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Rigenerazione, resilienza e progettazione urbana

Come Alvaro Siza sottolinea nel numero 800 di Casabella "la crisi rappresenta un fattore di speranza". Il termine crisi deriva, infatti, dalla parola greca "Krino", che significa separare, cernere o, in senso più lato, discernere, valutare, giudicare. La crisi impone dunque una riflessione, una valutazione, un discernimento che possono essere il preludio per un miglioramento o una rinascita, impone che la società verifichi la propria capacità di reagire "agli urti" o, per dirla in maniera più contemporanea, di misurare la propria "resilienza". Di fronte alla crisi ecologica e economica che sta investendo il nostro pianeta, anche l'urbanistica e la progettazione urbana stanno riorganizzandosi, aprendosi a "nuovi paradigmi" (RICCI, 2013), primo fra tutti quello ecologico. Alla questione della rigenerazione urbana, affidata fino a qualche anno fa ai grandi maquillage dello star system, si aggiunge quella della riduzione del consumo di risorse e del riutilizzo e del "ri-ciclo"delle nostre città e dei nostri paesaggi … Ma la nostra è anche l'epoca della moda, che come si sa è transitoria, e affascinanti slogan possono anche tradursi in un acritico superamento di esperienze passate, o nella passiva accettazione di nuove pratiche, con il rischio di vedere i nostri paesaggi e le nostre città invasi da orti urbani e da edifici "omologati" stavolta non in nome del brand ma in nome del retrofit. Sia chiaro, non si sta sostenendo che l'adeguamento energetico degli edifici o l'agricoltura urbana siano interventi sbagliati, ma solo che alcune discipline, e in primo luogo la progettazione urbana, dovrebbero forse provare a definire meglio l'ambito e i limiti della propria azione, la propria specifica "resilienza"intesa come capacità di riorganizzazione finalizzata alla ricerca di un nuovo equilibrio sempre dinamico e mai statico. Questa operazione non può prescindere da una ri-lettura delle esperienze passate, alla ricerca non solo dei punti di crisi e di rottura di precedenti equilibri, ma anche di quei cambiamenti culturali e teorici che hanno determinato il passaggio dal pensiero moderno a quello post-moderno. " La crisi del determinismo con lo sviluppo di nuove scienze ha delegittimato la filosofia positivista dell'efficienza a favore di un diverso obiettivo del sapere scientifico: quello dell'instabilità. In tal modo la scienza post moderna cambia il senso della parola sapere che non produce il noto ma l'ignoto" (Gregory 2012). Il progetto di nuovi paesaggi diventa perciò progetto di ri-generazione urbana dove la questione della resilienza assume un nuovo significato e una specificità tutta disciplinare. In fisica il concetto di resilienza è la capacità dei materiali di resistere agli urti, in psicologia è la capacità dell'essere umano di superare una crisi. In urbanistica, e in architettura, la resilienza è associata a "un'idea particolare d'intelligenza capace di rimodellarsi rispetto alla complessità degli eventi che stanno destrutturando le città." (Infante, 2013) Lavorare con ciò che resta dell'esperienze passate non vuol dire dunque necessariamente rintracciare, nella complessità fisica del territorio contemporaneo, le tracce e i segni di un'immagine spesso ormai irrimediabilmente perduta, ma lavorare a una "riconnessione"de i diversi frammenti, un'operazione che non può né deve attuarsi attraverso la realizzazione di grandi infrastrutture, ma al contrario deve tradursi nella costruzione di una sottile ragnatela di relazioni che lavorano non soltanto sul piano fisico, ma soprattutto sulla "risignificazione" (ri-informazione) di alcuni spazi in grado di restituire identità e carattere ai luoghi. Una riconnessione dunque, da attuarsi attraverso le logiche di una modernità debole e diffusa, rifiutando la pretesa di un rigore scientifico a favore di un pensiero "fuzzy" che, se non rappresenta più la purezza della geometria e la precisione dei percorsi matematici, rappresenta bene la realtà lanuginosa della galassia, del suo stadio evolutivo, nebuloso, latteo intermedio tra massa e energia". .

Rigenerazione, resilienza e progettazione urbana di Paola Scala * Le questioni in gioco Come Alvaro Siza sottolinea nel numero 800 di Casabella “la crisi rappresenta un fattore di speranza”. Il termine crisi deriva, infatti, dalla parola greca "Krino", che significa separare, cernere o, in senso più lato, discernere, valutare, giudicare. La crisi impone dunque una riflessione, una valutazione, un discernimento che possono essere il preludio per un miglioramento o una rinascita, impone che la società verifichi la propria capacità di reagire “agli urti” o, per dirla in maniera più contemporanea, di misurare la propria “resilienza”. Di fronte alla crisi ecologica e economica che sta investendo il nostro pianeta, anche l’urbanistica e la progettazione urbana stanno riorganizzandosi, aprendosi a “nuovi paradigmi” (RICCI, 2013), primo fra tutti quello ecologico. Alla questione della rigenerazione urbana, affidata fino a qualche anno fa ai grandi maquillage dello star system, si aggiunge quella della riduzione del consumo di risorse e del riutilizzo e del “ri-ciclo”delle nostre città e dei nostri paesaggi … Ma la nostra è anche l’epoca della moda, che come si sa è transitoria, e affascinanti slogan possono anche tradursi in un acritico superamento di esperienze passate, o nella passiva accettazione di nuove pratiche, con il rischio di vedere i nostri paesaggi e le nostre città invasi da orti urbani e da edifici “omologati” stavolta non in nome del brand ma in nome del retrofit. Sia chiaro, non si sta sostenendo che l’adeguamento energetico degli edifici o l’agricoltura urbana siano interventi sbagliati, ma solo che alcune discipline, e in primo luogo la progettazione urbana, dovrebbero forse provare a definire meglio l’ambito e i limiti della propria azione, la propria specifica “resilienza”intesa come capacità di riorganizzazione finalizzata alla ricerca di un nuovo equilibrio sempre dinamico e mai statico. Questa operazione non può prescindere da una ri-lettura delle esperienze passate, alla ricerca non solo dei punti di crisi e di rottura di precedenti equilibri, ma anche di quei cambiamenti culturali e teorici che hanno determinato il passaggio dal pensiero moderno a quello post-moderno. “ La crisi del determinismo con lo sviluppo di nuove scienze ha delegittimato la filosofia positivista dell’efficienza a favore di un diverso obiettivo del sapere scientifico: quello dell’instabilità. In tal modo la scienza post moderna cambia il senso della parola sapere che non produce il noto ma l’ignoto” (Gregory 2012). Il progetto di nuovi paesaggi diventa perciò progetto di ri-generazione urbana dove la questione della resilienza assume un nuovo significato e una specificità tutta disciplinare. In fisica il concetto di resilienza è la capacità dei materiali di resistere agli urti, in psicologia è la capacità dell’essere umano di superare una crisi. In urbanistica, e in architettura, la resilienza è associata a “un’idea particolare d’intelligenza capace di rimodellarsi rispetto alla complessità degli eventi che stanno destrutturando le città.” (Infante, 2013) Lavorare con ciò che resta dell’esperienze passate non vuol dire dunque necessariamente rintracciare, nella complessità fisica del territorio contemporaneo, le tracce e i segni di un’immagine spesso ormai irrimediabilmente perduta, ma lavorare a una “riconnessione”de i diversi frammenti, un’operazione che non può né deve attuarsi attraverso la realizzazione di grandi infrastrutture, ma al contrario deve tradursi nella costruzione di una sottile ragnatela di relazioni che lavorano non soltanto sul piano fisico, ma soprattutto sulla “risignificazione” (ri-informazione) di alcuni spazi in grado di restituire identità e carattere ai luoghi. Una riconnessione dunque, da attuarsi attraverso le logiche di una modernità debole e diffusa, rifiutando la pretesa di un rigore scientifico a favore di un pensiero “fuzzy” che, se non rappresenta più la purezza della geometria e la precisione dei percorsi matematici, rappresenta bene la realtà lanuginosa della galassia, del suo stadio evolutivo, nebuloso, latteo intermedio tra massa e energia”. (Branzi, 2006). Figura 1– La sperimentazione progettuale nell’ambito della ricerca Prin 2007. P. Scala, G. Cacciapuoti, F.Ferrara, M.L..Nobile, A.Sirica Un possibile campo di sperimentazione. Gi anni ’60 e ’70 del secolo scorso sono stati caratterizzati, in campo architettonico, da un “pensiero forte” e dalla convinzione che l’Architettura potesse, da sola, trovare risposte a problemi complessi inerenti non solo a questioni materiali ma anche ad aspetti immateriali come quelli sociali e economici. Fondamenta di questo pensiero erano da un lato la fede nell’”autonomia” della disciplina e, dall’altro la ricerca di una “teoria scientifica” della progettazione basata su regole certe, desunte dallo studio della storia. L’analisi urbana, fondamento di questa teoria, non era pertanto finalizzata a individuare e descrivere la specificità dei contesti nei quali si interveniva, ma all’individuazione di tipi e forme portatori di significati universali e, in quanto tali, capaci di legittimare il progetto del nuovo. Le grandi utopie urbane di quegli anni, non erano localizzate nel tessuto consolidato, ma in aree libere, vuote, caratterizzate da un tessuto agricolo minuto e dalla geografia dei luoghi, eppure non erano questi i caratteri che venivano assunti dai progetti. Le nuove architetture spesso facevano riferimento a un repertorio di concetti spaziali e tipologici desunti dalla storia universale dell’architettura e declinati in una forma assolutamente moderna che spesso, per immagine e dimensione, dichiarava la propria estraneità al contesto in termini fisici e, al contempo, ne rivendicava l’appartenenza in termini astratti, attraverso il rimando all’idea, al tema, alle scelte tipologiche che erano alla base del progetto. Così se da un lato lo Zen2 reinterpretava la spazialità del centro storico di Palermo, la mole “colossale” del Corviale riecheggiava, nelle intenzioni di Fiorentino, la memoria degli antichi acquedotti che disegnavano e misuravano la campagna romana. Dicevamo, dunque, che questi nuovi quartieri si misuravano con una geografia naturale e un tessuto agricolo spesso ignorato dal progetto. L’impianto urbano e l’architettura dei singoli manufatti, al contrario, dovevano identificare chiaramente una nuova “parte di città” riconoscibile. Nel caso del quartiere Zen di Palermo Purini sottolinea l’analogia con le città di fondazione che fu perseguita nel progetto in opposizione all’informalismo planimetrico e spaziale delle 167 romane che, per il loro carattere aperto e “interrotto” privo di margini precisi, perdevano parte della loro riconoscibilità formale (cfr. Purini, 2012). Rigore geometrico, purezza delle forme, e fuori-scala erano caratteri comuni a molti di questi quartieri, emblemi di una fede “certa” nella disciplina, ma anche espressione di un potere politico forte, che credeva di poter regolare, controllare e definire a priori il modello di crescita della città, disegnandola attraverso i piani e attuandola attraverso grandi progetti. Come spesso accade la realtà ha finito per contraddire la teoria. Ignorando il disegno di nuovi assi infrastrutturali, spesso interrotti, e delle forme pure delineate dai retini dei piani, la città si è ricongiunta alle periferie in maniera “generica” (Koolhaas, 1994) disperdendosi sul territorio, fagocitando tutto quello che incontrava, polverizzandosi in quel tessuto casuale fatto di case isolate, di capannoni commerciali e industriali e di grandi insediamenti urbani . Il punto di partenza di una rigenerazione non solo dei nostri paesaggi, ma forse anche della nostra disciplina, è quindi una volta lo spazio pubblico, non inteso come forma monumentale portatrice di memoria e novella interpretazione di antichi archetipi, (il foro, l’agorà, la piazza etc.) ma come struttura di relazioni in continuo mutamento, aperta e flessibile ad accogliere nuovi usi, nuove culture, nuove istanze. La questione della città relazionale o conviviale pone, dunque, il passaggio dall’antico spazio pubblico, rappresentativo e unitario all’attuale spazio relazionale, più versatile interattivo e ambivalente. (Gausa, 2013). Già negli anni ’90 del secolo scorso Rem Koolhaas, nelle pagine di MUTATION, aveva registrato un cambiamento nell’idea di spazio pubblico che, nella società del consumismo, finiva col coincidere con il “mall”, il centro commerciale. C’era nelle tesi dell’architetto olandese una sorta di cinismo che nasceva proprio dalla presa di coscienza del fallimento della carica utopica dell’architettura del dopoguerra e dalla rinuncia a svolgere un qualsiasi ruolo sociale, registrando e aderendo in maniera acritica ai cambiamenti culturali in atto. Di fronte alla complessità del reale l’architettura e la ricerca architettonica preferivano, dunque, rifugiarsi nelle logiche di un pensiero “globale”, declinando stavolta non forme universali ma immagini di rapido consumo. L’attuale crisi della nostra società sembrerebbe dunque mettere in discussione anche il modello proposto da Koolhaas. Tuttavia il cambiamento descritto nelle pagine di MUTATION va oltre la trasformazione del museo in shopping mall, investe proprio la questione dello spazio pubblico non più come forma consolidata ma come “spazio liquido” nel quale s’incrociano più “reti”, da quelle infrastrutturali e tecnologiche a quelle più immateriali come quelle dell’informazione. Oggi assistiamo forse al fallimento l’architettura firmata, quella che si traduce in immagini grandiose e spettacolari, destinate a stupire, che non declinano le specificità di un luogo perché sono invece espressione della poetica personale dell’autore, ma non è più possibile mettere in discussione l’idea di una bellezza architettonica (o più semplicemente di una qualità urbana) “democratica” e "quotidiana”, una bellezza che va ricercata negli usi reali e nelle forme inedite di appropriazione dello spazio pubblico. Nella sperimentazione progettuale portata su invito dell’Unità di ricerca progettuale di Palermo, nell’ambito della ricerca Prin 2007 (Sciascia, 2012), l’idea di spazio pubblico su cui si fonda il progetto originario dello Zen 2 viene recuperata e rielaborata nel progetto di una nuova “insula” costruita sul margine del nuovo insediamento e parzialmente occupata da ciò che resta dell’antico impianto agricolo dell’area. Nel tentativo di “riassumere” in un disegno unitario la duplice natura del luogo (quella della geometria dura e rigida dell’impianto urbano e quella più naturale e sottile della struttura agricola) il nuovo spazio pubblico ibrida funzioni diverse, desunte dall’osservazione in loco, creando una molteplicità di luoghi flessibili ma soprattutto a dimensione umana. Questo nuovo spazio pubblico “più attivo che rappresentativo” (GAUSA cit.) è forse la nuova sfida alla quale l’architettura è chiamata a rispondere non per creare nuove centralità, ma per ri-usare e ri-connettere territori di margine, scarti, residui. Si tratta certamente di una sfida impegnativa perché impone un nuovo ripensamento del carattere e del ruolo della disciplina. Non più “deus ex machina” capace da sola di gestire le sorti del mondo, né spettatore distante che registra con disincanto la realtà che lo circonda, l’architettura è oggi uno tra i tanti attori coinvolti nelle trasformazioni urbane. Il nuovo “paradigma ecologico” può rappresentare la via d’uscita dalla crisi della disciplina, innescata dal fallimento delle grandi utopie e dal conseguente abbandono di ogni responsabilità sociale, a patto che si torni finalmente a ragionare sulla portata reale della propria azione, sui propri limiti e i propri strumenti. Note * DiARC, Dipartimento di Architettura, Università di Napoli Federico II Bibliografia Branzi, A. (2006), Modernità debole e diffusa, Skira, Milano Gausa, M. (2013), “Rinaturalizzare la multi-città” in RICCI M. (2013), Nuovi Paradigmi, LISt, Trento. Gregory, P. (2012), Percorsi del Postmodernismo, Carocci, Roma Infante, C. (2013), “(Ri)generazioni urbane”, in La nuova ecologia Koolhaas ,R. (1994), “Generic city” in Koolhaas, R. (2006) Junkspace , Quodlibet, Macerata Koolhaas, R., Mau, B., (1995), SML XL, Monacelli Press, New York Koolhaas, R. (2012), “Cronocaos” in Dromos 02 Koolhaas, R., BOERI S. (2001), Mutation, Actar, New York Marini, S. (2010), Nuove Terre, Quodlibet, Macerata. Ricci,M. (2013), Nuovi Paradigmi, LISt, Trento. Siza, A. (2011) “Conversazione fra i premi Pritzker Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura” in Casabella 800 Sciascia A. (2012), Periferie e città contemporanea, Caracol Palermo Contributo Short paper Short paper Extended paper Extended paper * spazi inclusi Battute* Articolo 8.000 caratteri 6.500 caratteri 14.000 caratteri 11.000 caratteri Immagine 0 1 0 1