Un caso complesso di storia garfagnina. Piazza al Serchio.
C’è di tutto come a Genova…
(Detto popolare)
Piazza: spazio grande e sgombro, per lo più circondato da edifizi; poi Mercato, Città di commercio; il complesso dei cambi che si fanno sul Mercato.
(Dizionario Etimologico)
Introdurrò le chiavi di interpretazione, lasciando agli Atti l’approfondimento, della storia complessa di questa comunità articolata, che ho avuto modo di incontrare, con molte sorprese, in un lavoro fatto per il Comune di Piazza al Serchio, qualche tempo fa.
E’ singolare che una realtà storicamente documentata come una delle più continuativamente insediata, dalle età più antiche e per tutto il medioevo, sia stata fra le meno studiate e oggetto di pubblicazione.
Certo è pesante il fatto che gran parte delle fonti documentarie siano andate disperse e sovente perdute, dai resti della ricca necropoli longobarda, alla demolizione delle ultime vestigia dell’antica e vastissima Pieve di S. Pietro di Castello. I soli dati e reperti archeologici che si hanno si debbono a G. Ciampoltrini che, con P. Notini, ne ha scavato gli ultimi lembi rimasti ancora leggibili. Tre cantieri, per fare una ferrovia, una scuola e una palestra, hanno cancellato, di fatto, gran parte della storia archeologica di Piazza al Serchio.
Certo pesa la mancanza di un Archivio della Comunità di Piazza anche se la documentazione archivistica è ampia e diffusa nelle carte di ben nove archivi di Stato e Vescovili. Così complica
L’articolata e singolare organizzazione del potere politico e religioso a Piazza al Serchio, una terra, composta da più castelli e comunità, fin dal Medioevo, soggetta, prima, a diversi signori feudali (i Cunimondinghi figli di Guido da Villa di Castelvecchio e S. Michele, i da Gragnana, e poi i Malaspina) assieme ai Vescovi di Luni, che ebbe il dominio religioso con la Pieve di Castello, e di Lucca che volle tenere, fino a tardi, Sala del Vescovo. Petrognano, poi, rimase soggetta alla Curia papale. Quindi fu Lucca signora di queste terre e, poi, Firenze ed, infine, gli Estensi dal 1446, ma le divisero, fra la Vicaria di Camporgiano e quella delle Terre Nuove.
Parrebbe quasi che questa articolazione di dominazioni, questa coincidenza di interessi diversi, di enti politici e religiosi, anche molto lontani, possa documentare un carattere di quest’area: quello di terra non concedibile, per la sua collocazione franca, ad una sola forza dominante.
Qui, davvero, basilare è stata la collocazione geografica e territoriale del sito che ne ha determinato la storia ed i destini, senza tema di accuse di determinismo storico. Ma una collocazione che assume ragione nell’ambito dei processi economici e politici della più vasta area in cui è compreso. L’area fu uno snodo viario strategico a raggiera somigliante assai, per ruolo, ad un’altra “piazza”, in Lunigiana questa volta: Aulla. Resta a noi non poco, tuttavia, nel tessuto edilizio ed urbanistico di Piazza al Serchio di quelle fasi antiche. I segni dell’articolazione politica, militare, religiosa, sociale ed economica. Le fortificazioni di Gragnana con il castello e la chiesa dal titolo antico di Santa Margherita, il complesso di San Michele, i ruderi del castello di San Donnino, i resti di Monte Croce e soprattutto il Castelvecchio.
Resta la Pieve di Castello che porta inglobati tratti murari appartenuti ad altra chiesa romanica, forse S. Giorgio. Restano ancora, sebbene parzialmente o totalmente cambiate, le chiese duecentesche di Gragnana, di Borsigliana, di S. Michele, di San Donnino, di Sant’Anastasio e così via. Bellissima è, poi, nella sua singolarità stilistica, la chiesa di San Biagio di Petrognano.
Restano ricordo delle strutture ospitaliere, nel rosone ricollocato sul campanile di San Michele, che, secondo l’Ambrosi, rimanderebbe al duecentesco Hospitale de Castro e nell’edificio detto popolarmente il Lazzaretto. Resta, un poco fuori di Piazza, una costruzione singolare a casa-torre, detta volgarmente Colombera, di grande interesse, anche per le somiglianze con il Lazzaretto.
Restano i segni più evidenti della viabilità rappresentati dai ponti antichi, ben tre (più il quarto, rinnovato nella 445, che passa il Serchio a Sala) e vasti tratti di viabilità storica mulattiera assai ben lastricata.
Restano i segni, toponomastici solo, in questo caso, del mercato e delle sue strutture nei toponimi Via delle Logge, nella parte più antica di Piazza al Serchio, e il mercà di Piazza manifestano una funzione peculiare dell’area e dell’abitato. Così altri toponimi importanti quali borgo Sala e Canonica vecchia. Resta, infine, l’articolazione in diversi nuclei insediati: Sala, Castelvecchio, Piazza, S. Michele, S. Donnino, ecc.
La complessità, come si è detto, è la cifra caratterizzante la storia di questa comunità.
Questo l’oggetto della trattazione. Ma quale recipiente la contenne, in quale contesto si trovò, quali forze l’avvolsero nel tempo?
Vi, mi porrò una domanda ricorrente: Di cosa gli uomini, in montagna?
E’ la domanda che chiunque viva in Garfagnana, in Lunigiana e comunque nella montagna, si sente rivolgere da quando il mondo è mondo. Vivono di pastorizia, di agricoltura, di altre attività, certo, ma la ricerca storica non ci dice questo; intendo: solo questo, in un territorio che appare ben più complesso e dinamico.
Più volte si è posto, infatti, l’accento sulla questione, oltre quella della viabilità, della mobilità economica nelle terre appenniniche. Vediamo.
Anche sul finire del XII secolo, il marchese Obizzo Malaspina si sentì rivolgere la domanda fatidica, addirittura dallo stesso Imperatore Federico Barbarossa che stava accompagnando nel suo ritorno al nord. Quest’ultimo, passando in Lunigiana, pose la domanda e si sentì rispondere: “De voltis”, cioè della gestione delle “volte” mercantili, magazzini per le merci e ricoveri dei muli e dei vetturali, così importanti a Genova e nelle grandi città, porti di mare ma diffuse anche nelle terre interne.
Si viveva delle volte mercantili, nelle terre montane. O almeno, di quello vivevano e prosperavano, sovente, i ceti dirigenti nella società medievale locale. E i dati sono molti in questa direzione. Ma tutto questo aveva senso solo in presenza di importanti transiti terrestri.
Federigo Melis ci spiega come potevano avvenire quei transiti ponendo un quesito forte: “Ci si deve, in sostanza, porre la domanda: fino a quando è possibile –possibile in senso economico- far proseguire il viaggio ai beni dopo un tratto marittimo, ossia, quali sono le possibilità della loro penetrazione terrestre?”. Il problema era, infatti, che la merce doveva arrivare all’interno d’Italia, dove –va ricordato- c’era una concentrazione di città, più o meno grandi, ma comunque importanti, come Firenze, Lucca, Pistoia, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Milano, e così via, di qua e di là dall’Appennino, che è ostacolo ineludibile al movimento. Ed erano città che rappresentavano un grande mercato per le merci che in quantità enormi (da cui l’aneddoto “A Genova c’è tutto”) arrivavano, via mare, a Genova, a Pisa, poi a Livorno e, da lì, ai tanti scali portuali minori, dalle Cinque Terre e La Spezia fino a Bocca di Magra, erede di Luni, a Motrone, a Viareggio nelle diverse fasi storiche. E che, come ci rivela Tiziano Mannoni, con una considerazione illuminante -che giustifica l’ampiezza della rete stradale e della stessa spesa per realizzarla- notando come i vettori medievali (il mulo e l’asino) vadano a velocità costante fino a pendenze del 30% e, dunque, dimostrando che solo il taglio delle distanze poteva ridurre i tempi di trasporto. Per cui l’asino e il mulo –unici vettori nel Medioevo- permettevano di strutturare strade dirette, sebbene irte, dal piano ai passi di crinale, rendendo il nostro territorio –a noi che non lo pensavamo- terreno ideale per i transiti. E Melis ci dice, ancora, che i traffici rispondevano, sempre, ad una organizzazione unitaria ed accentrata. “Per dare un’idea di questo dominio che i mercanti hanno anche nella sfera delle vie terrestri, dirò che studiando gli operatori, i vetturali, i trasportatori vincolati ai luoghi battuti dalla strada nella quale svolgono la loro opera, si vede che essi sono comandati dall’alto”. Ciò significa che il mercante, il grande mercante, quello delle fiere della Champagne, il genovese, pisano, lucchese proprio perché erano grandi (e un mercante era tale quando trafficava a livello mondiale, nel mondo conosciuto) organizzava i suoi traffici, i percorsi, pensando ed operando su vasta scala. La merce, già venduta attraverso le cambiali, doveva partire da un punto ed arrivare ad un altro ed un centro organizzatore doveva avere il controllo su tutte le fasi: sulle navi, in mare, sulle vetture di muli, asini e sui condottieri, in terra, sui pericoli e sulle sicurezze (sicurtà), sui poteri e sulle dominazioni esistenti, sui luoghi di ricovero e di assistenza; doveva, insomma, avere in mano, complessivamente, la questione dando sicurezza che il carico giungesse sano e salvo a destinazione ma anche che, nel percorso, le diverse merci fossero consegnate ai diversi acquirenti. Perciò doveva studiare ed organizzare gli itinerari –o meglio doveva affidare quest’opera a spedizionieri professionali- per toccare, con la minor spesa e dispendio di energie, ogni località dove c’era da lasciare merce. E doveva farlo, soprattutto, in sicurezza .
Qui Federigo Melis stupisce laddove, parlando di assicurazioni, assai care sul mare, specialmente in tratti infestati da pirati, scrive: “L’assicurazione poi è inesistente sulle vie terrestri; l’assicurazione non si applica su quelle vie, perché è superflua, giacché quando sono praticate, quelle vie beneficiano di una protezione che può arrivare alla salvaguardia pressoché assoluta” e, qui, conferma:”Studiando decine di migliaia di operazioni non ho quasi mai trovato notizia di attacchi pirateschi sulle principali vie terrestri, malgrado ciò che è stato scritto in proposito”. L’affermazione è stupefacente se rapportata all’enorme letteratura sugli assassini di strada, sui briganti, i banditi (su cui, in Garfagnana esiste un leggendario nutrito; ad esempio, sui “banditi dell’Ariosto”, dal Pierino Magnano, a al Moro del Sillico o Bastiano Coiaio o sui Conti di San Donnino, i Madalena e i Costa che agivano nell’area di Piazza alla testa della valle). L’ultimo periodo della sua frase (“malgrado ciò che è stato scritto in proposito”) induce a pensare che lo storico ritenga un’esagerazione quella letteratura.
Già, ma chi poteva dare sicurezza su una via terrestre? Forse le guardie (i birri) del potere? E se non loro, chi altri?
Certo, quando al Cerreto Alpi, un commissario ed i suoi uomini vengono apostrofati e minacciati con parole come queste: “Qui non è mai venuto nessun birro ad arrestare chicchessia”, si coglie l’effettiva capacità di controllo e protezione esterna della strada. I birri avevano certo un ruolo di protezione e di controllo ma non tale da rendere inutile, come scrive F. Melis, una diversa assicurazione sulla merce in transito. Chi garantiva, allora, tale protezione che c’era sicuramente come dimostra la continuità dei transiti mercantili nel tempo?
Michel de Montaigne –che, si noti bene, è un viaggiatore, oggi diremo un turista, non un vetturale di merci e gobbie di muli- tornando da Sarzana verso Milano, lungo la via della Cisa, notò, ad un certo punto del viaggio: “Mi fu piacere vedermi uscito dalle mani di quei furfanti della montagna: dagli quali s’usa tutta la crudeltà ai viandanti, sulla spesa del mangiare e locare cavalli, che si possa immaginare”. E più avanti: “Si sente in queste bande estrema carestia di cavalli e vettura. Sete in mano di gente senza regola e senza fede verso i forestieri. Altri pagavano 2 juli per cavallo per posto: a me ne domandavano 3,4 e 5 per posta”. Quel “sete in mano di gente” e quel “vedermi uscito dalle mani di quei furfanti della montagna” è emblematico: chi entrava nelle strade della montagna, sebbene fosse quella una delle principali, era “nelle mani” della gente di montagna la quale non creava sistemi di concorrenza che dessero possibilità di scelta ma era l’unico soggetto in grado di fornire gli strumenti per passare il monte: vetture (asini, muli, cavalli) e uomini che conoscevano i percorsi, legali e fuorilegge. La modalità del controllo della strada e della mobilità sulla strada è la chiave di lettura. C’era un controllo dei transiti esercitato localmente, sui territori attraversati, da ceti che, anche grazie ai proventi di quei transiti, si selezionavano, sovente, come dominanti (fossero i nobili feudali come le famiglie di età moderna, fossero notai ma anche solo persone un gradino sopra i contadini o i pastori, come erano tanti briganti). Ma la gestione dei transiti, dell’ospitalità, della cura dei muli, ecc. era ricchezza per ogni ceto sociale. Dunque, in condizioni normali questo era lo stato e, in questo stato, la sicurezza della strada era assicurata dall’interesse che, capi e vetturali, avevano al mantenimento delle strade aperte.
E’, dunque, solo collocando il territorio e, Piazza nel nostro specifico, in questo contesto che si può spiegare lo straordinario successo di famiglie lucchesi e garfagnine durante le rivoluzione commerciale del secolo lungo, dalla fine del XII ai primi del XIV, quali la Società dei Ricciardi, legata ai Guidiccioni (originari probabilmente della Garfagnana) ma soprattutto alla famiglia dei da Gragnana. Questa famiglia ha una storia importante, molto poco nota, per il territorio ma una nota tratta dall’opera The Crusades and the military orders: expanding the frontiers of medieval Latin Christianity di Zsolt Hunyadi e József Laszlovszky della Central European University, Dipartimento di Storia Medievale di Budapest, del 2001è addirittura stupefacente e talmente clamoroso, da non stupire, se smentito. Perciò, qui se ne dà notizia rimandando a futuri approfondimenti inevitabili che dipanino i dubbi ed i dilemmi, ma, secondo gli autori citati, i da Gragnana, documentati come nobili provenienti dalla Garfagnana (There were dozens of Hospitallars of italian origin, many of whom came from the Garfagnana in Northern Tuscany), esercitarono un potere di primo piano insospettato, in Italia e in Europa, ignoti o poco noti come i Ricciardi o di Guidiccioni fino a non molto tempo fa. Una strategia di conquista di posti di potere, in ogni direzione, territoriale e istituzionale, davvero emblematica, se si confermerà.
E’ noto, tuttavia, che una parte della famiglia sia rimasta in Garfagnana, nelle terre di Gragnana, e lì intesseva legami ed accordi con il Vescovo di Luni e diversi consorzi nobiliari (i Corvaia e i Vallecchia, in Versilia, i Gherardinghi, i Careggine, i Dalli ed i Castello, in Garfagnana e nel Reggiano, i Malaspina in Lunigiana). Si insediava e imponeva sul territorio di Garfagnana e Lunigiana, controllando castelli e diritti su castelli e territori, come quelli sull’intera Curia di Minucciano, che Gerardo di Strinato acquistò nel 1274, e Regnano e, forse, in altri luoghi in val di Magra. Si espandeva nel religioso controllando non solo parte del piviere di S. Pietro di Castello e la chiesa di Santa Margherita nella natia Gragnana (che era retta da frate Francesco da Gragnana nel 1326) ma anche il Monastero di Monte dei Bianchi, di cui, in quello stesso anno, Francesco era procuratore e la Pieve di San Lorenzo, nel versante della Lunigiana e del mare, rinominata Gragnanensium o De Gragnanensi, per indicarne l’appartenenza politica territoriale. Qui come altrove: Guglielmo da Gragnana fu canonico di San Martino a Lucca, pievano di Pieve di Compito e fors’anche rettore di Santa Croce del Corvo, località quest’ultima di grande importanza essendo il tratto di mare in cui era lo scalo delle merci da e per Genova. Ma gli interessi della famiglia erano più grandi e guardavano assai più lontano della Garfagnana. Suoi membri avevano legami e frequentazioni con gli operatori dei grandi affari internazionali, stringendo anche rapporti matrimoniali, sul finire del ‘200, con gli stessi Guidiccioni e, dunque, con la Società Ricciardi. I legami con questi ambienti finanziari internazionali possono contribuire a spiegare la nota sopra citata e la fortuna che, nella finanza, ebbero i da Gragnana, i quali poterono avere importanti contatti che non si interruppero quando la stella dei Ricciardi e dei Guidiccioni crollò con la bancarotta della Società. Gerardo di Strinato fu un personaggio importante nella famiglia. Ma, nel ‘200, altri da Gragnana si facevano largo nella politica, su scala più vasta, come Guglielmo che Re Enzo ed Adelasia si portarono dietro per farne il viceré della Corsica e della Sardegna e che appare in qualità di Rector di Torres e di Gallura, nel 1254. Erano una famiglia medievale operante su più fronti e direzioni in maniera compatta, con una struttura diffusa ma con ruoli interni di gerarchia (Gherardo di Strinato fu, probabilmente, la guida alla fine del ‘200, per i Gragnana rimasti in Garfagnana mentre Guglielmo, Ergheramo e Filippo, che si vedranno nelle righe che seguono, lo furono fuori dalla loro terra di origine). E facevano, come tutte le famiglie rampanti, largo uso della politica matrimoniale. Ma il campo in cui ci si sorprende è quello del ruolo della famiglia in relazione all’Ordine degli Ospitalieri di S. Giovanni, i cavalieri di Malta. Qui operarono come lobby a favore dei suoi membri. Così un capostipite, Engheramo da Gragnana, divenne, nel 1280, Priore generale degli Ospitalieri della Lombardia, di Roma e di Venezia. Prima di Engheramo, a Milano e Lombardia come a Venezia, nel 1271, era stato Priore dell’Ordine, frate Francesco da Gragnana. Nel 1290 Pietro reggeva il priorato di Corsica e Sardegna. Nel 1299, fu Gerardo ad assumere il Priorato a Pisa, a Venezia ed a Bologna.
Scoppiò, poi, la bufera che il re di Francia Filippo il Bello scatenò in Europa con la soppressione dell’Ordine Templare (e l’attacco anche a Compagnie finanziarie fra cui i Ricciardi che videro l’inizio della loro bancarotta). Tuttavia, dalla bufera che distrusse i Templari, uscirono rafforzati gli Ospitalieri ed, al loro interno, pare, i da Gragnana: nel 1312, Fra Filippo da Gragnana, Priore di Roma ed uno dei principali membri dell’Ordine, a Rodi fu incaricato di sostituire il procuratore dell’Ordine nelle decisioni relative al passaggio dei beni templari agli Ospitalieri. Emblematica fu la conquista “dinastica”, dal 1315 al 1330, del priorato di Ungheria, sempre che il dato di Zsolt Hunyadi sia confermato. Dunque, frate Francesco da Gragnana, fra il 1319 e il 1326 parrebbe essere stato sia Priore degli Ospitalieri di Ungheria che Rettore di Santa Margherita e Procuratore del Monastero di Monte dei Bianchi.
Certo, la complessità articolata di insediamento e interessi, il carattere di terra aperta, la collocazione in un sistema viario dominato da forze esterne ma ampiamente partecipato da agenti locali, la connessione con le correnti culturali, politiche ed economiche moderne cioè dei corrispondenti tempi, ci presentano –senza che il tempo ci permetta di documentarle direttamente- una comunità composta che segna, da compartecipe, i passaggi della storia.
Così quest’area vede la nascita di un ricco insediamento longobardo, strategico, laddove doveva essere in età romana, il centro di Carfaniana, che indizia, ancor di più, la Via di Monte Bardone come molto distante dalla futura Via francigena, passaggio tutto appenninico seguito, probabilmente dall’abate Bertulfo nel VII secolo, rientrando a Bobbio. Una strada su cui si construisce una vasta tenuta curtense, connessa al Vescovo di Lucca, e appartenente a Walprando di Prandulo, dove è il centro, la sala, della vita economica di un’area –e non solo di una comunità. Lo dice un documento altomedievale di affitto di terre a Ponteccio, dell’816, quando detta che hic carfaniana (qui a Carfaniana) doveva essere pagato il fitto, in frumento ed animali, dal locatario al rappresentante della Chiesa Domini ed Salvatoris di Lucca. Grano misurato alla misura usata nel luogo che, dunque, potremmo individuare come staio di Carfaniana.
Una località centrale, Carfaniana, la cui funzione che pare decadere proprio con lo sviluppo della nuova grande arteria di fondovalle del Magra, la via francigena, che significa la ripresa di Luni ma anche l’edificazione dell’abbazia di S. Caprasio ad Aulla, nuovo centro dell’area per volontà, nell’884, del Marchese Adalberto di Toscana, nella tripartizione dell’area in fines Lunenses, Surianenses e Carfanienses, proprio da quella località. Ma è ancora l’area che fu di Carfaniana che vede, nel pieno del Medioevo, un vasto processo di incastellamento che unisce al castello e corte di Castelvecchio, il sistema dei castelli di S. Donnino, di S. Michele e di Croce, ma che vedeva elevato pure il castello di Gragnana, ed anche, aggiungo, di Regnano (appartenente, nel 1066, ad un Guinterno di Guido il cui legame coi figli di Guido appare del tutto ragionevole), nell’area di passo, di qua e di là da giogo (come lo chiamavano i lucchesi) in cui la leggenda vuole che Matilde abbia costruito l’Ospitale di Tea, e che lega famiglie feudali, fra loro fors’anche imparentate.
E ancora in quest’area, come in tutta l’Italia centrosettentrionale del tempo, il passaggio dai canoni di fitto delle terre in denaro a quella in natura, cioè in frumento, nel momento in cui lo sviluppo demografico medievale richiede l’aumento della produzione granaria. E’ qui che ci appare quel riferimento allo staio castellense che certifica ancora una centralità del mercato di Castello, che forse avveniva in relazione alla Pieve omonima.
E, poi, nel Duecento la ventata della rivoluzione commerciale, che investe l’area con lo sviluppo dei traffici sull’asse ligure-lucchese, da Genova a Lucca e viceversa, con l’espansione dei trasporti della seta grezza e lavorata, che trova certificazione nel grande ampliamento laico (fino ad farlo diventare come l’ospedale del Gran San Bernardo) dell’ospitale di S. Nicolao di Tea e vede la diffusione dell’icona del Volto santo lungo una via –cui si è dato quel nome- assieme a quello del S. Giorgio genovese. E, Gragnana, che, in questo tempo, diviene la sorgente della famiglia dominante, in rapporto con tanti poteri, politici e commerciali, dai Ricciardi, ai Guidiccioni, ai Malaspina, agli Antelminelli che produssero Castruccio, ai Dalli dominatori dei passi verso l’Emilia e la Lombardia.
E così, qui, si assiste al processo di superamento della mentalità feudale verso un pensiero mercantile, borghese da parte anche di alcune famiglie nobili locali che colgono l’interesse del passaggio dal dominio dei luoghi, castelli, dogane alla conquista, moderna, della gestione dei proventi di quei luoghi, castelli, dogane.
Ed ecco che, assume il toponimo, con cui è conosciuta, oggi, l’area con la creazione e denominazione della piazza centrale, un mercato (il forum de piazza) ove condurre assieme, lo scambio di merci, il pagamento dei fitti, la rogazione degli atti e negozi notarili. Nei modi che ci dice il poeta panicalese, Ventura Pecini: “Hic tandem multae concurrunt undique gentes: important oleum Ligures, mox Gallus exportat; Galli important fruges, capit istas ipse Ligur. Populorum sic commercia fiunt”.
Prima che la peste sconvolgesse queste terre, come tutta Europa (essere nei processi comporta anche quelli negativi) coi modi descritti nella relazione secentesca di Ponteccio. Impressionante ma illuminante a capire il cambiamento avvenuto successivamente. Rinnovo di borghi e di sangue. Nuove famiglie, immigrate nel Quattrocento, nell’età del passaggio a Ferrara, agli Estensi ma anche dell’espansione di Firenze e, in questo gioco di relazioni fra città stato, nuove e più potenti, la conquista delle esenzioni e privilegi di passaggio e transito di merci, determinanti all’economia locale. E la costruzione delle comunità di villaggio e dei poteri interni ad esse, di fazioni e clan, come ne furono a Montalliou sui Pirenei di cui descrisse Leroy Ladurie. E, il cinquecento, descritto dall’Ariosto, dominato dalla dialettica intricata dei poteri in cui, ancora, quell’aristocrazia locale, evolventesi nel tempo, legata ai traffici, si esprimeva in nuovo ceti locali, sovente fuori legge, banditi, briganti, come insegnano le lettere del Commissario Estense parlando dei Madalena, dei San Donnino, dei Costa. Capifazione.
Non c’è, come era chiaro, possibilità di documento di quanto detto. Gli atti lo concederanno. Ma voglio dire che ho scritto una storia, che non potrà mai essere di Piazza al Serchio, né di Garfagnana ma solo di come Piazza al Serchio e Garfagnana sono state nella storia di una terra ben più vasta, all’interno di processi più ampi e generali di cui furono, comunque, non dei comprimari.