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Alberti e Luciano nell'Amleto di Shakespeare

2022, Unpublished

Si possono trovare tracce di Alberti e di Luciano nell'Amleto? Vediamo.

Andrea Barbieri Alberti e Luciano nell'Amleto di Shakespeare È difficile, anche tra i grandi studiosi di Leon Battista Alberti, trovare cenni alla sua fortuna fuori d'Italia. Ecco perché un passo di Eugenio Garin nel Quattrocento di Cecchi e Sapegno merita di essere citato: Ov'è [nella Philodoxeos fabula], se anche in forma embrionale, tutto il tono del pensiero albertiano, estroso e drammatico, più felice nelle «figure» e nei dialoghi, percorsi spesso da un'ironia crudele, che nei trattati; pieno di gusto paradossale, amante dell'anonimo e dello pseudonimo, pronto a parlare dietro una maschera ora comica ed ora tragica, e magari ad assumere l'abito, non sai se del profeta o dell'astrologo, come in quelle sue perdute Lettere a Paolo Toscanelli, in cui, a sentire l'anonimo biografo, andava vaticinando il corso avvenire della storia del mondo. Né va dimenticato che, anonimo o pseudonimo, qualche suo lavoro corse l'Europa attribuito ad antichi e moderni, spesso legato a quel Luciano che l'Alberti amò ed imitò, e vicino a testi erasmiani.1 A parte rettificare «l'anonimo» biografo, che oggi è unanimemente ritenuto essere l'Alberti in persona, non vi è nulla da eccepire a distanza di sessant'anni; c'è solo un po' da rammaricarsi del fatto che Garin non dica quali lavori di Alberti corsero l'Europa.2 L'unico modo per rispondere è mettersi a cercare le sue tracce nelle opere di grandi autori europei. La sensazione è che ci sia parecchio Alberti in Shakespeare. Prendiamo Amleto, che sembra particolarmente adatto allo scopo di verificare questa suggestione, e confrontiamolo con l'opera di Alberti che pare averlo più influenzato, ossia Theogenius. Prima ancora di addentrarsi in un'analisi testuale, colpisce un'analogia esterna: Alberti dedicò il suo dialogo a Leonello d'Este in occasione della morte di suo padre, il marchese Nicolò III; e la tragedia di Amleto inizia coi funerali di suo padre, il defunto re di Danimarca: un sentore di morte la pervade fin dal principio, mentre la conclusione, come dice Fortebraccio nell'ultima battuta, «è adatta a un campo di battaglia, non a una reggia»: FORTEBRACCIO: Questa strage invoca tempesta e fulmini. O morte, qual festa prepari tu nell'infernale tua cella, se hai voluto d'un sol colpo abbattere tanti prìncipi?3 Se la tragedia di Amleto si conclude con una festa della morte, Theogenius appartiene invece al genere classico dell'epistola consolatoria, un antidoto che serviva a lenire il dolore provocato dalla morte e a fornire ragioni per non temerla; non importa se reimpiegato per l'occasione, cosa che del resto rientra nelle abitudini dell'autore e del genere stesso: ALBERTI: Tanto t'affermo, io scrissi questi libretti non ad altri che a me per consolare me stessi in mie avverse fortune […]. Certo conobbi a me questa opera giovò, e sollevommi afflitto.4 1 Eugenio Garin, La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana III. Il Quattrocento e l'Ariosto, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Milano, Garzanti, 1966, p. 258. 2 Oltre, s'intende, alla citata Philodoxeos fabula, che ebbe due stampe cinquecentesche: Salamanca 1500 ( II redazione) e Lucca 1588 (I redazione). 3 Montale traduce Shakespeare. Amleto, Milano, Enrico Cederna, 1949, p. 202-203. 4 Leon Battista Alberti, Opere volgari, a cura di Cecil Grayson, Bari, Laterza, 1960-1973, I, p. 56. Una medicina che ha funzionato si riutilizza al bisogno e si consiglia a chi ha il medesimo problema. Vediamo allora quali argomenti Alberti rivolge al giovane Leonello, destinato a prendere il posto del padre, al fine di distoglierlo dal suo dolore e incitarlo al culto della virtù. Si comincia col motivo classico dell'amicizia. Poiché è disgustato dal consorzio umano, Microtiro va a trovare Teogenio nel suo rifugio silvestre e viene accolto con calore, con parole simili a quelle che Amleto rivolge a Orazio, «l'uomo più giusto che egli abbia mai incontrato», l'unica persona di cui si fidi a Elsinor: TEOGENIO: Vedo io Microtiro mio? Corro per abbracciarlo, o parte dell'anima mia!5 AMLETO: Da quando l'anima mia fu signora della sua scelta e seppe distinguere fra gli uomini, essa ti ha suggellato per sé, perché tu sei uno che soffrendo di tutto non soffre di nulla, uno che accoglie favori e ceffoni della fortuna con lo stesso spirito imperturbabile. Benedetti davvero coloro che per giusta dosatura di sangue e di ragione non sono come flauti su cui la fortuna fa suonare il foro che più le piace. Datemi un uomo che non sia schiavo della passione, ed io lo terrò nel più profondo del cuore come faccio con te.6 L'amicizia è un secondo antidoto al dolore, e Alberti, come il filosofo cinico, va in cerca dell'uomo vero, di chi non sia uno strumento da suonare a piacere. Il motivo dell'uomo, strumento musicale a disposizione del capriccio della fortuna, o di altri, è ripreso da Amleto in uno scambio di battute con Guildenstern (atto III, scena II): «Credete, perdio, ch'io sia più facile a manovrare di un piffero? Strofinatemi pure, non ne tirerete una nota», da confrontare con Alberti, Theogenius, p. 78: «sapientissimo chi disse el populo essere una tromba rotta quale si possa mai ben sonare». Un vero amico è invece uno strumento ben intonato, capace di confortare ogni dolore. Microtiro espone a Teogenio il proprio disagio: attraversa infatti un periodo di depressione, esattamente come il principe di Danimarca: MICROTIRO: Io e dalla iniqua fortuna e da e' non buoni uomini me sento sì oppresso da tutti e' mali. Infelicissimo me, ch'io non so quale altrove si truovi misero calamitoso simile a me!7 AMLETO: Io da qualche tempo, ma non so come, ho smarrito tutta l'allegria, abbandonato ogni occupazione; mi sono così appesantito d'umore che persino la bella architettura della terra mi sembra una sterile forma. E anche l'eccelso baldacchino del cielo, questo firmamento stupendo, questo tetto maestoso solcato da fuochi d'oro, debbo dirvelo? non mi pare nient'altro che un pestilenziale ammasso di vapori. Che opera d'arte è l'uomo! Com'è nobile in virtù della ragione! Quali infinite facoltà possiede! Com'è pronto e ammirevole nella forma e nel movimento! Come somiglia a un angelo, per le azioni, e a un dio per la facoltà di discernere! È la bellezza del mondo e il paragone degli animali! Eppure per me non è che quintessenza di polvere.8 Amleto non è sempre stato in preda a pensieri così cupi. Sua madre è la prima ad accorgersi del suo cambiamento improvviso e a preoccuparsene: LA REGINA: Spògliati, buon Amleto, di questo colore notturno e guarda con occhio amico 5 Ivi, p. 57. 6 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 102. A proposito dei «ceffoni della fortuna», come non pensare ai calci e pugni con cui gli uomini armati al seguito della Fortuna tartassano la povera Virtù nell'intercenale Virtus di Alberti? (Leon Battista Alberti, Autobiografia e altre opere latine, a cura di Loredana Chines e Andrea Severi, Milano, RCS Libri, 2018, p. 131-133). 7 Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 60. 8 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 74-75. il re di Danimarca. Non cercar più a ciglia basse, nella polvere, il tuo nobile padre. È una legge comune: chi vive deve morire, deve attraversar la natura per giungere all'eternità. AMLETO: Sì, signora, lo so: tocca a tutti. LA REGINA: E perché dunque ti sembra una cosa tua particolare? AMLETO: Sembra, signora; anzi è: non conosco sembra. Non è solo il mio mantello tinto d'inchiostro, né le mie abituali vesti d'un nero solenne, né i rotti e profondi sospiri, e neppure il fiume che scorre dagli occhi e la disfatta espressione del volto, insieme con tutte le forme, i modi e gli aspetti della sofferenza; non solo tutto ciò può veramente rappresentarmi. Coteste, sì, son cose che sembrano; perché si possono recitare. Ma io ho qui dentro qualcosa ch'è al di là d'ogni mostra: il resto non è che l'ornamento e il vestito del dolore.9 Il giovane studente di Wittenberg sa bene che chi vive deve morire: non lo disturba ciò che è legge di natura, ma quel che di innaturale avverte intorno a sé: AMLETO: Oh Dio! O Dio! Come sembrano sterili e ammuffite e piatte le abitudini di qui! Che ribrezzo! È un giardino di gramigna che va in seme, e vi regnano soltanto cose fetide. A questo s'è arrivati! È morto da due mesi, oh no, non tanti! un re eccellente, un Iperione, – e l'altro, a suo confronto, un satiro, – sì tenero con mia madre che in volto non voleva la pungessero i vènti... Cielo e terra! Debbo pensarci? Ma se lei pendeva dal re come se il proprio desiderio di sé s'alimentasse... E ora... in un mese? Oh, no! Fragilità, il tuo nome è femmina. Un mese appena; prima che invecchiassero le scarpette con cui seguì la salma come una Niobe in lacrime; e costei – oh Dio, una bestia priva di ragione avrebbe pianto assai di più! – sposata a lui, fratello di mio padre e simile a mio padre com'io a Ercole. Un mese! Prima ancora che il sale delle sconce sue lacrime lasciasse quei suoi occhi gonfi, sposata e accorsa così svelta e leggera al suo letto incestuoso! Non è bene e non può dar bene.10 Un'altra donna che lo ha amato, Ofelia, si è accorta di quanto sia cambiato: OFELIA: Oh, il nobile spirito che va in rovina! Occhio, lingua e spada di cortigiano, di soldato, di dotto; la speranza e il fiore del nostro regno; lo specchio della moda e il modello delle forme, segnato a dito da tanti ammiratori, ormai caduto, finito! Ed io la più infelice e derelitta delle fidanzate, io, che ho succhiato il miele delle sue flautate cortesie, devo vedere quella sua mente sovrana dare un suono stridulo e stonato di campana guasta, quella ineguagliabile figura fiorente di giovinezza così sconvolta dal delirio.11 È un turbamento grande quello che attraversa la mente di Amleto. Non diverso è lo stato d'animo di Microtiro, che cerca sollievo dal saggio Teogenio. Poiché Microtiro ha chiamato in causa la fortuna, Teogenio inizia da qui a ridimensionare la cattiva disposizione d'animo dell'amico: TEOGENIO: Adunque, quanto le vediamo varie e volubili le cose della fortuna, elle non sono tali che noi possiamo affermarle da natura buone o non buone, quale mutata la oppinione e iudizio tanto e in sì diversa parte variano. Conviensi pertanto moderare e bene instituire nostre oppinioni e sentenza, ove molte cose a noi forse paiono utili qual sono disutili, e stimiamo cose non poche gravi essere e moleste quali certo sono levissime e 9 Ivi, p. 24. 10 Ivi, pp. 26-27. Nel paragonare la madre a «una bestia priva di ragione» Amleto richiama un passaggio del secondo libro di Theogenius: «In quale animante troverai tu maggiore rabbia che nello uomo? Amiche insieme sono le tigri, amici fra loro e' leoni, e' lupi, gli orsi; qual vuoi animale venenosissimo irato perdona ai simili a sé. L'uomo efferattissimo si truova mortale agli altri uomini e a se stessi» (Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 94). 11 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 98. facillime.12 AMLETO: Ma vorrei chiedervi con precisione, amici, che cosa avete fatto alla Fortuna ch'ella vi manda in prigione qui? GUILDENSTERN: In prigione? AMLETO: La Danimarca è una prigione. ROSENCRANTZ: Allora tutto il mondo lo è. AMLETO: Una prigione come si deve, piena di celle, di sotterranei e di segrete; e la Danimarca è una delle peggio. ROSENCRANTZ: Non lo crediamo affatto, mio signore. AMLETO: Si vede, allora, che non lo è per voi. Il buono e il cattivo dipendono dal pensiero che li rende tali. Per me questo è un carcere. ROSENCRANTZ: Effetto di ambizione. È un paese troppo ristretto per uno spirito come il vostro. AMLETO: Oh Dio! Potrei vivere nel guscio di una noce e credermi re d'uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni. GUILDENSTERN: Sogni d'ambizione. La sostanza degli ambiziosi è l'ombra di un sogno. AMLETO: Un sogno non è che un'ombra. ROSENCRANTZ: Davvero, e l'ambizione la ritengo di natura così aerea e leggera da essere soltanto l'ombra di un'ombra. AMLETO: Allora i corpi sono i nostri accattoni e i nostri eroi sublimi, e i nostri monarchi sono le ombre degli accattoni!13 Se la vita dell'uomo e ogni sua ambizione non sono altro che ombra di un sogno, non vale proprio la pena prendersela per i guai che la fortuna ci infligge di continuo. Sul tema della fortuna si svolgono sia il dialogo fra Teogenio e Microtiro, sia quello fra Amleto e i due vecchi amici Rosencrantz e Guildenstern, incaricati dal re di tastargli il polso e scoprire, se possibile, la ragione del suo cattivo umore. Diversi argomenti coincidono: il disprezzo di Amleto per le ricchezze e le pompe inutili ripete quello di Genipatro, il vecchio saggio dalla vita sobria introdotto da Teogenio per opporlo all'ambizioso Tichipedo. Ai due adulatori che ne lodano l'ambizione, Amleto risponde che potrebbe essere se stesso anche entro il guscio di una noce. La sentenza di Guildenstern che definisce le ambizioni «ombre di un sogno» oltre a costituire una citazione colta (risale a Pindaro ed è ripresa da Guarino) è un tema ricorrente in Alberti (intercenale Fatum et fortuna). Altro motivo albertiano è quello del tempo dedicato allo studio come spreco e vanità; anche Amleto è critico nei confronti della cultura libresca: TEOGENIO: Saravve licito mai restare di volgere tutto el dì e poi la notte ancora queste vostre carte? E che dolce amicizia vi porgono questi vostri libri, fra' quali voi occupati vivete pallidi, estenuati, consumati, poveri e infermicci? Che cercate voi con tante vostre inquietissime fatiche? Volete sapere che si facci in cielo, e dove quella e quell'altra stella s'agiri, e non sapete donde abbiate da pascervi e vestirvi. Cercate immortalità già non in tutto vivi in vita pel vostro troppo ostinato studio. Ma che potete voi scrivere favola nuova e non prima da molti scritta e promulgata? Restavi cosa più laboriosa ad accatarvi el pane che queste vostre letteruzze?14 AMLETO: Vi sono in cielo e in terra, Orazio, assai più cose di quante ne sogna la tua filosofia.15 12 13 14 15 Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 61-62. Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., pp. 71-72. Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., pp. 66-67. Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 51. L'uso del verbo sognare in relazione alla filosofia trova riscontro proprio in Fatum et fortuna di Alberti: «quel racconto bellissimo sul fato e la fortuna che hai detto aver appreso in Il bersaglio principale della critica di Teogenio, come pure di quella di Amleto, è però l'adulazione: TEOGENIO: La amplitudine tua e pompa civile, la frequenza di molti salutatori mai a me più piacerà che la mia quieta solitudine. A te in tanta moltitudine non possono non essere attorno chieditori, delatori, assentatori, ottrettatori, omini lascivi, lievi, immodesti, viziosi, infesti, da' quali ora per ora tu oda e riceva cose odiose e da sdegnarti.16 POLONIO: Mio signore, la regina vorrebbe parlar subito con voi. AMLETO: Vedete laggiù quella nuvola che sembra un cammello? POLONIO: Sacripante! È un cammello davvero! AMLETO: O forse somiglia a una donnola. POLONIO: Infatti... infatti... AMLETO: Non pare una balena? POLONIO: Tale e quale. AMLETO: Allora verrò proprio da mia madre. […] Verrò tra poco.17 IL RE: Suvvia, Amleto, dov'è Polonio? AMLETO: A cena. IL RE: A cena? Dove? AMLETO: Non dove mangia, ma dove viene mangiato. Ha su di sé tutto un parlamento di vermi politici. Il verme è il vero imperatore della dieta. Noi ingrassiamo ogni sorta di bestie per ingrassarci e ci ingrassiamo per i vermi. Un re grasso e un pezzente magro sono due pietanze di uno stesso desco; finisce tutto lì.18 L'adulazione, male endemico delle corti, ha fatto di Elsinor una prigione. Amleto è spiato, osservato, controllato da tutti coloro che gli stanno intorno: si vuol sapere quale sia il male che lo affligge, cosa trami entro di sé, che cosa provi. Sia chi lo ama, sia chi lo teme è preoccupato per lui ed egli sente il peso di tutta quell'apprensione. Il suo animo, direbbe Alberti, è «da e' vizi perturbato, pende occupato da brutta alcuna espettazione, o non iusto desiderio, o temerario incetto, o inetta paura e sollicitudine».19 È una condizione sospesa, la sua, che non può essere sopportata a lungo. Fa parte poi della lezione morale di Alberti il rifiuto dell'esternazione violenta del dolore, che è sentita come un eccesso falso e intollerabile: ed ecco che Amleto compie una sfuriata nei confronti di Laerte, che esibisce in modo teatrale il dolore per la morte di sua sorella Ofelia. TEOGENIO: Ché se chi noi piangiamo risuscitasse, giurerebbe dispiacerli la nostra stultizia, qual certo non meno debba a noi essere odiosa ove porgiamo e' nostri visi sucidi e troppo deformati dal pianto, e tormentiànci in opera non solo, come dicea Eschillo perduta, ma e degna di troppo biasimo, perseverare piangendo ove mie lacrime e sospiri né ad altri né a me giovano, ché se le lacrime potessero levarci el merore piangendo, si finirebbe ogni fatica e arebbono le lacrime pregio pur grandissimo.20 AMLETO: Chi è colui che si duole con tanta enfasi? Chi invoca le stelle e le fa star ferme come ascoltatrici trafitte di stupore? […] Amavo Ofelia; nemmeno l'amore di quarantamila fratelli farebbe tornare il conto del mio amore. Che vuoi fare per lei? […] Sangue di Dio, lo vedremo ciò che farai! Vuoi piangere? Vuoi batterti? Vuoi digiunare? Vuoi farti a pezzi? 16 17 18 19 20 sonno» (Leon Battista Alberti, Autobiografia e altre opere latine cit., p. 139). Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 74. Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., pp. 118-119. Ivi, p. 140. Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 75. Ivi, pp. 81-82. Vuoi bere dell'aceto? O mangiare un coccodrillo? Io lo farò. Vieni qui per piagnucolare? E per farti bello in faccia a me, saltando nella sua tomba? Fatti seppellire con lei ed io farò lo stesso. E se tu chiacchieri di montagne, si gettino allora tonnellate di terra su noi finché questo suolo arrostendosi la cocuzza alla zona torrida faccia sembrare l'Ossa una semplice verruca! Non berciare, perché so farlo meglio di te!21 Per il principe di Danimarca il decoro esteriore è segnale di equilibrio interno: consiste nella piena armonia con le leggi di natura: TEOGENIO: Diedeci fiumi quali ne saziassero assetati, e ordinò loro corso libero ed espedito, ma a noi come all'altre cose esposteci dalla natura, benché perfetta, fastidirono le fonte e i fiumi, onde trovammo quasi ad onta della natura profondi pozzi. Né di questo sazi, con tanta fatica, con tante spese, con tanta sollicitudine, solo fra tutti animanti a cui fastidii l'acqua natuale e ottimo liquore, trovorono el vino, non tanto a saziare la sete, quanto a vomitarlo, come se in altro modo non ben si potesse versarlo delle botti. E a questo uso fra le prime pregiate cose el serbano, e piaceli quello che li induca spesso in brutto furore e ultima insania; tanto nulla pare ci piaccia altro che quello quale la natura ci nega, e quello ci diletta in che duriamo fatica dispiacendo in molti modi alla natura.22 AMLETO: Il re se la spassa, stanotte, s'ingozza a crepapelle, fa baldoria e balla il trescone; e ad ogni bicchiere di vin del Reno che butta giù, tanburi e trombe ragliano alla pompa dei suoi brindisi. ORAZIO: Si usa far così? AMLETO: Così. Ma a mio credere, benché io sia nato qui e avvezzo a simili usi, si tratta di un'abitudine più onorevole a romperla che a osservarla. Queste ribotte da teste di rapa ci fan segnare a dito da tutti gli Stati. Ci trattano da ubriaconi, ci bollano con le più sconce parole. E tutto ciò toglie sostanza e midollo alle nostre imprese più degne.23 Alterare l'aspetto naturale delle cose provoca in lui irritazione, come ha modo di manifestare a Ofelia: AMLETO: Li conosco i vostri cosmetici, li conosco. Dio vi ha dato un viso e voi ve ne fate un altro; voi ballate, saltabeccate, balbettate leziosamente per immiserire le creature di Dio e siete tutta sfrontatezza e ignoranza. Va, ne ho abbastanza! M'avete fatto impazzire! Non ci saranno più matrimoni; quelli che si sono già sposati vivano pure, meno uno; gli altri stiano come sono e tu va, chiuditi in un convento.24 Anche dagli attori esige controllo e discrezione: AMLETO: Ma non siate nemmeno troppo addomesticati e fatevi guidare dalla discrezione, accordate il gesto alle parole, la parola al gesto, avendo cura di non superare la modestia della natura; qualsiasi cosa in tal misura gonfiata è ben distante dalla recitazione, il cui fine – ora come ai suoi primordi – è di reggere lo specchio alla natura, direi.25 E certo, anche se dice cose vere, è pessima recitazione, goffa e inappropriata quella del re che pretende di distoglierlo dal dolore per la perdita di suo padre: 21 22 23 24 25 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., pp. 181-182. Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 93 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., pp. 39-40. Ivi, p. 97. Ivi, p. 100. IL RE: Ma insistere in tale luttuoso contegno è poi indizio di empia caparbietà; è un dolore da femminuccia, che rivela una volontà indocile al Cielo, un cuore debole, uno spirito impaziente, un giudizio assai rudimentale ed incolto. Perché dovremmo noi prender a cuore con tanta insistenza e petulanza ciò che sappiamo inevitabile e comune a tutti? No, no! È colpa verso il Cielo, peccato contro i morti e contro natura; ed è cosa assurda, perché la ragione non fa che parlarci della morte dei padri ed essa ha gridato sempre, dal giorno del primo cadavere fino al morto d'oggi, «così dev'essere».26 Invece quel che accade ad Elsinor non segue le leggi di natura, e Amleto lo ha capito, perché anche la natura sa essere incostante, è soggetta a eccessi: TEOGENIO: Ne' tempi di Tiberio dicono in una notte ruinorono in Asia dodici grandissime e famose città, dove ancora e ne' tempi di Nerone più nobile città ruinarono Apamea, Laodicia, Ieropoli e Colossa. E scrive Tacito in que' tempi stata in Campagna sì veemente tempesta che pel furore de' venti le ville, gli albori e onni pianta in tutta la provincia si trovò svelta e lungi asportata. E ne' tempi di Vespasiano in Cipro e ne' tempi di Traiano pur in Asia quattro terre, Elea, Mirina, Pitane, Cume, rotte da' terremuoti mancorono. E ne' tempi di Galieno Augusto principe romano furono terremuoti maravigliosi. Muggirono e' monti e in profondo sé apersono, e insieme in più luoghi ruppono lungi dal mare a mezzo e' campi acque salse, e molte furono terre marittime oppresse dal mare e summerse. Pesaro, dice Plutarco, inanzi alla battaglia qual poi fu tra Cesare e Antonio, ruinò inghiottito dalla terra.27 ORAZIO: Nei tempi più alti e più gloriosi di Roma, poco prima che cadesse il grande Giulio, le tombe si voltarono, i morti nei loro sudari gemettero e mugolarono nelle vie di Roma, le stelle ebbero code di fuoco e rugiada di sangue, il sole fu pieno di disastri e l'umido pianeta sotto l'influsso del quale è l'impero di Nettuno fu oscurato da un'eclissi da giorno del Giudizio. Simili funesti presagi, araldi che anticipano i fati e preludono a incombenti sciagure, furono già largiti dal cielo e dalla terra ai nostri climi e alle nostre popolazioni.28 Amleto è testimone di qualcosa di terribile, che contravviene a ogni legge naturale. C'è qualcosa di marcio in Danimarca, ed è proprio in casa sua, entro la sua famiglia. Ciò che unisce profondamente Amleto all'Alberti del Theogenius è il concetto negativo, amaro, impietoso dell'essere umano: «quintessenza di polvere»29 lo definisce il principe danese nella battuta sopra riportata, con espressione biblica che allude alla vergogna del peccato d'origine e alla maledizione divina. Se in Alberti vi è la strenua volontà di dominare con le armi della ragione il male di vivere, in Amleto prevale lo smarrimento di fronte a un mondo in frantumi, che non risponde più ad alcuna regola: «Il mondo è fuor di squadra: che maledetta noia, esser nato per rimetterlo in sesto!».30 Alberti è uno dei principali interpreti di Luciano del suo tempo, forse il più importante prima di Erasmo, come ritiene Emilio Mattioli.31 E di Luciano vi è tanto in Amleto, a cominciare dall'atmosfera pregna di morte che incombe sull'intera tragedia. Cosa c'è di più simile a un Dialogo dei morti dell'incontro di Amleto col fantasma di suo padre? AMLETO: Oh, parla! Ch'io non mi strugga d'ignoranza! Dimmi perché mai le tue ossa consacrate hanno rotto i sigilli della bara; perché il sepolcro in cui scendesti in pace ha 26 27 28 29 30 31 Ivi, p. 25. Leon Battista Alberti, Opere volgari cit., p. 89. Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 19. Cfr. Genesi 3, 19. Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 52. Emilio Mattioli, Luciano e l'umanesimo, Napoli, Istituto Italiano per gli studi storici, 1980, p. 100. aperto le mandibole di marmo per ributtarti in su. E che vuol dire che da morto, e d'acciaio rivestito, tu rivisiti i raggi della luna per far la notte più sinistra; e noi nel raccapriccio, poveri zimbelli di natura, restiamo qui a nutrire pensieri che soverchiano la mente? Perché mai? Che dobbiamo fare? Parla.32 Qui c'è Luciano, con la sua filosofia cinica. Da morti si depone ogni maschera e cessa ogni simulazione. Solo i morti possono conoscere la verità del mondo e della vita: dunque ci vuole un defunto per rivelare a un vivente la verità. Il cammino della conoscenza è un viaggio agli inferi. Lucianea quanto più possibile è la prima scena del quinto atto di Amleto, che si svolge in un cimitero e inizia col dialogo surreale fra due becchini. Sovviene il dialogo fra Menippo e Mercurio, col primo, appena giunto nell'Ade, che chiede dove siano i belli e le belle di cui raccontano le storie. Mercurio gli fa i nomi di Giacinto, di Narciso, di Elena, e Menippo obietta che vede solo ossa e crani spolpati, tutti uguali: MENIPPO: Mostrami almeno Elena, che da me non la saprei distinguere. MERCURIO: Questo cranio qui è Elena. MENIPPO: E per questo mille navi salparono da tutta la Grecia, caddero tanti Greci e tanti barbari e tante città andarono in rovina? MERCURIO: Ma tu, Menippo, non l'hai conosciuta quand'era viva, questa donna: altrimenti avresti detto anche tu che ben meritava “per tale donna sventure a lungo soffrire”; certo, anche i fiori sembrano brutti, se uno li guarda quando sono secchi e sbiaditi, ma quando hanno vita e colore sono bellissimi. MENIPPO: Proprio per questo mi stupisco, o Mercurio: come gli Achei non capissero di travagliarsi per cosa di sì breve durata e che presto appassisce.33 PRIMO BECCHINO: Ecco un cranio che è stato sottoterra per ventitré anni. AMLETO: Di chi era? PRIMO BECCHINO: Di un bel figlio di puttana! Di chi pensate che sia? AMLETO: Non saprei. PRIMO BECCHINO: La peste gli pigli a quel maledetto! Una volta m'ha versato sul capo una caraffa di vino del Reno. Questo cranio, signore, era la testa di Yorick, il buffone del re. AMLETO: Questo? PRIMO BECCHINO: Proprio questo. AMLETO (prende in mano il teschio): Ahimé, povero Yorick! L'ho conosciuto, Orazio; un tipo estroso e pieno di squisite trovate; m'ha portato in ispalla mille volte! Ed ora come mi vien schifo a raffigurarmelo, vedendolo così. Mi fa stomaco! Le labbra che ho baciato tante volte pendevano qui! Dove sono ora i tuoi sberleffi? le tue piroette? le tue canzoni? I tuoi sprazzi d'allegria che si diffondevano a scoppi sulle tavolate? Non ce n'è più uno ora che si burli del tuo sogghigno, della tua grinta flaccida? Va dalla mia padrona e dille che ha un bel mettersi un dito di cerone sul viso, anche lei deve arrivare a ridursi come te. Falla ridere, va.34 Ecco Luciano, e ancora Alberti: Defunctus, col neo-defunto che racconta all'amico Politropo quello che non ha mai capito da vivo e ha potuto invece constatare coi suoi occhi dopo la morte. E questa è la sua amara conclusione: NEOFRONO: Certamente, o dèi, foste propizi a coloro che, per pietà, decideste di far morire prima di conoscere tutte le miserie della vita. Chi dovrebbe essere considerato più beato di colui che vivendo non subisce gli inganni delle donne, che per l'uomo sono 32 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., p. 41. 33 Luciano, Dialoghi dei morti, traduzione e nore di Stefano Tuscano, Milano, RCS Libri, 2002, pp. 146-147. 34 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., pp. 177-178. inevitabili, colui che non deve sopportare le ingiustizie dei parenti né gli aculei e i morsi delle inimicizie e a cui non capita di di imbattersi nelle offese e nelle ingiurie di uomini malvagi? Non dovremmo ritenere fortunatissimo costui, che non si è sforzato inutilmente giorno e notte, profondendo il massimo impegno, in studi che non servono a nulla? Certamente è andata benissimo a colui al quale una vita più breve ha risparmiato i colpi della fortuna, le circostanze aspre e le tempeste dell'esistenza.35 AMLETO: Se sia meglio per l'anima soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, o prender l'armi contro questi guai e opporvisi e distruggerli. Morire, dormire... nulla più. E dirsi così con un sonno che noi mettiamo fine al crepacuore ed alle mille ingiurie naturali, retaggio della carne! […] E chi vorrebbe sopportare i malanni e le frustate dei tempi, l'oppressione dei tiranni, le contumelie dell'orgoglio, e pungoli d'amor sprezzato e rèmore di leggi, arroganza dall'alto e derisione degl'indegni sul merito paziente, chi lo potrebbe mai se uno può darsi quietanza col filo d'un pugnale?36 Sì, c'è il tema classico del “muore giovane chi è caro agli dèi”: palliativo supremo contro lo sgomento della morte; ma c'è anche di più: la consapevolezza angosciosa che l'armonia del mondo antico si è spezzata, che l'uomo non sa vivere senza turbare gli equilibri dell'ambiente a lui circostante. Non sa essere amico agli altri uomini, ma solo lupo, come diceva Plauto.37 Amleto è un personaggio di tragedia: prende atto della realtà, soffre e va impavido incontro al suo destino. Alberti credeva nel valore creativo della parola, credeva nell'armonia dell'universo e nella bellezza di cui l'uomo è capace: una fede sicuramente condivisa da William Shakespeare. 35 Leon Battista Alberti, Autobiografia e altre opere latine cit., pp. 451-453. 36 Montale traduce Shakespeare. Amleto cit., pp. 93-94. 37 Plauto, Asinaria, II, 4, 88.