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Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt

2013

Educational legitimation has a close link with the concept of legitimacy. The question is the State legitimation in educating (under the category of “moral education”). Some other concepts (sovereignty,politics, enmity, war, violence) are seen through an analysisof Carl Schmitt thought. The essay suggests a first formalisation of such conceptual field in educational terms by discussing some aspect of Schmitt’s political theology (esp. the ideas aboutman and sin) and confronting it with the “absolutely educational” vision of Gandhi’s Ahimsa.

Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Rocco Marcello Postiglione Università Roma Tre Department of Education Via Manin, 53 - 00185 Roma [email protected] La problematica della legittimazione educativa1 è solo un aspetto di quella più generale di un tempo, e delle sfide che lo segnano. Nuovi scenari, nuove sfide: nuovi modi di porre quei problemi e le relative soluzioni. Legittimazione a educare significa dislocazione del potere di educare. Quel potere, per almeno due secoli, si è svolto entro un quadro dominato, non senza contrasti, dagli stati-nazione, che sembrano rappresentare, oggi, uno schema, se non superato, in profonda crisi. Da questa crisi la nostra domanda: lo stato educa? Inquadrata sommariamente la situazione odierna, e il destino del fenomeno statuale, ci limiteremo ad un primo, aporetico inventario di concetti ad esso sistematicamente legati: una costellazione su cui il discutere pedagogico non poggia volentieri lo sguardo e che, proprio per questo, richiede una specifica formalizzazione paidetica. Il concetto di Stato si colloca nel giuridico e nel politico. Non può competerci una sua compiuta carat1 Ci riferiamo qui, come generale punto di partenza, a F. Mattei, Sapere pedagogico e legittimazione educativa, Roma, Anicia, 1998. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 75-96. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Rocco Marcello Postiglione terizzazione nella situazione odierna, che sfugge al sociologo, al giurista, al filosofo della politica e, a fortiori, al pedagogista. Ci limiteremo quindi ad acquisirne alcune marche formali, distintive oltre che decisive alla luce di una categoria paidetica, l’educazione morale2: quel versante rivolto al morale, all’etico e al politico, che osserva i costumi, le virtù, i principi e i valori posti alla base del nostro agire, e perciò meritevoli di riproposta educativa. Sotto questa categoria, senza ignorarne i nessi inestricabili con le altre, si colloca il problema della legittimazione, e quello dello Stato. Più volte, nel dibattito colto europeo, si è sentito porre in questione il concetto di Stato. Sono antiche le ipotesi sulla sua fine, auspicata o aborrita. Ma il vaticinio s’è fatto più frequente dopo la caduta del Muro di Berlino. La crisi esplode con la globalizzazione e il parallelo emergere dei particolarismi che, per reazione, vengono da essa determinati. Già dopo la Seconda guerra mondiale, la dissoluzione dello jus publicum europaeum, cornice giuridica entro la quale la pratica statuale sorge e si afferma, si è risolta in una logica spaziale neo-imperiale, che contempla da un lato la guerra totale, dall’altro la guerra partigiana, asimmetrica. Il nemico diviene nemico assoluto, oppure criminale. Dopo l’effimera “fine della storia” Stars and 2 Secondo la dizione di Durkheim. L’impostazione categoriale è desunta da J. Gatty, Finalità dell’educazione. Educazione e libertà, trad. e cura di F. Mattei, Roma, Anicia, 20002. Sviluppi, aggiunte e modifiche sono proposti nei nostri: La formazione professionale. Appunti teorici su dispositivi didattici pratiche sociali e politiche formative, Roma, Anicia, 2011, pp. 15-30 e Differenze di paideia. Culture lingue migrazioni, Roma, Anicia, 2012, pp. 19-32. Qui il lettore trova un’analisi più completa della situazione. 76 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Stripes, la seconda ondata di globalizzazione3 si fonda su un regime universale di libero scambio, in cui l’ordine segue i frastagliati contorni di nuove aggregazioni imperiali che concentrano la forza autentica e soverchiante4. Lo stato subisce una notevole alterazione, perduto il monopolio del giuridico che si era arrogata, ma risulta sempre più necessario, nella sua esclusiva capacità di redistribuzione e di esercizio legittimo della violenza. Sempre più Stati sorgono5 e si affermano sulla scena internazionale, sempre più forze sovraordinate rispetto agli stati-nazione sopravvissuti o neonati assumono forme, oltre che funzioni, tipicamente statuali. Mentre l’Europa, culla della statualità classica, perde centralità, deve affrontare la più imponente trasformazione demografica dal medioevo a oggi. Nel suo insieme, certamente, ma ancor più nei singoli stati che la compongono: i discendenti di coloro che li abitavano nel 1950 saranno un secolo dopo minoranza (in alcuni luoghi neppure relativa). È l’effetto di una biopolitica desiderata, contestata e irrinunciabile: sostituzione di una popolazione insufficiente, se limitata alle generazioni autoctone, con gli immigrati, senza il cui apporto alla natalità il declino demografico sarebbe catastrofico. Una società di vecchi si trasforma in una società di immigrati. 3 Che può, convenzionalmente, essere collocata nel 2001, anno d’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. 4 Cfr. P. Khanna, I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2009. 5 Scrive Schmitt, nel 1971: «Mentre stato e sovranità vengono ideologicamente accantonati come anacronismi, nella prassi politica mondiale appaiono a dozzine nuovi Stati sovrani, che si combattono a vicenda, benché siano membri dell’organizzazione della pace mondiale». C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972, p. 21. Non ha potuto vedere l’esplosione di sovranità statali successiva al crollo dell’Impero sovietico. E i conseguenti massacri. 77 Rocco Marcello Postiglione Questa demografia erode l’importanza del principio nazionale. Del resto, le aggregazioni neo-imperiali si addensano attorno a unità politiche che travalicano il nesso tra Stato e nazione, conservandone poco più che vestigia formali – come già le super-potenze dell’ordine bipolare. Non cade, dunque, lo Stato. Perde rilevanza geopolitica il principio nazionale – che esplode ma viene marginalizzato – e si rompe il nesso stato-nazione o, meglio, il blocco storico, nei suoi contenuti concreti e nelle sue molteplici casistiche, che in quel nesso si riconosceva. L’inesorabile scioglimento di quel blocco altera radicalmente i termini concettuali del problema della legittimazione educativa e i quadri istituzionali dell’istruzione di massa. Ciò soprattutto riguardo all’educazione morale, finora garantita – ma anche neutralizzata! – da quel medesimo blocco. L’educazione (morale) è potuta tipicamente consistere nella nazionalizzazione delle masse, attuata a partire da un nucleo forte e pervasivo di uniformità etno-linguistiche (ed eventualmente religiose), con quegli innesti democratici ed egalitari che hanno reso l’insieme consolante, se non gradevole. Le logiche evolutive dell’istruzione pubblica sarebbero incomprensibili fuori da questo scenario. Ma l’obsolescenza di quelle istituzioni e di quei principi si ascrive anche all’insorgere di una società civile globalizzata: mercati, flussi di simboli e scambi sociali di tipo nuovo, forme antiche e nuove di dizione del numinoso, movimentismi contestativi o partecipativi. Un ciclo indefinitamente ricorrente di produzione intrattenimento e consumo che scandisce il vivere quotidiano e trasforma l’aggregarsi e atteggiarsi del potere, il fluire del denaro, l’organizzarsi del lavoro, il manifestarsi dell’immaginario, l’emergere dei bisogni, l’affermarsi dei diritti e il protendersi dei desideri. 78 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Sembra dunque d’assistere a un rovesciamento della dialettica hegeliana: famiglia e stato, opponendosi, culminano nella società civile – globalizzata6. Che ne è dell’educazione morale quando cade il nesso stato-nazione come l’abbiamo conosciuto? Quali forze si scatenano? Quali nuove sintesi costruire? Non è questo il luogo per articolare la risposta a questi quesiti. La nostra questione è antecedente: oggi lo stato educa? E, più in generale, qualunque forma assuma: può educare? È dunque in questione il concetto di Stato, nelle sue caratterizzazioni distintive. La prima, essenziale: la sovranità. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»7. È la formulazione, celeberrima, di Carl Schmitt. Giurista, politologo, filosofo e teologo del diritto. Teorico giuridico della prima fase del regime nazista. Quel pensiero profondo, lucido e controverso si fa indispensabile per la chiarezza con la quale ha posto questioni cruciali e irrisolte della storia novecentesca e per la risolutiva concettualizzazione di una problematica fondamentale. «L’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione»8. Qualcosa che esula dal solco consueto nel quale poniamo il giuridico: la legalità, per cui «chi esercita il potere e il dominio agisce “sulla base di una legge” oppure “in nome di una legge”»9. La legge, ovviamente, è definita 6 Esito intravvisto già nel 1908 da Franz Oppenheimer. C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972, p. 35. 8 Ibid., p. 39. 9 Ibid., p. 212. 7 79 Rocco Marcello Postiglione da un’assemblea legislativa eletta, distinta dal potere esecutivo. La legge non basta. Lo Stato, qualunque Stato, sussiste se vi è sovranità; dunque, in virtù di una «decisione». Nella sua forma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo allorché si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche. Ogni norma generale richiede una strutturazione normale dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto deve trovare applicazione e che essa sottomette alla propria regolamentazione normativa. La norma ha bisogno di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente10. «Creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche». La decisione «crea» la normalità. Concetto, per definizione, di immediata pertinenza paidetica. Quella normalità è costume, è mos e habitus, è Sitte. Siamo dunque, evidentemente, al centro della nostra problematica. La normalità è il senso dell’istituzione e dell’ordinamento, concetti giuridici altrettanto fondamentali di quelli di legge e norma11. Tutto questo è l’ordito concreto su cui si dipana il tessuto dell’educazione morale: il «senso», dell’istituzione, della decisione, dell’ordinamento, della norma nel loro diretto rilievo etico, ergo educativo. Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è «diritto ap10 Ibid., p. 39. Concetti la cui rilevanza e articolazione non possiamo che sfiorare grazie a P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza, 2003. 11 80 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt plicabile ad una situazione». Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione. […] Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto12. Sulla congerie infinita, reticolarmente diffusa e pervasiva dei poteri, vien da dire, si erge la normalità come rilievo, aggregazione, linea strategica, ipostatizzazione di forze di spinta e blocchi di resistenza, catalizzazione di multiple prensioni e appigli scivolosi o sicuri, effetto essi stessi della relazionalità intrinseca del gioco azione-reazione: su questa dÚnamij originaria, e aristotelica e nietzscheana, si colloca la consuetudine, l’istituzione, l’ordinamento. Qui, soprattutto, si erge der Machtswille della decisione fondamentale – e definitiva –, in grado di determinare la normalità e di segnare l’eccezione. Ma qui, con specifica piegatura rispetto a Nietzsche, der Machtswille si fonda sull’autorità, che scaturisce dalla protezione13. Su tale fondamento poggia il «monopolio della decisione ultima» e, di conseguenza, l’effettivo svolgersi normale delle cose, l’attuale verificarsi della situazione consueta e regolare. Non potere o sanzione – che rimandano a orizzonti più ampi dello statale, e persino del giuridico14 – 12 Ibid., pp. 39-40. Cfr. C. Schmitt, Dialogo sul potere, Milano, Adelphi, 2012. 14 Qui ancora P. Grossi, op. cit., soccorre nel ribadire con Santi Romano e Hauriou e, tra gli altri, lo stesso Schmitt, il carattere mai esclusivamente statale, a dispetto d’ogni apparenza e pretesa, del diritto e dell’ordinamento giuridico. 13 81 Rocco Marcello Postiglione ma decisione: ultima, precipuamente statale. Questo è la sovranità, questo è lo Stato. Il concetto di Stato presuppone quello di ‘politico’. Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso. […] In base al suo significato etimologico e alla sua vicenda storica, lo Stato è una situazione, definita in modo particolare, di un popolo, è anzi la situazione che fa da criterio nel caso decisivo, e costituisce perciò lo status esclusivo, di fronte ai molti possibili status individuali e collettivi15. Lo Stato, dunque, è un oggetto giuridico e sociale preciso, cui compete la sovranità, la decisione ultima, la distinzione tra normalità ed eccezione: è l’oggetto politico: La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto16. La pagina è celebre: definizione fulminante, copernicana, del politico. Una categoria metafisica, che fonda il discorso scientifico, all’intersezione tra teoria del diritto, sociologia e scienza della politica. Categoria fondamentale come tutte quelle che caratterizzano l’umano, e che dispone dicotomicamente gli oggetti con un discrimine netto, così come bello-brutto, buono-cattivo, verofalso. E qui Schmitt può richiamarsi all’auctoritas – non veritas! – del Leviathan, che facit legem. Ma come in tutte le scienze che, kantianamente17, definiamo metafisiche, si istituisce un dominio scienti15 C. Schmitt, op. cit., p. 101. Ibid., p. 108. 17 E foucaultianamente. 16 82 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt fico pagando un necessario scotto filosofico o, per meglio dire, teologico. E qui cadiamo negli abissi esistenziali della condizione umana. Si deve postulare «il dogma teologico fondamentale della peccaminosità del mondo e degli uomini». Non solo fallibilità, che ammettiamo senza patemi, soprattutto in un orizzonte libertario e liberista. Qui il sottinteso logicamente necessario è proprio la peccaminosità. La caduta, la colpa, in senso assolutamente concreto e immediato – non in quello fantasmatico in cui si è ravvisato il ripetersi inconscio di relazioni infantili. Dogma che «conduce – nella misura in cui la teologia non si sia ancora dissolta nella morale meramente normativa o nella pedagogia e il dogma in mera disciplina –, esattamente come la distinzione di amico e nemico, ad una divisione degli uomini, ad un “distacco” e rende impossibile l’ottimismo indifferenziato proprio di un concetto universale di uomo»18. Lo Stato, e il politico, che contraddicono un «concetto universale di uomo» nel quale si ripercuote il mito della sua infinita educabilità, l’idea di una redenzione spontaneamente scaturita dal rapporto – privo di «distacco», appunto – con un Dio salvatore o una natura salvifica. Dove non può non vedersi la profonda e decisiva opposizione, quasi esplicita, rispetto all’universo rousseauiano, o l’inquietante disprezzo incluso nell’espressione sulla teologia «dissolta nella pedagogia il dogma in mera disciplina». Educazione impossibile? Non è questo il punto. Si sta qui ribadendo una irriducibile distinzione categoriale, e si mostra com’essa smascheri presupposizioni troppo unilaterali e acritiche. Ché del resto al pedagogista non ingenuo nemmeno sfugge, dell’Emilio, l’effetto epistemologico dell’accentuazione ottimistica. Certo, 18 Ibid., p. 149. 83 Rocco Marcello Postiglione la costruzione dello jus publicum europaeum è un’assunzione dell’ostilità come chiave di volta della civitas hominum, «praedestinata […] aeternum supplicium subire cum diabolo»19, del peccato, appunto, come diab£llein, gettare in discordia, e calunniare. Il punto teologico da cui si disegna lo spazio comune, entro il quale l’ostilità è già di per sé normata e, perciò, matrice anch’essa di civilizzazione, è questa accezione di peccato. E c’è da chiedersi se l’educazione morale, inclusa nel concetto d’autorità cui porta questo sistema di pensiero20, non sia esercitata tipicamente (necessariamente?) in una tonalità di terrore e paura – e quindi sottomissione21. Ma dobbiamo procedere ancora nell’analisi. Amico e nemico sono faglie mobili, la cui caratterizzazione, provvisoria ma decisiva, è lo Stato. Se la decisione istituisce la normalità, e la faglia che la determina, «il ‘politico’ può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo», vi sarà incluso il nemico religioso, di classe, di etnia. Il criterio del politico sta nel fatto puramente formale che si ingeneri la di19 A. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei contra paganos libri XXII, XV, 1. 20 Dello jus publicum europaeum, prima di tutto. E di Schmitt. 21 È facile qui mostrare come l’atto teorico di avvalersi della cupidigia per generare ordine norme e regola, in modo da distribuire secondo logica a tutti coloro che agiscano razionalmente secondo interesse, sia, per antonomasia, fondazione morale: un modo di attenuare concretamente il peccato riconducendo (non spontaneamente! Ma naturalmente) i vizi al più innocuo tra essi. Onde il perfezionamento progressivo che deriva dall’immediato riconoscimento dell’errore che solo un’intelligenza diffusa (scil. il mercato) può determinare. Da cui: «gli interessi! Educare con, per, dagli interessi!» recitano gli involontari (inconsci? ignari? ignoranti?) ripetitori dell’economico. E allora: che mestiere faceva Adam Smith? Da quale confessione veniva? 84 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt stinzione amico-nemico. Il politico, infatti, «non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini»22. La faglia che può determinare l’ostilità nasce dall’intensità del congiungimento, sul quale si fonda: fino a determinare la definizione esistenziale del nemico. I concetti di peccato, di discordia, di diabol» comportano l’ostilità, che è lotta, ed è violenza. Da criterio di giudizio funge sempre solo la possibilità di questo caso decisivo, della lotta reale, e la decisione se questo caso sussista oppure no. […] Solo nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamente politica23. Siamo al punto. La violenza, la sua limitazione e la sua istituzionalizzazione nello Stato: questo è il politico. Ma siamo qui a un’altra perpendicolare linea distintiva, quella che separa polizia e politica (o guerra), penale e pubblico. Distinzione, come abbiamo visto, che tende a sfumare nel momento in cui scompare dalla scena lo jus publicum europaeum. E siamo perciò riportati a una tematica che, già sappiamo, trascende quella dello Stato, del politico e della sovranità. Relazioni tra l’etico – e il paidetico dell’educazione morale – e il politico, che giungono a toccare le questioni della costrizione, della pena, dell’eccezione come crimine o illecito. La legge, il principio, la norma, la violenza, la virtù: siamo su margini e su estremi dell’educativo e dell’etico, su cui la dizione paidetica, e persino quella filosofica – dalle loro plaghe “democratiche” e politicamente corrette –, si poggiano con diffidenza, disgusto o 22 23 C. Schmitt, op. cit., p. 121. Ibid., p. 118. 85 Rocco Marcello Postiglione repulsione. Costrette o entusiaste, non riescono che a cantare la salmodia del “valore”24 – o della “valutazione”25 – ridotta al sentimento sentimentale dell’emozione iterativamente esibita e della sua dizione meramente fonetica26. Ogni risposta alla nostra domanda iniziale poggia su una formalizzazione della dialettica tra vita e morte che, con la violenza, s’instaura nella società, nelle istituzioni, nel diritto: la possibilità di togliere la vita, di assegnare la morte, nel senso di obbligo al pericolo, e all’omicidio, o di condanna. La violenza, nella sua inquietante e traumatica pervasività, nel suo baluginare dietro ogni atto relazionale umano, in quanto carnale e sociale: il potere, di cui l’educazione, il diritto e lo stato sono precipue e specifiche manifestazioni. Qui sta tutta la questione della legittimità, e il fondamento ultimo della sovranità. La normalità, la situazione, l’autorità, che determinano decisivamente (ed è il primato della decisione, il “decisionismo” schmittiano) l’unità, l’identità dello stato: «L’unità politica, tutte le volte che esiste, è l’unità decisiva e “sovrana” nel senso che la decisione sul caso decisivo, anche se questo è il caso d’eccezione, per necessità logica deve spettare sempre ad essa»27. 24 Che perdita nel passaggio da ¥xion a “valore”! Ne va della dignitas di una civiltà. 25 Che e quanto reputiamo indispensabile e necessaria la valutazione non contraddice né minimamente sposta, anzi motiva, il concetto che ne abbiamo: banausico meccanismo, tanto più necessario quanto più tecnicamente raffinato. Necessario come la morte. Sulla necessità della valutazione, sul suo nesso con la categoria dell’istruzione e con la doctrina, e con la morte, ci permettiamo di rinviare ai luoghi citati in nota 3. 26 Una volta si sarebbe detto: interiezione: inter-iacio, getto in mezzo. 27 C. Schmitt, op. cit., p. 122. 86 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Il caso d’eccezione è sempre legato alla minaccia esistenziale: violenza, ostilità, sopraffazione, persino sfruttamento. Come la morte, parti e limiti della nostra esistenza, inclusi – proprio come limiti, come il limite – nel nostro essere. Nelle varie declinazioni categoriali, limiti del morale, del giuridico, del paidetico. Quali che siano i principi, virtù e valori ai quali intenda ispirarsi, quale che sia la forma, l’immagine, la visione antropologica di cui è presuntiva o desiderata attuazione, l’educazione non li rimuove, non li cancella, al massimo li attenua, o li trascende: l’educazione, rispetto ad essi, non può essere la salvezza; né riesce a definirsi escludendoli dal novero delle possibilità del suo stesso attuarsi. Il male c’è, e si muore. L’educazione torni a essere esercizio del possibile, accanto alla politica. Qui non guasta, nella sua feconda ma non superabile equivocità, il richiamo di Schmitt: Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni e di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione28. Parole nette, forti, perciò stesso inquietanti. Forse squadernano un orizzonte direttamente pertinente al paidetico (categorizzato come educazione morale, ma non solo). Che cosa sono il formare, l’educare, persino 28 Ibid., p. 41. 87 Rocco Marcello Postiglione l’istruire29 se non passaggi dall’eccezione, necessaria e sempre nuova, alla normalità? E l’istituzione di normalità – e massime, e strutture – nuove? L’articolazione della dialettica, entro la socialità, di vita e morte, e la dizione di essa tra fatto, dovuto e voluto: non vale nascondersi nei necessari tecnicismi del processo e dell’atto paidetico. Per la sua trattazione scientifica30 è necessaria «una filosofia concreta della vita», che affronti, di quella dialettica, il versante negativo, «cattivo»31. Si riformula qui la nostra domanda: lo Stato educa? Può lo Stato, che dà la morte, che – solo – esercita la violenza, educare? Ma di converso: può lo Stato che, nel suo potere di dare la morte, si determina come decisivo depositario del principio del diritto e del giusto, non educare? In questo dilemma precipita la questione del rapporto tra educazione morale e Stato. 29 Rimandiamo qui, nuovamente, alla proposta di categorizzazione citata in nota 3. Formazione – Bildung, paide…a – l’orizzonte complessivo, l’immaginazione totalizzante del paidetico. Educare sta, ancora, per educazione morale. 30 «Come si può comprendere teoricamente tutto ciò [nuove forme di guerra totale, guerra partigiana, guerra economica ecc.] se si elimina dalla conoscenza scientifica la realtà per cui esiste ostilità fra gli uomini»? C. Schmitt, op. cit., p. 96. 31 «Tradotto nel linguaggio primitivo di quell’ingenua antropologia politica che lavora con la distinzione fra “cattivo” e “buono”, questo “restare aperto” […], con la sua aderenza alla realtà e ai fatti, disposta ad ogni rischio, e colla sua relazione positiva col pericolo e con tutto ciò che è pericoloso, dovrebbe avvicinarsi più al “cattivo” che al “buono”». Ibid., p. 144-145. Dove il «pericolo» rimanda alla responsabilità, e quindi alla legittimazione, ma soprattutto a quella dialettica tra vita e morte che la socialità, ogni socialità, mette in scena. Come obliare od occultare, come spesso avviene nella chiacchiera pedagogica, il versante «cattivo», non accettabile, ipocritamente rimosso o sguaiatamente – ma falsamente – esibito di quella dialettica? 88 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Alcune glosse rispetto alla questione centrale. La riprova della forza e della validità delle concettualizzazioni di Schmitt ruota attorno al concetto di guerra, come si è andato evolvendo e modificando nella situazione neo-imperiale nella quale siamo piombati. La guerra è una profonda civilizzazione della violenza: una istituzionalizzazione dovuta alla distribuzione originaria, all’organizzazione fondamentale dello spazio i cui margini, le cui crisi non possono che risolversi attraverso quel mezzo cruento ma controllato. Il nemico non è un criminale, e la stessa conquista vive di regole, per quanto squilibrate a favore del perdente. La coscrizione obbligatoria dell’esercito rivoluzionario francese mette profondamente in crisi quel modello, generando un crescendo di violenza che culminerà nella distruzione, con la Prima guerra mondiale e con i successivi armistizi, dello jus publicum europaeum. Quel che ne prende il posto è un ordine fondato sull’ostilità assoluta, sulla criminalizzazione del nemico. Note le analisi di Schmitt. Dopo la confusione di guerra e pace e delle superficiali «neutralizzazioni»32 del diritto internazionale wilsoniano, «la cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra combattenti e non combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce anche una non militare (guerra economica, di propaganda e così via) sempre come sbocco dell’ostilità»33. L’incedere della tecnicizzazione del mondo, lo strutturarsi dello stesso diritto secondo uno schema tecnicoeconomico determina un potenziarsi e complicarsi della bellicosità: «il superamento del dato puramente militare comporta non soltanto un ampliamento quantitativo, ma anche un rafforzamento qualitativo; esso non signi32 33 Della distinzione amico-nemico. C. Schmitt, op. cit., p. 201. 89 Rocco Marcello Postiglione fica perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione dell’ostilità. Con la semplice possibilità di un simile aumento di intensità, anche i concetti di amico e nemico tornano da sé nuovamente politici»34, a dispetto di ogni velleità di neutralizzazione. Del resto, i principi wilsoniani della Società delle Nazioni erano già stati logicamente svolti: «in un globo terrestre definitivamente pacificato […] vi potrebbero forse essere contrapposizioni e contrasti molto interessanti […], ma sicuramente non vi sarebbe nessuna contrapposizione sulla base della quale si possa richiedere a degli uomini il sacrificio della propria vita e si possano autorizzare uomini a versare il sangue e ad uccidere altri uomini»35. Chiaro qui il paradosso. Lo sviluppo storico mostrerà i segni di una progressiva unificazione economica e tecnica del mondo, che Schmitt non vide dispiegarsi ma di cui poté intuire, alla luce della prima globalizzazione, i contorni: «È però facile chiedersi a quali uomini toccherebbe il terribile potere che è legato ad una centralizzazione economica e tecnica estesa a tutto il mondo»36. La pacificazione e l’estrema neutralizzazione è esclusa. Il partigiano e il nemico assoluto continuano a restare le figure dell’ostilità nel XXI secolo. Violenza, dunque, violenza assoluta come esito dell’esaurirsi d’un ordine di civiltà: questa la spengleriana aporia di Schmitt. Può apparire troppo compromessa con il suo ruolo di teorico giuridico della prima fase del regime hitleriano, e con la necessità apologetica che l’ha poi sempre accompagnato, per persuadere. Ma liquidarla per questo sarebbe perdita gravissima. 34 Ibidem. Ibid., p. 118. 36 Ibid., p. 143. 35 90 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt La memoria delle atrocità non ci permette di cancellare un altro quesito: esiste anche una sola possibilità, nell’orizzonte storico, di esistenza senza l’ostilità? Quella possibilità esiste: la non-violenza. Dobbiamo quindi sottoporre, anche solo schematicamente, la tematica della violenza e dell’ostilità alla riprova di un pensiero radicalmente alieno, e opposto, a quello del grande giuspubblicista tedesco: quello dell’uomo che più di ogni altro, con la sua vita, il suo pensiero, le sue opere e la sua iniziativa politica ha inteso rimuovere l’ostilità dal novero delle possibilità umane: Gandhi. Di formazione anglosassone, esperto di diritto, di profonda e aperta religiosità, si è posto direttamente il problema della guerra totale, e lo ha portato a formulazioni particolarmente nette proprio in relazione alla tragedia nazista. È nota la posizione del Mahatma circa la reazione da opporre a quella ferina violenza. Voi volete eliminare il nazismo. Ma non riuscirete mai a eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. I vostri soldati stanno compiendo la stessa opera di distruzione che compiono i tedeschi. […] Voi dovrete divenire più crudeli dei nazisti. Nessuna causa, per quanto giusta, può giustificare il massacro indiscriminato cui oggi stiamo assistendo37. Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La critica gandhiana investe, direttamente, le radici stesse del giuridico, fino alla critica radicale della democrazia: La democrazia, finché è sostenuta dalla violenza, non può fare l’interesse dei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essa il più debole deve avere le 37 M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1973.p. 248. 91 Rocco Marcello Postiglione stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto attraverso la non-violenza. Grandi proprietà possono essere mantenute soltanto con la violenza, velata o aperta. La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo. Al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo38. Sembra di ascoltare le tante parole di cortei o “teorici” pacifisti nostrani. Un frasario ricorrente, stabile, la cui ripetizione attraversa le generazioni. Abbiamo visto come il giurista lo liquidi, con pochi tocchi di penna, nelle sue formulazioni tecniche e filosofiche. Qui, in realtà, non è così facile. La concretezza della dizione è estrema. Siamo davvero in un altro mondo39. L’impianto teorico della ahimsa ha un immediato correlato morale e giuridico, dove la distanza fra l’uno e l’altro, consapevolmente, viene erosa e ridotta. L’azione giuridica e politica è direttamente morale. E forza, potere, di un’intensità inaudita ma non-violenta e innocente. La persuasione ne è il portato. Siamo nel paidetico. Anzi, siamo a una riduzione dell’etico, del giuridico e del politico nei quadri di un paidetico. La non-violenza nella sua dimensione dinamica significa sofferenza cosciente. Essa non significa docile sottomissione alla volontà del malvagio, ma significa l’impiego di tutte le forze dell’anima contro la volontà del tiranno40. L’obiettivo è la trasformazione del suo cuore. La forza di questo pensiero sta in una diversa teologia del peccato, per molti versi estranea alla tradizione cristiana nonostante la sua evidente fonte evangelica. 38 39 Ibid., p. 140. Di cui, ça va sans dire, non ignoriamo i degni esponenti ita- liani. 40 92 Ibid., p. 20. Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Ho praticato la non violenza in ogni campo della vita, da quello privato, a quello istituzionale, a quello economico, a quello politico. Non conosco un solo caso in cui essa abbia fallito. I suoi apparenti fallimenti sono da attribuire unicamente alle mie imperfezioni. Non pretendo di essere perfetto. Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro che un sinonimo di Dio41. Vi è qui un totale, diffuso e meticoloso esercizio di perfezionamento spirituale e morale che si riversa, non paia superfluo ribadirlo, in un’assoluta tensione educativa, la cui posta in gioco è una salvezza già terrena, socratica in certe movenze42: agire secondo virtù, nella ricerca della verità, come bene irrinunciabile, terreno, assoluto, indipendente da ogni escatologia. Diviene centrale una categoria religiosa, qui non cristiana43 per quanto, ancora, sincreticamente mutuata dal vangelo: quella di santità, che prende esplicitamente il posto della categoria del politico di Schmitt, assorbendola e trasformandola in un assoluto educativo, dove non c’è sovranità, non c’è Stato. Eppure, il dilemma rimane: che cosa fa chi non è santo? «Credo che nel caso in cui l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza»44. Non è superfluo, per chiudere, ricordare le parole di un altro grande giurista, piemontese, anch’egli del tutto alieno all’orizzonte decisionista di Schmitt. Il tema qui è la norma, ogni norma. Il cambiamento delle 41 Ibid., p. 250. E, naturalmente, a dispetto di un orizzonte semantico e filosofico del tutto alieno rispetto all’Atene del V secolo a. C. 43 O, direbbe qualcuno, ancor più profondamente cristiana. 44 M. K. Gandhi, op. cit., p. 18. 42 93 Rocco Marcello Postiglione leggi. Le rivoluzioni. Il tema resta lo Stato, ma tocca ogni altra forma di sanzione sociale: «In morale le rivoluzioni sono più violente». Ed è proprio per la sua collocazione in questo orizzonte più vasto – statuale, prestatuale o non statuale – che la riflessione diviene per noi pregnante. L’atto creativo di morale nasce da un’ispirazione gratuita, improvvisa e sorprendente come l’impulso a creare in arte: fenomeni simili alla rivelazione. Il prodotto, inoltre, è un generatore di sentimenti. Ora si capisce perché ogni novità autentica in morale abbia effetti sconvolgenti e il suo rivelatore sia di solito tolto di mezzo: un modo radicale di difendere il gruppo da un comportamento socialmente nocivo e per di più contagioso, perché costituisce un esempio. […] Ora la partita è aperta, e le sorti della storia futura dipendono da un conflitto di potenza, degli strumenti di dissuasione persecutoria e dell’idea o del sentimento perseguitati, se i custodi della società li fanno dileguare o distruggono i loro portatori, come avviene con gli albigesi e tre secoli dopo con gli anabbattisti45. Sconvolgimenti ben noti, su cui si esercita l’entusiasmo morale, anche di massa. Ancora più attraente, e destabilizzante, se consiste in un ritorno alle origini: Ripercorrere a ritroso la via che dalle folate intuitive ha portato al sistema, dalla rivelazione emotiva al calcolo, dalla discesa dello Spirito alla pressione sociale organizzata significa, né più né meno, mandare in frantumi la società, la quale di solito coglie a prima vista i segni premonitori del pericolo. Questo spiega la feroce repressione di una setta mansueta come quella degli anabattisti e la solidarietà spontanea, in questa operazione, di cattolici e protestanti, per il resto impegnati a scannarsi. Gente mite ma fautrice di un eroismo evangelico che, in tempi di forte sensibilità emotiva, costituisce un’insidia mortale per chiese e Stati. Predicano la soppressione delle gerar45 F. Cordero, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino, Aragno, 2008, p. 131. 94 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt chie e l’astensione dalla violenza, incluso quel minimo di violenza esercitata legalmente, senza il quale non riusciamo a vivere in comune, a meno di essere santi, e così colpiscono al cuore la società, che si difende massacrandoli46. «Quel minimo di violenza necessaria», nota Cordero, «senza il quale non riusciamo a vivere in comune, a meno di essere santi». Ora, vien da chiosare, se «l’obbedienza non è più una virtù», se non possiamo credere di «potercene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio», «bisogna che ci sentiamo ognuno l’unico responsabile di tutto». Anche della violenza, anche della sovranità – e dei suoi arcana imperii47. Sovranità, ostilità, guerra, violenza. Peccato, imperfezione, fallibilità, santità. Socialità, potere, forza, morte. È quanto riusciamo a porre in questo primo inventario di concetti, attorno a quello di Stato. Hic Rhodus, hic salta. Alla domanda: lo stato educa? non abbiamo ancora risposta. Altri scavi necessitano. Altre costruzioni: bisognerà immaginare l’architettura secondo la quale, come pietre da sgrezzare, possano collocarsi questi concetti. Siamo già in grado, però, di ripararci dai miasmi di troppo opportunistico irenismo. «La pietra scartata dai costruttori…»48. 46 Ibid., pp. 131-132. Problema che, nel pensiero di Schmitt, rimanda ai concetti di autorità, rappresentazione (Repräsentation, ma quanto richiama qui das Bild!): la cui trattazione, movendo dall'interpretazione della formula hobbesiana «auctoritas facit legem, non veritas», merita riflessione e approfondimento. 48 Salmo 117, 22; Marco, 12, 10 et passim. 47 95 Rocco Marcello Postiglione Riferimenti bibliografici Aurelius Augustinus Hipponensis, De civitate Dei contra paganos libri XXII, Roma, www.augustinus.it. Cordero, F., Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino, Aragno, 2008. Foucault, M., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978. Gandhi, M. 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