La formazione speciale del progettista e dell’architetto.
Un’ipotesi di riorganizzazione delle scuole d’architettura per competenze centrate sulla persona.
Prof. Giuseppe Ridolfi, PhD
DIDA | Dipartimento d’Architettura, Università degli Studi di Firenze
Abstract. Le pagine che seguono sono in gran parte frutto di riflessioni elaborate circa sette
anni fa quando iniziavano a emergere e a dibattersi i primi risultati della riforma universitaria che
aveva condotto all’istituzione della laurea breve. Originariamente contrario alla sua adozione, per
i velleitari obiettivi professionalizzanti che ne erano alla base, l’autore cerca di valutare le opportunità che il nuovo modello potrebbe offrire per ridisegnare un percorso formativo per architetti e
progettisti aderente all’odierna società della conoscenza e in grado d’integrarsi vantaggiosamente
a un mercato della formazione ormai diffuso, multimodale e concorrenziale. La proposta, è per
una formazione «speciale» che pone al centro la persona, il diritto/dovere all’autoderminazione e
che si traduce nella realizzazione di condizioni che consentano l’autonoma facoltà di costruire
uno specifico profilo di competenze capace di valorizzare inclinazioni e potenzialità dell’individuo.
Da qui la necessità di riorganizzare contenuti e strutture che siano in grado, innanzitutto, di formare capacità critiche e di consapevolezza per esercitare le scelte; successivamente, di assecondare il «montaggio» di una personale tessera delle competenze attraverso un’offerta molteplice e
singolare: da cui possano anche emergere specificità culturali, precise identità per Atenei, Scuole,
Corsi di laurea e singoli docenti. Un’offerta conseguibile nell’ambito di un ecosistema formativo
prodotto di azioni concomitanti e di molteplici opportunità offerte da soggetti differenti per saperi,
missioni e con cui l’Università dovrà sempre più cooperare e coesistere in forme di partnership
nel rispetto delle proprie identità.
Sullo sfondo e in maniera pericolosa si delineano invece scenari di un progressivo irrigidimento
dell’istituzione universitaria, frutto di crescente burocratizzazione inversamente proporzionale alle
risorse investite e d’insegnamenti ricondotti all’omologazione. Una deriva che per molti richiama
come risolutivo il ritorno al modello a ciclo unico quinquennale dove per un’atavica visione la
Composizione architettonica continua ad avere un ruolo centrale e totalizzante. Una visione
anch’essa riduzionista della complessità dell’atto progettuale, dei molteplici aspetti che devono
essere tutti progettati e governati, ma soprattutto che persevera nel voler generare un surplus di
architetti: che continua a ignorare che tra le molteplici e variegate attività professionali, che gli
studenti delle Scuole di architettura svolgono dopo la laurea, esiste un minimo comun denominatore che è quello della progettazione. Ed è da qui, che si dovrebbe ripartire: dal pensare Scuole di
Progettazione entro cui si coltivano approcci speciali, non necessariamente omologhi e omologati,
per la realizzazione e la cura di paesaggi, territori, città, edifici, monumenti, oggetti d’uso e servizi
anche immateriali che interagiscono con l’ambiente in cui viviamo.
Purtroppo, la convinzione che a distanza di anni quanto esaminato e proposto mantengano
piena validità non possono costituire ragioni di soddisfazione. Sebbene, ci si renda conto che gran
parte delle idee abbiano una carica prevalentemente visionaria è scoraggiante constatare che poco
o nulla si è mosso nelle direzioni auspicate, semmai hanno preso sempre più piede quelle tendenze diametralmente opposte il cui risultato è sotto gli occhi di tutti.
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Tendenze e prospettive.
Prima di optare per qualsiasi modello organizzativo o avventurarsi in qualsiasi proposta di riorganizzazione degli iter formativi dell’architetto credo sia necessario (oltre che prendere atto dei documenti d’indirizzo e dei ripetuti provvedimenti legislativi), prefigurare gli scenari prossimi venturi della società, delle
professioni e del connesso mercato della formazione.
Per quanto approssimativi e soggetti a errore per la loro natura previsionale,
ritengo che tali elementi debbano costituire la base di partenza e i termini di
misura per qualsiasi ipotesi. Provo quindi a elencare in ordine sparso e senza
criteri di gerarchia alcune delle cosiddette megatendenze cosi come emergono
da vari studi internazionali per trarre poi un ipotetico scenario di riferimento
utile ai nostri ragionamenti.
Tra i primi elementi in nostro possesso (e per i quali non è necessario scomodare alcuno studio) è quello che riferisce il palese trend di decrescita nelle immatricolazioni da più parti interpretato come un calo della domanda non congiunturale, ma destinato a consolidarsi nel breve al traino di un settore delle costruzioni in forte contrazione.
Secondo elemento è dato dalla progressiva internazionalizzazione/globalizzazione della società con il rafforzarsi di una condizione di nomadismo peraltro
già da anni preconizzata come condizione d’esistenza dell'individuo.
Nel mercato del lavoro sono in costante crescita il mancato accesso dei segmenti più deboli (giovani e donne) e la fuoriuscita senza reintegrazione degli over
cinquanta in uno scenario che è quello di un progressivo invecchiamento della
popolazione.
Parallelamente, nei contesti occidentali, si è assistito a un rapido aumento della
qualificazione dell'offerta lavorativa con un ribaltamento dei rapporti tra istruiti
e non istruiti con un numero crescente di soggetti laureati presso istituzioni accademiche coincidenti, fino ieri e almeno in Italia, con quelle pubbliche.
Si deve inoltre prendere atto di un mutamento nei rapporti tra pubblico e privato verso nuove relazioni equiordinate e parificate che nel mercato della formazione italiana si stanno traducendo nella perdita del regime «monopolistico»
dell'offerta pubblica con erosione progressiva di quote a favore di un'aggressiva
e multiforme offerta formativa di tipo privatistico.
Come in tutti i settori, anche in quello dell'architettura, delle costruzioni e della
progettazione in genere si registra l'accelerata esplosione di ambiti di competenza e specialismi dovuti alla rapida trasformazione dei sistemi di produzione (in
primis le tecnologie ICT), alla complessità dei contesti attuativi (procedurali, legislativi, finanziari,...), ma anche e soprattutto a mutamenti sostanziali nella
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controparte del consumo che sta evolvendo verso una domanda di «qualità ragionevole» e, ancor più importante per il nostro specifico, di progettualità come
mezzo per la creazione di valore e competitività.
Si è testimoni di una diffusa perdita di autorevolezza e d'affidabilità derivante
da un’esplosione dei centri di competenze, ma anche dovuta dall'accelerazione
con cui si moltiplicano i canali e i luoghi del sapere; con cui si produce il ricambio di valori: in sintesi dalla condizione di contemporaneità che, per definizione, è il luogo delle «manifestazioni» nel medesimo tempo. Corollario di questa
tendenza è la dissoluzione delle istituzioni e, con grande impatto nel nostro settore, l’incombente disgregazione degli ordini professionali. Fenomeno,
quest’ultimo, da tenere sotto osservazione e comunque da valutare come eventuale ipotesi di lavoro; certamente da non considerare più come presenza intramontabile e primaria.
Si potrebbe continuare per diverse pagine evidenziando — per esempio — il debito pubblico e le connesse difficoltà dell'attore pubblico nell'erogazione di servizi tra cui l'istruzione; i rischi di un nuovo analfabetismo e la necessità di padroneggiare, a tutti i livelli, i nuovi dispositivi della produzione e della conoscenza; il cambiamento climatico; l'accesso alle risorse (in primis quelle della
conoscenza) e la ricerca per modelli sostenibili; i ritmi vertiginosi con cui procede l'addensamento nelle città e l'erosione di suolo.
Tantissimi temi da cui trarre elementi utili per ripensare la missione accademica, i rispondenti modelli di funzionamento e – soprattutto – i contenuti degli insegnamenti.
Elementi da cui far precipitare scenari in cui l'Università e le Scuole di Architettura saranno chiamate ad agire con modalità:
- competitive, per rispondere adeguatamente a una domanda quantitativamente in contrazione nelle Scuole di Architettura, ma qualitativamente più
esigente;
- flessibili e multiscalari, in modo da assecondare la mobilità, il multiculturalismo, la personalizzazione curriculare, l’integrazione e la continuità con livelli
successivi e/o superiori della formazione;
- multimodali, atte cioè a consentire la formazione permanente, ma anche e
soprattutto il reingresso di soggetti provenienti dal mondo del lavoro per una
loro riqualificazione professionale. Prestazioni queste da offrire con la specificità e l'autorevolezza dell'accademia, ma che non possono certamente prescindere dall'assecondare orari e modi altri da quelli dello studente normalizzato giovane e a tempo pieno;
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- concorrenti, in cui l'università si pone in un ruolo che non è quello dell'opposizione e del conflitto antagonista, ma dell'integrazione e della compartecipazione per realizzare un ecosistema formativo dalle molteplici opportunità;
- identitarie, cioè in grado di far emergere e valorizzare la specialità del sapere
universitario; specificatamente nel nostro caso, della cultura e pratica del
progetto non limitata al solo specifico architettonico, ma con le dovute declinazioni ai settori diversificati che le risorse disponibile (in primis quelle del
personale docente) renderanno possibili e credibili.
Se questi sono i requisiti che probabilmente dovranno possedere l’Università e
le nostre Scuole di Architettura, certamente mi sento di dire quello che non potranno essere: istituzioni uniche e monolitiche chiuse negli steccati disciplinari,
finalizzate a formare un architetto in aderenza a un modello omologato (quale?);
accademie autoreferenziali dove pochi eletti, nel nome di una presunta qualità,
verranno ammessi attraverso test selettivi. Soprattutto non potrà più essere
un’entità statica, localizzata e dispensatrice di una formazione generale o peggio
generalista.
Come viene implicitamente ammesso dallo stesso sistema per «crediti», la
formazione risulta oggi descrivibile come risultato di un ecosistema-formativo,
prodotto di azioni concomitanti e di molteplici opportunità offerte da soggetti
differenti per saperi, missioni e con cui l’Università dovrà sempre più cooperare
e coesistere in forme di partnership nel rispetto delle proprie identità. Un nuovo
stato delle cose di cui ha recentemente preso atto il Parlamento Europeo ammettendo l’opzione di «scambiare» un’annualità di formazione accademica con
due di training professionale. (cfr. modifiche alla Direttiva 2005/36/CE, approvate il 20 novembre 2013).
Attualità e professioni del progetto.
Nella più diretta attualità la situazione è invece chiara e non richiede sforzi
d’immaginazione: la formazione accademica stenta a rispondere alle esigenze
delle professioni e del mercato.
Qualcuno, che ci richiama a robuste dosi di pragmatismo, sostiene che la
scarsa attitudine dei laureati ad affermarsi nel mercato professionale
dell’architettura derivi dall’inadeguata preparazione ricevuta. Può essere, ma
chi sostiene queste tesi sarebbe incredibilmente cieco alla realtà. Sarebbe troppo severo se tacesse che la professione dell’architetto (a tal proposito, sondaggi
e inchieste sono in nostro possesso da anni) è in declino a rimorchio di un settore delle costruzioni in forte crisi, almeno nel Belpaese. Un articolo apparso sul
Corriere della Sera quando l’ultima crisi recessiva era sul nascere ci raccontava
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della sciagurata condizione di chi, dopo sette anni dalla laurea in architettura,
lavorava per meno di mille euro il mese. Oggi, con i numeri della disoccupazione
giovanile a livello record, quest’evenienza è da ritenersi una condizione di pochi
fortunati.
Di fronte a questi scenari c’è chi sostiene che la soluzione stia nel ridurre tout
court il numero degli iscritti; in primis per innalzare la qualità della didattica
senza che sia ben chiaro o ci s’intenda su quale sia questa qualità da perseguire; ancor peggio dimenticando che le risorse in FFO per supportare questa qualità in Italia sono oggi erogate sulla base del costo standard per studente: cioè
in base alla numerosità degli studenti.
Se l’entità dell’immatricolazione è e resta una questione di primaria sopravvivenza per le Università è però anche necessario cominciare a riflettere sul fatto
che non tutti gli immatricolati nelle Scuole di Architettura possono automaticamente tramutarsi in futuri architetti quando già oggi nel nostro Paese se ne
contano numeri pro-capite più che doppi rispetto a quello di paesi come Spagna
e Germania e addirittura quattro volte superiori a quelli del Regno Unito.
La questione è quindi molto semplice. Il mercato non può assorbire i numeri
di architetti che formiamo; la preparazione generalista dell’architetto è inadeguata a prescindere da qualsiasi livello di eccellenza.
È quindi evidente che il numero di architetti laureati di ogni Ateneo non può
superare le decine di unità per non risultare in eccesso rispetto alla domanda
reale ed è altrettanto evidente che la maggioranza dei nostri laureati non
s’impiega nel settore delle costruzioni e un numero ancor più esiguo esercita la
nobile arte dell’architettura. Casomai maneggia scartoffie, certificazioni, formulari e asseveramenti di varia natura che la burocrazia guardiana continua ad
alimentare per sostenere l'occupazione professionale nell'asfittico mercato nostrano delle costruzioni.
Allora la domanda da porsi è radicalmente un'altra. Non è quella che concerne quale potrebbe essere il miglior sistema per formare un architetto, ma quella
di comprendere – in primis – in quali settori professionali s'impiegano i nostri
laureati in modo che il nostro possa essere un aiuto davvero utile per gli studenti. E' nostro compito primario. Comprendere le loro esigenze, adoperarsi per
soddisfarle al meglio è il dovere dell’insegnamento e non l’inverso. La visione
non può essere d’immaginare un laureato perfetto e, qualora sia possibile, illuderlo che il mondo del lavoro sarà pronto ad assorbirlo. Perché così non è, se
non per piccoli numeri assolutamente incompatibili con una Scuola di prestigio
che pone come obiettivo quello di rafforzarsi e se possibile crescere.
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Ritengo che tra le molteplici e variegate attività professionali che i nostri studenti svolgono dopo la laurea esiste un minimo comun denominatore che è
quello della progettazione. Sono cioè in grado di spendere la cultura del progetto, un modus operandi sui generis, strumento gnoseologico e al tempo stesso
operativo applicabile anche in contesti apparentemente indebiti che si esprime
nella lingua della disegno, in ogni caso in forma prevalentemente visiva.
Sono quindi queste le prime realtà da riconoscere che rendono ormai indispensabile la riformulazione più ampia e inclusiva dello stesso nome delle Scuole d’Architettura in Scuole di Design nella più aderente accezione del termine
che è progettazione. Scuole di progettazione e d’architettura se si volesse rimanere ancora affezionati all’arte edificatoria la cui giustapposizione, nell’ormai
matura e pervasiva società industriale, non può più ricondursi alla vecchia e
superata questione sulla possibile esistenza di un design d’architettura.
Scuole che, sotto la condivisione della pratica progettuale, riuniscano
l’architettare e la cura di paesaggi, territori, città, edifici, monumenti, oggetti
d’uso e servizi anche immateriali che interagiscono con l’ambiente in cui viviamo.
Empowerment e formazione per competenze-chiave.
Ho deliberatamente tralasciato dalla lista delle tendenze che presumibilmente
modelleranno il nostro futuro quello sintetizzato nell'empowerment dell'individuo. Nel quinto e ultimo rapporto (Global trends 2030: Alternative Worlds) che i
servizi segreti americani hanno messo nelle mani del presidente Barack Obama
questo occupa il primo posto tra i megatrend individuati. Non serviva certo la
CIA per apprenderlo. È una visione che circola da diversi anni tra coloro che si
dedicano a questi studi e il National Intelligence Council non ha fatto altro che
incrociare le agenzie e i think tank più autorevoli per emettere questa sentenza.
Lo assumiamo come elemento fondante del nostro ragionamento: una tendenza
che, nel nostro caso, è sintetizzabile nell'autodeterminazione alla formazione.
Una caratteristica crescente che pone evidenti questioni e criticità in rapporto a
modelli formativi univoci, percorsi predeterminati, declaratorie e statuti disciplinari.
A questa tendenza è, infatti, sottinteso un concetto in cui è viceversa posto al
centro il diritto/dovere di scelta per la propria formazione: ove la persona seleziona e acquisisce quelle conoscenze che si ritengono più utili alla valorizzazione delle proprie inclinazioni e maggiormente efficaci per sviluppare potenzialità
da impiegare nella propria vita professionale.
Quale può essere quindi il nuovo modello formativo?
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Una possibile proposta che ritengo convincente e che intendo porre
all’attenzione è quella già sviluppata nell’ambito della scuola dell’obbligo. E’ un
vizio tipico degli architetti quello di sconfinare, con risultati – talvolta – di deprecabili neofiti in ambiti e discipline differenti, ma in questo caso ritengo che
l’«orto» da cui trarre esempi non sia molto dissimile dal nostro. Un ambito certamente distinto da quello universitario, ma non per questo meno ricco di tradizione, sperimentazione, teorie e filosofie talvolta (o quasi sempre, benché io non
sia un ex maestro elementare) più avanzate di quelle che circolano negli insegnamenti superiori.
In quest’ambito si parla già da anni di sistemi educativi fondati sull’«offerta di
competenze-chiave». Si parla di un approccio europeo alla formazione per competenze-chiave, tant’è che il modello viene esortato nella Raccomandazione del
Parlamento e del Consiglio Europeo del 18 dicembre 2006.
Di cosa si tratta?
Per farla breve e più utile di tante mie confuse considerazioni, riporto la definizione di Fiorella Farinelli ex direttore generale presso il Ministro della Pubblica istruzione per gli studi, la programmazione e i sistemi informativi
Un rovesciamento che richiede una svolta che è già in via di realizzazione nella formazione professionale dell’istruzione e formazione tecnica superiore,
nell’educazione degli adulti: che consiste nell’adottare finalmente quell’approccio
“per competenze” che ci viene indicato dall’Unione europea, e attorno a cui stanno effettivamente lavorando con risultati interessanti numerosi sistemi educative
dei paesi avanzati.
Si tratta in concreto di dismettere l’idea secondo cui l’unitarietà dell’istruzione
obbligatoria dopo la terza media può essere assicurata solo dalla presenza di
un’area di discipline comuni (distinta dalle specifiche aree di indirizzo) e di percorrere
piuttosto
l’obiettivo
di
un’equivalenza
formativa,
basata
sull’individuazione di “competenze chiave di cittadinanza”, come traguardo cui
orientare l’attività formativa della nuova istruzione obbligatoria in tutti i diversi
percorsi.1
Il sottolineato è mio e rappresenta il precipitato più significativo e connotante
del sistema proposto: un sistema per competenze regolato dall’equivalenza formativa. Una proposta che pongo all’attenzione per verificarne l’appropriatezza e
la fattibilità nella formazione dell’architetto e più in generale del progettista.
Dalla formazione generale alla formazione speciale.
Il modello non è, come si dice, brand new: è adattamento, perfezionamento di
1
Fiorella Farinelli “Di fronte all’obbligo di istruzione: la faticosa ricerca delle condizioni di fattibilità” in Rivista dell’istruzione, n.3, Maggioli, RN, 2007: 5
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pratiche diffuse in altri contesti. Per intenderci e in uno slogan: riflette le pratiche improntate sulla formazione specialistica e di cui sono pure ampiamente
noti difetti e rischi. Tra tutti la lacunosità della formazione e la difficoltà di formare soggetti con conoscenze e capacità tecniche di tipo complesso o come riportato negli undici punti della Direttiva europea 85/384: soggetti che detengono una formazione generale. Un punto di debolezza con cui motivai il mio dissenso di principio all’istituzione dei corsi d’insegnamento triennali denunciandone i rischi che ne potevano derivare: l’appiattimento al mercato con una polverizzazione di quella che prima era una formazione generale unitaria a vantaggio di un’esponenziale, quanto pedissequa e sfiancante, «copertura» della domanda del mercato.
Dallo stesso punto di vista e con lo stesso principio che assegna un ruolo «alto» all’istituzione universitaria nello scacchiere della formazione superiore, mi
trovo a ripensare oggi l’ordinamento formativo e il senso della locuzione formazione generale che ritengo non più efficace.
A distanza di anni pur ritenendo ancora centrale l’insegnamento di princìpi e
criteri come mezzo per acquisire nuove competenze e «primo fattore di adattamento all’economia e all’occupazione» ritengo che l’appello a una formazione
dell’architetto di tipo generale sia esautorata di ogni significato, sia nel contesto
accademico e formativo in cui oggi esso si realizza, sia negli odierni scenari della
costruzione architettonica.
Se, come si preoccupavano di distinguere gli estensori della Direttiva europea
85/384, la formazione generale è ben altra cosa dalla formazione generalista,
con piglio ironico possiamo anche affermare che una formazione speciale è altra
cosa da quella dello specialista.
Cosa intendo con questa apparente provocazione?
Intendo che un sistema formativo di studi – soprattutto – superiori dovrebbe
essere speciale, individuale, cioè centrato sulla persona: su quel diritto/dovere
all’autodeterminazione il cui fine dovrebbe essere quello di valorizzare capacità
e opportunità formative disponibili. Concetti se vogliamo banali, scontati, ma
certamente condivisibili. Ciò significa insegnare ciò che si conosce e conoscere
ciò che interessa: coltivare, in entrambi i casi, le proprie inclinazioni in un rapporto – quello docente/studente – che è di affinità. Docenti e studenti si scelgono in un sistema che dovrà assumere salutari forme di competitività.
La centralità della persona si traduce nell’autonomia decisionale per gli studenti di costruire il proprio curriculum, «prendendo» i CFU da un’offerta molteplice, variegata, che delinea percorsi; che li lascia relativamente liberi di «montare» in modo coerente e sinergico uno specifico e personalissimo profilo di studi. Un profilo d’architetto, capace sì di comprendere, concepire, realizzare e ge-
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stire architetture, ma con ambiti d’interesse, filosofie e punti di vista, scienze e
tecniche, ma anche etiche non necessariamente omologate: che si distinguono
per essere speciali.
Non dimentichiamo – ad esempio – che già nel Libro bianco su istruzione e
formazione «Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva» di Édith Cresson (1995-96), in cui si disegnava la nuova società della conoscenza come via
europea alla competizione, si propugnava la costruzione di percorsi personalizzati e si affacciava l’idea della «tessera personale delle competenze» (poi tessera
professionale europea) come risposta al graduale decadimento dei diplomi. Per
la docenza tale modello dovrebbe rappresentare il rispetto della sua libertà di
studi e dignità di educatore. In tale modello si prospetta la possibilità di far finalmente emergere gli specifici contenuti culturali, singolarità locali: precise
identità per Atenei, Scuole, Corsi di laurea e singoli docenti.
In ultima analisi si tratta di dare un nome alle cose e ragionare su queste: di
articolare il percorso e l’offerta formativa su specifici e distinti contenuti, di
chiamare le cose per cosa sono: di esplicitare l’offerta in termini di precise competenze e laddove necessario di acquisire quelle mancanti.
Questo indispensabile passaggio è ormai maturo e indispensabile per i molti
motivi che abbiano elencato, ma anche e soprattutto per adeguarsi a stili cognitivi delle nuove generazioni sempre meno lineari e sequenziali, piuttosto simultanei e di tipo «molti a molti»; ove all’attitudine ad apprendere si sostituisce
l’attitudine a interagire.
Il ruolo strategico del sistema di accreditamento in una politica formativa di tipo comprensivo.
Per il corretto funzionamento di un sistema di crediti «a scaffale» come questo, un nodo cruciale è rappresentato dal «sistema di riconoscimento dei crediti»
soprattutto se per i suoi risultati è d’obbligo l’incrocio contabile con le «griglie
ministeriali». Un rompicapo matematico non indifferente, ma probabilmente
non proibitivo. Forse le disposizioni ministeriali per più ampi accorpamenti disciplinari potranno addirittura agevolare la realizzazione del modello proposto
laddove sarà possibile rendere equipollenti insegnamenti che fino a ieri erano
considerati tra loro distinti e obbligatori.
Ragionando come ha inteso fare la Commissione europea per il sostegno dei
modelli formativi per «competenze-chiave» possiamo – ad esempio – ipotizzare
che assi culturali strategici della formazione di un progettista possano essere ricondotti a:
- storie e critiche
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- teorie e prassi
- sviluppo e gestione
- scienze e tecniche
e che questi ambiti possano essere alimentati da differenti competenze trasversali, vari settori disciplinari, distinti docenti e da quanto reperibile in un ecosistema formativo ormai allargato, globalizzato, parificato al privato e, come da
più parti auspicato, alimentato dalle stesse aziende e studi professionali. Un sistema di maniere molteplici e in cui l’aula accademica non è più da ritenersi
unica dispensatrice della formazione. Intendo qui sostenere che l’accademia dovrebbe uscire dal suo isolazionismo e rompere con le politiche protezionistiche
del sapere. Posizioni, tra l’altro, ormai chiaramente perdenti per chi si occupa di
strategie di business.
Dovrebbe, in sintesi, cominciare a tradurre in fatti concreti quegli obiettivi di
«apertura al contesto» già delineati nel Patto sociale per lo sviluppo del lontano
1998. È quindi lo sforzo d’«includere» offerte esterne qualificate e certamente –
previa valutazione – equipollenti a quelle erogate dall’istituzione universitaria.
È in sintesi la prospettiva di pervenire a una politica formativa di tipo comprensivo nel doppio senso del termine: di conoscere e valutare le opportunità formative disponibili; di comporle pariteticamente nell’offerta didattica dell’accademia.
Come si diceva un sistema che non può reggersi senza un efficiente e diffuso
sistema di accreditamento e quindi di qualificazione nella catena dei clienti. Un
sistema di qualificazione peraltro già propugnato da più di un decennio
nell’ambito della Comunità Europea e di cui sarebbe auspicabile una sua piena
attuazione procedendo dal basso, dalle procedure di ammissione dello studente
al corso del singolo insegnante.
L’applicazione della domanda di ammissione ai singoli corsi è una pratica assai diffusa tra gli studenti di altre nazioni. Mentre da noi è, in maniera sconcertante, quasi assente. Una pratica attraverso cui garantire equilibrio
nell’affollamento delle classi e soprattutto il possesso delle necessarie conoscenze. In cui il docente sarà sollecitato a qualificare con continuità la sua offerta
per non vedersi assegnare d’ufficio studenti non motivati. In altri contesti più
competitivi la non attivazione del corso!
A parte i dettagli è comunque innegabile che la riorganizzazione dovrà necessariamente passare per una generale qualificazione in cui venga data evidenza
del tipo e della profondità delle competenze detenute da parte di ogni singolo
partecipante al sistema di formazione dell’architetto e più in generale del progettista.
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Prefigurazioni e possibilità di sperimentazione del modello.
Partecipante speciale di questo futuribile sistema formativo è già, in parte, lo
studente Erasmus. Espressione di un fenomeno significativo, più che per la sua
crescita (in Italia in entrata e in uscita sono ormai intorno alle 50.000 unità),
per la sua incarnazione degli scenari prossimi venturi. Scenari, come ormai è
intuibile, in cui la formazione è il risultato di un cross-over di molteplici esperienze e luoghi d’apprendimento e di cui saranno – ripeto – strategiche le attività
di valutazione e di accreditamento. Ma anche uno scenario che impone d’uscire
dall’autoreferenzialità dell’accademia che dovrebbe muovere a conoscere gli insegnamenti provenienti da altri prestigiosi centri di formazione nazionali e internazionali, pubblici e aziendali. Un modo per offrirsi come partner, punti di
erogazione di specifiche e speciali competenze con insegnamenti non necessariamente esaustivi né rigidamente limitati a percorsi formativi interni alla sola
Scuola o sede universitaria d’appartenenza: che si offrono a un mercato della
formazione ormai aperto e plurale ove i primi vincoli a cadere sono quelli geografici e di lingua.
E’ uno scenario reale di grande complessificazione, ma d’interessanti prospettive sia per chi deve costruire il profilo professionale più appropriato (lo studente), sia per chi deve allestire un’offerta formativa qualificata, competitiva (le
Scuole). Uno scenario di cooperazione tra luoghi del sapere e del saper fare da
realizzarsi in forma di mutuo scambio e da cui sarà possibile offrire infinite storie formative.
E’ di tutta evidenza che tutto ciò non potrà avvenire nel volgere di pochi mesi.
Ma ci consola il fatto che le caratteristiche di resilienza del modello possono
consentire una sua graduale sperimentazione. Come scrive la già citata Farinelli:
la carica innovativa di un approccio per competenze consiste infatti nella necessità/possibilità di selezionare, all’interno di programmi dati, i contenuti culturali, i linguaggi, gli strumenti più utili a traguardare l’obiettivo. Diventa così
possibile forzare, in una progettazione inizialmente anche solo parziale di nuovi
curricoli, la separatezza e la gerarchizzazione dei diversi saperi disciplinari liberando poco alla volta l’attività didattica dalle gabbie e dai vincoli di antiche presunzioni enciclopediche.2
Una sperimentazione che potrebbe cominciare – per esempio – da quelle che
un tempo venivano definite come materie «autonomamente scelte dallo studente» o da quelle «utili per l’inserimento nel mondo del lavoro»: risorse ampiamente
sottoutilizzate o ancor peggio cancellate dai sempre più rigidi modelli educativi
occupati a una bieca riduzione della spesa. Nuovi modelli e variegate offerte
curriculari che potrebbero invece consentire di rispondere in maniera più perti2
Fiorella Farinelli, Op cit: 5
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nente ai differenti bisogni formativi: dal recupero dei debiti di base, sino
all’allestimento di corsi avanzati, speciali in cui lo studente, anche in più tappe,
potrebbe decidere di coltivare un suo particolare percorso d’approfondimento al
tema e/o alla disciplina. Una visione in cui l’empowerment dell’individuo, la sua
responsabilizzazione e capacità di scelta diventano non solo centrali ma indispensabili se, come si afferma a livello europeo, nella Società cognitiva i soggetti
«saranno sempre meno impegnati in attività routinarie, ma in attività in cui diventano strategiche le capacità di autonomia e di autoorganizzazione».
Da quanto detto e in maniera provocatoria si può quindi affermare che il modello per competenze non potrà riconoscersi negli statuti dei corsi. In quegli statuti finalizzati a delimitare oggetti d’insegnamento, complementari e funzionali a
un disegno formativo unico e concluso. Né potrà esprimersi per generiche denominazioni e oscure gemmazioni in corsi d’insegnamento a, b, c, d, e, f.
Se, come ha scritto un filosofo, «il rispetto dei ruoli ci solleva da responsabilità etiche», credo che in questo caso sia una precisa responsabilità e un dovere il
non «nascondersi» dietro astratte nomenclature ma, in primis, di specificare
l’insegnamento: di chiamare le cose per quello che sono.
Specifiche che possono avvenire a vari livelli e con differenti strumenti comunque liberamente consultabili in cui possano discernersi tematiche, modi di
intendere e di concepire il progetto: titoli espliciti delle competenze erogate che
lo studente può liberamente scegliere, «conteggiare» e finalmente spendere sul
mercato delle professioni. Diametralmente opposte sono invece state le recenti
riforme ministeriali che avvallate dal contenimento della spesa hanno soffocato
la «fauna» degli insegnamenti più o meno imperfetti esplosi nel passato, certamente da regolamentare, ma che erano sintomatici di un universo della progettazione e del design ormai polverizzato in un’infinità di possibili declinazioni.
Il rischio – o forse il calcolo – è che da tutto ciò ne tragga beneficio il privato
che con grande capacità e dinamismo intitola corsi capaci di intercettare le più
recenti tendenze del design e di proporli in format attraenti, senz’altro flessibili
e rispondenti alle esigenze della domanda.
È un fenomeno ormai in atto e in accelerazione, sottovalutato dall’Università
pubblica in modo anche presuntuoso, che sta producendo vantaggi a favore delle istituzioni private forse irrecuperabili soprattutto se la ricorsa è appesantita
da una burocratizzazione in aumento inversamente proporzionale alle risorse
messe in campo; dall’imposizione di modelli formativi rigidi e – quanto di peggio – astratti e incapaci di decifrare la realtà.
Il quadro è poco rassicurante e le ennesime riforme in preparazione non promettono nulla di buono. Non si percepiscono segnali di un radicale cambio di
rotta, piuttosto la certezza che si persevererà nella repressione della varietà,
G. Ridolfi, La formazione speciale del progettista e dell’architetto
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nell’imposizione dell’osservanza della forma e delle regole: nell’accentramento
riduzionista per un’offerta formativa conforme e validata.
Architettura del sistema e adeguamento della didattica. Gli atelier tra
training e fondazione.
Sintomo evidente dell’arrocco in atto è la riproposizione strisciante del modello a ciclo unico per sanare i guasti attribuiti all’introduzione del cosiddetto 3+2
Guasti che vengono comunemente indicati nell’incontrollato proliferare dei corsi
di laurea, nell’aggiramento dei limiti imposti nel numero delle immatricolazioni,
nella dequalificazione della docenza, ma con un merito: quello di far emergere
ambiti e assi formativi precedentemente soffocati nel viscoso modello a ciclo
unico.
Molti di questi nuovi corsi di laurea hanno oggi una forza evidente che gli deriva dal numero delle immatricolazioni non sempre corrispondente a un’equivalenza qualitativa, ma segno dell’esistenza di una domanda che è specifica e
che non può essere ignorata. Che non può più essere soddisfatta da curricula
unici e omologati; che negano il diritto/dovere all’autodeterminazione degli studenti. La riproposizione del modello formativo a ciclo unico incorrerebbe nello
stesso errore in cui cadono le organizzazioni di tipo burocratico che ritengono di
recuperare efficienza attraverso un maggior accentramento e una più stringente
azione di regolamentazione. Un’eventualità che nel modello quinquennale si aggrava per un’atavica visione che assegna alla disciplina della Composizione architettonica un ruolo centrale e dominante ancora convinti che l’architettura e
più in generale la concezione e la realizzazione di oggetti siano atti eminentemente linguistico-culturali, osservanti di grammatiche e, nel peggiore dei casi,
di stili imposti ai discenti. Una visione anch’essa riduzionista della complessità
dell’atto progettuale, dei molteplici aspetti che devono essere tutti progettati e
governati. Declinazioni e accezioni della progettazione che rischierebbero di restare soffocate da una visione ortodossa, totalizzante, addirittura insufficiente a
«coprire» i famosi undici punti della Direttiva 2005/36/CE come recentemente
modificata dalla 2013/55/CE.
Il mantenimento del percorso formativo in più fasi è quindi essenziale. Da qui
si deve e si può ripartire per conseguire gran parte degli obiettivi che ho sommariamente indicato come fondanti per una Scuola di progettazione.
È innanzitutto un modello flessibile che consente di dare modularità e pluralità all’offerta formativa, ma senz’altro da ridisegnare per sfruttarne a pieno le
potenzialità. Infatti, appena fu chiaro dell’impraticabile interpretazione professionalizzante, il primo ciclo triennale ha ripiegato – nella maggioranza dei casi –
in una più comoda duplicazione degli insegnamenti praticati nel ciclo unico. Ciò
ne ha precluso le potenzialità d’innovazione che oggi, con l’esperienza maturata,
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potremmo invece tentare di sfruttare.
Per tracciare una proposta, ritengo si debba però prima spendere qualche parola sulla metodologia didattica oggi unanimemente convergente sul cosiddetto
learning by doing o più precisamente nella sua formula aggiornata
dell’«imparare modellando» che elegge come oggetto privilegiato il progetto e suo
luogo il laboratorio le cui origini si fanno un po' superficialmente risalire alla
bottega rinascimentale.
Va infatti detto che contro questo modo d’intendere la didattica e ancor più
per una sua pratica tendenzialmente straripante si stanno levando primi malumori e critiche che se non ne invalidano in toto l’efficacia meritano comunque
di essere esaminate. Alla base c’è la constatazione che l’attivismo pedagogico si
stia affermando a discapito della propedeuticità: a discapito dell’acquisizione di
saperi fondativi delle discipline, di conoscenze generali e di base con cui affrontare consapevolmente l’attività progettuale. Si potrebbe anche aggiungere che a
rischio c’è l’acquisizione di quei fondamenti e di quelle capacità critiche senza le
quali diventerebbe impossibile l’autodeterminazione della persona e pura teoria
l’idea che lo studente sia in grado di riconoscere e coltivare propri interessi e
potenzialità.
Diventa quindi indispensabile affiancare all’«imparare modellando» altre pratiche con cui sia possibile individuare un sapere comune da impiegare e una
lingua per condividerlo; formarsi cioè a una disciplina che per definizione è applicazione metodica.
Se ciò è vero, è però profondamente sbagliato pensare che la risposta a questa esigenza equivalga a ripristinare l’apprendimento nozionistico e sequenziale,
o peggio, delle regole da manuale. Propedeuticità e disciplina non sono semplicemente sapere generale, né abilità grammaticali da cui procedere al particolare. Esempi pedagogici messi a punto dalla diaspora del Bauhaus e poi dall’
Hochschule für Gestaltung mostrano come sia fattibile coniugare la pratica
dell’atelier con la formazione di base, mettere in simbiosi training e fondazione.
L’innesto nelle attività pratico-applicative di momenti di riflessione attraverso
cui desumere princìpi richiede approcci specifici. L’atelier può continuare a essere il luogo principale a patto che si adeguino i modi d’insegnamento.
La pratica del progetto come pratica formativa è oggi prevalentemente interpretata come risoluzione di problemi dati. Lo studente è chiamato a lavorare su
dati forniti dal docente. Per la sua soluzione, lo studente impiega strumenti e
metodi anch’essi dati su cui addestra le proprie abilità all’uso. I mezzi incarnano le conoscenze e vi s’immedesimano fino a sostituirle. Vengono cioè meno
quei momenti dedicati alla definizione del brief di progetto. Nell’urgenza di dare
risposte è debole o del tutto assente la sperimentazione, cioè quella pratica at-
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traverso cui il problema si definisce o, casomai, se ne sovvertono i dati di partenza. Il risultato è un impoverimento diffuso delle capacità critiche, delle capacità di collocare il problema entro un quadro generale di riferimento: il quadro disciplinare, appunto.
L’atelier e l’«approccio per modelli» possono quindi rimanere al centro del disegno formativo, ma con adattamenti da introdurre nei primi anni della formazione. Luoghi che recuperano lo spirito del VorKurs e poi del GrundKurs, che
condividono la natura progettuale, ma che devono necessariamente moltiplicarsi per fondare lingue e saperi ormai speciali. Per dimensione e varietà delle discipline sono attività che non possono risolversi nel semestre, come avveniva
nei corsi di base del Bauhaus, ma più correttamente in due annualità, come era
invece previsto nei coevi Vchutemas. Superati i primi due anni lo studente dovrebbe quindi essere messo nelle condizioni di poter esercitare a pieno il proprio
diritto/dovere all’autodeterminazione. Ciò dovrebbe tradursi in un terzo anno di
orientamento o di preparazione all’uscita dall’Università ove è quindi gioco forza
allestire un’offerta formativa di massima apertura, di diversificate opportunità
formative anche al di fuori dell’accademia e di ampia flessibilità. In questa terza
annualità lo studente dovrebbe poter scegliere – per quanto possibile – insegnamenti, ma soprattutto il docente, sradicando definitivamente le impersonali
assegnazioni d’ufficio in nome di un’astratta democrazia e in modo da far emergere tematiche e interpretazioni di maggiore interesse.
A queste prime annualità dovrebbe far seguito il biennio di master con declinazioni specialistiche e approcci connotanti da tradursi in un ampio ventaglio
di curricula in grado di rappresentare vocazioni locali e identità della Scuola.
Curricula da sostenere attraverso il potenziamento di partnership con soggetti
di varia natura a cominciare dalle collaborazioni con istituti universitari internazionali. In questo segmento della formazione, l’internalizzazione è assolutamente strategica per molteplici ragioni. Innanzitutto è condizione indispensabile
per attirare una domanda multiculturale, conseguentemente un’occasione per
elevare la qualità e per contrastare l’incremento degli studenti provenienti da
bacini regionali o peggio provinciali. Un fenomeno poco considerato, ma che sta
lentamente facendo scivolare le Università verso una dimensione liceale.
Può inoltre rappresentare l’apertura e/o intrecciarsi a proficue collaborazioni
di ricerca; occasione di mobilità e di profitto sotto molteplici punti di vista per
docenti in formazione o «a contratto».
A supporto di questa strategia è inutile dire che Scuole e Università debbano,
oltre che specializzare l’offerta su tematiche d’eccellenza, affiancare all’insegnamento in lingua italiana corsi impartiti in lingua straniera; dotarsi di servizi attraverso cui supportare la didattica. Servizi che, per una didattica che ha luogo
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prevalentemente modellando, è indispensabile si materializzino in attrezzature e
tecnologie avanzate senza le quali, oltre a rendere impari le sfide nella ricerca,
sarebbe impraticabile una formazione che ha come obiettivo l’offerta di competenze speciali costruite attraverso approfondimento metodologico e strumentale.
Dotazioni e competenze che non possono attendere successivi livelli formativi.
Questa è la tesi di chi ha una visione ancora legata a una formazione che procede come accumulo progressivo di conoscenze, sedimentazione di sapere inevitabilmente lenta, che è miope al moto accelerato con cui procede la contemporaneità. Ovvero è lungimirante nell’interesse di tenere ancora in vita master
che, per i livelli offerti e sebbene a buon mercato, non si giustificherebbero più
in presenza di bienni specialistici di qualità. Master che potrebbero, viceversa,
misurarsi con prestigiose offerte che hanno oggi luogo all’estero e in poche
strutture d’eccellenza potendo svolgersi sull’humus di una preparazione avanzata già avvenuta nel normale ciclo di studi e dedicata a formare progettisti/architetti di tipo speciale.
Firenze | 3 novembre 2014
G. Ridolfi, La formazione speciale del progettista e dell’architetto
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