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Animare la Storia

This piece presents some considerations on Yamada Naoko's "Heike Monogatari."

L’HEIKE MONOGATARI DI NAOKO YAMADA di Gianluca Pulsoni e Massimo Soumaré I Naoko Yamada, classe 1984, è una dei registi giapponesi più interessanti della generazione di animatori degli anni 2000, sebbene il suo nome in campo internazionale sia ancora poco conosciuto rispetto ai colleghi maschi. Il suo grande talento naturale l’ha portata dapprima a dirigere nel 2009 la serie anime K-On!, dove ha mostrato chiaramente le sue capacità, e poi, nel 2016, il lungometraggio animato La forma della voce - A Silent Voice. Ma è con l’eccezionale Liz and the Blue Bird del 2018 che spiega completamente le sue ali. In quest’ultimo film il confine, già sottile, tra pellicole d’animazione e pellicole con attori reali va letteralmente in frantumi, donandoci una delle più belle opere, sia per sfaccettatura che per qualità narrativa e registica, dell’animazione giapponese del XXI secolo. Intimistico e grandioso allo stesso tempo, giocato abilmente sui colori e le emozioni, si discosta da quanto la Yamada ha prodotto in precedenza con la Kyoto Animation, studio con cui ha lavorato fin dal 2014 e che, indubbiamente, ha avuto il merito di farla crescere professionalmente. Questo le consente di mettere mano a un progetto ambizioso, l’Heike monogatari, questa volta per lo studio Science Saru fondato dall’innovativo regista Masaaki Yuasa. L’Heike monogatari, incentrato sullo scontro tra le due grandi famiglie dei Taira e dei Minamoto nel XII secolo, è un testo che fa parte di quel genere letterario denominato in Giappone gunki monogatari (storie di cronache militari). La difficoltà nell’affrontare una versione animata di quest’opera è testimoniata dal fatto che anche un grande regista come Isao Takahata abbia a lungo accarezzato il sogno di trasporlo in animazione, ma vi abbia dovuto rinunciare. Il fatto è che l’Heike monogatari è ricchissimo di personaggi ed eventi, dunque il rischio, avendo a disposizione soltanto undici episodi, di creare qualcosa di disarmonico e confuso era concreto. Trattandosi di un testo conosciutissimo nel paese e studiato anche nelle scuole, sarebbe stato facile scontentare un po’ tutti, anche se lo scritto su cui si è basata la Yamada non è quello originale antico, ma la traduzione in lingua moderna del romanziere Hideo Furukawa. La Yamada ha scansato con perizia consumata questo pericolo, anche per merito di un uso spregiudicato ma molto efficace della colonna sonora. Benissimo ha fatto, inoltre, a concentrarsi su di un relativo numero limitato di personaggi, evitando di eccedere nel dare spazio a quelle figure ormai notissime al pubblico giapponese come, per esempio, Minamoto no Yoshitsune o Tomoe Gozen, togliendole così da quell’atmosfera a volte eccessivamente laccata e ideale in cui spesso sono inserite. Lo Yoshitsune della Yamada è un guerriero capace e valoroso, ma anche dal carattere freddo. Tomoe Gozen, la guerriera più famosa del Giappone, non si vede mai combattere, ma fa semplicemente parte del gruppo di Kiso Yoshinaka. Per di più, la si vede in poche scene. La shirabyōshi – ballerine e cantanti girovaghe – Shizuka Gozen è descritta prima dello sbocciare della sua famosa storia d’amore con Yoshitsune. Hōjō Masako, a lungo considerata una delle migliori politiche della storia giapponese, per poi aver visto l’opinione su di lei modificata soltanto nel Periodo Edo (1603-1868) con l’imporsi del neo-confucianesimo patriarcale, non è presentata come una persona particolarmente malvagia, ma come una nobildonna della classe dei guerrieri con una chiara visione degli eventi e una capacità decisionale molto pragmatica. Ci sono anche delle brevissime scene di pochi secondi, queste forse sì solamente godibili dagli spettatori giapponesi e da pochi esperti, con episodi molto famosi di personaggi che non compaiono nella linea narrativa principale. Per esempio, nella battaglia di Dan no ura vediamo Taira no Noritsune, considerato il più forte guerriero dei Taira in grado di mettere in fuga persino Yoshitsune, circondato dai nemici prenderne due sottobraccio e affogarsi in mare con loro. II Fra le sue molte qualità, l’Heike monogatari di Yamada ha il pregio di fornire soluzioni apparentemente semplici a questioni culturalmente complesse. Vale per l’adattamento della storia, ma anche per la resa di certi temi fondamentali relativi al classico della letteratura giapponese. In merito al primo punto, l’attenzione va alla specificità di alcune scelte narrative e visive. Le cronache della “caduta del clan dei Taira” si sviluppano per rapide sintesi, che qua e là danno un senso quasi musicale alle transizioni. E la musica è fondamentale, vista la presenza di Biwa, il personaggio della bambina attraverso cui “vediamo” le vicende. Nella serie la presenza del personaggio è, in un certo senso, duplice. Ha una sua identità narrativa. Vive insieme ai protagonisti, li accompagna da testimone in diversi momenti topici, fino alla fine, dopo che l’erede designato del clan, Shigemori, la prende sotto la sua protezione, facendola diventare una parte della famiglia. Con l’erede dei Taira, Biwa condivide il colore diverso degli occhi: nel suo caso, qualcosa che le permette di vedere il futuro. E questa caratteristica si ricollega al fatto che la sua funzione, nella storia, sia anche quella di rappresentare la tradizione dei Biwa hōshi, performer girovaghi, per lo più ciechi, che, nel tempo, hanno eseguito oralmente quello che oggi è il testo dell’Heike. E biwa in giapponese indica una tipologia di liuto a manico corto. Lei, quindi, testimonia e canta le vicende. Ora, in sé, la sua aggiunta potrebbe sembrare solo una trovata. Vista però nel contesto dell’opera, le restituisce il doppio registro di narrazione realistica e lirica, mimetica e impersonale, senza bisogno di ulteriori interventi. Anche sul piano visivo c’è da notare qualcosa di interessante, cioè una certa ricorrenza di ralenti, simbolismi, e soprattutto piani fissi. In merito, si può citare il quinto episodio della serie, traducibile in italiano con “La battaglia del ponte”, riferimento a quella sul fiume Uji (1180), evento che segna l’inizio della Guerra Genpei (1180-85), il conflitto tra i clan Taira e Minamoto che è al centro delle vicende. Proprio nei momenti dedicati alla battaglia, quando le truppe dei Taira guadano il fiume per combattere gli avversari, fino all’incendio del tempio Onjō-ji, la regia presenta un racconto dei fatti che procede per ellissi. Come anticipato, invece di avere sequenze continue, troviamo soluzioni che suggeriscono come la visione si riduce a “quadro”, o se si vuole “stampa”, dandoci fermimmagini intrecciati a voci fuori campo. Nell’arco narrativo complessivo tutto questo si fa cifra stilistica, e la si può interpretare in linea con quanto detto precedentemente a proposito della duplice funzione del personaggio di Biwa. Mostrare momenti significativi della storia attraverso una rappresentazione discontinua arricchisce visivamente il racconto di una impressione aleatoria, coerente con la natura performativa del testo originale. Infine, la serie elabora alcuni dei temi filosofici dell’opera letteraria, temi che si riferiscono al pensiero buddhista. Al riguardo, si può prendere come esempio la resa de “l’impermanenza delle cose terrene”, argomento del finale dell’ultimo episodio. Qui, lo stesso messaggio viene detto da più personaggi, dislocati nelle immagini ma all’unisono nelle voci, mentre fili colorati di nero, bianco, giallo, rosso, verde – i colori dell’arte buddhista – si intrecciano e poi ci portano alle corde del liuto di Biwa. Qui, il messaggio in questione è l’incipit dell’opera, dove appunto si ammonisce dell’impermanenza di tutte le cose e del declino destinato a coloro che prosperano. Optando per una resa corale e naturalistica, Yamada imprime al testo un senso circolare che investe tutti e tutto, e che per questo deve essere accettato senza riserve. E poi contemplato: come il volo di una farfalla. È raro trovare oggi artisti/e in grado di rendere in modo così plastico pensieri così vertiginosi.