di Gesù e della comunità matteana quanto per i nostri giorni. La loro realizzazione esige un’armonica congiunzione fra l’atteggiamento interiore e il comportamento esteriore. Tutto l’agire della persona dev’essere orientato verso Dio e verso il prossimo, sapendo che la prospettiva del giudizio illumina la sua esistenza e il suo comportamento. Paolo afferma che la fede opera per mezzo dell’amore (Gal 5,6). La parte finale del DM insiste sul mettere in pratica la parola. L’espressione centrale del Mt 7 può essere racchiusa nella perifrasi ποιεῖν τὸν λόγον, realizzare la parola. Mt 5,17-20 aveva confermato in un primo momento il compimento della legge da parte di Gesù per poi passare alla richiesta di una migliore giustizia da parte della comunità. Tale dinamica poggia sulla roccia che è Gesù Cristo, il quale con la sua missione compie la legge e i profeti e offre ai discepoli la possibilità di camminare sulla via della giustizia. La strada verso la vita si apre per chi compie la volontà del Padre che è nei cieli, pratica le buone opere e porta frutto. Dall’analisi proposta si comprende quanto sia necessaria per ogni credente la responsabilità della prassi in vista della salvezza. Non si può ascoltare la parola senza praticarla. Sarebbe un’illusoria costruzione fondata sulla sabbia che porta a una grande rovina. 18